Titolo originale: Beijing’s Quest for 2008: To Become Simply Livable – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
PECHINO, 27 agosto – C’è uno schermo vicno a Piazza Tiananmen che conta i giorni che mancano ai Giochi Olimpici dell’estate 2008, e ogni giorno appare prezioso: Pechino deve realizzare o rinnovare 72 impianti sportivi e strutture di allenamento, asfaltare 59 nuove strade e completare tre nuovi ponti entro la cerimonia di inaugurazione.
Un compito che travolgerebbe la maggior parte delle città, ma Pechino è tanto efficiente nel versare cemento che il Comitato Olimpico Internazionale ha chiesto di rallentare, anziché terminare le realizzazioni troppo presto. Molto più difficile per Pechino sarà, invece, mantenere la promessa di ospitare un’Olimpiade “verde”, oltre all’obiettivo della nuova variante del piano regolatore generale: diventare “una città sostenibile per abitare”.
”È un concetto nuovo per noi” ha dichiarato Huang Yan, vice direttrice della commissione urbanistica, presentando il piano regolatore in aprile. “Non ci avevamo mai pensato prima”.
Per i 15,2 milioni di abitanti di Pechino, quel commento non rivela niente di nuovo. La città è intasata da ingorghi di traffico, col numero delle automobili che è più che raddoppiano in soli sei anni. La qualità dell’aria, dopo anni di continuo miglioramento, di recente si è assestata per alcuni indici, e ha iniziato a peggiorare per altri, mentre Pechino si colloca sempre fra le peggiori città del mondo per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico. La fornitura idrica è tanto al limite, che molti esperti hanno chiesto il razionamento.
Anche con l’incombente obiettivo delle realizzazioni olimpiche in corso nei settori settentrionali della città, il sindaco aggiustatutto Wang Qishan ha dichiarato che i suoi pensieri sono rivolti spesso a questioni non-olimpiche. In un discorso all’inizio dell’anno, Wang diceva di essere assediato dalle proteste pubbliche, e “le questioni calde sono sempre spazzatura, fogne, gabinetti pubblici e traffico”. La città è piena di migliaia di vecchie e puzzolenti latrine pubbliche, che sta velocemente cercando di sostituire.
”Ovunque guardo” ha riportato l’organo ufficiale governativo in lingua inglese China Daily, “sembra che ci siano problemi”. L’unica persona che non si lamenta, secondo il sindaco, è sua moglie.
Non è sicuro, che Pechino riesca a tradurre il suo teorico abbraccio alla “vivibilità” in veri miglioramenti nella qualità della vita, in una città che spesso appare come un immenso cantiere (ce ne sono, più o meno, 8.000 aperti).
Gli osservatori sono scettici. Attribuiscono le attuali intenzioni dichiarate di Pechino al fallimento delle precedenti politiche di piano, e incolpano il governo per uno sviluppo rampante, che ha distrutto molta parte della città storica, producendo il guazzabuglio di quella nuova emergente.
”La cattiva urbanistica degli scorsi decenni è diventata motivo di imbarazzo per l’amministrazione” dice Wang Jun, il cui libro best-seller, “Storia di una città”, documenta la demolizione di molti quartieri storici “ hutong”, le vecchie e densamente popolate énclaves di vicoli stretti e tortuosi con le cadenti case a corte.
Wang afferma che Pechino non si è mai ripresa dagli anni ‘50, quando il principale storico dell’architettura nazionale Liang Sicheng ammoniva che distruggere gli hutongs avrebbe portato a traffico e inquinamento, e chiedeva urgentemente a Mao di conservare le antiche mura Pechino. Invece, Mao le demolì in quanto simbolo del feudalesimo cinese.
Più di recente, gli hutongs sono stati demoliti spostando un imprecisato numero di migliaia di persone, per far spazio alle migliaia di nuovi intervento che si sono ingoiati la città.
”Ora le vecchie previsioni sono realtà” dice Wang dell’inquinamento e del traffico.
La costante pressione, su Pechino e le altre città cinesi, è quella dell’immigrazione. La Cina è nel mezzo di uno dei momenti di urbanizzazione più rapidi della storia, con 300 milioni di persone che si prevede migreranno verso le città nei prossimi 15 anni.
La popolazione della sola Pechino potrebbe superare i 21 milioni entro il 2020, se la crescita continua al ritmo di oggi.
La signora Huang dice che gli urbanisti sono stati obbligati e rivedere le priorità. Pechino ora comprende una vasta area geografica, per la maggior parte montagnosa e punteggiata da villaggi rurali.
Il nuovo piano generale vuole creare centri satellite suburbani per allentare le pressione demografica sul centro. L’industria manifatturiera, per esempio, sarà concentrata a est, l’alta tecnologia a ovest. La signora dice che l’accesso limitato all’acqua e le carenze energetiche nazionali hanno reso essenziale una pianificazione più attenta.
”Nel passato, non pensavamo alla questione delle risorse” dice. “Ci concentravamo esclusivamente sullo sviluppo”.
Il Partito Comunita al potere considera le Olimpiadi come il comitato di benvenuto della Cina verso il resto del mondo, e tutta Pechino sta aspettando il 2008. Il governo ha deliberato che i principali progetti vengano completati diversi mesi prima della cerimonia di apertura. Le strutture olimpiche saranno terminate entro la fine del 2007.
Ma non è ancora chiaro se Pechino sarà in grado di rispettare gli obiettivi della propria promessa olimpica “verde”. I funzionari si sono impegnati a spostare alcune fabbriche, a chiuderne altre. Migliaia di camion e taxi pesantemente inquinanti sono stati sostituiti da veicoli con rigidi limiti per quanto riguarda le emissioni.
Lo scorso anno, i funzionari municipali hanno festeggiato quando Pechino, anche se solo per un pelo, ha rispettato l’obiettivo di 227 giornate cosiddette “Cielo Azzurro”, basato sui livelli di tre principali sostanze inquinanti nell’atmosfera.
Ma alcuni abitanti erano tanto scettici da accusare il municipio di manipolazione dei dati. Un recente rapporto dell’ufficio ambientale dell’ambasciata USA a Pechino ha riconosciuto l’incremento delle giornate “Cielo Azzurro”, ma sottolinea che gli standards utilizzati sono meno rigidi di quelli americani. Il rapporto rivela che il numero dei giorni con “livelli di inquinamento estremamente nocivi” è caduto da 17 a 5, e che l’indice generale è invece risalito sull’arco annuale.
Lo studio ha anche rilevato che i livelli di alcuni particolati nell’aria erano di parecchie volte più alti che nelle principali città americane, e che Pechino potrebbe non raggiungere l’obiettivo dell’adeguamento ai criteri di qualità dell’aria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità entro il 2008.
L’impennata nell’auto privata – il cui numero sta raggiungendo i tre milioni – diminuisce i vantaggi ottenuti dalle azioni su camion e taxi inquinanti. Le auto private sembrano sempre più incombenti sulla città, e il comune risponde con una frenetica costruzione di strade, anche se si espandono metropolitane e ferrovie leggere. “Essenzialmente, è come usare il modello Los Angeles per risolvere il problema di New York” commenta lo studioso Wang Jun.
Los Angeles, naturalmente, potrebbe anche fornire un po’ di ispirazione a Pechino, avendo ridotto drasticamente i propri livelli di inquinamento.
Anche ora, ci sono momenti in cui l’inquinamento cade, e Pechino si rivela per quello che potrebbe essere. In agosto, dopo una serie di forti piogge, il cielo era oltremodo azzurro e si vedeva chiaramente il cerchio di montagne irregolari attorno alla città.
Ma sono giornate rare. Non lontano dalla Piazza Tiananmen, l’ufficio urbanistica municipale offre qualche immagine di come si spera apparirà Pechino entro il 2008, con un impressionante modello in scala: il quartiere degli affari snello gruppo di torri avveniristiche; il complesso olimpico che si eleva elegante a nord, circondato da spazi verdi; l’antica Città Proibita al centro.
Appare tutto ordinato, persino possibile, ma forse è solo perché manca qualcosa di importante: in quel modello non ci sono quasi persone, o automobili.
Nota: il testo originale al sito del New York Times (f.b.)
Solo gli addetti ai lavori, e una minoranza di cittadini bene informati, oggi sanno che una pratica corrente dell’agricoltura del nostro tempo è il diserbo chimico. Le cosiddette erbacce non vengono più estirpate manualmente o meccanicamente, come accadeva in passato, ma la loro distruzione è affidata a molecole chimiche che si incaricano di annientare il loro sistema ormonale, lasciando in vita le colture utili. Si tratta di una pratica che ha cominciato a diffondersi nel nostro Paese all’indomani della seconda guerra mondiale e che ormai è accettata universalmente come una consuetudine normale. Essa offre infatti la possibilità di risparmiare lavoro e quindi di ridurre i costi aziendali. Fa parte quindi delle innovazioni tecniche inaugurate dall’agricoltura industriale nel XX secolo, che hanno reso la nostra agricoltura sempre più competitiva ma al tempo stesso i nostri agricoltori sempre più subordinati all’industria chimica e soggetti a margini decrescenti di profitto.
Oggi anche su piccoli appezzamenti di terreno, in ogni regione d’ Italia, si pratica sistematicamente questa operazione di avvelenamento selettivo del terreno per avere campi privi di erbe indesiderate. Può capitare che persino il personale dei comuni e delle provincie, incaricato di tenere sgombri i bordi delle strade, ricorra a simili mezzi, oltre al decespugliatore meccanico.
Chi possiede gli strumenti per leggere il paesaggio, e le condizioni del terreno, girando per le nostre campagne può scorgere le tracce visibili della silenziosa guerra chimica oggi in corso. Sempre più frequentemente gli interfilari di vigneti e frutteti appaiono completamente nudi, salvo radi ciuffi d’erba rosseggianti che sembrano sopravvissuti al passaggio del fuoco. Tutto ciò nonostante l’agricoltura biologica abbia da tempo scoperto e sperimentato - valorizzando vecchi saperi contadini - i vantaggi del mantenimento controllato dell’erba nel campo(inerbimento).Questa pratica infatti assicura la difesa del suolo dall’azione dalla pioggia battente e dai processi di erosione, la conservazione dell’humus e della vita biologica del terreno, la difesa della biodiversità, una crescita più sana delle piante, una superiore qualità organolettica dei frutti, ecc.
Ma il ricorso al diserbo chimico continua anche perché esso fa parte di un sistema che ha finito coll’imporre le regole del profitto anche all’ambito incomprimibile della vita. L’agricoltura industriale, infatti, ha abolito le antiche rotazioni delle colture - con le quali si curava la fertilità del terreno e si conteneva la proliferazione delle erbe spontanee - e ha affidato interamente alla chimica il compito di produrre, con i concimi di sintesi, i prodotti agricoli, e di distruggere le piante indesiderate con i diserbanti. Questi ultimi fanno dunque anche parte di un circolo vizioso che agli effetti indesiderati prodotti dall’alterazione degli equilibri naturali risponde con una ulteriore assoggettamento della vita organica alla chimica.
Ebbene, a parte le considerazione esposte, ci sono almeno quattro fondamentali ragioni per dire basta a questo modo violento e barbarico di fare agricoltura: 1) I diserbanti sono altamente nocivi alla salute umana, soprattutto degli agricoltori che li usano. Alcuni componenti come il 2,4 D e il 2,4,5 T (quest’ultimo presente nei defolianti usati dagli americani nella guerra contro il Vietnam) sono gravemente indiziati di ingenerare tumori e i linfomi-non-Hodgkin .( H.Norberg-Hodge/P.Goering/ J.Page, From the ground up. Rethinking industrial agricolture, Zed Books, London 2001, p.19). Una campagna dove sempre più frequentemente circolano tali veleni è destinata a diventare un luogo altamente insalubre tanto per gli agricoltori che per tutti noi.. 2) I diserbanti non solo sono gravemente nocivi alla fauna campestre(uccelli, serpi, talpe, ricci, rospi, grilli, cicale, ecc.) ma sopprimono anche gran parte della vita biologica del terreno. E il terreno non è un semplice supporto neutro per le coltivazioni, quale lo ha reso l’agricoltura industriale, ma un organismo vivente su cui crescono le piante da cui ricaviamo il nostro cibo. Esso è, a pensarci bene, la base stessa della vita. Di ogni vita sulla terra. E’ difficile immaginare che possa sopportare a lungo l’avvelenamento chimico selettivo dei diserbanti. Così come appare difficile immaginare che si possano produrre alimenti sani da un habitat in cui la vita viene così sistematicamente perseguita.. 3) I diserbanti inquinano gravamente le falde acquifere. Noi non sappiamo che cosa succederà - e che cosa succeda già adesso - delle fonti da cui i comuni attingono le risorse idriche per distribuire l’acqua potabile ai cittadini. Dopo anni di diserbo chimico sempre più intenso è facile prevedere che i veleni saranno diffusamente presenti nelle nostre falde. Ora, che una delle risorse più preziose della nostra vita e delle nostre economie, bene sempre più scarso, risorsa strategica per il futuro, debba essere distrutta da una delle pratiche più dissennate che l’uomo abbia immesso nell’agricoltura recente è un paradosso che ripugna a ogni elementare buon senso.
4) Infine, un paradosso a cui la scienza e la tecnica, nel corso dell’età contemporanea, ci hanno spesso abituati. I diserbati si rivelano alla lunga inutili e controproducenti per lo stesso fine per cui sono utilizzati. Riporto le testimonianze di due esperti italiani, appartenenti all’ambito dell’agricoltura convenzionale: "L’introduzione della pratica del diserbo chimico ha provocato una profonda modifica della struttura della vegetazione spontanea. I tratti fondamentali di questo cambiamento possono essere riassunti da una parte nella riduzione della ricchezza floristica e dall’altra nell’abbondanza di un numero ristretto di specie.Pertanto, negli agro-ecosistemi si è ridotto il numero totale di specie infestanti e quelle adattatesi alle nuove condizioni imposte dalla tecnica, per un fenomeno di compensazione, hanno assunto una elevata densità di individui. Il risultato di questo processo è stato un progressivo avvicinamento ecofisiologico tra malerbe e colture, fino ad arrivare, in pratica, a strette associazioni tra specie infestante e specie coltivata, che rendono poco efficaci i trattamenti chimici.Le infestanti sono riuscite ad evolvere strategie ecologiche per sfuggire all’azione dei trattamenti. Si deve infatti tener conto che il diserbo chimico è in grado di colpire solo la quota di infestazione in atto, ma lascia sostanzialmente indisturbata quella non visibile, definita potenziale, dovuta ai semi e agli organi di propagazione agamica presenti nel terreno. L’infestazione potenziale può rappresentare oltre il 90% della infestazione totale" (P.Catizone-G.Dinelli , Il controllo della vegetazione infestante, in Accademia nazionale di Agricoltura, L’agricoltura verso il terzo millennio attraverso i grandi mutamenti del XX secolo, Edagricole Bologna 2002, pp. 596-97)
Questa pratica rappresenta dunque una delle procedure alla lunga più inutili, inquinanti, dannose e costose (per gli agricoltori e i consumatori) oggi presente nella agricoltura del nostro tempo. Essa va integralmente estirpata dalla nostra agricoltura come una delle scelte più sbagliate ed infauste della tecnoscienza contemporanea. Non c’è alcuna ragione - a parte gli interessi dell’industria chimica e i problemi tecnici che pongono le risaie della pianura padana - perché tale forma di avvelenamento delle nostre campagne duri un giorno in più. Il risparmio di lavoro che il diserbo chimico consente, rispetto a quello meccanico, non può più essere calcolato in termini puramente aziendali, come è stato fatto dissennatamente finora. Se nel computo si immettono i molteplici costi sociali, economici, biologici, ambientali che il suo uso comporta il bilancio puramente aziendale mostra la sua non più occultabile cecità.
E’ grande francamente lo stupore di fronte alla mancanza di iniziative dei movimenti ambientalisti su tale fronte. Che cosa si attende per avviare una grande iniziativa popolare perchè il diserbo chimico sia gradualmente, ma definitivamente bandito dall’agricoltura italiana? Perché si tarda ad avviare una campagna ambientalista che investa tutta l’agricoltura europea? Qualcuno obietterà prontamente che l’abolizione dei diserbanti creerà uno svantaggio competitivo all’agricoltura del Vecchio Continente. E’ appena il caso di ricordare che la competizione sul piano della quantità è ormai un vecchio obiettivo da paese poveri e che l’agricoltura italiana ed europea ha ormai davanti a sè più vasti orizzonti qualitativi da perseguire.
Il sito del bollettino I frutti di Demetra: gli indici e come abbonarsi
Titolo originale: Australia looks beyond Kyoto with new pact – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
È stato annunciato oggi dal governo federale un nuovo accordo fra Australia, Stati Uniti, India, Cina e Sud Corea per sviluppare nuove tecnologie per ridurre le emissioni di gas serra.
L’Australia entro quest’anno ospiterà il primo incontro di rappresentanti dei governi firmatari per negoziare i dettagli di un patto considerato dal governo Howard come alternativo al protocollo di Kyoto.
Ma i partiti dell’opposizione e i movimenti ambientalisti affermano che l’accordo è solo una copertura della riluttanza australiana a tagliare le emissioni, e che ignora il mercato esistente delle energie rinnovabili.
I critici sottolineano anche come Australia e USA – che hanno rifiutato di ratificare il protocollo internazionale di Kyoto per tagliare le emissioni – stessero facendo meno della maggior parte dei paesi in via di sviluppo per affrontare il proprio inquinamento da gas serra.
Scopo dell’accordo, secondo fonti governative, è lo sviluppo di tecnologie commercialmente valide entro il 2012, quando diventerà efficace il protocollo di Kyoto.
Queste soluzioni tecnologiche comprendono il filtraggio delle emissioni e l’interramento dell’anidride carbonica prodotta dalle centrali energetiche a carbone. Saranno anche stabiliti accordi di condivisione tecnologica ed esportazione. Nonostante l’Australia sia all’avanguardia in molte di queste tecnologie, allo stadio attuale nessuna di esse è commercialmente matura.
Il ministro degli esteri, Alexander Downer, dovrà discutere i particolari del patto con i suoi corrispondenti di India, Cina e Sud Corea, nell’incontro al vertice dei ministri degli esteri della Association of South-East Asian Nations di Laos.
Il direttore esecutivo della Australian Conservation Foundation, Don Henry, dice che gli USA “evitano il problema di fissare obiettivi di taglio delle missioni. La Cina mostra più serietà su questo aspetto, sia rispetto all’Australia che agli USA”.
Il ministro federale per l’Ambiente, Ian Campbell, ha dichiarato ieri che presto saranno annunciati i particolari dell’accordo. “È chiaro che il protocollo di Kyoto non porterà il mondo dove desidera”, ha detto il senatore Campbell.
”Dobbiamo affrontare i grandi emissori, dobbiamo impegnare le nazioni che non si sono impegnate su Kyoto, dobbiamo assicurarci di sviluppare tecnologie che amplino la produzione di energia, perché ne abbiamo bisogno di più”.
Cina e India hanno già fatto notevoli progressi verso la copertura del proprio fabbisogno energetico, e nello spostamento a fonti pulite come il vento.
L’Australia ha alcuni obiettivi fissati di energie rinnovabile a circa il 2% di tutta la produzione, ma il governo ha rifiutato di incrementarli.
Il leader dei Verdi, Bob Brown, afferma che alla base del nuovo patto stanno le lobbies del carbone USA e australiane.
Le cinque nazioni del patto segreto comprendono quattro dei maggiori produttori mondiali di carbone: Cina, USA, India e Australia. “È denaro del contribuente deviato, dallo sviluppo di tecniche per energie pulite e rinnovabili, verso il tentativo di bruciare carbone in modo meno sporco”.
COSA CI ASPETTA
● Le temperature in Australia cresceranno in media annuale di 1-6 gradi entro il 2070.
● Questo significherà più ondate di caldo, incendi e siccità, minacce alla produzione agricola, alle proprietà, alla vita.
● Gli insediamenti costieri saranno più vulnerabili ai cicloni, tempeste, inondazioni.
● Il mutamento climatico potrebbe far traboccare dighe, lasciarne in secca altre, aumentare i rischi di caduta di tensione elettrica a causa di picchi di domanda o incendi boschivi.
● Saranno messi in pericolo posti di lavoro nella pesca, agricoltura e allevamento. Ne soffrirà anche il turismo, con il rischio per ecosistemi come la Grande Barriera Corallina.
Nota: questo articolo del Sidney Morning Herald è stato ripreso dal sito sul riscaldamento globale Cimate Ark (f.b.)
«La terra possiede risorse sufficienti per provvedere ai bisogni di tutti, ma non all’avidità di alcuni»; questa affermazione del Mahatma Gandhi centra il cuore del problema delle risorse e al contempo è quanto mai profetica. La radice del termine risorse si trova nel verbo latino surgere e come l’acqua sgorga dal terreno, la Terra Madre elargisce copiosamente beni per la nostra vita comune.
Va da sé che questi beni debbono essere utilizzati con giudizio e parsimonia, non solo perché sono un patrimonio comune, ma perché la rinnovabilità della natura ha bisogno di tempi lunghi. Ma il buon senso e la responsabilità verso i processi naturali hanno lasciato il campo a uno sfruttamento illimitato nel nome dello sviluppo e dell’economia di mercato. L’insegnamento di Francis Bacon ha condizionato per secoli e fino a oggi i nostri comportamenti: «La natura è una prostituta; noi dobbiamo domarla, penetrare i suoi segreti e incatenarla secondo i nostri desideri». Aver concepito la natura come un ammasso di materie prime da trasformare in "ricchezze" ci ha portati a un drammatico impoverimento delle risorse naturali.
Con queste premesse le più grandi doglianze e paure riguardano la perdita di quelle risorse che garantiscono l’attuale sistema produttivo ed energetico. Il progressivo depauperamento di giacimenti di petrolio, carbone, gas naturali fa presagire un nuovo Medio Evo. Il dibattito si rivolge, giustamente, alle energie rinnovabili, alla moderazione nei consumi, all’implementazione delle ricerche o alla riproposizione di vecchie scelte come quella del nucleare.
Esiste, insomma, una predominanza delle risorse fossili così forte e determinata che pone in seconda linea quel mondo naturale e quei beni comuni che sono alla base della nostra vita biologica. Mentre nei paesi ricchi l’attenzione è puntata sulla crisi delle risorse fossili, nei paesi del Sud del mondo invece spaventa soprattutto la crisi delle risorse viventi.
La contrapposizione sull’utilizzo dei prodotti agricoli per produrre carburanti o cibo è significativa. La metà dei posti di lavoro nel mondo è legata alla pesca, all’agricoltura, all’economia di raccolta e di produzione del cibo; le risorse viventi sono fondamentali per le cosiddette economie di sussistenza.
L’acqua, l’aria, la fertilità dei suoli, per non parlare dello stato di salute delle foreste, degli oceani, dei fiumi e della biodiversità del mondo animale e vegetale sono sempre più minacciati dal fatto che la natura è diventata un oggetto di dominio. Il bilancio finale comincia a rendere conto degli ingenti danni provocati alle risorse naturali e all’ecosistema. C’è una teoria che descrive come l’uomo, convinto di dominare la Natura e di averla a sua completa disposizione, utilizzi la tecnica per trovare soluzioni ai singoli problemi; ma per ogni risposta tecnologica che escogita, ecco presentarsi nuovi e più gravi problemi, causati proprio da quella che doveva essere una soluzione. Tutto ciò è quanto mai calzante per il pianeta oggi e sembra che ci abbia fatto raggiungere il limite estremo. La situazione impone ben più che un semplice mutamento di rotta: impone un radicale cambio di mentalità, un pensiero più complesso, più umiltà e senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente, degli ecosistemi, della Terra Madre.
Violare i limiti di rigenerazione della natura significa aggravare la scarsità delle risorse: i fiumi si inaridiscono, i suoli perdono fertilità, l’aria diventa irrespirabile, le foreste scompaiono. Perché insistere a superare i limiti che la terra ci impone? Così non si fa che crearne dei nuovi, di limiti, finché non sarà più possibile rimediare.
Scriveva Ungaretti:
L’uomo, monotono universo, / crede allargarsi i beni / e dalle sue mani febbrili / non escono senza fine che limiti.
La gestione del limite diventa il primo esercizio di sostenibilità, non soltanto ambientale.
Ma per farlo bisogna rinunciare alla crescita economica come unico criterio di progresso umano. In questo quadro l’uso spregiudicato delle risorse genetiche apre nuove frontiere, nuovi rischi e pone un problema di giustizia. Il 20 per cento della popolazione mondiale utilizza il 75 per cento delle risorse globali.
Acquisita quindi la consapevolezza dei limiti biofisici non si può ritenere equa e giusta l’attuale spartizione delle risorse e la crescente privatizzazione dei beni comuni. Da un lato il materiale genetico è diventato una risorsa da brevettare, dall’altro lato dopo la privatizzazione delle terre comuni oggi si assiste alla privatizzazione massiccia delle risorse idriche e delle sementi. Combattere contro la privatizzazione dei beni comuni e per la loro tutela e valorizzazione è una scelta di civiltà e democrazia. Molti di questi beni e di queste risorse appartengono di diritto alle comunità locali e indigene, sono parte integrante delle culture tradizionali. Dalle risorse naturali queste comunità ricavano alimenti, erbe medicinali, materiali per il loro abbigliamento e le loro abitazioni; le stesse risorse naturali ne hanno segnato la storia, la cultura e la spiritualità.
I saperi tradizionali sono da sempre i veri tutori della biodiversità, della rigenerazione e del risparmio delle risorse. Quante volte i saperi delle comunità indigene hanno rivelato proprietà naturali utilizzate poi per la produzione di medicinali e cosmetici senza che si riconoscesse loro la primogenitura di queste scoperte o l’indu
I nostri beni comuni che dobbiamo difendere
CARLO PETRINI
«La terra possiede risorse sufficienti per provvedere ai bisogni di tutti, ma non all’avidità di alcuni»; questa affermazione del Mahatma Gandhi centra il cuore del problema delle risorse e al contempo è quanto mai profetica. La radice del termine risorse si trova nel verbo latino surgere e come l’acqua sgorga dal terreno, la Terra Madre elargisce copiosamente beni per la nostra vita comune.
Va da sé che questi beni debbono essere utilizzati con giudizio e parsimonia, non solo perché sono un patrimonio comune, ma perché la rinnovabilità della natura ha bisogno di tempi lunghi. Ma il buon senso e la responsabilità verso i processi naturali hanno lasciato il campo a uno sfruttamento illimitato nel nome dello sviluppo e dell’economia di mercato. L’insegnamento di Francis Bacon ha condizionato per secoli e fino a oggi i nostri comportamenti: «La natura è una prostituta; noi dobbiamo domarla, penetrare i suoi segreti e incatenarla secondo i nostri desideri». Aver concepito la natura come un ammasso di materie prime da trasformare in "ricchezze" ci ha portati a un drammatico impoverimento delle risorse naturali.
Con queste premesse le più grandi doglianze e paure riguardano la perdita di quelle risorse che garantiscono l’attuale sistema produttivo ed energetico. Il progressivo depauperamento di giacimenti di petrolio, carbone, gas naturali fa presagire un nuovo Medio Evo. Il dibattito si rivolge, giustamente, alle energie rinnovabili, alla moderazione nei consumi, all’implementazione delle ricerche o alla riproposizione di vecchie scelte come quella del nucleare.
Esiste, insomma, una predominanza delle risorse fossili così forte e determinata che pone in seconda linea quel mondo naturale e quei beni comuni che sono alla base della nostra vita biologica. Mentre nei paesi ricchi l’attenzione è puntata sulla crisi delle risorse fossili, nei paesi del Sud del mondo invece spaventa soprattutto la crisi delle risorse viventi.
La contrapposizione sull’utilizzo dei prodotti agricoli per produrre carburanti o cibo è significativa. La metà dei posti di lavoro nel mondo è legata alla pesca, all’agricoltura, all’economia di raccolta e di produzione del cibo; le risorse viventi sono fondamentali per le cosiddette economie di sussistenza.
L’acqua, l’aria, la fertilità dei suoli, per non parlare dello stato di salute delle foreste, degli oceani, dei fiumi e della biodiversità del mondo animale e vegetale sono sempre più minacciati dal fatto che la natura è diventata un oggetto di dominio. Il bilancio finale comincia a rendere conto degli ingenti danni provocati alle risorse naturali e all’ecosistema. C’è una teoria che descrive come l’uomo, convinto di dominare la Natura e di averla a sua completa disposizione, utilizzi la tecnica per trovare soluzioni ai singoli problemi; ma per ogni risposta tecnologica che escogita, ecco presentarsi nuovi e più gravi problemi, causati proprio da quella che doveva essere una soluzione. Tutto ciò è quanto mai calzante per il pianeta oggi e sembra che ci abbia fatto raggiungere il limite estremo. La situazione impone ben più che un semplice mutamento di rotta: impone un radicale cambio di mentalità, un pensiero più complesso, più umiltà e senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente, degli ecosistemi, della Terra Madre.
Violare i limiti di rigenerazione della natura significa aggravare la scarsità delle risorse: i fiumi si inaridiscono, i suoli perdono fertilità, l’aria diventa irrespirabile, le foreste scompaiono. Perché insistere a superare i limiti che la terra ci impone? Così non si fa che crearne dei nuovi, di limiti, finché non sarà più possibile rimediare.
Scriveva Ungaretti: "L’uomo, monotono universo, / crede allargarsi i beni / e dalle sue mani febbrili / non escono senza fine che limiti".
La gestione del limite diventa il primo esercizio di sostenibilità, non soltanto ambientale. Ma per farlo bisogna rinunciare alla crescita economica come unico criterio di progresso umano. In questo quadro l’uso spregiudicato delle risorse genetiche apre nuove frontiere, nuovi rischi e pone un problema di giustizia. Il 20 per cento della popolazione mondiale utilizza il 75 per cento delle risorse globali.
Acquisita quindi la consapevolezza dei limiti biofisici non si può ritenere equa e giusta l’attuale spartizione delle risorse e la crescente privatizzazione dei beni comuni. Da un lato il materiale genetico è diventato una risorsa da brevettare, dall’altro lato dopo la privatizzazione delle terre comuni oggi si assiste alla privatizzazione massiccia delle risorse idriche e delle sementi. Combattere contro la privatizzazione dei beni comuni e per la loro tutela e valorizzazione è una scelta di civiltà e democrazia. Molti di questi beni e di queste risorse appartengono di diritto alle comunità locali e indigene, sono parte integrante delle culture tradizionali. Dalle risorse naturali queste comunità ricavano alimenti, erbe medicinali, materiali per il loro abbigliamento e le loro abitazioni; le stesse risorse naturali ne hanno segnato la storia, la cultura e la spiritualità.
I saperi tradizionali sono da sempre i veri tutori della biodiversità, della rigenerazione e del risparmio delle risorse. Quante volte i saperi delle comunità indigene hanno rivelato proprietà naturali utilizzate poi per la produzione di medicinali e cosmetici senza che si riconoscesse loro la primogenitura di queste scoperte o l’industria pagasse il dazio per essersene appropriata... Molta parte della povertà nel mondo è dovuta a queste forme di appropriazione indebita. Brevettare i semi e la biodiversità, privatizzare l’acqua, affidare l’agricoltura al monopolio delle multinazionali significa dare il colpo di grazia alle economie di sussistenza e al lavoro femminile nelle immense campagne del mondo. Molti gruppi di persone nel Terzo mondo, in particolare le donne rurali e i popoli indigeni, possiedono conoscenze e pratiche produttive assolutamente sostenibili, capaci di rinnovare la fertilità della terra, di conservare l’acqua, di selezionare i semi. La prosperità di queste comunità è direttamente proporzionale alla capacità dei loro membri di condividere le risorse, con equità e parsimonia.
Lo sfruttamento illimitato delle tecnoscienze e del mercato rispetto alle risorse naturali e alla sostenibilità ci imporranno di riflettere sul nostro universo culturale occidentale, modernista.
La superiorità dell’economia sulla natura e sulla cultura sta alla base della crisi delle risorse e della sostenibilità. Come dice Vandana Shiva: «In un mondo finito, ecologicamente interconnesso e soggetto alle leggi dell’entropia, i limiti naturali hanno bisogno di essere rispettati. Non possono dipendere dai capricci e dalle convenienze del capitale e delle forze di mercato».
Per capire quanto il denaro non sia convertibile alla vita è forse opportuno ricordare la saggezza dei Nativi americani quando affermavano: «Solo quando avrai abbattuto l’ultimo albero, pescato l’ultimo pesce e inquinato l’ultimo fiume, solo allora capirai che non puoi mangiare i soldi».
Titolo originale: Hurricane center chief issues final warning – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
MIAMI — Frustrato dal fatto che né i politici né la gente sembrano dargli ascolto, il direttore del National Hurricane Center, Max Mayfield, mette fine alla sua carriera di 34 anni nell’amministrazione federale, alla ricerca di un nuovo pulpito da cui lanciare il proprio sgradevole messaggio: l’uragano Katrina non è stato niente, in confronto a quello grosso che deve ancora arrivare.
Mayfield, 58 anni, abbandona il suo ruolo di alto profilo al National Weather Service più convinto che mai che gli abitanti del sud-est degli Stati Uniti stiano rischiando una tragedia senza precedenti continuando a costruire abitazioni vulnerabili nella zona delle tempeste tropicali, e non pianificando percorsi di evacuazione rapida.
Indica i sette milioni di abitanti sulla costa della Florida meridionale.
“Andremo a finire con una tempesta sufficientemente forte, in un’area densamente popolata, tale da provocare un enorme disastro” spiega. “Conosco persone che non ne vogliono sentir parlare, e in genere anch’io sono molto positivo, ma davvero ci stiamo preparando a un grosso disastro”.
Sono oltre 1.300 le morti attribuite in tutta la Costa del Golfo all’uragano Katrina, il più alto costo umano da un evento atmosferico negli USA da gli anni ‘20.
Ma Mayfield avverte che si potrebbero avere dieci volte tante vittime per quello che vede come l’inevitabile abbattersi di una enorme tempesta, nell’arco dell’attuale fase a elevata attività di uragani, che si prevede durerà altri 10-20 anni.
La sua previsione apocalittica di migliaia di morti e milioni di senzatetto propone un lato opposto della personalità che si era imposta alla guida del centro uragani.
Mayfield è diventato una celebrità nazionale durante le tempestose stagioni del 2004 e 2005, comparendo sulle reti televisive con aggiornamenti orari degli uragani Charley, Ivan, Frances e Wilma mentre questi colpivano i Carabi e il Sud-Est. Il suo atteggiamento calmo e la paterna sincerità, gli hanno guadagnato la fiducia di milioni di spettatori in cerca di indispensabile orientamento per la sopravvivenza.
E sostiene che le sue fosche previsioni non devono per forza avverarsi.
Esistono le tecnologie per realizzare edifici sviluppati in altezza in grado di sostenere il vento degli uragani, e tempeste tropicali più potenti di quelle sperimentate negli ultimi anni. Gran parte delle architetture di Hong Kong sono state pensate per sopportare i tifoni, e gli alberghi e appartamenti di Kobe, Giappone, dopo che un terremoto nel 1995 ha devastatola città, sono vantati come indistruttibili, spiega.
Quello che manca negli Stati Uniti è la volontà politica di prendere e attuare decisioni difficili sui regolamenti edilizi e urbanistici, superando le resistenze dell’influente mondo delle costruzioni e di una pubblica amministrazione che vuole ancora scommettere sul fatto che la tempesta grossa non colpirà mai, dice.
“Fa bene al fisco” consentire che si costruiscano edifici sulla linea di costa, spiega Mayfield a proposito della riluttanza dei politici a scoraggiare i progetti insediativi che espongono gli abitanti ai rischi delle tempeste.
“Non vorrei che i costruttori se la prendessero con me, ma è il loro settore che si oppone in modo più deciso a migliorare le regole edilizie”.
Anche i consumatori devono chiedere costruzioni più solide, aggiunge Mayfield. Le imprese guadagnano di più rispetto ai propri investimenti migliorando tappezzerie e finiture che con la sicurezza al di sopra dei criteri minimi fissati dagli stati, spiega.
In quanto alto dirigente pubblico, a Mayfield è stato proibito di cercare un lavoro nel settore private mentre era ancora alle dipendenze del governo. Ma martedì, suo ultimo giorno in carica, ha spiegato che spera di iniziare una seconda carriera come consulente nella pianificazione dell’emergenza e nell’intervento per le calamità naturali. É particolarmente interessato alle potenzialità di iniziative pubblico-private di studio dei casi di disastri naturali a scopo informativo.
Immagina un servizio di valutazione delle calamità naturali simile a quello del National Transportation Safety Board, che esamina cause e conseguenze degli incidenti aerei e negli altri settori dei trasporti.
“Quando il NTSB verifica problemi strutturali come causa di un incidente aereo, non capita che quel modello continui ad essere prodotto con le medesime caratteristiche e problemi” spiega.
Invece con le calamità naturali gli stessi errori che mettono a rischio le vite umane vengono replicati anno dopo anno, in costruzioni non sicure e pianificazione urbanistica inadeguata, dice.
Mayfield racconta anche di star meditando una collaborazione con chi sostiene la necessità di regole urbanistiche e edilizie più severe.
“Non è solo un problema di previsioni. Qualunque cosa faccia, voglio che contribuisca a cambiare i risultati” dice, ammettendo frustrazione rispetto alla persistente disattenzione pubblica per le campagne federali e locali per stimolare consapevolezza e preparazione agli uragani.
Anche dopo la devastante stagione del 2004 e del 2005, dice, meno del 50% delle aree a rischio si sono dotate di piani di evacuazione.
Pur critico rispetto alla risposta della Federal Emergency Management Agency alle devastazioni di Katrina a New Orleans, avverte a proposito di un eccesso di dipendenza dal governo federale nelle emergenze. É rimasto sconcertato vedendo le agenzie federali che distribuivano acqua e ghiaccio in Florida meridionale dopo l’uragano Wilma dell’ottobre 2005, quando c’erano i negozi aperti ed era potabile l’acqua del rubinetto.
“Non si deve aspettare la prima risposta dal governo federale. Il governo non può e non deve fare tutto, altrimenti si crea una cultura della dipendenza”.
Mayfield loda l’amministrazione statale della Florida per il ben organizzato programma di risposta alle calamità naturali, e per le azioni verso una migliore sicurezza edilizia, che contrastano con quelle di altri stati del Golfo del Messico i quali, afferma, ancora non hanno le stesse regole per le costruzioni estese a tutto il territorio.
Anche se nome e viso di Mayfield sono abbastanza noti da farne oggetto di attenzione per qualche speranza presidenziale, ride all’idea di presentarsi candidato.
“Oh, buon dio, no! Non è proprio il mio genere”, risponde.
Al centro uragani del campus alla Florida International University, il successore di Mayfield sarà Bill Proenza, direttore del National Weather Service pe la regione del Sud. Abitata da 77 milioni di persone, l’area ha “il sistema atmosferico più attivo e potenzialmente pericoloso del mondo” secondo l’agenzia cugina, la National Oceanic and Atmospheric Administration.
Proenza, 62 anni, ha cominciato la sua carriera meteorologica come dipendente dell’ufficio di Miami nel 1963. Da direttore di 50 uffici regionali con 1.000 dipendenti in tutta l’area meridionale negli ultimi otto anni, ha una lunga esperienza di collaborazione con il personale del centro uragani per quanto riguarda previsioni e monitoraggio.
“É uno dei motivi per cui non ho alcun problema a lasciare l’incarico” spiega Mayfield, dichiarando il proprio timore che la stagione abbastanza tranquilla degli uragani nel 2006 abbia lasciato i responsabili delle aree a rischio ancora più passivi.
Nota: sul "caso" dell'uragano Katrina, degli interventi per la ricostruzione ecc., gli articoli proposti nelle varie sezioni da Eddyburg e eddyburg_Mall sono raccolti anche in una Visita Guidata (f.b.)
Titolo originale: The good life means more greenhouse gas – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Pechino - Pi Heyang chiude con circospezione la portiera della sua futura prima automobile. Poi fa scivolare la mano lentamente sulla carrozzeria splendente, toccando quella berlina cinese Tianjin Weizi con delicatezza, come se fosse fatta di stoffa finissima.
”Questo cambierà la nostra vita” dichiara solenne l’autista di autobus di Pechino, con moglie e figlio al suo fianco nel salone del concessionario.
A parecchi chilometri di distanza sulle strade piene di smog di Pechino, una sala esposizioni è stipata da migliaia di persone che sbirciano gli stand dove sono in mostra le nuove case disponibili nelle lottizzazioni suburbane. Si proiettano video, i danzatori si esibiscono, le scritte al neon in inglese mostrano nomi di quartieri come Rich Garden o Canal Side Upper Strata Life.
”Vogliamo spazio, verde, libertà” dice Han Yu, venditore di telefonini, dopo che lui e sua moglie hanno firmato i documenti per acquistare a 105.000 dollari un appartamento di tre stanze in condominio nella fascia orientale di Pechino. “Eccoli qui”.
È il nuovo Cinese Dream: automobili e suburbi. Come il suo corrispondente American, è una buona notizia per molta gente: probabilmente una pessima notizia per il Pianeta Terra. Lo stesso boom economico che sta catapultando ogni anno milioni di cinesi nella middle class ha fatto del loro paese la fonte di gas serra - e relativo riscaldamento globale - in più rapida crescita del mondo.
La sete cinese di carburanti contribuisce a spingere i prezzi mondiali del petrolio a livelli record, e il paese si sta confermando come elemento chiave nel dibattito sul mutamento climatico, e contemporaneamente jolly in grado di determinare la salute dell’economia internazionale.
I leaders cinesi riconoscono il riscaldamento del pianeta come problema serio, e hanno iniziato una campagna coordinata per tagliare le emissioni di gas serra del paese, in gran parte determinate dal consumo energetico. Il governo spende miliardi di dollari – nessuno sa esattamente quanti – per incrementare il risparmio energetico, chiudere le fabbriche sputa-fumi e ridurre le emissioni delle centrali elettriche. Allo stesso tempo, però, i progressi in termini di efficienza sono stati superati dalla crescita inarrestabile nell’uso dell’automobile, nella produzione di energia, nelle attività industriali.
Nonostante il governo cinese non pubblichi dati sulle emissioni di carbonio, la maggior parte degli analisti stranieri stima che la quantità di anidride carbonica sia seconda solo a quella degli Stati Uniti a livello mondiale, e in crescita, dal 5% al 10% l’anno: la più rapida dei grandi paesi. Si prevede che la Cina supererà gli Stati Uniti, prendendo il primo posto, entro il 2025, con un aumento complessivo delle emissioni di gas serra mondiali dal 12 al 20 per cento.
Secondo il protocollo di Kyoto, la Cina e altri paesi in via di sviluppo sono esenti dai tagli obbligatori di emissioni a cui devono adeguarsi le nazioni ricche. I funzionari cinesi sostengono che questi limiti impedirebbero loro di emergere dalla povertà, e sottolineano che le nazioni industriali sono responsabili per la grande maggioranza delle emissioni che provocano il riscaldamento globale.
L’amministrazione Bush afferma che l’esenzione della Cina è ingiusta, e questo è uno dei motivi per cui il Presidente ha tenuto fuori gli USA dai protocollo di Kyoto nel 2001. Il riscaldamento globale è in cima all’agenda del vertice G8 dei paesi più ricchi che si apre oggi in Scozia. Gli altri sette membri hanno promesso di aderire al trattato di Kyoto.
I sostenitori dell’amministrazione dicono che il boom economico della Cina si regge su sregolatezza e sprechi. La Cina utilizza il triplo di energia per ogni dollaro di prodotto interno rispetto alla media mondiale, e 4,7 volte quella degli Stati Uniti, secondo un recente studio del Dipartimento per l’Energia USA.
Ma i funzionari di Pechino difendono la posizione governativa.
”La Cina vuol fare la sua parte contro il riscaldamento globale, e abbiamo intrapreso molte azioni” dice Zhou Dadi, direttore generale dell’Istituto di Ricerche sull’Energia, l’agenzia centrale governativa per le politiche sull’argomento. Cita numerosi passaggi chiave degli anni recenti, come:
● una nuova legge approvata in febbraio per sostenere l’adozione di fonti energetiche rinnovabili, come l’eolico e i piccoli impianti idroelettrici
● la diffusione di nuove forme di risparmio energetico attuata attraverso gli impianti domestici
● gli standard di emissioni delle automobili da abbassare entro il 2007, in modo più rigido delle attuali norme USA
● l’inizio della costruzione di nove linee ferroviarie ad alta velocità – le prime del paese – per collegare le grandi città
Ma anche Zhou ammette che a queste azioni corrisponde d’altra parte una sempre più forte spinta economica.
”Sui mezzi di comunicazione passano moltissimi messaggi che tentano di convincere le persone ad adottare modi di vita americani, come un’auto di lusso, una casa molto grande” dice. “È questo, che vogliono tutti, ora. Fa parte dello sviluppo, è una fase storica. L’efficienza energetica è funzione di tutto questo”.
Grazie ai ritmi nazionali di crescita incandescenti, con una media di circa il 9% l’anno, anche un lavoratore – come Pi, il guidatore di autobus – è in grado di comprarsi una macchina. Pi dice che lui e sua moglie, Feng Xiaoe, contabile, hanno risparmiato per anni, e con qualche aiuto da parte del fratello e dei genitori sono stati in grado di pagare l’intero prezzo di listino della nuova auto, di 9.000 dollari.
”Possiamo uscire di città nei fine settimana” dice sorridendo. “Possiamo andare a pescare, a far volare gli aquiloni”.
I modelli base sono anche più accessibili per chi ha redditi medi. Una berlina Geely senza aria condizionata e radio, motore da 1000 cc. costa circa 3.600 dollari. I funzionari governativi sperano che alla fine tutte le famiglie cinesi abbiano un’auto: obiettivo sostenuto dalla potente industria automobilistica nazionale cinese.
Di conseguenza, la ampie superstrade realizzate di recente a Pechino e altre città sono spesso bloccate da ingorghi sino a tarda sera. Il numero di auto nella sola capitale è raddoppiato negli ultimi cinque anni, sino a 2 milioni, e le vendite di automobili in Cina si prevedono in crescita del 17% quest’anno, dopo il 15% del 2004 e il 37% del 2003. E c’è ancora parecchio spazio per la crescita, dato che la proprietà dell’auto viene stimata a circa 12 milioni: meno dell’1%, una piccolissima frazione del 74% USA.
Le biciclette, un tempo il mezzo di trasporto principale, ora sono proibite su molte strade principali delle grandi città. Piste ciclabili e marciapiedi sono stati sacrificati in molti casi a spazi più ampi per le auto.
Le città a livello nazionale si sono ampliate in suburbi, con le amministrazioni municipali a vendere le aree rurali inedificate, sloggiare i contadini in affitto e sostenere la realizzazione di insediamenti suburbani, campi da golf e centri commerciali. Nel corso di pochi anni, i consueti cartelli che inneggiavano al Partito Comunista al potere sono stati sostituiti da luccicanti tabelloni che reclamizzano case: “ Gran Lusso!” “ Vivere in una Dimora di Campagna!”, “ Pace Bucolica!”.
Molti analisti internazionali dicono che questa nuova enfasi sui consumi sta rendendo la Cina dipendente da un alto consumo energetico.
”Il fronte mondiale per lo sviluppo sostenibile non sta nella giungla amazzonica. È nelle città” dice Nicholas You, direttore della pianificazione strategica di Habitat, l’agenzia ONU per la casa, che di recente ha pubblicato uno studio su 10 città medie cinesi.
Lo sprawl urbano cinese, sostiene You, è meglio pianificato e a intensità energetica inferiore rispetto all’anarchica e incontrollata esplosione di città come Nairobi in Kenya, o Lagos in Nigeria. Ma dice anche che le dimensioni senza confronti della Cina, con più di un quinto della popolazione mondiale, tendono a far diventare giganteschi anche i più piccoli errori.
”È evidente che se la Cina continua a urbanizzarsi nei prossimi 20-30 anni, con altri 300 milioni di persone a migrare verso le città e suburbi realizzati ovunque, si verificheranno trasformazioni irreversibili nel consumo di energia” dice You.
A livello nazionale il consumo energetico cresce circa del 15% l’anno, e le amministrazioni locali stanno realizzando una quantità di centrali energetiche a carbone per prevenire i blackouts che hanno perseguitato le città nelle estati recenti. Il governo centrale prevede che ci sarà un gap del 5% fra produzione elettrica e consumo a livello nazionale quest’anno, con cadute di tensione parziali e totali in aumento.
La Cina ricava il 67% della sua elettricità dal carbone, e con riserve stimate a coprire un fabbisogno di 500 anni ai livelli attuali di produzione, ha pochi incentivi economici all’uso di combustibili alternativi.
Né esiste una diffusa consapevolezza riguardo al riscaldamento globale, o al bisogno di spostarsi verso energie più pulite, dicono gli esponenti dei piccoli gruppi ambientalisti cinesi, molti dei quali sostenuti dall’estero.
”La conoscenza delle energie rinnovabili è ancora molto scarsa” dice Yu Jie, analista politica di Greenpeace a Pechino. “Ed è un problema”.
Ma nei circoli più elevati governativi molti funzionari iniziano a vedere lo spreco energetico e l’inquinamento come una minaccia di lungo periodo per l’economia e la salute pubblica cinese. Questi leaders hanno promosso la nuova legge per le fonti rinnovabili di febbraio, un risultato che molti analisti stranieri considerano senza precedenti in una nazione in via di sviluppo.
La legge richiede che i gestori della rete acquisiscano energia da produttori eolici, solari, di geotermia, impianti idroelettrici di piccole e medie dimensioni, e offre incentivi finanziari, attraverso un fondo nazionale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili. Fissa l’obiettivo di aumentare la quota del rinnovabile dal 3 per cento degli attuali consumi al 10% entro il 2020. Ma realizzazioni e gestione delle tecnologie da fonti rinnovabili sono molto più costose dei convenzionali carbone, petrolio e gas, e il costo della riconversione è stimato a 80 miliardi di dollari.
Le lobbies industriali stanno lottando duramente per annacquare le regole di attuazione, di cui si prevede l’emanazione in novembre. Fra gli aspetti più controversi, se i gestori di rete saranno obbligati a pagare prezzi artificialmente più alti per l’energia da fonti rinnovabili: come accade in Germania, che è diventata leader mondiale in questo campo, dopo aver approvato questo tipo di sostegno nel 2001.
Gli ambientalisti cinesi sostengono che il demonio sta nascosto nei particolari.
”Tutto dipende da quanto sarà ambizioso il governo centrale” dice Yu, di Greenpeace. Se le decisioni sui prezzi sono lasciate nelle mani delle amministrazioni locali, aggiunge, l’attuazione può essere lasciata alle compagnie di proprietà provinciale, note come le “tigri elettriche”.
Nel quadro dello sforzo per aumentare le fonti energetiche non inquinanti, il governo sta anche iniziando il più grosso programma di costruzione di impianti nucleari dagli anni ‘70. Sono previsti ben 40 nuovi impianti nucleari nel prossimi 15 anni, che vanno ad aggiungersi ai nove esistenti, a creare una capacità di 40.000 gigawatt. Questa campagna può essere in parte sostenuta dall’amministrazione Bush: la U.S. Nuclear Regulatory Commission ha approvato una richiesta della Westinghouse Corporation di costruire quattro dei reattori, e la banca U.S. Export-Import ne ha approvato i 5 miliardi di dollari di garanzie sul prestito. Il principale concorrente della Westinghouse è un consorzio franco-tedesco.
Ma la scorsa settimana, nel pieno del crescente clima anti-cinese in Congresso, c’è stata una maggioranza di 313 voti contro 114 per bloccare il finanziamento alla Westinghouse. Le prospettive al Senato sono incerte.
Anche con l’attuale programma di espansione, il nucleare contribuirà solo per il 4% all’energia cinese nel 2020, dal 2,3% attuale. Per contro, gli impianti nucleari degli Stati Uniti forniscono il 20%, in Europa il 35%.
Ma la debolezza principale nella campagna cinese per l’efficienza energetica e la riduzione delle emissioni può essere l’incapacità del governo di mettere in pratica le proprie deliberazioni.
Per esempio, la campagna sul risparmio energetico è tranquillamente ignorata a Pechino e nelle altre principali città. Le luci in molti edifici commerciali restano accese tutta notte, e anche i complessi in corso di costruzione spesso vengono illuminati in modo brillante da cima a fondo, come fossero il palco di un festival.
In dicembre, l’Agenzia Statale per l’Ambiente ha guadagnato i titoli di prima pagina in tutto il paese per aver chiuso 32 nuovi impianti a carbone costruiti da amministrazioni locali in violazione degli standards federali sulle emissioni. Ambientalisti cinesi e stranieri hanno visto in questa mossa un segno che il paese sta finalmente prendendo sul serio le norme per l’inquinamento.
Ma queste chiusure hanno avuto pochi effetti. Semplicemente, tutti gli impianti hanno pagato multe di 200.000 yuan (circa 24.000 dollari), la cifra massima prevista dal governo federale, e hanno ricominciato a funzionare in pochi mesi: nella maggior parte dei casi senza nemmeno tentare di adeguarsi alle regole. “Abbiamo un detto: se ubbidisci alla legge, ti costerà caro; se la violi, ti costerà meno” dice Ren Haiping, ricercatore politico per l’agenzia dell’ambiente.
Sottolinea anche che i funzionari dell’agenzia fuori da Pechino erano sotto il controllo diretto dei funzionari provinciali o municipali, anziché del quartier generale centrale. “Se i nostri funzionari nelle province chiudono un impianto, per esempio, possono essere licenziati dal sindaco” dice Ren. “È molto triste. Facciamo quello che si può, ma non è molto”.
Nota: il testo originale al sito del San Francisco Chronicle (f.b.)
Il rubinetto delle emissioni di anidride carbonica non si chiude, anzi la pressione crescente dei paesi di nuova industrializzazione spinge la volata dei gas che squassano la macchina del clima. Basterebbe questo ad alimentare l´incubo di una desertificazione che avanza e di milioni di profughi ambientali che stanno per mettersi in moto. Ma l´ultimo rapporto del Worldwatch Institute, Oceani in pericolo, elaborato da un gruppo di scienziati di Greenpeace, apre un´altra finestra di allarme. Uno dei grandi equilibratori climatici, la spugna che finora ha assorbito una parte importante delle emissioni serra, sta per cedere: la capacità dei mari di catturare una quota significativa di anidride carbonica diminuisce. E così mentre il flusso dei gas che devastano l´atmosfera cresce, i riflessi di Gaia, il pianeta vivente, si appannano.
I dati di base sono incontrovertibili. Per convincersene basta paragonare due periodi chiave: i primi due secoli di rivoluzione industriale e gli ultimi decenni. Tra il 1750 e il 1994 sono stati emessi 1.039 miliardi di tonnellate di anidride carbonica e gli oceani ne hanno assorbiti 433 miliardi: il 42 per cento. Tra il 1980 e il 2005 sono stati emessi 525 miliardi di tonnellate di anidride carbonica e gli oceani ne hanno assorbiti 194: il 37 per cento. Dunque, rimanendo alla stima media degli ultimi 25 anni, per ogni punto percentuale di riduzione della capacità di assorbimento degli oceani si registra un ulteriore accumulo in atmosfera di 200 milioni di tonnellate di anidride carbonica: quanta ne emette il sistema industriale italiano regolamentato dal protocollo di Kyoto.
Non è finita. «Non si può sottovalutare il fatto che l´aumento di Co2 nell´acqua di mare ne causa l´acidificazione», si legge nel rapporto pubblicato dal Worldwatch Institute. «Il pH degli oceani si è abbassato di 0,1 unità, con la possibilità che scenda di ancora 0,5 unità a fine secolo se non si riducono le emissioni. Numerosi organismi che si costruiscono uno scheletro calcareo - coralli, molluschi, crostacei e molti organismi planctonici - potrebbero avere problemi di stabilità perché il calcare si scioglie nell´acqua acida». Dunque la capacità degli oceani di catturare carbonio formando la vita potrebbe indebolirsi ancora di più.
Quest´alterazione degli equilibri fisici e chimici, oltre alle ripercussioni globali, ha ovviamente un effetto micidiale su un ecosistema marino già malconcio: «La pesca riassume il dramma della crescita selvaggia di una distruttiva potenza tecnologica che ormai non risparmia i luoghi più remoti: isole lontane, montagne abissali, artico e antartico sono tutti sotto la pressione di pescherecci industrializzati che non solo pescano troppo (dagli anni ‘50 il totale della produzione ittica si è moltiplicato per 7) ma anche male, con attrezzi distruttivi, come la pesca a strascico o le reti derivanti, che catturano un numero incredibile di specie non bersaglio, danneggiando l´ecosistema e rallentando il recupero degli stock ittici che nel 76 per cento dei casi sono oggi al limite o oltre il limite dello sfruttamento».
La temperatura crescente sta minando le barriere coralline che ospitano circa 100 mila specie note (le stime reali potrebbero andare da 1 a 3 milioni): il 20 per cento è distrutto, il 24 per cento è a rischio imminente di collasso, per un altro 26 per cento la minaccia è a lungo termine. Va male anche alle mangrovie, un ecosistema fondamentale per la difesa delle coste dalla pressione del mare: metà è stata cancellata e ormai occupano solo il 25 per cento delle coste tropicali contro una quota originale del 75 per cento.
A tutto ciò si aggiungono i danni prodotti dall´inquinamento chimico e radioattivo: nel Golfo del Messico si è arrivati a 80 mila chilometri quadrati di fondali morti.
Titolo originale: Global warming claims tropical island –Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
L’innalzamento dei mari causato dal riscaldamento globale, per la prima volta ha cancellato dalla faccia della terra un’isola abitata. La scomparsa di Lohachara, nella zona di Sundarbans in India dove Gange e Brahmaputra sfociano nella Baia del Bengala, segna il momento in cui una delle più apocalittiche previsioni degli ambientalisti e degli scienziati del clima inizia ad avverarsi.
Il mare continuerà ad alzarsi, ingoierà intere nazioni composte da isole, dalle Maldive alle Marshall, inonderà ampie aree di altri paesi, dal Bangladesh all’Egitto, e sommergerà grandi porzioni di città costiere.
Otto anni fa, come riportato in esclusiva da The Independent on Sunday, spariva sotto le onde la prima isola disabitata, nell’atollo-nazione di Kiribati nel Pacifico. La popolazione delle isole a bassa elevazione di Vanuatu, pure nel Pacifico, è stata evacuata preventivamente, anche se l’isola è ancora sopra il livello del mare. La scomparsa di Lohachara, che un tempo ospitava 10.000 persone, non ha precedenti.
Il caso è stato seguito ufficialmente con uno studio di sei anni sul Sunderbans da ricercatori dall’Università Jadavpur di Calcutta. L’isola è così lontana che i ricercatori hanno appreso dell’inondazione, contemporanea a quella di una vicina isola disabitata, Suparibhanga, dopo averla vista scomparire dalle immagini satellitari.
Sono stati sommersi in forma permanente anche i due terzi della vicina isola abitata di Ghoramara. Sugata Hazra, direttore della Scuola di Studi Oceanografici, spiega “è solo questione di qualche anno” prima che anche lei venga del tutto ingoiata. Hazra dice che ora ci sono circa una dozzina di “isole in via di scomparsa” nella regione del delta indiano. Sono in pericolo anche le 400 tigri dell’area.
Sinora si prevedeva che sarebbero state le isole Carteret al largo di Papua New Guinea le prime abitate a scomparire, in circa otto anni, ma Lohachara ha sottratto loro il poco invidiabile primato.
I costi umani del riscaldamento globale: l’innalzamento dei mari trasformerà presto in senzatetto 70.000 persone
I rifugiati dall’isola scomparsa di Lohachara e da quella in via di scomparsa di Ghoramara hanno riparato a Sagar, ma anche quest’isola ha già perso 3.000 ettari di superficie sottratti dal mare. Complessivamente, sono in pericolo di scomparsa sotto i mari che si sollevano una dozzina di isole, che ospitano 70.000 abitanti.
Renzo Franzin è direttore del centro studi di Civiltà dell'Acqua di Mogliano Veneto (Treviso). E' davvero eccezionale la siccità di questa estate?
Non parlerei di emergenza. Ma sostanzialmente è vero che siamo in una fase epocale di emergenza in quanto anche le condizioni climatiche rendono l'acqua meno disponibile. Ma il fattore clima non è che una parte del problema le cui radici vanno ricercate altrove. Nell'urbanizzazione selvaggia, nello sfruttamento eccezionale delle risorse idriche a scopo industriale e per la produzione di energia elettrica, e soprattutto per la produzione agricola nelle regioni della pianura padana.
Perché soprattutto?
Il 65-70% delle risorse idriche viene impiegato per colture che hanno bisogno di grandi quantità di acqua, come mais e soia. Negli anni `70, con i contributi europei, è stata eliminata l'idraulica minore (fossati, canali) e anche questo ha comportato un impoverimento complessivo di acqua nel terreno. Oggi la stessa comunità rifinanzia la ricostruzione della vecchia idraulica. Ma a questo punto la domanda che bisogna porsi è un'altra.
Quale?
Ha ancora senso che la pianura padana produca queste colture sprecando tanta acqua per ottenere prodotti che oggi hanno mercato solo perché protetti dalle sovvenzioni dell'Europa, sapendo che nel 2006 queste tutele cesseranno? La risposta è no. Inoltre, le colture intensive necessitano di un utilizzo insostenibile di concimi chimici, sostanze che penetrano nella falda e inquinano le acque. Uno studio Ue dice che il 35% delle acque dolci ormai è inquinato. La prima falda ormai è inquinata e già oggi noi ci stiamo bevendo l'acqua fossile che peschiamo a 300 metri di profondità, è ricca di sali minerali ma non è una risorsa infinita.
Il resto lo fanno industria e produzione energetica?
Nonostante la deindustrializzazione, l'industria continua a utilizzare acqua e a restituirla non più utilizzabile. Il caso delle acque minerali poi è emblematico: una risorsa comune che viene regalata alle industrie e commercializzata con introiti enormi. Ma è soprattutto un problema di comportamenti che ci riguarda tutti, noi continuiamo a lavare la macchina e a tirare lo sciacquone con acqua potabile, non utilizziamo acqua piovana. Il sistema idroelettrico italiano ormai ha più costi che benefici, tutti sanno che la diga è considerata una tecnologia superata, ormai la si esporta solo nel terzo mondo. E non si può nemmeno dire che si tratti di energia pulita: qui in Veneto il Vajont è una ferita aperta. Inoltre, il sistema idroelettrico ha interrotto la vita biologica dei fiumi.
Da qui al nucleare il passo sembra breve
No. Senza tornare sul nucleare, che tutti sappiamo pericolosissimo, dobbiamo cambiare il nostro stile di vita e riorganizzare la nostra idea di consumi.
Riconversione agricola, risparmio energetico, nuovo stile di vita, sviluppo ecocompatibile e battaglia contro lo sfruttamento delle acque. Tutto giusto, ma davvero le sembrano obiettivi raggiungibili?
Siamo in una situazione di crisi proprio perché ci siamo rifiutati di utilizzare quei mezzi che potevano invertire la marcia. Per fortuna a livello europeo ci sarà un'inversione di tendenza e saremo costretti a cambiare atteggiamento. Bisogna sapersi inserire in queste fratture del sistema economico per cercare di imboccare altre strade.
In che modo?
La situazione è complessa, ma qualcosa si può fare. Regolamentare tutti i prelievi di acqua dolce per uso industriale, gestire più accuratamente i bacini montani, modernizzare i sistemi irrigui, ridare un profilo paesaggistico alle campagne e trasformare la produzione agricola del nord puntando su prodotti di qualità.
Titolo originale: Extinct: the dolphin that could not live alongside man – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Dopo oltre 20 milioni di anni di presenza sul pianeta, oggi il delfino di fiume dello Yangtze è dichiarato ufficialmente estinto, prima specie di cetacei (balene, delfini, marsuini) ad essere eliminata dalle attività umane.
Nel corso di una ricerca estensiva compiuta da una squadra internazionale di biologi marini con due imbarcazioni, che hanno sondato su e giù per sei settimane il corso del fiume più trafficato del mondo lo scorso dicembre, non è stato rilevato alcun esemplare.
Oggi, il rapporto scientifico di quella spedizione, pubblicato dal prestigioso organo della Royal Society, Biology Letters, conferma che il delfino noto come baiji, in cinese pinne bianche, celebrato per la pelle chiara e i caratteristico muso allungato, è scomparso.
La colpa è del numero crescente di navi container sullo Yangtze, oltre ai pescatori le cui reti rappresentano involontariamente un pericolo.
Non si tratta di una estinzione “normale”, del tipo che avviene di frequente in un mondo di milioni di specie in evoluzione. Il delfino d’acqua dolce dello Yangtze era una creatura di notevole importanza, che si era separata dalle altre specie molti milioni di anni fa, diventando così autonoma da qualificarsi come gruppo di mammiferi a sé. É il primo grosso animale vertebrato ad estinguersi da cinquant’anni a questa parte, solo il quarto della famiglia dei mammiferi a scomparire dai tempi di Cristoforo Colombo, quando gli europei iniziarono la colonizzazione del mondo.
I tre precedenti scomparsi dalla faccia della terra sono stati i lemuri giganti del Madagascar, eliminate nel XVII secolo, il toporagno delle isole nelle Indie Occidentali, spazzati via probabilmente dai ratti che accompagnavano Colombo nel suo viaggio, e la tigre della Tasmania, il cui ultimo esemplare morì in cattività nel 1936 (la creatura più famosa estinta negli ultimi 500 anni, il Dodo, era un uccello).
Sam Turvey, biologo conservatore della Zoological Society of London, che ha guidato la spedizione alla ricerca del delfino dello Yangtze ed è il principale estensore del rapporto, spiega: “La perdita di una specie unica e carismatica è una scioccante tragedia. L’estinzione rappresenta la scomparsa di un intero ramo dell’albero dell’evoluzione, e sottolinea la nostra piena responsabilità, nel ruolo che dobbiamo assumere, di guardiani del pianeta”.
Ci sono molte altre specie che “si limitano ad esistere” nello Yangtze, e potrebbero anche loro scomparire nel giro di pochi anni, se non si agisce ora, avverte Turvey. Comprendono l’alligatore cinese, il marsuino senza pinne, il pesce pala cinese, che può raggiungere anche i 7m di lunghezza, ama che non viene avvistato dal 2003.
“Ora c’è molto interesse per il baiji: ma è troppo tardi. Perché si presta attenzione alle specie solo quando non ci sono più? Dobbiamo utilizzare il caso del baiji come sveglia ad agire immediatamente, per prevenire altri casi.
“La cosa più tragica è che nel caso dello Yangtze abbiamo un fiume a corrente rapida con un sistema unico di specie endemiche. Una volta sparite da qui, sono perdute per sempre” spiega.
L’obiettivo della spedizione di dicembre era di recuperare qualunque baiji trovato, e spostarlo in un lago di 21 km nella riserva naturale di Tian'ezhou, per sottoporlo a un programma intensivo di riproduzione. Ciascuna delle due imbarcazioni operava in modo indipendente, con scienziati che esploravano la superficie dell’acqua con binocoli – i delfini devono emergere per respirare – e ascoltavano attraverso idrofoni, alla ricerca dei caratteristici fischi. Nonostante queste tecnologie, non si è trovato niente.
“Abbiamo usato tutte le tecniche di ricerca. Entrambe le imbarcazioni hanno rilevato il medesimo numero di marsuini: abbiamo visto tutto quello che c’era da vedere. Ma nessun delfino” racconta Turvey.
É invece sin troppo chiara la causa della scomparsa, del delfino. É una vittima della corsa del paese più popoloso del mondo verso la ricchezza. Nel bacino dello Yangtze vive un decimo della popolazione mondiale. Nel corso della spedizioni, gli scienziati hanno calcolato 19.830 navi che percorrevano i 1.669 km di fiume rilevati: un grosso cargo, ogni 800 metri.
Il delfino dello Yangtze si muoveva guidato da un sonar – gli occhi sono inutili nell’acqua fangosa – ma in un ambiente stipato di navi container, chiatte da carbone, imbarcazioni veloci, il sonar veniva neutralizzato, e l’animale si muoveva rischiando continuamente di essere colpito dagli scafi, o fatto a pezzi dalle eliche.
Una minaccia anche maggiore veniva dalle reti e dalla miriade di linee di ami utilizzati dai pescatori.
Nonostante non fossero destinate alla cattura dei delfini, le creature si impigliavano nelle reti o venivano ferrite dagli ami: quasi la metà dei baiji trovati morti degli ultimi decenni avevano subito questa sorte. Inoltre, l’inquinamento aveva avvelenato il loro habitat naturale, e il completamento della Diga delle Tre Gole aveva decimato i piccoli pesci di cui si nutrivano.
Gli ultimi mammiferi che si sono estinti
Il toporagno delle isole
Estinto nel 1500
Il topo delle isole nelle Indie Occidentali, o nesophontide è conosciuto attraverso i resti fossili. Più o meno delle dimensioni di un ratto, scomparve a causa dell’introduzione dei ratti neri con cui non riusciva a competere, scesi dalle navi europee. Si trattava del più antico mammifero terrestre delle Indie Occidentali, la cui estinzione ha rappresentato la perdita di un intero ordine.
Lemure gigante
Estinto nel 1650
Il lemure gigante del Madagascar pesava circa 80 chili, più di alcune specie di gorilla. Scomparve in seguito alla caccia da parte dell’uomo.
Tigre della Tasmania
Estinta nel 1936
La tigre della Tasmania, o tilacino, aveva l’aspetto di un grosso cane striato, il muso di un lupo e una pesante coda. Era in realtà un marsupiale, parente del canguro, con una tasca per allevare i cuccioli. I coloni europei lo temevano e lo uccidevano ovunque possibile. I tilacini non si sono mai riprodotti in cattività: l’ultimo esemplare conosciuto è morto nello zoo di Hobart il 7 settembre 1936.
L'umanità insostenibile
di Marina Forti
Questa volta fa notizia il rapporto Living Planet, pubblicato ieri dal Wwf internazionale, come ogni due anni, per aggiornare sullo stato degli ecosistemi del pianeta. Fa notizia e con ragione: il rapporto «pianeta vivente» 2006 avverte che se l'umanità continua a consumare risorse naturali al ritmo attuale, entro il 2050 ci servirà due volte la capacità biologica del pianeta. Insomma: avanti così il collasso è inevitabile, e anche abbastanza vicino.
Living Planet è il risultato di due anni di studio sui dati del 2003. Descrive lo stato della biodiversità (l'insieme dei viventi che popola il pianeta) e la pressione degli umani sulla biosfera. Per questo usa due indicatori: il primo è battezzato «indice del pianeta vivente» (Living Planet Index) e misura i trend della vita sul pianeta. Più precisamente, osserva 1.313 specie di vertebrati (pesci, anfibi, rettili, uccelli, mammiferi) di tutto il mondo: sono solo una parte di tutte le specie viventi del pianeta, ma il trend di queste popolazioni è indicativo dello stato di tutta la biodiversità. Ebbene, tra il 1970 e il 2003 la popolazione dei vertebrati è declinata di circa un terzo: stiamo degradando gli ecosistemi naturali a un ritmo che non ha precedenti nella storia dell'umanità.
L'altro indice usato dagli scienziati che hanno lavorato con il Wwf è l'«impronta ecologica» (Ecological Footprint). E' un termine noto a ecologi e ambientalisti, forse meno al pubblico più generale (e per nulla a chi determina le decisioni politiche): l'«impronta ecologica» misura la domanda di terra e acqua biologicamente produttiva necessaria agli umani per produrre ciò che consumano. Ovvero: la terra coltivabile, i pascoli, le foreste, i banchi di pesca necessari a produrre il cibo, fibre e legname che consumiamo; più il territorio necessario ad assorbire i rifiuti che produciamo inclusi quelli generati consumando energia (quindi anche l'anidride carbonica che fa effetto serra e modifica il clima) e il territorio che occupiamo per le nostre infrastrutture (il consumo d'acqua dolce non è incluso; il rapporto vi dedica un capitolo a sé).
Ebbene: nel 2003 l'impronta ecologica globale dell'umanità era di 14,1 miliardi di ettari globali (cioè ettari biologicamente produttivi, con capacità media di produrre e assorbire risorse), pari a 2,2 ettari globali per persona. Ma la «biocapacità» totale era di 11,2 ettari globali, pari a 1,8 ettari procapite. Dunque eccediamo la biocapacità del pianeta, ed è così ormai dalla metà degli anni '80: ormai la domanda eccede l'offerta del 25%. E' il «debito ecologico».
Se andiamo a guardare per aree mondiali scopriamo lo squilibrio di sempre: le impronte ecologiche più pesanti sono quelle di Emirati arabi uniti e Stati uniti, la più bassa in assoluto quella dell'Afghanistan; tutti i paesi industrializzati sono ben sopra la media mondiale, l'India al di sotto. La Cina sta circa a metà, poco sotto la media: paese in rapida crescita economica, avrà un ruolo chiave nell'uso più o meno sostenibile delle risorse nei decenni a venire: per questo il Wwf internazionale ha deciso di presentare il suo rapporto ieri proprio a Pechino.
L'Italia ha un'impronta ecologica pro capite di 4,2 ettari globali, con un deficit ecologico di 3,1 ettari pro capite rispetto alla nostra biocapacità. E questo ci mette al 29esimo posto mondiale.
Viene da pensare che nei decenni del grande sviluppo industriale il mondo ha discusso di esaurimento delle risorse naturali come limite allo sviluppo, dal petrolio (risorsa non rinnovabile) in poi. Ma ancora prima delle materie prime naturali, quallo che sta finendo è la capacità della Terra di assorbire i nostri rifiuti e rigenerarsi. L'umanità trasforma le risorse naturali in rifiuti molto più in fretta di quanto la natura ritrasformi i rifiuti in risorse.
E' la catastrofe? Sì, a meno che si inverta la rotta. Il Wwf ipotizza diversi «scenari» e dice che è ancora possibile la transizione a una situazione sostenibile: ma questo implica prendere subito decisioni, perché le politiche e gli investimenti avviati ora persisteranno per gran parte del secolo. Ed è questo che preoccupa: i dirigenti mondiali non hanno finora mostrato di comprendere l'urgenza del problema.
Terra in pericolo
di Guglielmo Ragozzino
Non basterà. Come Marina Forti scrive qui a fianco [qui sopra – ndr], nel Living Planet Report per il 2006, il Wwf mostra come i nostri consumi umani sono tali che presto ci servirebbero due pianeti grandi come il nostro, se continuasse l'attuale ritmo di utilizzo dell'acqua, del suolo e delle altre risorse scarse. E' ovvio però che se i consumi si rincorrono, ne generano altri; e dopo l'India e la Cina, altri grandi paesi sceglieranno di crescere, consumando terre sempre meno fertili, acque sempre più difficili da raggiungere. Non basteranno due Terre affiancate, per calmare la nostra fame e la nostra sete.
Noi italiani - e non siamo i peggiori tra i ricchi - consumiamo quattro volte il nostro territorio nazionale. Il nostro grande piedone lascia un'impronta per terra che copre la Francia e i Balcani, almeno in parte; e, prima o poi, susciteremo il risentimento di qualcuno. Ai tempi delle colonie, questi problemi erano risolti facilmente. C'erano territori, lontani, oltre il mare, che si potevano schiacciare e scavare a piacere. Qualcuno, troppo legato alla sua terra, rimaneva sotto il nostro tacco, ma noi eravamo il progresso, e il progresso comporta qualche disagio. Di colonie ce ne è ancora, anche se si preferisce non parlarne. Ed è ipocrita dire: io non c'entro; e poi servirsi di tutto quello che proviene dalle colonie di altri. L'impronta è la nostra. E anche se la parte del cattivo, del padrone della piantagione la fa un altro, è a noi che arriva il prodotto finale; il consumo è nostro, nostro lo spreco.
C'è dunque la tenuta o la lieve crescita dei nostri consumi. E i nostri dirigenti si appassionano a una crescita che forse sfiorerà il due per cento e si dispiacciono che non sia maggiore e invidiano la crescita di altri che arriva al tre e al quattro per cento. Faranno di tutto perché la crescit aumenti. Come se la crescita fosse senz'altro una cosa buona e apprezzabile. Se cresceremo del 2%, ben prima del 2050 la nostra impronta sulla Terra sarà raddoppiata e graveremo su un territorio che sarà otto volte quello dell'Italia. C'è poi naturalmente l'aumento vertiginoso di quelli che hanno ancora impronte piccole sulla loro parte di Terra, ma sono tantissimi e hanno tantissima fame arretrata.
Ci sono poi molte persone convinte che la Terra regga il peso di tutti noi che continuiamo a scavare; una Terra molto più grossa, più fertile, più umida, più munita di foreste e di animali di quanto la triste scienza degli ambientalisti non riesca mai a supporre. Una Terra capace di rigenerarsi, di offrire sempre nuove opportunità, sempre più spazio, più strade asfaltate, più gallerie nella roccia, più montagne da riempire di villaggi turistici e spiagge da cementificare. Per disgrazia (o per fortuna, secondo la morale prevalente) quelli che la pensano così, sono al comando. Sono loro che guidano il mondo, decidono per tutti, danno i voti, stabiliscono quello che conta e quello che si può scartare.
In questa pagina del giornale parliamo anche dell'abile accordo tra russi e ucraini per il gas. Questo fatto garantisce anche il nostro gas che continuerà a fluire e fluire. Il nostro modello di consumi non si modificherà, nessuno chiederà a nessun altro di risparmiare, di progettare case e città migliori, di usare mezzi pubblici adeguati in città e fuori, di scoraggiare l'uso dell'auto che ci ha portato al primo posto nel mondo.
Vedrete che proporranno a noi, scontenti per principio, di utilizzare le auto a gas, meno inquinanti delle altre; e già alcuni sorridono al pensiero di guidare un'auto a gas con la quale si sconfiggerebbero tutti gli euro 4 ed euro 5 e 6 e 7 che via via si presentassero.
A questo dunque serve il gas? A consumare sempre più Terra, più acqua, più aria? A consumare più vita?
Nota: qui un link a un articolo dal Corriere della Sera, con il PDF del Rapporto originale scaricabile (f.b.)
LA GRANDE Paura del contadino padano sta in quella cornice sfocata dall’afa e sbiadita dai miasmi delle campagne che vela le montagne lontane e le rende ancor più enigmatiche: «Gh’è pü acqua», non c’è più acqua, da quei monti remoti non ne vien più giù, da quelle valli che intuisci appena mentre l’orizzonte trema per la calura eccessiva ne arriva sempre di meno, anno dopo anno, estate dopo estate.
La Bassa ha sempre più sete, le colture intensive pretendono sempre più irrigazioni.
L’estate torrida del nostro scontento ha prosciugato 4.500 chilometri di fiumi per far funzionare i condizionatori delle città, questo dicono nei mercati e nelle piazze, se continua così sarà tutto un deserto. I parroci invocano la Madonna del Santuario di Caravaggio che protegge gli automobilisti ma anche gli assetati (dar loro da bere, in verità, è una delle opere di misericordia corporale). Eppure, non è così semplice l’equazione della Grande Paura. È più complessa. Per certi aspetti, addirittura paradossale.
Contempla, per esempio, un Grande Mistero. Come quello di Tovo. Un paesino di 580 anime che si trova in mezzo a montagne storicamente gonfie d’acqua, otto chilometri oltre Tirano, verso Bormio. Ebbene, le tubature dell’acquedotto comunale spesso restano a secco. L’acqua scarseggia, "le fonti si sono inaridite", constata amaramente il sindaco Gianbattista Pruneri, per lui le ragioni di questa penuria sono climatiche e politiche: «Poca neve, poca pioggia e sfruttamento selvaggio delle risorse idriche da parte delle società idroelettriche». I tovaschi l’acqua la pigliavano in Valle Maurena e Valle Campaccio. Un giorno è apparsa una "presa", che alimenta una piccola centralina: «Non bastavano già le altre grosse captazioni», sbotta il sindaco Pruneri, «l’Aem è il padrone di tutte le nostre acque - aggiunge - da Tirano allo Stelvio noi ci dobbiamo arrangiare». Ma questo, il contadino padano non lo sa: lui semplicemente ragiona sul fatto che il Po è una striscia fangosa e che i canali hanno autonomia per soli 14 giorni.
La Valtellina ha sempre accusato Milano di colonialismo energetico, fin dalla fine dell’Ottocento. Ma l’acqua abbondava e bastava per tutti. Oggi l’acqua comincia a mancare già in montagna, mentre i bacini delle centrali devono essere riempiti più che si può, per evitare il black out di un anno fa. Il resto, quindi, è letteralmente distillato: «È il regime delle priorità energetiche, il business della bolletta sta mettendo in ginocchio campagne e valli». Il sindaco Pruneri è stato costretto ad emettere un’ordinanza zeppa di divieti e di inviti a risparmiare sull’uso civile dell’acqua (l’acquedotto chiuso da mezzanotte alle sei del mattino), «come me decine e decine di altri sindaci hanno dovuto fare lo stesso». La Cov di Tovo (Cooperativa ortofrutticola dell’Alta Valtellina) teme per le sue coltivazioni (130mila quintali di mele): l’irrigazione è stentata, lo tsunami torrido che ha sconvolto l’Italia del Nord ha innescato una perniciosa spirale, qui l’allarme idrico è subito allarme agricolo, qui si comincia a capire che le grandi città pretendono troppo, ormai.
«Noi eravamo e siamo ancora il Kuwait dell’acqua», spiega il valtellinese Giovanni Bettini, emerito professore universitario e membro della commissione scientifica di Lega Ambiente. La parabola dell’acqua prodiga viene è presto detta: «Noi riforniamo Milano e gran parte della Lombardia. Le nostre fonti - continua l’imperterrito Bettini - riempiono miliardi di bottiglie di acqua minerale. La Cima Piazzi è forse la montagna più vista d’Italia, perché sta sull’etichetta della Levissima». L’Adda non fa in tempo a nascere che subito entra tutto nelle turbine delle centrali Aem, poi in forma di rigagnolo prosegue verso Colico dove viene "ulteriormente macinato", prima di finire nel lago di Como. La vogliono tutti, quest’acqua valtellinese, attorno ad essa si scatena una formidabile competizione economica: proprio perché di questa benedetta, santissima acqua ce n’è sempre di meno. Vale miliardi di euro, caro contadino padano. Meno acqua c’è, più costa. I mercanti dell’acqua badano ai loro conti. Certo, non sono loro a manipolare il clima. In Valtellina, i ghiacciai dell’Ortles e del Cevedale si sono dimezzati. La piovosità è bruscamente diminuita ed è sempre più capricciosa, imprevedibile. Non parliamo della neve: rara come i diamanti. Se non c’è, la si fabbrica. Coi cannoni alimentati a caro prezzo da laghetti artificiali. Lo sci ha ormai costi sociali sempre più assurdi. Insomma, un ciclo infernale.
Spostiamoci in Piemonte. Fra otto mesi Torino celebrerà le sue Olimpiadi invernali. «Quando eravamo ragazzi, c’erano qui attorno i ghiacciai dell’Agnello, del Sommelier, del Galambra - ricorda Luigi Chiabrera, presidente della comunità montana delle valli olimpiche che sostanzialmente sono la Valsusa e la Val Chisone - oggi quei ghiacciai sono spariti. Noi siamo rimasti a guardare. Io sono di Avigliana. Vicino c’è scorre il Sangone. Una volta era un fiume: ci si andava persino a fare il bagno. Oggi è un torrente in secca. Quando piove a dirotto, torna ad essere per qualche ora un fiume in piena. Sopra Avigliana ci stanno due laghi naturali. La loro acqua serviva e serve ai contadini delle Gerbole. Adesso non gli arriva quasi più: tra i laghi e le coltivazioni, decine di captazioni abusive, anche di fabbriche. Ci manca la cultura dell’acqua. Non abbiamo saputo conservare le zone umide, abbiamo favorito lo squilibrio ambientale. L’acqua è sacra, bisogna tutelarla. Abbiamo paesi che d’inverno restano a secco, la siccità nel tempo della neve, non è una cosa sulla quale si può scherzare».
Non scherza, infatti, il contadino padano. La sua Grande Paura è fatta di verbi come razionare, come ridurre. Il lessico di questi giorni è un tam tam di "rilasci" (quello delle acque provenienti dai canali di irrigazione), di "contingentamento" e di "piovosità" (-70 per cento rispetto alla media stagionale). E tuttavia, sotto sotto, se non affiora l’acqua dalle fontanazze, affiora invece l’irrazionale, chiamala se vuoi speranza. Sui giornali locali, tra i soliti annunci dei maghi e quelli delle agenzie matrimoniali, si comincia a leggere antiche e mai sopite proposte: "Offresi rabdomante".
L'immagine delle Nozze tra la terra e l'acqua, di P.P Rubens, è tratta dal sito www.ibiblio.org
Titolo originale: The heat is on – Scelto e tradotto per Eddyburg da Fabrizio Bottini
Il clima mondiale si è modificato pochissimo dalla rivoluzione industriale. La temperatura è rimasta stabile nel XIX secolo, è salita molto lievemente nella prima metà del XX, ricaduta negli anni ’50-70, poi ha iniziato di nuovo a risalire. Negli ultimi 100 anni, è aumentata di 0,6°C.
E allora perché tutto questo trambusto? La ragione non è tanto l’incremento delle temperature. I cambiamenti precedenti nel clima mondiale erano determinati da viariazioni o nell’angolo di rotazione della Terra o nella sua distanza dal Sole. Stavolta c’è un altro fattore coinvolto: I “gas serra” prodotti dall’uomo.
Quando l’energia solare colpisce la Terra, gran parte di essa rimbalza nello spazio. Ma anidride carbonica e circa altri 30 gas serra, come il metano, contribuiscono a creare uno strato che intrappola il calore del sole, riscaldando così il pianeta. E, a causa della combustione di carburanti fossili, che contengono il CO2 che le piante originariamente respiravano dall’atmosfera, i suoi livelli sono saliti da 280 parti per milione (ppm) di prima della rivoluzione industriale, alle circa 380ppm di adesso. Gli studi sui nuclei del ghiaccio mostrano che non ci sono state concentrazioni tanto alte da quasi mezzo milione di anni. Al tasso di incremento attuale, si raggiungeranno le 800ppm entro la fine di questo secolo. Dato che la CO2 emessa oggi resta nell’atmosfera fino a 200 anni, abbassare le concentrazioni richiederà un lungo periodo.
La prima persona a cogliere il collegamento fra temperature e attività umane fu uno scienziato del XIX secolo, Svante Arrhenius. Valutava che le emissioni da attività industriali potessero raddoppiare i livelli di CO2 in 3.000 anni, riscaldando così il pianeta. Essendo svedese, pensava fosse un’ottima cosa. Nel 1938 un ingegnere britannico di nome Guy Callendar tenne una conferenza alla Royal Meteorological Society in cui affermava di aver scoperto che il mondo si stava riscaldando, ma fu considerato un eccentrico. L’idea del riscaldamento globale sembrava destinata alla pattumiera intellettuale.
Se l’interesse nel mutamento climatico era tiepido nella prima metà del XX secolo, diventò decisamente gelido con la seconda metà, per l’ottima ragione che il modo si stava raffreddando. Nel 1975 il settimanale Newsweek pubblicò come titolo di copertina Il mondo che si raffredda, presentando un “drastico declino nella produzione alimentare: con gravi implicazioni politiche praticamente per qualunque nazione della Terra”. Una previsione ripresa con comprensibile sollievo da chi sospetta che anche le preoccupazioni attuali siano una paura del genere.
L’irregolarità di metà XX secolo si rivelò poi essere conseguenza di un altro prodotto collaterale delle attività umane: lo zolfo, che insieme ad alter particelle sospese nell’aria riflette la luce solare prima che possa colpire la Terra, in controtendenza all’effetto serra. Entro la fine del XX secolo, gli sforzi per controllare questo inquinante iniziavano ad avere effetto. Il contenuto particolato nell’atmosfera stava diminuendo, e il mondo cominciò di nuovo a riscaldarsi. L’idea del riscaldamento globale fu recuperate dalla pattumiera, e diventò uno dei temi dibattuti più importanti della nostra epoca.
Il dibattito coinvolge scienziati, economisti, politici, e chiunque sia interessato al futuro del pianeta. É alimentato da un lato dalla convinzione che la vita così come noi la conosciamo sia minacciata, e dall’altro dall’idea che scienziati e socialisti stiano cospirando per buttare il denaro dei contribuenti per colpa di uno spauracchio da bambini. É un dibattito reso più aspro da una prospettiva morale: la sensazione, profonda all’interno del movimento ambientalista, che le conseguenza dell’egoismo individuale possano essere una condanna per la collettività. La mano invisibile come un pugno, e il peccato originale un fuoristrada.
Il litigio ha come protagonisti vistosi personaggi: James Lovelock, scienziato britannico convinto che il genere umano abbia fatidicamente squilibrato il delicato meccanismo del mondo che chiama Gaia; Bjorn Lomborg, iperattivo statistico danese che crede che gli scienziati stiano stiracchiando le cifre per spaventare la gente; Arnold Schwarzenegger, governatore della California, la cui missione è di terminare il mutamento climatico; o James Inhofe, presidente della commissione ambiente e lavori pubblici del senato americano, che dice sono tutte sciocchezze.
Purtroppo, le discussioni sono anche alimentate dall’ignoranza, perché nessuno sa con certezza quanto sta accadendo al clima. A livello macroscopico, costruire un modello di quello che è uno dei più complessi meccanismi del mondo, e proiettarlo su 100 anni, è molto complicato. Nei particolari, i singoli gruppi di dati si contraddicono l’un l’altro. A un ghiacciaio che si ritira può corrisponderne un altro che cresce; a un’area dove diminuiscono le precipitazioni può rispondere un’altra dove aumentano.
Ignoranza e paura hanno fatto nascere un intero settore di attività. Governi, burocrazie internazionali e università fanno lavorare molte migliaia di persone intelligenti su cosa sta accadendo. Fondazioni riversano denaro nella ricerca. Tutte le grandi imprese ora sono dotate di consulenti di alto livello sul mutamento climatico, con squadre di brillanti giovani che si aggirano qui e là per scoprire cosa pensano gli scienziati e cosa vogliono fare i politici.
L’istituzione di un Intergovernmental Panel on Climate Change sotto gli auspici dell’ONU, è finalizzata ad attenuare i contrasti, e a fornire ai decisori una linea condivisa su cosa ci prepara il futuro. Ma visto quanto poco si sa, sia sulla sensibilità del clima alle emissioni di gas serra, sia riguardo ai livelli di emissioni future, la cosa si è rivelata difficile. Non sorprende, il fatto che l’ultimo rapporto IPCC, pubblicato nel 2001, proponga un’ampia oscillazione nelle previsioni di aumento della temperatura entro la fine del secolo: da 1,4°C a 5,8°C.
Una enorme oscillazione che limita l’utilità dei risultati IPCC per chi decide le politiche. Né l’esistenza di questo comitato ha tacitato le discussioni. Lo scetticismo rispetto ai fondamenti scientifici, e soprattutto rispetto a quelli economici, ha portato numerose persone a dissentire sui risultati. Alcuni contestano l’esistenza stessa del riscaldamento globale; altri la accettano, ma sostengono non valga la pena di tentare di far nulla a proposito.
Da quel rapporto IPCC di cinque anni fa, la scienza tendenzialmente ha confermato che sta avvenendo qualcosa di grave. Negli anni ’90 i dati dal satellite tendono a contraddire quelli terrestri che mostrano un aumento delle temperature. Un divario che ha disorientate gli scienziati e alimentato lo scetticismo. I dati dal satellite, è poi emerso, erano sbagliati: dopo essere stati corretti, ora convergono con quelli terrestri che indicano un riscaldamento. Le osservazioni su quanto sta accadendo al clima tendono a confermare, o a superare, quanto previsto dai modelli. Il ghiaccio delle calotte artiche, ad esempio, si sta sciogliendo in modo inaspettatamente veloce, il 9% in un decennio. Anche i ghiacciai si sciolgono in modo sorprendentemente veloce. E c’è una serie di fenomeni, come l’attività degli uragani, precedentemente ritenuti senza connessioni al mutamento climatico, e che ora viene sempre più ad esso legata.
La nostra rassegna [ questo articolo dell’Economist introduce una serie di contributi sul tema, n.d.t.] sostiene che nonostante le incertezze della scienza, le probabilità di gravi conseguenze sono sufficientemente elevate da giustificare la spesa delle (non esorbitanti) somme necessarie a tentare di contenere il mutamento climatico. Indica anche che, anche se gli USA, la maggior fonte mondiale di CO2, hanno girato le spalle al protocollo di Kyoto sul riscaldamento globale, ci sono probabilità che prenderà alcune misure per controllare le proprie emissioni. E se si muove l’America, c’è la prospettiva ragionevole che faranno lo stesso anche altri grossi produttori di CO2.
Titolo originale: Gov. Vows Attack on Global Warming – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
SAN FRANCISCO – Impegnandosi a guidare la risposta mondiale al riscaldamento del pianeta, il Governatore Arnold Schwarzenegger mercoledì ha annunciato una serie di ambiziosi traguardi per tagliare le emissioni di gas serra della California di più dell’80% nel prossimo mezzo secolo, ma ha fornito pochi particolari su come lo stato riuscirà ad ottenere riduzioni tanto drastiche.
Dopo un discorso davanti a centinaia di rappresentati di imprese a associazioni ambientaliste nella Conferenza della Giornata Mondiale per l’Ambiente a San Francisco, Schwarzenegger ha firmato un ordine esecutivo che delinea obiettivi audaci di taglio delle emissioni industriali di anidride carbonica e altri gas che intrappolano il calore, e che gli scienziati collegano all’aumento delle temperature e al livello dei mari.
“A partire da oggi, la California sarà all’avanguardia nella lotta contro il riscaldamento globale” ha detto Schwarzenegger, aggiungendo, “Il dibattito è finito. Abbiamo le conoscenze scientifiche, vediamo la minaccia, il momento per l’azione è adesso”.
Con l’ordinanze esecutiva, entro il 2010 la California ridurrà i suoi gas serra ai livelli del 2000, o circa dell’11% meno di quanti se ne produrrebbero senza intraprendere alcuna azione. Entro il 2020, le emissioni saranno ridotte ai livelli del 1990, o circa del 25%. Entro il 2050, lo stato avrà ridotto le emissioni dell’80% al di sotto di quelle del 1990.
Il livello 1990 è il riferimento chiave per il crescente sforzo internazionale per combattere il riscaldamento globale, perché è quello a cui le nazioni si sono impegnate a collocarsi sotto come parte del Protocollo di Kyoto, un accordo firmato da tutti i paesi sviluppati eccetto Australia, Monaco e gli Stati Uniti, il principale produttore del mondo di gas serra.
La proposta di Schwarzenegger, che segue altri impegni simili in altri stati del paese, è aggressiva solo la metà degli obiettivi di Kyoto nel breve termine. Ma i livelli del lungo periodo sono molto più ambizioni di qualunque altra proposta negli Stati Uniti. E alcuni esperti sostengono che, se la California ridurrà le emissioni secondo gli obiettivi annunciati da Schwarzenegger, taglierà più gas serra del Giappone, della Francia o del Regno Unito.
Schwarzenegger non ha mai menzionato il presidente Bush nel suo discorso, ma parlare di azione aggressiva significa ripudiare la posizione dell’amministrazione Bush sul mutamento climatico. Bush ha rinnegato una promessa della prima campagna elettorale di tagliare le emissioni di CO2, e ha formalmente rinunciato al patto di Kyoto. L’amministazione da allora ha sostenuto solo passi volontari per ridurre i gas, sostenendo che misure più drastiche avrebbero danneggiato l’economia americana.
Per contro, Schwarzenegger ha dichiarato mercoledì di ritenere che la riduzione dei gas serra potrà essere un’occasione economica per le attività della Silicon Valley e di altri contesti, per sviluppare tecnologie di controllo dell’inquinamento.
Rimangono comunque poco chiare le proposte di Schwarzenegger per realizzarle, queste drastiche riduzioni. Nel suo discorso, il governatore si è impegnato ad accelerare l’attuazione di una norma già esistente, secondo cui le strutture private devono ricavare il 20% dell’energia da finti rinnovabili, spostando la scadenza dal 2017 al 2010. Ha anche promesso di fare del suo meglio per l’obiettivo di aumentare drasticamente il numero di abitazioni dello stato dotate di pannelli solari. E di far pressioni sulle imprese di tutto lo stato perché riducano volontariamente le emissioni.
Ma anche prima che Schwarzenegger avesse enunciato i suoi obiettivi, gli oppositori politici definivano le proposte poco chiare in sostanza, ed era evidente che sarebbero state oggetto di animato dibattito a Sacramento.
I Democratici hanno sostenuto una proposta alternativa, che fissa obiettivi più rigidi e in tempi più brevi, all’assemlea del proprio comitato politico martedì, e la signora Fran Pavley (D-Agoura Hills), autrice di una fondamentale legge dello stato per ridurre i gas serra di auto e autocarri, ha annunciato un altro progetto di legge per ridurre le emissioni dalle fabbriche, centrali energetiche e altre fonti fisse.
”Spero che il Global Action Plan sul riscaldamento mondiale del governatore Arnold Schwarzenegger non si riveli un’altra promessa cinica come l’impegno del governatore a convertire uno dei suoi parecchi fuoristrada Hummer all’idorgeno”, ha dichiarato il tesoriere della California Phil Angelides, uno dei principali candidati democratici nelle elezioni a governatore dell’anno prossimo.
Alcuni esperti di clima hanno detto mercoledì che il metodo più realistico perché la California riduca nettamente i gas serra sarebbe quello di fissare un tetto drastico alle emissioni, e consentire alle imprese che tagliano di più di ricevere crediti, vendibili ad altri che invece lo superano.
Questi sistemi “taglia e vendi” si sono dimostrati validi nella riduzione del biossido di zolfo che causa le piogge acide negli USA, e ora sono utilizzati in Europa per i gas serra. Nel nord-est, una coalizione di stati sta per formulare un piano per un tetto regionale e un sistema di scambi di questo tipo, per ridurre le emissioni di gas serra, sostenendo che non si può più aspettare l’azione del governo federale.
”Questo approccio del Cap & Trade è solo una parte del problema, ma si tratta di un parte essenziale” dice Michael Hanemann, direttore del California Climate Change Center all’Università di Berkeley. Il centro ha studiato come il riscaldamento globale potrebbe influenzare la disponibilità di acqua in California, che dipende in gran parte dagli strati nevosi delle montagne.
Terry Tamminen, segretario di gabinetto di Schwarzenegger e prncipale consigliere in materia ambientale, dopo il discorso ha dichiarato che gli obiettivi di prima istanza del governatore si potrebbero realizzare semplicemente accelerando i programmi esistenti e adottando proposte già fatte dal governatore. Ma ha lasciato aperta la possibilità di norme “taglia e vendi” per la California.
”C’è senz’altro un potenziale negli approcci basati sul mercato” ha detto Tamminen.
Alcuni rappresentanti delle imprese hanno affermato di voler aspettare a vedere qualcosa di più specifico prima di decidere la propria posizione sul tema, ma hanno espresso il timore che negli Stati Uniti si adotti un sistema a macchie di leopardo di varie norme statali rispetto al mutamento climatico.
”Vogliamo vedere cosa pensano di fare a livello statale per applicare queste riduzioni drastiche: l’80% è un obiettivo enorme” ha detto il portavoce della General Motors Dave Barthmuss.
”C’è già una norma californiana che non ci piace” ha aggiunto, riferendosi a quella sugli scarichi delle auto, per cui i fabbricanti hanno fatto ricorso in tribunale. “Speriamo che cerchino una collaborazione con le imprese nella definizione del piano. Crediamo che sia importante affrontare la questione a livello nazionale, anche se capiamo la posizione della California sul fatto che il governo federale non stia facendo abbastanza”.
Nota: il testo originale al sito del Los Angeles Times (f.b.)
Titolo originale: A 21st century catastrophe – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
La Gran Bretagna devastata dalle alluvioni sta soffrendo di una inedita emergenza civile, è chiaro: un disastro causato dal clima del XXI secolo.
Un clima diverso da qualunque cosa si sia vista prima. L’alluvione che si è prodotta, e che ha lasciato oltre 300.000 persone senza acqua potabile, quasi 50.000 senza elettricità, altre migliaia senza tetto e causato danni per un valore di 2 miliardi di sterline – il conto non è finito – è senza precedenti nella storia britannica moderna.
Non esiste nulla negli ultimi cent’anni, se si parla di alluvioni causate dalle piogge, che abbia fatto tanti danni. Secondo l’Agenzia per l’Ambiente, anche il peggior caso precedente, la grande alluvione della primavera 1947, aggravata dal disgelo seguito a un inverno eccezionalmente rigido, è stato stavolta superato.
“ Non abbiamo mai assistito prima a un’alluvione di queste dimensioni” ha comunicato ieri l’agenzia. “ Il riferimento è il 1947, e l’abbiamo già superato”. L’evento del 1947 era stato giudicato il più grave sull’arco di 200 anni.
Cosa più notevole, il fatto che l’incredibile scenario a cui il paese si trova ora di fronte – intere città isolate, enormi aree sott’acqua, evacuazioni di massa, infrastrutture paralizzate, fiumi gonfi in modo quasi grottesco, dal Severn al Tamigi e altri, e non si è ancora arrivati al massimo livello – tutto questo, è stato determinato da un singolo giorno di pioggia. La quantità di un mese e oltre, in un’ora. É evidente che il governo e le autorità civili, da Gordon Brown ai servizi di emergenza, siano in difficoltà per rispondere, e non soltanto per le dimensioni fisiche del disastro, ma per la sua qualità. É qualcosa di completamente sconosciuto. Di nuovo. Eppure è quanto viene previsto, da almeno dieci anni, e più.
Nessuno può dare la colpa dell’alluvione di settimana scorsa, o anche di quelle di giugno - quando nello Yorkshire è successo quanto accade ora in Gloucestershire e Worcestershire – di un solo giorno di pioggia, direttamente al riscaldamento globale. Tutti i climi hanno una loro variabilità naturale, che prevede anche eventi eccezionali.
Ma gli “eventi catastrofici eccezionali” delle precipitazioni nell’estate 2007, il 24 giugno e il 20 luglio, sono perfettamente in linea con le ribadite previsioni di quanto porterà il mutamento climatico.
Sono passati quasi dieci anni da quando gli scienziati dello UK Climate Impacts Programme hanno fornito le prime previsioni precise di cosa aspettava la Gran Bretagna nel XXI secolo: e in cima all’elenco c’erano le precipitazioni piovose, in aumento sia per l’intensità che per la frequenza.
Si ritenevano più probabili in inverno, mentre le estate erano previste calde e secche. Ma ieri Peter Stott dello Hadley Centre for Climate Prediction and Research al Met Office, autore di uno studio scientifico che collega l’incremento delle precipitazioni piovose al cambiamento climatico, ha commentato: “È possibile nel quadro del cambiamento climatico che ci possa essere un aumento degli eventi estremi di precipitazione, anche con una generale diminuzione delle piogge”.
Lo studio di Stott e altri, riportato dall’ Independent di ieri, individua per la prima volta una “impronta digitale umana” nell’incremento delle piogge dei decenni recenti alle latitudini medie dell’emisfero settentrionale: ovvero, rileva che sono in parte state causate dal riscaldamento globale, a sua volta determinato dalle emissioni di gas serra.
L’opinione pubblica nel suo insieme, sembra non aver ancora compreso queste previsioni sugli eventi estremi di precipitazioni piovose, pensando al cambiamento climatico solo in termini di clima più caldo. Ma la comunità scientifica ne è invece ben consapevole, e ha ribadito i propri avvertimenti.
Uno dei più importanti arriva da un gruppo di esperti a cui è stato chiesto di esaminare i rischi nel 2004 dal Consigliere Scientifico Sir David King, nel quadro del programma governativo Foresight Programme. Il loro rapporto, Future Flooding, spiega che se non si prendono precauzioni, le gravi alluvioni determinate dal cambiamento climatico potranno portare a un enorme aumento della quantità di persone e proprietà a rischio. Ma ancora una volta, si tratta di qualcosa che non entra nella consapevolezza pubblica.
Fra tutte le notizie di centri abitati travolti dall’acqua ieri, un annuncio significativo di Gordon Brown e del Ministro per l’Ambiente, Hilary Benn, è che il governo sta istituendo un organismo indipendente di indagine sulle alluvioni di giugno e luglio.
Il cui rapporto avrà un’importanza immense, e potrebbe rivelarsi una pietra miliare per quanto riguarda la consapevolezza collettiva britannica della realtà del cambiamento climatico. Si concentrerà senza alcun dubbio sui problemi centrali della risposta alle alluvioni – non esiste un singolo ministro o persona, responsabile del complesso – ma potrebbe anche dare una prospettiva degli eventi in termini di riscaldamento globale, a arrivare alla conclusione che questa potrebbe essere un’anticipazione di futuro. Gli eventi del 2007 alla fine potrebbero essere considerati come un campanello d’allarme per gli effetti del cambiamento climatico che si avvicinano rapidamente.
Nessuno li aveva considerati. Ma pare che sia così, col clima che cambia. Nell’aprile 1989 Margaret Thatcher, allora primo ministro, tenne un seminario per i vertici del governo sul riscaldamento globale al n. 10 di Downing Street, e uno degli invitati a parlare era lo scienziato e guru ambientalista James Lovelock. Poi un giornalista gli chiese quali sarebbero stati i primi segnali di quel riscaldamento. Rispose: “ Sorprese”. Alla richiesta di spiegarsi meglio precisò: “ L’uragano dell’ottobre 1987 è stata una sorpresa, no? Ce ne saranno delle altre”.
Anche le alluvioni del 2007 sono state una sorpresa, e se ha ragione Lovelock, ce ne saranno delle altre. Benvenuti nel clima del XXI secolo.
L’alluvione del 1947
Il Grande Diluvio del 1947, l’ex peggiore inondazione causata in Gran Bretagna dalle precipitazioni piovose, fece rompere gli argini a tutti i corsi d’acqua del sud, delle Midlands e del nord-est, sommergendo 300.000 ettari di terre e causando danni per un valore stimato in 4 miliardi di sterline (valore attuale).
Il disastro fu causato principalmente dal rapido scioglimento di ghiaccio e neve che avevano coperto gran parte d’Inghilterra durante un inverno particolarmente lungo e freddo. Il medesimo clima che aveva causato il disgelo, produsse anche parecchie piogge, ad esasperare i danni dell’alluvione.
Il momento non avrebbe potuto essere peggiore: la Gran Bretagna si stava ancora riprendendo dalla guerra. C’era un rigido razionamento, povertà diffusa e l’economia arrancava. Quello che rese la catastrofe anche più grave, fu il suo verificarsi prima dell’epoca delle assicurazioni contro questi eventi.
Gli allagamenti cominciarono nel sud, dal Somerset al Kent, con molti fiumi a rompere gli argini. Il 14 marzo, erano state sommerse ampie zone occidentali e nord-orientali di Londra. Il giorno successivo, il Tamigi esondò a Caversham, vicino a Reading, e nella zona della valle del Lea a est di Londra.
Alla fine del mese, si calcolavano 100.000 abitazioni alluvionate, centinaia di migliaia di persone evacuate, e gran parte dei raccolti dell’anno spazzati via.
Dopo l’uragano di New Orleans: una antologia di articoli
Nell’estate del 2005 il sommesso clamore dei notiziari che annunciavano gli spostamenti dell’uragano Katrina in avvicinamento alla Costa del Golfo, nei territori degli stati di Louisiana e Mississippi, sembrava la solita trovata giornalistica per riempire i titoli di qualcosa di diverso dai pettegolezzi da spiaggia.
Fu una vera sorpresa per la maggior parte del mondo iniziare a vedere le immagini dei poveracci ammassati come bestie nello stadio, dei quartieri poveri devastati, dei primi morti. E poi, nei giorni successivi, leggere le storie da “disastro annunciato”, le polemiche sull’inefficienza nei soccorsi, e via via nelle settimane e nei mesi dipanarsi e articolarsi tutto il dibattito sulla ricostruzione, gli investimenti, gli aspetti sociali, i dubbi su un potenziale “sciacallaggio” ai danni di chi ha meno voce.
La stampa, italiana e internazionale, ha dato grande rilevanza a tutti questi aspetti, e a molti altri, a partire dalla figuraccia dell’amministrazione federale, o ai collegamenti fra questo tangibilissimo esempio di intreccio problematico, e altre questioni spesso poco percepite, a partire dal riscaldamento globale.
Sulle pagine di Eddyburg e eddyburg_Mall hanno trovato posto molti di questi articoli: sia quelli con più diretto riferimento alle questioni territoriali al centro della nostra attenzione, sia altri. È sembrato opportuno, vista la notevole mole (e articolazione nelle cartelle tematiche) del materiale, raccogliere il tutto in una “visita guidata”, che consenta a chi ha già letto di ritrovare qualche spunto, e a chi non ha letto di verificare se si è perso qualcosa. Vista la vastità dei temi, approcci, sfumature, l’ordine di presentazione scelto è semplicemente cronologico. Buona lettura, o rilettura. (f.b.)
La rassegna si apre, in modo abbastanza scontato, col testo (ripreso dalla CNN) del Discorso pronunciato dal Presidente George W. Bush il 31 agosto 2005, dopo la riunione di Gabinetto per i soccorsi alle zone colpite dall'Uragano Katrina . Si annunciano i primi obiettivi dei soccorsi, e (lo osserveranno poi i critici) si iniziano a mostrare le prime crepe nel sistema delle decisioni strategiche.
Crepe immediatamente sottolineate dalla grande stampa, che come già accaduto in altri casi rileva nell’amministrazione incertezze, dilettantismo al limite della farsa, generale inadeguatezza Ne è un esempio l’editoriale Aspettando un Leaderdel New York Times 1 settembre 2005, che definisce il discorso“uno dei peggiori della sua vita”.
Con queste premesse, viene proposto qui un articolo “profetico” di Mark Fischetti, Annegare New Orleans, pubblicato dallo Scientific American sul numero dell’ottobre 2001,e che con chiarezza davvero impressionante descrive quelli che di fatto col senno di poi si dimostrano i punti deboli del sistema di protezione della costa e della città. Fra l’altro, l’articolo di Fischetti descrive e introduce il piano cosiddetto Coast 2050 sinora respinto perché troppo “costoso”, e avversato in parte da soluzioni più semplicistiche, che ora si sono rivelate fallimentari.
Il fatto che New Orleans non rappresenti altro che una emergenza della crisi mondiale legata al mutamento climatico, è affrontato quasi subito, a partire da un articolo del Corriere della Sera, 1 settembre 2005 in cui il geofisico Jacobs intervistato dalla giornalista Maria Teresa Cometto, ammonisce «Non ricostruite la città, fra 100 anni non ci sarà più»
Prospettiva “globale” condivisa anche dal più famoso, economista ed ex ministro dell’amministrazione Clinton, Jeremy Rifkin, che in una intervista a Sara Farolfi su il manifesto del 3 settembre 2005 ripete: «L'avevamo detto, sarà sempre peggio». Bush ha nascosto la verità e non ha voluto far nulla per evitare le catastrofi.
Eugenio Scalfari su La Repubblica del 4 settembre 2005 contempla uno spettacolo inatteso e sconcertante: L’America che vive con l’Africa in casa. E osserva come ciò in fondo non debba stupire, data la natura “imperiale” della nuova superpotenza unica globale, e la scarsa dimestichezza di questi tipi di potere con la democrazia e l’eguaglianza.
Altro aspetto che emerge quasi immediatamente dal dibattito sul futuro di New Orleans è quello urbanistico: che fare? Sul Boston Globe del 5 settembre 2005 Bennet Drake intervista alcuni studiosi sul tema La città del futuro. Ovvero, le possibilità e i rischi di cogliere l’occasione per far nascere dalle rovine di “Big Easy” un insediamento modello, catalogo di innovazioni tecniche e sociali.
Sulle pagine dell’Economist, a una settimana dall’uragano, col titolo Il rimpallo delle colpe si tenta di riassumere in modo obiettivo da un lato la realtà verificata dei problemi e delle inefficienze, dall’altro la complessità che emerge, e che in parte viene nascosta dall’enormità sempre più evidente del disastro.
Gary Strass sul popolarissimo USA Today ancora il 5 settembre 2005 ricorda come a New Orleans Ci sarà da ricostruire qualcosa di più importante degli edifici ovvero lo spirito della città. Sottolinea però gli aspetti più esteriori e forse “folkloristici” di questo genius loci, mettendo in secondo piano la questione centrale, ovvero l’emarginazione della popolazione più povera e di colore.
Un intervento di Patrick Doherty, Una Fenice che rinasce dal fango l’8 settembre 2005 sul TomPaine Common Sense, riprende l’approccio della potenziale “città ideale” alla futura New Orleans: anti suburbana, e comunità anche socialmente modello per una America più sostenibile. A partire dal recupero e valorizzazione proprio della complessità sociale ed etnica che certi “ritardi pilotati” dalle destre nella ricostruzione mettono in forse.
Di stampo soprattutto “contabile” l’ipotesi di Jon E. Hilsenrath, Rimpicciolire New Orleans? Sul Wall Street Journal del 15 settembre 2005, dove ad una analisi economica del ruolo della città in quanto nodo infrastrutturale e di scambi, si accompagna una (forse sbrigativa, se non lievemente faziosa) sostanziale liquidazione del problema della ricostruzione urbanistica. Lapidariamente:”Abbiamo obblighi nei confronti delle popolazioni, non dei luoghi”.
Non poteva mancare l’intervento del noto sociologo-urbanista Mike Davis, che affronta con decisione l’inevitabile tema de I contractors della ricostruzione in un articolo tradotto da ilmanifesto del 2 ottobre 2005 che descrive la calata dei falchi delle grandi imprese e interessi sulla città colpita, e il cinismo con cui il disastro diventa fabbrica di quattrini, operazione del resto affiancata, ideologicamente e praticamente, da molti apparati governativi.
Il critico di architettura del New York Times, Nicolai Ourussof, si chiede: il 20 ottobre 2005 Ce la farà New Orleans, a sopravvivere alla propria rinascita? E critica alcune suggestioni già emerse, che fanno pensare a una “normalizzazione” della città, nel senso di una ricostruzione sterilizzata, turistica, annullamento della complessità agli aspetti del parco tematico, o poco più.
Alla questione più “grossa” ovvero l’affidabilità del sistema di difese costiero e dell’entroterra, torna il 2 dicembre 2005 Mike Tidwell su Orion Online, con un provocatorio (ma non troppo) Addio New Orleans. Smettiamola di fingere. Sostiene Tidwell, che un’amministrazione che non ha finanziato il piano di ripristino ambientale della Costa del Golfo, pone New Orleans e il resto semplicemente in attesa del prossimo uragano, forse quello definitivo.
Un aspetto particolare (che poi nella costa del Mississippi diventerà fondamentale) è il ruolo giocato nella ricostruzione dalla cultura New Urbanism. Il critico di architettura del Los Angeles Times Cristopher Hawthorne il 4 dicembre 2005 racconta Nella corsa alla ricostruzione, una famiglia litigiosa. Descrivendo come, più delle idee e della competenza, ora salga alla ribalta soprattutto la capacità organizzativa e di pressione cultural-politica.
Conferma indirettamente quanto accennato dal Los Angeles Times il direttore dell’organo ufficiale dei nuovi urbanisti, Philip Langdon, che su New Urban News ottobre-novembre 2005 racconta con dovizia di particolari come I Nuovi Urbanisti si preparano ad affrontare il piano di ricostruzione della Costa del Golfo Ovvero come fare lobbying professionale, e arricchirlo con molte buone intenzioni, si spera in buona fede.
Ari Kelman, sul periodico di sinistra The Nation, il2 gennaio 2006 descrive cosa può accadere All'ombra del disastro Ovvero i legami evidenti e meno evidenti fra la questione ambientale in senso lato (il recupero dei quartieri, i costi della bonifica ecc.) e quella sociale, ovvero del rientro delle famiglie nere e povere in città. La tesi: attenzione all’economicismo di alcune ipotesi “realistiche”, che hanno quasi sicuramente scopi inconfessabili.
Che il problema, come spiegava da subito l’analisi a caldo dell’Economist, fosse complesso e intricato, lo dimostra sul New York Times del 5 gennaio 2006 Adam Nossiter descrivendo Un piano Statalista ma sostenuto da un deputato repubblicano, anche se sembra fare a pugni col liberismo di partito. Ma Bush "comprende".Una delle tante, forse troppe, contraddizioni che ruotano attorno ad un sistema decisionale a detta di tutti assai discrezionale.
Le idee per fare della distruzione dell’uragano l’occasione di “città dimostrativa” sembrano naufragare di fronte al primo piano ufficiale, ovvero le raccomandazioni municipali per la ricostruzione. Una nota Associated Press/CNN dell’11 gennaio 2006 riassume così: Il piano: a New Orleans si potrà ricostruire. Dappertutto Ovvero per non perdere consensi (e voti alle imminenti elezioni per il sindaco) il comune improvvisa un “com’era, dov’era” pasticciato e improbabile, contro le opinioni di tutti i consulenti.
Ancora Adam Nossiter del New York Times, il 5 febbraio 2006 spiega dagli uffici tecnici comunali come Ricostruire New Orleans. Una pratica per volta Ovvero come una scappatoia tecnico-burocratica consenta di “condonare” i danni, falsando totalmente i rilevamenti del rischio e la distribuzione degli investimenti.
Ancora al tema della “bonifica sociale” della città tentata prolungando gli sfollamenti coatti oltre ogni limite, è dedicato l’articolo di Bill Sasser, Come chiudere fuori dalla porta i poveri di New Orleans pubblicato dal progressista Salon, il 13 giugno 2006. È un fatto che migliaia di sfollati dalle case popolari dopo Katrina aspettano da mesi di sapere se e quando potranno mai rivedere le proprie case. C'è un progetto per tagliarli fuori dalla città?
A un argomento decisamente tecnico-specialistico, comunque di enorme importanza, è dedicata la nota di Michael Kunzelman, I “Katrina Cottage” danno una possibilità a chi abita ancora nelle case mobili pubblicata dallo Atlanta Journal Constitution, il 9 luglio 2006. Si tratta dell’invenzione e commercializzazione delle abitazioni di emergenza. Nuove, economiche, molto piccole, ma "case" e non "rifugi", per aspettare anche 10-15 anni la ricostruzione “vera”.
La notissima giornalista e polemista di sinistra Katrina Vanden Heuvel sul suo The Nation, il 29 agosto 2006 descrive a quasi un anno dall’uragano La battaglia per la ricostruzione Ovvero racconta “sul campo” la lotta sociale e politica dei comitati di cittadini, e i giochi sporchi della politica locale e non, perché essi vengano esclusi dalle decisioni che contano.
Con una breve ma significativa “parabola”, sul numero estivo del 2006 di Dissent, Nicolaus Mills propone la Storia di due uragani: Galveston e New Orleans. Due vicende simili, separate da un secolo di storia, una conclusa e una in pieno corso. È cambiato qualcosa? A un anno di distanza dalle ondate di Katrina, la domanda è più che mai aperta.
Il 2007 si apre, abbastanza significativamente, con le dimissioni di uno dei responsabili della prevenzione, polemico contro la mancata attuazione di nuove norme urbanistiche e edilizie per la sicurezza contro gli eventi naturali. Lo riferisce Carol J. Williams sul Los Angeles Times, del 3 gennaio: Il capo del centro uragani lancia l'ultimo avviso.
Prosegue la ricostruzione di New Orleans, ma a quanto pare si replicano anche qui cose già viste in Italia, ad esempio a Seveso, coi quartieri poveri rifatti su terreni gravemente contaminati dalle discariche. Lo denuncia Robert Bullard in un articolo su The New American City, inverno 2006-2007, dal titolo Il colore sbagliato, per essere tutelato
Al contrario, al posto dei quartieri poveri, sfollati gli ex inquilini con la scusa dei danni (spesso esigui) dell'uragano, si mettono case di lusso. Anche quando ciò significa demolire riconosciuti capolavori di architettura e intervento sociale. E' la tesi dell'avvocato dei comitati Billy Sothern, in Addio St. Thomas, The Nation, 10 agosto 2007
Una tesi sostanzialmente confermata e rafforzata dall'Economist, che in un articolo del 23 agosto 2007 esamina la Lenta Guarigione di Big Easy, osservando come anche il trattamento vergognoso riservato ai più poveri sia solo una parte dell'incredibile inefficienza e inadeguatezza dimostrata complessivamente dai vari livelli di governo.
L'unica cosa veramente vitale, a parere di Rebecca Solnit, è l'incredibile partecipazione locale al processo di ricostruzione, anche contro l'apatia (a dir poco) istituzionale, e con interessanti progetti dal punto di vista dell'innovazione ambientale e sociale. Lo racconta in un articolo dal titolo La Lower Ninth colpisce ancora, The Nation, 10 settembre 2007
Nota: disponibili qui di seguito anche: un file PDF contenente gli articoli citati fino al 2006 (mancano però tutti i links ed eventuali allegati, naturalmente disponibili nella versione online); un mio articolo che riassume criticamente i temi dell'antologia, originariamente redatto per il sito Megachip; Aggiornamenti non compresi nel PDF: un contributo di Bruce Katz della Brookings Institution, sulla povertà urbana; (f.b.)
La recente catastrofe verificatasi nel sud-est asiatico – probabilmente grazie anche al fatto che tra le oltre 280.000 vittime si contano pure dei turisti occidentali – ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Anche in Italia, com’è noto, l’evento ha avuto una vasta eco, sino a divenire un vero e proprio evento mass-mediatico. Colpisce però il fatto che, al più conosciuto e popolare lemma “maremoto”, sia stato spesso preferito un termine – lo tsunami – che fino a pochi giorni prima era pressoché sconosciuto al grande pubblico e utilizzato in prevalenza in ambito scientifico. Quasi a voler marcare l’esoticità, la distanza geografica dell’evento, lo “tsunami” è divenuto così il modo con cui molti italiani hanno identificato, non tanto il fenomeno dei maremoti in generale, ma quel particolare evento, quella specifica calamità.
Nonostante questa sorta di desemantizzazione, nonostante l’inconscio bisogno collettivo di rimuovere e allontanare, anche terminologicamente, la presenza del rischio, non sono in verità mancate occasioni, sulla stampa e altrove, in cui è stato posto il problema della possibilità che fenomeni del genere possano verificarsi anche nella nostra Penisola. Nella maggior parte dei casi però, la casistica proposta si è limitata a segnalare eventi relativamente recenti, e in primo luogo l’onda anomala, provocata da un ingente distacco di roccia lavica, che investì Stromboli nel dicembre del 2002.
In realtà il fenomeno dei maremoti è tutt’altro che rarissimo nel nostro Paese. L’istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (www.ingv.it/italiantsunamis/tsun.html) ha catalogato ben 67 eventi di questo tipo, e ulteriori informazioni sono reperibili anche nel Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1980 (E. Boschi et al, Roma, Istituto Nazionale di Geofisica, 1997). Si tratta ovviamente di dati che, soprattutto quando riferiti ad epoche molto remote, presentano differenti gradi di attendibilità, ma che tuttavia forniscono un quadro estremamente significativo dell’elevato livello di rischio esistente in Italia.
Va innanzitutto ricordato che, benché i terremoti sottomarini o in prossimità delle coste, siano stati le cause principali dei maremoti, l’Italia, per la sua conformazione geofisica, è particolarmente vulnerabile anche a onde anomale causate dall’attività vulcanica. E’ di questo tipo, ad esempio, il primo caso di maremoto accertato sulle coste italiane: quello che colpì il golfo di Napoli in seguito alla catastrofica eruzione del Vesuvio nel 79 a.c.; lo stesso Vesuvio fu poi all’origine di ulteriori onde anomale nel 1631, nel 1698, nel 1714, nel 1813 e nel 1906. Anche in Sicilia si verificarono degli tsunami causati direttamente o indirettamente da eruzioni vulcaniche. I più numerosi si registrarono nel complesso vulcanico delle isole Eolie: oltre al già ricordato evento del 2002, vi furono a Stromboli, solo nel XX secolo, ben 5 maremoti, il più grave dei quali uccise, nel settembre del 1930, due pescatori.
Anche le frane hanno poi avuto, in qualche caso, un ruolo nei movimenti anomali dei livelli marini: nel giugno del 1978, ad esempio si registrarono forti oscillazioni marine nell’Adriatico centrale che coinvolsero sia le coste italiane (a Bisceglie il mare penetrò sulla terraferma per circa 200 metri) che quelle croate (nell’isola di Korciula le onde, alte 8 metri, inondarono le case sulla costa); l’ipotesi più accreditata è che quel fenomeno fosse stato generato da una frana sottomarina. Un ulteriore caso si verificò l’anno dopo: a causa di alcuni lavori nel porto di Nizza, franarono in mare circa 10 milioni di metri cubi di terra; l’onda che ne scaturì inondò alcune località della costa azzurra e uccise una persona. Nelle isole Eolie, infine, nell’aprile del 1988, un’onda anomala fu generata da una frana di circa 200.000 metri cubi scesa dal fianco del vulcano La Fossa nell’isola di Vulcano.
Dai pochi dati sopra riportati è evidente che l’area italiana che storicamente ha conosciuto con più frequenza fenomeni di maremoti è il Mezzogiorno. Sebbene eventi del genere si siano registrati anche in altre aree costiere – 9 sulla costa ligure/costa azzurra, 3 sulla costa livornese e altrettanti sulle coste dell’adriatico centro-settentrionale – è sulle sponde meridionali che si presenta, infatti, il maggiore livello di rischio: circa il 75% di tutti gli tsunami italiani, si sono abbattuti sui litorali della Puglia, della Campania e, soprattutto, della Calabria e della Sicilia.
Ma non è solo la frequenza degli eventi a destare forti preoccupazioni. Se infatti a tutt’oggi risulta impossibile prevedere il momento e il luogo preciso in cui si verificherà un terremoto, ciò che invece è senza dubbio possibile prevedere, è che in aree fortemente sismiche, e quindi soggette anche al pericolo maremoti, l’assenza di politiche di mitigazione del rischio rischia di trasformare l’evento naturale in una catastrofe.
Ovviamente, rispetto al passato, vi è stata una enorme crescita, non solo delle conoscenze specialistiche (geologiche, ingegneristiche, etc.), ma anche della strumentazione tecnica per affrontare eventi di questo tipo; tuttavia non sempre questi sviluppi si sono poi tradotti in politiche di prevenzione: con l’eccezione di Stromboli, dove il moto ondoso viene oggi costantemente monitorato, il sistema di rilevazione e di allarme per i maremoti è in Italia scarsamente paragonabile a procedure d’allerta quali, ad esempio, il PTWS (Pacific Tsunami Warning System) che prevede persino l’uso dei satelliti per acquisire i dati mareografici in tempo reale.
Ma, cosa ancor più grave, se si opera un confronto con i secoli precedenti, non si può non rilevare un altro dato di estrema importanza: gran parte delle coste italiane – e quelle meridionali in particolare – sono state per lunghi secoli luoghi paludosi e malarici e quindi scarsamente popolate. I “marimoti”, come talvolta venivano definiti nei documenti e nella pubblicistica dell’epoca, pur causando morti e distruzioni, erano in ogni caso destinati ad abbattersi prevalentemente in aree prive di rilevanti insediamenti umani. A partire dal XX secolo invece – e con una fortissima accelerazione nel boom economico del secondo dopoguerra – le coste meridionali sono state oggetto, com’è noto, di una antropizzazione senza precedenti: una trasformazione del territorio, attuata spesso senza alcuna pianificazione, sulla scorta di una crescente domanda di turismo balneare. Diventa poi quasi paradossale il pensare che, oltre all’antropizzazione selvaggia delle coste – peraltro incrementata dai vari condoni edilizi che si sono succeduti negl’ultimi anni – si minacciano persino peculiari forme di antropizzazione marina: il riferimento è ovviamente al ponte che dovrebbe sorgere in un’area, lo stretto di Messina, che ha conosciuto – lo vedremo tra breve – le forme più violente e distruttive di maremoto che si siano mai verificate in Italia.
Quelle che di seguito si riportano, sono alcune testimonianze sulle più catastrofiche inondazioni marine che si sono avute sulle coste italiane.
Il primo brano è un breve resoconto tratto da un testo coevo (Sincera ed esatta relazione dell'orribile terremoto seguito nell'isola di Sicilia il dì 11 di gennaio 1693, Roma, per Gio. Francesco Buagni, 1693) sul maremoto successivo al sisma del 1693, che colpì violentemente la Sicilia orientale causando circa 60 mila morti e la distruzione di numerosissime città e villaggi:
Il giorno de’ 9 di Gennaio prossimo passato nell’Isola di Sicilia si sentì improvvisamente un terremoto terribile, verso le quattro ore di notte, che replicando il dì 11 dopo mezo giorno in brevissimo tempo subissò tutta la Città di Catania, e nel medesimo tempo il Mare si ritirò alquanto, lasciando in secco le navi, che erano in quella spiaggia, e poi ingrossato ritornò come un torrente furioso, e rapido, e così durò circa un quarto d’ora, e que’ legni ebbero gran pena a salvarsi. Dopo seguì una fiera borrasca con grandissima pioggia, e nuvoloni di polvere, che si stesero per più di otto miglia per quelle spiagge, e nello stesso tempo il terremoto fu sentito in Augusta, e in Siracusa con la total distrutione di ambe le dette Città, con essersi ivi salvata pochissima gente.
Messina anch’essa nell’istesso giorno ha provati gli eccidj del terremoto, e ben grandi, essendovi cadute molte case, […] e anche ivi’l mare si ritirò a segno tale, che mancò l’acqua, che circonda la Cittadella, e dopo ritornò con impeto grande.
La seconda testimonianza è invece relativa al disastroso terremoto – e al successivo maremoto – del febbraio 1783 che distrusse completamente moltissime zone della Calabria meridionale e della Sicilia orientale. I morti in quell’occasione raggiunsero circa il 7% della popolazione dell’area e si verificarono enormi sconvolgimenti del territorio (cfr. P. Tino, Terremoto e mutamenti ambientali nella Calabria di fine Settecento, in “I frutti di Demetra”, n. 3, 2004). Il brano che segue è tratto dal volume di Andrea De Leone (Giornale e notizie de' tremuoti accaduti l'anno 1783 nella provincia di Catanzaro, Napoli, Stamperia de' f.lli Raimondi, 1783):
Memorando e spaventevole fu lo scempio di questa rinomata città [Scilla]. […] La quarta parte di questa città cadde in un tratto alle scosse del dì 5 di febbraro, ed il restante fu fracassato in modo da non potersi abitare. […]
In tanta sciagura, e confusione gli abitanti del quartiere di San Giorgio vedendo vicina la notte si ricoverarono negli orti; mentre tutti gli altri volarono alle adjacenti marine, dove, seguendo l’esempio del Conte di Sinopoli, trasportarono il più prezioso, che aveano, e si allogarono chi sotto le tende, e chi sulle barche. Il Conte si pose con 49 suoi cortigiani su di una comoda filuca. Mentre questi sventurati cercarono scampar la morte, che minacciava la terra, ne preparò loro un’altra più cruda il mare. Inoltratasi dunque la notte verso le ore 8 d’Italia, e nel punto, che l’aria, e l’acqua stavan chete e tranquille, se non che placidamente pioviginava, s’intese un grandissimo rumore: si vide in seguito un pezzo di terra dell’estensione di un miglio e mezzo quadrato distaccarsi dalla montagna detta Campallà […].
Non si era quella misera gente riavuta ancora dello spavento provenutole da sì gran fracasso, che soggiacque ad un totale sterminio: mezzo minuto dopo la narrata rivoluzione si alzarono dalla parte di mezzogiorno e libeccio due sterminati cavalloni di mare dietro ad un orrendo muggito, che ad un tratto lanciati sul lido misero sossopra le barche, e le tende, ed ingojarono 1431 di que’ meschini rifuggiti alle arene del mare. Parte di questi furono fiaccati per le finestre e per le porte ne’ primi piani delle case situate alla marina, e gittati in fronte alle mura con tutte le barche: e parte trascinati dall’onde, che si ritiravano nel fondo del mare. Questo sconvolgimento durò circa due minuti, e subito ritornarono le acque nelle primiera calma. Fra gli annegati vi fu il Conte con tutti i suoi cortigiani […].
Tutti gli abitatori del quartiere di San Giorgio, che si erano ritirati ne’ giardini, non furono lesi dell’inondazione; ma quelli dell’Acquagrande, che si erano allogati nella Chianella, e nella marina dell’Oliveto, soffrirono qualche danno: siccome quelli delle Gornelle e Livorno furono, come ho avvertito, quasi tutti sommersi: alcuno di quella gente infelice si salvava e nuoto, e nel bere un po’ di vino che chiedeva per conforto, rendeva l’anima al Creatore. […]
Le acque lungo la marina grande si alzarono 24 palmi [6,2 metri] dalla parte di mezzogiorno, e 32 [8,3 metri] da quella di tramontana, e nel vallone di Livorno situato in mezzo quella marina [s’inoltrarono] a palmi 647 [circa 170 metri] […]. Furono quivi distrutte 22 case, 12 casini, 3 magazzini, il fondaco de’ manganelli di seta, e la chiesa dello Spirito Santo; ed una sola casa rimasta intatta salvò 140 persone. Per lo spazio di due mesi il mare andò gittando ai seguenti lidi i corpi degli annegati. A Davazzina distante 3 miglia da Scilla; a Bagnara distante sei; a Palmi 12; alle Pietrenegre 15 miglia: a Gioja diciotto; a Nicotera trenta; a Paola cento; al Faro quattro; a Laci 50; ed a Catania distante 60 miglia.
La popolazione di questa luttuosa città era di 1513 individui; de’ quali ne perirono 1447, cioè 330 uomini, 594 donne, 513 ragazzi: né sotto le rovine rimasero più che 56, essendo stato tutto il resto ingoiato del mare. […]
La popolazione ascendeva [a Nicotera] a 4009 cittadini, de’ quali 20 soli rimasero estinti dal flagello [..]. Anche il mare diede segni grandi della massima alterazione, in cui fu messo del tremuoto. Si ritirò, divenne gonfio, e ad un tratto, slanciandosi nel lido, mise sotto sopra le barche da pesca quivi allogate. […]
Il fenomeno significante, avvenuto in Reggio, è quello dello mutazione succeduta nella strada, detta de’ Giunchi. […] Lungo la spiaggia conterminale a questo luogo vi erano molte officine, stabilite per trarre da’ bachi la seta. Il mare dianzi baciava queste sponde; e ne’ tempi più tempestosi gli ordigni, ivi giacenti, rimaneansi a coverto dagl’insulti delle onde.
Ne’ fatali momenti del tremoto si mutò talmente l’aspetto antico delle cose, che il mare traboccò le sponde, e le inondò a segno che dovettero di là togliersi gli ordigni da seta, e trasportarsi altrove: né già si creda che quest’alterazione fosse durata né soli momenti della rivoluzione; ma per l’opposito essa è tutt’ora durevole, e il mare sopravvanza quasi per l’altezza di due palmi [circa 1/2 metro] l’antico livello della spiaggia. […]
Se somma considerazione meritano i gravissimi disastri, che si produssero non solo dall’aeromoto, ma anche del tremoto del dì cinque di febbrajo, non è men degno di attenzione il marimoto, che nello stesso fatale momento si destò nel mare che bagna le sponde di Messina, di Reggio, del Cenidio, e del Faro, e che si unì col tremoto, e coll’aeremoto, cagionando collegati insieme, effetti diversi, e cospirando tutti a formare un impeto solo. Nella fervida, e tumultuosa Carriddi, nelle rapide opposte correnti, e in tutto il volume delle acque, le quali inondano tutto quel vasto distretto, si concepì un così valido, e formidabile scomponimento, che, come se una forze potentissima ne avesse percosso il centro, e scisso il seno per metà, il mare pria orribilmente avallandosi nel mezzo, e indi in rapidissimi voraci spire ampiamente nabissando, respinse per gli opposti lati l’onda inarcata; e con tale indicibile violenza ne sbalzò i flutti ripercossi, che trascinandoli a invadere, e a superare tutta l’estensione del tranquillo letto del porto, li sforzò ad ergersi incontro alla valida difesa della panchetta, e a traboccar tanto al di là di essa, che tutto lo spazio, interposto tra questa, e le basi de’ grandi edifici del teatro marittimo, ne rimase altamente ove più, ove meno inondato, e ingombro di marino limo, e di arena.[…]
Da Messina a Torre di Faro vi ha la distanza di undici miglia, o poco più; e da Torre di Faro al Cenidio vi ha quella di quasi un miglio e mezzo, quanta è la latitudine dell’interposto mare tra’ due avversi promontorj del Peloro, e dal Cenidio, da cui sino a Scilla vi sono intorno a sei miglia.
In tutte le sponde conterminali al mare, che occupa i luoghi posti nelle distanze accennate, ove più, ove meno, si risentirono gli effetti di un tale marimoto.[…]
In Torre di Faro vi furono disordini tali, che decisivamente indicarono d’essere stato tal luogo compreso nelle circonferenza di quel teatro, in cui il marimoto rappresentò le tragiche sue scene. Di fatto nella stessa notte funesta, nella quale tante orribili sventure posero a soqquadro la vita, e le fortune degli Scillitani, quivi l’onda, escrescendo, irruentemente invase le sponde: rapì seco alcuni meschini legni, che se le pararono davanti: assorbì 26 miserabili vittime, che si stavano ricoverate sopra picciole barchette pescherecce; e inoltrandosi ove per 200 [50 metri circa], ove per 400, ed ove per 600 passi, rovesciò gli argini arenosi, inondò i vigneti, svelse le piantagioni, e traboccò nel pantano, nelle vigne, e ne’ terreni, d’onde portò via quanto incontrò; e dove depose, o per compenso, o per nuovo ingombramento, moltissimo limo, e molta copia di pesci […]
L’ultimo evento preso in considerazione è il catastrofico maremoto successivo al fortissimo sisma del 28 dicembre 1908 con epicentro in mare, nello stretto di Messina. Le vittime – causate sia dal sisma che delle onde distruttive – furono stimate in circa 120.000 unità (solo a Messina vi furono 80.000 morti e 15.000 a Reggio Calabria). Lo scritto che segue (tratto da Contributo allo studio del terremoto calabro-messinese del 28 dicembre 1908, in “Atti del R. Istituto d'Incoraggiamento di Napoli”, serie VI, vol. VII, 1909) è di uno dei padri della sismologia italiana: quel Giuseppe Mercalli a cui si deve la creazione dell’omonima scala di intensità sismica che, pensata inizialmente in 10 gradi, fu successivamente integrata di altri 2 gradi proprio per ricomprendere quest’evento. Va però precisato che il brano in questione si limita a descrivere gli effetti sulla costa calabrese, e non comprende invece le morti e le distruzioni che il maremoto causò alle coste sicule e in particolare a Messina e a Riposto, S. Alessio, Briga e Paradiso che furono quasi completamente distrutte da onde alte oltre 10 metri:
Io ho osservato gli effetti di questo fenomeno [il maremoto] specialmente sulla costa calabrese. Premetterò che l’azione disastrosa dell’onda di mare, che distrusse strade, piante, case, ingoiò animali e uomini, si estese a nord di Reggio fino a Villa S.Giovanni, a sud fino e Lazzàro.
Infatti, tra Villa S.Giovanni e Pezzo il mare entrò, per esempio, nelle filande dei signori Erba asportando balle di sete e uccidendo due persone. Invece, subito a nord delle Punta del Pezzo, il mare non fece più danni. A Bagnara non si accorsero neppure del maremoto, forse perché la costa è scoscesa. Invece a Nicotera-Marina, dove la spiaggia èmolto estesa, il mare prima si ritirò per gran tratto lasciando a secco la carcassa d’una nave arenata e parzialmente sommersa; e, dopo pochi minuti, un’ondata invase la spiaggia arrivando fino alle case. Verso sud, mentre il maremoto fu disastroso a Pellaro e a Lazzàro, dove l’acqua s’innalzò fino a 10 metri d’altezza, appena passato Capo dell’Armi, diminuì rapidamente d’importanza. A Melito e a Bovamarina fu mediocre (a Bova, alcuni giorni dopo il terremoto, il mare gettò sulla spiaggia una bambina morta): alla marina di Palizzi appena sensibile. A Brancaleone, il mare primo si ritirò e poi invase la spiaggia.
A Reggio mi dissero che le onde furono tre: un casellano, che era di guardia, attendendo il treno alla Pescheria, dice che la prima ondata arrivò alla ferrovia mentre durava ancora la scossa: la seconda ondata, arrivò 5 o 6 minuti dopo, la terza, più forte di tutte, dopo altri 5 o 6 minuti (anche a Gallico inferiore, secondo il sig. Stilo, l’ondata più forte avvenne circa 10 minuti dopo. Quivi l’onda del mare si inoltrò sulla terra per circa 300 metri distruggendo case e rigogliosi vigneti. Il materiale di alcune case coloniche venne sparso a grande distanza. I massi di una diga del torrente Bozzurro furono portati almeno 100 metri lontano). Due barche vennero portate sulla linea; un’altra più al di là. Alla stazione del ferry-boat le carrozze della ferrovia vennero tutte rovesciate e qualcuna capovolta.
Anche a S.Gregorio (tra le Sbarre e Pellaro) una barca, di 4 metri e 1/2 di lunghezza, venne portata dall’onda del mare al di là del terrapieno della ferrovia e deposta in mezzo a un aranceto tutto distrutto. Presso Pellaro, un ponte della ferrovia venne trasportato lontano dal maremoto, come dirò meglio in seguito.
In molti altri luoghi, ho trovato piante sepolte parzialmente sotto lo sabbia del mare, e tutte seccate e rovesciate verso terra; […].
Un marinaio di Pellaro, che si trovava in barca al momento del terremoto, dice che il mare prima si ritirò e lo trascinò molto lontano dalla spiaggia, e così si salvò restando al largo. Quanto all’ora del maremoto, non ebbi informazioni concordi, ma pare che sia cominciato a Reggio e a Messina quasi immediatamente dopo la scossa, a Pellaro e a Lazzàro parecchi minuti dopo (7-8 min., secondo alcuni; fin 15 min., secondo altri); a Bova circa 30 minuti dopo.
Questo ritardo dell’arrivo dell’onda di maremoto con l’allontanarsi da Reggio e da Messina dimostra un’altra volta che l’epicentro del fenomeno è da porsi in mare tra queste due città. […]
Gli effetti meccanici del maremoto si sovrapposero così intimamente a quelli del terremoto e del franamento di spiaggia, che è difficile tenerli distinti, e perciò li descriveremo insieme nelle pagine seguenti.
Sprofondamenti di spiaggia. - A Messina la banchina del porto, in diversi punti. sprofondò in mare: per esempio, presso l’imbarco del ferry-boat si vedevano, ancora nell’aprile, dei vagoni per 3/4 immersi nell’acqua. La strada rotabile parallela alla spiaggia restò tutta sconnessa e in parte sommersa […].
Presso le frazione di Occhio (presso Pellaro), il mare distrusse agrumi ed ortaggi e ricoprì il terreno di ciottoli e molte case coloniche di cattiva costruzione (ciottoli e fango) crollarono prima per il terremoto, poi furono rase letteralmente al suolo dall’ondata di maremoto. Sparsi dappertutto senz’ordine si vedevano pezzi di mobili, insegne di botteghe, lettiere, brandelli d’abiti, ecc. Si sa che qualcuno si salvò, arrampicandosi sugli alberi.
Davanti alla chiesa della Consolazione distrutta, due fontane furono demolite dal maremoto e restarono prive d’acqua.
Muri spezzati in grandi blocchi rimasero rovesciati a terra e la spiaggia scomparve per una settantina di metri di larghezza. Altri muri di cinta (vicino ad Occhio) vennero spostati parallelamente alla spiaggia.
Però, pure vicino alla frazione di Occhio, alcune case basse, ben fatte e di recente costruzione, resistettero in mezzo a tanta rovina. Anche il terrapieno delle ferrovia rimase in posto, sebbene vi sia passata sopra l’onda del maremoto, la cui violenza si può argomentare dal seguente fatto. Poco a sud dello frazione di Pellaro, presso il casello n. 461, un ponte in ferro della ferrovia, diretto NE-SW, e di 40 metri di lunghezza per 4 di larghezza, venne gettato intero dai pilastri, girando di 60° circa intorno alla sua estremità SW e trascinando con se le rotaie, senza spezzarle dalla stessa parte di SW, rompendole invece dalla parte opposta. [....]
Tra Pellaro e Capo d’Armi le rovine sono molto saltuarie, perché dovute più al maremoto che al terremoto.
Presso il centro di Lazzàro (frazione di Motta S.Giovanni) la strada provinciale venne, per un buon tratto, demolita dal maremoto, il quale portò via quasi completamente la chiesa parrocchiale di S.Maria delle Grazie (dopo il maremoto del 28 dicembre, di questa chiesa restò in posto solo parte dell’Altare maggiore, il quale venne poi portato via da un’altra mareggiata avvenuta 3 giorni dopo) e distrusse le case di contadini e i piccoli appezzati di terreno coltivato, che stavano tra la strada e il mare: molti pezzi di muro di queste case ore si vedono emergere poco dall’acqua. Qui 27 persone perirono annegate, di cui solo 7 od 8 vennero gettate entro terra e i cadaveri si poterono portare al cimitero. Molti si salvarono, perché tra il terremoto e il maremoto ebbero tempo di fuggire verso il terrapieno della ferrovia, che non venne superato dal mare. Qui trovai tracce dell’onda di maremoto fino a 10 metri d’altezza sul livello del mare.
Nella parte di Lazzàro non distrutta dal maremoto ci furono parecchie case almeno parzialmente crollate con vittime umane; ma la maggior parte vennero solo più o meno gravemente lesionate. Tutti poi i piani inferiori delle case furono invasi dalla acque del mare, che percorsero il Corso Vittorio Emanuele, trascinando lontano persone e suppellettili.
ROMA - "L´uomo ha messo il guinzaglio a quasi tutto il pianeta Terra" sostiene un rapporto pubblicato oggi su Science. Il nostro sforzo di addomesticare la natura è pressoché completo: solo il 17 per cento delle terre emerse non è ancora toccato da attività umane. Nella cartina con le impronte dell´homo sapiens solo i poli o i deserti rimangono intonsi. Altrove, non esiste angolo di terreno calpestabile che contenga meno di un abitante per chilometro quadrato, non ospiti città, campi coltivati o pascoli per gli animali allevati per uso alimentare. Non abbia una via di comunicazione nel raggio di 15 chilometri né linee per il trasporto dell´energia. Non mostri agli occhi di un satellite una luce accesa di notte.
Gli stessi parchi naturali, anche se creati con l´intento di preservare habitat a rischio, rientrano fra gli esempi di "natura pettinata". E se l´addomesticamento del pianeta è frutto del comprensibile istinto di creare attorno a noi un ambiente sicuro e ospitale, a lungo andare rischiamo di cadere nel contrappasso di una natura deprivata di ogni risorsa, scrivono i ricercatori delle università di Santa Clara e di Harvard che hanno passato al setaccio i dati sull´impatto dell´uomo sul pianeta Terra.
«Abbiamo addomesticato paesaggi ed ecosistemi per aumentare le nostre fonti di cibo, ridurre la nostra esposizione ai predatori e ai rischi naturali e promuovere il commercio. In generale, i benefici di una natura addomesticata superano gli svantaggi. Man mano che procediamo verso il futuro però dobbiamo calcolare meglio i costi e i benefici dei nostri interventi. Perché, sfruttando le sue risorse, stiamo riducendo le capacità di recupero del pianeta» scrivono Peter Kareiva e Tim Boucher, autori principali del rapporto.
Smentendo le previsioni di Malthus, la Terra oggi riesce a nutrire 6,5 miliardi di abitanti. Il 50 per cento delle superfici emerse è dedicato all´agricoltura. Per fare spazio alle coltivazioni, la metà delle aree boschive nel mondo è andata distrutta e perfino nelle cosiddette foreste vergini dell´Amazzonia o del Congo sono stati trovati resti di uomini primitivi. I mammiferi di grandi dimensioni, soprattutto se carnivori, sono stati eliminati o ridotti a un numero di esemplari ben controllabile. Al contrario, gli erbivori utili per l´alimentazione si sono moltiplicati. Kareiva e Boucher hanno calcolato che in America del Sud pascola il decuplo degli animali che vivrebbero senza le attività di allevamento da parte dell´uomo.
Per proteggersi dalle inondazioni, la nostra specie ha ridisegnato con il cemento le coste e gli argini dei fiumi. Lo studio di Science calcola che solo in Europa la linea costiera maneggiata dall´uomo raggiunge i 22mila chilometri. Le dighe in tutto il mondo hanno formato laghi artificiali che contengono sei volte l´acqua che scorrerebbe naturalmente nell´alveo dei fiumi. Ma se i benefici per l´uomo in termini di sicurezza e di nutrimento sono evidenti, l´erosione dell´ambiente procede lentamente e in silenzio, per riemergere a distanza di anni e di migliaia di chilometri. Se tra il 1700 e il 1990 le rese agricole sono quintuplicate, la perdita di foreste nello stesso periodo ha raggiunto il 14 per cento. La superficie dei pascoli è aumentata di 7 volte, ma savane e praterie si sono ridotte di un terzo. Il consumo di acqua è aumentato di 4 volte tra il 1950 e il 1980. Con la sua opera, l´uomo è riuscito a trasformare la Terra in un ambiente relativamente ospitale e sicuro, e non è certo un ritorno al passato quello che auspicano i ricercatori di Science. Vogliono solo avvertirci che non può bastare un guinzaglio a farci credere di aver addomesticato il mondo.
Anche i paesi ricchi sono toccati dalla crisi mondiale dell'acqua: l'allarme arriva dal rapporto annuale del Wwf, pubblicato alla vigilia della Settimana mondiale delle risorse idriche (da 20 al 26 agosto). Secondo l'organizzazione ecologista, le cause sono da ricercare nei mutamenti climatici, nella crescente siccità e nell'estinzione delle zone umide. La crisi, inoltre, è aggravata dall'inquinamento e dalla cattiva gestione delle risorse.
Le città "ricche" sotto accusa sono, tra le altre, Houston e Sydney dove il consumo di acqua è nettamente superiore al ritmo di ricostituzione delle riserve, mentre a Londra la cattiva rete di distribuzione porta alla dispersione dell'equivalente di 300 piscine olimpiche al giorno. Per quello che riguarda i paese mediterranei, la crisi è acuita dal turismo di massa e dalla mancanza di una cultura per la conservazione delle risorse. Il Giappone è un altro dei paesi ricchi dove l'abbondanza delle precipitazioni non basta e la contaminazione delle acque costituisce un grave problema in molte regioni.
"I Paesi ricchi - si legge nel rapporto del Wwf - devono attuare cambiamenti drastici nelle loro politiche se vogliono evitare la crisi che sta riguardando le nazioni più povere".
Il rapporto ha suggerito inoltre che l'agricoltura nei Paesi più ricchi dovrebbe pagare di più per l'acqua e dovrebbe farne un uso più responsabile. "A livello retorico - si legge sempre sul rapporto - nei paesi del 'Primo mondo' è ormai generalmente accettato che l'acqua deve essere usata in maniera più efficiente. Molti Paesi riconoscono che bisogna correre ai ripari per ridurre i danni inflitti al sistema idrico in passato. Tuttavia questo nella pratica spesso non è accaduto".
Il Wwf ha suggerito diverse vie per far fronte all'emergenza: bilanciare i consumi con la tutela dell'ambiente; cambiare radicalmente l'atteggiamento verso la "protezione" dell'acqua; riparare le infrastrutture obsolete; preservare i bacini idrici; diminuire la contaminazione dell'acqua; aumentare i prezzi agli agricoltori; studiare di più i sistemi idrici.
Il caldo? «Si fa molto sensazionalismo», sbotta Vincenzo Ferrara: «ogni anno sui giornali scrivete "emergenza caldo", "emergenza siccità": macché, non è un'emergenza. E' un dato strutturale, e bisogna tenerne conto». Ferrara è uno dei più bravi climatologi italiani, dirige il Progetto Clima Globale dell'Enea ed è nel comitato scientifico del Wwf Italia. Certo: viene fin troppo facile dire «emergenza», con il termometro che sale ben oltre i 40 gradi nel sud Italia, gli incendi, i black-out elettrici - o le alluvioni in Gran Bretagna. Il punto è che non siamo di fronte ad anomalie eccezionali: «Quelli che noi stiamo vedendo sono i primi effetti del cambiamento del clima», spiega Ferrara.
Siamo di fronte a due problemi, riassume il climatologo. Uno: è necessario ridurre le emissioni di gas a «effetto serra» che si accumulano nell'atmosfera terrestre e la riscaldano, in modo da frenare la tendenza al cambiamento del clima: «E' quello che chiamiamo strategie per mitigare il cambiamento del clima. Ma dobbiamo sapere che se anche riuscissimo a tagliare subito tutte le emissioni di gas nocivi, i cambiamenti del clima ormai sono innescati e gli effetti continueranno nei prossimi 50 o 60 anni. Per questo dico l'ondata di caldo è un problema strutturale». Ecco dunque il problema numero due: «Dobbiamo attrezzarci a combattere gli effetti del cambiamento del clima, già visibili e prevedibili. Dobbiamo mettere in campo quelle che nei consessi internazionali chiamiamo strategie di adattamento».
Cosa significa, nella pratica? «Significa che l'intera pianificazione dell'uso del territorio e delle risorse deve tenere conto del fatto che il clima sta cambiando. Sappiamo che la siccità è un dato strutturale: dunque bisogna razionalizzare da subito l'uso dell'acqua per i consumi civili, industriali, agricoli. Sappiamo che in Italia 1.400 chilometri di costa sono a forte rischio di erosione o di allagamento: dunque ill territorio costiero e il turismo vanno sviluppati tenendone conto. Una valutazione di impatto ambientale non può più considerare il clima come dato fisso, deve considerare il cambiamento prevedibile nei prossimi decenni: ad esempio, inutile costruire una qualsiasi infrastruttura su una costa destinata a andare sott'acqua tra 30 anni. Sia chiaro, adattarsi non significa rassegnarsi. Significa però prevenire i danni maggiori».
Ma l'Italia sta preparando le sue «strategie di adattamento»? Un'occhiata ai vicini europei dice che siamo in ritardo; ora però «il governo italiano si sta rendendo conto che il problema è grave», risponde Ferrara. Servirà a questo anche la Conferenza sul cambiamento del clima prevista per il prossimo settembre, convocata dal Ministero dell'ambiente e dall'Anpat - Vincenzo Ferrara dirige il comitato scientifico che la sta preparando. Servirà, dice, a «smovere l'opinione pubblica: perché si fa molto sensazionalismo su questi temi ma circola ben poca informazione seria». E servirà a coinvolgere le parti sociali.
Dunque bisogna lavorare su due binari. «Bisogna ripensare il sistema energetico nazionale», dice Ferrara: «Non c'è altro modo per tagliare drasticamente le emissioni di gas di serra», visto che la fonte principale di queste emissioni è la combustione di fossili come petrolio o carbone, dunque tutto ciò che è legato alla produzione di energia, trasporti, industria. «L'obiettivo minimo è dimezzare le emissioni di gas di serra entro il 2050», ricorda Ferrara: solo così riusciremno a contenere il riscaldamento dell'atmosfera terrestre entro i 2 gradi di media, consentendo agli ecosistemi di adattarsi (è l'ultima conclusione a cui è giunto il Comitato intergovernativo sul cambiamento del clima (Ipcc), il comitato scientifico internazionale istituito dall'Onu (Ferrara ne è stato il punto di riferiemento per l'Italia fino all'anno scorso).
Tagliare i consumi energetici, cercare soluzioni per conservare energia. E poi «pianificare l'uso del territorio e delle risorse, il turismo, le attività economiche, tenendo conto dei cambiamenti prevedibili». Insomma: dobbiamo abituarci a vivere con il cambiamento del clima.
Dopo due settimane di negoziati, la Commissione Onu sullo sviluppo sostenibile, al suo quindicesimo incontro annuale, non è riuscita a licenziare a un documento finale, per divergenze fondamentali sulla natura e gli obiettivi dell'agenda dello sviluppo sostenibile. Nata dall'Agenda 21 - il programma d'azione per lo sviluppo sostenibile adottato nel giugno 1992 all'Earth Summit di Rio de Janeiro - la Commissione ha il compito di incoraggiare la cooperazione internazionale nell'applicazione dell'Agenda stessa a tutti i livelli: locale, nazionale, regionale, internazionale.
L'ostacolo maggiore si è rivelato essere il futuro del Protocollo di Kyoto che scade nel 2012. L'Unione europea ha sottolineato l'urgenza di un nuovo accordo per proseguire con il sistema di riduzioni obbligatorie delle emissioni di gas serra. Ma ad Australia, Stati uniti e Canada gli obblighi vincolanti risultano indigesti. A differenza dei primi due paesi, il Canada ha ratificato Kyoto; ma adesso il governo conservatore di Stephen Harper dice che il paese «non può» rispettare questo impegno. All'ultimo momento il gruppo dei 77 insieme a Cina, Usa, Canada e Messico ha accettato un'offerta «prendere o lasciare» da parte del presidente di turno della Commissione Onu, il ministro dell'Energia e dell'Industria del Qatar. Ma l'Unione Europea e la Svizzera hanno preferito lasciar perdere un documento che non prevedendo vincoli «non va incontro alle aspettative e alla sfide mondiali». Fra i temi caldi anche la questione del nucleare: Algeria, Argentina, Cile, Pakistan e altri avrebbero voluto inserirlo nell'elenco delle energie sostenibili; l'Ue e l'Associazione delle piccole isole-stato (minacciati nella loro stessa esistenza geografica) si sono opposti. Il fallimento dei lavori della Commissione Onu getta un'ombra sui futuri negoziati sul clima, previsti a Bali in dicembre. Negli stessi giorni in cui i governi si fronteggiavano in sede Onu, è uscito un rapporto della storica organizzazione inglese Christian Aid dal titolo Human Tide: The Real Migration Crisis in cui si stimano in un miliardo da qui al 2050 i rifugiati climatici: gli abitanti della Terra - in stragrande maggioranza dai paesi già impoveriti - che saranno a tal punto danneggiati dal caos climatico da dover fuggire altrove. Il rapporto parte dai 155 milioni che già hanno dovuto lasciare le proprie terre e case a causa di guerre, disastri «naturali» e progetti di sviluppo su larga scala. E chiede un'azione urgente da parte della comunità internazionale per evitare - contenendo l'aumento della temperatura a meno di 2 gradi centigradi, cioè un dito sotto la catastrofe - il peggior spostamento di popolazioni della storia mondiale. Movimenti in grado di destabilizzare intere regioni, se popolazioni sempre più disperate si troveranno a competere per acqua e cibo scarseggianti. Viene citato a monito il conflitto in Darfur, che trova la propria origine in generazioni di guerre per il controllo dell'acqua e dei diritti di pascolo in questa regione ampia e arida. Anche Wangari Maathai, l'ambientalista sociale kenyana vincitrice del Premio Nobel per la pace nel 2004, ha detto in un'intervista al Washington Post che il disastro nella regione del Sudan è centrato sulla ripartizione di risorse scarse, «una lotta per il controllo di un ambiente che non può più sostenere tutti gli esseri umani che ci vivono».
L'organizzazione poi fa il suo lavoro, chiedendo ai paesi maggiori responsabili delle emissioni di mettere in piedi un fondo di 100 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi più poveri e vulnerabili a mettere in atto strategie di adattamento all'aumento del livello dei mari, alla crescente siccità e agli eventi climatici estremi. I contributi al fondo dovrebbero essere proporzionali alle emissioni pro capite dei paesi.C'è da sperare nel programma d'azione «immediata» che dovrebbe uscire dal Vertice sul clima delle C40, le più grandi città del mondo, in corso a New York.
UN-Habitat, L’acqua e gli insediamenti umani, in un mondo che si urbanizza (Capitolo 3 di: UN-Water Assessment Programme, Water,a shared responsibility, Secondo Rapporto Mondiale sull’Acqua, Città del Messico 22 marzo 2006, Executive Summary) – Titolo originale: Water and Human Settlements in an Urbanizing World – Estratto e traduzione per eddyburg_Mall a cura di Fabrizio Bottini
Le sfide poste dalla gestione delle risorse idriche variano enormemente a seconda del tipo di insediamento umano. La gamma dei tipi di insediamento va da quello sparso per abitazioni isolate delle zone rurali, attraverso villaggi e piccole cittadine, sino alle molto più dense e affollate città e mega-città. Metà della popolazione mondiale, e la maggior parte dell’economia mondiale, si collocano nelle aree urbane. Oggi, le grandi città presentano una sfida particolare, con ben 400 centri al mondo con popolazione superiore al milione di abitanti.
A livello mondiale esistono significative tendenze ad un aumento dell’urbanizzazione.
Nella maggior parte dei paesi africani e asiatici, le popolazioni migrano dagli insediamenti rurali verso quelli urbani. Di particolare rilievo sono le notizie di notevole crescita alle periferie di molte delle mega-città mondiali. Meno nota, ma non per questo meno significativa, la crescita di un gran numero di città medie e piccole, la maggior parte delle quali subisce la tensione di una rapida espansione. Nei paesi in via di sviluppo, col totale della popolazione in crescita, in genere la popolazione rurale si prevede in gran parte stabile in termini numerici, mentre ci si aspetta che quella urbana cresca rapidamente. Esistono comunque alcune differenze: l’America Latina è notevolmente più urbanizzata dell’Africa o dell’Asia, anche se quest’ultima possiede alcune delle più grandi città del mondo. Per contro, in alcuni dei paesi più sviluppati, dove la grande maggioranza della popolazione vive nelle città, ci sono segni di una controtendenza: le persone abbandonano le città per un livello di vita migliore nei centri minori circostanti.
Le aree costiere a bassa elevazione stanno diventando sempre più densamente popolate.
Non solo molte delle città e mega-città mondiali si trovano nelle zone costiere, ma anche le densità delle aree rurali in queste regioni stanno aumentando. Molte di queste località si trovano al di sotto, o molto prossime al livello del mare. Di conseguenza, la probabilità di inondazione è in crescita con l’aumento del livello del mare, e quello nell’intensità e frequenza delle tempeste. La vulnerabilità delle popolazioni in queste regioni pone altre sfide alle autorità civili responsabili.
I problemi posti dall’espansione di città e mega-città si mescolano all’inadeguatezza di gran parte dei terreni per l’insediamento umano.
Si tratta in particolare di un problema dei paesi in via di sviluppo. Le terre migliori e più adatte sono già occupate, mentre quelle rimanenti, in genere utilizzate da poveri, immigrati recenti, sono spesso le più a rischio di inondazione a fondovalle, o di frane sui fianchi delle alture. Si tratta anche di zone dove la realizzazione di servizi base come reti idriche e fognarie è più difficile e costosa. Il problema è esasperato dai tassi di incremento della popolazione, che superano di molto la capacità di assorbimento delle comunità. Le infrastrutture necessarie a servire i nuovi arrivi, semplicemente, non possono essere realizzate in tempi altrettanto brevi.
Dato che gli insediamenti umani sono i principali inquinatori delle risorse idriche, è essenziale una buona gestione delle acque pulite e di scarico per ridurre al minimo questo inquinamento, e i rischi per la salute.
L’espansione delle aree urbane e dell’agricoltura in genere offre nuove occasioni per le malattie. Ciò è destinato a continuare con la crescita della popolazione mondiale e l’aumento delle pressioni allo sviluppo agricolo, delle strade e sistemi di trasporto in aree precedentemente prive di insediamenti. Inoltre, con le industrie che tendono a concentrarsi entro o attorno alle città, e la produzione agricola principalmente nelle zone circostanti disponibili, devono aumentare le misure per contenere l’inquinamento e mantenere acque potabili sicure e strumenti di trattamento degli scarichi. Ciò è essenziale per assicurare la salute delle popolazioni, in particolare per gli abitanti delle grandi comunità urbane. Non affrontare questa sfida avrà effetti disastrosi sull’uleriore espansione delle città.
La gestione delle acque dovrà sempre confrontarsi col problema di realizzare un equilibrio fra i diversi utenti.
Si tratta di un problema sia delle grandi comunità urbane che di quelle piccoli e rurali. I bisogni di acqua della produzione agricola, energetica, industriale, sono spesso in concorrenza. Dunque, se sono di importanza prioritaria le questioni relative a una disponibilità adeguata di acqua da bere, per l’igiene e la salute, e a una gestione degli scarichi, si deve comunque trovare un equilibrio fra queste e altre necessità.
Gli insediamenti umani sono il contesto per l’azione.
La battaglia per conseguire gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG) riguardo ad acqua e scarichi dovrà svolgersi nelle città, cittadine e villaggi. È qui che si concentrano la gran parte della produzione industriale e delle attività economiche, e dove si prendono le decisioni critiche di governo. Con la crescita fisica e finanziaria delle città, rispetto ai più rarefatti insediamenti rurali, le sfide dell’acqua stanno diventando sempre più di carattere urbano. Le amministrazioni cittadine e municipali giocano un ruolo centrale nella gestione delle acque assicurandone la fornitura, rete fognaria e smaltimento. È di cruciale importanza il modo in cui gli obiettivi per la gestione delle acque si inseriscono nel quadro più ampio delle politiche ambientai ed economiche. A questo livello le iniziative strategiche si traducono in realtà, e necessitano di sostegno politico e amministrativo per risolvere conflitti e trovare consensi fra parti e interessi in concorrenza. Si devono coordinare e gestire le iniziative in queste aree, se si desidera un significativo miglioramento nelle vite dei 100 milioni di abitanti degli slum entro il 2020.
Nota: qui di seguito scaricabile la versione integrale originale dello “Executive Summary” del Rapporto (f.b.)
Progressivement, l'exceptionnel devient ordinaire. Et la canicule qui saisit en ce moment l'Europe à la gorge quitte la rubrique des faits divers pour devenir un fait majeur de société. A coups d'incendies, de vagues de chaleur, de pollution atmosphérique, d'assèchement des sols et des fleuves - et demain d'inondations brutales et de tempêtes de type tropical-, la météo sauvage qui secoue nos pays de cocagne, traditionnellement tempérés - trois périodes de chaleur record au cours de trois mois consécutifs-, se présente comme une réalité abrupte qu'il faut interroger.
Ne constitue-t-elle pas un signe supplémentaire d'une modification en profondeur des conditions de la vie sur terre? Les symptômes d'un gigantesque remue-ménage s'accumulent.
"Les phénomènes météorologiques et climatiques atteignent des niveaux records", constate l'Organisation météorologique mondiale (OMM), et leur nombre n'a cessé de "s'accroître ces dernières années". Plus personne de sérieux ne peut aujourd'hui se contenter de hausser les épaules en évoquant des coïncidences ou les aléas de la variabilité naturelle.
L'humanité se trouve bel et bien agressée par un dérèglement climatique majeur qui s'accélère et se généralise. Imprévisible, le phénomène, provoqué par un réchauffement planétaire que les observations scientifiques et humaines les plus diverses confirment, entraîne avec lui une foule de questions sur l'avenir de nos sociétés, bousculant le cadre de nos habitudes et de nos pensées, y compris ce qui passe aux yeux de tous pour immuable et indépassable. Système économique, approvisionnement énergétique, modes de production, moyens de transport, organisation collective, comportements sociaux et modes de vie individuels sont concernés.
La crise climatique confronte l'humanité et ses civilisations à un défi redoutable: comment allons-nous vivre désormais avec un climat qui se retourne contre les hommes?
Comment et dans quel sens allons-nous réagir, rapidement et radicalement si possible, sous peine, peut-être, de mettre en cause notre propre survie? La répétition et l'intensité des phénomènes climatiques extrêmes mènent une sarabande effrénée sur l'ensemble des continents et des océans. Plus on se rapproche des pays les plus peuplés et les plus démunis du Sud, plus ce chamboulement ressemble à une danse de mort.
Canicules et inondations se succèdent, tempêtes et sécheresses se combinent. L'alternance rapprochée de catastrophes dites naturelles provoque une spirale de déséquilibres. Le nombre de victimes silencieuses et anonymes s'accroît. Les dégâts sur l'écosystème planétaire s'intensifient. Ils entraînent un cortège d'épidémies résurgentes, d'immigrations forcées, de réfugiés sans issue, de désertification massive, d'appauvrissement des sols, d'épuisement des rendements, de pénurie d'eau, de destruction des forêts, d'extinction des espèces...
Réagissant à cette tragédie qui mine la modernité, Sir John Houghton, ancien président de l'Office britannique de météorologie, n'hésite pas à se référer à l'actualité la plus explosive, qualifiant d' "arme de destruction massive au moins aussi dangereuse que les armes chimiques, nucléaires ou biologiques" le réchauffement climatique. "Comme le terrorisme, cette arme ne connaît pas de frontières", a-t-il récemment dit au Guardian.
Sir John Houghton n'est pas le seul à s'inquiéter. La plupart des politiques désignent désormais le réchauffement climatique comme un des principaux ennemis de l'avenir. On se souvient du fameux "La maison est en feu" de Jacques Chirac au sommet de Johannesburg. Et la communauté internationale a pris à Kyoto, en 1997, une décision historique: celle de réduire l'émission des gaz à effet de serre. Pour la première fois, une logique de décroissance a été introduite - plus symboliquement qu'efficacement - au cœur du système productif, à contre-courant du dogme récurrent de la croissance permanente. La prise de conscience semble progresser, et chaque nouveau coup de boutoir climatique la renforce. Au niveau des discours et des postures surtout. Car, dans la prise de décision, force est de reconnaître, comme Nicolas Hulot citant Bossuet, qu' "on s'afflige des effets mais qu'on s'accommode des causes". Le temps politique n'est pas celui du temps écologique.
La communauté scientifique, quant à elle, s'interroge encore sur l'origine du phénomène. A quoi ou à qui doit-on le retournement climatique? A un de ces soubresauts naturels de la machine terrestre qui, à l'échelle de l'histoire géologique, ont déjà précipité des changements spectaculaires à coups de glaciations ou de réchauffements? Ou à l'espèce humaine et à ses activités? Les études tendent à montrer que la seconde hypothèse est la plus probable. Les rapports de la Commission intergouvernementale sur les changements climatiques (IPCC) de l'ONU, l'autorité la plus fiable en la matière, se font de plus en plus précis et accusateurs.
N'y a-t-il pas coïncidence troublante entre l'augmentation des émissions de gaz à effet de serre, la hausse des températures moyennes et le dérèglement actuel? Le pire est peut-être à venir si le réchauffement en cours s'emballe après avoir libéré les énormes quantités de gaz à effet de serre (carbone et méthane) piégées dans les océans ou les terres gelées du Nord (le permafrost). Après tout, il n'a fallu qu'une augmentation moyenne de 7 °C de la température pour que les dinosaures disparaissent corps et biens alors qu'ils régnaient sur la terre.
Aujourd'hui, l'IPCC évalue l'augmentation possible jusqu'à 6 °C. Le débat continue sur les causes mais, en tout cas, plus personne ne met en doute le phénomène de réchauffement et de dérèglement.
Et, quoi qu'on en pense, il va falloir maintenant vivre avec. C'est-à-dire avec les révisions que cela impose. La vie, qui est robuste et qui a fait la preuve depuis quelques milliards d'années de sa faculté de résistance, est sans doute capable de s'adapter. Même si, cette fois, le changement est infiniment plus rapide - quelques dizaines d'années - qu'il ne l'a jamais été par le passé - plusieurs milliers d'années. L'homme le pourra-t-il? La crise climatique l'invite à un douloureux effort de modestie. N'est-il pas, somme toute, qu'une des manifestations multiples de la vie? Un invité surprise parmi d'autres? Bien plus fragile que nombre d'autres espèces? Plutôt que d'entretenir l'illusion prométhéenne d'une capacité supérieure à dominer tout ce qu'il touche, plutôt que de croire que le progrès finira toujours par l'emporter et que de nouvelles technologies parviendront un jour à réinventer l'eau, l'air et la terre, ne doit-il pas chercher le chemin d'une histoire collective soucieuse d'équilibre, de durabilité, de maîtrise et de réconciliation avec son environnement?
C'est là qu'interviennent toutes les questions qui fâchent, mais qu'il va bien falloir poser. Elles sont multiformes et concernent tous les domaines, qu'elles renvoient aux grands choix stratégiques ou aux minuscules comportements individuels. Si, comme c'est probable, l'humanité est responsable du réchauffement climatique et si elle veut, dans l'intérêt de chacun de ses peuples, interrompre le bouleversement en cours ou, du moins, le ralentir, des ruptures décisives s'imposent.
Oui, il faut consommer moins, brûler moins d'énergie, se déplacer autrement, économiser les ressources, produire autrement, éviter le gaspillage... Oui, prévention, précaution, réparation, recyclage, décroissance et économies sont les clés de l'avenir. Se traduiront-elles en autant de politiques? Ce serait introduire l'idée de limite au cœur de l'activité humaine. A contrario du consensus de la pensée contemporaine autour de la fuite en avant et vers le toujours plus.
La visione fideistica della scienza e del progresso ci ha abituati a pensare che ogni problema abbia una soluzione. Ciò è vero quando si tratta di cambiare il frigorifero, lo è meno quando si entra in ospedale per un malanno, non lo è per nulla quando i problemi da risolvere sono quelli globali della crisi climatica ed energetica. Però, il fatto che questi ultimi non siano immediati induce a considerarliu alla stregua del frigorifero: qualcuno certamente troverà una soluzione, e chi mette sull’avviso che forse non è così scontato è bollato di catastrofismo.
In realtà da decenni circolano nella comunità scientifica analisi rigorose e credibili che avvertono come i cambiamenti climatici, l’esaurimento del petrolio e di altre risorse naturali, l’aumento della popolazione e delle disparità sociali siano altrettante bombe innescate pronte ad esplodere in rapida sequenza, amplificando i danni. Ma in genere si rimuove tutto rifugiandosi nel classico effetto Cassandra, dimenticando che la sfortunata aveva comunque ragione.
È questa la sorte che è toccata pure a un eccellente esercizio scientifico voluto da un grande manager italiano, Aurelio Peccei, animatore del Club di Roma, che nel 1972 pubblicò il rapporto I limiti dello sviluppo in collaborazione con il Mit di Boston.
Ancora oggi si vitupera questo studio come non veritiero. Chi parla, in genere non l’ha nemmeno letto. Oggi è in libreria per gli Oscar Mondadori l’edizione aggiornata I nuovi limiti dello sviluppo, quello che considero il manuale di istruzioni del pianeta Terra: ad oltre trent’anni di distanza i conti riveduti e corretti portano sempre al collasso della società se non si cambia rotta in tempo. Jared Diamond ha sviluppato il tema su base storica in Collasso (Einaudi), mostrando come è piuttosto comune che nel passato alcune civiltà abbiano ignorato i segni di cambiamento e si siano estinte. Oggi viviamo in un villaggio globale e uno scacco coinvolgerebbe tutti.
Sui cambiamenti del clima basta concedere un po’ di attenzione ai rapporti dell’Ipcc, che è un’Agenzia delle Nazioni Unite, non un covo di no-global; sulla crisi del petrolio basta guardarsi il film svizzero A crude awakening (oilcrashmovie. com) o visitare il sito di Aspo, l’associazione per lo studio del picco del petrolio (peakoil. net) che ha pure una sezione italiana. E se non basta, quale fonte più autorevole dell’Unione Europea? La sua agenzia ambientale (Eea), con sede a Copenhagen, ha elaborato il progetto Prelude, scenari per l’Europa del 2030 (eea europa.eu/prelude). Per capire che il collasso non è escluso, bastano alcuni titoli: Big Crisis, Great Escape… Insomma, un problema lo si inizia a risolvere considerandolo. Lo si studia, lo si affronta e ci si prepara psicologicamente.
Io e mia moglie lo stiamo facendo da anni, con soddisfazione economica, profonda motivazione e perfino divertimento. Abbiamo il tetto ricoperto di pannelli solari, abbiamo sostituito un anonimo prato all’inglese con un fiorentissimo orto, abbiamo applicato l’isolamento termico al solaio e installato vetri doppi e stufa a legna, conserviamo l’acqua piovana, evitiamo i centri commerciali e riduciamo i nostri acquisti inutili, facciamo una raccolta differenziata spinta, intessiamo con il vicinato rapporti di cooperazione invece che di competizione, conserviamo saperi antichi amalgamandoli con tecnologie moderne. La nostra Utopia è già realtà, non serve essere né eremiti né invasati, basta essere realisti, attenti ad un mondo che cambia rapidamente e che domani sarà molto diverso rispetto a quanto vogliono farci credere gli spot pubblicitari.
Se non vogliamo che il medioevo di Utopia prenda brutalmente il sopravvento, dobbiamo prima di tutto fare un esercizio psicologico per uscire dal circolo vizioso tipo "la tecnologia ci salverà", provare a mettere in dubbio qualche certezza, e riacquistare il contatto con il mondo fisico e i suoi limiti. Non viviamo in un videogioco, ma su un pianeta fatto di aria, acqua, rocce, foreste, batteri, petrolio e carbone, il tutto regolato da leggi fisiche ferree. Vinceranno quelle se non sapremo dare una svolta all’uso delle risorse. Il tragico destino di Utopia non si realizzerà solo se noi metteremo in pratica ogni giorno un pezzetto dei suoi addestramenti.
Del resto, tra gli scenari di Prelude, c’è pure "Evolved Society", un mondo dove non esisterà più il minaccioso e rombante Suv, ma disporremo tutti di una sobria abitazione a energia rinnovabile e di un computer in rete con il quale condividere conoscenza e promuovere la convivialità. Non è un’utopia sognare un mondo migliore.