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Sbilanciamoci.info, 20 settembre 2013

Pochi hanno colto il significato più profondo della sostituzione dell’Imu con una tassa sui servizi (1). Il provvedimento del governo Letta non rappresenta “soltanto” una misura fiscale regressiva – cioè che alza le tasse ai più poveri per abbassarle ai più ricchi. È anche e soprattutto una nuova vittoria del “blocco edilizio”, una formazione sociale che da 50 anni condiziona la politica economica del nostro paese, condannando l’Italia ad un modello di sviluppo basato sulla rendita immobiliare e sull’immobilismo sociale – a scapito dei redditi dei lavoratori ma anche dello sviluppo industriale.

Di “blocco edilizio” parlò per la prima volta Valentino Parlato in un articolo sul manifesto. Si tratta di una formazione sociale, una lobby potremmo dire, capitanata da palazzinari, grandi costruttori, proprietari terrieri e colossi immobiliari - in parte spalleggiati dalle banche cui questi soggetti sono legati a doppio filo - e in grado di mobilitare quando necessario una moltitudine di piccoli proprietari della classe media, tramite i propri mezzi di comunicazione (ad esempio i giornali di proprietà dei grandi costruttori) e i propri referenti politici.

La prima grande mobilitazione del blocco edilizio avvenne nel 1962 per affossare la legge urbanistica proposta dal ministro democristiano dei lavori pubblici Fiorentino Sullo, mirata a limitare fortemente la rendita fondiaria. Oggi il blocco è forte almeno quanto allora, indebolito dalla crisi delle costruzioni ma ancora più influente politicamente. Non soloBerlusconi, esso stesso grande costruttore, con i suoi condoni edilizi e i “piani casa”, ma anche amministrazioni comunali di centro-sinistra estremamente compiacenti (si pensi alla Roma di Rutelli e Veltroni). Se negli anni ’60 e ’70 il blocco edilizio era in concorrenza con il capitale industriale nell’influenzare la politica – e spesso gli interessi erano contrapposti, ad esempio perché i prezzi alti delle case provocavano pressioni al rialzo sui salari – oggi il blocco edilizio ha come unici veri avversari le associazioni della società civile che lottano in difesa del territorio e qualche isolata amministrazione locale virtuosa.

Certo il settore delle costruzioni ha un ruolo importante nell’economia italiana e la crisi lo sta impattando in modo devastante, con conseguenze drammatiche anche sui lavoratori del comparto. Per cui si potrebbe pensare che in questa fase aiutare le costruzioni, o almeno non penalizzarle, sia nell’interesse del paese. Ma sarebbe sbagliato, oggi, identificare gli interessi del “blocco edilizio” con quelli del settore delle costruzioni nel suo insieme. Quest’ultimo rappresenta più che mai un settore complesso, e il blocco edilizio ne è soltanto la parte più potente e conservatrice, quella che vince tutti gli appalti, strizzando a volte l’occhio all’illegalità e al crimine organizzato. Lo Stato dovrebbe intervenire a sostegno del settore non abolendo l’Imu, ma con una politica industriale che aiuti quelle imprese che innovano puntando sulla qualità, sulla bioedilizia, sulla riqualificazione energetica del patrimonio immobiliare.

Detassare la proprietà immobiliare servirà solo a rallentare la necessaria discesa dei prezzi immobiliari, dando una temporanea e illusoria boccata d'aria a chi ha costruito troppo durante il boom dei primi anni duemila e a chi gli ha prestato i soldi. Le costruzioni italiane dovrebbero invece essere accompagnare dall'intervento pubblico in un processo di selezione e riconfigurazione, per passare dall'essere il settore del cemento a quello della riconversione energetica. Solo in questo modo le costruzioni potrebbero tornare a “trainare” l’economia, contribuendo alla ripresa e alla crescita dei redditi. Purtroppo tra il dire e il fare c’è il governo del blocco edilizio.

(1) una delle poche eccezioni è questo articolo di Paolo Berdini sul
manifesto

L'Unità, 13 settembre 2013

Il governo ha bloccato tutto. E per la magnifica struttura da oltre 700 ettari adagiata nelle Crete senesi, confiscata alla mafia per volere del giudice Giovanni Falcone, adesso può iniziare davvero una nuova vita. Il grande pressing sul governo partito dalla Toscana all’indomani della decisione dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati di metterla all’asta (era il 21 agosto scorso) e culminato nella grande manifestazione di domenica scorsa, ha avuto l’esito sperato. Ieri il viceministro dell'Interno Filippo Bubbico ha incontrato il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e con lui si è impegnato a modificare nel più breve tempo possibile la norma a cui aveva fatto riferimento l'Agenzia nazionale per i beni confiscati prendendo la decisione di vendere la tenuta, e renderla quindi compatibile con il progetto regionale di valorizzazione. Un progetto elaborato con le associazioni antimafia e gli enti locali che punta alla produzione agricola di qualità unita ad una serie di importanti attività sociali.

«È un bellissimo risultato dice soddisfatto il presidente Rossi alla fine del lungo e proficuo incontro romano che conferma la sostenibilità e il valore sociale del progetto che abbiamo condiviso con gli enti locali interessati e con tante associazioni impegnate sul fronte antimafia. Vendere la tenuta avrebbe voluto dire correre il rischio di farla nuovamente cadere nelle mani sbagliate o esporla a rischio di speculazioni. Adesso ci mettiamo subito al lavoro per concretizzare il nostro sogno».

La storia della tenuta di Suvignano è lunga e tortuosa. Azienda agricola dal potenziale enorme, è da anni in amministrazione giudiziaria, il che rende particolarmente difficile anche la gestione quotidiana. Il banale acquisto di un trattore, per esempio, richiede almeno due anni di attesa. Ciò nonostante, la struttura non ha mai smesso di lavorare e produrre, seppure con strumenti ridotti. Centinaia di ettari coltivati a grano, foraggio, olivi, foreste e poi 1800 pecore, maiali di cinta senese, un agriturismo e molto altro. Il pericolo che questo patrimonio dallo straordinario valore economico e paesaggistico potesse passare in mano a qualche privato aveva sollevato una vera e propria ondata di proteste.

Era stato per primo il presidente della Toscana a farsene interprete inviando una lettera al presidente del consiglio Enrico Letta e al ministro dell’Interno Angelino Alfano. Un primo passo seguito dalla decisione della Regione di ricorrere al Tar, infine la manifestazione di domenica scorsa che ha raccolto a Suvignano mille persone tra cittadini, volontari, politici insieme a Libera, Cgil, Coop, Legambiente, Arci, Avviso Pubblico e almeno altre 40 associazioni. In prima fila Franco La Torre, figlio di Pio, il parlamentare ucciso dalla mafia che trentuno anni fa firmò la legge sulla confisca dei beni ai mafiosi. Anche don Luigi Ciotti e Maria Falcone, sorella di Giovanni, avevano voluto partecipare inviando i loro messaggi. «Da questa gente arriva una richiesta alla quale il governo non può non rispondere» aveva detto il sindaco di Monteroni d’Arbia, Jacopo Armini. All’indomani del corteo, infatti, ci sono stati contattitelefonici tra Rossi e Bubbico culminati nella riunione di ieri alla quale hanno partecipato anche il sottosegretario all'Interno Domenico Manzione, il prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, e il direttore generale della Regione Toscana Antonio Davide Barretta. «Il progetto regionale ha tenuto a sottolineare Rossi rispetta le finalità sociali previste dalla normativa, con il proseguimento dell'attività produttiva di un'azienda che occupa 12 dipendenti per un valore delle attività e dei beni di circa 30 milioni di euro. Questo territorio continuerà ad essere produttivo e nello stesso tempo attivo nella battaglia per la legalità».

L'azienda di Suvignano fu sequestrata nel 1996 a Vincenzo Piazza, imprenditore edile appartenente a Cosa Nostra, e confiscata in via definitiva nel 2007. La produzione agricola biologica, insieme alla filiera corta sono al centro del progetto di gestione della tenuta presentato dalla Regione. Parte della produzione dovrà essere destinata al mercato locale (per esempio nelle mense pubbliche e private), e poi si punterà all'allevamento di bestiame, sulla fattoria didattica, sull'ospitalità rurale, l'uso delle fonti alternative e sostenibili, l'impegno sociale e la diffusione delle cultura della legalità.

Se Suvignano è un simbolo, sia per l’estensione territoriale che ne fa il bene più grande confiscato alla mafia nel centro nord Italia, sia per il legame con il nome di Falcone, in Toscana i beni confiscati alle organizzazioni criminali sono in tutto 57: 32 sono stati consegnati dall'Agenzia ai soggetti che dovranno gestirli (il tempo medio fra la confisca e l'assegnazione è di 5 anni e mezzo), mentre per 19 ancora non è stata definita la destinazione finale e quindi rimangono come patrimonio dello Stato in gestione dell'Agenzia.

l manifesto, 6 settembre 2013

Sabotatore e ben contento. Rivoluzionario? «Non c'è nessuna rivoluzione da fare, nessun potere da prendere: bisogna semplicemente impedire quell'opera». Cattivo maestro? «Mi assegnano un titolo professionale che non ho conseguito: non ho fatto l'università e dunque non ho potuto aspirare alla docenza. Però ad essere cattivo per quei poteri costituiti, io ci sto: intendo essere cattivo, anzi inservibile, alle ragioni di quei poteri costituiti che assediano la Val di Susa». Armi? «Finora sono bastate e basteranno pezzi di resistenza ordinaria, acquistabili in ferramenta».

Non è contrario a tutte le "grandi opere", Erri De Luca, che a ogni definizione, scrittore o ex dirigente di Lotta continua che sia, sta un po' stretto. È contrario - anzi «resistente» e non certo «dal salotto di casa» - solo e soltanto a quel buco nella montagna che «stupra la terra, l'aria e l'acqua» di quella valle.

Arriva la notizia che la società Ltf, incaricata della realizzazione del tratto ad alta velocità della Torino-Lione presenterà nei prossimi giorni una denuncia contro di lei per aver sostenuto che «i sabotaggi sono necessari per far comprendere che la Tav è un'opera nociva e inutile». Sconvolto?
«Non sono pratico di procedure, ma l'annuncio della denuncia è un cosa ridicola, come si fossero sbagliati: invece che all'ufficio legale si sono rivolti all'ufficio stampa. A me non è arrivato nulla, tranne gli annunci pubblicitari. Roba della peggiore Italia, quella delle minacce a chiacchiere. Aspetto di avere le carte in mano per sapere di cosa in tratta».

Siamo nel pieno processo di demonizzazione del movimento?
Processo di diffamazione, piuttosto, che usa le fandonie sul rischio terrorismo per passare a un livello di repressione più alto. In quella valle c'è già uno stato di assedio, con l'esercito e i posti di blocco, ma evidentemente non bastano più e dunque inventano la fandonia del terrorismo per aumentare la militarizzazione. Esibiscono il sequestro di materiali da ferramenta - chiodi, tronchesi, guanti - e non la gran quantità di computer sequestrati alle persone della Val di Susa. Il computer è sacro, non si può toccare, ma intanto lo sequestrano. Come da noi, negli anni '70, quando ci sequestravano il ciclostile pensando così di ammutolirci.

Riesce a vedere delle similitudini con quei movimenti?
No, solo dalla parte della magistratura che ha un desiderio di ritrovarsi nelle stesse condizioni di allora. Ma in realtà quella lotta dei valsusini è una lotta civile che utilizza materiale da ferramenta per tagliare simbolicamente una rete abusiva. Perché tali sono, quelle recinzioni.

In molti hanno solidarizzato con lei e con il movimento NoTav «fondato sui principi di nonviolenza e resistenza». Ma a volte il limite tra resistenza, rivoluzione e violenza è molto sottile. E c'è sempre qualcuno che potrebbe fraintendere, non crede?
Non c'è nessuna rivoluzione da fare, nessun potere da prendere bisogna semplicemente impedire quell'opera.

Costi quel che costi?
Sta già costando tanto alle persone di quella valle e quello che senti dire da loro è che non moleranno, non gliela daranno vinta perché non hanno una valle di ricambio. È la più forte, unanime e continua resistenza civile degli ultimi 20 anni. Il più alto esempio di democrazia dal basso: vengono a studiarlo da altri paesi del mondo.

Si potrebbe obiettare con la sindrome Nimby, non nel mio giardino.
Per niente. A casa mia si possono fare delle opere molto utili. Per esempio adesso in Sicilia stanno perforando una montagna vicino Caltanissetta e nessuno dice niente perché è un'opera utile evidentemente. Lì invece si tratta di un'opera inutile oltre che nociva, e lo si vedeva da molti anni, già da quando facevano i calcoli sbagliati sulla previsione di incremento del traffico. Come per il corridoio Genova-Rotterdam, assai più utile e sostenibile, con il traforo del San Gottardo già ultimato e con la Svizzera che preme sull'Italia per completare il percorso.

Dunque non tutte le grandi opere sono da avversare.
Delle grandi o piccole opere non mi interessa. Sono stato convocato da una popolazione che si sta battendo contro lo stupro e la riduzione in servitù della loro valle. Un'opera è sostenibile se è appoggiata dalle popolazioni. Io sostengo le loro ragioni. E da militante, non è che lo faccio dal mio domicilio. Si vuol parlare di violenza? L'occupazione militare, quella è violenza.

Il manifesto, 24 maggio 2013 (f.b.)

Leggere il commento del vicepresidente di Legambiente Stefano Ciafani (il manifesto del 15 maggio) all'articolo «Contadini in rivolta contro la dittatura del cardo» a firma di Giuseppe De Marzo (il manifesto del 10 maggio) non ci ha sorpreso. Ci ha anzi riportato alla mente la posizione di Legambiente ai tempi dei lavori per il G8 sull'isola parco naturale della Maddalena. Lavori ai quali Legambiente diede il suo placet sostenendo che non modificavano lo skyline dell'isola. Ciò che resta di quei lavori è in corso di giudizio in tribunale. Un enorme spreco di denaro pubblico per strutture mai utilizzate, neanche un posto di lavoro, bonifiche finte ed un inquinamento ancora maggiore.

Noi lo avevamo detto. Noi, comitati e movimenti, che Legambiente ignora insieme alle pratiche di partecipazione dei cittadini alla presa delle decisioni, impelagata in accordi di partnership con imprese che sulle risorse ambientali speculano. È un dato di fatto. Legambiente è slegata dall'ambiente e legata da mille fili alle multinazionali della «green economy» comprese quelle che vogliono realizzare la chimica «verde» a Porto Torres. Un esempio può aiutarci. In questi giorni Repubblica ha pubblicato l'ottavo studio del Forum Nimby (l'osservatorio sui contenziosi legati alla realizzazione di nuove opere) in questa mappa dei conflitti ci siamo anche noi dei comitati che si battono contro la chimica «verde» a Porto Torres. Tra i componenti del comitato scientifico del Forum c'è anche il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza. I maggiori sponsor di questo Forum sono: A2A Energia (inceneritore di Brescia), Enel (centrale a carbone di Porto Tolle) e altri tra i maggiori beneficiari della truffa dei contributi cip6. E' inutile che Stefano Ciafani cerchi di dirottare il dibattito chiedendo se sia meglio l'energia prodotta da fonti fossili o dalle rinnovabili. Sappiamo bene cosa è meglio. Il problema però è perché si produce e come.

E la situazione paradossale della Sardegna è quella di una regione che produce molta più energia di quella che consuma e molta di più di quella che, data l' attuale portata dei cavidotti, riesce ad esportare. Dunque perché si vuole installare ancora più potenza inutilizzabile se non per scopi speculativi, per beneficiare di contributi e del commercio dei certificati verdi? E per di più utilizzando terreni a destinazione alimentare. Se avesse fatto una indagine accurata come ha fatto Giuseppe De Marzo, il signor Ciafani si sarebbe trovato di fronte, ad esempio, alla piana di Cossoine -ancora oggi coltivata fino alla più piccola parcella - dove la Energogreen Power avrebbe voluto realizzare, devastandola per sempre, un impianto Termodinamico di 160 ettari. E avrebbe scoperto un'intera comunità in lotta che dopo mesi di mobilitazione ha detto un no compatto con un referendum che ha visto votare la quasi totalità dei cittadini.

Per quanto riguarda la chimica «verde» invece, ci troviamo di fronte prima di tutto a un'operazione di marketing. L'Eni intende distogliere l'attenzione dal fatto che questi stabilimenti si stanno realizzando in uno dei Sin più inquinati d'Italia. Lo dice anche Ciafani, però non dice che il pm chiedendo il rinvio a giudizio dell'Eni, ha presentato una perizia di 500 pagine in cui si dimostrano le responsabilità della multinazionale in una delle più grandi catastrofi ambientali italiane. La chimica «verde» è un modo per l'Eni di non sborsare i soldi necessari alle bonifiche a cui è obbligata per legge. Un vero e proprio ricatto: se volete qualche posto di lavoro non cercateci sul resto. L'alternativa non è tra lavoro e salute perché la sproporzione è immensa tra i 400 posti di lavoro promessi e il mantenimento del controllo assoluto dell'Eni su i 23 km quadrati che conta la zona industriale di Porto Torres. Un quarto della superficie del comune che continuerebbe a insterilirsi, ad avvelenare i terreni e le acque circostanti e a propagare cancri e morte su chi ci lavora, ci lavorerà o ci vive vicino. Inoltre, la chimica «verde» dovrebbe funzionare a partire da biomasse locali - che verrebbero dalla mirifica coltivazione del cardo.

Secondo Matrìca, la consociata dell'Eni che conduce il progetto, bisogna ora passare ad una produzione agricola del cardo su scala industriale poiché il fabbisogno in biomassa è pari a 250.000 tonnellate l'anno. E ciò richiederebbe una superficie di coltivazioni che va, secondo le stime, da 70.000 a 120.000 ettari. Altro che le terre marginali di cui discetta Ciafani! La quasi totalità delle terre coltivabili del Nordovest della Sardegna verrebbero coinvolte e sconvolte. Oppure si userà, grazie alla normativa italiana che la assimila alle biomasse, la parte non biodegradabile dei rifiuti solidi extra-urbani? Le nostre ragioni sono semplici e tengono al fatto che la monocultura del cardo sterilizzerebbe le terre, distruggerebbe il biotopo e farebbe scomparire la biodiversità. Pure Legambiente potrebbe capirle.

Ecco perché noi non abbiamo nessuna intenzione di sottoporre i nostri modi di fare di vivere e di produrre all'industria, chimica o energetica che sia. La campagna si fa rara nel mondo, la si compra e la si snatura a chi più può. Noi, in Sardegna, abbiamo ancora terre e campagne, esse sono un bene d'avvenire. Non le lasceremo distruggere e taglieremo le ali agli avvoltoi delle fonti energetiche «sostenibili», che si tratti di imprenditori dell'eolico, del fotovoltaico o della biomassa. Vogliamo continuare a produrre legumi e latte, verdure e formaggi, carne e vino. Questo sappiamo fare e questo il mondo ci chiede: e che sia buono, sano, fresco. Faremo anche energia, quando sarà necessario ma lo decideremo noi. La campagna è l'humus stesso in cui l'urbano è incastonato, radice umile e spesso dileggiata, mondo affettivo e sognante, misura aperta ma certa dell'esistenza stessa della città e del cittadino. Di cui siamo.

Comitato no-chimica verde, Comitato no al termodinamico di cossoine, Comitato «Nurra dentro»


Qui su Eddyburg il citato articolo di Giuseppe De Marzo, "Contadini in rivolta contro la dittatura del cardo", da il manifesto 10 maggio 2013 (f.b.)

L'Italia e in movimento o meglio, E in fermento. Da ALCUNI anni Ormai i Comitati locali per la Difesa delle Risorse comuni e dei beni del territorio nascono Venire funghi, e questo e Una cosa bellissima.
L'autodeterminazione dei Cittadini E ESSA STESSA Un patrimonio da Tutelare e valorizzare, niente non c'è di Più vero e genuino di un Comitato che sì forma per difendere la propria terra. L'unica discrepanza sta nel fatto che molte Volte, QUESTI "poveri" Cittadini, si devono difendere Dagli Stessi figuri Che Hanno Votato Nelle diverse Elezioni locali. Non mantenere le promesse, non di rado, E usanza del politico.

Ma Non E questo Il Punto, il tema che vorrei sottoporre E sempre collegato ai Movimenti per la Difesa del Territorio, ma SI discosta ambrogetta Scelte Politiche posandosi invece Silla Posizione delle Università italiane. Logicamente Visto Che Parliamo proprio di territorio, L'attenzione E Tutta per i corsi in stretto rapporto con l'ambiente e la Pianificazione. Quanto, per esempio, i corsi di Pianificazione Sanno di Cio che Succede Lungo il paese? e Quanto Sono Interessati a scoprilo?

In Italia, nonostante tutto, ABBIAMO dei buoni percorsi formativi per Quanto riguarda la PIANIFICAZIONE TERRITORIALE, Astengo ha Lasciato Una cospicua eredità, e ABBIAMO degli ottimi docenti Che Sanno Il Fatto il Loro. Se Una Carenza C'è, sta proprio nell'anello di congiunzione situato tra il Sapere accademico e la "rabbia territoriale" dei Cittadini; Le Due forme di Conoscenza non si incontrano, anzi Sembrano schivarsi correndo in parallelo su Uno Stesso piano.La Tendenza said manifesta anche quando si parla di progetti di ricerca, in ALCUNI Casi anche QUESTI si profilano Venire percorsi autoreferenziali, tortora la cosiddetta "Partecipazione" o riveste un ruolo e dai ricercatori e Dai marginale o manca del tutto.

La ricerca universitaria e importantissima, Soprattutto in un paese VIENE l'Italia un cui La conoscenza sta svanendo, e centrale cercare di mantenerla viva, Attiva e funzionale. Ma allo Stesso tempo, in un Periodo Venire questa Fatto di bisogni impellenti e di Risorse scarse, E Fondamentale canalizzare Gli Sforzi e le energie Direttamente su Situazioni di bisogni reali. Dall'altra parte ABBIAMO i Comitati, i Quali nascono principalmente per due Motivi: quando in data un territorio Gli abitanti percepiscono Che Un patrimonio collettivo e Sotto attacco, Allora Essi si Fanno Comunità Creando Uno spazio virtuale (ma neanche tanto) in cui discutere o SE Il caso lo consente, in cui decidere l'Azione. O quando un contesto non particolarmente E valorizzato e in questo Caso Sono Gli Stessi Cittadini un far nascere delle "buone Pratiche" per aumentare il benessere del Loro territorio.

La Caratteristica comune dei soggetti Interessati E Quella di sentirsi soli, di fronte ad un grande nemico, ed e per questo Che si uniscono perseguendo il motto: "l'unione fa la forza".
QUESTI Comitati Sembrano trovare appoggio Soprattutto Dalla e nella Rete, grazie a blog e siti che sì interessano di Loro e dedicano spazio alle Loro Battaglie.

Sarebbe di enorme Utilità UNIRE Gli intenti, Creando dei percorsi di ricerca rivolti a dei Territori in Pericolo (questo in ALCUNI Casi Già avviene). Realizzando degli Spazi di Comunicazione Tra Università e Comitati locali, in cui Gli uni con Gli Altri formino delle Proposte Specifiche per la salvaguardia dei Beni Comuni (comuni ai Cittadini comuni MA anche alle Università).
Il paese ha un estremo bisogno di Cooperazione interscalare e multidisciplinare, i Comitati Sono delle piccole (anche se forti) Esperienze di comunità civica Che Hanno dei grandi Valori Aggiunti Dalla Loro: La Buona Conoscenza del territorio e la voglia di cambiamento Le cose; d'altra parte le Università dovrebbero ascoltarli e Tariffa proprie le Loro QUANDO QUESTE Battaglie risultano Indispensabili, portando Quel Sapere tecnico teorico che manca nel cittadino comune. E 'auspicabile un lavoro di Squadra, per irrobustire lo scambio di Informazioni reciproche e per dividersi equamente la fatica nel cercare di controbattere in modo DECISO Gli sciacalli del territorio e del paesaggio.

Spazi virtuali vengono Eddyburg, o Salviamo il paesaggio, o Italia nostra potrebbero Essere I piu adatti per raccogliere questi Invito alla "Collaborazione territoriale". I blog in rete Già rivestono Il Ruolo di "megafoni" dei bisogni delle popolazioni locali, configurandosi Venire Luoghi di cultura civica, e ad Oggi Fanno un ottimo lavoro di Divulgazione e di rappresentazione delle Molteplici voci italiane (e Perché no Internazionali).

Comunque, la centralità del tema non a Qualcuno Non E sfuggita: la Società dei Territorialisti (Società dei Territorialisti), ad esempio, sta Cercando di Costruire un percorso finalizzato alla ricerca di "buone Pratiche" Portate avanti Dai diversificazione Comitati Cittadini sparsi Lungo Tutta la penisola italiana. Con la Realizzazione di un osservatorio e la redazione di Una rivista, l'associazione cercherà di gran lunga Emergere i Contesti in cui Gli abitanti Stessi Stanno formulando delle sane Proposte di rinascita patrimoniale. Nuovi Punti di Vista su Nuove priorita locali. Il tema e Stato descritto anche da Piero Bevilacqua (La vecchia talpa torna a scavare)

Allo Stesso Modo Anche la Biennale dello spazio Pubblico (Biennale Spazio Pubblico) svoltasi a Roma Pochi giorni fa ha replicato l'Importanza di diffondere le buone prassi Sulla Rigenerazione degli Spazi urbani, Soprattutto Attraverso l'Interazione di TRA Amministrazioni virtuose (quando esistono) e Comitati di Quartiere. Hanno partecipato cifra Diversa Nella impegnate Realizzazione di un nuovo Concetto di Comunità, Tra Gli Altri docenti anche, Studenti e Cittadini.

Quindi, potenziare i Flussi trasversali tra "territorio vero" e Sapere accademico dovrebbe Essere Uno degli Obiettivi futuri da perseguire, SIA Dai corsi attinenti alle scienze del territorio e SIA Dai Comitati locali; Perché se e vero Che la Consapevolezza del Fallimento Di Una cospicua parte del Sistema attuale E Ormai appresa Dai Più, dovrebbe Essere altrettanto sensato perseguire Una strada Diversa Che Porti Una Migliori RISULTATI.

Postilla

Sono Pienamente d'Accordo col considerare Una bellissima cosa il proliferare dei Comitati locali per la Difesa delle Risorse comuni e dei beni del territorio. Sono anche Consapevole dei Limiti della Loro Azione e delle Difficoltà Che la Loro Azione incontra: ne ho scritto in molte Occasioni, anche Ho Avuto in piu Occasioni il modo di sperimentarli Direttamente. Il volontarismo Non E SUFFICIENTE quando si devono combatte reguerre di Lungo respiro, e il localismo Minaccia di diventare Una gabbia, ed e comunque Insufficiente Una contrastare con Efficacia loscontro alla Scala globale. La SUA forza PUÒ Crescere quando ho Comitati si raccolgono in RETI (perciò mi Sembrano Insegnamenti utilmente esemplari Esperienze Venire Quella della Rete toscana (e di Quelle minori Che RETE associa), e del Forum per la Difesa del paesaggio e del territorio, e Venire la Più Recente rete interregionale No O-Me. Eddyburg, piccola Iniziativa povera di Risorse, fa Quello che PUÒ con Gli strumenti dell'Informazione, della Diffusione e della critica Condivido anche La tua convinzione Che l'accademia potrebbe osare un forte Sostegno al Consolidamento dei Comitati e delle Loro azioni, aiutando connettere un in Battaglie comuni i Sapere Esperti con Quelli territoriali: ma condivido La tua critica: VEDO solista impegni Molto LIMITAZIONI D'posta Personali Nelle facoltà Universitarie di Oggi, Volte Più un favorire successi Professionali di categoria oa ripiegarsi nell 'autoconservazione del Loro piccolo Potere. Quanto un Venire Istituti Culturali l'Istituto Nazionale di Urbanistica, Che tu citi, Accanto un segnale Qualche interessante Venire l'Iniziativa sullo Sazio Pubblico vedo Ancora prevalere Una linea di accettazione acritica delle Scelte mainstream, o addirittura la promozione, legittimazione e Consolidamento di Linee di cultura e di prassi urbanistiche Che giudico, non da oggi, perversa e in pieno contrasto con la storia del vecchio INU. Ma su questo punto varrà la pena di Tornare su QUESTE pagine, Perché Il Ruolo svolto da quell'istituto (Che ho Avuto l'Opportunità di Conoscere dall'Interno per MOLTI anni, Venire anche Suo presidente) Nella promozione della "città della rendita" e Stato devastante.

DemocraziaKmZero, 20 maggio 2013. Convegno, Ravenna 25 maggio

È del 2001 la famigerata Legge Obiettivo, voluta da Berlusconi, che istituiva procedure speciali per le grandi opere pubbliche definite di interesse strategico – infrastrutture di trasporto ed energetiche, reti di telecomunicazione, le dighe del MOSE a Venezia e l’edilizia pubblica. Un provvedimento cui è seguito un proliferare di interventi normativi senza paragoni, per assicurarne l’operatività nel corso degli anni – non ultimo il D.Lgs 163/2006 Codice Appalti, che ridefinisce la disciplina nazionale del trabocchetto del project financing; così come senza paragoni è la continuità politica dei Ministri Lunardi, Di Pietro, Matteoli e Passera nel ribadirne la priorità e nell’aggiornare continuamente l’elenco delle opere – passate in un decennio da 196 a 348, di cui 189 sono infrastrutture logistiche.

Tra queste, oltre agli arcinoti Ponte sullo Stretto e TAV Torino-Lione, è inserita la Orte-Mestre, ovvero la E45-E55, detta Nuova Romea Commerciale, asse di collegamento nord-sud con la direttrice est-ovest del Corridoio V Lisbona-Kiev, all’innesto del cosiddetto Passante di Mestre.

I numeri della Orte-Cesena-Mestre sono talmente pesanti da classificarla al secondo posto, dopo il Ponte sullo Stretto di Messina: 396 chilometri di asfalto che uniranno Orte, nel Lazio, a Mestre, in Veneto. Sorgerà sul sedime della superstrada E45, da implementare, per proseguire poi interamente nuova nel tratto Emiliano-Veneto, a partire da Cesena e in parallelo all’attuale SS309 Romea, stravolgendo i territori di 5 regioni (Lazio, Umbria, Toscana, Emilia Romagna e Veneto),11 province, 48 comuni. Sono previsti 140 km di ponti e viadotti, 64 km di gallerie, 250 tra cavalcavia e sottovie, 83 nuovi svincoli, con un consumo di suolo stimato tra i 600 e i 700 ettari al 90% agricoli. Altrettanto pesanti sono le interferenze ambientali e paesaggistiche: nella sua corsa attraverserà 22 Siti di Interesse Comunitario (SIC) e Zone a Protezione Speciale (ZPS); interesserà il Parco del Delta del Po e la Laguna Sud di Venezia; taglierà in due le Valli del Mezzano e la Riviera del Brenta; toccherà le Valli di Comacchio e il Parco delle Foreste Casentinesi; bucherà gliAppennini Centrali… Per non dire degli impatti dovuti all’aumento dell’inquinamento atmosferico e acustico; quelli sulla sicurezza idro-geologica, a causa dell’ulteriore impermeabilizzazione dei suoli; e quelli socio-economici a spese della salute pubblica e delle economie locali, che in aggiunta al nastro di asfalto subiranno la beffa di vedere il traffico riversarsi sulla viabilità ordinaria per non pagare i nuovi pedaggi.

Eppure, di questa gigantesca arteria, che “cuba” qualcosa come 10 miliardi di euro in project financing, si sa poco o nulla. Ad oggi è ancora apparentemente ferma al palo, in attesa del pronunciamento del CIPE (il Comitato Interministeriale di Programmazione Economica) sul progetto preliminare. In realtà, la Orte-Mestre è un mostro che dorme con un occhio aperto, aspettando solo la messa a punto delle condizioni normative e tecnico-finanziarie per risvegliarsi prontamente. E, a questo scopo, le forze politiche istituzionali hanno sempre lavorato in modo trasversale…

Già il 2002 vede la creazione dell’Associazione Nuova Romea, i cui soci fondatori sono tutti parlamentari dell’Ulivo, soprattutto diessini, tra i quali spicca nientemeno che Pier Luigi Bersani. Tra gli scopi statutari vi è proprio quello di promuovere la E55, l’associazione infatti ”si propone di favorire una collaborazione interregionale di area vasta, tra istituzioni, imprese e cittadini: per la realizzazione della nuova infrastruttura stradale E55-Nuova Romea e del Corridoio Adriatico (…)”. Nel 2003, il primo progetto della cordata promotrice “Newco – Nuova Romea SpA” (composta da società autostradali, imprese di costruzione e banche di prima grandezza, tra cuiAutostrade SpA del Gruppo Benetton, Autostrada Brescia–Padova, Unicredit, Antonveneta, Gruppo IMI San Paolo, Impregilo, le “coop rosse” CCC e CMC, Mantovani SpA e Adria Infrastrutture), che proponeva il solo tratto da Cesena a Mestre, viene scalzato dal progetto della Gefip Holding SA (il gruppo di famiglia dell’eurodeputato Vito Bonsignore, in cordata con MEC SpA, Banca Carige, Efibanca di Lodi, ILI SpA, Egis Projects SA e altre), che prevede la realizzazione di un unico asse autostradale da Orte a Mestre. Il contenzioso tra le due compagini si risolve davanti al Consiglio di Stato con l’acquisizione della Newco da parte di Bonsignore per 4,5 milioni di euro e l’impegno di affidare a CMC le opere previste in territorio romagnolo. Tutti serviti, si parte.

Da notare, per inciso, che l’allora vice-presidente della Newco è tale Lino Brentan, oggi agli arresti domiciliari per corruzione, nell’ambito degli appalti per il Grande Raccordo Anulare di Padova, e pure in recentissime manette si trovano Piergiorgio Baita, amministratore delegato della Mantovani SpA – di fatto il general contractor del Veneto per le grandi opere “pubbliche” della Regione – e Claudia Minutillo, ex assistente di Galan e amministratore delegato di Adria Infrastrutture, accusati entrambi di associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale.

L’iter procede. Nel 2009 il consiglio di amministrazione di ANAS dà il via libera al progetto preliminare presentato da Gefip, che l’anno dopo ottiene il parere favorevole della commissione VIA nazionale. D’ora in avanti si tratterà di trovare le ingenti risorse necessarie e soprattutto mettere in equilibrio il piano economico per avere anche il placet del CIPE.

Ma bisogna arrivare al 2012, con il governo Monti a pieno regime, per assicurare rinnovato smalto alla Orte-Mestre. Nell’Allegato infrastrutture del documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) 2013-2015 viene confermata come intervento prioritario e, da luglio, sbandierata dal duo ministeriale Passera-Ciaccia come di imminente sblocco ad ogni vigilia di riunione del CIPE. Sinora, però, questo passaggio non è ancora avvenuto per problemi “tecnici” tra il Ministero delle Infrastrutture e quello dell’Economia. Problemi tecnici che sono più propriamente problemi di reperimento di risorse.

Del piano economico-finanziario non è dato sapere, ma gli espedienti fiscali del governo nel corso del 2012 dimostrano che quest’opera non si regge economicamente e finanziarla sarebbe un suicidio per le casse dello Stato. I “tecnici” si stanno inventando mirabolanti escamotage per far quadrare artificiosamente i conti, dall’istituzione dei micidiali project bond alle misure di de-tassazione per le infrastrutture di importo superiore ai 500 milioni – introdotte dal Decreto Sviluppo Bis e rese operative dal CIPE a marzo di quest’anno. Per la Orte-Mestre questo significa che, oltre al contributo pubblico di ANAS di 1 miliardo e 400 milioni per effetto del project financing, lo Stato rinuncerà a 1 miliardo e mezzo di entrate IVA, IRES, IRAP. Si stanno insomma intessendo le architetture fiscali utili ad aprire una nuova voragine di debito pubblico, giacché le casse dello Stato foraggeranno direttamente l’opera, copriranno i mancati rientri delle imprese private e andranno motu proprio a debito di imposte.

Ora, dire che il piano economico di un’opera viaria non risulta economicamente sostenibile, è semplicemente ammettere che i dati di traffico non sono sufficienti a giustificarne la necessità. Infatti, così com’è dimostrata l’inutilità del TAV valsusino, visto che la portata della linea ferroviaria esistente è ampiamente sotto-utilizzata, allo stesso modo i soli 18.000 veicoli medi giornalieri in transito, nel tratto veneto dell’attuale Romea, ricalcano il flusso di una banale strada provinciale, dove i mezzi pesanti, che oggi incidono per il 30%, scelgono sempre più spesso la viabilità gratuita, con le ovvie ricadute sulla sicurezza stradale.

Insistere con il dogma delle grandi opere non è solo perseguire irresponsabilmente un modello sviluppista distruttivo – l’aumento del debito comporta l’inasprimento delle misure di austerità, dei tagli ai servizi pubblici e all’occupazione – ma è altresì sposare le logiche che vedonole infrastrutture come strumenti di neo-colonialismo territoriale e nuovi asset su cui accentrare profitto speculativo da parte dei mercati finanziari, sempre più aggressivi nei confronti dei beni comuni e delle risorse naturali.

La Orte-Mestre è concettualmente arretrata, devastante, inutile e costosissima il cui unico scopo è quello di favorire le lobbies delle filiere del cemento/asfalto (quando non del malaffare), le trappole delle concessioni autostradali e i privilegi del capitale finanziario. Ma i comitati, le associazioni, i movimenti sono ben svegli…

Opzione Zero, comitato della Riviera del Brenta nel veneziano, nato nel 2004 proprio sulla vertenza Orte-Mestre, non ha mai abbassato la guardia sulle manovre politico-affaristiche intorno a quest’opera faraonica, con un’azione incessante di approfondimento e divulgazione. Il puntiglioso lavoro di ricerca ha rivelato tutte le connessioni che la legano a doppio filo ad altre grandi opere della delirante strategia infrastrutturale e insediativa regionale detta “Bilanciere del Veneto” (Passante di Mestre, GRA di Padova e Camionabile, Nogara-Mare, Veneto City a Dolo, Polo Logistico a Mira…).

Negli anni, il progressivo allargamento della visuale prospettica sulla Orte-Mestre ha aperto sempre nuove possibilità di azione e relazione e l’11 dicembre 2010 segna una data importante per tutte le realtà dei vari territori attraversati dal nuovo asse autostradale: nasce finalmente la Rete Nazionale Stop Orte-Mestre, www.stoporme.org, con lo scopo di unire le forze e le risorse per contrastare quest’opera e individuare soluzioni alternative, più economiche e sostenibili. La Rete vede la partecipazione di importanti e qualificanti organizzazioni nazionali come WWF, Legambiente, Italia Nostra, Mountain Wilderness, Stop Consumo di Territorio e Salviamo il Paesaggio … ma sono tantissime le associazioni, i comitati, le articolazioni locali di movimenti e forze politiche, e le personalità che hanno già dato adesione.

L’impegno è stato sinora quello di mantenere alta l’attenzione e monitorare qualsiasi notizia riconducibile alla nuova autostrada, con continui reciproci aggiornamenti, diffondendo informazione e conoscenza sull’opera. Si sono attivati i primi passi per la preparazione dei ricorsi, qualora il CIPE dovesse sbloccare le procedure. Si stanno programmando iniziative e mobilitazioni, la prossima prevista a fine maggio sarà un importante convegno nazionale a Ravenna. Soprattutto, si sono studiate efficaci proposte alternative in risposta, non già a una ulteriore domanda di mobilità, bensì a una crescente richiesta di sicurezza, di tutela e di minor spreco di risorse: l’adeguamento e la riqualificazione delle attuali SS309 Romea ed E45 è realizzabile con un decimo degli investimenti; la deviazione del traffico pesante sulla A13 e sulla rete autostradale esistente è attuabile immediatamente; il potenziamento del trasporto ferroviario e fluvio-marittimo è sostenuto e incentivato dalle norme europee.

Con la prorogatio di Monti, si profila un alto il rischio di colpi di mano e accelerazioni su tutte le grandi opere, unico settore destinato “a rassicurare i mercati e le banche”. Parimenti, le posizioni politiche di tutte le Regioni interessate sono lontanissime dal riconsiderare, a dieci anni di distanza dalla Legge Obiettivo e nel pieno della crisi, la pianificazione territoriale, concedendo una moratoria sulle infrastrutture. Ma è anche un momento importante in cui far emergere le contraddizioni di un modello fallito e divaricare quelle faglie che i movimenti di resistenza territoriale hanno ben dimostrato di saper aprire. Su questo Stop Or-Me e le realtà che ne fanno parte non mancheranno di dare il loro vigoroso contributo.

Qui la locandina di un convegno nazionale che si terrà a Ravenna, il 25 maggio 2013, dalle ore 10 alle 17,30. Interverranno tra gli altri Mattia Donadel, Ivan Cicconi, Paola Bonora, Luca Martinelli

a Bologna, lo scorso 4 maggio, la terza assemblea nazionale del Forum “Salviamo il Paesaggio, Difendiamo i Territori”. Resoconto, con postilla (m.b.)

Riportiamo il resoconto della terza assemblea nazionale, tenuta il 4 maggio scorso a Bologna, tratto dal sito del Forum Salviamo il paesaggio dove si possono scaricare la relazione introduttiva, il verbale dell'assemblea e la mozione finale.

Dalla sua nascita, nell’ottobre 2011 a Cassinetta di Lugagnano, la crescita del Forum non si è arrestata: sono oggi 151 i comitati Salviamo il Paesaggio costituiti e 911 le associazioni – nazionali e locali – aderenti.
Convegni, seminari ed assemblee hanno fatto crescere nel tempo l’importanza del Forum, che è arrivato a dialogare con parecchi ministeri ed a moltiplicare l’attenzione generale sul nevralgico tema del consumo di suolo. Un lavoro importante che, negli ultimi mesi, ha ottenuto alcuni risultati di grande rilievo: a gridare “basta sprecare territorio” sono, oggi, anche molte forze imprenditoriali come i Costruttori edili dell’ANCE/Confindustria, Confcommercio, Confcooperative, Confartigianato, il sindacato Fillea Cgil, forze politiche e molte amministrazioni comunali. Il “chiodo fisso” delle nuove edificazioni sta lasciando spazio al recupero dell’esistente: è un salto culturale enorme, di cui possiamo andare fieri. Ma che dobbiamo saper “governare” …
Durante la mattinata si è svolta l’assemblea plenaria, a cui nel pomeriggio si sono affiancati alcuni gruppi di lavoro, fra cui quello sull’obiezione di coscienza, che ha visto partecipare professionisti del settore (geometri, ingegneri, architetti, progettisti) coinvolti nel trovare risposte nei confronti di progetti che prevedano nuovo consumo di suolo anziché recupero dell’esistente.

Un altro tavolo di lavoro si è occupato delle attività di redazione del sito nazionale del Forum, che è ormai diventato il più importante riferimento sul tema presente in rete, oltre che fondamentale collante tra i gruppi e le iniziative.
Qualche rapida informazione:
Confermata la centralità della campagna di “censimento del cemento”: i nostri Comitati locali continueranno a sollecitare tutte le (tante, troppe …) amministrazioni comunali che ancora non hanno compilato e restituito la nostra scheda censuaria.
Accelerazione della definizione del testo della nostra possibile Proposta di legge d’iniziativa Popolare, attraverso una apposita Commissione.
Creazione di una sorta di albo di “soccorso verde” che includa urbanisti, architetti, geometri, paesaggisti, agronomi, legali, amministrativisti ecc., per contribuire all’analisi e alla prima consulenza su nuovi progetti, regolamenti, norme.
Impegno più rigoroso da parte di tutte le grandi organizzazioni nostre aderenti nelle azioni quotidiane del nostro lavoro.
Intensificazione delle nostre azioni di stimolo per le future scelte di Governo e Parlamento.
Creazione di un nostro Ufficio Studi.

L’Assemblea si è conclusa con l’approvazione di un documento programmatico che sintetizza i principali temi-cardine delle nostre proposte “politiche” e con la scelta del nuovo coordinatore nazionale, essendo giunto al termine il mandato di Alessandro Mortarino, che nella sua relazione introduttiva aveva suggerito una opportuna turnazione di ruoli.
L’assemblea ha però ritenuto che il positivo lavoro svolto dalla nostra segreteria nazionale in questo primo anno e mezzo dovesse trovare ancora una continuità annuale e, all’unanimità, ha chiesto ad Alessandro di accettare un secondo mandato. Il calore con cui la richiesta è stata avanzata ha ottenuto il risultato atteso: un “Mortarino bis”…


Postilla.
Segnaliamo un aspetto non evidenziato nella mozione conclusiva, che avevamo sottolienato nel nostro messaggio. Per fermare il consumo di suolo occorre puntare anche, e contemporaneamente, al recupero e alla trasformazione delle città esistenti. Tuttavia, le aree dismesse, sottoutilizzate o degradate possono essere oggetto di investimenti speculativi, con la stessa logica che ha generato la disordinata espansione edilizia degli ultimi decenni. Una deriva che riguarda soprattutto le aree pubbliche. Le politiche nazionali incoraggiano le amministrazioni locali e i soggetti para-pubblici (le aziende sanitarie, le ferrovie dello stato, i gestori delle reti) a disfarsi di queste aree per fare cassa e ripianare (o camuffare) i bilanci, anziché considerarle come beni comuni. Sappiamo che occorre fare tutt'altro, e che attraverso il recupero del patrimonio pubblico si può soddisfare i fabbisogni sociali e restituire vivibilità ai centri urbani. Tutto si tiene: non si salva il paesaggio senza salvare le città. (m.b.).

eddyburg. I temi trattati (il concetto di bene comune, multiscalarità nel processo delle decisioni, rapporto tra dimensione "verticale" e "orizzontale" della democrazia, o tra città e lotta di classe) ci sembrano di particolare interesse per il dibattito, anche in Italia

Estratto da Rebel Cities: from the right to the city to the urban revolution, London-New York, Verso 2012 (cap. 3) – Traduzione di Fabrizio Bottini

La città è il luogo in cui persone di ogni tipo e classe si mescolano, per quanto in modo conflittuale e con riluttanza, per produrre un’esistenza comune, anche se in continuo cambiamento e transitoria. La comunitarietà di questa vita è stata da molto tempo oggetto di osservazione da parte degli urbanisti di ogni provenienza, e l’ avvincente soggetto di scritti e altre forme di comunicazione assai evocative (romanzi, film, quadri, video ecc.) che cercano di fissarne i caratteri (o quelli particolari di una certa città, in un determinato contesto ed epoca) e il suo significato più profondo. E nella lunga storia delle utopie urbane troviamo traccia di ogni genere di aspirazione umana a costruire una certa città, per usare le parole di Park “più vicina al nostro cuore”. La recente ripresa di interesse per la ipotizzata scomparsa dei beni comuni urbani corrisponde a quelli che appaiono come profondi effetti dell’ondata di privatizzazioni, costruzione di barriere all’accesso, controlli spaziali e di polizia, e di sorveglianza sulla qualità generale della vita urbana, specie sulla possibilità di costruire o ostacolare nuove forme di relazione sociale (un nuovo spazio comune) all’interno di processi fortemente influenzati, per non dire dominati, dagli interessi della classe capitalista.

Quando Hardt e Negri, ad esempio, sostengono che dovremmo considerare “la metropoli in quanto fattore di produzione di beni comuni” intendono indicare il punto di inizio di una critica anticapitalista per l’azione politica. Allo stesso modo del diritto alla città, questa idea appare coinvolgente e intrigante, ma cosa significa davvero? E come entra in rapporto con la lunga vicenda di discussione e contrasti sulla creazione e uso di risorse di proprietà comune?

Ho perso il conto di quante volte ho visto citare il classico articolo di Garret Hardin sulla tragedia dei beni comuni (The Tragedy of the Commons), come prova indiscutibile dell’efficienza superiore dei diritti della proprietà privata quando si tratta dell’uso di terreni e risorse, quindi di motivo indiscutibile per la privatizzazione. Questa lettura errata in parte deriva dall’uso della metafora, da parte di Hardin, del bestiame di proprietà di singoli che vogliono massimizzarne il proprio vantaggio individuale, e che pascola su terreno di proprietà comune. I singoli proprietari guadagnano aumentando i capi, mentre la perdita di fertilità che da ciò deriva pesa sull’insieme dei proprietari di bestiame. I singoli proprietari continuano ad accrescere il numero dei capi, finché il terreno comune perde ogni produttività.

Ovviamente, se il bestiame fosse di proprietà comune, la metafora non funzionerebbe. Ciò mostra che al cuore del problema ci sono la proprietà privata del bestiame e il comportamento teso alla massima utilità individuale, anziché l’aspetto di proprietà comune della risorsa. Ma a Hardin fondamentalmente non interessava davvero nessuno dei due aspetti. La sua preoccupazione riguardava la crescita di popolazione. Decidere di avere dei figli, era il suo timore, avrebbe alla fine condotto alla distruzione di tutti i beni comuni del mondo, e all’esaurimento di tutte le risorse (come sosteneva anche Malthus). L’unica soluzione, secondo Malthus, era un controllo regolativo autoritario della popolazione.

Cito questo esempio per sottolineare in che modo la riflessione sui beni comuni sia stata troppo spesso racchiusa entro presupposti troppo limitati, condizionata dall’esempio delle enclosures britanniche dal tardo medioevo in poi. Di conseguenza ci si è spesso polarizzati fra soluzioni tutte orientate alla proprietà privata, o all’ intervento statale autoritario. In una prospettiva politica, l’intera tematica è stata resa meno chiara dalla reazione istintiva (strettamente legata a una buona dose di nostalgia per una supposta economia morale dell’azione comune del bel tempo andato) vuoi a favore, vuoi – come accade di solito a sinistra – contro ogni tipo di sbarramento all’accesso.

Elinor Ostrom tenta di eliminare alcuni di questi limiti nel suo libro Governing the Commons. Sistematizzando le evidenze antropologiche, sociologiche, storiche che hanno da lungo tempo dimostrato che se i proprietari di quel bestiame si fossero parlati l’un l’altro (o avessero avuto una cultura delle regole condivisa), avrebbero potuto facilmente risolvere qualunque problema di beni comuni. La Ostrom ci mostra attraverso innumerevoli esempi che gli individui possono spesso trovare, e di fatto trovano, metodi ingegnosi e molto adeguati per gestire risorse di proprietà comune, a vantaggio dei singoli così come della collettività. Il suo obiettivo era di capire perché in alcuni casi ci riescono, e in quali circostanze invece no. I casi studio fanno a “pezzi le convinzioni di tanti analisti politici, secondo cui l’unico modo di risolvere i problemi di proprietà comune delle risorse è attraverso l’intervento di autorità esterne che impongono o un regime di totale proprietà privata, o una regolamentazione centralizzata”. I suoi casi studio mostrano invece “una ricca mescolanza di strumenti sia pubblici che privati”. Sulla scorta di questa conclusione, l’Autrice porta il suo attacco all’ortodossia economica che vede tutte le scelte semplicemente in termini di dicotomia fra stato e mercato.

Però gran parte dei suoi esempi coinvolgono solo qualche centinaio di proprietari. Su quantità maggiori ( il suo caso più numeroso riguardava 15.000 persone) era necessaria una struttura decisionale per “fasi successive”, poiché diventava impossibile una negoziazione diretta fra tutti gli individui. Ciò comporta che diventano necessarie forme di organizzazione strutturate per fasi, e quindi in qualche modo “gerarchiche”, per affrontare problemi di grande scala, come ad esempio il riscaldamento globale. Purtroppo la stessa parola “gerarchico” suona come una maledizione nel pensiero corrente (la Ostrom la evita del tutto) ed è oggi violentemente avversata da gran parte della sinistra. L’unica forma politicamente corretta di organizzazione, in molti ambienti radicali, è quella non statale, non gerarchica, e orizzontale. Per evitare che in qualche modo si debba giudicare necessaria una qualche forma di organizzazione strutturata per fasi, si tende a trascurare la questione di come debbano essere gestiti i beni comuni alla grande scala invece che alla piccola scala locale (per esempio, il problema della popolazione globale che interessava Hardin).

Chiaramente esiste qui un “problema di scala” difficile da analizzare che deve (ma non lo si fa) essere attentamente valutato. Le possibilità di una attenta gestione delle risorse di proprietà comune a una determinata scala (come condividere le acque fra un centinaio di agricoltori in un piccolo bacino fluviale) non si possono applicare a problemi come il riscaldamento globale, e neppure alla diffusione territoriale delle piogge acide da centrali elettriche. Quando si “salta di scala” (come amano dire i geografi), cambia drasticamente la natura del problema beni comuni, e cambiano le prospettive di trovare una soluzione. Quello che appare un buon metodo per risolvere problemi a una scala non vale per un’altra. Cosa anche peggiore, soluzioni dimostratesi assolutamente valide a una determinata scala (diciamo quella “locale”) non necessariamente si sommano ascendendo (o a cascata discendendo) traducendosi in buone soluzioni per una scala diversa (ad esempio, quella globale). Ecco perché la metafora di Hardin è tanto fuorviante: egli usa un esempio di piccola scala, di capitale privato operante su un pascolo comune, per spiegare un problema globale, come se non esistesse alcun problema di salto di scala.

E così anche i validi insegnamenti che ci arrivano dall’organizzazione collettiva delle economie solidali su piccola scala, secondo criteri di proprietà comune, non possono tradursi in soluzioni globali senza ricorrere a forme organizzative “per fasi” e di conseguenza gerarchiche. Purtroppo, come già sottolineato, il concetto di gerarchia suona come una maledizione in tanti ambienti della sinistra di opposizione al giorno d’oggi. Troppo pesso si erge, a ostacolo della riflessione sulle soluzioni più adeguate ed efficaci, una sorta di feticismo della preferenza organizzativa (ad esempio, l’orizzontalità pura). Per essere chiari, io non sostengo che l’orizzontalità non vada bene – anzi, la ritengo un ottimo obiettivo – ma che se ne debbano riconoscere i limiti come principio organizzativo egemone, ed essere pronti quando necessario ad andare molto oltre.

Esiste anche una gran confusione sul rapporto fra beni comuni e i supposti mali dello sbarramento all’accesso [enclosure]. Di fronte a problemi imponenti (e in maniera particolare alla scala globale) qualche sorta di sbarramento spesso è il modo migliore di conservare certi beni comuni di grande valore. Forse può suonare, e forse è, una affermazione contraddittoria, ma rispecchia una situazione davvero contraddittoria. Occorrono provvedimenti di sbarramento draconiano all’accesso in Amazzonia, per esempio, per tutelare sia la biodiversità che la cultura delle popolazioni indigene, nel quadro dei nostri beni comuni globali culturali e naturali. Sarà quasi certamente necessario l’intervento statale per proteggere quei beni comuni contro la filistea democrazia di corto respiro degli interessi economici che devastano le terre con le colture estensive di soia o gli allevamenti di bestiame. Dunque non tutte le forme di sbarramento all’accesso si possono per definizione liquidare come cattive. Produrre e proteggere spazi non mercificati, in un mondo invece spietatamente mercificato, è di sicuro una buona cosa. Ma qui si può verificare un altro problema: potrebbe essere necessario (come sostiene spesso il WWF) espellere la popolazione indigena dalle sue foreste per salvare la biodiversità. Un bene comune può essere protetto a scapito di un altro. Quando si recinta una riserva naturale, si nega l’accesso al pubblico. È comunque rischioso pensare che il modo migliore per conservare un bene comune sia negarne un altro. Ci sono validi motivi per ritenere che ad esempio politiche forestali congiunte di tutela degli habitat e di accessibilità da parte delle popolazioni tradizionali possano giovare ad entrambi. Non è comunque facile affrontare l’idea di proteggere beni comuni attraverso uno sbarramento all’accesso, quando si tratta di prenderla in considerazione come una strategia anti-capitalista. Infatti, da sinistra la domanda di “autonomia locale” di fatto altro non è che una richiesta di un qualche tipo di sbarramento all’accesso.

Dobbiamo concludere che tutti i problemi relativi ai beni comuni sono contraddittori, e oggetto costante di scontro. Dietro alla contestazione stanno interessi sociali e politici in conflitto. Come ha osservato Jacques Rancière “la politica è la sfera di attività di un bene comune che non può essere altro che oggetto di contenzioso”. Alla fin fine, l’analista è spesso lasciato con una semplice decisione: da che parte stiamo? Quali interessi comuni intendiamo tutelare, e con quali mezzi?

Oggigiorno i ricchi hanno preso l’abitudine di chiudersi dentro a quartieri recintati, all’interno dei quali si individua un bene comune che te3nde a escludere. In linea di principio ciò non è diverso da una cinquantina di persone che attingono insieme a una risorsa di acqua comune, senza badare agli altri. I ricchi hanno anche l’impudenza di pubblicizzare il loro spazio urbano esclusivo come villaggio comunitario tradizionale, come nel caso del Kierland Commons a Phoenix, Arizona, descritto come un “villaggio urbano con spazi commerciali, ristoranti, uffici” e via dicendo. Anche i gruppi radicali possono appropriarsi di spazi (a volte in regime di proprietà privata, come quando si acquista collettivamente un edificio da utilizzare per qualche scopo progressista) da cui approfondire politiche di azione comune. Oppure fondare una comune o un soviet, all’interno di qualche genere di spazio protetto. Le Case del Popolo, descritte da Margaret Kohn come cruciali per l’azione politica nell’Italia all’inizio del XX secolo, erano esattamente esperienze di questo genere.

Non tutte le forme di bene comune comportano accesso aperto. Alcune (l’aria che si respira per esempio) sì, altre (come le vie delle città) sono aperte in linea di principio, ma regolamentate, controllate dalla polizia, o a volte addirittura gestite privatamente sotto forma di Business Improvement District [sulla questione specifica in questo sito si vedano almeno i saggi di Lorlene Hoyt e Anna Minton n.d.t.]. Altre ancora (come una risorsa idrica comune controllata da cinquanta agricoltori) sono esclusive sin dall’inizio, limitate ad un gruppo sociale particolare. Gran parte degli esempi usati dalla Ostrom nel suo primo libro erano di quest’ultimo genere. Inoltre, nei suoi primi studi limitava l’analisi alle cosiddette risorse “naturali”, quali terra, boschi, acque, pesca, e simili. (Dico “cosiddette” perché qualunque risorsa discende da una valutazione tecnologica, economica, culturale, e quindi si tratta di una definizione sociale).

La Ostrom, insieme a molti suoi colleghi e collaboratori, più tardi si è occupata di altre forme di bene comune, come materiale genetico, conoscenza, beni culturali e simili. Tutti aspetti oggigiorno molto presi d’assalto attraverso mercificazione e sbarramento all’accesso. Lo sfruttamento ad esempio mercifica (spesso svuotandoli di senso) i beni culturali disneyficandoli. Proprietà intellettuale e brevetti registrati su materiale genetico e conoscenza scientifica sono oggi una delle questioni più scottanti. Gli editori che fanno pagare per leggere gli articoli sui periodici scientifici e tecnici che pubblicano, il problema di accedere a quanto dovrebbe essere patrimonio comune, sono temi ben noti a tutti. Negli ultimi vent’anni c’è stata una vera esplosione di studi e proposte operative, oltre ad aspre battaglie legali, sulla creazione di uno spazio comune di libero accesso alla conoscenza.

I beni culturali e intellettuali di quest’ultimo tipo spesso non rispondono alla logica della scarsità, o all’uso esclusivo che si può applicare alle risorse naturali. Tutti possiamo ascoltare il medesimo programma radiofonico, guardare quello televisivo, senza intaccarlo in alcun modo. Il bene comune culturale, scrivono Hardt e Negri, “è dinamico, fatto sia di lavoro che di mezzi di produzione futura. Non si tratta solo della terra che condividiamo, ma anche del linguaggio che creiamo, delle pratiche sociali che mettiamo in atto, dei modi di socialità che formano le nostre relazioni, e via dicendo”. Tutti questi beni comuni si costruiscono col tempo, e in linea di principio sono aperti a tutti.

Le qualità umane della città emergono dalle nostre pratiche all’interno dei vari spazi della città, anche se quegli spazi sono soggetti a qualche tipo di sbarramento all’accesso, a controllo sociale, all’appropriazione da parte di interessi privati e/o della pubblica amministrazione. Esiste un’importante distinzione fra spazio pubblico e bene pubblico, da un lato, e beni comuni dall’altro. Spazi pubblici e beni pubblici nella città sono da sempre questione gestita dal potere statale e dalla pubblica amministrazione, ma si tratta di spazi e beni non necessariamente comuni. Per tutta la storia dell’urbanizzazione, la loro realizzazione (pensiamo alle fognature, alla sanità, all’istruzione ecc.) sia con capitali pubblici che privati è stata essenziale allo sviluppo capitalistico. Nella misura in cui le città sono state il luogo di vigorosi conflitti e lotte di classe, le amministrazioni urbane sono state obbligate a mettere a disposizione beni pubblici (case economiche, assistenza sanitaria, istruzione, vie asfaltate, reti idriche e fognarie) per la classe operaia urbanizzata. Sequesti spazi e beni pubblici possono contribuire enormemente alla qualità degli ambiti comuni, occorre una iniziativa politica da parte dei cittadini e della popolazione per appropriarsene, per renderli tali. L’istruzione pubblica diventa bene comune quando le forze sociali se ne appropriano, la tutelano, la estendono per un vantaggio comune (viva gli organismi collegiali genitori-insegnanti!). Le piazze Syntagma a Atene, Tahrir al Cairo, de Catalunya a Barcellona, sono spazi pubblici diventati beni comuni urbani nel momento in cui le persone vi si sono riunite per esprimere le loro idee politiche e porre domande. La strada è uno spazio pubblico che storicamente si è trasformata tramite l’azione sociale nello spazio comune del movimento rivoluzionario, oltre che in un luogo di sanguinaria repressione. Esiste sempre uno scontro sui modi in cui produzione e accesso allo spazio pubblico e ai beni pubblici debbano essere regolamentati, da chi, per quali interessi. La lotta per appropriarsi degli spazi pubblici e dei beni pubblici per uno scopo comune è costantemente in corso. Ma per proteggere il bene comune spesso è vitale proteggere il flusso dei beni pubblici che ne definiscono la qualità. Le politiche neoliberiste tagliano i finanziamenti ai beni pubblici, diminuendo la disponibilità di beni comuni, e obbligando i gruppi sociali a trovare altre vie per conservarli (l’istruzione, ad esempio).

Il bene comune non si costruisce quindi come qualcosa di particolare, un oggetto e neppure processo sociale, ma come una instabile e plasmabile relazione tra un auto-definito gruppo sociale, e quegli aspetti (già esistenti, o ancora da creare) di ambiente fisico o di rapporti considerati essenziali per la sua vitalità. Esiste, in realtà, una pratica sociale di commoning. Questa pratica produce o impone una relazione sociale con un bene comune i cui usi sono esclusivi di un determinato gruppo, oppure in tutto o in parte aperti a tutti. Al centro di tale pratica di commoning sta il principio che la relazione fra quel gruppo sociale e quell’aspetto dell’ambiente considerato bene comune debba essere al tempo stesso collettiva e non mercificata: completamente estranea alla logica del mercato e dei suoi valori. Quest’ultimo punto è cruciale, perché aiuta a distinguere fra beni pubblici realizzati in quanto spesa pubblica produttiva, e un bene comune creato o fruito in modo e per un fine totalmente diverso, anche nel caso in cui finisca indirettamente per accrescere ricchezza e benessere del gruppo sociale che lo rivendica. Così anche un orto di quartiere diventa cosa buona, indipendentemente dalle verdure che si producono. Il che non impedisce di venderle, quelle verdure.

Molti gruppi sociali si possono impegnare in pratiche di commoning per molte diverse ragioni. Il che ci riporta alla questione fondamentale di quali gruppi sostenere e quali no, nel conflitto per i beni comuni. A ben vedere i super-ricchi sono ferocemente protettivi tanto quanto altri del loro spazio residenziale recintato comune, e hanno molte più armi e influenza per costruirlo e difenderlo.

Il bene comune, anche (e particolarmente) quando non lo si può sbarrare all’accesso, lo si può comunque scambiare pur non trattandolo come merce. Il contesto e l’attrattività di una città, ad esempio, è un prodotto collettivo dei cittadini, ma è il settore turistico che fa un uso commerciale di quel bene comune e ne estrae una rendita monopolistica [approfondita nel cap. 4 non compreso in questo estratto n.d.t.]. Con le loro attività e conflitti quotidiani, singoli e gruppi creano il mondo sociale della città, e di conseguenza un bene comune entro cui tutto quanto si inscrive. Certo è impossibile che tale bene comune culturalmente creato venga distrutto dall’uso, ma lo si può degradare, banalizzare con l’abuso. Le strade che si intasano di traffico rendono questo particolare spazio pubblico quasi inutilizzabile anche per gli stessi automobilisti (figuriamoci per i pedoni o i manifestanti), sino a far imporre una tassa di accesso sulla congestione per cercare di arginarne l’uso e migliorarne l’efficienza. Un tipo di strada del genere non è un bene comune. Prima dell’avvento dell’automobile, le strade spesso lo erano un bene comune, - un apprezzato luogo di socialità, uno spazio di gioco per ragazzi (ho una certa età e mi ricordo ancora che ci si giocava sempre). Ma questo tipo di uso comune è finito, trasformandola in spazio pubblico dominato dall’automobile (spingendo tante città a cercare un recupero di ambiti “più civili” come erano in passato quelli comuni, realizzando zone pedonali, caffè all’aperto, piste ciclabili, i cosiddetti parchi tascabili, spazi da gioco e simili). Ma tutti questi tentativi di ricostruire beni comuni urbani sono fin troppo facilmente sfruttabili, e anzi spesso vengono realizzati esattamente con questo scopo. I parchi urbani finiscono per aumentare il valore e i prezzi delle case circostanti (sempre che quel verde sia mantenuto, e pattugliato per tener lontano teppistelli e spacciatori). Il nuovo progetto della High Line a New York ha avuto un impatto enorme sui valori immobiliari delle proprietà residenziali, impedendo in tal modo la presenza di case economiche alla portata della maggioranza dei cittadini, con l’impennarsi degli affitti. Creare questo genere di spazi pubblici anziché aumentarlo fa diminuire il potenziale del commoning, salvo che per i ricchi.

Il vero problema qui, come nella favoletta morale di Hardin, non è il bene comune in sé, ma il fallimento dei diritti di proprietà individualizzati nel realizzare interessi comuni, come ci si potrebbe attendere. Perché non ci concentriamo, dunque, sulla questione della proprietà privata del bestiame e del comportamento tendente alla massima utilità individuale, anziché sul vero problema che è il pascolo comune? La giustificazione dei diritti della proprietà privata nella teoria liberale, dopo tutto, è che essi servirebbero per massimizzare il bene comune quando socialmente integrata attraverso istituzioni di libero e giusto scambio di mercato. Un commonwealth (dice Hobbes) si costruisce inquadrando interessi privati in concorrenza entro una cornice di forte potere dello stato. Questa opinione, sviluppata da altri teorici liberali come John Locke e Adam Smith, a tutt’oggi continua ad essere predicata. Ai nostri giorni c’è naturalmente il trucco di sottovalutare la necessità di un intervento di uno stato forte, mente il realtà lo si usa, e a volte in modo brutale.

La soluzione al problema della povertà globale, come ci continua ad assicurare la Banca Mondiale (fortemente condizionata dalle teorie di de Soto), è il diritto alla proprietà privata per tutti gli abitanti dello slum e l’accesso alla micro-finanza (che però ha i tassi più elevati al mondo e talora spinge al suicidio molti braccianti schiavi del debito). Ma il mito imperversa: basta che emerga l’istinto imprenditoriale che dovrebbe essere insito in tutti, liberato come una forza della natura, ed ecco infranta la povertà cronica, e realizzato il benessere comune. Si tratta a ben vedere del medesimo argomento a favore delle enclosures storiche britanniche dal tardo medioevo in poi. E non era del tutto sbagliato.

Secondo Locke, la proprietà individuale è un diritto naturale che sorge nel momento in cui si crea valore unendo il lavoro alla terra. Il frutto di questo lavoro appartiene a quell’individuo, e solo a lui. È l’essenza della teoria del valore del lavoro secondo Locke. Gli scambi di mercato socializzano quel diritto, quando ciascun individuo recupera il valore creato scambiandolo con un valore equivalente creato da un altro. In effetti, gli individui conservano, accrescono, e socializzano il loro diritto alla proprietà privata creando valore e scambiandolo in un mercato supposto libero e corretto. È così, dice Adam Smith, che si costruiscono la ricchezza delle nazioni e il bene comune. Non aveva tutti i torti.

Ma si presuppone però che i mercati siano liberi e corretti, e nell’economia politica classica si assume che lo stato intervenga perché ciò si realizzi (almeno lo consiglia Adam Smith agli uomini di stato). Ma la teoria di Locke ha un corollario tremendo: chi non produce valore non ha diritto alla proprietà. L’esproprio delle popolazioni indigene del Nord America da parte dei coloni “produttivi” si giustificava proprio perché le popolazioni indigene non producevano valore.

Come si confronta Marx con tutto questo? Marx accetta la narrazione di Locke nei primi capitoli del Capitale (anche se lo fa con una certa ironia, ad esempio usando mito di Robinson Crusoe nella riflessione politico-economica, nel quale un individuo scaraventato in uno stato di natura si comporta da perfetto libero imprenditore britannico). Però quando Marx affronta il modo in cui la forza lavoro si trasforma in merce comprata e venduta su un giusto libero mercato, possiamo vedere smascherata la finzione di Locke, che ci appare per quello che è in realtà: un sistema fondato sulla parità nello scambio di valore produce un surplus di valore per il capitalista che possiede i mezzi di produzione attraverso lo sfruttamento del lavoro vivo nella produzione (non nel mercato, dove possono prevalere i diritti borghesi e costituzionali).

La formulazione di Locke viene ancor più drasticamente confutata quando Marx affronta la questione del lavoro collettivo. In un mondo in cui i singoli produttori artigiani che controllano i propri mezzi di produzione potessero scambiare liberamente entro mercati relativamente liberi, la finzione lockiana potrebbe anche aver senso. Ma con l’ascesa del sistema della fabbrica, a partire dalla fine del diciottesimo secolo, osserva Marx, le formulazioni teoriche di Locke sono diventate superflue (mentre non lo erano affatto in precedenza). Nella fabbrica, il lavoro è organizzato collettivamente. Se esiste qualche diritto alla proprietà che deriva da questa forma di organizzazione del lavoro, dovrebbe sicuramente essere collettivo o associato, non di tipo individuale. La definizione di lavoro che produce valore, alla base della teoria di Locke sulla proprietà privata, non vale più per l’individuo, ma si sposta verso l’operaio collettivo. Il comunismo dovrebbe nascere da “una associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione posseduti in comune spendendo coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-Iavoro sociale”. Marx non auspica la proprietà statale, ma qualche forma di proprietà affidata all’operaio collettivo che produce per il bene comune.

Il modo in cui questa forma di proprietà può attuarsi è definito ribaltando il ragionamento di Locke sulla produzione di valore. Supponiamo, argomenta Marx, che un capitalista inizi a produrre con un capitale di 1.000 dollari e che nel primo anno riesca a guadagnare un surplus di 200 dollari grazie a lavoro e terra, usando poi quel surplus per consumi personali. Allora, dopo cinque anni, quei mille dollari dovrebbero tornare ai lavoratori collettivamente, perché sono loro che hanno unito il proprio lavoro alla terra. Il capitalista ha invece consumato tutta la ricchezza. Secondo questa logica i capitalisti si meritano di perdere ogni diritto alla proprietà, esattamente come accaduto alle popolazioni indigene del Nord America, poiché non hanno prodotto valore.

E’ un’idea che parrebbe del tutto stravagante, ma che è alla base del piano svedese Meidner proposto a fine anni ’60. I proventi di una tassa sui profitti delle imprese, in cambio di un contenimento dei salari concordato coi sindacati, dovevano essere destinati a un fondo controllato dai lavoratori che potranno investirli ed eventualmente rilevare la stessa impresa, prendendone il controllo in quanto lavoratori associati. Il capitale si è opposto a questa idea con ogni forza, impedendone l’applicazione. Ma sarebbe un’idea da riconsiderare. La conclusione più importante è che il lavoro collettivo che oggi produce valore deve produrre diritti di proprietà collettivi, e non individuali. Il valore – il tempo di lavoro socialmente necessario – è il common capitalista, ed è rappresentato dal denaro, equivalente universale di misurazione della ricchezza collettiva. Pertanto, il common non è qualcosa che esisteva nel passato e che è andato perduto, ma qualcosa che viene continuamente prodotto, proprio come i beni comuni urbani. Il problema è che ne viene altrettanto continuamente sbarrato l’accesso, e che se ne appropria il capitale nella sua forma mercificata e monetizzata, nonostante derivi da un lavoro collettivo.

Nei contesti urbani il metodo principale di appropriazione è attraverso la rendita da terreni e immobili. Un comitato di cittadini in lotta per salvaguardare la composizione etnica nel proprio quartiere opponendosi a processi di gentrification a volte scopre all’improvviso quanto crescano prezzi delle case (e le tasse locali) grazie all’azione dei promotori che ne sottolineano esattamente i “caratteri tipici” multiculturali, di vivacità delle strade, di varietà. Alla fine di questa azione distruttiva del mercato, non solo gli abitanti originali vengono espropriati del bene comune da essi creato (sfrattandoli con affitti troppo elevati e imposte troppo cresciute), ma lo stesso bene comune appare ormai imbastardito al punto da risultare irriconoscibile.

Il recupero di quartieri attraverso la gentrification nell’area di Baltimora Sud ha del tutto cancellato la vita di strada, la gente seduta sui gradini nelle sere d’estate a chiacchierare coi vicini, sostituiti oggi da case blindate antifurto con aria condizionata, le Bmw parcheggiate davanti, il solarium sul tetto, ma con le strade spopolate. La rivitalizzazione, secondo molta opinione locale, è stata in realtà una devitalizzazione. Ed è il destino di tanti altri luoghi, come per Christiania a Copenhagen, per la zona di St. Pauli a Amburgo, o di Williamsburg e DUMBO a New York, come già successo nella stessa città con la distruzione di SoHo.

Questo è un racconto molto più convincente per spiegare la vera tragedia dei beni comuni urbani della nostra epoca. Chi crea una vita quotidiana di quartiere interessante e stimolante la deve cedere per forza alle pratiche predatorie di immobiliaristi, finanzieri, consumatori agiati privi di qualunque immaginazione sociale urbana. Migliori le qualità dello spazio comune costruito da un gruppo sociale, più alta la probabilità che venga depredato e appropriato da parte di chi è interessato ai massimi profitti individuali.

Ma c’è un ulteriore aspetto analitico che vale la pena di sottolineare. Il lavoro collettivo considerato da Marx risultava in gran parte confinato dentro la fabbrica. Cosa accade se ampliamo il concetto sino ad arrivare, come suggeriscono Hardt e Negri, alla metropoli considerata in quanto grande common prodotto dal lavoro collettivo dentro la città e per la città? Certamente il diritto a usare di quel bene comune sarà di chi ha partecipato alla sua produzione. È questa naturalmente la base della rivendicazione al diritto alla città da parte del lavoro collettivo che l’ha prodotta. La lotta per il diritto alla città avviene contro il potere del capitale che spietatamente si nutre della rendita estratta dalla vita comune prodotta da altri. Tutto questo ci ricorda come il vero problema stia nel carattere privato del diritto alla proprietà, e nel potere che tale diritto conferisce non solo ad appropriarsi del lavoro, ma anche del prodotto collettivo di altri. Detto in altre parole, il problema non sta nel common in sé, ma nei rapporti fra chi lo produce e lo acquisisce alle varie scale, e chi se ne appropria per vantaggio privato. Gran parte della corruzione che caratterizza le politiche urbane deriva dai modi di allocazione degli investimenti pubblici per produrre qualcosa che sembrerebbe un bene comune, ma produce invece vantaggi per i proprietari privilegiati. La distinzione fra beni pubblici urbani e beni urbani comuni è al tempo stesso fluida quanto pericolosamente porosa. Quanto spesso accade che progetti di trasformazione ampiamente sussidiati dallo stato nel nome dell’interesse comune abbiano poi come beneficiari reali pochi proprietari di terreni, finanzieri e developer?

Chiediamoci quindi in che modo i beni comuni urbani vengono prodotti, organizzati, usati e appropriati a scala metropolitana. È sufficientemente chiaro come l’atto del commoning potrebbe operare al livello di quartiere. Esso comporta un insieme di iniziative private individuali che organizzano e catturano esternalità sottraendo al tempo stesso al mercato alcuni aspetti dell’ambiente che si costruisce. La amministrazione locale viene coinvolta per le norme, gli standard e gli investimenti pubblici, insieme alle associazioni più o meno formalizzate di quartiere (ad esempio, un’associazione di cittadini che può avere o non avere connotati di militanza politica, a seconda delle circostanze). In molti casi strategie territoriali e limitazioni all’accesso nel milieu urbano possono diventare veicoli di affermazione della politica di sinistra. I dirigenti dei gruppi di lavoratori precari e a basso reddito di Baltimora hanno dichiarato l’intera area dell’Inner Harbor “zona dei diritti umani” – una sorta di bene comune – all’interno della quale ogni lavoratore dovrebbe ricevere un salario sufficiente a sopravvivere. A El Alto, la locale Federation of Neighborhood Associations è stata uno degli elementi portanti delle rivolte nel 2003 e 2005, quando l’intera città si è mobilitata collettivamente contro le forme dominanti del potere politico. L’atto della enclosure quindi è strumento politico temporaneo per perseguire un fine comune.

L’esito generale descritto da Marx è ancora valido, comunque: il capitale, spinto dalle leggi coercitive della concorrenza a massimizzare l’utilità (profittabilità) – così come gli allevatori di bestiame di Hardin – “è diventato in grado, non solo di derubare l’operaio, ma anche la terra. La fertilizzazione del suolo è un progresso momentaneo, perché rovina le fonti più durature di questa fertilità. Più un paese si industrializza a grande scala, come negli Stati Uniti, più questo processo di distruzione sarà veloce. La produzione capitalistica, dunque, sviluppa le tecniche e il grado di combinazione del processo sociale di produzione, mentre allo stesso tempo mina le fonti originali di tutta la ricchezza — il suolo e l’operaio.”

L’urbanizzazione capitalistica tende in modo perpetuo a distruggere la città in quanto bene comune sociale, politico, abitabile.

Questa “tragedia” è simile a quella che ci descrive Hardin, ma nasce da una logica del tutto diversa. Lasciata priva di regole, l’accumulazione capitalistica individuale minaccia costantemente di distruggere le due risorse di proprietà comune che sostengono ogni forme di produzione: il lavoratore e la terra. Ma la terra che oggi abitiamo è un prodotto del lavoro collettivo dell’uomo. L’urbanizzazione è la produzione continua di un bene comune urbano (anche nella sua forma ombra di spazi pubblici e beni pubblici) e la sua perpetua appropriazione e distruzione da parte di interessi privati. E con l’accumulazione di capitale che avviene a un tasso di crescita composto (di solito a un minimo del 3% considerato soddisfacente), nello stesso modo cresce di intensità nel tempo la duplice minaccia all’ambiente (sia “naturale” che costruito) e al lavoro. Basta guardare al relitto di Detroit per avere un’idea di quanto possa essere devastante questo processo.

Ciò che è davvero interessante nell’idea di bene comune urbano è che propone tutte le contraddizioni politiche dei common in forma altamente concentrata. Consideriamo ad esempio la questione della scala entro cui ci spostiamo passando dalle organizzazioni politiche locali e dai quartieri alla regione metropolitana nel suo insieme. Tradizionalmente, i problemi dei beni comuni alla dimensione metropolitana vengono affrontati attraverso gli strumenti della pianificazione urbana e territoriale, riconoscendo il fatto che le risorse comuni necessarie ad un’esistenza efficiente delle popolazioni urbane, dall’acqua, ai trasporti, alla gestione dei rifiuti, agli spazi aperti per il tempo libero, devono essere pensate a questa scala. Ma quando si tratta di tenere assieme tutti questi aspetti, ecco che le analisi della sinistra diventano vaghe, indicando speranzose qualche magica convergenza di azioni locali che diventeranno efficaci alla dimensione regionale o globale, oppure sottolineando quanto sia importante questo problema prima di tornare alla scala – in genere micro e locale – in cui ci si sente più a proprio agio.

Possiamo imparare molto dalla recente vicenda delle riflessioni negli ambienti più convenzionali a proposito dei beni comuni. Ad esempio la Ostrom, mentre si ferma nella sua lezione da Premio Nobel sui casi di piccola dimensione, cerca rifugio nel sottotitolo “Governance policentrica dei sistemi economici complessi” per indicare come esistano alcune soluzioni ai problemi dei beni comuni passando attraverso varie scale. In realtà, non fa altro che riporre ogni speranza nell’idea che “quando una risorsa comune è strettamente legata a un più ampio sistema ecologico-sociale, le attività di governance si organizzano su livelli multipli per fasi successive”, ma senza ricorrere, ribadisce, ad alcuna struttura gerarchica monocentrica.

Il problema cruciale in questo caso è capire come possa funzionare un sistema di governance policentrico (o qualcosa di analogo, come la confederazione delle municipalità libertarie di Murray), verificando se non nasconda invece qualcos’altro di molto diverso. Questo interrogativo assilla non solo le argomentazioni della Ostrom, ma una vasta schiera di proposte emerse dal pensiero della sinistra sul problema dei beni comuni. Per questo motivo, è molto importante chiarire la critica.

Nella relazione preparata per un convegno sul Cambiamento Climatico Globale, la Ostrom ha ulteriormente riflettuto sulla natura del tema, appoggiandosi (cosa che ci fa molto comodo) sugli esiti di una analisi di lungo termine a proposito della distribuzione di beni pubblici nelle regioni municipali. Si ritiene da molto tempo che concentrare l’erogazione dei servizi pubblici in un governo a scala metropolitana, contrapposto all’organizzazione per numerose e apparentemente caotiche amministrazioni locali, migliori efficacia ed efficienza. Ma le ricerche dimostrano in modo convincente che non è così. Le ragioni alla fine si riducono a quanto sia più semplice organizzare e attuare un’azione collettiva e cooperativa con una fortepartecipazione degli abitanti in circoscrizioni più piccole, nonché al fatto che la partecipazione cala rapidamente passando a dimensioni amministrative più ampie.

La Ostrom conclude citando Andrew Sancton secondo cui “le municipalità sono molto più che semplici erogatrici di servizi. Sono meccanismi democratici attraverso i quali comunità a base territoriale si autogovernano localmente … chi vuole obbligare le municipalità a fondersi l’una con l’altra invariabilmente afferma di agire allo scopo di renderle più forti. Un approccio simile – del tutto benintenzionato – intacca le fondamenta della nostra democrazia liberale, perché indebolisce l’idea secondo la quale ci possono essere forme di autogoverno al di fuori delle istituzioni del governo centrale”.

Oltre all’efficacia ed efficienza del mercato, esiste anche un motivo non mercificabile per passare a una dimensione minore. “Mentre entità più vaste si sono inserite in un processo di efficace governo delle regioni metropolitane – conclude la Ostrom – sono componenti necessarie anche quelle di scala media e piccola”. Il ruolo costruttivo di tali entità minori “deve essere attentamente riconsiderato”. Sorge allora il problema di come strutturare i rapporti fra queste piccole entità. La risposta, afferma Vincent Ostrom, è “un ordine policentrico” nel quale “molti diversi elementi sono in grado di adeguarsi mutualmente ordinando i rapporti reciproci in un sistema di regole dove ciascun elemento agisce con indipendenza”.

Cosa c’è di sbagliato in questa immagine? L’intera questione ha le sue radici nella cosiddetta “ipotesi di Tiebout”. Ciò che Tiebout ha proposto è una metropoli frammentata nella quale numerose giurisdizioni offrirebbero ciascuna un regime fiscale locale particolare, e un insieme particolare di beni pubblici ai potenziali residenti, che “voterebbero coi piedi” scegliendo quella specifica composizione di tasse e servizi che meglio si adatta ai loro bisogni e preferenze. A un primo sguardo sembra una proposta molto interessante. Il problema è che più si è ricchi più risulta facile votare coi piedi, pagando un prezzo di ingresso in termini di costi dei terreni e degli immobili. Una migliore istruzione pubblica si può offrire con valori e tasse sugli immobili più elevate, ma ai poveri viene sbarrato l’accesso alle scuole migliori, e li si condanna ad abitare in circoscrizioni povere con cattive scuole. Attraverso la governance policentrica si riproducono privilegi e potere di classe, inserendosi perfettamente nelle strategie di riproduzione sociale neoliberiste.

Insieme a molte altre più radicali proposte di autonomia decentrata, anche quella della Ostrom rischia di cadere esattamente in questa trappola. Le politiche neoliberiste in realtà favoriscono sia il decentramento amministrativo che la più ampia autonomia locale. Se da un lato ciò apre uno spazio alle forze radicali per piantare più facilmente i semi di una agenda più rivoluzionaria, la conquista controrivoluzionaria di Cochabamba, da parte delle forze della reazione nel 2007 nel nome dell’autonomia (sino a quando non furono scacciate dalla ribellione popolare), indica come adottare strategicamente localismo e autonomia possa essere davvero un problema per la sinistra. Negli Stati Uniti, i dirigenti della “Cleveland initiative” celebrati come un esempio di comunitarismo autonomista all’opera, hanno finito per sostenere l’elezione a governatore di un repubblicano di estrema destra e antisindacale.

Decentramento e autonomia sono i veicoli principali per produrre maggiori diseguaglianze, attraverso il neo-liberismo. Al punto che nello Stato di New York l’offerta diseguale di servizi di istruzione pubblica nelle varie circoscrizioni che hanno risorse finanziarie radicalmente diverse è stata giudicata incostituzionale, e lo stato, per sentenza del tribunale, dovrà garantire una maggiore eguaglianza del sistema di istruzione. Non lo si è comunque fatto, e oggi si sfrutta l’emergenza fiscale per rinviare ulteriormente. Ma si noti bene come sia la posizione gerarchica sovradeterminata del tribunale statale a consentire di deliberare sull’eguaglianza di trattamento come diritto costituzionale. La Ostrom non lo esclude questo ruolo delle regole sovraordinate. I rapporti fra circoscrizioni indipendenti e autonome devono in qualche modo essere fissati e regolamentati (Vincent Ostrom in questo caso parla di “regole consolidate”). Ma restiamo comunque nel buio più totale su come queste regole sovraordinate possano essere stabilite, da chi, e su come possano essere sottoposte a un controllo democratico. Per la regione metropolitana nel suo insieme alcune di tali regole (o pratiche correnti) sono sia necessarie che essenziali. Inoltre, le regole non devono solo essere stabilite ed enunciate. Vanno anche applicate con un controllo attivo (come accade nel caso di qualsiasi bene comune). Per trovare un esempio catastrofico di tipo “policentrico” basta guardare all’Eurozona per comprendere cosa può non funzionare: tutti i paesi membri dovrebbero rispettare le regole contenendo i deficit di bilancio, ma quando la gran parte non le ha rispettate non si è trovato il modo di obbligarli a farlo e ad affrontare lo squilibrio fiscale emerso fra gli stati. Obbligare gli stati a rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di carbonio pare un altro obiettivo senza speranza. La risposta alla classica domanda “Chi mette il “bene comune” nel Mercato Comune?” possiamo considerarla un riassunto di tutto quanto non funziona nelle forme gerarchiche di governance, ma non per questo appare particolarmente affascinante l’immagine alternativa di migliaia e migliaia di municipalità autonome che difendono strenuamente questa loro autonomia, il loro territorio locale, negoziando senza fine (e senza dubbio con acrimonia) la propria posizione nel quadro europeo di divisione del lavoro.

Come può funzionare un decentramento radicale – che è certamente un obiettivo valido – senza la costruzione di qualche genere di autorità gerarchica superiore? È semplicemente naïf credere che il policentrismo, o qualunque altro modello di decentramento, possa funzionare senza forti limiti gerarchici e strumenti di imposizione attiva. Gran parte della sinistra radicale – specie quella di convincimenti anarchici e autonomisti – non ha risposte a questo problema. L’intervento statale (per non parlare dei controlli statali e del potere di costrizione) appare inaccettabile, e in genere si respinge la legittimità del costituzionalismo borghese. C’è invece una vaga e ingenua speranza che i gruppi sociali che hanno organizzato in modo soddisfacente il proprio rapporto coi common locali, faranno la cosa giusta o potranno convergere verso pratiche inter-gruppo soddisfacenti attraverso la negoziazione e l’interazione. Perché questo accada, i gruppi locali non dovrebbero essere disturbati da qualsiasi esternalità prodotta dalle loro azioni sul resto del mondo, e dovrebbero rinunciare a qualunque tipo di vantaggio accumulato, democraticamente distribuito all’interno del gruppo sociale, per dare aiuto o incremento di benessere da parte di altri gruppi vicini (figuriamoci quelli distanti) che, in seguito a decisioni sbagliate o a cattiva sorte, sono scivolati in una condizione di fame e miseria. La storia non ci fornisce molti esempi del fatto che un tipo di redistribuzione del genere possa funzionare, salvo casi sporadici o eccezionali. Non c’è dunque nulla in grado di prevenire un incremento della diseguaglianza sociale fra le varie comunità. Il che si adatta sin troppo bene al progetto neoliberista non solo di proteggere, ma anche di accordare ulteriori privilegi alle strutture del potere di classe (come appare evidente nella disfatta del sistema di finanziamento delle scuole nello Stato di New York).

Murray Bookchin è fortemente consapevole di questi pericoli: “un programma di municipalismo libertario può diventare facilmente vacuo, nei casi migliori, o in quelli peggiori essere usato per obiettivi miseramente localistici”, scrive. La sua risposta è il “confederalismo”. Mentre le assemblee municipali attraverso la democrazia diretta formano la base deliberante, lo stato viene sostituito “da una rete confederata di assemblee municipali; l’economia delle grandi imprese viene ridotta a un’autentica economia politica nella quale le municipalità, interagendo economicamente e politicamente l’una con l’altra, risolvono i loro problemi materiali come rappresentanti dei cittadini nelle libere assemblee”. Queste assemblee confederali saranno dedicate alla amministrazione e alla governance delle politiche deliberate nelle assemblee municipali, e i delegati potranno essere consultati da queste ultime in qualunque momento.

I consigli confederali “diventano lo strumento di collegamento di villaggi, paesi, quartieri, città, in una rete confederata. In questo modo il potere emana dalla base anziché dal vertice, e nelle varie confederazioni il flusso di potere dal basso diminuisce man mano gli obiettivi del consiglio federale si allargano territorialmente dal locale, al regionale, e da qui verso dimensioni sempre più ampie”.

La proposta di Bookchin è di gran lunga la più raffinata e radicale fra quelle che si confrontano con la creazione e l’uso collettivo dei beni comuni alle varie scale, e vale la pena di elaborarla in una agenda radicale anticapitalistica. Si tratta di un problema ancor più urgente a causa del violento attacco neoliberista contro la realizzazione pubblica di beni sociali negli ultimi trent’anni. Esso ha corrisposto all’attacco a tutto campo al potere e ai diritti del lavoro organizzato sferrato a partire dagli anni ’70 (dal Cile alla Gran Bretagna), ma si è focalizzato direttamente sui costi di riproduzione sociale del lavoro. Il capitale preferisce da sempre considerare come una esternalità i costi di riproduzione sociale – un costo sul quale non vi è alcuna responsabilità di mercato – ma il movimento socialdemocratico e la concreta minaccia di un’alternativa comunista lo hanno obbligato a internalizzare alcuni di questi costi, insieme ad alcune esternalità attribuibili al degrado ambientale, fino dagli anni ’70 nel mondo capitalistico avanzato.

A partire dagli anni 80, l’obiettivo delle politiche neoliberiste è stato quello di scaricare questi costi sui common globali della riproduzione sociale e dell’ambiente, creando così common negativi con i quali oggi è costretta a convivere tutta la popolazione. I problemi della riproduzione sociale, di genere, e dei common sono interconnessi.

La risposta del capitale alle condizioni di crisi globale dopo il 2007 è stata di imporre un drastico programma di austerity globale che riduce l’offerta di beni pubblici rivolti alla riproduzione sociale e al miglioramento ambientale, in entrambi i casi intaccando la qualità dei beni comuni. La crisi è anche stata usata per facilitare attività ancor più predatorie di appropriazione privata dei beni comuni, in quanto precondizione necessaria alla ripresa della crescita. L’uso del diritto di esproprio, ad esempio, per acquisire spazi per scopi privati (contrario al concetto di “pubblica utilità” per cui sono state originariamente intese queste leggi) è un esempio classico di ridefinizione degli obiettivi pubblici nel quadro di un sostegno statale allo sviluppo privato.

Dalla California alla Grecia, la crisi produce perdita di valore dei patrimoni urbani, dei diritti, dell’accessibilità per la più parte della popolazione, insieme all’accrescersi del potere del capitalismo predatorio su chi ha redditi più bassi ed è già marginalizzato. Si è trattato in breve di un attacco su tutti i fronti ai beni comuni riproduttivi e ambientali. C’è una popolazione globale che vive con meno di due dollari al giorno e che viene coinvolta nella micro finanza “la più subprime fra tutte le forme di prestito subprime”, per prelevare ricchezza (esattamente come accaduto col mercato della casa americano coi prestiti predatori subprime che hanno portato ai pignoramenti) e usarla per indorare le grandi case suburbane dei ricchi. Altrettanto minacciati i beni comuni ambientali, e le risposte che si propongono in questo campo (dal commercio delle emissioni alle nuove tecnologie ambientali) si limitano alla ricerca di un’uscita dall’impasse usando proprio i medesimi strumenti di accumulazione del capitale e gli scambi sui mercati speculativi che ci hanno condotto nelle attuali difficoltà.

Non sorprende, quindi, che non solo i poveri esistano ancora, ma che nel tempo il loro numero cresca anziché diminuire. Mentre l’India ha conseguito un più che rispettabile record di crescita in questo periodo di crisi, ad esempio, il suo numero di miliardari negli ultimi tre anni è balzato da 26 a 69, ma quello degli abitanti nello slum in un decennio è quasi raddoppiato. Gli effetti urbani sono sconvolgenti, coi condomini di lusso ad aria condizionata che spuntano nel mezzo del più abbandonato squallore metropolitano, dentro cui una popolazione impoverita lotta con tutte le proprie forze per conquistarsi qualche tipo di vita sopportabile.

Smantellare tutti i sistemi di regolamentazione e controllo che provavano, per quanto in modo non ancora adeguato, ad arginare gli istinti predatori dell’accumulazione, ha condotto a una logica sfrenata di accumulazione e speculazione finanziaria da aprés moi le deluge, oggi divenuta davvero un diluvio di distruzione creativa, in cui si inserisce appieno l’urbanizzazione capitalista. Il danno è contenibile e reversibile solo socializzando il surplus di produzione e distribuzione, e istituendo un nuovo bene comune di benessere accessibile a tutti.

È in questo contesto che la ripresa delle teorie e del dibattito sui beni comuni assume nuovi significati. Se i beni pubblici erogati dallo stato diminuiscono, o diventano semplici veicoli di accumulazione privata (come sta accadendo all’istruzione), e se lo stato via via si ritrae dal metterli a disposizione, allora c’è solo una risposta possibile, ed è che la popolazione si auto organizzi per procurarsi i propri beni comuni ( come è successo in Bolivia). Il riconoscimento politico del fatto che i beni comuni possono essere prodotti, protetti, e usati per un vantaggio sociale diventa così un quadro di riferimento per resistere al potere del capitale e ripensare le politiche di una transizione anticapitalistica.

Ma quello che conta di più qui non è la particolare composizione degli assetti istituzionali – un processo strumentale di enclosure in qualche caso, l’ampliamento delle forme di proprietà collettiva e comune in altri – ma che l’effetto dell’azione politica affronti la spirale del degrado del lavoro e delle risorse territoriali (ivi comprese quelle insite nella “natura seconda” che è l’ambiente costruito) oggi nelle mani del capitale. In tale processo, quella che Elinor Ostrom inizia a individuare come “ricca composizione di strumentalità” – non solo pubblica o privata, ma anche collettiva e associativa, stratificata, gerarchica e orizzontale, esclusiva e aperta – potrà giocare un ruolo chiave nella ricerca dei modi per organizzare produzione, distribuzione, scambio e consumo, così da soddisfare desideri e bisogni degli uomini su una base anticapitalista. Questa ricca composizione non è certo cosa data, ma deve essere costruita.

Il punto fondamentale è di non rispondere alle esigenze dell’accumulazione per l’accumulazione, per conto della classe che si appropria della ricchezza comune contro quella che la produce. Il ritorno dei beni comuni come problema politico si deve integrare pienamente nella lotta anticapitalistica in modi molto specifici. Purtroppo l’idea del beni comuni (così come del diritto alla città) può essere altrettanto facilmente fatta propria dal potere politico attuale, così come avviene con il valore oggi estratto dal bene comune urbano da parte degli interessi immobiliari. Quindi, occorre cambiare tutto questo trovando modi creativi per usare il potere del lavoro collettivo per il bene comune, mantenendo il valore prodotto sotto il controllo dei lavoratori che l’hanno prodotto.

Ciò richiede un attacco politico su due fronti, attraverso il quale da un lato lo stato venga obbligato a fornire sempre di più in termini di beni pubblici a scopi pubblici, e insieme l’autorganizzazione di intere popolazioni che si appropriano, usano, incrementano questi beni accrescendone e articolandone le qualità di beni comuni non mercificati, riproduttivi e ambientali. La produzione, protezione e uso di beni pubblici e gli urban commons in città come Mumbai, San Paolo, Johannesburg, Los Angeles, Shanghai e Tokyo diventa una questione centrale per i movimenti sociali democratici. E sarà necessaria molta più creatività e raffinatezza di quante ce ne siano oggi in circolazione nelle teorie radicali egemoni sui beni comuni, specie perchè questi beni vengono continuamente creati e appropriati attraverso la forma capitalistica di urbanizzazione.

Il ruolo dei beni comuni nella formazione della città e nelle politiche urbane inizia solo ora ad essere riconosciuto e studiato, sia dal punto di vista teorico che nelle pratiche radicali. C’è molto lavoro da fare, ma ci sono anche abbondanti segnali nei movimenti sociali urbani di tutto il mondo che ci sono molte persone e una massa critica di energia politica per farlo.

Il manifesto, 4 maggio 2013. Con postilla (m.b.)

Ricreare un futuro al paese attraverso la riconversione del patrimonio edilizio. Lo stop al cemento selvaggio e al consumo del suolo. La difesa di quanto resta di un territorio violentato da decenni di continue aggressioni. Il recupero del patrimonio edilizio esistente, e la sua valorizzazione attraverso meccanismi di riconversione. Anche sociale. Su queste basi il Forum nazionale «Salviamo il paesaggio» si ritrova oggi a Bologna per la sue terza assemblea nazionale. Seguendo un cammino per tanti versi parallelo ad altre realtà, associative e di base, impegnate sugli stessi temi. A partire dalla Rete dei comitati per la difesa del territorio di Alberto Asor Rosa, particolarmente attiva in Toscana. Fino allo stesso Wwf, che da qualche mese ha avviato la campagna di sensibilizzazione «Riutilizziamo l'Italia».

Anche la scelta del luogo dove ritrovarsi appare indicativa. L'assemblea di Salviamo il paesaggio nel capoluogo emiliano si svolge al «Senza Filtro» di via Stalingrado 59, un esempio pratico di riutilizzo del patrimonio esistente: una fabbrica dismessa, trasformata in uno spazio sociale, e gestita da una associazione (Planimetrie culturali) che la mette a disposizione del quartiere Fiera o di altre realtà che ne fanno richiesta. Una riconversione riuscita, ancorché guidata dall'alto in una città che invece è chiusa alle richieste (Bartleby, Tsunami) degli spazi autogestiti.

Il segnale politico è comunque quello del riuso. Ed è un percorso non lontano da quello avviato a Pisa dal Progetto Rebeldìa con l'occupazione dell'ex Colorificio di via Montelungo. In quel progetto del «Municipio dei beni comuni» avversato dall'amministrazione cittadina perché autorganizzato dal basso. Mentre a Firenze i movimenti e i comitati che contestano la visione privatistica della giunta Renzi chiedono che il nuovo regolamento urbanistico consenta per le aree dismesse la destinazione ad uso culturale, sociale e sportivo. Con il centro sociale Next Emerson pronto a presentare una manifestazione di interesse sull'area ex industriale occupata da anni.

Oltre che di riconversione dell'esistente, la rete di Salviamo il paesaggio (911 realtà, 90 nazionali e 821 tra associazioni e comitati locali) si pone obiettivi più generali. Del resto fin dalla fondazione, nell'ottobre 2011 a Cassinetta di Lugagnano, il «Forum italiano dei movimenti per la terra e il paesaggio» si è connotato come movimento teso a salvare il territorio italiano dalla deregulation e dal cemento selvaggio. Tanto da contestare alla radice sia la «legge Obiettivo» con le sua procedure straordinarie in tema di grandi opere, che la legge «Sviluppo bis» con i suoi incentivi sempre per le grandi opere. All'ordine del giorno dell'assemblea odierna c'è quindi la prosecuzione della campagna nazionale per un censimento dello stock edilizio sfitto, vuoto o non utilizzato, in ogni comune della penisola. Poi una legge di iniziativa popolare dal titolo: «Salviamo il paesaggio». Infine una forma di pressione per migliorare il ddl «salva suoli agricoli» approvato dal governo Monti ma fermo in parlamento.

Nonostante l'appoggio di una ventina di neo parlamentari (soprattutto di Sel e M5S) che alla vigilia delle elezioni hanno sottoscritto una carta di intenti del Forum, il cammino non si presenta facile. Solo per fare un esempio, fino ad oggi la campagna per censire gli immobili sfitti, vuoti o non utilizzati ha visto interagire con il Forum solo 600 degli oltre 8.000 municipi italiani. «Ma noi andiamo comunque avanti - spiegano gli attivisti della rete - perché siamo convinti che le amministrazioni debbano ridefinire i loro strumenti urbanistici basandosi sulla valutazione del patrimonio edilizio esistente e non utilizzato».

Postilla
Al consumo di suolo abbiamo dedicato la prima edizione della Scuola di eddyburg, nel 2005. I suoi materiali sono raccolti nel libro No Sprawl, a cura de Maria Cristina Gibelli ed Edoardo Salzano, (Alinea 2006). Eddyburg ha partecipato alla nascita dell'associazione, nata dall'iniziativa di Domenico Finiguerra, allora sindaco di Cassinetta di Lugagnano e al suo avvio. All'assemblea di Bologna abbiamo inviato il seguente messaggio:

«Cari amici,
ci dispiace di non poter essere presenti alla riunione del 4 maggio.
Come sapete, Eddyburg ha sostenuto attivamente la costituzione e le iniziative di Salviamo il paesaggio. Intendiamo confermare il nostro appoggio, poichè crediamo con convinzione nella necessità di coordinamento e aggregazione dei i soggetti attivi nella difesa del territorio.
Per parte nostra, il contributo possibile a questo scopo consiste nel mettere in evidenza e diffondere, attraverso il sito, le riflessioni e le iniziative legate alla tutela del territorio, al contrasto ad ogni forma di rendita e speculazione edilizia e alla promozione di un modello di insediamento fondato sui diritti, delle persone e dell'ambiente, e non piegato al mero interesse economico.
Continueremo a farlo, se possibile rendendo ancora più evidente - nella pagina principale del sito - il legame con i siti dei movimenti amici, tra i quali c'è "Salviamo il paesaggio".
Vogliamo anche porre alla vostra attenzione un tema che ci sta particolarmente a cuore e sul quale riteniamo debba essere avviata una campagna di informazione e mobilitazione analoga a quella condotta contro il consumo di suolo. Nelle città sono presenti numerose aree dismesse, molte delle quali di proprietà pubblica: ospedali, carceri, depositi, stazioni, macelli, fiere e mercati. E diventano sempre più numerosi gli spazi inutilizzati e lasciati al degrado. La sottocultura dominante guarda a queste aree esclusivamente sotto l'aspetto patrimoniale. I gruppi di interesse le considerano come un terreno di caccia, dal quale trarre il massimo guadagno economico. Al contrario, noi riteniamo che siano le uniche risorse disponibili per rispondere ai bisogni, crescenti, dei cittadini, in termini di abitazioni economiche, luoghi di lavoro, servizi di interesse pubblico. La posta in gioco è molto alta: consegnare queste aree alla speculazione, potrebbe rivelarsi esiziale per le nostre città.

Salvare il paesaggio e salvare le città: questo dobbiamo fare, insieme.

Edoardo, Ilaria e Mauro»

Il manifesto, 25 aprile 2013

Non è sempre muro contro muro il rapporto fra istituzioni e movimenti. Perché può essere d'aiuto a entrambi. Da un lato per mostrare che le porte del palazzo non sono sbarrate. Dall'altro sintetizzando in modo organico le richieste dei cittadini autorganizzati. Certo succede solo in Toscana. Ma il rapporto avviato fra l'ente Regione e la Rete dei comitati per la difesa del territorio, guidata da Alberto Asor Rosa, è un segnale. Al pari della riflessione, positiva, della lista di cittadinanza fiorentina di Ornella De Zordo sulla nuova legge urbanistica regionale. Si può fare politica. E non contrapporre chiusura a chiusura.

L'incontro fra la giunta regionale di Enrico Rossi e la Rete dei comitati per la difesa del territorio è stato una novità assoluta. «Non enfatizziamo - ha osservato Asor Rosa - ma non ci sono precedenti. In Toscana come in altre regioni italiane». Visto anche il peso specifico della discussione: la «Piattaforma Toscana» discussa a febbraio nell'assemblea della Rete, che ha messo nero su bianco in dieci schede «le criticità più gravi e urgenti della pianificazione territoriale». In dettaglio vuol dire il Corridoio autostradale tirrenico; lo sfruttamento delle risorse geotermiche sull'Amiata e in Val di Cecina; quello del marmo sulle Apuane; il sotto-attraversamento dell'alta velocità ferroviaria nell'area fiorentina, e la pianificazione territoriale della sua Piana. Temi annosi ma sempre di stretta attualità, vista la continuità delle contestazioni all'operato delle amministrazioni pubbliche.

Riassume Asor Rosa: «I punti sui quali c'è maggiore convergenza sono il Corridoio tirrenico, con la scelta di procedere il più possibile sopra l'attuale tracciato dell'Aurelia. Poi le Apuane, dove ci è stato annunciato che è in preparazione un regolamento per ridurre la portata delle escavazioni. Anche sulla geotermia la giunta potrebbe adottare la nostra proposta di utilizzare tecnologie di minor impatto, la cosiddetta media entalpia, anche se resta da capire in quali tempi». Insomma ci sono alcuni risultati positivi.

Su altri fronti invece le distanza restano inalterate: «Soprattutto sul sotto-attraversamento dell'alta velocità ferroviaria. Noi siamo da sempre per la dismissione di un progetto che riteniamo sbagliato, inutile, costoso e invasivo. La giunta regionale invece vuole andare avanti. Da Enrico Rossi abbiamo comunque apprezzato l'apertura a esaminarne le ricadute su tutto il sistema di trasporti a Firenze e nell'intera Toscana, cosa che qualche anno fa sarebbe stata inverosimile». Distanti anche le posizioni sulla già congestionatissima Piana fiorentina, dove la Rete dei comitati si oppone nettamente alla nuova pista dell'aeroporto di Peretola e al nuovo inceneritore di Case Passerini. Ma è sul metodo che qualche passo avanti è stato fatto, con il riconoscimento dei comitati come soggetto politico, al pari delle parti sociali: «C'è l'impegno della Regione ad approvare un protocollo di concertazione - spiega Asor Rosa - che garantisca ai soggetti attivi sul territorio di entrare effettivamente nel processo di costruzione delle decisioni in materia urbanistica e di paesaggio».

Su questo tema specifico anche Ornella De Zordo con Perunaltracittà ha avviato una riflessione. Apprezzando, al pari della Rete dei comitati, la revisione della legge urbanistica regionale messa in cantiere dall'assessore Anna Marson. «Si tratta di un tentativo di rimettere ordine nei concetti di base del governo del territorio con principi di riferimento per tutti i livelli della pianificazione: sostenibilità, non riduzione delle risorse, e riduzione del consumo di suolo. Tutti definiti con chiarezza, rispetto alle precedenti, confuse normative».

il manifesto, 11 aprile 2013

La straordinaria e controversa esperienza del Black Power, la capacità di valorizzare la cooperazione sociale, creando nuove istituzioni; la potente irruzione del femminismo nero, i nodi irrisolti dei percorsi politici costruiti sul terreno delle identità, il tema spinoso della solidarietà e l'eredità di quell'esperienza nei movimenti contemporanei. Sono questi i temi affrontati da Robin Kelley, eclettico studioso e militante, figura di spicco del radicalismo nero in America che ha attraversato da protagonista diverse stagioni di attivismo politico, compresa l'esperienza di «Occupy». Kelley, con lo sguardo interno del militante, riafferma le peculiarità, a volte nascoste, di «Occupy», rintracciandone la «genealogia».

Anche se i media hanno insistito sulla presenza di giovani di classe media, iscritti al college, che soffrono la mobilità sociale traducendola in rabbia contro il mondo della finanza, Occupy ha visto, sostiene Kelley, una significava presenza di african american. Ma soprattutto è stato il prodotto di reti sociali sviluppatesi nei decenni precedenti intorno a organizzazioni multirazziali attive sul tema del lavoro, della povertà. Vanno quindi analizzati l'impatto politico e gli insegnamenti lasciati dal Black Power - di fatto smantellato dal «controspionaggio» del Fbi - che hanno influenzato e continuano a influenzare le successive generazioni di militanti. Non c'è però una linea diretta. L'unica connessione evidente con il Black Power è il Black Panther Party (che non è mai stata una formazione del potere nero, ma un'organizzazione socialista con una forte vocazione multinazionale) attraverso la «Rainbow Coalition», di cui fu artefice Fred Hampton a Chicago. Una «coalizione» tesa ad organizzare portoricani e altri lavoratori latinos, anche se al suo interno erano presenti anche molti bianchi, gran parte di origine asiatica. A Los Angeles, ad esempio, il «Labor Community Strategies Centre» ha tra i suoi fondatori un ragazzo della working class newyorchese, membro del «Congress Observation Equality», che dopo alcuni anni di prigione come militante dei «Weather Undergound» si è dedicato alla lotta multirazziale. Quando dilaga la protesta di Occupy, lo «Strategies Centre», che combatte le politiche razziste delle agenzie di trasporto, ma anche la criminalizzazione dei giovani blacks e latinos, è una delle più importanti strutture di mobilitazione, con circa trent'anni di esperienza alle sue spalle.

La presenza african american dentro Occupy è un tema controverso e ampiamente dibattuto... Qual è il suo punto di vista?

Il movimento Occupy a New York e Los Angeles non ha una critica radicale al razzismo. È per questo che non attrae molti afroamericani. Diverso è il caso di Okland: qui esiste una working class nera organizzata e sindacalizzata che fa la differenza. Non è un'eccezione isolata. Conosciamo anche un movimento parallelo a Occupy, guidato da african american: è «Occupy the Hood». Nato a Detroit, si è poi diffuso in tutto il paese, concentrandosi sul fatto che a neri e latinos, in misura esponenzialmente maggiore, viene pignorata la casa. Negli Usa, i mutui sono cresciuti in modo predatorio per l'intervento di agenzie di intermediazione che propongono di rinegoziare il debito, usando in una cornice razzista la necessità economica e i dati individuali. «Occupy the Hood» funziona a binari paralleli. Alla battaglia contro il pignoramento delle case si affianca quello contro la criminalizzazione degli african american.

La capacità di agire contemporaneamente su piani differenti è un punto di contatto con le pratiche del Black Panther Party...

Sul finire degli anni Sessanta, nel movimento afroamericano c'è stata una profonda discussione su quale fosse il vero luogo del processo organizzativo. Una parte lo individuava nel posto di lavoro, l'altra nella comunità nera; le due strategie sono state combinate. In particolare, sono state le università a rappresentare il punto di convergenza. Nel 1968, alla Columbia University, la protesta si è trasformata in una critica alle collaborazioni dell'ateneo con le agenzie militari, ai processi di gentrification avviati nella vicina Harlem, battendosi per l'istituzionalizzazione degli «ethnic studies» e per cambiare i curricula universitari. Oltre alla «riforma» delle università: l'altro obiettivo perseguito era il coinvolgimento di tutta la comunità dentro le mobilitazioni. Insomma, c'era la difesa della popolazione di Harlem, ma anche la volontà di coinvolgerla nella mobilitazione dentro e contro l'istituzione universitaria. Ad anni di distanza, la posta in gioco, per i neri, è ancora la fine di tutte le forme di oppressione.

Proprio intorno al tema dell'identità e al senso della politica si è prodotta una delle più radicali e produttive rotture dentro il Black Power, quella del femminismo nero...

Molte delle iniziali militanti femministe nere provengono dal «Black Power». Il loro punto di partenza era il conflitto verso chi le voleva tacitare, dentro e fuori la comunità nera, sulle loro critiche verso la politica di genere. Nello stesso tempo, hanno prodotto una critica del femminismo bianco, spesso indifferente verso il razzismo nella società americana. Detto questo, resta la modalità specifica con la quale hanno espresso un dissenso radicale rispetto l'oppressione patriarcale di classe, il razzismo e la sessualità. Era in gioco contemporaneamente la loro identità come donne, african american e in quanto destinatarie degli aiuti di Stato. Negli anni Novanta, la lotta contro la «Milion Man March» della Nation of Islam e le battaglie contro gli attacchi al welfare avevano come protagoniste donne nere. Anche sul tema dell'anti-imperialismo, le più lucide critiche afroamericane sono arrivate da Angela Davis, Gina Dent e Barbara Smith.

Un'altra delle preziose intuizioni del femminismo nero è stata la critica alla solidarietà, parola spesso usata per mascherare processi di vittimizzazione...

Si tratta di capire in che termini parliamo di solidarietà. Se è il rapporto tra un gruppo che rivendica un'identità per migliorare la propria posizione all'interno di gerarchie capitaliste e un altro che non ha alcun potere, non è solidarietà. I nativi americani, le donne nere, la classe operaia afroamericana hanno sempre spinto per politiche di solidarietà basate sulla demolizione dei regimi razziali, del patriarcato e del più complessivo stato di oppressione. I lavoratori bianchi negli Stati Uniti non sono stati in grado di comprendere che anche la loro emancipazione era legata alla distruzione del regime razziale. Non sono d'accordo, invece, con chi propone di superarare le politiche delle identità. La solidarietà dipende dall'identificazione con le lotte di altri soggetti. Per esempio negli anni Ottanta a Los Angeles, il «Sanctuary Movement» combatteva il sostegno del governo statunitense ai regimi dittatoriali in solidarietà con i rifugiati politici che scappavano dagli squadroni della morte in Salvador, Guatemala e altri paesi dell'America latina. Nessuno di noi aveva mai visto in faccia uno squadrone della morte, ma con un salto d'immaginazione abbiamo capito che quella era anche la nostra lotta. Oggi invece i processi politici sono basati sugli interessi. La nostra battaglia diventa allora comprendere come poter costruire solidarietà in una società in cui le identità sono imposte dall'alto e utilizzate per strutturare le forme di politica attorno ai gruppi di interesse.

Ma come si può sfuggire alla gabbia ideologica che il concetto di identità produce?

Negli Stati Uniti, i liberal bianchi hanno accusato donne, african american, disabili e poveri di mettere in discussione le conquiste degli anni Venti e Trenta del Novecento: l'argomento sbandierato era proprio la questione identitaria. Ma queste identità stanno dentro sistemi di «razzializzazione» e di autorità patriarcale che creano gerarchie di potere. Detto questo non ha mai creduto alle favole in base alle quali un giorno ti svegli e dici: «Sono orgoglioso di essere nero o di essere donna». Le identità devono essere parte di un processo dinamico in cui diventano risorsa. Per esempio, non c'è whiteness senza black o senza brown: l'abolizione del concetto di «bianchezza», dell'identità bianca del privilegio, è il primo passo verso una forma profondamente radicale di solidarietà.

Per restare in tema di identità, un'ultima domanda è sul ruolo di Obama all'interno della black community che continua a sostenerlo, benché siano ormai tramontate le speranze che molti afroamericani avevano riposto nel presidente....

Oggi in America il potere della politica spettacolo ha reso impossibile una critica di massa a Obama e soprattutto ha reso arduo discutere di razzismo. In tanti vogliono credere che il razzismo sia finito. Obama è però il presidente che ha deportato il maggior numero di lavoratori senza documenti, che ha intensificato gli attacchi di droni. Tra gli afroamericani è tuttavia diffuso la convinzione di «non criticare il nostro presidente». Siamo così abituati alla logica neoliberale che non ce ne rendiamo conto. Diverso è il pensiero tra gli attivisti nella tradizione radicale nera: sono molto critici su Obama, ma non hanno una piattaforma condivisa. Io dico sempre che non si impara niente dalla pelle. Bisogna invece saper come costruire un terreno di condivisione. Chiedersi: perché le persone hanno il salario minimo? O sono in carcere? Per quale motivo uomini e donne continuano ad essere buttate fuori dalle loro case? E come mai i banchieri fanno così tanti soldi? Discuto spesso con i miei studenti che pensano di sapere tutto solo per il fatto di essere neri o latinos. È necessario invece leggere, criticare, impegnarsi, mettere in discussione, discutere e produrre un'analisi che sia dinamica e mai statica. E questo in una situazione dove l'infotaitment ha reso quasi impossibile una formazione critica.

Scaffale
L'invisibile classe operaia nera e i movimenti sociali urbani

Robin D.G. Kelley, figura chiave del «Black Marxism» e docente di storia americana alla Ucla, è considerato uno dei principali storici afro-americani contemporanei. Nei suoi lavori si trovano registri assai differenti. Studioso della classe operai nera negli Stati Uniti, ha portato alla luce la storia in gran parte invisibile del Partito comunista in Alabama durante la Grande Depressione (storia raccolta nei volume Hammer and Hoe del 1990 e Race Rebels. Culture, Politics and the Black Working Class, 1994). Ma è anche uno dei più attenti osservatori e critici dei fenomeni culturali e sociali afro-americani. Tra i suoi lavori, va ricordato Yo' Mama's Disfunktional del 1997, un autentico viaggio tra la poesia, la musica e la cultura di strada afroamericana e insieme una caustica critica agli stereotipi «made in Usa» con un punto di vista saldamente radicate nei movimenti urbani afroamericani. «Analogamente Freedom Dreams. The Black Radical Imagination» del 2002, considerato il «romanzo di formazione» dell'autore, attinge dalla tradizione del radicalismo nero, femminista e socialista per cogliere il nesso tra linguaggi politici, espressioni culturali e pratiche artistiche. Il confluire insieme di registri discorsivi così eterogenei è specchio della sua formazione politica e culturale. Cresciuto ad Harlem tra gli anni Sessanta e Settanta, ha sempre coltivato l'interesse per i movimenti sociali, politici e culturali, di cui è stato anche protagonista, e per la musica: dal jazz al reggae all'hip hop. Attualmente vive e lavora a Los Angeles.

Riceviamo da ReTe (rete dei comitati per la difesa del territorio) un documento del Forum Sociale Mondiale di Tunisi. Risposta dal basso alla costruzione della "infrastruttura globale" (Sassen) programmata per sfruttare le risorse planetarie e favorire i già dotati, impoverendo gli altri. postilla

CARTA di TUNISI (*)
adottata al FSM di Tunisi il 29 marzo 2013
Forum contro le Grandi Opere Inutili e Imposte

Noi, cittadine e cittadini, associazioni e movimenti che lottano contro le Grandi Opere Inutili e Imposte

Constatiamo che:
- questi progetti costituiscono per i territori interessati un disastro ecologico, socio-economico e umano, la distruzione di aree naturali e terreni agricoli, di beni artistici e culturali, generano nocività e degradazione, inquinamento ambientale con gravi conseguenze negative per gli abitanti,
- questi progetti escludono la partecipazione effettiva delle popolazioni dal processo decisionale e le privano dell’accesso ai mezzi di comunicazione,
- di fronte ai gravi conflitti sociali che questi progetti generano, i governi e le amministrazioni operano nell’opacità e trattano con disprezzo le proposte dei cittadini,
- la giustificazione ufficiale per la realizzazione di queste nuove infrastrutture si basa sempre su false valutazioni di costi/benefici e di creazione di posti di lavoro,
- la priorità data alle grandi infrastrutture è a scapito delle esigenze locali,
- questi progetti aumentano la concorrenza tra i territori e si indirizzano verso il sempre "più grande, più veloce, più costoso, più centralizzato",
- il sistema economico liberale che domina il mondo è in crisi profonda, i Grandi Progetti Inutili e Imposti sono strumenti che garantiscono profitti esorbitanti ai grandi gruppi industriali e finanziari, civili e militari, ormai non più in grado di ottenere tassi di profitto elevati nel mercato globale saturo,
- la realizzazione di questi progetti inutili è sempre a carico del bilancio pubblico, produce un enorme debito e non genera la ripresa economica, concentra la ricchezza e impoverisce la società,
- i grandi progetti permettono al capitale predatore di aumentare il suo dominio sul pianeta, generando così danni irreversibili all’ambiente e alle popolazioni,
- gli stessi meccanismi che aumentano il debito dei Paesi più poveri dalla fine della colonizzazione diretta sono ora utilizzati anche nei paesi occidentali.

Contestiamo:
- la logica della concentrazione geografica e funzionale che non permette lo sviluppo locale equo e i meccanismi che minacciano la sopravvivenza delle piccole e medie imprese e del sistema economico locale,
- le infrastrutture sovradimensionate per la produzione di energia non rinnovabile, la costruzione di enormi dighe la cui tecnologia comporta forte inquinamento del suolo, dell’acqua, dell’aria, dei fondali marini e la scomparsa di interi territori che compromettono la sopravvivenza delle generazioni future,
- le modalità di finanziamento di tali progetti che generano enormi profitti garantiti dalla disponibilità di denaro pubblico assieme ad architetture giuridico-finanziarie scandalose, a favore di imprese le cui azioni di lobby influenzano le decisioni politiche fino ad ottenere misure eccezionali per aggirare tutti gli ostacoli giuridici
- il supporto a questi progetti da parte dei vari livelli delle strutture politiche, locali, nazionali, sovranazionali e dalle istituzioni finanziarie globali che si oppongono ai diritti, ai bisogni e alla volontà dei popoli,
- la militarizzazione dei territori e la criminalizzazione dell'opposizione.

Affermiamo che le soluzioni si possono trovare:
- nella manutenzione e nell’ottimizzazione delle infrastrutture esistenti che rappresentano quasi sempre l'alternativa più accettabile dal punto di vista ambientale e dei costi rispetto alla costruzione di nuove infrastrutture, che devono rispondere all’interesse pubblico e non al profitto,
- nella profonda trasformazione del modello sociale ed economico oggi in profonda crisi, dando la priorità alla prossimità e alla rilocalizzazione dell'economia, alla tutela dei terreni agricoli, alla sobrietà energetica e alla transizione verso le energie rinnovabili decentrate, nostre priorità,
- nell’attribuzione in ultima istanza del processo decisionale alle popolazioni direttamente interessate, fondamento della vera democrazia e dell'autonomia locale nei confronti di un modello di sviluppo imposto, anche attraverso adeguate proposte legislative,
- attraverso nuove relazioni di solidarietà tra i popoli del sud e del nord che rompano definitivamente con la logica del dominio e dell'imperialismo.

Affermiamo la nostra solidarietà alla lotta contro tutte le Grandi Opere Inutili e Imposte e il desiderio comune di recuperare il nostro mondo.

(*) Questa dichiarazione è stata preparata da associazioni e movimenti che lottano contro la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali (di trasporto di persone o di merci, energetici, turistici, urbanistici e militari) riuniti oggi al FSM di Tunisi per unire le loro forze e per alzare la voce, essendo i problemi gli stessi in tutto il mondo.

Postilla
A proposito dell'"infrastruttura globale" e della sociologa Saskia Sassen vedi su eddyburg le due interviste di Benedetto Vecchi nel 2008 e nel 2011, e l'articolo della Sassen "ricette pragmatiche". Vedi anche il mio articolo "Il territorio globale"


La Repubblica, 22 febbraio 2013

In una campagna elettorale quasi completamente appaltata alla “scienza triste” (l’economia, così definita da Thomas Carlyle), e percorsa da agende talora improponibili, si è in questi giorni concretamente manifestata un’altra proposta programmatica, segno tangibile di una società vitale, capace di indicare con precisione e rigore i modi per affrontare questioni che altrimenti rischiano di rimanere sullo sfondo. Quel che va segnalato, tuttavia, non è soltanto l’esistenza di molte proposte, ma il modo in cui sono state elaborate. Migliaia di persone, centinaia di associazioni si sono impegnate nella preparazione di specifiche proposte di legge, intorno alle quali sono state poi sollecitate l’attenzione e la partecipazione dei cittadini. Più di cinquantamila firme accompagnano una proposta di legge d’iniziativa popolare sul reddito minimo garantito, più di un milione di firme sono state già raccolte in Europa perché l’accesso all’acqua sia riconosciuto come diritto fondamentale della persona.

Non siamo di fronte all’improvvisa emersione di una “cittadinanza attiva”. Scopriamo piuttosto che non è scomparso quel risveglio della società suscitato, tra la fine del 2010 e la prima parte del 2011, da grandi manifestazioni pubbliche che hanno creato le condizioni propizie ai successi della sinistra nelle elezioni amministrative della primavera del 2011 e al risultato strepitoso del referendum del giugno di quell’anno, quando ventisette milioni di persone dissero no al profitto nella gestione dei servizi idrici. Quello spirito è ancora vitale. Ignorato dalle forze politiche ufficiali, produce nuovi frutti e si rivolge fiduciosamente al nuovo Parlamento, mettendo a sua disposizione disegni di legge definiti in ogni dettaglio, che possono essere immediatamente presentati e che possono alimentare discussioni diverse da quelle monocordi e approssimative che ci hanno afflitto negli ultimi anni.

Lo spettro delle proposte è largo, come lo è il mondo dal quale provengono. Non hanno la pretesa della completezza, ma identificano temi ineludibili quando si vogliono affrontare le grandi questioni che abbiamo di fronte. Non nascono da un lavoro coordinato, ma dall’operosa iniziativa di molte reti informali che hanno via via trovato punti di convergenza. Presentate in una conferenza stampa, hanno rivelato un grado sorprendente di coerenza, che nasce dalla consapevolezza che stiamo vivendo un mutamento strutturale profondo, che esige un rinnovamento altrettanto profondo delle categorie politiche e giuridiche. Ed è importante sottolineare che questo lavoro è stato possibile grazie ad una collaborazione stretta tra studiosi e movimenti, che hanno riaperto l’indispensabile canale di comunicazione tra politica e cultura.

Si manifestano così i nessi nuovi tra lavoro e vita, tra diritti delle persone e beni che li rendono effettivi. Si scopre la dimensione del “comune”, che obbliga a ripensare il rapporto tra pubblico e privato. Si guarda a Internet non solo come a una opportunità tecnologica.

Non è un caso che il tema ormai drammatico del lavoro sia affrontato dal punto di vista del reddito minimo garantito. Di questo si parla in modo assai fumoso in alcune tra le “agende” in circolazione. Ora è disponibile una proposta di legge realistica, attenta ai dettagli, frutto di un lavoro che ha coinvolto 170 associazioni e che è stato coordinato dal Bin Italia (Basic economic network).

Vale la pena di aggiungere che l’Italia, in questa come in troppe altre materie, è inadempiente rispetto ad una direttiva europea del 1992, che prevedeva appunto che i paesi dell’Unione si dotassero di meccanismi idonei ad offrire garanzie a chi si trovi in situazioni di disoccupazione o di estrema precarietà. Un principio, questo, ribadito dall’articolo 34 della Carta europea dei diritti fondamentali, dove si parla della necessità di garantire una “esistenza dignitosa”. “Ce lo chiede l’Europa”, dunque. Una espressione, questa, che assume forza normativa quando si tratta di vincoli economici, ma che viene del tutto ignorata quando si tratta di diritti. Si sta consolidando una vera schizofrenia istituzionale, che fa crescere uno “spread” di civiltà che ormai affligge il nostro paese.

Sono proprio i diritti il cuore delle proposte appena illustrate. E dalla loro considerazione si muove per individuare i beni necessari perché l’esistenza, nel suo complesso, sia davvero dignitosa. L’esistenza materiale ci porta all’acqua, all’uso non predatorio del territorio, alla tutela del paesaggio; la costruzione libera della personalità evoca la conoscenza. Si stabilisce così una connessione profonda tra la condizione umana e i diritti fondamentali, che è poi un tratto essenziale della stessa democrazia. Il diritto all’esistenza libera e dignitosa è tutto questo. Reddito, certamente. Ma, insieme e talora soprattutto, condizioni del vivere, dove l’immateriale dà il tono a tutto il resto, determina la qualità stessa della vita.

Si dà così la giusta prospettiva ad una elaborazione che deve uscire dalle strettoie del breve periodo, dalle grettezze culturali. Ma non si perde la concretezza. Per la ricostruzione complessiva del sistema della proprietà – articolato intorno a pubblico, privato, comune – è disponibile un disegno di legge preparato da una Commissione ministeriale, già presentato senza fortuna al Senato nella passata legislatura, ma che ha dato l’avvio a nuove pratiche sociali nell’uso dei beni. E sempre al Senato era presente la proposta di affrontare la questione del rapporto tra diritti e nuove tecnologie, integrando l’articolo 21 della Costituzione con le parole “tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”, ponendo così la premessa per regolare la conoscenza in rete come bene comune. Una linea, questa, già seguita da molti Paesi e adottata in diversi documenti internazionali. A queste si aggiunge un’altra proposta analitica sul testamento biologico, che consentirebbe di affrontare un tema “eticamente sensibile” al riparo da furori ideologici e sgrammaticature giuridiche. Inoltre, subito dopo il voto verrà diffusa una ipotesi di nuova disciplina dell’iniziativa legislativa popolare, che prevede l’obbligo delle Camere di prendere in considerazione le proposte dei cittadini, consentendo a rappresentanti dei firmatari di essere presenti ai lavori nelle commissioni parlamentari.

Volendo azzardare una battuta, o dare un suggerimento, si potrebbe dire che i futuri parlamentari dispongono già di una dote programmatica, o di un pacchetto di proposte “chiavi in mano”, da sfruttare immediatamente. E infatti i promotori dell’iniziativa, simbolicamente riuniti nel Teatro Valle occupato, hanno deciso di inviare per posta elettronica ai nuovi eletti tutti i documenti disponibili.

Ma è avvenuto qualcosa di più. Non vi è stato solo il sommarsi di iniziative diverse. Si sono poste le premesse per continuare un lavoro comune di elaborazione che possa colmare molti vuoti aperti dalla crisi della rappresentanza e dalla perdita di legittimazione derivante dal fatto che stiamo andando a votare con una legge la cui incostituzionalità era stata segnalata dai giudici della Consulta senza che i parlamentari seguissero una indicazione così importante. Sta nascendo una “rete delle reti”, una struttura sociale capace non solo di produrre proposte, ma di scoprire le strade che possono renderle effettive.

L'Iniziativa dei cittadini europei (Ice) sull'acqua pubblica - presentata alcuni mesi fa dal sindacato europeo dei servizi pubblici (Epsu) - è in dirittura d'arrivo. È stata infatti superata la soglia di un milione e 100 mila firme raccolte in Europa. Ma l'Ice non è ancora valida, in quanto la maggior parte delle firme, più di 900 mila, sono state raccolte nella sola Germania ed è necessario, oltre a raccogliere almeno un milione di firme, superare soglie minime, rapportate alla popolazione di ciascun Paese, in almeno sette Paesi europei. Finora questa soglia è stata passata in Germania, Austria e Belgio, mentre mancano a quest'appuntamento gli altri Paesi, compreso il nostro. In Italia finora sono state raccolte circa 25 mila firme complessivamente, sommando sia quelle on-line che le cartacee, e ci manca ancora un buon pezzo di strada per arrivare alla nostra soglia minima, fissata in 55 mila adesioni e, ancor più, alle 130 mila che abbiamo individuato come nostro obiettivo per contribuire al risultato da raggiungere in Europa.

Abbiamo ancora tempo davanti a noi, perché si può firmare fino alla fine del mese di ottobre: ciò non toglie che occorre dare una svolta al nostro impegno, mettersi alle spalle una certa sottovalutazione che abbiamo avuto rispetto a quest'iniziativa e alla sua efficacia e darsi il traguardo, più che ragionevole, di arrivare a passare le 55 mila firme, primo nostro obiettivo, entro la fine del mese di marzo. Sarebbe un bel modo di festeggiare la Giornata mondiale dell'acqua, che, come tutti gli anni, si svolgerà il 22 marzo.

Un bene comune continentale

Il primo punto di valore dell'iniziativa dell'Ice per l'acqua pubblica in Europa sta - insieme agli effetti concreti che essa può produrre - nel fatto che con essa si può cominciare a costruire un vero movimento per l'acqua pubblica su base continentale. In Europa, infatti, negli ultimi anni ci sono state molte iniziative attorno all'idea che l'acqua sia un bene comune da sottrarre alle logiche del mercato e che la gestione del servizio idrico debba rimanere in mano pubblica: basta pensare alla vittoria referendaria nel nostro Paese nel giugno 2011, alla ripubblicizzazione del servizio idrico a Parigi nel 2010 o ai referendum svoltosi a Berlino nel 2011 e a quello autogestito di Madrid del 2012, entrambi in direzione della ripubblicizzazione del servizio idrico. Ma non c'è dubbio che si avverte la mancanza di un soggetto unitario, capace di mettere insieme tutte le realtà che lavorano per l'acqua pubblica e in grado di farsi portatore di queste istanze nei confronti delle istituzioni e degli organi di governo dell'Unione europea, in un quadro in cui - soprattutto da parte di questi ultimi - continuano ad essere forti le intenzioni di privatizzazione dei servizi pubblici, e anche di quello idrico. Ebbene, la buona riuscita dell'Ice, a partire dal fatto di raccogliere ben di più del milione di firme necessarie, significa anche costruire le gambe per costruire effettivamente la "Rete europea dei movimenti per l'acqua", ipotesi avanzata già da tempo e a più riprese (da ultimo a Firenze nel novembre scorso), ma che finora è stata più confinata nel campo delle buone intenzioni che in quello della realizzazione concreta. Penso alla Rete europea dei movimenti per l'acqua come ad un luogo reale di discussione, ma anche di iniziativa e mobilitazione che abbia come orizzonte la possibilità di produrre un'inversione di tendenza nelle politiche europee sull'acqua e sul servizio idrico, anche in termini paradigmatici rispetto all'insieme dei servizi pubblici. Da questo punto di vista, fa ben sperare il grande successo che ha avuto la raccolta delle firme sull'Ice per l'acqua pubblica in Germania e in Austria: come ci raccontavano i sindacalisti tedeschi alcuni giorni fa, lì la raccolta delle firme è stata sul serio il prodotto di una mobilitazione popolare, che è andata al di là della stessa iniziativa sindacale, e ha coinvolto un gran numero di organizzazioni e associazioni, nonché l'attivazione di forze ed energie presenti nella società. Un po', insomma, com'è stato per i referendum del 2011 qui da noi.

Il modello sociale europeo

Ci sono poi almeno altre due questioni rilevanti che l'iniziativa dell'Ice sull'acqua pubblica evoca. La prima si riferisce al tema per cui parlare di acqua pubblica significa parlare del modello sociale europeo, contribuire a mettere in campo un'idea alternativa alle politiche recessive e liberiste che hanno dominato gli orientamenti dell'Unione europea a trazione tedesca che abbiamo conosciuto negli ultimi anni. Si fa un gran parlare, anche nella campagna elettorale nel nostro Paese, di quella che sarebbe una distinzione fondamentale delle forze in campo tra europeisti e populisti, ma ci si dimentica troppo facilmente che, anche in Europa, dentro la crisi, è in corso una scontro tra chi propone le ricette liberiste, basate su un'inesistente capacità autoregolatoria del mercato, e chi avanza una prospettiva per cui definanziarizzazione dell'economia e affermazione dei beni comuni, dei diritti sociali e del lavoro costituiscono gli assi di riferimento per confermare e aggiornare il modello sociale europeo. La battaglia per l'acqua bene comune e per la gestione pubblica del servizio idrico si inscrive in questo secondo campo e può dare un impulso significativo a farlo avanzare, anche innovandone i contenuti. L'altro tema è quello della democrazia: per quanto imperfetto, lo strumento dell'Ice è l'unico attualmente esistente che può far sentire direttamente la voce dei lavoratori e dei cittadini in Europa, che consente la promozione di un'iniziativa "dal basso" in una realtà - quella europea - in cui, per usare un eufemismo, c'è un grave problema di legittimazione democratica delle scelte che vengono prese dagli organi di governo dell'Unione europea. Anche da questo punto di vista, non si può non vedere come la questione della democrazia, e di sue forme nuove e più avanzate, si lega strettamente ed è parte essenziale di un progetto che vuole sconfiggere le impostazioni neoliberiste e costruire un'idea alternativa di Europa per uscire dalla crisi in cui queste ultime l'hanno cacciata.

Il referendum annacquato

Infine, non mi è possibile chiudere queste brevi riflessioni senza accennare ad altre due questioni assolutamente rilevanti e che hanno a che fare anche con la raccolta delle firme per l'Ice sull'acqua pubblica. Intanto, continua ad essere molto aspro lo scontro nel nostro Paese relativamente al rispetto dell'esito referendario sull'acqua pubblica del giugno 2011. Siamo in presenza di un nuovo pesante attacco, che vorrebbe completamente stravolgere il secondo referendum sull'acqua, quello che ha abrogato la possibilità di far profitti sul servizio idrico, proveniente dall'Authority dell'energia elettrica e del gas, che, con l'approvazione del nuovo metodo tariffario, rende evidente il fatto di essere sostanzialmente portatrice degli interessi dei soggetti gestori (del resto, sono loro che ne finanziano il funzionamento!). È evidente che questa questione non riguarda solo il movimento per l'acqua, ma investe tutto quell'ampio schieramento sociale e politico che ha sostenuto i referendum del 2011, così come è chiaro che un forte risultato di raccolta delle firme per l'Ice nel nostro Paese significa, anche per questa via, riaffermare che la volontà popolare non può essere messa in discussione.

Un sindacato transnazionale

Da ultimo, una buona riuscita della raccolta delle firme per l'Ice significa anche rafforzare un processo per cui il movimento sindacale possa iniziare a pensarsi e a lavorare come reale soggetto sovranazionale e in grado di intervenire realmente nella dimensione europea. Dopo l'iniziativa del sindacato europeo del 14 novembre scorso contro le politiche di austerità, che ha visto una mobilitazione comune e diffusa nei vari Paesi europei, c'è bisogno di compiere un ulteriore salto di qualità e la costruzione di iniziative comuni e di dimensione europea, com'è l'Ice promossa dal sindacato europeo dei servizi pubblici, può essere un ulteriore utile passo avanti in quella direzione.

Insomma, ci sono tante buone ragioni per sostenere e firmare l'Ice per l'acqua pubblica: facciamolo rapidamente e moltiplichiamo l'impegno per raggiungere anche in Italia il risultato che ci siamo prefissi.

Il manifesto, 5 febbraio 2013

Convincere gli enti locali - e in prospettiva gli stessi governi nazionali - a fare marcia indietro sul «modello di sviluppo insostenibile» adottato negli ultimi vent'anni è missione quasi impossibile. Anche se nell'assemblea fiorentina della Rete dei comitati per la difesa del territorio c'è stato un piccolo passo avanti. «Aver avuto qui il presidente Rossi e l'assessore Marson - osserva Alberto Asor Rosa - venuti non per una visita ma per parlare e soprattutto ascoltare, è importante. Ancor di più lo è l'invito di Rossi a presentare all'intera giunta regionale la Piattaforma Toscana».

Un documento complessivo, elaborato grazie al lavoro dei comitati diffusi in tutta la regione, che partendo da una miriade di casi locali individua alcuni temi generali di discussione. Divisi in tre grandi sezioni (Energie, risorse, acqua, rifiuti; Urbanistica e territorio; Infrastrutture e grandi opere) fra loro interconnesse. E con un esame fortemente critico che non si ferma alla denuncia ma offre alle istituzioni progetti alternativi. In grado di difendere e tutelare il territorio e l'ambiente da progetti di presunto sviluppo che, nei fatti, sono altrettante aggressioni al tessuto urbano, rurale e paesaggistico. Dalle grandi opere agli inceneritori, passando per le espansioni residenziali, turistiche e produttive che portano ad un ulteriore consumo di suolo, per finire con lo sfruttamento indiscriminato di altre risorse naturali come la geotermia amiatina e il bacino marmifero apuano.

L'assemblea della Rete in un auditorium Stensen molto affollato sarà ricordata anche come prima occasione di incontro fra rappresentanti delle istituzioni e il comitato fiorentino No tunnel Tav. «Dopo sei anni di porte chiuse - ricorda Tiziano Cardosi - ora possiamo spiegare al presidente regionale che la nostra opposizione non è preconcetta. Anche dall'ultima inchiesta della magistratura sui lavori dell'alta velocità emerge un quadro disperante. Si va dall'imprenditoria italiana che si dimostra ancora una volta incapace di gestire i lavori, alla stessa ragione ultima di grandi opere che non rispondono ad esigenze sociali ma solo agli interessi di grandi gruppi di potere».

Fatte le proporzioni, la logica dei gruppi di potere interconnessi con la politica si ripresenta in ogni intervento. Come quello dei comitati della Val d'Elsa: «A Casole cinque anni di lotta alla speculazione edilizia hanno portato a successi giudiziari e urbanistici, con il blocco dei progetti e il coinvolgimento di cittadini, professionisti e anche di imprenditori, a difesa di un territorio agricolo di grande pregio. Ma le amministrazioni comunali continuano ad andare avanti, come se noi non esistessimo». Poi la Val di Chiana, dove fa scandalo una gigantesca centrale a biomasse spacciata come progetto di riconversione industriale di un ex zuccherificio, sulle cui ceneri si vuole invece realizzare un complesso immobiliare. Mentre nella Piana fiorentina, gravata da un carico già insostenibile di funzioni industriali, residenziali e della mobilità, a ulteriori piani di espansione urbanistica si assommano i progetti di un nuovo inceneritore, e il potenziamento dell'aeroporto con una nuova pista. «Con il parco agricolo della Piana la Regione ha inviato un segnale condivisibile - osserva Eriberto Melloni - ma come si può immaginare la compatibilità fra questa realtà e tutto quanto c'è attorno?»

Di fronte ai guasti provocati da leggi e regolamenti che incrementano il consumo del territorio, Enrico Rossi replica ricordando il nuovo corso regionale dell'assessore Anna Marson. Quanto al resto però non si torna indietro: «So di deludervi ma non possiamo non rispettare gli impegni presi, difficile rimettere in discussione le opere già varate». Dunque nessuno stop. Neanche al tunnel Tav. Anche se Rossi ammette: «Noi abbiamo controllato, lo stato no». Alla fine Asor Rosa chiede ai comitati un piccolo sforzo: «Guardiamoci dal 'disilluso scetticismo' che ci impedirebbe di vedere le novità». Che ci sono state. Anche se, specialmente nell'area fiorentina, non ci si fanno illusioni.

Il manifesto, 26 gennaio 2013 (f.b.)

Trovo singolare che mentre se ne parla, o ci si litiga, e talvolta ci si accapiglia, intorno al ruolo che i movimenti dovrebbero assumere nel contesto politico generale, da quando è cominciata la campagna elettorale (spesso bagarre) nazionale i movimenti sembrano scomparsi di scena, quasi non esistessero più o addirittura non fossero mai esistiti. Talvolta mi sorge il dubbio che più se ne parla e meno li si conosca, e ancora meno li si pratichi. Proverò a dimostrare che è vero il contrario (tornando in conclusione su alcune questioni di ordine più generale). La Rete dei Comitati per la difesa del territorio, florida ormai da diversi anni in Toscana ma con propaggini in Liguria, Emilia, Veneto, Marche, ha indetto per il 3 febbraio, a Firenze, una grande assemblea.

L'iniziativa (alle ore 10 sala Stensen, viale don Minzoni, 25/g), si propone di discutere un ampio e complesso documento chiamato la "Piattaforma Toscana". Che rappresenta l'acme (provvisorio, s'intende) di un lavoro che dura da anni. Si tratta del tentativo di esplorare in tutti i loro aspetti e forme i problemi del territorio, dell'ambiente, del paesaggio, in una regione da più punti significativa come la Toscana. Nasce dall'azione unita e convergente dei Comitati, una galassia ormai dislocata sull'intero territorio toscano, e di gruppi intellettuali e professionali di alto livello, i quali prestano al movimento le loro competenze per fare di una miriade di casi locali una strategia complessiva, che renda ognuno di quelli più significativo ed efficace: è quello che io da tempo chiamo neoambientalismo.

Si tratta per ora di un tentativo inedito e precorritore a livello nazionale. Come mai? La Toscana, nella nostra prospettiva, rappresenta un vero laboratorio, che appunto può assurgere a una significazione nazionale. Essa non è crollata, come, ahimè, è avvenuto in altri casi, sotto il peso della speculazione, della corruzione, e del conflitto di interessi. Ma ha un buon numero di bubboni da estirpare, e soprattutto non ha imboccato ancora, con totale e irreversibile decisione, la strada di un ambientalismo privo di remore e di inverosimili complessi di colpa (come spesso ai politici lì e altrove capita). I casi dell'Amiata (geotermia gestita nella disinvolta assenza di corretti criteri tecnico-scientifici né rispetto per la salute dei cittadini), della Apuane (la distruzione vera e propria per fini speculativi di un territorio preziosissimo), del sottoattraversamento ferroviario di Firenze (inutile, costosissimo, catastrofico dal punto di vista ambientale, sostituibile facilmente con soluzioni di superficie), per la vera e propria distruzione, passata e presente, della Piana (la quale invece, se positivamente recuperata, potrebbe diventare lo straordinario polmone verde di Firenze città metropolitana), ma soprattutto, io direi, il «normale», devastante consumo di suolo per la speculazione edilizia, che raggiunge i suoi vertici lungo le coste e nell'immediato entroterra (ma non solo), rappresentano alcuni dei tanti esempi possibili in questo senso.

L'interlocutore principale della Rete è per forza di cose la Regione. In Toscana vige, in conseguenza della legge regionale 1/2005, quello che è stato definito enfaticamente un «pluralismo istituzionale paritetico», consistente in buona sostanza nell'eliminazione di ogni rapporto gerarchico e nell'assoluta equipollenza degli enti locali (Comune, Provincia, Regione). E' una stortura che va corretta, muovendosi nel senso di attribuire a «piani di area vasta» la responsabilità di determinare attraverso percorsi concordati il riordinamento degli strumenti urbanistici comunali. Abbastanza di recente la Regione ha promosso l'elaborazione di un piano paesaggistico regionale, affidata a qualificate élite universitarie: è una buona cosa, a patto che ne nasca un vero e proprio sistema di vincoli, e soprattutto che all'atto pratico lo si rispetti e gli si dia piena attuazione.
Ma soprattutto c'è da ridefinire il quadro complessivo del reticolo territoriale toscano, così complesso e ricco d'implicazioni, - città, paesi, campagne, mare, riviere, montagna, - al fine di andare incontro con una strategia complessiva alle esigenze insieme della conservazione e di un meditato sviluppo.

In un quadro nazionale, in cui il problema ambientale rimbalza da un capo all'altro della penisola (il caso Ilva ne rappresenta l'esempio più clamoroso, ma tutt'altro che unico) noi dimostriamo infatti con la "Piattaforma toscana" che, affrontandola per tempo, la questione ambientale può diventare persino un'occasione di difesa e incremento dell'occupazione. Per vecchi e non dismessi convincimenti gli operai c'interessano non meno dell'ambiente.

Ma diversamente dagli "sviluppisti" a tutti i costi, ciechi di fronte alla possibilità molto concreta che si vada insieme verso la catastrofe, pensiamo che sia possibile, ripeto: pensiamo che sia possibile arrivare a non contrapporre difesa e protezione dell'ambiente e difesa e protezione del lavoro: che esistano insomma concrete prospettive di farle muovere insieme verso il medesimo obiettivo.
Ora, penso che salti all'occhio che noi gettiamo tutto questo nel bel mezzo di una campagna politica elettorale nazionale. Ci siamo distratti? Siamo stati colti da un colpo di sonno mentre leggevamo le ultime notizie sulle ultime dichiarazioni di Pierferdinandocasini? Tutto il contrario: abbiamo scelto di farlo consapevolmente, per due motivi.

Innanzi tutto perché nel corso di questa campagna politica elettorale nazionale l'argomento di cui meno (o affatto) si discute è quello di cui vivono i Comitati, e di riflesso la Rete, e cioè, per l'appunto, l'ambiente, il territorio, il paesaggio, la salute, ecc. ecc.; e dunque in definitiva la possibilità-necessità di dar luogo, in Italia come altrove in Europa, a un nuovo modello di sviluppo fondato sulla riconversione ecologica dell'economia. Non potremo cambiare da Firenze, certo, il corso della storia, ma forse ha un senso che da Firenze ci si provi.

Il secondo motivo è di ordine più generale, e con questo mi ricollego alle prime affermazioni di questo articolo. Io non penso, - l'ho dichiarato in numerose occasioni, e soprattutto ho cercato di tenerlo presente nel mio ruolo (molto insoddisfacente, lo so) di militante-dirigente di un movimento ambientalista, - che i movimenti siano l'anticamera dell'"organizzazione politica". I movimenti sono un'altra cosa. Bisogna accettare, - e soprattutto praticare, - il principio che fra le istituzioni e la politica esiste una "terza forza", che non si identifica né con le une né con l'altra, ma rivendica pari dignità. Non esiste solo il voto a rappresentare la cittadinanza (anche se il voto è insostituibile): questa è la difficile soglia, oltrepassata la quale comincia il dialogo. Estremizzando: la società civile, oltre e più che farsi rappresentare dalla politica, si rappresenta da sé. Più cresce la forza della "terza forza", più le istituzioni e la politica sono costrette a tenerne conto (se non ne tengono conto, vanno in malora). Per ora, questa è la fase. E' bello che questo esperimento venga tentato in Toscana.


1. La Rete e il Neoambientalismo

La ReTe è un'Associazione che nasce da un movimento e intende restar fedele a tale origine. Il radicamento in Toscana, anche se non esclusivo (presenze in Liguria, Emilia, Lazio, Marche e Veneto lo documentano), è attualmente una delle sue caratteristiche dominanti. La ReTe mette in rapporto le esperienze di decine di Comitati, le indirizza verso i medesimi obiettivi generali e ne fa nascere una strategia complessiva, che rafforza ognuna di quelle esperienze e ne facilita l'affermazione.

Il neoambientalismo della ReTe consiste in questo:
la moltitudine delle esperienze e delle lotte, distribuite ormai in maniera molecolare sull'intero territorio toscano, si collega alle capacità elaborative e progettuali di gruppi intellettuali e professionali, che si mettono al servizio di queste cause al di fuori di ogni schema sovraimposto o burocratico. Il rapporto è inscindibile:
una delle due componenti non potrebbe fare a meno dell'altra, e in effetti è stato così in maniera sempre più integrata fino a sboccare coerentemente nell'Assemblea dei Comitati del 3 febbraio, di cui qui di seguito si fornisce l'impianto complessivo. Questo impianto è il frutto di un lungo lavorio di scambio fra Comitati e ReTe: ed è destinato a essere ancora perfezionato nel percorso che ci separa dall'Assemblea del 3 febbraio e in seguito allo svolgimento dell'Assemblea medesima.

2. L'Assemblea del 3 febbraio e la consultazione politica elettorale nazionale

L'Assemblea indetta dalla ReTe per il 3 febbraio cade nel pieno di una campagna politica elettorale nazionale. Non si tratta di mancanza di attenzione o di una vera e propria distrazione: è invece una scelta fortemente voluta, del tutto intenzionale, per due motivi.

Innanzi tutto: senza teme di smentite possiamo affermare che, da parte delle forze politiche nazionali più rappresentative, il posto riservato nel proprio dibattito pubblico e nei propri programmi ai temi dell' ambiente, del territorio, del paesaggio, dei beni culturali, è finora più che modesto, per non dire inesistente. Intendiamo reagire, proponendo ai nostri interlocutori politici e istituzionali di pronunciarsi esplicitamente sulle tematiche che noi solleviamo. Sarebbe davvero disdicevole, anzi impensabile, che al nostro appello, in una condizione del genere, non si risponda.

In secondo luogo: intendiamo rimarcare con chiarezza che i problemi e le tematiche che solleviamo non sono una delle tante aree d'interesse cui una forza politica di ambizioni nazionali dovrebbe guardare ma, nello stato presente delle cose, quella che determina tutto il resto.

Dietro le nostre critiche e osservazioni e dietro il nostro progetto si cela un diverso modo d'intendere e concepire le fondamentali scelte civili e una diversa gerarchia delle scelte e dei valori. E' facile rendersene conto. Ma per chi ancora non se ne rende conto, lo diciamo con chiarezza in esordio. Non siamo dei critici a tutti i costi: siamo i portatori di un nuovo progetto, alternativo e calato profondamente nella società civile (di cui oggi molti parlano, ma pochi sanno di cosa si tratti, e ancor meno sono disposti e tenerne realmente conto); ed è su questo che chiediamo a politici e istituzioni di pronunciarsi.

3. La valenza nazionale del progetto e dell'Assemblea

E' su questo insieme di motivi che pensiamo che l'Assemblea del 3 febbraio e la discussione che intendiamo promuovervi abbiano un'origine e una documentazione prevalentemente toscane, ma una valenza nazionale. Spesso ci è stato chiesto di valutare come la Toscana si collochi rispetto alle altre regioni italiane in merito alle questioni di cui la "Piattaforma" si fa portatrice. Non abbiamo nessuna difficoltà a riconoscere che, se la discussione da noi impostata nasce e si colloca in Toscana, ciò si deve al fatto che qui i confini dell’inarrestabile logica del "profitto a tutti i costi" non sono stati ancora del tutto, - non del tutto, lo ribadiamo – superati.

Questo tuttavia rende le manifestazioni di rottura di questo precario equilibrio tra "sviluppo" fondato sullo sfruttamento e difesa dell'ambiente ancor più clamorose. Lo abbiamo già detto più volte ma lo ripetiamo con la forza di argomenti sempre più raffinati e inconfutabili: i casi dell'Amiata, delle Apuane, la devastazione delle coste, la sciagurata scelta del sottoattraversamento ferroviario di Firenze, la battaglia per una definizione ultimativa e soddisfacente dei problemi riguardanti il corridoio tirrenico, le politiche urbanistiche in molti casi dissennate, le "città d’arte" ridotte a “città merce”, il devastante consumo di suolo ai danni del paesaggio e dell'agricoltura, le questioni (ancora tutte in sospeso) legate alla costituzione dell'area metropolitana di Firenze, connesse a loro volta con la destinazione dell'area strategica della Piana (su cui torniamo più sotto), impongono alle Amministrazioni toscane una rapida inversione di rotta ancora possibile qui più che altrove, destinata, se adottata con chiara decisione, a diventare un elemento propulsivo per l'intera situazione nazionale italiana.

4. I documenti preparatori della "Piattaforma toscana" 


I documenti preparatori della "Piattaforma toscana" si articolano in tre fondamentali Sezioni:

I. Energie, risorse, acqua, rifiuti;

II. Urbanistica e Territorio aperto;

III. Infrastrutture e Grandi Opere.

Nel loro insieme esse costituiscono la base essenziale e organica della "Piattaforma toscana". Andrebbero lette nel loro complesso. Ognuna di loro rimanda infatti alle altre due. Le articolazioni interne di ognuna di loro costituiscono d'altra parte l'inizio di un altro possibile discorso fondato su di una documentazione di prima mano, che andrebbe ulteriormente sviluppato.
L'idea generale, che presiede all'insieme dei documenti, è che, a ogni posizione critica, corrisponde un progetto alternativo. Questo significa che un diverso orientamento e una diversa prospettiva sono realmente possibili nei campi che abbiamo scelto di privilegiare. Difficile d'ora in poi considerare tale "Piattaforma" come puramente negativa.

5. Considerazioni Politico-Istituzionali 


Attiriamo ora l'attenzione su quelle questioni che, preliminarmente, e in una prospettiva più vasta, comportano la necessità di un orientamento politico- istituzionale diverso da quello che ha dominato nel corso degli ultimi anni (in taluni casi, decenni). L'enunciazione di tali materie chiarisce ancor meglio l'intreccio fra questioni toscane e questioni nazionali, sia in termini ampiamente culturali sia, come si diceva, in termini di scelte politico-istituzionali.

Ad esempio: che il nostro orientamento non sia privo di realismo e di prospettive attuabili lo dimostrano vari fattori ed esperienze anche molto recenti (confermando anche da questo punto di vista la valenza nazionale delle nostre battaglie).

Ci richiamiamo fra gli altri al fatto che il 16 novembre il governo ha approvato il Disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo, che in una prima versione (settembre) era già stato oggetto di dibattito e di osservazioni da parte di comitati e associazioni, inclusa la ReTe. Va osservato che la nuova versione ha recepito alcune delle critiche anche se è suscettibile di ulteriori miglioramenti. Nonostante che non vi siano le condizioni perché questo testo di legge venga discusso nell’attuale legislatura, riteniamo che i principi che esprime vadano riproposti come base di una nuova politica del territorio. Non si può non concordare con quanto affermato nell’art. 1, comma 3, secondo cui «le politiche di sviluppo territoriale nazionali e regionali perseguono la tutela e la valorizzazione della funzione agricola attraverso la riduzione del consumo di suolo e l’utilizzo agroforestale dei suoli agricoli abbandonati, privilegiando gli interventi di riutilizzo e di recupero di aree urbanizzate».

Il secondo esempio tocca più da vicino la situazione toscana. La legge regionale 1/2005 ha esasperato la spinta verso il decentramento, che in materia urbanistica era cominciata con la legge 5/1995, producendo macroscopiche distorsioni. Il modello toscano è stato definito "pluralismo istituzionale paritetico", consistente in buona sostanza nell'eliminazione di ogni rapporto gerarchico e nell'assoluta equipollenza degli Enti locali (Comune, Provincia, Regione). E' dunque indispensabile attribuire a "piani di area vasta" la responsabilità di determinare, attraverso percorsi concordati, il riordinamento degli strumenti urbanistici comunali. Continuare con l'assoluta, inappellabile autonomia comunale in materia di previsioni di crescita costituisce uno dei primi fattori della dilapidazione del territorio.

Per restare in argomento con un esempio particolarmente significativo, osserviamo che la scelta d'identificare come "area metropolitana" [ o "ciuttà metropolitana"? -ndr.] l'insieme delle Province di Firenze, Prato e Pistoia (FI-PO-PT), avrebbe il merito di non spezzare in due(o in tre) la rete delle interdipendenze funzionali e struttura1i di tale importantissima realtà urbanistica e territoriale, e potrebbe dar luogo in Toscana al progetto più significativo (appunto, di livello nazionale) di una pianificazione di "area vasta". Il cuore di tale progetto, il cardine di tale interdipendenza, è la Piana. Come sappiamo, le questioni che oggi affliggono la Piana sono numerose e complicate: il deprecabi1e progetto di ampliamento dell’aeroporto, il completamento del progetto Fondiaria-Ligresti, il termovalorizzatore dell' Osmannoro, la terza corsia dell' A11, il raccordo stradale Signa-Prato. Questioni tutte di difficile soluzione in una logica che continui a vedere la Piana come periferia di Firenze: invece, nella prospettiva della Città metropolitana esse emergerebbero come incompatibilità troppo vistose per non essere risolte al più presto e in via definitiva. Lo stesso auspicabile progetto di Parco agricolo,

6. Difesa del territorio e sviluppo economico: il “laboratorio Toscana”

La prospettiva politica in cui si colloca la ReTe salda la difesa e la valorizzazione di territorio, ambiente e paesaggio con le questioni dell'occupazione e del reddito. L'atteggiamento delle istituzioni e dei politici, anche di quelli che hanno mostrato o mostrano timide aperture verso gli obiettivi della ReTe, è stato di considerare il patrimonio territoriale (nelle sue declinazioni di ambiente e paesaggio) come un'esternalità dello sviluppo di cui devono essere mitigati e risarciti gli aspetti negativi. Solo lo sviluppo inteso come incremento del PIL, secondo questa fede, produce occupazione e reddito, indipendentemente dalla natura degli investimenti. Nello sfondo una fede cieca nei mercati. Occorre perciò sottolineare un principio fondamentale dell'azione della ReTe. Investire in ambiente e paesaggio produce reddito e occupazione. Gli investimenti in ambiente e paesaggio e in generale nei cosiddetti 'beni comuni' si traducono fra l'altro in beni salario. Detto in altri termini, un incremento del reddito dei lavoratori può essere monetizzato, ma può anche essere materializzato come possibilità di usufruire di servizi alla famiglia, di un ambiente pulito, di scuole accessibili, di un sistema sanitario efficiente, di, parchi e occasioni di loisir, di forme alternative di commercio. Investire sui 'beni comuni' è perciò una importante chance di occupazione e reddito ed è in grado di saldare movimenti e comitati verso obiettivi unificanti. Su questo terreno l'importante esperienza del referendum per impedire la privatizzazione dell'acqua.

La Toscana, proprio per la natura e la storia del suo territorio, può proporre straordinari modelli di produzione della ricchezza futura in forme durevoli, in cui molte cose devono decrescere (consumo di suolo, grandi opere, grande distribuzione, grandi apparati industriali, grandi dipendenze dalla finanza globale, grandi metropoli e grandi periferie), altre devono crescere (cittadinanza attiva, reti corte fra produzione e consumo, spazi pubblici, sistemi di economie locali, ripopolamento rurale e montano ecc). I percorsi del ritorno ai campi hanno lo scopo di nutrire le città con cinture di agricoltura peri-urbane (fattorie didattiche, orti, frutteti giardini) e parchi agricoli con cibo sano a km zero), con l’obiettivo di fermare i processi di deruralizzazione, riqualificare i margini urbani e avviare il ripopolamento produttivo con forme di “neoruralità” fondate sul modo di produzione contadino; di ridurre l’impronta ecologica con la chiusura locale dei cicli dell’acqua, dell’energia, dell’alimentazione; di elevare la qualità

ambientale (salvaguardia idrogeologica, qualità delle reti ecologiche e del paesaggio); di elevare la qualità abitativa delle periferie (standard di verde agricolo “fuori porta fruibile”), di riqualificare i margini urbani (qui finisce la città, là comincia la campagna); di restituire un ruolo produttivo ai paesaggi rurali storici con regole sapienti ambientali, idrogeologiche, ecologiche, produttive, in grado di dare indicazioni per la multifunzionalità dell’agricoltura e per affrontare le conseguenze del cambiamento climatico.

7. Un'altra idea di partecipazione

Le altre questioni, grandi e piccole, che riguardano il territorio e l'ambiente toscani, sono minuziosamente analizzate nei testi che seguono. Ma qui, per concludere, vogliamo introdurre un tema di riflessione di primaria importanza: quello della partecipazione. Siamo decisamente favorevoli a qualsiasi forma, giuridica e istituzionale, di promozione e regolamentazione della partecipazione. Ma la forma primaria della partecipazione è quella che prevede forme organizzate delle esperienze e delle lotte dei cittadini, che, muovendosi dal basso e da ogni possibile luogo del conflitto, presentano alle forze politiche e alle istituzioni richieste di correzione, mutamento e miglioramento.

Insomma, bisogna accettare il principio che fra le istituzioni e la politica si muove una terza forza, che non si identifica né con l'una né con le altre, ma rivendica nei loro confronti pari dignità. Non esiste solo il voto a rappresentare la cittadinanza. La ReTe e il neoambientalismo costituiscono un'esperienza decisiva in questa direzione.

La nostra idea di partecipazione prevede la consultazione preventiva dei soggetti popolari interessati, quando siano in gioco il mutamento o la trasformazione di fondamentali beni comuni. La democrazia partecipata non viene dopo ma prima: quella che cresce insieme con le decisioni dei poteri costituiti e passa, dall’inizio alla fine, attraverso un confronto continuo, da cui non possono prescindere le decisioni conclusive. E’ in questo modo che la democrazia si allarga a macchia d’olio sul territorio, invece di rimanere chiusa come spesso accade, nei Palazzi del potere.

Perciò l'Assemblea del 3 febbraio è così importante: potrà infatti costituire un momento serio di democrazia partecipata intesa in questo senso, se istituzioni e forze politiche accetteranno seriamente il confronto invece di rifugiarsi, come troppo spesso accade, in una pretesa di autosufficienza. Con questo spirito la ReTe va al confronto, chiamando i Comitati e i cittadini a esservi attivamente presenti.

Qui il testo completo del documento.

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