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Il bacino amazzonico cattura tra i 12mila e i 16mila km cubici di acqua l'anno, di cui solo il 40% scorre lungo i fiumi. Il resto viene restituito all'atmosfera mediante evapotraspirazione delle foreste, e si distribuisce a tutta l'America del Sud. La deforestazione riduce l'umidità che, trasportata dai venti, contribuisce all'equilibrio idrico di vaste aree del continente, oltre ad accentuare l'erosione e il drenaggio superficiale, che sottrae acqua non solo all'irrigazione naturale dell'Amazzonia, ma anche ai terreni agricoli più lontani.

Nel 2026, una Amazzonia «ultima riserva mondiale di cereali», attraversata da nuove strade e megaprogetti per l'energia e l'integrazione regionale, attirerà investimenti per miliardi di dollari, ma con una riduzione delle foreste e dell'acqua pulita, provocando un grave degrado ambientale accentuato dal cambiamento climatico.

È questo lo scenario di «Sull'orlo del baratro», il rapporto di Geo Amazonia elaborato negli ultimi due anni con il contributo di 150 scienziati di otto paesi della regione amazzonica, coordinati dal Centro de Investigación de la Universidad del Pacífico, con sede a Lima, Perù.

Lo studio «Prospettive ambientali in Amazzonia», patrocinato dal Programma delle Nazioni unite per l'ambiente (Unep) e l'Organizzazione del Trattato di cooperazione amazzonica (Acto), e diffuso la scorsa settimana, delinea quattro possibili scenari futuri, secondo diverse variabili. Il più ottimistico, «Amazzonia emergente», prevede per il 2026 una migliore gestione ambientale e controllo delle attività produttive, in base al principio «chi inquina paga», ma ancora con un ritardo nelle tecnologie ad efficienza energetica e nello sfruttamento efficace della biodiversità. Secondo un altro scenario, «Luci ed ombre», la regione starà ancora cercando percorsi di sviluppo sostenibile, con uno specifico accento su scienza, tecnologia e innovazione, e tentando di frenare le attività produttive più dannose. «L'inferno è verde», prospetta un futuro più drammatico, con una «perdita irreversibile della ricchezza naturale e culturale», più povertà e maggiori disuguaglianze.

La metodologia Geo (Global environment outlook) elaborata dall'Unep, è interessante perché offre una visione d'insieme e descrive «possibili situazioni condizionate da diversi fattori e incertezze» per orientare le decisioni, ha commentato Marcos Ximenes, direttore dell'Istituto di ricerca ambientale dell'Amazzonia (Ipam), che ha contribuito alla stesura del rapporto.

La grande sfida è che poi tutte queste informazioni e conoscenze devono essere «prese seriamente dai responsabili delle decisioni», ha detto Ximenes, ricordando la sua esperienza con altri rapporti Geo che alla fine non hanno portato a nessun risultato concreto. Ad ogni modo, questo processo di conoscenze deve diventare permanente, con maggiori risorse e più promozione. Questo primo rapporto è stato elaborato con pochi fondi e contributi volontari, ha lamentato. I dati e le analisi di Geo Amazonia non sono nuovi né attuali o completi, ma il fatto di averli raccolti in modo sistematico è una novità, anche perché includono l'intera regione e non solo le componenti nazionali, ha commentato Adalberto Veríssimo, dell'Istituto per l'uomo e l'ambiente dell'Amazzonia (Imazon). Per la prima volta, sono stati presentati i dati sul disboscamento dell'intero bacino amazzonico, anche se «sicuramente sottovalutati», poiché i vari paesi, eccetto il Brasile, non hanno ancora sviluppato sistemi di misurazione adeguati, ha spiegato.

L'area disboscata totale, secondo il rapporto, era di 857.666 km quadrati nel 2005, equivalente al 17% dell'intera regione amazzonica. L'espansione della deforestazione ha raggiunto la media annuale di 27.218 chilometri quadrati tra il 2000 e il 2005. La deforestazione riguarda già il 18% dell'Amazzonia, di cui un 15% in Brasile, ha stimato Veríssimo, responsabile del monitoraggio del fenomeno nella parte brasiliana. Secondo l'esperto, sarebbe «ottimistico» il bilancio sulle minacce alla biodiversità - che stima 26 specie già estinte; 644 «ad alto rischio» e 3.827 «in pericolo» e «vulnerabili» - poiché basato su informazioni di diversi anni fa. Geo Amazonia avrebbe però un ruolo positivo, in quanto stimolerebbe i paesi a migliorare le capacità di ricerca e di monitoraggio, orientando studi e stabilendo priorità, ammette lo studioso.

È fondamentale l'aggiornamento costante. Il rapporto, per esempio, non riporta la riduzione della deforestazione in Brasile dello scorso anno, che ha smentito una correlazione fino a oggi comune, secondo cui l'aumento dei prezzi agricoli nel mondo comportava un aumento della deforestazione per fare spazio a nuove colture, ha osservato Paulo Barreto, di Imazon. Di fatto, la deforestazione in Brasile continua a ridursi da prima della crisi economica mondiale, quando erano ancora molto alti i prezzi della soia e della carne di manzo - fattori tradizionalmente legati all'espansione dell'attività agricola e dell'allevamento in Amazzonia, ha spiegato.

Lo scenario che emerge dal rapporto non lascia molto spazio all'ottimismo. L'allevamento, attività maggiormente responsabile della deforestazione, è passato da 34,7 milioni di capi di bestiame nel 1994 a 73,7 milioni nel 2006 nell'Amazzonia brasiliana, e si espande a un ritmo accelerato nelle aree amazzoniche di Bolivia e Colombia. Anche la soia, l'estrazione del legno e mineraria, i grandi progetti idroelettrici brasiliani e altri portati avanti dalla Iniziativa per l'integrazione dell'infrastruttura regionale sudamericana (Iirsa), considerati prioritari per il governo brasiliano, esercitano pressioni economiche sulle foreste e la biodiversità amazzoniche.

La pressione demografica è evidente in una popolazione che cresce più rapidamente della media nazionale. I poco più di cinque milioni di abitanti del 1970 si sono moltiplicati per sei, raggiungendo i 33,5 milioni nel 2007, cioè l'11% del totale della popolazione degli otto paesi amazzonici. Diviso in sette capitoli, il rapporto Geo Amazonia copre dagli aspetti territoriali alla situazione attuale e agli scenari futuri.

Dalle conclusioni emerge un crescente degrado dell'ecosistema e la necessità di una maggiore partecipazione delle comunità locali nella discussione per definire «linee d'azione», come costruire una visione integrale, armonizzare politiche pubbliche, delineare strategie comuni e promuovere la valorizzazione economica dei servizi ambientali.

(traduzione francesca buffo)

Dalla crisi globale alla crisi ambientale, alla crisi di civiltà. L'Amazzonia come esempio vivo e scottante del livello raggiunto dalla distruzione dell'ambiente. E' stata questa la questione centrale di oggi all'ottavo Forum sociale mondiale. In diversi tavoli di lavoro si è andati elaborando una diagnosi: l'Amazzonia è lo scenario di una doppia domanda. La prima coinvolge movimenti ambientalisti di tutto il mondo che lottano per la preservazione della foresta, con i governi della regione che rivendicano la loro sovranità. La seconda mette di fronte i popoli indigeni e i contadini che vivono nel territorio, e giganteschi progetti stradali e energetici promossi da quegli stessi governi. Dietro queste questioni si trovano sia le differenze e contraddizioni esistenti tra movimenti popolati e governi progressisti dell'America latina, sia la disputa per un altro modello di sviluppo o di civiltà.

L'Amazzonia è una metafora dei dilemma che attraversano la sinistra, dilemmi grandi quanto la stessa regione. L?America latina è cresciuta negli ultimi anni esportando materie prime. I governi progressisti hanno intercettato risorse straordinarie per i loro programmi favorendo lo sfruttamento petrolifero, minerario e forestale, dando anche facilitazioni alla produzione estensiva di soia, Ma l'espansione di queste attività ha provocato forti conflitti con comunità indigene e contadini.

Il Rio delle Amazzoni è il fiume più lungo e ricco del pianeta. Insieme con il Canada è la maggiore riserva di acqua dolce del pianeta. Nasce sulle Ande del sud del Perù e sbocca nell'oceano Atlantico. Ha più di mille fiumi tributari di una certa importanza. Attorno al fiume cresce la maggiore selva tropicale del pianeta, estesa su 5,5 milioni di chilometri quadrati in Brasile [60 per cento], Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Surinam, Venezuela e Guyana francese. La ricchezza della sua biodiversità è complessa ed esplosiva, ma il suo equilibrio è molto fragile: in parte della foresta lo strato di humus non oltrepassa i 30 o o40 centimetri.

La pressione privata su questa terra e queste risorse naturali è enorme. Si cerca di costruire grandi dighe idroelettriche, espandere l'estrazione mineraria e l'agro-business, seminare soia e ingrassare bovini. Secondo il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell'Amazzonia brasiliana [Coiab], «l'Amazzonia ha perduto negli ultimi trent'anni 80 milioni di ettari di foresta a causa di attività di sviluppo non durevole». Il rischio che la foresta si trasformi in una savana, in modo irreversibile, è reale.

L'umanità intera deve essere preoccupata per l'Amazzonia, dice il teologo Leonardo Boff, secondo il quale «il Forum mondiale deve fare pressione sul governo brasiliano perché elabori una politica chiara, esplicita e oggettiva per conservarla. Non lo ha fatto. Ci sono politiche occasionali per risolvere conflitti sulla terra e impedire lo smantellamento di alcune zone, ma non molto di più». Secondo Boff, l'Amazzonia è il banco di prova del nuovo paradigma di civiltà che occorre costruire, basato su una diminuzione dei livelli di consumo. Bisogna ridurre, riciclare e riutilizzare, dice.

Le voci che nel Forum mettono in guardia sul pericolo che incombe sull'Amazzonia sono molteplici e diverse. Tra molte altre, si trovano quelle dei contadini del Movimento Sem Terra del Brasile, di ambientalisti e di scienziati. Ci sono, anche, gli attivisti vegetariani, che insistono sul fatto che dietro ogni hamburger che mangiamo c'è un albero in meno. «Consumando carne, voi state finanziando la devastazione dell'Amazzonia. Non siate complici di questo crimine. Diventate vegetariani», dice la loro propaganda. Che offre come dimostrazione il fatto che, tra il 1990 e il 2006, la quantità di capi di bestiame allevati in questa regione sia aumentata del 180 per cento, da 26 milioni di animali a 73 milioni.

Lungo il Rio delle Amazzoni vivono 135 popoli originari, Rappresentanti di molti di essi si trovano al Forum, e hanno dedicato una parte molto grande dei loro sforzi a mettere in guardia circa i pericoli di pendono sui loro habitat. Vestiti con i loro tipici abbigliamenti e con il corpo dipinto di rosso e di nero hanno invocato lo spirito degli antenati per salvare la foresta. «Veniamo ad alzare la voce dei popoli indigeni che non vogliono che le loro terre e le loro acque siano trasformate in merci da vendere», ha detto la aymara Viviana Lima. Il fatto è che, come ha detto Jorge Nancucheo, rappresentante del Coordinamento andino delle organizzazioni indigene, «soffriamo dell'avanzata delle multinazionali che arrivano e calpestano i nostri territori, saccheggiando la nostra acqua, i nostri boschi, le nostre risorse naturali. Prima avevamo una economia in cui non esisteva la fame, nella quale i nostri bambini non morivano. Oggi noi indigeni siamo i più poveri dei poveri. Questo modello è in crisi, ma non è morto».

L'avanzata della modernità selvaggia sulla foresta minaccia anche le terre di indigeni, contadini, estrattori di caucciù e pescatori. La situazione è così grave che il governo di Lula ha dovuto ingoiare il boccone amaro delle dimissioni di Marina Silva, ministra dell'ambiente e riconosciuta ambientalista, stanca di dover affrontare praticamente da sola i voraci interessi delle grandi compagnie. «Il governo di Lula – dicono i Sem Terra – ha appoggiato l'avanzata di questo modello predatorio in Amazzonia». Come esempio di questo c'è la denuncia fatta da analisti sociali, rappresentanti dei popoli inadatrdigeni e attivisti rurali contro l'impresa multinazionale Vale do Rio Doce, colpevole della devastazione della foresta amazzonica. In origine era una compagnia statale, ma Henrique Cardoso [precedente presidente brasiliano, ndt.] la privatizzò nel 1997. E' l'impresa mineraria più grande dell'America latina e la seconda nel mondo. Il cuore delle sue operazioni è un vasto territorio nell'Amazzonia centrale conosciuto come Carajàs.

Se il pianeta ha la febbre a Cancun non è stata curata, anzi. Nulla di vincolante è stato deciso nell'accordo uscito all'alba di ieri, nonostante l'enfasi data dai governi riuniti e dalla stampa al testo conclusivo emerso dalle due settimane di lavori.

Cancun conferma sostanzialmente il consolidamento della logica emersa a Copenaghen, ampliando i meccanismi attraverso cui la gestione della crisi ambientale e climatica passa attraverso la finanziarizzazione e nuove speculazioni economiche. Il fondo verde, i mercati di carbonio e il meccanismo dei Redd+ non sono altro che false soluzioni che istituiscono una sorta di “diritto di inquinare”, in base al quale i paesi industrializzati continuano con le emissioni pagando “indulgenze” compensative che si risolvono nell'ennesimo ricatto verso i paesi del sud del mondo.

Che la logica di Copenaghen sia stata trasferita a Cancun è dimostrato anche dal ruolo centrale affidato qui in Messico alla Banca Mondiale, che paradossalmente, dopo esser stata tra i colpevoli della crisi economica ed ecologica, gestirà per i primi tre anni il Green Fund.

Ben lontani da incorporare nel proprio linguaggio espressioni come 'debito ecologico' , su cui invece i movimenti per la giustizia ambientale di tutto il mondo insistono, nei documenti si continua a puntare sull'urgenza del trasferimento tecnologico, ribadendo il ruolo centrale del settore privato e dei meccanismi finanziari.

Una “soluzione” palliativa che non risolve le cause principali, che facilita solo la creazione di nuovi mercati per le aziende già pronte a investimenti internazionali su larga scala e al mercato di nuove tecnologie definite 'appropriate per l'ambiente'. Tutto senza focalizzare l'impatto socio-economico, senza trattare degli effetti sulle popolazioni direttamente colpite e costrette alle migrazioni - che pure interesseranno anche i paesi più sviluppati, messi di fronte alla sfida posta dai nuovi e massicci flussi in entrata.

Dopo 5 anni di conferenza delle Parti nulla è stato risolto, anzi. Mentre a Cochabamba in soli tre giorni lo scorso aprile 40.000 delegati di 142 paesi e 40 rappresentanti di altrettanti governi avevano raggiunto un accordo che individuava le cause della crisi sistemica proponendo misure concrete per far fronte alla crisi climatica. Proposte che dopo essere state incluse nelle negoziazioni preliminari, sono rimaste lettera morta a Cancun, decisione che ha causato il no della Bolivia all'accordo finale.

La crisi ecologica non è fatta solo di cambiamenti climatici. È anche disastri ambientali, nuovi e massicci flussi migratori, distruzione di economie locali, violazione del diritto al cibo e alla salute e la distruzione di milioni di vite umane. Di fronte a questa consapevolezza nessun adattamento è possibile.

Parlare di giustizia climatica significa oggi in realtà parlare di relazioni di potere, di sistemi economici, processi produttivi e modelli di consumo. Per questo siamo più che mai convinti che per affrontare il maniera concreta la crisi sistemica (economica, ecologica, finanziaria, energetica, alimentare e migratoria ) occorra rimettere al centro la giustizia sociale ed ambientale.

È questa la scommessa concreta ed urgente che i movimenti e la società civile di tutto il mondo hanno iniziato ad assumere per unire sempre di più le lotte e le alternative in marcia dal nord ad sud del mondo, dalle fabbriche alle campagne, dalle città ai territori con un unico obiettivo comune: cambiare il sistema, non il clima.

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Con la decisione dell'Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione che ha completato il controllo per così dire di "legalità ordinaria" dei quesiti referendari sull'acqua bene comune si è compiuto un altro piccolo ma significativo passo avanti istituzionale nella direzione giusta. Non era tanto il controllo formale di validità di almeno mezzo milione di firme a preoccupare, visto che il Forum ne aveva consegnate e certificate quasi il triplo.

Preoccupava invece una possibile confusione fra il limpido e charissimo disegno tecnico-giuridico contenuto nei nostri tre quesiti e l'ambigua formulazione del quesito referendario presentato dall' Italia dei Valori. Confusione che si era temuta, vista la proposta dell'Ufficio centrale per il referendum di accorpare il nostro secondo quesito volto ad abrogare i modelli privatistici formali di gestione (Spa indipendentemente dalla natura pubblica o privata dell'azionariato) con quello dipietrista, che invece fa salva la gestione inhouse formalmente privatistica. L'accorpamento non c'è stato e quindi la Corte Costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi entro il 15 febbraio sulla "legalità costituzionale" della nostra operazione complessiva.

Naturalmente, il controllo di legalità ordinaria non è limitato alla validità delle firme ma si estende al controllo circa la vigenza formale delle leggi sottoposte a referendum, cosa non del tutto banale in un quadro normativo complesso come quello attualmente vigente, in cui si sono susseguiti negli anni molti interventi legislativi tanto contingenti quanto capaci di far scivolare il referendum su una buccia di banana. Per noi redattori dei quesiti, quindi, c'è la soddisfazione di essere riusciti a ricostruire in poco tempo un edificio referendario congruente con i criteri di legalità formale richiesti (il referendum nel nostro ordinamento è solo abrogativo) ma tuttavia capace di proporre un quadro radicalmente innovativo, che ieri la Cassazione ha riconosciuto coerente al suo interno.

Se tutto il nostro impianto riuscirà a passare indenne anche il vaglio della Corte Costituzionale, in giugno gli elettori avranno di fronte una scelta di grande chiarezza e radicalità: continuare nel processo di progressiva "recinzione" del bene comune acqua o finalmente invertire la rotta?

È evidente che questa domanda, che abbiamo posto sul piano tecnico in modo assolutamente prioritario per l'acqua, coinvolge sul piano politico l' intero sistema dei beni comuni, toccando una quantità di interessi di grande delicatezza e valore. Non sorprende quindi affatto che la copertura mediatica continui ad essere quasi completamente assente in modo ormai imbarazzante dal punto di vista democratico.

C'è da augurarsi che le cose cambieranno se la Corte Costituzionale nel proprio giudizio di costituzionalità del nostro impianto sarà a a sua volta disposta a riconoscerne la piena coerenza con la Costituzione. Nel farlo essa avrebbe certo la prerogativa costituzionale di spingersi, con sentenza manipolativa, a dichiarare incostituzionale la Legge Ronchi qualora la data certa dei suoi effetti (a oggi il 31-12-2011) non venisse a sua volta procrastinata di un anno nell'ipotesi in cui il Parlamento dovesse essere sciolto, con conseguente rinvio del referendum ad una data del 2012 (successiva quindi agli effetti "saccheggiatorii" della legge che si vuole abrogare).

Questa sarebbe una bella ed innovativa giurisprudenza costituzionale, che darebbe prestigio alla Corte rendendola garante del rispetto della volontà del popolo sovrano che deve esprimersi in modo rilevante (e non dopo che il bottino è stato sottratto) su una questione troppo importante per passare sotto silenzio.

Siamo ad un passo dall’Eldorado. In barba ai profeti di sventura, ai “quaresimalisti dell’Apocalisse”, come Dario Paccino tanti anni fa apostrofava gli ecologisti imbroglioni, ancora una volta sarà la tecnologia ( green) a salvarci. Magari non tutti lo raggiungeranno in tempo. Qualche decina di milioni di “profughi ambientali” si perderanno per strada, risucchiati dalla “lenta” catastrofe climatica: desertificazione, salinizzazione, erosione e perdita di fertilità dei suoli agricoli. (Non dimentichiamoci che un terzo della popolazione della Terra vive ancora del proprio lavoro contadino). Altri (un altro terzo della popolazione vive inurbata negli inferni degli slum delle megalopoli) non potranno usufruire delle costose opere di mitigazione degli effetti e di adattamento al caos climatico: desalinizzazione dell’acqua del mare, combustibili alternativi, aria condizionata, barriere di difesa contro l’eustatismo, ecc. ecc. Ma per chi ha le risorse economiche sufficienti la meta è a portata di mano. Nei pacchetti anticongiunturali di “stimolo” dell’economia varati da tutti i governi del mondo (a partire da Cina, Usa, Germania, Francia, nell’ordine di grandezza degli impegni) spiccano i programmi di Clean Energy, Low Carbon, Eco-tech, ecc. Una New Deal verde, tanti piani Marshall ambientalisti, una nuova “grande transizione”.

Danimarca e Germania hanno già varato piani energetici che prevedono la decarbonizzazione (fossil free) delle loro economie in quarant’anni. Giusto in tempo per fronteggiare l’esaurimento del petrolio (previsto per metà secolo). Il miracolo si chiama efficienza (la riduzione dei flussi di energia e di materie prime impegnate nei cicli produttivi e di consumo) e fonti alternative: eolico, fotovoltaico, biomasse. Chi avrà in mano queste tecnologie non solo salverà sé stesso dalla crisi di approvvigionamento dovuta dalla progressiva, inevitabile rarefazione delle materie prime, senza risentirne, ma anzi potrà vendere brevetti, licenze, macchinari ai competitor più arretrati. Insomma, i più lungimiranti, chi ha più soldi da metterci ora, potrà ricavarne più domani. Il giro di affari della green economy ha raggiunto i 530 miliardi di dollari (il Pil della Svizzera), ci informava il Sole 24 ore. C’è già chi è pronto a giurare che la prossima “bolla speculativa” riguarderà proprio il comparto specializzato dei fondi di investimento “verdi”: acqua, biocarburanti, energie rinnovabili in genere. L’imposizione di standard ambientali (di emissione, di riciclabilità, ecc.) sempre più stringenti creeranno il mercato necessario per piazzare i nuovi prodotti “ecocompatibili”. Sembra una partita win-win: ci guadagna l’ambiente, ci guadagna anche il capitale investito. Così anche l’ultimo negazionista del climate change si è pentito. Nuclei di resistenza sono rimasti solo nel Ministero dell’Ambiente italiano e nelle miniere di carbone in Polonia. Chissà perché?

Vediamo la questione più da vicino con l’aiuto di Antonio Cianciullo e Gianni Silvestrini (La corsa della Green Economy. Come la rivoluzione verde sta cambiando il mondo, Edizioni Ambiente 2010). Non si tratta solo di recuperare e introdurre pratiche virtuose di lotta agli sprechi, autoproduzione decentrata di energia elettrica, riciclo di materiali, ecc. La novità sono i grandi impianti solari nelle aree desertiche sahariane: il progetto del consorzio Desertec capeggiato da imprese tedesche e quello Transgreen capeggiato da imprese francesi per l’installazione di impianti solari a concentrazione con annessa rete “super grid” per rifornire il 15% del fabbisogno elettrico di tutta l’Europa entro il 2050. Per di più tali impianti possono contemporaneamente anche desalinizzare l’acqua del mare, pronta per imbottigliarla e venderla agli Emirati. Vista dal satellite la superficie necessaria per soddisfare con tecnologie solari la domanda elettrica mondiale (un quadrato di 300 Km di lato) appare poca cosa rispetto alla superficie totale dei deserti del pianeta. Fattibile. Stesso scenario per il grande eolico offshore: è stato calcolato che tra vent’anni potrebbe soddisfare il 30% della richiesta elettrica europea. Aggiungiamoci le alghe appositamente coltivate negli oceani per farne biocarburanti e risolveremo anche il problema di cosa mettere nelle automobili (a basso consumo, ibride e a car sharing, si intende) senza sottrarre terra all’agricoltura.Il trionfo della tecnologia verde ci farà uscire dalla crisi economica e ambientale in un colpo solo. Sarà vero?

Ci sono dati di fatto e teorie comprovate che contraddicono l’ottimismo messo in scena dai fautori della industria verde. Il “consumo di natura” procapite, di materiale netto (minerali, combustibili, biomasse, ecc.), (vedi le tabelle Physical imput-output dell’Istat, segnalate da Giorgio Nebbia) continua ad aumentare anche nella “matura” Europa, nonostante diminuisca l’incidenza del costo dei materiali sul Pil. Evidentemente aumenta l’efficienza dei processi di trasformazione, ma ciò fa aumentare – non diminuire - i loro consumi. Si chiama effetto Jevons, dal nome dell’economista che a metà Ottocento non si capacitava del fatto che le nuove caldaie a vapore pur aumentando la resa energetica non facessero diminuisse l’uso del carbone. Se una famiglia risparmia nella bolletta della luce (ad esempio, installandosi un pannello solare) non è affatto detto che sia intenzionata a ridurre i consumi: anzi è più probabile che aumenti la dotazione e l’uso di elettrodomestici vari. Si chiama anche “trappola tecnologica”: l’efficienza energetica e produttiva può accrescere a livello micro, mentre l’aumento del volume complessivo delle merci prodotte fa diminuire l’efficienza macro-economica.

Anche i consumi mondiali delle commodities (riso brillato, mais, zucchero, cotone, semi di soia, rame …) e dei materiali riciclabili (ferro, carta, legno…) sono in enorme aumento, nonostante la crisi. Per non parlare dei consumi di petrolio che continuano ad aumentare ad un ritmo dell’1,2% all’anno: un vero “incubo energetico”, verso l’ Oil Crunch, il raggiungimento del picco della capacità produttiva ipotizzata a 87 milioni di barili all’anno nel 2012. Poi, incomincerà una discesa precipitosa.

Nonostante le molte chiacchiere, non siamo ancora entrati nell’era dell’economia post-materialista, della società dei servizi e al plusvalore “evoluto” estratto solo dalla produzione dei beni cognitivi. I supporti fisici dell’economia sono ancora decisivi. Anche per la auspicata (vedi gli interventi di Guido Viale) riconversione ambientale industriale. Pensiamo solo al silicio (necessario per i pannelli solari), al litio (per le batterie elettriche, il cui valore è passato in pochi anni da 350 a 3.000 dollari la tonnellata), ai minerali e alle “terre rare” (tantalio, tungstenio, ecc.) necessari per microprocessori, telefonini e per tutte le nanotecnologie. Ha ricordato il commissario Ue al Commercio, il belga Karel De Guch (il Sole 24 ore del 19 novembre 2010), che le difficoltà delle imprese europee nell’approvvigionamento di materie prime si stanno facendo sempre più acute: “le carenze rappresentano un rischio sistemico per l’economia”. tanto che: “la Ue ha delineato la possibilità di prevedere ritorsioni economiche (toh!) contro paesi che ostacolano le esportazioni di materie prime”.

Ho l’impressione che se la green economy seguirà le regole dettate dal market sistem poche speranze ci saranno di sfuggire alla catastrofe climatica. Né il mercato, né le tecnologie ci salveranno. La riduzione dell’80% delle emissioni di CO2 nei prossimi 40 anni, il rientro dentro la soglia delle 350 parti per milione di CO2 in atmosfera, il contenimento dell’aumento della temperatura in un grado centigrado a fine secolo… sono tutti obiettivi che non si raggiungono se non mettendo mano al “profilo metabolico” delle nostre società (come dice Juan Martinez Alier) tendo conto della doppia insostenibilità della situazione attuale: verso la natura (limiti delle risorse disponibili) e verso i nostri simili poveri (distribuzione ineguale, ingiusta e disumana delle limitate risorse disponibili). Il sociologo Giorgio Osti, che in passato è stato pure molto critico con i sostenitori della decrescita, ha scritto: “Temo che il potenziamento dell’industria verde, se non intacca il tabù della moltiplicazione delle merci, possa fare ben poco. Il problema consiste nel produrre meno in assoluto e produrre merci che abbiano un valore d’uso” (in Valori).

La green economy, quindi, si presta a coltivare la grande illusione di poter continuare a produrre e consumare come e più di prima, senza fare i conti con il carico di illegittima appropriazione e distruzione di risorse comuni all’intera umanità (presente e a venire) che ciò comporta.

La lavatrice che si programma al mattino e parte appena trova disponibile elettricità verde al miglior prezzo. Il palazzo-robot che ascolta i bisogni dei suoi inquilini e offre l´energia just in time eliminando gli sprechi. La macchina con la spina, che scivola via senza rumore e senza emissioni. La discarica che mangia il metano, abbattendo i gas serra. Il mini pannello solare che basta a tenere acceso un frigorifero e una lampadina nei villaggi più sperduti. Non è la lista dei desideri degli ecologisti, è l´offerta del mercato. E se alla conferenza sul clima di Cancun la politica arranca, l´economia galoppa.

È stata la pressione delle eco industrie a cambiare le previsioni lasciando, ancora una volta, il timone in mano a Pechino: Cina, India, Giappone e Corea del Sud nel 2020 rappresenteranno il 40 per cento degli investimenti in energia pulita, davanti ad America e Europa. In ballo ci sono, secondo le previsioni del "Pew Charitable Trusts", 2.300 miliardi di dollari in dieci anni: tanto vale il mercato dell´energia pulita, un mercato che è stato già ipotecato da chi ha scommesso al momento giusto, quando gli altri esitavano. L´Italia tra il 2010 e il 2020 avrà a disposizione un business potenziale da 90 miliardi di dollari, ma per afferrare questa possibilità dovrà accelerare il passo.

«Le grandi industrie si sono presentate a Cancun con determinazione e visione di lungo periodo», racconta Monica Frassoni, presidente dei Verdi europei. «Qua e là ci potrà essere del greenwashing (aziende che si spacciano falsamente per eco-compatibili, ndr), ma nel complesso hanno scelto la strada dell´efficienza per un´ottima ragione: risparmiano. Ad esempio la 1E, una piccola impresa inglese di informatica, ha messo a punto un software che consente di programmare gli impianti elettronici delle grandi aziende: è riuscita a tagliare di 5 milioni di euro le bollette della Dell semplicemente ottimizzando la gestione dei computer. E la Whirpool si è presentata a Cancun con elettrodomestici che partono automaticamente nelle ore in cui il costo dell´elettricità è più basso».

Una parte dei 20 milioni di posti di lavoro green previsti dal Global Climate Network entro il 2020 nelle 9 maggiori economie del mondo verrà dai rifiuti e dalle biomasse. E anche l´Italia ha carte da giocare nel campo dell´innovazione e dei progetti. Per diminuire i danni da metano, un gas responsabile di quasi un quinto del riscaldamento globale, è stato brevettato il GeCO2, la macchina mangia metano prodotta da un testimonial di Greenpeace, Francesco Galanzino, il maratoneta che ha vinto la gara dei 4 deserti in un anno: elimina completamente le emissioni di questo gas che vengono dalle discariche.

E per recuperare i 7,5 milioni di tonnellate annue di biomassa disponibile si potrebbe, secondo i calcoli di Riccardo Valentini, docente di scienze forestali all´università della Tuscia, realizzare una rete di impianti capace di creare 40 mila posti di lavoro. Sono piccole centrali che utilizzano residui di lavorazione agricola, potature e scarti del ciclo agro-industriale prodotti nel raggio di poche decine di chilometri.

Loro sulla luna, noi sulla Terra. La sensazione che si ha qui a Cancun è esattamente questa, parlando con i delegati delle organizzazioni sociali, contadine e indigene che da tutto il mondo sono accorse con l’obiettivo di fermare la febbre del pianeta. La separatezza tra i governi, che alloggiano al «Moon Palace » ed i movimenti e la società civile è sempre più netta. Con il passare delle ore aumenta la convinzione dell’ennesima occasione sprecata.

Dal Moon Palace nessuna proposta convincente. Invece di affrontare le responsabilità ed individuare le soluzioni per smetterla una volta per tutte con le politiche energivore, inquinanti ed insostenibili, la governance globale appare interessata unicamente a capire come monetarizzare a proprio vantaggio la crisi ecologica. Stando così le cose, a fine secolo la temperatura della terra sarà oltre 5 gradi superiore a quella attuale.

Il 3 dicembre qui a Cancun si è realizzata una mobilitazione per denunciare il ruolo della Banca Mondiale, che con la propria politica dei prestiti in questi ultimi venti anni ha causato molti dei disastri ambientali. «Giubileo Sud», una delle reti globali impegnate da anni sulle questioni del debito dei Paesi poveri, ha promosso questa prima mobilitazione pubblica chiedendo che la BM esca dagli accordi sul clima.

Associazione A Sud

Oggi torna in piazza il movimento per l'acqua, bene comune. Vi sono iniziative in ogni regione, ciascuna convocata da un particolare comitato che le lotte hanno fatto emergere. Ogni comitato è cresciuto con un problema specifico da risolvere - una fonte inaridita o sottratta, un imbroglio, un sopruso - e per questo è sostenuto da un consenso esplicito e di massa; ma, in Italia, una rete unisce le diverse esperienze - l'unione che fa la forza - dall'esigenza di resistere all'attacco delle multinazionali e dei poteri forti, decisi a loro volta a impadronirsi dell'oro blu, in vista del formidabile affare in arrivo: la scarsità idrica nei prossimi anni e decenni. Come primo atto, il movimento chiede oggi di sospendere ogni decisione che possa provocare un ulteriore slittamento verso la privatizzazione, sulla scorta del «decreto Ronchi», finché almeno la volontà della popolazione non si sia potuta esprimere nei referendum.

Non si tratta solo di una lezione di democrazia applicata alla vita di tutti, tutti i giorni; vi è anche un suggerimento, quello di guardare oltre, verso la Terra che ci circonda e ci sostiene. Il movimento dell'acqua, pratico e legato ai fatti, è profondamente ambientalista, anzi è il maggior contributo italiano alla sopravvivenza del pianeta, l'unico che ci caratterizzi. La corsa mondiale alla privatizzazione dell'acqua può subire proprio qui, proprio da noi, una sconfitta decisiva. Dal movimento italiano può nascere un blocco per tutte le multinazionali del globo.

In questi giorni è in corso il vertice di Cancun, in Messico; anzi, senza che nessuno se ne sia accorto, esso è già arrivato a metà del suo percorso. Doveva servire a rimediare ai guasti e agli stupidi egoismi di Copenhagen, proprio un anno fa, ma se mai ha peggiorato la deludente situazione di allora.

Un anno inutile è passato, rendendo ancora più acuto il pessimismo di chi rifletta sul futuro, sulla Terra che lasceremo ai nostri incolpevoli nipoti. C'è dunque chi pensa che sarebbe opportuno lasciar perdere questa strategia dei vertici mondiali onnicomprensivi che si susseguono, con formidabili sprechi in viaggi e riunioni preparatorie, senza mai raggiungere risultati di sorta, ma alimentando sospetti e sfiducia, dimostrando anzi, ancora una volta, che non c'è via di uscita: non nella discussione, non nella inutile democrazia. Ma la discussione, nella democrazia, è l'unica forza che abbiamo.

Se non c'è tra le delegazioni, nell'ansia del vertice, la convinzione di essere sul crinale della storia umana. Se manca la preoccupazione di avere un compito decisivo nel offrire, o non offrire, alle generazioni, una forma accettabile di sopravvivenza, con politiche anche aspre, ma intelligenti, dedicate a questo obiettivo, rispettose dell'altro e dell'equità: Se molti sono convinti che è in corso una gara nella quale i forti e i furbi sopravvivono e degli altri si perde anche la traccia; proprio allora il nostro compito è quello di insistere, di spiegare, di offrire le buone ragioni; a Cancun e qui.

Ma visto che si evita questo livello di discussione, meglio trattare di un problema soltanto e cercare di portarlo a soluzione. Per esempio l'acqua.

Noi del manifesto non ci metteremo sulla sponda del fiume, per vedere gli effetti dell'inondazione o viceversa della siccità, per dare voti e criticare e commentare, all'asciutto - e all'ombra. Siamo dalla parte di chi si dà da fare, siamo una parte del movimento e vogliamo contribuire alla sua tenuta con quello che abbiamo e sappiamo. Una certa capacità di scrivere, un bel po' di persone amiche, di compagni che ci danno fiducia e ci aiutano: che scrivono per noi e per voi. Così è stato possibile dare vita al nostro quarto fascicolo speciale, «Gasati», dedicato ad Ambiente Energia e Mobilità che sarà in edicola martedì 7 dicembre, insieme al quotidiano abituale, per un modico prezzo.

Non si tratta di un contributo risolutivo, vista la pochezza delle nostre forze e l'enormità del problema davanti a noi. Speriamo però di contribuire a una discussione aperta, di muoverci nella direzione giusta, di offrire un orientamento. Difendiamo tutti insieme la nostra Terra (e il nostro giornale).

Le chiamano “bombe d’acqua”, sono precipitazioni intense quanto quelle di un anno intero e concentrate in un fazzoletto di poche centinaia di metri quadrati. Spianano le culture e sfondano i tetti delle costruzioni. Frequenti nelle aree subtropicali, abbiamo cominciato a fare la loro conoscenza nell’ultima alluvione nel Veneto. I meteorologi ci dicono che sono una conseguenza del fatto che l’aria calda trattiene più vapore acqueo di quella fredda. Scrive Bill Mc Kibben (Terra, Edizioni Ambiente, 2010): “Nelle zone aride aumenta l’evaporazione e quindi la siccità. Quando poi finisce nell’atmosfera, prima o poi l’acqua torna giù”. Ecco spiegato molto semplicemente il fenomeno per cui le precipitazioni totali su alcuni aree del pianeta sono aumentate di molto con eventi meteorologici estremi: temporali che in un solo giorno rovesciano decine di centimetri di pioggia. Ne sanno qualcosa le popolazioni dei comuni della pedemontana veneta da quindici giorni impegnati a svuotare cantine e riparare tetti. (Vedi i resoconti nel sito di Carta Estnord: due morti, migliaia di sfollati, decine di migliaia di case allagate, un miliardo di danni).

E’ incredibile come nemmeno di fronte ad eventi così evidenti non vi sia alcuna capacità (nei mass media e nelle forze politiche mainstream) di connettere i sempre più frequenti disastri “locali” alla catastrofe naturale globale in corso. Ci si azzuffa con “Roma ladrona” per ottenere qualche milione di risarcimenti, al massimo ci si lamenta per i mancati interventi di manutenzione delle opere di regimentazione delle acque, ma nessuno prende parola per denunciare lo scandalo di un governo che rema contro le pur insufficienti e balbettanti iniziative dell’Unione Europea sulle emissioni di gas serra. Sembra che gli ultimi negazionisti delle cause antropiche del caos climatico siano annidati nel Ministero dell’Ambiente italiano, oltre che in Polonia. Ma se ai polacchi possiamo concedere la giustificazione della necessità di sfruttare le miniere di carbone, per l’Italia la presenza dell’immarcescibile direttore generale Corrado Clini, plenipotenziario per i negoziati sul clima da Kioto a Copenaghen, dimostra che tutti i governi succedutesi di centrosinistra e di destra sono rimarti succubi ai voleri degli intoccabili padroni dell’energia: dall’Eni di Scaroni alla Sorgenia di De Benedetti, dalla Saras di Moratti agli inceneritori della premiata ditta Marcegaglia. Per non ricordare che gli italiani detengono i primati mondiali di produzione pro capite di cemento e di automobili in circolazione. Il nostro, cioè, è il modello industriale più energivoro che si possa immaginare. L’urgenza di una sua riconversione (variamente ricordata dagli scritti di Guido Viale e da pochi altri economisti) viene quotidianamente negata dalle politiche economiche governative e confindustriali. Questa è la prima ragione del declino economico e del disastro ambientale in Italia.

Anche per queste “peculiarità” nazionali, il percorso di avvicinamento a Cancun nel nostro paese deve essere più impegnativo; deve rompere il velo di ignoranza e di omertà calato sulle questioni climatiche. A questo scopo è nata una rete (Rigas) molto vasta di associazioni e comitati che prepara il contro-vertice di Cancun con varie iniziative, così come già successe lo scorso anno in occasione del precedente “incontro tra le parti” di Copenaghen.

Innanzitutto va richiamata l’attenzione sui rischi che l’umanità sta incorrendo. Il più accreditato climatologo del mondo, scienziato della Nasa, James Hansen (Tempeste, con introduzione di Luca Mecalli, Edizioni Ambiente, 2010) ci avverte che se dovessimo continuare a bruciare tutti i combustibili fossili che conosciamo - e che con tanto accanimento cerchiamo di estrarre in fondo agli oceani e tra le rocce bituminose - “le calotte glaciali si fonderebbero completamente con un innalzamento finale del livello del mare di 75 metri e gran parte di questo processo si svolgerà nell’arco di qualche secolo”. Spiega bene Mc Kibben: “Siamo all’inizio del cambiamento più vasto e profondo mai registrato nella storia dell’umanità, pari solo a quei grandi pericoli che abbiamo potuto leggere nelle tracce lasciate nelle rocce e nel giaccio (…) Non si tratta di un cambiamento transitorio, è la Terra che sta mutando (…) La calotta polare artica si è ridotta di 2,8 milioni di chilometri quadrati, più di quanto sia mai stato registrato nella storia (…) I tropici si sono espansi di due gradi di latitudine a nord e a sud, con la conseguenza che alla fascia climatica tropicale si sono aggiunti altri 22 milioni di chilometri quadrati. A conseguenza di ciò, le regioni subtropicali aride si spostano ora verso nord e verso sud, con gravi conseguenze per i milioni di persone che vivono in queste regioni aride di recente formazione (…) Le barriere coralline cesseranno di esistere come strutture fisiche entro il 2100, forse 2050”.

Tutti gli altri effetti sugli ecosistemi si possono trovare ben elencati e classificati nell’ultimo Living Planet Report del WWF 2010 (anno internazionale della biodiversità): l’indice del pianeta vivente continua a scendere mentre la pressione antropica sulla biosfera (impronta ecologica) continua a salire.

La rivista “Nature” ha pubblicato studi in cui si rivela che l’ultima volta in cui i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera raggiunsero i valori simili a quelli attuali (390 parti per milione) fu circa 20 milioni di anni fa; ma allora il mare salì di 20 metri e le temperature di 10 gradi centigradi.

Conclude Mc Kibben: “L’Olocene è ormai agli sgoccioli e l’unico mondo che gli umani hanno conosciuto all’improvviso vacilla”. L’Olocene è la nostra era geologica, il cui inizio è stato fissato 11.700 anni fa, all’interno della quale si è potuta sviluppare la civiltà umana ad iniziare dal neolitico, 7.000 anni fa.

Insomma, di fronte a mutamenti irreversibili così sconvolgenti, servirebbe una energia positiva inversa: una rabbia benedetta, una santa indignazione… una sollevazione morale capace di imporre l’obiettivo del rientro delle emissioni in atmosfera di CO2 nella soglia delle 350 parti per milione per contenere l’incremento della temperatura ad un grado massimo centigrado a fine secolo. A partire da questo obiettivo sarebbe possibile declinare una serie di politiche specifiche. Basti pensare che il settore agroalimentare (e della carne in particolare) genera da solo tra il 40 e 50% delle emissioni globali di gas serra. Pensiamo poi ai trasporti, all’edilizia, all’energia… Per ogni settore, in ogni parte della terrà sarebbe necessario calcolare i flussi di materie e di energie impegnati nei cicli produttivi e di consumo e pianificarne la loro riduzione; ricalcolare il “metabolismo sociale” (come dice Joan Martinez-Alier, L’ecologia dei poveri, Jaka Book, 2010) di ogni attività umana in funzione della sostenibilità ambientale e tenendo conto dell’equità sociale. Politiche ambientali e politiche sociali si devono sposare. Sono noti gli enormi squilibri nella produzione pro-capite di gas climalteranti tra i vari paesi del mondo e, al loro interno, tra le diverse classi sociali. Peggio ancora: nessuno calcola che in realtà la grande parte di emissioni di CO2 nelle “fabbriche del mondo” in Cina o India in realtà è dovuta alla produzione “delocalizzata” di merci che consumiamo in questo emisfero del pianeta e che quindi andrebbero correttamente addebitate a noi, non a loro (“emissioni per procura”). Vanno poi calcolati anche i debiti climatici accumulati dalle società del nord del mondo in secoli di saccheggio e di colonizzazione del sud.

A Cancun sappiamo già cosa (non) accadrà. Avremo la conferma che dall’alto, dai vertici, dalla governace mercatoria, nulla di buono può venire per i cittadini del mondo, per i commoners espropriati dall’uso dei beni comuni della terra: dopo il suolo, l’acqua e l’aria. Anche questa volta dovremmo cominciare dal basso, a “fare la rivoluzione” in casa nostra, a partire dal rivendicare piani energetici comunali che rispettino gli obiettivi di Kioto sul modello delle Transition Town, filiere agroalimentari corte, zero sprechi e zero rifiuti, acqua in caraffa, più piste ciclabili e aree pedonali, certificazioni delle abitazioni… insomma una vera e profonda riconversione ecologica dell’economia, degli stili di vita, delle istituzioni pubbliche.

La Consulta fa acqua

di Andrea Palladino



È un intervento pesante e profondo quello della Corte costituzionale, che l'altro ieri ha depositato la sentenza di respingimento dei ricorsi fatti dalle regioni Calabria, Toscana, Liguria e Campania contro la legge Ronchi. I giudici della Consulta non si sono limitati a considerare legittime dal punto di vista costituzionale le nuove norme del governo Berlusconi che forzano le tappe della privatizzazione dell'acqua, obbligando i comuni a ricorrere a società di capitali con gare europee. La sentenza, in realtà, va ben oltre: l'intero impianto legislativo degli ultimi anni che ha aperto le porte alle multinazionali dei servizi idrici viene considerato assolutamente compatibile con la Costituzione, con la normativa europea e con quella nazionale. «Decisione devastante», è il commento che girava ieri all'interno del movimento per l'acqua pubblica.

È ancora presto per avere uno studio dettagliato sull'impatto che questa sentenza avrà. Oltre al referendum - che continua a seguire la sua strada, divenendo sempre più importante - i fronti aperti in Italia sul tema della gestione dell'acqua sono tanti. In primo piano c'è sicuramente la nuova legge pugliese, che sta per andare in discussione. Voluta con forza dai movimenti per l'acqua pubblica, fatta propria da Vendola che l'ha messa tra i primi punti del suo programma di governo regionale, punta a sciogliere l'attuale forma di società per azioni per creare un ente di diritto pubblico chiuso ermeticamente alle possibili scalate dei privati. Ora la via pugliese all'acqua pubblica potrebbe essere pesantemente influenzata dalle scelte della Consulta. Nella lunga sentenza - ben 136 pagine - il giudice estensore Franco Gallo spiega che «la normativa riguardante l'individuazione di un'unica Autorità d'ambito e la determinazione della tariffa del servizio secondo un meccanismo di price cap attiene all'esercizio delle competenze legislative esclusive statali nelle materie della tutela della concorrenza e dell'ambiente, materie che hanno prevalenza su eventuali competenze regionali, che ne risultano così corrispondentemente limitate».

Dunque, rispetto all'autonomia delle regioni prevarrebbe l'orientamento del governo centrale. E con Berlusconi a Palazzo Chigi i margini di manovra sono ovviamente estremamente ridotti. Il pronunciamento ha riaperto le speranze del Pdl pugliese, che da sempre punta alla privatizzazione dell'acquedotto, già al centro di appetiti francesi alla fine degli anni '90. Immediato il commento del capogruppo regionale del Pdl Rocco Palese: «Vendola rinunci a portare avanti una legge illegittima». Per ora le due commissioni del consiglio regionale che stanno valutando la proposta di legge per la ripubblicizzazione degli acquedotti hanno optato per una pausa tecnica, dando «la possibilità ai capigruppo ed ai commissari di prendere visione dell'articolata sentenza di 136 pagine».

Le parole della Consulta in realtà colpiscono al cuore l'insieme delle autonomie locali, in un sussulto decisamente centralista. L'opposizione alla privatizzazione dell'acqua è infatti cresciuta soprattutto grazie al movimento dal basso, ai comitati cittadini, alle regioni che hanno scommesso sulla gestione pubblica e a tantissimi comuni che chiedono di riprendersi gli acquedotti privatizzati. Da due anni centinaia di consigli comunali stanno infatti inserendo negli statuti la dichiarazione dell'acqua come servizio senza rilevanza economica. Una formula che esclude, di conseguenza, il ricorso a gare pubbliche e alle società per azioni, sia private che miste. È quello che può essere definito il cuore del più ampio movimento del referendum. È forse questo il vero nemico per il ministro Fitto, uno dei principali sostenitori della privatizzazione: «La Corte ha fatto anche giustizia di singolari tentativi di sostenere la natura non economica del servizio idrico integrato», ha commentato ieri.

In questo scenario il referendum per l'abolizione della legge Ronchi e delle altre norme che di fatto hanno già privatizzato il sistema idrico assume un valore centrale. Fondamentale è la richiesta di moratoria chiesta dal Forum dei movimenti per l'acqua pubblica: fino al voto dei cittadini che nessuno tocchi l'acqua. L'appuntamento per pubblicizzare la richiesta è fissato per il 4 dicembre, con la mobilitazione di centinaia di comitati locali.





Una sentenza che non rispetta

i beni comuni

di Ugo Mattei



La guerra delle valute, i segnali prevedibilmente sconfortanti sulla «ripresa economica» e le fibrillazioni politiche nostrane mostrano come anche in Italia il ciclo inaugurato con la «fine della storia» si sia esaurito. Il nuovo scenario che si sta profilando sarà fondato su una regressione dell'asse Atlantico e sul progressivo tramonto dell'egemonia statunitense, sul piano prima economico, successivamente politico e finalmente culturale. Mentre sotto il profilo economico e politico i segnali non sono ambigui, molto più complessa si profila la partita culturale. In quest'ambito si intravedono i segnali di una ripresa di iniziativa da parte di un'elaborazione di sinistra, dopo che «la fine della storia» ne aveva provocato uno snaturamento profondo. Per vent'anni abbiamo assistito, impotenti, alla trasformazione della sinistra in un'«altra destra» che, sul piano della cultura giuridico-istituzionale, ha sostanzialmente offerto i due contributi essenziali per la strutturazione del nuovo (dis)equilibrio capitalistico fuoriuscito dalla caduta del Muro di Berlino. In primo luogo l'idea dello Stato regolatore, e in secondo luogo quella del dialogo internazionale fra le Corti supreme. Si tratta di due nozioni, entrambe figlie dell'egemonia culturale statunitense, che condividono un grande disegno di tecnologizzazione del diritto e della politica all'insegna di una presunta neutralità istituzionale (è la stessa logica ipocrita del governo tecnico). Lo Stato regolatore deve limitarsi a presiedere, come un arbitro in un incontro di tennis, al rispetto delle regole formali della concorrenza, rinunciando a favore dei privati a ogni ruolo attivo del pubblico nell'economia. A questo quadro di regressione ottocentesca verso uno Stato minimo guardiano passivo dell'efficienza economica (crescita, produttività, sviluppo, ecc) si cerca di recuperare un volto umano attraverso il «dialogo fra Corti supreme». Saranno così i giudici costituzionali di tutto il mondo, oracoli dell'ideologia borghese dei diritti individuali fondamentali, ad elaborare una giustizia (formale) universalista che faccia da contrappeso al trionfo della tecnica e dell'economia.

La valenza ideologica di questo quadro di riferimento fideistico, fondato sull'idolatria del mercato e del regime di legalità, è stata da più parti denunciata nella sua natura reazionaria. Da tempo, inoltre, la cultura giuridico-politica si è posta alla ricerca di nuovi strumenti capaci di invertire la rotta rispetto alla sciagurata mistificazione anti-politica delle privatizzazioni cammuffate da liberalizzazioni. Giustamente si è osservato che una dimensione ecologica e di lungo periodo comincia a caratterizzare in modo non ambiguo quella parte sempre più ampia della sinistra che si svegliata dal sonno delle «lenzuolate», mentre il movimento referendario per l'«acqua bene comune» allarga ben oltre la sinistra un grido d'allarme che soltanto chi si finge sordo non può sentire.

Con la sentenza che rigetta il ricorso di sei regioni contro il decreto Ronchi che obbliga alla privatizzazione dei servizi pubblici e dell'acqua, la Consulta manda un segnale molto preoccupante. Infatti, stabilendo che «le regole che concernono l'affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, ineriscono essenzialmente alla materia tutela della concorrenza, di competenza esclusiva statale», la Corte banalizza questioni di importanza primaria quale l'elaborazione teorica della nozione giuridica di bene comune. Così facendo essa si dimostra vecchia e prigioniera di una logica tecnocratica da fine della storia che le impedisce di produrre cultura giuridica adeguata ai tempi che stiamo vivendo. La prolissità della decisione non nasconde la debolezza teorica di un'argomentazione apodittica e contraria allo stesso diritto europeo. Speriamo che queste retrive convinzioni tecniche che ne hanno fatto un baluardo dello Stato regolatore non siano prodromiche a un respingimento del referendum il prossimo gennaio, perché ciò trasformerebbe un incidente di percorso tecnico-giuridico in un autentico abuso politico-costituzionale.

Sempre maggiore è l’attenzione al tema dei cosiddetti "green jobs" o lavori verdi. Pare infatti che attualmente l’offerta occupazionale sia nel contesto urbano sia in quello rurale possa riguardare fin da subito fino a 4 milioni di nuovi posti di lavoro nel mondo industrializzato e una cifra anche superiore nei Paesi in via di sviluppo. A rilevarlo il rapporto: "Green Jobs: Towards decent work in a sustainable, low-carbon world" realizzato da due Agenzie delle Nazioni Unite: l’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) e l’OIL (Organizzazione internazionale del Lavoro), che verrà presentato il prossimo 16 novembre a Milano (auditorium Regione Lombardia) nel corso del convegno "Progettare, lavorare, pensare il futuro della terra", organizzato dalla Fondazione culturale di Banca Etica e dalla Fondazione Roberto Franceschi nell’ambito del progetto Gjusti (Green Jobs, Università, Scuole, Territorio, Imprese). Tra i relatori l’ecologista

E’ un trend positivo confermato anche dall’andamento degli investimenti destinato a raddoppiare dagli attuali 1.370 miliardi di dollari l’anno a 2.740 miliardi entro il 2020. In Germania per esempio i capitali scommessi in tecnologie sono addirittura quadruplicati e toccheranno il 16% dell’intera produzione industriale con una forza lavoro superiore a quella delle industrie di macchine utensili e auto. Lo studio analizza inoltre gli sbocchi di occupazione verde nell’agricoltura, industria, servizi, nella pubblica amministrazione, sostenendo che queste opportunità possano rappresentare una via d’uscita dalla crisi.

Grazie ai finanziamenti Cariplo le due Fondazioni hanno avviato il progetto nella Zona 9 di Milano e nell’Oltrepò Pavese e coinvolto tre Istituti Scolastici di istruzione secondaria, l’Università Bicocca di Milano, l’Università degli Studi di Pavia, il sindacato, il mondo imprenditoriale, la Pubblica Amministrazione. Dal sondaggio svolto dall’Istituto Piepoli sui temi e sulle proposte emerse nei due seminari risulta che il 58% degli intervistati si è impegnato in progetti di sostenibilità ambientale negli ultimi tre anni. Mentre la società di consulenza Boston Consulting si è concentrata sulla situazione negli Stati Uniti con un recente focus che sostiene che nei tre settori in cui ci sono migliori prospettive vale a dire trasporti, efficienza energetica e generazione di energia i posti di lavoro verdi dovrebbero passare dagli attuali 570 mila a 2,4 milioni entro il 2020 secondo lo scenario più ottimista (1,1 milioni secondo quello più pessimista), con un incremento dunque del 300%. Tra i futuri obiettivi politici: assicurare una continuità ai cosiddetti lavori sostenibili anche quando verranno a mancare i finanziamenti del governo, creare ulteriori opportunità di occupazione. Il futuro di queste opportunità d’impiego dipende dunque molto dalla velocità con cui verranno create e dalla loro capacità di durata.

«La cricca, con il suo affarismo amorale, ha abitato in Campania prima di estendere i suoi tentacoli» si legge nell'introduzione al libro La peste. La mia battaglia contro i rifiuti della politica italiana, autori Nello Trocchia e Tommaso Sodano (Rizzoli; 18,50 euro; 250 pp), in libreria da questa settimana. Giornalista il primo, politico il secondo, eletto al Senato, Sodano ha fatto parte della commissione d'inchiesta sulle Ecomafie ed è stato poi presidente della Commissione ambiente, dalle sue denunce è partita l'inchiesta che ha portato al rinvio a giudizio dell'ex governatore Antonio Bassolino, della famiglia Romiti e dell'Impregilo (azienda costruttrice dell'inceneritore di Acerra). Oggi è consigliere provinciale per la Federazione della Sinistra e dai banchi dell'opposizione continua a seguire la vicenda rifiuti da vicino, visto che proprio l'ente di piazza Matteotti deve gestirne il ciclo.

Sodano, non era finita la crisi?

Il 26 marzo dell'anno scorso, Berlusconi allestisce un set hollywoodiano per l'inaugurazione del termovalorizzatore, con tanto di flash mentre preme il tasto d'avvio. «È un gioiello, quelli dell'Impregilo sono degli eroi, problema finito» ripeteva davanti alle telecamere. A parte il fatto che l'inquinatissima Acerra era il posto meno adatto, l'impianto è stato avviato in violazione della normativa italiana ed europea. La Commissione Ambiente aveva chiesto 27 adeguamenti, lo inaugurarono con un ordinanza in deroga. Mancavano cose come il piano per lo smaltimento delle ceneri, i controlli al camino e il rilevamento della diossina. A febbraio di quest'anno ci doveva essere il collaudo. A giugno sono andato in Procura a chiederne il sequestro. Se vuoi visionare i documenti del collaudo, alla A2A ti rispondono che non si trovano. A settembre poi si è fermato del tutto. È un impianto obsoleto che doveva bruciare cdr di qualità, invece grazie alle deroghe brucia talquale, le sostanze organiche miscelate alla plastica generano fumi acidi che hanno corroso i refrattari della caldaia. Su poco più di 500 giorni di funzionamento, le centraline per le polveri sottili hanno registrato 250 sforamenti. E la Impregilo pretende anche 350 milioni di euro per cedere l'impianto alla regione.

A Terzigno si rischia il disastro con un secondo sversatoio

La prima volta che se ne discusse ero senatore, ci sono le intercettazione del braccio destro di Bertolaso, Marta Di Gennaro, che parla con il direttore generale del ministero dell'Ambiante, Gianfranco Mascazzini, ridono delle mie denunce, lui spiega di essere alla ricerca di una polverina magica, tipo la calce, che mischiata con i rifiuti li rende meno puzzolente, in modo da sversare nel parco nazionale del Vesuvio. In Europa solo il 20, 25% dell'immondizia va in discarica, a Napoli e Caserta la differenziata non arriva al 20 e dovrebbe salire al 60% entro il 2012. Nel frattempo non hanno aperto i siti di compostaggio per la frazione umida, gli impianti di vagliatura non sono a norma, nessun accordo con la grande distribuzione, con i mercati, i cimiteri per abbattere la produzione di immondizia.

La provincia ha un'idea di come gestire il futuro ciclo dei rifiuti?

Dicono di avere un piano che, però, parte dall'esistente e cioè dalle discariche, dagli impianti di tritovagliatura e da Acerra, a cui aggiungere un nuovo inceneritore a Giugliano, dedicato alla montagna di ecoballe, e a Napoli nella zona di Ponticelli, dove c'è già una centrale a turbogas. Nessuno dei due luoghi, altamente inquinati, verrà bonificato, a Napoli est poi dovevano fare il parco urbano, ripristinare la linea di costa e restituire il mare alla città... e invece dovranno cercare altre discariche per smaltire i rifiuti speciali prodotti da tre inceneritori.

Assalti agli automezzi, bombe carta, secondo te chi sono gli autori?

I politici di destra e sinistra per oltre dieci anni hanno utilizzato i disoccupati, i corsisti, gli Lsu come riserva elettorale, in cambio sono stati assunti nei consorzi di bacino di Napoli e Caserta, pagati spesso per non fare nulla, il lavoro veniva appaltato a ditte esterne. Alcuni di loro sono stati i primi a denunciare questa situazione. Con il decreto di fine emergenza molti rimarranno senza lavoro, questo genera reazioni violente. Le società provinciali devono mettere ordine nella materia, valorizzando dove possibile le risorse interne.

L'IDEA DELLA PROVINCIA

Riaprire discariche dismesse.

Allarme degli ecologisti

Dodici bottiglie molotov miracolosamente affiorate da un vigneto di Terzigno, alla vigilia della visita del premier nei paesi vesuviani. Sindaci che, nell'attesa dell'avvento, scrivono al papa. Il ciclo rifiuti campano sembra definitivamente sfuggire alla razionalità umana.

Ieri durante la seduta del consiglio provinciale il presidente Luigi Cesaro ha fatto il punto della situazione. La prima notizia è che per non aprire cava Vitiello si dovranno ampliare altre discariche già esistenti o dismesse, «con una gestione degli impianti post mortem». E già così le popolazioni, a cominciare da quella di Chiaiano, hanno di che terrorizzarsi. Ieri i Verdi hanno fatto un sopralluogo in località ex cava Ranieri, nelle campagne di Terzigno: una discarica dismessa, utilizzata nel 2000 per fronteggiare l'emergenza.

«Questo, che ora è un lago di spazzatura, ebbe nel 2007 un finanziamento per la bonifica da parte del ministero dell'Ambiente e della provincia di Napoli» ha raccontato Francesco Emilio Borrelli. Ampio circa 500 metri quadrati, l'invaso, dopo la saturazione, fu coperto da un telone che, a causa delle piogge, è collassato trasformandosi in un lago artificiale di liquami maleodoranti colmo d'immondizia.

Nel suo intervento Cesaro ha illustrato le direttive del nuovo piano provinciale: 5 impianti di compostaggio, per tre già decisa la destinazione (Pomigliano d'Arco, Napoli Est ed Afragola), 9 milioni di euro ai comuni per 34 isole ecologiche e 7 milioni di euro per l'acquisto di automezzi e attrezzature. A Teverna del re, a Giugliano, l'impianto di incenerimento dedicato alla montagna di ecoballe non a norma prodotte dalla Impregilo.

La provincia, però, non è pronta a varare il piano industriale delle SapNa, per cui ci vorrà una proroga di un anno con annesso allargamento dei cordoni della borsa, già benedetto da Guido Bertolaso a settembre, altrimenti il piano rimane lettera morta. Infine, la colpa della crisi è dei comuni, soggetto sottointeso il sindaco di Napoli, come da direttive impartite dal premier.

«Dal centrodestra arrivano solo mistificazioni - dice il capogruppo provinciale del Pd Giuseppe Capasso -. Dimenticano che in circa 14 comuni della provincia amministrati dal centrodestra, per oltre 1 milione di abitanti, e quindi più grande della città di Napoli, la raccolta differenziata è inferiore al 20%. Il presidente Cesaro si è superato quando ha affermato che è possibile evitare l'apertura della Cava Vitiello continuando a riempire di monnezza il vulcano più famoso del mondo».

Se il sindaco di Napoli preferisce non replica a Berlusconi, l'amministratore delegato di Asìa, Daniele Fortini, ribatte: «La città è pulita: la crisi, durata 48 ore, per ora è finita. La discarica di Chiaiano ha una capienza di circa 160 mila tonnellate, dipende dalla mole dei conferimenti la durata residua dell'impianto, che a oggi smaltisce 850 tonnellate. Stesso discorso per Terzigno: mancano circa 200 mila tonnellate all'esaurimento dell'impianto. Ma i conferimenti qui raggiungono le 1800 tonnellate giornaliere».

Noi donne e uomini dei movimenti sociali territoriali, della cittadinanza attiva, del mondo dell’associazionismo laico e religioso, delle forze sociali, sindacali e politiche, del mondo della scuola, della ricerca e dell’Università, del mondo della cultura e dell’arte, del mondo agricolo, delle comunità laiche e religiose

che in questi anni e in tutti i territori

- abbiamo contrastato la privatizzazione del servizio idrico, perché sottrae alle collettività un diritto essenziale alla vita;

- abbiamo promosso e partecipato, nel Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua o in altri percorsi, a iniziative ed azioni, socializzando i saperi e le esperienze, rafforzandoci reciprocamente, allargando la sensibilizzazione e il consenso;

- abbiamo promosso con oltre 400.000 firme una legge d’iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua e la sua gestione partecipativa;

- abbiamo promosso mobilitazioni territoriali, manifestazioni nazionali e appuntamenti internazionali per riappropriarci di ciò che a tutti appartiene, per garantire a tutte e tutti un diritto universale, per preservare un bene comune per le future generazioni, per tutelare una risorsa naturale fondamentale;

-abbiamo promosso una campagna referendaria che si è conclusa con lo straordinario risultato di oltre un milione e quattrocentomila firme raccolte;

consapevoli del fatto che

- il voto referendario apre una stagione decisiva per l’affermazione dell’acqua bene comune e della sua gestione pubblica e partecipativa;

- la battaglia dell’acqua è assieme una battaglia contro il pensiero unico del mercato e per una nuova idea di democrazia;

- la privatizzazione e la mercificazione dell’acqua e del servizio idrico è incompatibile con conservazione della risorsa acqua, degli ecosistemi e più in generale dell’ambiente;

- una vittoria ai referendum della prossima primavera potrà aprire nuove speranze per un diverso modello economico e sociale, basato sui diritti, sui beni comuni e sulla partecipazione diretta delle persone;

facciamo appello a tutte le donne e gli uomini di questo paese

perché, in questi mesi che ci porteranno al referendum si apra una grande stagione di sensibilizzazione sociale sul tema dell’acqua, e si produca, ciascuno nella sua realtà e con le sue attitudini e potenzialità, uno straordinario sforzo di comunicazione sull’importanza della vertenza in corso e sulla necessità del coinvolgimento di tutto il popolo italiano, con l’obiettivo di arrivare all’affermazione dei tre referendum abrogativi.

Tutte e tutti assieme possiamo affermare l’acqua come bene comune, sottrarla alle logiche del mercato, restituirla alla gestione partecipativa delle comunità locali.

Tutte e tutti assieme siamo coinvolti nel problema e possiamo divenire parte della soluzione.

Il tempo è ora. Perché si scrive acqua e si legge democrazia.

Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua

Comitato Promotore dei referendum per l'Acqua Pubblica

Perciò il governo vuole sciogliere le camere

Servizi pubblici in saldo. Referendum a rischio

di Ugo Mattei

Sono da oltre un mese negli Stati Uniti e vedo quindi le cose italiane da una certa distanza e in una prospettiva comparativa che mi consente una percezione non offuscata dal dettaglio quotidiano della polemica politica. Mi occupo anche qui di beni comuni e constato che il referendum italiano attira l'attenzione di molti miei interlocutori, accademici e non. Tutti si dimostrano colpiti dalla brutalità del tentativo con cui il governo italiano cerca di «lisciare il pelo» (qui mi dicono brown-nose) alle multinazionali mettendo sul piatto una torta così ricca. Tutti mi dicono che neppure i più sensibili alle corporation fra i senatori di questo paese (e qui in California Dianne Feinstein lo è molto) oserebbero neppure proporre tanto e tanto in fretta. Qui al saccheggio dei beni comuni come «uscita dalla crisi» certamente mirano in tanti (amministrazione Obama compresa) ma la cosa avviene in modo più graduale, senza tanto brutale piratesco coraggio. Infatti, mi dice un'osservatrice acuta, questa italiana non sarà affatto una privatizzazione ma una ennesima corporatization, ossia un trasferimento diretto (e colluso) alla corporation, entità che ormai scavalca la divisione tradizionale fra pubblico e privato (e lo sappiamo bene dopo la reazione alla crisi finanziaria). Proprio come il movimento globale per i beni comuni ma con motivazioni ed effetti opposti.

E allora in questa prospettiva più ampia emerge un'interpretazione dell'incomprensibile farsa della crisi della destra (e della balbettante opposizione della sinistra) italiana, meno legata allo scontro fra singoli ego dei nostri improbabili politici. Teniamo in considerazione infatti che in prospettiva globale l'Italia è da sempre un paese semiperiferico a sovranità limitata (da Europa, Nato, Fmi e Vaticano) perché tutte le scelte importanti sono eterodirette (economia ed esteri sono almeno dalla «seconda repubblica» in mano a due maggiordomi, rispettivamente di Fmi Ocse e Nato). Ebbene la questione di grande rilevanza economica in ballo in Italia oggi è il referendum contro la corporatizzazione finale dei servizi, ed è proprio questo movimento di popolo che preoccupa i cosiddetti poteri forti globali.

Berlusconi non è in grado di mantenere quanto promesso: di lui non ci si fida più. Di qui la fortissima pressione per lo scioglimento delle Camere, che nel nostro diritto costituzionale significa «rinvio di un anno» del referendum. In effetti il decreto Ronchi è una «legge provvedimento» che dispiega i suoi effetti a data certa, sicché solo il referendum vinto entro il 2011 effettivamente disinnescherebbe la soluzione «corporatizzatrice» finale che sta tanto a cuore al potere globale. Insomma, dal punto di vista economico (il solo rilevante davvero) rinviare significa costringere il popolo sovrano (non sensibile agli interessi multinazionali come i suoi rappresentanti parlamentari) a chiudere le gabbie a buoi fuggiti, con gran brindisi in borsa delle corporation. Ecco spiegata la fibrillazione. Naturalmente a Camere sciolte si aprirebbe una questione costituzionale del tutto nuova nel nostro paese.

È costituzionalmente ammissibile il rinvio di un anno, provocato da organi di democrazia indiretta (Governo e Parlamento), che svuota interamente di significato uno strumento di democrazia diretta? Possono i rappresentanti del Popolo Sovrano togliere la parola al Popolo Sovrano che rappresentano? Evidentemente in caso di scioglimento anticipato delle Camere saranno gli organi di garanzia preposti al controllo della coerenza costituzionale del nostro ordinamento (Corte Costituzionale e Presidente della Repubblica) a doversi pronunciare. Noi riteniamo che si debba arrivare a un contestuale rinvio di un anno degli effetti della legge Ronchi sottoposta a referendum, in modo da evitare questo strappo costituzionale.

In altre parole, in caso di scioglimento, non a fine 2011 ma a fine 2012 dovrebbe scattare l'obbligo di «messa a gara», evitando di far fuggire i buoi prima che si possano chiudere le stalle. Ricordiamo che una volta venduti i servizi pubblici diviene difficilissimo recuperarli alla proprietà pubblica, perché scattano i requisiti di riserva di legge e indennizzo a tutela dei beneficiari privati della corporatizzazionesaccheggio. Insomma una bella questione da approfondire giuridicamente per capire quali forme tecniche debba prendere la nostra sacrosanta questione di sostanza costituzionale provocata da quella brutale struttura di provvedimento-saccheggio a data certa del decreto Ronchi che tanto colpisce gli osservatori di queste parti.

Che gli effetti politici del Referendum siano già ora una corsa bipartisan contro il tempo, per scappare col bottino prima che il popolo si pronunci, è già evidente a Torino. Infatti Chiamparino, adempiendo con zelo anche ai desiderata regionali bipartisan di Bresso e Cota, sta premendo sull'acceleratore della corporatizzazione del trasporto pubblico torinese (Gtt). Sebbene un comitato di cittadini stia raccogliendo molte firme per chiedere una moratoria almeno fino all' espletamento del referendum sul Decreto Ronchi (sulla base del quale la «messa a gara» sta avvenendo) il sindaco non sente ragioni.

Per un futuro più potabile

di Guglielmo Ragozzino

A Firenze l'assemblea dei movimenti in difesa dell'acqua pubblica, per passare dalla raccolta delle firme al referendum. E alla vittoria che impedisca di trasformare l'oro blu in merce. Da Cochabamba all'Amiata, dal generale al particolare, la lotta continua

FIRENZE - Antonio che ha il microfono chiama alla presidenza tutti insieme i diecimila militanti che hanno raccolto le firme tra aprile e l'estate. È una battuta, ma i rappresentanti di quei diecimila, venuti in centinaia a Firenze alla casa del Popolo di S. Bartolo a Cintoia, non ci trovano niente da ridere, anzi applaudono convinti. Tutti sanno cosa è stato il lavoro di raccolta e mobilitazione. Sanno poi che ora occorre proseguire. Come si passi dalla raccolta delle firme al referendum e alla vittoria che stabilisca che in questo paese l'acqua non è una merce, ma un diritto, un bene comune, inalienabile, non è facile stabilirlo. L'assemblea consiste proprio in questo: misurare l'ostacolo e trovare strategie e tattiche, alleanze e percorsi per superarlo. Non esaltazione, ma lavoro ragionevole.

Il discorso ufficiale per un'Assemblea sui referendum futuri in Italia lo tiene Oscar Oliveira che arriva da Cochabamba per dare una mano e chiedere aiuto. Poi altri toccano il tema delle dighe sul Tigri e dell'imperativo morale di salvare Hasankeyf, una delle più antiche città del mondo. Si parla della falda dell'Amiata che è, o era, la maggiore dell'Italia centrale e ora si è abbassata di 200 metri, perdendo miliardi di litri, anche e soprattutto per i prelievi dell'Enel e dei suoi impianti geotermici. Probabilmente quelli di Astrid non capirebbero, ma così la democrazia universale dell'acqua ha avuto una giusta cornice. Dal generale al particolare, l'obiettivo comune e la lotta intelligente sull'acqua potabile, della città e del circondario, da difendere e da salvare. Tra gente dell'acqua i discorsi sono semplici e condivisi.

Per semplicità di discussione si fanno emergere quattro temi: il futuro dell'acqua con le vertenze locali e la possibilità di arrivare a una moratoria generale, il quorum da raggiungere con il punto essenziale del finanziamento per la campagna verso il voto, la gestione pubblica partecipata e infine il pianeta acqua: Cochabamba, il Kurdistan, l'Amiata.

Viene descritto in primo luogo con precisione (da Marco Bersani) il calendario che aspetta il movimento ed è tra il giuridico e il lunare. Noi lo riportiamo, secondo gli appunti, ma senza certezze, anzi con beneficio d'inventario: la Corte di Cassazione il 1 ottobre chiude il rubinetto alla raccolta di firme - ci sono i tre referendum di Di Pietro, uno dei quali è sulla privatizzazione dell'acqua e potrebbe sempre materializzarsi una richiesta per un referendum sconosciuto. Poi c'è la verifica delle firme, con l'eventuale proposta di accorpare richieste referendarie simili. Questa fase dura fino al 31 ottobre. Fino al 15 dicembre la Cassazione riflette, per poi scaricare, con una sentenza, il problema alla Corte Costituzionale che entro il 10 febbraio deciderà della proponibilità dei referendum: tutti o qualcuno. E già questo è un terreno minato. Qualche giorno prima, il 20 gennaio, la Corte indica il giorno in cui delibererà. Questo perché fino a tre giorni prima è possibile indirizzare memorie alla Corte. Quindi un'altra data da ricordare: tre giorni prima della decisione, finiscono i giochi e la Corte si ritira.

Poi, se tutto va bene, la gimkana continua. Tocca al governo, sempre che esista ancora e sempre che non abbia inventato una serie di leggi per ottenerne l'esclusione di tutti i referendum o almeno di quelli che ci stanno a cuore in modo surrettizio. Tocca al governo decidere la data dei referendum, tra il 15 aprile e il 15 giugno. In quel periodo ci sarà anche un voto amministrativo, per esempio a Milano e spetterà al governo accorpare i referendum alle elezioni, oppure scegliere date diverse. Difficile immaginare una data diversa da quella più sfavorevole ai referendum.

Se questi sono gli ostacoli e le insidie principali, di certo ve ne sono altri disseminati e ancora oscuri. Spetta a un gruppo di giuristi, esperti e affezionati ai problemi della democrazia e dell'acqua, il compito di affrontare nel modo migliore le difficoltà. Franco Russo tra gli altri ha ben descritto la fase. Servono persone capaci di praticare la Corte oltre che i movimenti, serve gente con un buon tasso di credibilità presso gli alti magistrati. Devono però spiegare bene cosa stanno facendo, confrontarsi con il movimento. Da qui nasce una proposta che oggi discuterà l'assemblea plenaria, di un convegno di carattere giuridico e liquido insieme, per mettere a punto la strategia e la tattica.

Si discute molto di moratoria e di moratorie, quella generale e quelle locali. Concordano tutti e tutte sul punto dell'ingiustizia di una serie di decisioni irrimediabili sulla gestione idrica in molte località, quando sono state raccolte firme in quantità e pendono i referendum. La volontà popolare è stata disprezzata: qualcuno vuole imbrogliare la situazione tanto da rendere impossibile tornare indietro. Alcuni fanno presente la disparità delle situazioni locali: non si chiude la stalla della moratoria quando i buoi sono scappati.

In generale è difficile il confronto con gli altri, con quelli che non hanno ancora messo l'acqua al centro della democrazia per la quale lottano. Come si apre il discorso ai milioni di voti che serviranno a giugno inoltrato, quando, finite le trappole, si andrà a votare per il referendum?

Il problema delle alleanze si presenta sempre davanti a un movimento ragionevole; e questo lo è. Oggi (per voi che leggete) si deciderà di partecipare il 16 ottobre alla giornata di lotta della Fiom, si andrà per scuole (e fuori dalle scuole) per convincere gli studenti che ne vale la pena e che si lotta anche per loro e con loro; quando in dicembre, a Cancun il mondo discuterà di acqua, anche l'Italia del movimento non farà mancare il suo appoggio, solo perché c'è altro da fare, monitorare la Cassazione. E ci sarà anche un nuovo 20 marzo - sarà il 19, per motivi di calendario - quando tutto il movimento, ma tanti e tante di più si daranno appuntamento a Roma per sostenere il nostro referendum.

Altrove, in altre riunioni si parla d'altro. Quanti soldi servono per il referendum? A chi li si chiede, chi li amministra? Dobbiamo contare solo sulle nostre forze, è giusto tassarsi ancora? Avere un tesoriere non snatura il movimento? Domande, domande

Il diritto umano all'acqua

Appena proclamato, già svilito?

di Riccardo Petrella

Questa settimana verificheremo, in due circostanze, se i gruppi dominanti degli Stati, che si sono opposti alla risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (Riag) del 28 luglio scorso - che ha riconosciuto l'accesso all'acqua potabile ed ai servizi igienici come un diritto umano fondamentale - saranno riusciti a sminuirne la portata e ad annacquarne il contenuto. La prima circostanza, la più importante ai nostri fini, è l'approvazione giovedì 23 settembre a Ginevra da parte del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite del rapporto dell'esperto indipendente sul «diritto umano all'acqua e ai servizi igienici» (Recdu).

La seconda circostanza è rappresentata dalla conferenza di valutazione dello stato di realizzazione degli «Obiettivi del millennio per lo sviluppo» che si terrà da lunedì a mercoledì 22 settembre a New York nella sede dell'Onu.

Come è noto, l'obiettivo della riduzione al 2015 della metà delle persone che nel 2000 non avevano accesso all'acqua potabile e ai servizi igienici figura fra gli obiettivi retoricamente più enfatizzati in questi ultimi anni. Se il rapporto dell'esperto indipendente al Consiglio dei diritti umani dell'Onu è approvato nella sua stesura attuale esso rappresenterà un passo indietro notevole rispetto alla risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 28 luglio. Per tre motivi.

Anzitutto perché il Recdu non riconosce il diritto umano fondamentale all'acqua in quanto tale ma si limita a considerare che «i diritti umani all'acqua e ai servizi igienici sono diritti componenti del diritto a uno standard di vita adeguato e quindi dei diritti contenuti all'art. 11 dell'International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights (Icescr)». Il che significa, contrariamente a quanto riconosciuto dalla Riag, che per il Consiglio dei diritti umani dell'Onu il diritto all'acqua non esiste in se stesso, ma è di natura strumentale alla realizzazione del diritto ad uno standard di vita decente. Questo e inaccettabile e sminuisce il valore della Riag.

Secondo motivo: legando il diritto all'acqua alla Convenzione Icescr e non all'International Covenant on Civil and Political Rights (Iccpr) secondo la quale i diritti da essa coperta sono giustiziabili, l'approvazione del Recdu mantiene la tesi (difesa dagli Stati contrari alla Riag) che il diritto umano all'acqua non può e non deve far parte dei diritti umani giustiziabili, cioè a dire per i quali è possibile portare davanti alla giustizia gli Stati e altri soggetti pubblici e privati in caso di non rispetto del diritto. Anche in questo caso si tratta di un «declassamento» della natura e dell'importanza del diritto all'acqua, inaccettabile e infondato.

Terzo motivo, ancora più forte e preoccupante dei precedenti: il Recdu «riconosce che gli Stati sono liberi di optare per l'implicazione di soggetti non-statali nella gestione dei servizi idrici». Questo significa in maniera chiara e categorica: a) la piena legittimazione data da parte dell'organismo dei diritti umani dell'Onu alla privatizzazione dei servizi idrici e alla loro inclusione nella sfera mercantile. Le grandi imprese multinazionali private dell'acqua, così come la Banca Mondiale e tutti gli altri organismi internazionali «pubblici» implicati nella politica dello «sviluppo», in particolare la Commissione dell'Unione europea, non mancheranno di utilizzare questa decisione per spingere in favore dell'ulteriore privatizzazione e finanziarizzazione borsistica dei servizi idrici. Non solo, anche il governo Berlusconi non mancherà l'occasione per cercare di legittimare il decreto Ronchi e sostenere che questo è conforme ai principi del diritto all'acqua riconosciuto dall'Onu!

b) l'affermazione che secondo il Cdu non v'è incompatibilità tra diritto umano fondamentale all'acqua e privatizzazione dei servizi idrici, il che è assolutamente mistificatorio perché, per definizione, nel mercato non vi sono diritti né obblighi riguardo eventuali diritti (il mercato può addirittura togliere la proprietà di un bene e, grazie ai meccanismi di dominio oligopolistico, ridurre in polvere la cosiddetta libertà d'investimento). L'approvazione del Redcu rinforzerebbe l'egemonia ideologica culturale in materia di diritti umani e sociali e dei beni comuni della teologia capitalista universale.

Occorre reagire, specie in Italia e dall'Italia dove più di un milione e quattrocentomila cittadini hanno firmato in favore di tre referendum miranti, per dirla in breve, all'abrogazione delle disposizioni legislative approvate dal governo Berlusconi allo scopo di privatizzare i servizi idrici (e l'acqua). Un mail-bombing gigantesco lunedì e martedì prossimi al Consiglio dei diritti umani dell'Onu e al Segretario generale delle Nazioni Unite sarebbe un'azione molto efficace.

Per quanto riguarda la conferenza delle Nazioni Unite sugli «Obiettivi del millennio per lo sviluppo», tutto indica che i gruppi dominanti degli Stati del «Nord» cercheranno, con l'aiuto e la complicità dei loro simili dei paesi del «Sud» e delle agenzie dell'Onu, di dimostrare - e fare approvare nella risoluzione finale della conferenza - che se l'obiettivo della riduzione di metà delle persone senza accesso ai servizi igienici non sarà raggiunto, l'obiettivo relativo al dimezzamento della popolazione senza accesso all'acqua potabile sarebbe stato di già realizzato.

Una grande conquista, proclameranno, che confermerebbe, diranno, la giustezza delle scelte e delle politiche operate in questo campo dai dirigenti mondiali (compresa quindi la privatizzazione dei servizi idrici e la mercificazione dell'acqua, dichiarata bene economico dall'Onu nel 1992).

I dati ufficiali confermano i progressi realizzati a proposito dell'acqua potabile, soprattutto in Cina e in Brasile (e in quest'ultimo paese grazie alla campagna «un milione di cisterne»). Si tratta però, in generale, di dati risultanti da mistificazioni statistiche. Al di là delle cifre, gli affamati, gli assetati, gli abitanti delle baraccopoli, i poveri assoluti, i senza lavoro si conteranno ancora al 2015 in miliardi.

I dominanti sono incapaci - non è una sorpresa - di far cambiare rotta al mondo. Il fallimento della società mondiale fondata sui principi della sovranità e della sicurezza «nazionali», cioè dei più forti, e sulla ri-universalizzazione del capitalismo è totale. Occorrerà nei mesi che verranno attaccarsi a tale fallimento e inventare, a partire dai beni comuni e dalle città, una nuova mobilitazione altermondialista.

Ricordo che l'Icescr è stato ratificato da 160 Stati ma non ancora (a dicembre 2008) dagli Stati Uniti

Il 9 settembre tra le 18,30 e le 19,00 circa la zona compresa tra Amalfi e Maiori è stata investita da un’intensa precipitazione che in un’ora ha fatto cadere al suolo da 50 a 70 mm; alla fine dell’evento circa 150 mm di pioggia hanno inondato la superficie del suolo. Il pluviometro di Ravello non ha registrato tutto l’evento perché l’interruzione dell’erogazione della corrente elettrica lo ha messo fuori uso. Alle 18,59 sarebbe giunto un fax della Protezione Civile Regionale al Comune di Atrani con il quale si avvisava che il pluviometro (prima del tilt) aveva registrato precipitazioni tali da fare scattare l’allarme “relativamente agli scenari di rischio per eventi pluviometrici della CLASSE I ..”. Si avvisava che avrebbe potuto verificarsi il disastro che ad Atrani era già in atto. L’eccezionale evento piovoso è stato causato da cumuli nembi che si sono autorigenerati sul versante sudorientale dei Monti Lattari tra Amalfi e Maiori. Il bacino imbrifero del Vallone Dragone (circa 5 kmq) che attraversa Atrani è incastrato tra ripidi versanti costituiti da rocce calcaree ricoperte in gran parte da suolo non incastrato nel substrato e da livelli di lapilli sciolti. La parte inferiore è prevalentemente terrazzata e coltivata mentre la parte superiore è coperta da castagneti e boschi cedui.

L’acqua di precipitazione generalmente si infiltra nel sottosuolo per cui solo le parti impermeabilizzate alimentano il deflusso superficiale. Eventi piovosi come quello del 9 settembre possono causare l’innesco e scorrimento di flussi fangoso- detritici rapidi che si alimentano con i sedimenti sciolti e inglobano i detriti eventualmente accumulati abusivamente nell’alveo. La vegetazione arborea che ha radici nel suolo non incastrato nel substrato non può impedire i dissesti citati. Altri dissesti si possono originare dai versanti ripidi boscati devastati dagli incendi a causa dello strato di cenere che impermeabilizza il suolo; così l’acqua che defluisce si trasforma rapidamente in colata detritico-fangosa che si riversa nell’alveo. Da circa 15 ettari di versante incendiato si possono alimentare flussi detritici incanalati che possono raggiungere portate di circa 100 mc/sec. Anche le colate rapide di fango che possono innescarsi nella parte alta del bacino, una volta raggiunto l’alveo vi si incanalano dando origine a flussi veloci con portate superiori alle precedenti.

Le immagini filmate evidenziano la considerevole portata del flusso che ha invaso l’abitato di Atrani trasportando tronchi, frammenti di legno bruciacchiati, grossi massi e inglobando decine di autoveicoli e moto nelle strade urbane.

Come al solito, il tratto urbano del vallone era stato trasformato in strada che scorre sul vallone; identica situazione di Casamicciola devastata dalle colate di fango del 10 novembre 2009. Il flusso fangoso detritico non è stato smaltito dall’alveo tombato e si è riversato sulla strada sovrastante devastando e causando la scomparsa di una ragazza. I primi rilievi evidenziano che per vari minuti l’alveo intubato del Dragone ha smaltito una consistente portata stimata intorno ai 100 mc/sec. In seguito all’incremento della portata il flusso fangoso ha completamente riempito l’alveo e si è riversato sulla sovrastante Via dei Dogi defluendovi con portata massima quasi simile a quella dell’alveo.

Le immagini amatoriali evidenziano che contemporaneamente in mare affluivano i due flussi (quello dell’alveo intubato e quello che dopo avere percorso la via dei Dogi aveva devastato la Piazza Umberto I infilandosi nell’arco aperto del viadotto della Strada statale trascinando in mare decine di auto e moto). Per vari minuti flussi velocissimi (velocità stimata tra 30 e 60 km orari circa) hanno scaricato in mare portate stimate intorno ai 200 mc/sec, nettamente superiori a quelle che l’alveo intubato poteva smaltire in sicurezza. Valutando che circa il 50% del flusso poteva essere costituito da acqua (il resto era detrito, tronchi ecc.) durante il periodo di portata massima possono essere stati smaltiti in mare da 20.000 a 50.000 mc di acqua circa. Da quale parte del bacino provenivano, l’influenza che possono avere esercitato eventuali rifiuti scaricati abusivamente in alveo, l’eventuale cedimento di terrazzi agricoli, eventuali colate di fango nella parte montana del bacino sono alcuni degli aspetti che saranno accertati al fine di “capire” l’evento e di elaborare adeguate proposte di messa in sicurezza. Il 20 agosto scorso avevo pubblicato un articolo dal titolo “I meteo-serial- killer (i cumulo nembi) si verificheranno anche nel prossimo autunno? Ancora indifesi aspettiamo che colpiscano” nel quale evidenziavo che, come è noto nella letteratura, i cumuli nembi (da me denominati meteo-serial-killer) sono perturbazioni che si innescano ed evolvono rapidamente localmente quando si verificano particolari condizioni atmosferiche; richiedono una particolare morfologia della superficie terrestre. E non si possono prevedere! Mentre le perturbazioni meteo che interessano vaste aree sono fenomeni prevedibili e tracciabili, non c’è nessun modello numerico in grado di avere una capacità predittiva di un cumulo nembo che interessa un’area limitata provocando precipitazioni fino a 100 mm all’ora. Questo fenomeno si è verificato il 1 ottobre scorso nel messinese, nell’aprile 2006 e il 10 novembre 2009 ad Ischia, tra il 5 e 6 maggio 1998 nel sarnese, il 19 giugno 1996 nella Garfagnana, tra il 24 e 25 ottobre 1954 nel salernitano. Le vittime sono state diverse centinaia. Considerando che i cumuli nembi hanno causato danni enormi e centinaia di vittime, che essi “agiscono” in maniera ripetitiva in relazione ai periodi e alle condizioni morfologiche e meteo, mi chiedevo “Come mai la ricerca è così indietro?”. Eravamo alla fine di agosto e prossimi ad uno dei periodi per l’attivazione del meteo-serial-killer e ancora indifesi i cittadini possono solo attendere sperando che non colpirà? è mai possibile che all’inizio del terzo millennio non si possa fare niente per la prevenzione? Dopo il disastro del messinese evidenziammo che l’attuale sistema di monitoraggio delle precipitazioni non è in grado di capire in tempo reale se un cumulo nembo stia investendo una parte della superficie del suolo. La prevenzione dei danni alle persone, almeno, può contare su circa 30-60 minuti di tempo, in relazione alle caratteristiche fisiche locali. Che si può fare in questo tempo ridotto? Solo attivare dei piani di protezione dei cittadini accuratamente preparati e sperimentati. Considerando che le persone potenzialmente esposte agli effetti devastanti dei meteo-serial-killers sono almeno 500mila in Campania e che è impossibile mettere in sicurezza il territorio che è stato oggetto di diffusa e impropria, secondo le leggi della natura, occupazione, si ribadisce l’importanza di avvertire i cittadini che si può attivare subito una difesa, almeno, della vita umana. Fatalità, imprevedibilità dell’evento, colpa di qualcuno? è già iniziato il solito “protocollo” di azioni post disastro che, finora, ha lasciato tutto come prima.

Nel corso degli ultimi decenni, in quasi tutto il mondo «sviluppato», i redditi da lavoro dipendente hanno subito una riduzione di circa dieci punti percentuali di Pil a favore dei redditi da capitale e dei compensi professionali. L'aumento delle differenziazioni salariali e la diffusione del precariato ha reso questa redistribuzione ancora più iniqua, moltiplicando la schiera dei senza salario e dei working poor, cioè di coloro che pur lavorando non riescono a raggiungere un reddito sufficiente per vivere decentemente. La crisi ha messo in luce - e continuerà a farlo per anni - la profondità di questa trasformazione.

Una parte dell'impoverimento delle classi lavoratrici era stato a lungo occultato con l'indebitamento (mutui, acquisti a rate, carte di credito, «prestiti d'onore», usura) sul cui traffico è ingrassata la finanza internazionale con i suoi beneficiari, poi messi in salvo dalle misure anticrisi degli Stati. Questo processo ha alterato profondamente la struttura industriale del mondo. La produzione dei beni di consumo più popolari ha progressivamente abbandonato i paesi già industrializzati, per trasformare la Cina e gran parte del Sudest asiatico in un'area manifatturiera al servizio del resto del mondo. In compenso è enormemente cresciuto, al servizio dei ceti politici, manageriali e professionali più ricchi o di autentici rentier, ormai diffusi in tutti i paesi del mondo, un consumo opulento costituitosi in un vero e proprio comparto, denominato per l'appunto «lusso», che riunisce indifferentemente gioielli, abbigliamento, pelletteria, arredamento, auto, imbarcazioni, aerei personali, resort turistici, case e uffici principeschi, a cui è stato in larga parte delegato il compito di sostenere produzione e occupazione nei paesi di più antica industrializzazione: una sorta dei «keynesismo» di seconda generazione, in cui a sostenere la domanda non è più la spesa pubblica, ma quella dei ricchi.

Questa nuova allocazione delle risorse dà la misura dei guasti, in gran parte irreversibili, di un trentennio di liberismo. Difficilmente un aumento dei redditi popolari e della conseguente domanda di prodotti di consumo potrebbero avere effetti sostanziali su produzione e occupazione nei paesi di più antica industrializzazione; a meno di promuovere un processo di riterritorializzazione che, insieme alla rilocalizzazione degli impianti, investa contestualmente anche i modelli di consumo, gli stili di vita e la tipologia dei beni e dei servizi prodotti.

Come eliminare gli sprechi



È altamente improbabile, comunque, che nei prossimi anni si possa assistere a un sostanziale recupero salariale, visti gli attuali rapporti di forza, che in tutto il mondo hanno messo alle corde il lavoro dipendente: grazie alla facilità con cui le produzioni possono essere delocalizzate in paesi con salari e protezioni ambientali più basse (e con un interventismo di Stato più elevato: vedi il caso Fiat Serbia); ma anche ai flussi migratori messi in moto dalla globalizzazione: sia dell'informazione e dei trasporti che quella della miseria. Caso mai è più probabile che continui il trend di deflazione salariale attuale.

Pertanto, senza sminuire l'importanza di mantenere aperto il fronte della lotta per il salario, la difesa delle condizioni di vita dei percettori di redditi bassi - o di nessun reddito; o di qualche forma di assistenza progressivamente erosa dallo strangolamento del welfare state - va probabilmente affrontata con altri mezzi: soprattutto attraverso una riconversione dei modelli di consumo che non riduca l'accesso ai beni di base irrinunciabili - o che addirittura lo migliori - limitando però gli esborsi monetari, i consumi superflui e gli sprechi.

È ovvio che di questo indirizzo possono e dovrebbero diventare un punto di riferimento tutti coloro che hanno conservato una maggiore possibilità di aggregazione, e che in moti casi sono anche i più direttamente colpiti: cioè gli operai delle fabbriche, in particolare di quelle investite dalla crisi o sul punto di esserlo. Ma le loro battaglie potranno avere esiti positivi se riusciranno a mettere in moto processi che coinvolgano anche altre fasce sociali.

Innanzitutto, trasformazioni in questa direzione potranno avere tanto più successo quanto più le entità associative troveranno sostegno, legittimazione e supporti tecnici ed economici da parte delle amministrazioni locali; e, naturalmente, quanto più riusciranno a sviluppare una interlocuzione, legata a precise convenienze, con una parte, almeno, dell'imprenditoria: a partire da quella impegnata nel sistema distributivo e nel comparto agricolo, ma senza trascurare l'artigianato - soprattutto quello di manutenzione - e, attraverso processi più mediati, anche la grande impresa di produzione e di servizio. Il meccanismo che accomuna i diversi processi è, o parte, dallo stesso problema: aggregare domanda.

La politica dei vuoti a rendere



Cominciando dalle cose più semplici: la nostra spesa quotidiana è composta in larga misura da imballaggi inutili e costosi (Coldiretti ha calcolato, per una serie di items di largo consumo, che spesso l'imballaggio assomma a un terzo del valore del prodotto e a volta lo supera: la quarta settimana di salario se ne va direttamente nel cassonetto). Buone pratiche dal successo ormai consolidato dimostrano che molti di questi imballaggi, destinati a inquinare l'ambiente sotto forma di rifiuti e ad aggravare i bilanci dei Comuni (e degli utenti che pagano la Tia o la Tarsu) sotto forma di servizi di igiene urbana, possono essere eliminati con circuiti di vuoto a rendere o, in molti casi, con la vendita alla spina. Dove gli enti locali si sono impegnati a promuovere questi sistemi, diffusione e accettazione sono state più rapide. Lo stesso vale per l'usa e getta, dalle stoviglie ai gadget ai pannolini.

Tra il campo e il negozio l'intermediazione dei prodotti freschi assorbe fino a quattro quinti del prezzo finale. I Gas (Gruppi di acquisto solidale) hanno dimostrato che in molti casi è possibile instaurare rapporti diretti con gli agricoltori, garantendo la qualità biologica del prodotto, un maggior ricavo per i produttori e un risparmio per i consumatori. Un vantaggio analogo - anche se con minori controlli - lo offrono i farm market (mercati aperti alla vendita diretta da parte dei produttori agricoli). In entrambi i casi i Comuni possono giocare un ruolo centrale, innanzitutto nell'autorizzare, ma anche nel promuovere e sostenere, entrambi i processi.

Gli acquisti dei Gas, che sono una forma di auto-organizzazione dal basso, possono progressivamente estendersi a una gamma molto più ampia di prodotti, compresi molti beni durevoli: forse non tutte le intermediazioni possono essere facilmente bypassate; ma una convenzione con distributori disponibili, specie se promossa o garantita da un'amministrazione locale, può alleggerire notevolmente i ricarichi.

Da oltre un anno il mercato dell'energia è stato liberalizzato. Certo gli utenti non possono seguire giorno per giorno i corsi del kWh per scegliere di volta in volta il fornitore più economico. Ma quello che non può fare il singolo lo può fare per conto di tutti un'associazione; specie se a promuoverla o a garantirla è un Ente locale in grado di mettere a disposizione anche le competenze specifiche necessarie; magari ingaggiando o costituendo una Esco (Energy Saving Company, cioè una società autorizzata a svolgere operazioni del genere). La stessa operazione si può fare contrattando direttamente anche le bollette telefoniche e di connessione con i provider informatici.

E veniamo agli interventi più pesanti: costi e consumi di riscaldamento e condizionamento (e persino quelli di illuminazione) possono venir contenuti drasticamente con interventi sulle apparecchiature, sull'impiantistica e sugli involucri degli edifici, tutte cose che oggi sono incentivate e che potrebbero fruire di un Ftt (finanziamento tramite terzi) se eseguiti su larga scala. Una modalità che può azzerare i costi di installazione, ma a cui nessun privato ha la possibilità di accedere singolarmente. Un'iniziativa dell'Ente locale per promuovere l'accesso a questa opportunità in forma associata potrebbe sortire risultati rilevanti. Ovviamente il primo a mettere in ordine i propri edifici e impianti (anche per il suo effetto dimostrativo) dovrebbe essere l'Ente locale stesso, magari imponendo lo stesso intervento ai soggetti su cui può avere voce in capitolo: a partire dagli ospedali, grandi consumatori di energia per riscaldamento, raffrescamento, forza motrice e sterilizzazione.

Questo discorso vale a maggior ragione per il ricorso alle fonti rinnovabili; solare termico per acqua sanitaria e preriscaldamento dei locali, fotovoltaico, ma anche eolico (dove ce ne sono le condizioni), minieolico e biogas nelle aziende agricole e negli stabilimenti sparsi sul territorio.

L'auto (acquisto, assicurazione, carburante, manutenzione, parcheggio e multe) divora da un terzo alla metà dei redditi bassi. Si dice che nessuno è disposto a staccarsi da questa sua protesi, e in parte è vero. Ma un servizio efficiente di mobilità di linea e personalizzata, promuovendo e organizzando car pooling, car sharing e trasporto a domanda, può permettere, soprattutto a chi l'auto propria o due auto in famiglia non può più permettersele, di farne a meno: con risparmi sostanziali.

Recuperare i beni dismessi



Una grande risorsa è infine nascosta nel mercato dell'usato, oggi marginalizzato da un cumulo di divieti e dalle stigmate dell'esclusione. La quantità di beni durevoli avviati alla discarica o alla rottamazione senza essere né consunti né inutilizzabili è immensa. Qui il ruolo delle amministrazioni pubbliche può essere centrale. Sia per autorizzare raccolta, selezione, riabilitazione e commercio dei beni oggi destinati a ingrossare il flusso dei rifiuti (si pensi solo a quello che arriva nelle stazioni ecologiche), sia per legittimare e riconoscere un merito sociale a chi pratica, in qualsiasi posizione lungo la filiera del riuso, il recupero dei beni dismessi.

Strettamente legate alla estensione del riuso sono la capacità e la possibilità di riparare e di tenere in esercizio i beni durevoli che si guastano. Una capacità che può essere insegnata e diffusa: sia facendo riacquistare a ciascuno di noi, nei casi più semplici, una manualità a cui abbiamo rinunciato da tempo; sia creando le condizioni perché, nei casi più complessi, un esercito di artigiani sia disponibile a costi accettabili a prendersi cura dei beni da riparare; per permetterci di continuare a usarli, o per cederli a chi è disposto a riusarli.

È questo un grande bacino occupazionale, da tempo trascurato, ma che, oltre a ridurre gli sprechi, ha il vantaggio di riunire nella stessa persona manualità, attenzione (e persino amore) per le cose che ci circondano e competenze tecniche anche di altissimo livello: gli elementi essenziali del paradigma dell'«uomo artigiano» (Richard Sennett) in cui si concretizza la figura di lavoratore che ci porterà fuori, in positivo, dall'era fordista. Oltretutto, la presenza e l'accessibilità di reti diffuse e capillari di riparatori possono indurre una parte dell'apparato industriale a riconsiderare come fattori competitivi durata e riparabilità dei beni messi in commercio. Due caratteristiche oggi totalmente sacrificate all'alimentazione dei mercati di sostituzione; ma due formidabili fonti di risparmio per il consumatore.

Estate rovente o piogge torrenziali, siccità o diluvi un po’ dappertutto. In Italia il caldo è stato soffocante per gran parte di giugno e di luglio. Ed è stato aggravato, nelle grandi città, dall’ozono troposferico, che ha impoverito l’ossigenazione dell’aria che respiriamo. Ma l’estate è stata torrida in tutta Europa, negli Stati Uniti, Cina, Russia. Sopratt ut to, e per la prima volta, in Russia, colpita da un’ondata di calore mai raggiunta nei 130 anni di registrazioni ufficiali. Gli incendi spontanei dei boschi che lambiscono anche Mosca non hanno precedenti. Altrove, invece, abbiamo avuto alluvioni devastanti, inedite soprattutto in Pakistan.

Allora, è proprio vero che il clima sta cambiando? Io credo di sì; ma di per sé il gran caldo così come i grandi freddi non costituiscono prova sufficiente di niente. Anche se una frequenza crescente di oscillazioni climatiche estreme rafforza i nostri sospetti. Ma molti governi, Italia in testa, non fanno nulla per creare un’opinione «verde» né per affrontare seriamente il problema del collasso ecologico. La crisi economica è e resta grave, ma il problema della crescente invivibilità del nostro pianeta è molto, molto più grave. Eppure da noi è fiorita soltanto l’industria dell’eolico, dei mulini a vento. Ed è fiorita quasi s ol t a nt o perché fonte di tangenti e di intrallazzi. Perché l’energia prodotta dal vento è largamente un imbroglio, visto che la nostra penisola non ha abbastanza vento per giustificarla.

Anni fa il portavoce per eccellenza, di fatto, degli interessi petroliferi e di gran parte della grande industria è stato il da-nese Bjorn Lomborg , che con il suo molto reclamizzato libro L’ambientalista scettico negava la stessa esistenza del problema ecologico e anche la crescente scarsità delle risorse energetiche e dell’acqua. Ma Lomborg ora dichiara che «il riscaldamento globale esiste, è provocato dall’uomo, e che l’uomo deve fare qualcosa per porvi rimedio». Bene. Alla buon’ora. Lomborg soggiunge, però, che «la tattica consistente nell’incutere timore, per quanto abbia buone intenzioni, non è la soluzione giusta». D’accordo. Ma quale è la soluzione giusta?

Gli scienziati che oggi studiano il clima, la rarefazione delle risorse naturali e, in ultima analisi, il problema della nostra sopravvivenza, sono migliaia. S’intende che pos-sono s bagliare . Ma l a scienza procede provando e riprovando. E noi già dis poniamo di un enorme patrimonio di dati e di conoscenze che però vengono bellamente ignorate dai più.

Il fatto è che gli esseri umani non si muovono «a freddo» guidati dalle ragioni della ragione. Gli umani si attivano «a caldo», se hanno paura o se mossi da passioni (ivi incluse la passione per il potere e per il denaro). E così la scienza ricorre, per farsi ascoltare, a proiezioni con date ravvicinate di scadenza. Ma noi siamo in grado di prevedere un percorso, dei trends, non il «quando». Dunque predire scadenze è sbagliato; ma non farlo rende la predizione inefficace. Come uscire da questo circolo vizioso? Non lo so. Ma so che la politica dello struzzo dei nostri governanti è la politica peggiore.

STORIE

A caro prezzo

Più è privata e più costa

di Andrea Palladino

La multinazionale romana Acea aumenterà le bollette fino al 20% per accontentare gli azionisti. E non anticiperà gli investimenti nelle zone in emergenza idrica. Ma, non avendo rispettato il contratto con i comuni della Provincia, dovrebbe pagare una penale di 20 milioni di euro. Che potrebbero servire a diminuire i costi per i cittadini. Ma i sindaci la salvano: rivedremo la regola

Il diavolo si nasconde nei dettagli, dice un vecchio detto. E a volte in una banale bolletta dell'acqua si può scoprire la più grande balla che viene raccontata da qualche anno a questa parte: la gestione privata e il mercato sono l'unica vera soluzione per salvare i nostri acquedotti.

Conviene partire dalla fine della storia, dalla fattura che arriva nelle case italiane. Più precisamente dei romani, la cui acqua è fornita da tempo immemorabile da Acea, società divenuta nel frattempo privata e primo gestore italiano.

Il prezzo è giusto?

La bolletta dell'acqua si basa su una variabile indipendente, vero totem della gestione privata: il ricavo garantito per il gestore. Poco importa se c'è la crisi, ad Acea - così come ad Hera o Iride, ad Acqualatina o alla calabrese Sorical - alla fine dei conti gli utili devono essere garantiti. L'esempio più classico di come il prezzo dell'acqua si basi sui diabolici meccanismi del ricavo garantito viene da Firenze, dove il sistema idrico è gestito da Publiacqua, società controllata da Acea Holding. Quando i fiorentini iniziarono a risparmiare l'acqua, la società chiese di aumentare il prezzo per compensare la flessione della vendita.

Qualcosa di simile accadrà a Roma. Dal primo gennaio 2011 la società romana potrà fatturare solo i metri cubi realmente erogati e non una cifra a forfait, un sistema che ha garantito finora un ricavo stabile e sicuro ad Acea. Un atto dovuto, visto che in questo senso la legge parla chiaramente. Ma facendo i conti la società si è accorta che avrebbe incassato meno di quanto dovuto ed ha chiesto di aumentare la tariffa, con un incremento che in alcuni casi potrebbe arrivare al 20%. Chi comanda sul tavolo alla fine sono i conti, gli utili e gli azionisti.

Se la qualità sparisce

Il prezzo dell'acqua nella capitale d'Italia ha però qualche dettaglio - decisamente significativo - in più. Il contratto che regola la gestione del servizio idrico - approvato dai consigli comunali di 74 comuni della provincia oltre che di Roma - prevede un sistema per garantire l'efficienza di Acea. C'è un parametro nel costo dell'acqua - chiamato Mall - che dovrebbe diminuire il ricavo riconosciuto ad Acea quando qualcosa non funziona. In sostanza ogni anno, secondo il contratto in vigore, il gestore deve presentare i dati sui reclami, sulle interruzioni del servizio, sulla riduzione dell'erogazione dell'acqua e su altri parametri che misurano la qualità. Alla fine - si legge sempre nel contratto - ne deriva un numero in grado di ridurre i soldi che verranno dalle bollette.

Dal 2003 - anno della convenzione con Acea - ad oggi questo parametro non è stato mai applicato. Il perché lo spiega un documento preparato dalla segreteria tecnica operativa dell'Ato 2 e distribuito ieri ai sindaci della provincia di Roma: «Fino ad ora nonostante le numerose richieste il gestore non ha integrato tutte le informazioni necessarie per il calcolo di tali parametri e risulta quindi impossibile, a meno di simulazioni, calcolare il valore reale del parametro Mall». E subito dopo l'organo tecnico che si occupa di vigilare sulla gestione di Acea prova a fare due conti: «Tale simulazione, se fosse confermata, comporterebbe una penale di circa 20 milioni di euro all'anno». In altre parole, se il contratto con Acea fosse stato rispettato e si fosse calcolato il parametro che misura la qualità del servizio, alle famiglie di Roma e provincia l'acqua sarebbe costata 20 milioni di euro in meno. Un cifra che potrebbe arrivare - secondo il calcolo teorico realizzato dai tecnici - a 160 milioni di euro, considerando il periodo dal 2003 al 2010. Cifre difficili da confermare, visto che fino ad oggi Acea non ha fornito tutti i dati richiesti e dovuti.

La risposta la società l'ha data ieri durante la conferenza dei sindaci dei comuni della provincia di Roma. «Quel parametro non ci piace», ha spiegato l'amministratore delegato di Acea Ato 2 Sandro Cecili. E subito è arrivato l'assist da chi avrebbe dovuto far rispettare quella regola: rivedremo il sistema, hanno spiegato dal tavolo della presidenza dell'Ato 2.

L'utile è sacro

Il presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti ha un ruolo importante nella gestione dell'acqua nella zona di Roma. Coordina l'autorità d'ambito e rappresenta i comuni nell'assemblea dei soci di Acea Ato 2. Non ha un gran potere in realtà, visto che Acea Holding ha in mano il 97% del pacchetto azionario, lasciando il resto diviso tra provincia e i 74 comuni gestiti. Sarà forse per questo che la sua proposta di anticipare gli investimenti nelle zone dove l'emergenza idrica dura da anni è caduta nel vuoto. Di fronte ad un utile milionario la provincia di Roma aveva chiesto che il 50% fosse utilizzato come anticipo di cassa per intervenire subito. Nessun regalo, ovviamente, perché quei soldi «Acea li avrebbe integralmente recuperati con la tariffa nei prossimi anni», come spiega l'assessore provinciale all'ambiente Michele Civita. Ma Acea Holding - che ha il controllo pressoché totale della società che gestisce l'acqua in provincia di Roma - ha risposto con un no secco: quei soldi vanno agli azionisti. In fin dei conti loro l'acqua la vendono, e a che prezzo.

ACQUA IN BOCCA

Quando speculazione edilizia ci cova

di An. Pal.

L'interesse dei palazzinari romani per Acea - primi fra tutti il gruppo Caltagirone, divenuto primo socio privato - non ha solo un valore speculativo, legato ad investimenti in un settore a ricavo garantito. Acqua e cemento sono in realtà strettamente legati. Nessun piano di espansione urbanistica può funzionare se dove arrivano i palazzi non dovessero esserci acquedotti e fognature. Sapere dove realizzare condomini, villette e lottizzazioni significa avere la certezza della presenza - più o meno futura - dell'acqua. E a volte è proprio su questo versante che giocano i gestori delle risorse idriche. Sta accadendo proprio in questi giorni ad Aprilia.

«Festa d'Aprilia» era il titolo che annunciava la scelta rivoluzionaria del comune in provincia di Latina. Il consiglio comunale a fine aprile aveva votato una delibera chiara e netta: Acqualatina deve restituirci gli impianti, visto che non abbiamo mai approvato la convenzione di gestione. La società privata partecipata da Veolia non rispose. È rimasta silenziosa, aspettando, come si dice, il cadavere del nemico scorrere sul fiume. Qualche giorno fa lo stesso sindaco che aveva promosso quella delibera, il socialista D'Alessio, ha garantito di voler cedere ad Acqualatina una nuova parte di fognatura. Il motivo di questa scelta è presto detta: senza quell'atto tanti costruttori non potranno avere l'abitabilità e vendere gli appartamenti appena realizzati. Senza acqua e senza fogne l'espansione edilizia non sarebbe possibile.

Qualcosa di analogo accade anche in provincia di Roma. Ci sono città nella zona a sud della capitale dove i depuratori servono solo la metà della popolazione. È il caso di Velletri, dove decine di cantieri sono stati realizzati in una zona con fogne a cielo aperto, senza collegamento alla depurazione. Quando chi comprerà quegli appartamenti andrà da Acea, si vedrà negare l'allaccio dell'acqua. E se il sindaco non vorrà trovarsi davanti alla porta i palazzinari infuriati dovrà contrattare con il gestore romano gli interventi.

Lo stesso - in scala maggiore - avviene con l'acqua potabile. Migliaia di persone si stanno spostando dalla capitale verso i Castelli romani, zona in eterna emergenza idrica e con la maggiore speculazione edilizia della regione Lazio. E le chiavi dell'acquedotto sono in mano ad Acea.

POLEMICA

Chiamparino, non privatizzare i servizi pubblici

di Ugo Mattei

Come ben noto è in corso una campagna referendaria volta alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato su tutto il territorio nazionale. Tale campagna chiama in modo chiaro e non ambiguo l'elettorato a pronunciarsi sull'inadeguatezza della società per azioni (anche a capitale interamente pubblico) e della logica privatistica ed aziendalistica che essa sottende nella gestione del servizio idrico integrato. Si chiede fra l' altro l'abrogazione completa dell'art 15 del cosiddetto decreto Ronchi. Il servizio idrico integrato è una specie del più ampio genere servizio pubblico, ed il decreto Ronchi infatti non riguarda il solo servizio idrico ma tutti i servizi pubblici di interesse economico. Ne segue che allo stato attuale si trova sotto esame referendario una parte cospicua della normativa ai sensi della quale sono messi a gara i servizi pubblici. I dati raccolti in tre anni di lavoro presso l'Accademia Nazionale dei Lincei e pubblicati nel volume "Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica" (a cura di Mattei-Reviglio e Rodotà per il Mulino, 2007) mostrano come quasi vent'anni di privatizzazioni in Italia abbiano comportato dei fenomeni generali e costanti: aumento dei prezzi al consumo; declino negli investimenti; aumento del budget per la pubblicità; aumento degli stipendi dei managers; aumento delle spese per le parcelle di servizi professionali quali studi legali e consulenti vari.

La visione politica del movimento referendario (che ha raccolto ormai oltre un milione di firme) è quella di far rivivere in Italia le condizioni per una piena attuazione dell'art. 43 della Costituzione, quello che governa la riserva e il trasferimento di attività naturalmente monopolistiche (come il servizio idrico) o di primario interesse generale (e qui potrebbero aprirsi scenari entusiasmanti, dalla riconversione di Termini Imerese e Pomigliano ai trasporti urbani) a «comunità di utenti e di lavoratori».

Purtroppo la lettura della delibera comunale di Torino che vuole «mettere a gara» l'intero settore del trasporto pubblico urbano (Gtt) non senza avervi prima scorporato, con un' operazione di puro diritto societario, la metropolitana (servizio per sua natura in perdita e quindi assai meno appetibile per il privato) mostra l'arretratezza che ancora domina i principali partiti del centrosinistra. La logica che informa la delibera è infatti quella puramente aziendalistica (e privatistica) nel merito, nel metodo e (ancor più fastidiosamente) nella retorica. La clamorosa superficialità giuridico-politica dell'operazione è denunciata anche dall'Agenzia per i servizi pubblici locali del Comune di Torino (un organismo indipendente di consulenza giuridico-amministrativa) nel suo parere a proposito del proposto «contratto di servizio per l' erogazione dei servizi relativi alla mobilità urbana», redatto in esecuzione della delibera comunale. Il contratto infatti sembra un caso di scuola dell'incapacità per il «principale» (il Comune) di governare le «asimmetrie informative» che favoriranno l'«agente» (la società di diritto privato che gestirà la mobilità). Purtroppo i problemi tecnico-giuridici segnalati dall'Agenzia non sono rimediabili con meri cambi del testo contrattuale per il semplice fatto che le contingenze future in una materia tanto complessa quanto la mobilità urbana non sono prevedibili e governabili ex ante. Questo limite strutturale del diritto dei contratti a governare il rapporto fra principale ed agente è ormai arcinoto nella letteratura giuridica ed economica (che infatti sempre più spesso propone il trust).

Purtroppo nel nostro sistema istituzionale "tornare indietro" dopo una privatizzazione fallimentare è estremamente difficile. Infatti le garanzie contro l'espropriazione per pubblica utilità tutelano il privato contro il ritorno al pubblico. In sostanza a Torino un'amministrazione comunale in scadenza muove passi irreversibili verso la privatizzazione di un servizio pubblico essenziale quale il trasporto locale (che andrebbe governato con la stella polare dell'ecologismo e non certo dell'aziendalismo) proprio mentre è in corso un processo referendario volto a cancellare il presupposto fondamentale (legge Ronchi) che legittima quest'azione.

Mi pare ci sia più di una ragione giuridica, politica e di opportunità perché Chiamparino rinunci al suo proposito e perché, più in generale, la cittadinanza si attivi per impedire questi colpi di coda del grande saccheggio del pubblico a favore del privato: a Torino come altrove i sostenitori politici dell'aziendalismo stiano disperatamente tentando di battere sul tempo Corte Costituzionale e referendum.

Andrea Palladino, Davide contro Golia

Marco Bersani e Corradio Oddi, Per l’acqua e la democrazia

Ugo Mattei, Da uno a venticinque milioni

Francesca Stroffolini, Il privato costa di più

DAVIDE CONTRO GOLIA

di Andrea Palladino

Un milione di firme in due mesi. Il movimento per l'acqua pubblica riparte da cittadini e associazioni. Senza partiti e lobbies, contro la gestione delle multinazionali dei servizi. A luglio le firme in Cassazione. In primavera il voto

Un milione tondo tondo di firme per l'acqua pubblica. Ovvero duecento cinquantamila in più del traguardo che inizialmente il Forum si era dato per questa campagna referendaria. Una gigantesca grande risposta a politiche di governo liberiste. Un movimento in tanti aspetti simile a quello nato all'epoca del G8 di Genova: i partiti sono ospiti, una rete diffusa, capillare e solida di movimenti e associazioni. E' impossibile nelle pagine di un giornale elencare le centinaia di sigle che hanno reso possibile un obiettivo così straordinario. Si possono indicare le aree, sapendo che si sta facendo il torto a qualcuno: i cattolici progressisti insieme ai centri sociali, interi pezzi di sindacato (soprattutto Cgil e Cobas) insieme alle associazioni di consumatori, il mondo ambientalista al gran completo, fino ai lavoratori delle società che gestiscono l'acqua. E poi cittadini comuni, quell'onda che progressivamente cresce attorno al popolo viola, le piazze per la difesa del diritto all'informazione, pezzi di quell'Italia che vuole capire perché siamo il paese più autoritario, più liberista e meno libero d'Europa.

Per capire conviene fermarsi in uno dei banchetti sparsi in Italia: «Acqua pubblica? Non c'è bisogno di spiegare nulla, firmo subito», è la frase più comune. Poi la seconda domanda riguarda il marchio doc: «Non siete per caso quelli dell'Idv, vero?», come chiedeva un'anziana signora a Roma. Domande a fiumi: come difendersi dalle società private, come ribellarsi all'aumento delle tariffe, come fare le analisi all'acqua che beviamo. In un clima che può ricordare le feste di paese. Come quando sulla cima dello Zoncolan, durante il giro d'Italia, sono apparsi i banchetti, scatenando gli applausi dei tifosi. O come a Nettuno, la settimana scorsa, quando le persone hanno lasciato la spiaggia per andare ad ascoltare Ascanio Celestini, e a firmare.

A ripercorrere a ritroso la strada che ha portato alla mobilitazione milionaria, si trovano episodi che raccontano bene quanto vale questo milione di firme. Due erano gli ostacoli solo apparentemente insormontabili, i partiti politici e l'informazione. Partiamo dall'ultimo, è una storia che ci riguarda da vicino. Fino a pochi mesi fa il tema acqua pubblica era sostanzialmente un tabù. E d'altra parte guardando le grandi imprese e i forti poteri finanziari che si nascondono dietro la privatizzazione delle risorse idriche si trovano nomi che pesano nei media mainstream. Grandi gruppi come Acea, ad esempio, hanno tra gli azionisti industriali di peso come Caltagirone, salito oggi al 13% della società romana, pronto a scalare il gruppo in vista dell'ulteriore privatizzazione già avviata da Alemanno. Il nuovo colosso multiutility del Nord, Iride, ha visto l'ingresso pesante di F2I, alla cui presidenza siede il nuovo banchiere di dio Ettore Gotti Tedeschi, a capo dello Ior, la banca del Vaticano. O le potentissime lobby delle acque minerali, budget destinati alla pubblicità in grado di interferire nelle scelte del mondo televisivo. Golia contro le voci che hanno accompagnato in questi anni la crescita del movimento per l'acqua pubblica, raccontando cosa significa privatizzare l'acqua, trovandosi davanti alla porta i tecnici delle multinazionali e i vigilantes pronti a tagliare i tubi se non riesci a pagare.

Il vero ostacolo, quello apparentemente più difficile, è venuto però dai partiti, anche dell'opposizione. Al momento della presentazione dei quesiti fu l'Italia dei Valori, con un Di Pietro particolarmente agguerrito, a cercare di allungare una gamba per lo sgambetto. Prima l'IdV chiese un posto in prima fila nel comitato organizzatore del referendum, dopo aver capito che quell'anomalo movimento poteva arrivare molto lontano; poi forzò la mano, presentando un quesito alternativo - che mantiene il modello privato come una delle scelte possibili di gestione - sul tema dell'acqua.

Segue la questione Pd. O meglio, di una parte del Pd. O, meglio ancora, probabilmente di una parte minoritaria del Pd. Una posizione ufficiale, come è noto, ancora non c'è. Ufficialmente si è espresso contro i referendum e contro la totale gestione pubblica dell'acqua il gruppo che si riconosce nella componente "ecodem". L'impressione è che nell'alta dirigenza conti probabilmente molto il Pd "di governo", quella parte del partito che è storicamente vicina alle gestioni miste pubblico private - vedi il modello Toscana, o il colosso Acea - oggi in forte difficoltà rispetto ad un referendum chiaro e radicale.

I partiti della sinistra hanno invece accolto l'invito del Forum a dare una mano senza protagonismi. Federazione della sinistra, Sel, Verdi, Sinistra critica e PCdL fanno parte del comitato di sostegno al referendum, dando un sostegno deciso ma autonomo.

Quel milione tondo tondo di firme è dunque stato possibile grazie alla mobilitazione nata e cresciuta dal basso, nelle piccole sedi improvvisate di centinaia di comitati locali, abituati ad aprire le porte a cittadini di ogni tipo, arrivati con bollette a tre zeri in mano e magari con l'acqua staccata. Sono comitati dove in prima fila trovi le donne che fanno i conti per prime con la crisi economica e con la scientifica capacità predatoria delle multinazionali dei servizi, o gli anziani, memoria storica della capacità di combattere al minimo odore di ingiustizia. E poi professionisti, operai, insegnanti, precari stufi di essere visti come la parte flessibile del lavoro, stranieri che scoprono come l'Italia non sia quel paradiso promesso e non mantenuto. Un'esperienza di lotte e vertenze accumulate in cinque anni, partite dopo le prime privatizzazioni vere, spacciate per gestione mista.

La macchina organizzativa per i referendum è partita a fine marzo, grazie a volontari e forme creative di autofinanziamento. C'è chi ha creato il gadget richiestissimo delle borracce con la scritta "l'acqua non si vende", chi ha preparato i manifesti che univano il 25 aprile con la liberazione dell'acqua, chi si è ingegnato a realizzare i sistemi informatici per il conteggio delle firme. Ma subito tutti hanno capito la potenzialità dirompente dei tre quesiti: chiedere una gestione pubblica senza se e senza ma, mettendo all'angolo le mediazioni, gli interessi e quel sistema gelatinoso che garantisce lobbies e affari era quello che questo paese aspettava. Non servivano manifesti, campagne pubblicitarie e informazione diffusa. I referendum dell'acqua pubblica vincono proprio perché sono radicali, perché toccano sulla carne viva un paese ferito. Un vero uovo di Colombo.

PER L'ACQUA E LA DEMOCRAZIA

di Marco Bersani (Attac Italia) e Corrado Oddi(FP-Cgil)

In soli 50 giorni un milione di donne e uomini hanno firmato i tre referendum per la ripubblicizzazione dell'acqua. Un risultato straordinario, ottenuto da una grande coalizione sociale promossa dal Forum italiano dei movimenti per l'acqua e dal capillare e reticolare impegno di migliaia di comitati sorti in tutto il Paese. Senza padrini politici, senza grandi finanziatori, nel più completo silenzio dei più «importanti» mass media.

Qualcosa sta succedendo in questo paese. Una nuova narrazione sull'acqua e dei beni comuni, frutto di un decennio di sensibilizzazione e di mobilitazione sociale, è emersa, dimostrando come su questo tema abbiamo già vinto culturalmente. Basta vedere le scomposte reazioni dei fautori delle privatizzazioni - Governo, Confindustria e Federutility in primis - i quali, se solo pochi anni addietro potevano rivendicare apertamente il dogma del «privato è bello», sono oggi costretti a giocare in difesa, a negare di voler privatizzare, a diffondere cortine fumogene sul pericolo referendario. Consapevoli di aver perso il consenso, faticano tuttavia a rendersi conto di come dietro a questa straordinaria mobilitazione popolare ci sia molto di più.

Perché il milione di donne e uomini che hanno sottoscritto i referendum forse non hanno ancora interamente acquisito tutta la complessità del tema acqua e privatizzazioni, ma nel loro incedere a testa alta verso i banchetti hanno dimostrato una forte consapevolezza sulla posta in gioco : mettere uno «stop» all'ideologia del mercato come unico regolatore sociale e invertire la rotta, riappropriandosi dell'acqua e dei beni comuni, che solo una democrazia partecipata e condivisa può gestire a finalità sociali.

Quel milione di donne e uomini sono un nuovo anticorpo sociale che parla all'intero Paese e alla crisi economica, ambientale e di democrazia che lo attanaglia. Dice a chiare lettere che gli attacchi ai diritti sociali e del lavoro, la privatizzazione dell'acqua e dei beni comuni, la demolizione della Costituzione e della democrazia non sono uno scenario ineluttabile, bensì il frutto di scelte politiche ancora una volta dettate da questo governo e dagli interessi dei grandi poteri economici-finanziari.

Quel milione di donne e di uomini sta indicando un'altra direzione : dalla crisi si esce attraverso la redistribuzione del reddito verso il lavoro e i ceti più deboli e attraverso l'appropriazione sociale di ciò che ci appartiene, a partire dal bene più essenziale di tutti, l'acqua. Dalla crisi si esce attraverso un nuovo ruolo del pubblico e della democrazia, che devono essere fondati sulla partecipazione popolare.

In questi mesi, con quest'esperienza, si è costruito uno straordinario laboratorio sociale. Ma sappiamo che è solo il primo passo. Perché dalla vittoria culturale si passi alla vittoria politica, occorrerà, entro la prossima primavera, trasformare questo milione di firmatari in almeno 25 milioni di votanti. Sarà un percorso difficile ed entusiasmante; avrà bisogno di tutte le donne e gli uomini che vogliono liberare l'acqua, rifondare la democrazia, redistribuire la speranza. Oggi possiamo intraprenderlo con nuova fiducia, tutti insieme.

I due autori sono membri del Forum Italiano Movimenti per l'acqua

ACQUA BENE COMUNE-IL MANIFESTO

Da uno a venticinque milioni

di Ugo Mattei



Nessun giornale ha seguito negli anni la battaglia globale contro la privatizzazione dell' acqua tanto da vicino quanto il manifesto. In Italia la copertura mediatica fin qui ottenuta dall' imponente movimento politico che ci ha condotti al raggiungimento dello storico traguardo di un milione di firme per i Referendum promossi dal Forum (www.acquabenecomune.org) e dai giuristi del Comitato siacquapubblica (www.siacquapubblica.it) è stata pressoché inesistente.

Malgrado ciò, la consapevolezza dell' importanza della battaglia politica per i beni comuni che stiamo conducendo incominciando dall' acqua si sta diffondendo a tutti i livelli della società italiana con ritmo più che incoraggiante.

E all' esperienza di lotta italiana, la prima di queste dimensioni in un paese occidentale ricco, cominciano a guardare con interesse e speranza milioni di compagni di paesi lontani, soprattutto in America Latina. Sicché il Forum italiano in questi mesi interpreta l' avanguardia della lotta globale contro il più inquietante e pericoloso fra i saccheggi del bene comune che le multinazionali stanno perpetrando.

Il compito che ci attende di qui a circa un anno è molto impegnativo ma non impossibile. Sul piano giuridico occorre argomentare in modo stringente, per impedire alla Corte Costituzionale di scippare il movimento del suo diritto a far esprimere il popolo sovrano. Abbiamo preparato bene i quesiti, ma non di rado in passato, soprattutto in materia referendaria, la discrezionalità della Consulta si è trasformata in valutazione di opportunità politica. È anche per questo che abbiamo deciso di non fermarci dopo aver raggiunto la soglia di sicurezza (circa 650.000 firme) e che non ci fermeremo neppure ora che abbiam raggiunto la storica cifra a sei zeri!

Sul piano politico bisogna attivarsi fin da subito per portare alle urne circa 25 milioni di elettori per superare il quorum di validità (50% +1 degli aventi diritto) e far rivivere il nostro più importante strumento di democrazia diretta. Ciò rende indispensabile non abbassare la guardia dopo aver consegnato le firme e soprattutto inventare modi creativi per tenere alta l' attenzione e la mobilitazione sul nostro tema (perché Vasco o Ligabue non fanno una bella canzone?).

In ogni caso noi riteniamo che il successo di una battaglia come la nostra dipenda (come peraltro la salvezza ecologica del pianeta) più dalla moltiplicazione di microcomportamenti di attivismo politico che non dalla (improbabile) apertura di un grande dibattito sui media. È assai probabile che, come sempre , i nemici della democrazia diretta utilizzino la strategia di invitare gli elettori ad «andare al mare» per far fallire il referendum piuttosto che misurarsi democraticamente sul merito della questione che stiamo rivolgendo al corpo elettorale.

In pratica quindi ogni firmatario ha un anno di tempo per convincere 25 elettori che non hanno firmato ad andare a votare (anche no!) al referendum sull'acqua entrando così democraticamente nel merito dei nostri argomenti nostri e di quelli dei nostri antagonisti. Un anno per parlare di un tema reale mentre si prende il caffè o sul tram, facendo rivivere la democrazia della partecipazione respingendo quella delle rassegnazione e dell' astensionismo. Basterà che tutti convincano due non firmatari al mese, uno ogni due settimane! E per raggiungere anche qui una soglia di sicurezza, proviamo a convincerne uno a testa alla settimana. Non è impossibile.

Anche ai tempi del referendum elettorale contro la partitocrazia che produsse il crollo della prima repubblica Craxi e gli altri invitarono gli elettori ad andare al mare... Forse fra un anno, con la crisi che morde, matureranno finalmente le condizioni per spazzare questa oscena seconda repubblica fatta non solo di berlusconismo pacchiano ma anche di conformismo privo di speranza.

Il manifesto, pubblica tutti insieme sul suo sito una ricca selezione di scritti apparsi durante questa campagna perché vuole offrire uno strumento in più da utilizzare nel nostro mini-compito personale di persuasione... ricordiamo: due amici alla settimana da subito! Se avessimo avuto i soldi lo avremmo distribuito ai nostri lettori in edicola...ma questa è un' altra storia di beni comuni a rischio di cui purtroppo ci sentirete ancora parlare fra poco.



Il privato costa di più

di Francesca Stroffolini

Nel dibattito originato dai referendum per la gestione pubblica del servizio idrico integrato sembrano fronteggiarsi due posizioni: da un lato quella dei promotori che giustificano la necessità di mantenerne pubblica la fornitura con la natura di «bene comune» e socialmente rilevante dell'acqua, che non può dunque sottostare alle logiche di profitto; dall'altra la posizione di coloro che sostengono la convenienza di affidare al privato la gestione del servizio con la convinzione che questo di per sé garantisca minori costi, maggiori investimenti per il miglioramento della rete di distribuzione e quindi anche maggiore vantaggi per i consumatori in termini di minori tariffe e maggiore qualità. E' proprio questa convinzione che qui si intende brevemente mettere in discussione.

L'osservazione da cui partire è che nei settori regolamentati, come quello idrico, l'Autorità Pubblica non ha le stesse informazioni dell'impresa regolamentata riguardo alle caratteristiche del settore (tecnologia, domanda) e quindi ai costi efficienti di fornitura del servizio. Ne consegue che l'unico modo che ha per indurre l'impresa privata a ridurre i costi è consentirle di appropriarsi dei maggiori profitti che ne derivano. E' questo il meccanismo di regolamentazione del Price Cap, utilizzato nel settore idrico, che fissa un prezzo massimo che non varia, per un certo intervallo di tempo, al variare dei costi. In tal caso qualsiasi riduzione di costo, non modificando il prezzo, si traduce esclusivamente in profitto dell'impresa privata senza alcun beneficio per i cittadini.

Ma se il prezzo è indipendente dai costi, il profitto dell'impresa aumenta anche nel caso in cui la riduzione di costo derivi da fattori esterni non dipendenti dal comportamento dell'impresa: in tal modo il profitto si converte in pura rendita. Inoltre, proprio l'obiettivo del profitto fa sì che l'impresa privata non tenga conto degli effetti negativi che la riduzione dei costi può avere sulla qualità dei servizi né avrà incentivo a realizzare investimenti costosi quali quelli richiesti da manutenzione e miglioramenti della rete di distribuzione dell'acqua che generano benefici sociali di lungo periodo.

L'Autorità Pubblica non ha modo di ovviare a questi problemi, punendo l'impresa nel caso di cattiva qualità del servizio e di perdite nella rete idrica. Uno dei motivi è che la rete idrica è nel sottosuolo e la sua qualità non è accertabile, quando il contratto di concessione è affidato all'impresa privata. Inoltre, soprattutto nel caso di contratti di lunga durata, si possono verificare eventi esterni, non prevedibili al momento del contratto e non verificabili dalle parti, che influenzano i costi degli investimenti e della gestione dell'infrastruttura. Ne consegue la non dimostrabilità delle cause ultime di un'eventuale perdita o interruzione del servizio: comportamento non adeguato dell'impresa, eventi sopravvenuti o iniziali cattive condizioni della rete idrica. Il risultato è che l'Autorità Pubblica non può richiedere l'intervento di un terzo esterno (giudice) per punire l'impresa.

Infine, è opportuno rilevare che, a causa delle elevate economie di scala che caratterizzano il settore idrico, le imprese private sono spesso multinazionali operanti in diversi settori. Tale aspetto, unitamente alla necessità di garantire la fornitura del servizio, pone l'Ente locale in una posizione contrattuale di debolezza rispetto all'impresa privata, in caso di rinegoziazione del contratto per eventi imprevisti (es. aumenti dei costi), comportando inevitabilmente una modifica dei termini contrattuali a favore dell'impresa privata.

Alla luce di queste considerazioni ritengo che il «governo» del servizio idrico dovrebbe articolarsi sui seguenti punti:

a) proprietà pubblica della rete e gestione pubblica dell'infrastruttura e della fornitura del servizio idrico, sottratta alle logiche del profitto;

b) partecipazione e controllo diretto da parte dei cittadini e dei lavoratori alla gestione del servizio;

c) trasferimenti centrali agli Enti Locali per finanziare investimenti infrastrutturali.

Ciò richiama la necessità di rimettere in discussione il processo d'attuazione di un federalismo fiscale che - così come va delineandosi - inevitabilmente comporta la privatizzazione forzata dei servizi locali.

E' un compito irrealistico? Può darsi, ma forse la sinistra ha perso anche per aver scambiato per «realismo» la mancanza di coraggio nell'avanzare proposte davvero alternative rispetto a quelle che sono presentate come direzioni ineluttabili del mutamento nella organizzazione della cosa pubblica.

«L'acqua è un bene comune, di proprietà collettiva, essenziale e insostituibile per la vita». La disponibilità e l'accesso all'acqua potabile fa parte dei «diritti inviolabili e inalienabili della persona umana, diritti universali non assoggettabili a ragioni di mercato». La Puglia segna un colpo sul terreno della buona amministrazione e della buona politica. Il primo atto della seconda giunta Vendola è una riforma senza precedenti dell'acquedotto pugliese. Il ddl approvato ieri sarà il primo ad approdare nel nuovo consiglio regionale. «Contiamo di approvarlo definitivamente entro l'autunno», spiega l'assessore Fabiano Amati.

E' un provvedimento straordinario per quello che c'è scritto ma anche per come è stato costruito. Questa versione infatti nasce grazie a due diverse delibere dell'ottobre scorso che hanno istituito un tavolo paritetico formato da 5 esperti scelti dalla regione e 5 esperti scelti dal comitato pugliese «acqua bene comune» e dal forum italiano dei movimenti per l'acqua.

Il risultato finale è quasi una bestemmia ai tempi del decreto Ronchi. Il ddl trasforma il più grande acquedotto d'Europa in un «soggetto di diritto pubblico senza finalità di lucro che persegue il pareggio di bilancio» (art. 5). La regione pagherà di tasca propria una quota minima vitale di acqua (stabilita in base alle tabelle Oms) a ogni cittadino pugliese. Tra i nuovi principi che regolano il «servizio idrico integrato» (art. 2) si stabilisce che deve essere «privo di rilevanza economica e sottratto alle regole della concorrenza», affidato «esclusivamente» a una «azienda pubblica regionale» in grado di garantirlo secondo «efficacia, efficienza, trasparenza, equità sociale, solidarietà, senza finalità lucrativa e nel rispetto dei diritti delle generazioni future e degli equilibri ecologici». La regione istituirà due fondi per l'acqua: il primo garantirà i livelli essenziali a livello locale, il secondo (fondo di solidarietà internazionale) finanzierà il sostegno a progetti di «cooperazione decentrata e partecipata» nei paesi in via di sviluppo.

Il ddl precisa infine che gli eventuali utili nel bilancio dell'Aqp saranno finalizzati «esclusivamente al miglioramento del servizio».

Ma come sarà gestita in concreto la nuova società? Il ddl prevede un «consiglio di sorveglianza» aperto a «lavoratori, associazioni ambientaliste, consumatori, sindacati e rappresentanti di comuni e cittadini». Ai vertici dell'Aqp siederanno un presidente e un vicepresidente scelti direttamente dal presidente della regione.

Gli altri tre membri del consiglio di amministrazione invece saranno eletti da un'assemblea di tutti i comuni pugliesi, in base al principio una testa, un voto. Ogni sindaco esprimerà al massimo due preferenze e avrà tanti voti quanti sono i cittadini residenti nel comune all'ultimo censimento. I vertici durano in carica tre anni, possono essere rinnovati una sola volta anche non consecutiva e in caso di gravi inadempienze o inerzia possono essere revocati dal presidente della regione.

Soddisfatti i comitati pugliesi. «E' un disegno di legge inedito nel merito e nel metodo - commenta Margherita Ciervo del comitato regionale «acqua bene comune» - primo perché si sceglie una ripubblicizzazione vera e la partecipazione». E poi perché «sicuramente è la prima volta in Italia e forse anche in Europa che una legge sull'acqua viene scritta in modo congiunto da istituzioni e comitati attraverso un tavolo ufficiale e non una semplice consultazione».

Ovviamente la strada dell'approvazione definitiva non è priva di difficoltà. Finora l'Aqp era una spa a totale partecipazione pubblica. Per prima cosa la Puglia (che possiede l'87% delle azioni) dovrà comprare il restante 13% dalla regione Basilicata. Secondo una stima di Ernst & Young si tratta di una spesa di 12,2 milioni di euro. E poi ci si aspetta sicuramente una battaglia col governo Berlusconi. «La concessione dell'Aqp scade nel 2018 - spiega Amati - sembra lontano ma per la burocrazia è un attimo». Senza contare che non tutto il Pd (vedi area dalemiana) è favorevole a una soluzione di questo tipo per la gestione dell'acqua.

Ma che in Puglia la questione sia piuttosto sentita dai cittadini lo dimostrano le firme raccolte per i tre referendum sull'acqua pubblica: in soli tre week-end ne sono state raccolte 48mila. Ben oltre l'obiettivo prefissato e già quasi un decimo del totale necessario. Sarà un autunno caldo.

Oggi si può contribuire a invertire la rotta per fermare il saccheggio dei beni comuni andando a firmare i tre referendum sull'acqua. Lo hanno capito in tantissimi accalcati ogni giorno ai banchetti di raccolta firme. Il movimento referendario intorno all'acqua "bene comune" costituisce il più entusiasmante segnale di vitalità politica da molto tempo a questa parte. Lo hanno capito centinaia di migliaia di persone, pur frastornate dalle imitazioni fasulle come il referendum dell' Idv o la petizione del Pd che "il meglio è nemico del bene", soprattutto quando a proporre soluzioni migliori rispetto ai tre referendum è chi per anni non ha fatto nulla di concreto per fermare la deriva liberista, la privatizzazione, il saccheggio in cui il nostro paese si è abbandonato. A partire dalla "fine della storia" e dal collasso della prima repubblica.

La battaglia referendaria sull' acqua come bene comune, è oggi una civilissima epifania italiana di un violento scontro globale prodotto da una nuova grande trasformazione che, come quella descritta da Polanyi agli albori della modernità, cerca sempre più di concentrare nelle mani di pochi la ricchezza di tutti. Intorno ai nostri banchetti si sta svolgendo la battaglia antropologica fra la persona, dotata di diritti e doveri costituzionali, e l'homo oeconomicus, furbo, speculatore, irresponsabile e pronto a tutto pur di arricchirsi ancora un po'. Una battaglia furibonda che, in una diversa e più drammatica declinazione, abbiamo visto in questi giorni nelle piazze di Atene. Da una parte comunità di persone in carne ed ossa, portatrici di diritti e di preoccupazioni politiche e culturali che affondano le radici nel passato e gettano ponti verso il futuro. Dall'altra le corporation, realizzazione mostruosa dell' homo oeconomicus, che massimizzano il profitto di brevissimo termine senza scrupoli né preoccupazioni per il bene comune, per la storia, per la natura, per la stessa sopravvivenza.

E' la battaglia dell' interesse privato contro il bene comune, qualcosa di ben più grande e ben diversamente complesso rispetto alla riduzione, utilizzata da tanti politici in Italia ed Europa, dell' economia e della finanza contro la politica. Lo scontro è quello fra una retorica bipartisan sulla crescita, lo sviluppo, l'efficienza, la meritocrazia, che altro non è che arbitrio dei Consigli di Amministrazione e una realtà di lavoratori di migranti di persone ordinarie sempre più soccombenti e spremute da processi sociali determinati solo dal profitto. Quasi sempre politica e capitale finanziario stanno dalla stessa parte, che non è quella delle persone.

In questa battaglia non è ammesso non schierarsi, perché la scelta è tra aprire la via a nuovi modelli di governo democratico ed ecologico dell' economia o rilegittimare il modello dominante in crisi e collocarsi così dalla parte del capitale anziché delle persone e delle comunità.

Caro senatore Della Seta, cercare di delegittimare come "schematiche" le posizioni chiare e oneste di quanti dicono «solo chi firma i tre referendum vuole l'acqua bene comune», costituisce una strategia che non sta dalla parte delle persone e dei loro bisogni ma da quella dei Consigli di Amministrazione e del chiacchiericcio da super-vertici tecnocratici. Suvvia! Ha firmato perfino Franceschini!

Oggi, dopo vent'anni, siamo finalmente giunti alla fine della fine della storia. Le code ai banchetti referendari in Italia, come i lavoratori disperati nelle piazze in Grecia, dicono al mondo che bisogna invertire la rotta.

I beni comuni devono rimanere fuori dalle logiche di mercato. Possono essere gestiti solo nell’interesse del territorio cui appartengono, del suo sviluppo e dei suoi abitanti. Guardando al passato si trovano soluzioni di grande modernità, come quelle che le comunità hanno adottato da sempre per amministrare i boschi o gli alpeggi Quando il bene comune diventa una merce

Circa 250 mila cittadini hanno firmato per il referendum "L’acqua non si vende" che, senza scendere in tecnicismi, ha lo scopo di fermare la privatizzazione dell’acqua pubblica. Io sto con loro, firmo; non solo, ma sono a favore delle proposte che stanno arrivando da più parti per rendere effettiva la possibilità delle amministrazioni locali di dichiarare il servizio idrico «privo d’interesse economico», escludendolo così dal pacchetto di servizi da "liberalizzare" secondo il decreto Ronchi. Questo decreto, infatti, consente la privatizzazione degli acquedotti e dei vari servizi idrici collegati, previa gara d’appalto. Così facendo si consentirà a potenti gruppi di interesse economico di trattare l’acqua come fosse una qualunque merce, e quindi di farci pagare non tanto un servizio, come oggi accade in situazioni di gestione pubblica, ma il bene stesso, come se esso appartenesse a chi ce lo "vende". Il privato ha come fine quello di fare utili, le strade possono essere due: aumentare i prezzi o risparmiare sugli investimenti.
Sono contro la privatizzazione dell’acqua non perché sia contro la privatizzazione tout court, ma perché il modo di procedere di questo decreto sta consegnando le reti idriche nelle mani di capitalisti senza imporre loro nessuna regola che li obblighi a proteggere l’essenza di quello che è un bene comune.

Questo è l’acqua: una cosa di tutti. Una cosa che tra l’altro comincia a scarseggiare a livello planetario, e quindi fa gola a livello economico. Non va semplicemente comprata e venduta però, va gestita affinché tutti ne abbiano, perché non ci siano sprechi, perché non venga inquinata, o usata per fini industriali e rimessa in circolo senza essere depurata, perché ce ne sia ancora per tanto tempo.


Vorrei però che fosse chiara una cosa: la ragione dell’avversione alla privatizzazione non risiede in una presa di posizione aprioristica contro il privato. In linea teorica nulla vieterebbe una corretta gestione dell’acqua da parte di un privato che se ne assumesse il servizio. Il problema è che una corretta gestione di un bene comune può essere realizzata solo da un attore fortemente radicato sul territorio, che si ponga come obiettivo lo sviluppo di quel territorio, la sua protezione e quella dei suoi abitanti e dei loro diritti. Ed è molto difficile che questo avvenga affidando la gestione dell’acqua anziché a enti locali a società di capitali o a banche.

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Lcacqua però è soltanto lo spunto per fare una riflessione più ampia. Perché qui stiamo perdendo di vista una cosa intoccabile: i beni comuni devono esulare dalle logiche di mercato. Il che non significa che ci sia una formula esatta per la loro gestione. Intendo dire che non è detto che debba per forza essere lo Stato a farsene carico, deve invece poter partire una reale condivisione: che sia proprietà collettiva a gestione privata, che sia tutto pubblico o che sia un mix delle due cose non ha importanza, perché ci sono formule alternative, vecchie e nuove. Stiamo vendendo o svendendo tutto, dando in gestione a chi ha come unico fine l’accaparramento, mentre certe cose non si dovrebbero toccare. Ricordo un grande del Barolo, l’indimenticato Bartolo Mascarello, che si scagliò contro la curia di Alba, rea secondo lui di aver venduto a dei privati delle vigne storiche, vigne che erano a "beneficio collettivo", tra i migliori cru di Langa.

È solo un esempio delle tante risorse comuni che la nostra Italia sta perdendo, e che avevano resistito anche alle spinte più privatistiche tipiche dell’Ottocento e Novecento. "Vicinie", "partecipanze", "comunaglie", "ademprivi", "società degli originari", demani comunali: boschi, terreni agricoli, spiagge e coste, pascoli, terreni a uso civico che per secoli erano a disposizione di tutti, di cui la comunità si faceva carico per mantenerli e sfruttarli con senso del limite e garanzie per il futuro. Proprietà collettive o insieme di risorse naturali gestite dal Comune, dalla parrocchia, da gruppi di famiglie, reti di vicinato e associazioni, secondo regole complesse che risalgono in molti casi anche al Medioevo. Sono quelli che inglese si chiamano "commons". Ci sono ancora esempi in Emilia, con le partecipanze agrarie che hanno origine ai tempi delle prime formazioni comunali e ancora oggi si trasmettono per discendenza diretta di padre in figlio: enti privati di diritto pubblico che hanno un regolamento per l’assegnazione (a rotazione) delle terre per il diritto d’uso e di coltivazione. Oppure pensiamo alle regole che le comunità si sono sempre date per la raccolta di erba, frutti di bosco, funghi e legname nei terreni comuni.

Perché dobbiamo ridurre tutto a una dicotomia tra pubblico e privato, che è stucchevole quasi quanto quella tra destra e sinistra? 
Guardo al passato e vedo soluzioni di grande modernità, che potrebbero aiutarci nella gestione dell’acqua, nel ripristino dei pascoli, nel mantenimento dei boschi e degli alpeggi (che stanno tra l’altro diventando sempre più terreno di sfruttamento a danno dei malgari, i quali ogni anno si vedono aumentare arbitrariamente gli affitti per basi d’asta dove spesso corrono da soli, perché gli unici rimasti a fare quel lavoro). Guardo al passato e vedo geniali soluzioni per lo sfruttamento locale delle biomasse (sfalci e legnami da buttare); luoghi dove costruire orti collettivi gestiti magari dai pensionati a beneficio della comunità; un paesaggio difeso e valorizzato; reti idriche locali, all’avanguardia ed efficienti, che garantiscono acqua a tutti, a prezzi tendenti allo zero, se non del tutto gratis.


Bisogna ridare dignità giuridica a queste antiche forme di gestione, perché realizzano ciò che né il pubblico puro, né il privato puro sono in grado di garantire: i beni cui tutti hanno diritto, le risorse delle nostre terre, mari e acque. Ci metto anche il cibo, perché la stessa dignità va riconosciuta a forme di partecipazione collettiva in tema di cibo: che cosa sono i gruppi d’acquisto solidali, gli orti collettivi urbani o il modello della community supported agriculture nato negli Stati Uniti, in cui si prevede l’acquisto anticipato di tutta la produzione di un agricoltore da parte di un gruppo di cittadini che poi si vedono recapitare a casa regolarmente, perfettamente maturi e in stagione i prodotti? Sono cose né pubbliche né private, né leghiste né comuniste, né passatiste né utopiche. Modelli che funzionano, collettivi e innovativi, al di là di schemi stantii che ormai hanno solo più questi scopi: fanno arricchire qualcuno, scarseggiare le risorse di tutti, perdere la nostra libertà, il senso di far parte di una comunità e di avere potere sulle nostre stesse vite, lasciandoci da soli, a pagare bollette sempre più salate.

Il più grosso conflitto ambientale-energetico della storia del Cile ha un decisivo risvolto italiano: Enel. Per difendere la Patagonia cilena dalle enormi dighe progettate da Endesa il vescovo Luis Infanti e i leader del movimento Patagonia Sin Represas sono in missione in Italia. In particolare partecipano come “azionisti critici” il 29 aprile all'assemblea dell'Enel che acquisendo Endesa è diventata azionista di maggioranza dell'impresa Hydroaisèn, proprietaria di diritti dell'acqua e promotrice dell'iniziativa.

Il progetto è di cinque grandi dighe nel cuore della Patagonia cilena, nei fiumi Baker e Pascua, duemilatrecento chilometri a sud di Santiago del Cile. L'energia verrebbe portata a Nord da un elettrodotto altrettanto lungo, una fila di tralicci senza precedenti. Da una parte, dalla parte del progetto, ci sono le promesse di indipendenza energetica, tutta in fonti “pulite”, quali sarebbero le dighe. Dall'altra, dalla parte degli oppositori, non c'è solo l'accusa di devastazione ambientale in una delle ultime macro-aree intatte del pianeta, e lungo i ben 2.300 chilometri necessari per l'elettrodotto.

Ci sono anche divergenze sulle fonti energetiche e questioni di proprietà. I fiumi sono privati, e su questo punto l'iniziativa Patagonia sin represas si salda con la campagna per la rinazionalizzazione dell'acqua in Cile, che fu venduta ai privati dal regime militare. Punto di riferimento della campagna è il senatore Guido Girardi che ha lanciato il logo “Recuperiamo l'acqua per il Cile” e che spiega: “la nostra è stata una delle privatizzazioni più spinte del mondo, non si tratta solo di gestione degli acquedotti ma di concessioni private permanenti sulla proprietà delle fonti e dei corsi d'acqua.” Nel caso specifico del progetto Hydroaysen, il “consiglio per la difesa della Patagonia” non chiede solo di bloccare il progetto delle dighe, ma chiede a Enel di restituire i diritti dell'acqua, acquisiti da Endesa quando Pinochet privatizzò anche i fiumi. “È legale, ma eticamente è una situazione insostenibile, chiederemo a Enel di trovare il modo di restituire questa concessione al popolo cileno” dice il vescovo della regione di Aysen.

Luis Infanti, nato a Udine ma da 35 anni in Cile, ha anche scritto una lunga lettera pastorale, un saggio divulgativo teologico-scientifico e pratico, intitolato significativamente “Dacci oggi la nostra acqua quotidiana”. Dal punto di vista energetico, al posto delle grandi dighe – una tecnologia che Patagonia sin Represas definisce “pesante e obsoleta” - gli oppositori insistono sul risparmio energetico e sul solare, sull'eolico e sulla geotermia. La stessa Enel, con la sua Endesa, ha avviato interventi del genere in Cile, con nuovi capta-tori solari nel deserto del Nord.

La polemica sulle grandi dighe è aperta in tutto il mondo. All'interno della Banca Mondiale, che ne ha finanziate molte, si era aperta una fase di revisione critica sull'opportunità ambientale e persino energetica di questi enormi progetti.

Ma paradossalmente sono state le esigenze internazionali di impegni per la riduzione delle emissioni da petrolio e da gas a far risorgere lo spettro delle dighe giganti. In Brasile la controversia – tra magistratura statale e federale - è in questi giorni sul progetto Belo Monte , contestato anche da artisti internazionali come Sting e Cameron. In Cile il governo è sostanzialmente favorevole al progetto delle 5 grandi dighe ma ufficialmente non si sbilancia. Il neo eletto presidente Pinhera non vuole provocare la opinione pubblica, che secondo i sondaggi dell'anno scorso sarebbe al 52-55% contraria. Per ora i problemi del terremoto hanno posto in secondo piano la questione dighe. Tutto è ancora sotto procedura d'impatto ambientale. Attualmente il duello di carte bollate è ad alto livello. L'impresa Hydroaysèn ora deve rispondere a 1.114 osservazioni presentate dalla “Commissione dell'Ambiente”, una sorta di Arpa cilena che fa anche le Procedure di Valutazione Ambientale. Il Consiglio di difesa della Patagonia aveva riversato sugli uffici della Commissione migliaia di osservazioni firmate dai cittadini, con tanto di scene teatrali di consegna delle casse di documenti. Di queste osservazioni la Commissione ha selezionato una parte, e l'impresa ha chiesto tempo fino al 30 giugno per rispondere. Juan Pablo Orrego, coordinatore di Patagonia Sin Represas, ieri a Milano per il convegno della rivista Valori sull'azionariato critico in vista delle assemblee degli azionisti di Eni ed Enel, ha confidato le sue preoccupazioni. “Enel-Endesa e il loro partner cileno Colbun stanno per dare il via a una nuova offensiva di pubbliche relazioni per conquistare il consenso. Stanno arruolando nuovi manager di alto livello, e soprattutto l'ex direttore della Televisione Pubblica, Daniel Fernandez. La nostra campagna per difendere la Patagonia, una delle ultime zone incontaminate del pianeta è sostenuta da molte organizzazioni nordamericane. Ma ci è difficile arrivare all'opinione pubblica italiana, che potrebbe condizionare Enel”.

Sul manifesto di domenica il presidente di Publiacqua spa Erasmo D'Angelis tesse le lodi del modello toscano di gestione dell'oro blu. Assumiamo pure che la Toscana (o Cuba) siano, per ragioni di cultura politica generale, modelli «virtuosi» di misto.

Questo fatto, proprio come l'argomento per cui in certe realtà italiane a gestione pubblica le cose vanno malissimo, nulla apporta contro la necessità e la superiorità teorica del modello di gestione democratica ed ecologica dell'acqua che si ritiene di poter raggiungere tramite il referendum. Innanzitutto, la presenza di un pubblico disastroso non sta a significare che il suo "commissariamento" da parte del privato sia la soluzione migliore. A parte il fatto che esistono anche esperienze interamente pubbliche estremamente virtuose (mi piace ricordare qui quella di Cuneo), dobbiamo aver ben chiaro che il modello misto pubblico-privato declinato in funzione del profitto, garantito dalla legge Galli e poi da quella Ronchi, costituisce il miglior brodo di coltura dell'affarismo partitocratico ed autoritario. Esso pone le premesse istituzionali per la divisione leonina di costi e benefici (costi pubblici, benefici privati) laddove i secondi non sono solo benefici economici tout court per gli investitori privati (Acea, ecc) ma anche benefici per il personale politico o parapolitico coinvolto nella gestione mista. Si tratta di vantaggi altrettanto privati anche se meno visibili, che si concretizzano in termini di favori privati all'elite politica, se non direttamente in quattrini per le campagne elettorali. Non mi stupisce affatto che questo modello di gestione del "pubblico interesse", tipico di gran parte del terzo mondo, possa purtroppo aver coinvolto anche l'acqua cubana. Il problema è la confusione fra l'interesse pubblico e quello delle élites politiche.

Ciò naturalmente vale anche per altre questioni, come per esempio la gestione dei rifiuti, e ancor più vistosamente le grandi opere pubbliche come la Tav o il Ponte sullo Stretto. Questo mi pare spieghi sia alcune delle posizioni del Pd, che continua a difendere il misto "for profit garantito" utilizzando la più screditata delle idee, quella per cui i soldi per gli investimenti li metterà il privato, sia la posizione che sta emergendo nell'Idv.

Premesso che nel Pd esistono posizioni apertamente referendarie quali quella di Roberto Placido, premiato con oltre 11.000 preferenze nel disastro del centrosinistra piemontese, mi pare chiaro che la posizione dei cosiddetti ecodem può soltanto considerarsi ipocrita. Ma come si fa a pensare che nel Parlamento più impotente della nostra storia repubblicana, dove una maggioranza trasversale larga come poche altre difende per le ragioni suddette il "misto for profit garantito" (dall'acqua all' energia, alle grandi opere) possa avere qualsiasi speranza di passare una riforma che non garantisca al 100% i saccheggiatori del bene comune? Proprio questa osservazione ha convinto l' intero arco di forze del "Forum Acqua Pubblica" ed il "Comitato Rodotà sì acqua pubblica" a convergere convintamente sulla soluzione referendaria. Realisticamente, infatti, tanto la legge di iniziativa popolare sull'acqua voluta dal Forum, quanto il progetto di legge delega sui beni pubblici della Commissione Rodotà non avrebbero forza politica sufficiente in questo Parlamento se non sostenuti da un imponente movimento di massa quale quello che potrebbe essere innescato dal referendum. A maggior ragione il referendum convince tutti quanti hanno a cuore il vero interesse pubblico (non quello delle élites di partito), per il fatto che i tre quesiti che abbiamo elaborato, attaccando direttamente il modello di gestione mista "for profit garantito", pongono serie premesse teoriche per un nuovissimo modello di governo ecologico e democratico dei beni comuni, ispirato all'art. 43 della Costituzione, che finalmente inverta la rotta neoliberista.

E veniamo a Di Pietro. Ero presente con i compagni del Forum all'incontro con l'Idv (Di Pietro, De Magistris, Brutti) del 12 marzo scorso e. pur nello sconforto generale per un clima davvero povero dal punto di vista democratico, ero rimasto favorevolmente colpito per il fatto che Di Pietro avesse detto espressamente di voler far propri i nostri tre referendum. Su premesse comuni culturalmente e politicamente così nette e avanzate, avevo ragionato, si troverà certamente un'intesa di metodo. Mi ero sbagliato. Credo ora semplicemente che Di Pietro, fatti due conti, si sia reso conto di essere ormai parte di quell'élite politica il cui interesse privato, come quello di tutto il fronte partitocratico antireferendario, è ben servito dal "misto for profit garantito". Come dicono i resistenti della Val Susa: sarà dura!

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