Dopo tre mesi di intenso lavoro, durante il quale sono stati consultati esperti di differenti discipline economiche, giuridiche, aziendali, oltre ad esponenti della società civile e delle associazioni ambientaliste, la giunta di Napoli ha approvato la trasformazione della società per azioni Arin che gestisce il servizio idrico a Napoli in azienda speciale. Si tratta della prima giunta in Italia che attua la volontà referendaria del 12-13 giugno 2011.
L'azienda speciale Acqua Bene Comune Napoli, ente di diritto pubblico, nasce dalla consapevolezza che in tutto il mondo le più recenti trasformazioni del diritto hanno prodotto l'emersione a livello costituzionale, normativo, giurisprudenziale e di politica del diritto della categoria dei beni comuni, ossia delle cose che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona e che vanno preservate anche nell'interesse delle generazioni future. E in questo senso ieri il consiglio comunale di Napoli ha approvato una modifica del suo stesso statuto, con la quale si inserisce tra valori e finalità dello Statuto il riconoscimento e la garanzie dei beni comuni, quali beni direttamente riconducibili al soddisfacimento di diritti fondamentali.
I beni comuni, in primis l'acqua, sono dunque adesso direttamente legati a valori che trovano collocazione costituzionale e che informano lo statuto del Comune di Napoli. Essi vanno collocati fuori commercio perché appartengono a tutti e non possono in nessun caso essere privatizzati. L'acqua bene comune è radicalmente incompatibile con l'interesse privato al profitto e alla vendita. Al tempo stesso è ormai del tutto chiaro nell'esperienza italiana che le privatizzazioni hanno determinato forti incrementi delle tariffe e nessun beneficio per i cittadini in termini di qualità del servizio. Acqua Bene Comune Napoli, chiamata a governare il bene comune acqua della città di Napoli, vuole interpretare, attraverso una buona pratica di democrazia partecipata dal basso, il suo dovere fondamentale di difendere il bene acqua. L'azienda speciale, com'è noto, è un ente pubblico economico strumentale del comune che non persegue finalità di profitto. L'azienda speciale ha l'obbligo del pareggio di bilancio e del suo equilibrio finanziario con una autosufficienza gestionale. La sua attività si svolge secondo gli obiettivi e i programmi dell'ente territoriale, cioè del comune e dei suoi cittadini. Tant'è che la strumentalità dell'azienda speciale comporta l'approvazione degli atti fondamentali e la copertura dei costi sociali da parte del Comune, il quale potrà pianificare la sua politica relativa al servizio idrico integrato in base alle proprie disponibilità finanziarie e agli obiettivi di investimento. La qualità del servizio e la sua sostenibilità con l'azienda speciale assume maggiore rilievo, rispetto alle scelte quantitative che nella gestione privatizzata possono venire comunicate o rappresentate al di fuori di essa in modo più opaco. Acqua Bene Comune Napoli, per come congeniata statutariamente - attraverso un consiglio di amministrazione rappresentativo con voto deliberativo delle associazioni ambientaliste e un comitato di sorveglianza rappresentativo oltre che della cittadinanza attiva anche dei dipendenti dell'azienda - consente di affrontare, o meglio valutare, le conflittualità delle politiche idriche e dell'utenza, anche in termini di trasparenza ed accessibilità agli atti.
Governo pubblico partecipato significa proprio un coinvolgimento attivo dei cittadini alla gestione dei beni comuni, un principio fondamentale, che era originariamente previsto anche in Puglia nel processo normativo di trasformazione dell'Aqp spa in azienda pubblica. Inoltre, lo Statuto prevede che qualora l'amministrazione comunale, per ragioni di carattere ecologico o sociale, ed in relazione ai propri fini istituzionali disponga che l'azienda effettui un servizio o svolga un'attività il cui costo non sia recuperabile deve in ogni caso essere assicurata la copertura del costo medesimo. In questa dimensione ecologica e sociale vanno letti anche gli artt. 27 e 28 dello Statuto che rispettivamente disciplinano e garantiscono il quantitativo minimo giornaliero e il fondo di solidarietà internazionale. L'auspicio è che parta da Napoli un nuovo vento che sappia concretamente reagire alla manovra di ferragosto che ha calpestato la volontà referendaria e soprattutto il principio della sovranità popolare.
* Gli autori sono assessori rispettivamente ai beni comuni e alle società partecipate del Comune di Napoli
Caro Presidente Vendola, siamo i due giuristi che, dopo aver elaborato insieme ad altri colleghi i quesiti per i referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali (referendum n. 1) e contro la possibilità di trarre profitto dal servizio idrico integrato (referendum n. 2), abbiamo patrocinato con successo di fronte alla Corte Costituzionale, il 12 gennaio 2011, la questione della rilevanza costituzionale ed europea dei beni comuni.
Oggi ci troviamo di fronte ad un attacco senza precedenti ai beni comuni, portato avanti sul piano politico, giuridico e costituzionale, che cerca di azzerare i risultati fin qui raggiunti attraverso la battaglia referendaria. Ci permettiamo perciò di scriverLe in quanto Lei è fra i pochissimi leaders politici sensibili alla questione dei beni comuni e del necessario ripensamento del rapporto fra pubblico e privato (vogliamo ricordare Luigi de Magistris che ha voluto un assessorato specifico ai beni comuni e la cui giunta sta provvedendo in questi giorni alla ripubblicizzazione del servizio idrico) a essersi conquistato una posizione istituzionale tale da poterci consentire l'accesso, in via diretta, alla Corte Costituzionale. Come ben sa, avendo già sperimentato questa via proprio a proposito dell'abrogato Decreto Ronchi, nel nostro ordinamento una Regione, e non il Comune, può impugnare una legge o atto avente forza di legge di fronte alla Corte Costituzionale entro sessanta giorni dalla sua entrata in vigore. Abbiamo perciò un po' di tempo, ma non moltissimo, per preparare una memoria stringente, capace di porre anche le più alte istituzioni del paese di fronte ai loro ineludibili obblighi costituzionali.
Le scriviamo questa Lettera aperta anche a nome delle 5000 persone, amministratori, associazioni e gruppi politici sensibili alla questione dei beni comuni che in pochi giorni hanno sottoscritto l'appello che, insieme ad altri giuristi estensori dei referendum, abbiamo lanciato dalle colonne di questo giornale (www.siacquapubblica.it) e intendiamo raccogliere le firme durante tutto l'iter di conversione del Decreto per presentarle infine al Presidente Napolitano.
A nostro avviso infatti non solo l'art. 4 del decreto legge n. 138 del 13 agosto 2011, beffardamente rubricato "Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa europea", ma l'intero impianto della "manovra" di ferragosto è profondamente incostituzionale, violando fra l'altro prerogative di autonomia degli enti locali, precedenti decisioni della Corte Costituzionale, nonché lo spirito di quel nuovo diritto pubblico europeo dell'economia, che faticosamente tenta di affermarsi. La manovra di ferragosto infatti è testimone del clima da shock economy che è stato creato in Europa e che sta condizionando la politica del governo italiano e l'atteggiamento "responsabile" delle opposizioni. Una complessa rete di poteri forti, economici e finanziari ha costruito un dispositivo politico e mediatico che fonda su una presunta improcrastinabile urgenza l'evidente tentativo del neoliberismo di ristrutturare la propria egemonia che la grande crisi ha reso progressivamente meno persuasiva. L'esito di questa politica altro non può essere che un nuovo saccheggio.
In Italia i referendum di giugno e le vicende elettorali di Milano con Pisapia e di Napoli con de Magistris hanno inflitto una netta sconfitta al blocco bipartisan che negli ultimi vent'anni ha portato avanti una politica economica e culturale del tutto coerente con il dispositivo ideologico neoliberista. Prodromica alla "primavera italiana" è stata la Sua conferma come Presidente della Puglia, voluta dal popolo pugliese sconfiggendo proprio Massimo D'Alema, probabilmente il politico italiano che maggiormente incarna l'essenza bipartisan del neoliberismo. In sintesi, tale concezione ci pare essere l'idea che "il privato" sia la soluzione per ogni problema di organizzazione sociale complessa, il solo motore che rende possibile sviluppo e "crescita". Questa concezione produce un susseguirsi di mosse politiche volte a trasferire sempre nuovi spazi e soprattutto nuove risorse pubbliche al privato, sotto diverse forme, siano esse liberalizzazioni, privatizzazioni, dismissioni, grandi appalti, (e naturalmente guerre). Incredibilmente tale politica reazionaria ha preso il nome di riformismo!
Negli ultimi anni, a livello globale e poi anche locale, un pensiero ed una narrazione alternativa, di cui Lei è uno dei più autorevoli esponenti, si è fatto strada dapprima in modo carsico e poi , finalmente, con i referendum del giugno scorso, in modo politicamente maggioritario. Oltre 27 milioni di italiani, la maggioranza assoluta degli elettori, ha dichiarato inequivocabilmente, tramite uno strumento complicatissimo quale il referendum abrogativo, ex art. 75 Costituzione, che occorreva "invertire la rotta", che il privato non è necessariamente "la soluzione" ma molto più sovente "il problema", che occorre immaginare una ristrutturazione fondativa del settore pubblico, capace di renderlo aperto, partecipato e in grado di portare avanti l'interesse pubblico e non soltanto quello privato dei poteri forti che sempre più spesso controllano le istituzioni di politica rappresentativa.
La virulenza costituzionale di questo attacco impressiona e travolge i capisaldi più profondi della nostra costituzione economica, in primis gli articoli 41 (iniziativa economica privata), 81 (bilancio) e 53 (progressività della contribuzione fiscale). Colpisce in particolare la disinvoltura eversiva con cui si maneggia una materia tanto delicata e fondativa di un ordine giuridico legittimo quanto quella della gerarchia delle fonti del diritto. La manovra mette in moto una sorta di processo costituente emergenziale de facto, che anticipa gli effetti di una riforma costituzionale destinata a travolgere i soggetti più deboli ed i beni comuni e che struttura (complice la Lega) un centralismo autoritario che distrugge il pluralismo politico e costituzionale di cui al Titolo V della nostra Costituzione, nonché i principii europei della sussidiarietà e della coesione sociale e territoriale.
Sul piano politico, la retorica della responsabilità e della condivisione interclasse necessaria per superare la crisi sta travolgendo i tratti fondativi del nostro ordine democratico e prelude ad un dopo-Berlusconi segnato dalla discesa in campo di Montezemolo, portavoce accreditato del modello Marchionne. Siamo convinti che sul piano del diritto costituzionale vigente non possano essere riproposte né la privatizzazione\liberalizzazione dei servizi pubblici locali né brutali operazioni di centralizzazione, né provvedimenti lesivi della dignità delle persone e dei lavoratori quali quelli che conseguono all'art. 3 del decreto di Ferragosto secondo cui: «In attesa della revisione dell'art. 41 della Costituzione, comuni, provincie, regioni e Stato, entro un anno dalla data di entrata in vigore della Legge di conversione del presente decreto, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto quello che non è espressamente vietato dalla legge».
Dal punto di vista dell'accettabilità politica, riteniamo inoltre che non possano essere riproposte dismissioni del patrimonio pubblico (che può invece rendere molto se ben governato), ulteriori precarizzazioni e grandi opere inutili o dannose a loro volta espressamente respinte dal voto popolare a proposito delle centrali nucleari. Le alternative e le possibilità di risparmio esistono. Diverse fra queste sono indicate dallo stesso fraseggio costituzionale nel ripudio della guerra, nella cura del territorio, nell'investimento sulla ricerca e nella progressività fiscale seria. Sta alla buona politica, per la quale Lei certamente è un punto di riferimento, elaborarle meglio nel tempo necessario e metterle in bella copia, senza cadere nella trappola dell'eccessiva urgenza.
Di fronte allo scempio morale, politico e costituzionale che il decreto pone in essere è necessaria piuttosto una reazione forte e seria che va condotta tanto con gli strumenti della politica quanto con quelli del diritto. Mentre dal primo punto di vista compete a Lei e agli altri leaders più sensibili a queste istanze proporre finalmente, in un rinnovato rapporto con i movimenti e con i cittadini, un'alternativa autentica al blocco bipartisan dominante, dal punto di vista giuridico e costituzionale siamo consapevoli che compete a noi, in quanto tecnici portatori della sensibilità e della storia politica necessaria per configurare istituzionalmente la difesa dei beni comuni, presentare nuovamente di fronte alla Corte Costituzionale le ragioni dei 27 milioni di cittadini che vogliono invertire la rotta. Insieme, nel tempo necessario, politica e diritto possono restituire ad un rinnovato settore pubblico gli spazi e l'autorevolezza necessari per governare la crisi. A breve occorre adire le vie costituzionalmente rimaste aperte sempre che il Presidente Napolitano, accogliendo l'appello di tanti cittadini, non intenda intervenire in fase di promulgazione.
Caro Presidente Vendola, noi le abbiamo scritto per metterci a disposizione, nella nostra veste di avvocati abilitati al patrocinio di fronte alle supreme giurisdizioni, per ricevere mandato, naturalmente a titolo assolutamente gratuito, da soli o insieme ad altri legali di Sua fiducia, a rappresentare la Regione Puglia (ed incidentalmente la nuova egemonia dei beni comuni) di fronte alla Consulta in un ricorso diretto di incostituzionalità del Decreto 138\2011.
Riceva un saluto cordialissimo.
Qui per firmare l'appello dei giuristi
Mentre tutto va male nel mondo economico, ci siamo dimenticati che dai palazzi vaticani arriva la buona notizia che stiamo per diventare (in ottobre) 7 miliardi. Per di più, e meglio ancora, arriva anche una nuova previsione demografica. Finora si stimava che nel 2050 saremmo arrivati a 9 miliardi, per poi cominciare a decrescere. Ma oggi la stima è diventata che a fine secolo, nel 2100, saremo 10 miliardi. È anche perché l'Aids è diventato controllabile e non ucciderà più come prima. Ma è anche per merito (o per colpa) della Chiesa cattolica che si ostina – pressoché sola tra tutte le religioni – a proibire i contraccettivi e a demonizzare il controllo delle nascite.
Eppure la nuova proiezione dei dieci miliardi è terrorizzante. Anche perché il sovraccarico demografico colpirà soprattutto l'Africa. Per fortuna per fine secolo la popolazione cinese scenderà a quota 950 milioni, e anche se l'India dovrebbe salire da 1 miliardo e 200 milioni di oggi a più di un miliardo e 500 milioni, anche così il totale dei due colossi asiatici rimarrebbe invariato. Invece l'Africa è davvero votata al disastro. Quest'anno la zona in crisi di siccità e di cibo è il Corno d'Africa; ma lo è da parecchio, si tratta di una crisi ricorrente. Che ricorre un po' dappertutto. Ma la proiezione che più spaventa è quella della Nigeria, che dai 150 milioni di oggi dovrebbe addirittura salire a 730 milioni. Follia suicida? Certo. Ma la stessa follia è diffusa in tutta l'area, fino al Sud Africa.
Aggiungi che i dati demografici non dicono tutto. Di tanto un Paese povero si sviluppa davvero, di altrettanto aumentano i consumi pro capite: consumi di cibo ma anche di comodità di vita. Chi non ha mai visto la luce elettrica, ora la vuole; chi ha sofferto il freddo dell'inverno e il caldo dell'estate ora vuole riscaldamento e condizionatori; chi va in bicicletta aspira a una motocicletta; chi mangiava solo riso ora vuole anche carne. Quindi l'aumento demografico comporta aumenti moltiplicati di cibo e di comodità. È giusto. Ma il «carico ecologico» diventa così sempre più insostenibile. L'altra faccia del problema è che la sovrappopolazione fa salire l'inquinamento e anche il riscaldamento dell'aria. Per il 2100 l'aumento dovrebbe essere di 4 gradi con effetti sconvolgenti sul clima e anche sul livello del mare.
E mentre l'acqua salata cresce, l'acqua dolce diminuisce. Ovunque le falde acquifere che alimentano l'agricoltura si assottigliano (scendono) da decenni. Cina e India possono ancora contare sui fiumi alimentati dai ghiacciai dell'Himalaya; ma il granaio del mondo, gli Stati Uniti, dipende in buona parte dalle falde acquifere di Ogallala, che oramai si abbassano tra i trenta e i novanta centimetri l'anno.
Che fare? Io dico che la crescita demografica va fermata ad ogni costo. Ma nessuno osa dirlo; l'argomento è proibito. Tutti o quasi tutti invocano la tecnologia e le sue scoperte. Ma non c'è tecnologia che basti e che ci salvi con dieci miliardi di viventi.
e se ci potesse mettere una piccola grande pezza (anche) una intelligente politica urbana? Non solo da lustri la povera sottofinanziata e decadente scienza occidentale ci spiega che la città correttamente pianificata (non lo slum globale in fondo amato dai finanzieri) ha una impronta ecologica e un consumo energetico proporzionalmente inferiore a quella di insediamenti tradizionali. Non solo anche le attività agricole che oggi degradano il territorio troverebbero spazio qualificato e ruolo virtuoso nei contesti urbani post-moderni. Ma soprattutto, come ci insegna la storia, la società urbana fabbrica automaticamente meno figli, paternità e maternità cosiddette responsabili, ovvero meno automaticamente legate all’atavico istinto dell’accoppiamento (se mi si consente di semplificare così la faccenduola), e meno legate alla pure atavica idea della famiglia autoritaria e patriarcale, della progenie come braccia per i campi, del brulicare di sudditi come simbolo di potere. Paiono sciocchezze, ma sarebbero sciocchezze storicamente confermate, no? (f.b.)
Kiruna, Svezia, 150 chilometri a nord del circolo polare artico, sede di una delle più grandi miniere di ferro del mondo, il cui sfruttamento intensivo cominciò già nell’Ottocento. Le 22 mila persone che vivono a Kiruna ora si trovano di fronte a un dilemma: spostare la città verso la collina oppure trasferirsi tutti nella vallata? E le renne? E già le renne dei lapponi, che da quelle parti preferiscono essere chiamati con il nome di Sami, che ne sarà delle renne e dei loro tradizionali percorsi migratori?
SPOSTAMENTO- Il problema diKiruna– se così si può chiamarlo, per altri invece è una benedizione – si chiama Cina. Con l’esplosione industriale del gigante asiatico, in perenne ricerca di materie prime per alimentare i suoi altoforni, Kiruna al debutto del nuovo millennio ha conosciuto una nuova rinascita dopo decenni di lento ma inesorabile declino, seguendo le sorti di molte città minerarie che, con la fine delle attività estrattive, sono a poco a poco diventate città fantasma divorate dalla ruggine e dall’oblio. A Kiruna questo destino è stato risparmiato: laLuossavaara-Kiirunavaara (Lkab), la società statale proprietaria della miniera, nel 2004 iniziò a sondare le autorità cittadine in merito a un progetto di spostamento della città. Passi per la demolizione di alcune abitazioni per questioni di sicurezza per promuovere lo scavo di nuove gallerie della miniera, come già avvenuto in passato, ma spostare l’intera città… Le commesse che vengono dall’altra parte del mondo ci sono, risposero i dirigenti della Lkab, se la miniera, e con lei Kiruna, vuole sopravvivere si deve allargare. E il giacimento passa proprio sotto la città. Non preoccupatevi: paghiamo tutto noi, come chiede la legge svedese.
«NON AVEVAMO SCELTA» - «Sapevamo di non avere scelta», ammette alWall Street Journal, che si è occupato della vicenda, Ann Catrin Fredriksson, assessore all’Urbanistica e all’ambiente di Kiruna. «La nostra città è legata a doppio filo alla Lkab, quindi non c’è stata opposizione. Abbiamo lavorato insieme per trovare le soluzioni migliori, per esempio la compagnia ha accettato di smontare e ricostruire una dozzina di edifici storici». Tra questi il municipio, realizzato in stile modernista agli inizi del Novecento. La società ha investito 460 milioni di dollari (325 milioni di euro) per acquistare terreni, demolire e ricostruire le abitazioni, traslocare le persone e i loro beni. Il programma di trasferimento non avverrà in un colpo solo, ma seguirà l’avanzamento della miniera. Nei prossimi vent’anni si sposteranno circa 3 mila persone. «Per completare l’opera ci vorranno forse cento anni», spiega Johanna Fogman, portavoce della Lkab. Intanto Patrick Stalnache, 45 anni, che nelle gallerie della miniera ci lavora, in aprile ha dovuto lasciare insieme ad altre trenta famiglie la sua abitazione nel centro della città e trasferirsi in periferia. «Senza la miniera, prima o poi Kiruna sarebbe morta», ammette.
LE RENNE - La demolizione degli edifici storici, di alcune case e la costruzione dei nuovi quartieri inizierà il prossimo anno. Il problema maggiore al momento sono le renne. I binari delle ferrovia che trasporta il minerale sono già stati spostati da una parte all’altra della miniera, ma ora tagliano in due i sentieri che le renne dei Sami percorrono da tempi immemorabili per la transumanza, che in primavera avviene verso i pascoli delle colline e, con la caduta delle prime nevi, all’inverso verso i recinti dove ricevono il foraggio dagli allevatori. La Lkab, insieme al municipio e al ministero dei Trasporti, lo scorso ottobre ha costruito un ponte ricoperto di terra ed erba per consentire alle renne di oltrepassare i binari. Ma l’inverno scorso iniziò in anticipo (a Kiruna d’inverno la temperatura può scendere a 40 gradi sottozero), il terreno gelò e le renne non erano in grado di passare sul ponte. I Sami dovettero andare sulle colline con camion e furgoni per salvare le loro renne dall’inverno artico.
A VALLE- A parte le renne dei Sami, il dibattito in città ora è concentrato su dove spostare la chiesa luterana, realizzata tutta in legno nel 1912, che nel 2001 fu votata edificio più popolare di tutta la Svezia. Il municipio ha indicato un terreno vicino all’aeroporto, ma non tutti sono d’accordo. Su una cosa invece si è arrivati a una decisione definitiva: niente colline, Kiruna si sposterà nella vallata a est, vicino al villaggio di Tuolluvaara. Il terreno da quelle parti offre condizioni migliori.
Siamo proprio certi che tocchi alla Puglia il ruolo di campo di battaglia post-referendario? E' Acquedotto pugliese e la sua ripubblicizzazione l'emblema del male che il referendum ha spazzato via? Più passano i giorni e più mi accorgo che in questa disputa contro la Puglia stanno godendo di un'insopportabile coltre di silenzio omissivo tutti i gestori idrici italiani, pubblici e privati, mai interpellati per adeguarsi ai tempi nuovi aperti con la consultazione elettorale. Accade quindi che i privatisti sconfitti stanno approfittando e consolandosi attraverso il fratricidio culturale che mi vuole colpire, e mentre ciò accade stiamo rischiando di far risvegliare gli italiani in un mondo che non cambia di una virgola.
Oggi decido per questo di tirare fuori dall'ombra e puntare un riflettore esigente su tutti gli ambiti idrici italiani, che ad oggi non paiono smuoversi per rivolgere una richiesta esigente nei confronti dei propri gestori (Acea, Arin, Publiacqua, Hera, ecc.), affinché valutino la possibilità di adeguarsi al risultato referendario. Per far questo ho quindi la necessità di declinare le mie generalità: il mio impegno e le mie decisioni per Acquedotto pugliese.
L'acqua che distribuiamo non sgorga in Puglia ma nelle regioni vicine, alle quali paghiamo il costo industriale della risorsa e il risarcimento ambientale. Ditemi se in giro esiste una dinamica idraulica simile. Il lungo percorso per giungere nelle case del pugliesi ha generato, nell'ultimo secolo, una rete di oltre 21.000 chilometri. Il mondo accademico studia in Puglia gli acquedotti interconnessi e unicursali. Ma non basta. La morfologia generalmente pianeggiante ha escluso dai testi di fisica letti in Puglia il concetto di spostamento per gravità e da quelli di idraulica il movimento a pelo libero. Ci tocca sollevare, spingere, cioè fare la felicità delle imprese elettriche. Il percorso dell'acqua non finisce all'imbocco dello scarico del lavandino: abbiamo il bisogno di depurarla e il nostro unico corpo idrico è il mare. Altre regioni possono beatamente usare i fiumi e i torrenti, come lavatrici naturali, noi no. Pensate a Milano: il primo impianto di trattamento è del 2005, prima scaricava i propri liquami nell'agonizzante fiume Lambro. Scaricare in mare? Apriti cielo. La balneazione, il turismo e quindi l'economia ne può soffrire. Ecco la risposta, originalità nell'originalità: l'affinamento. Si avvia il processo di affinamento dei reflui per il riutilizzo in agricoltura. In Puglia, con legge approvata durante il mio mandato, l'affinamento è misura di qualità e quantità del servizio idrico integrato, e su google alla voce affinamento emergono solo links pugliesi.
Questo è il contesto storico, idraulico e geomorfologico entro cui la Puglia è costretta ad operare, e vi prego di dirmi se ci sono altri casi che pur lontanamente possono somigliare, in termini di efficienza ed economicità da assicurare. In questo contesto mi ritrovavo ad operare quando i pugliesi mi elessero e nello stesso mi muovo oggi: con minori problemi, lasciatemelo dire, grazie ad una gestione oculata ed efficiente che ho imposto subito, e che però mi espone ingiustamente a dare risposte che ho già dato con le leggi e gli atti del mio mandato. E' un'ingiustizia per la storia tribolata della Puglia, la quale - e costi quel che deve - non diverrà mai lo scalpo per tacitare i privatisti, che così facendo, altrove e senza il fastidio del clamore, continueranno a favore i loro comodi, o far vincere la demagogia. Ho cominciato il mio mandato con Acquedotto pugliese che registrava perdite per mancata fatturazione, frutto di disorganizzazione e disimpegno, e perdite fisiche pur nella media italiana ma insopportabili per una regione che paga l'acqua alle regioni vicine. Oggi sono ridotte le une e le altre.
Il primo scoglio che ho dovuto superare quando sono arrivato era un bond che abbiamo rinegoziato al 6,92 % annui, eliminando dal paniere il pericoloso titolo (tra gli altri) General Motors. Se non l'avessimo fatto oggi Aqp sarebbe fallita.
La depurazione era affidata a società esterne, oggi è internalizzata. I fanghi della depurazione erano smaltiti con notevoli costi, oggi una sensibile percentuale è trasformata in concime dalla stessa Acquedotto. Gli investimenti erano al rango di una qualsiasi azienda idrica con poche centinaia di chilometri di rete, oggi si fanno nella misura di 200 milioni l'anno per corrispondere ad un piano d'investimenti di 1 miliardo e 500milioni fino al 2018, di cui 500 di contributo regionale ed 1 miliardo ottenuto dal credito bancario. Il credito bancario. Quando sono arrivato le banche non aprivano le loro porte con sollecitudine agli amministratori di Aqp, oggi il rating è maggiore di Fiat, Wind, Piaggio ed altri, e ci fanno trovare le porte aperte per invogliarci a diventare clienti. Con questa "rivoluzione" il mio governo e la mia maggioranza hanno approvato una legge per la ripublicizzazione, superando subito l'ostacolo di dover reperire 12.200.000 di euro per acquistare le azioni detenute dalla Basilicata. Senza questa operazione finanziaria non avremmo potuto fare alcuna ripublicizzazione, ed oggi mi addolora chi si manifesta perplesso sulla ripublicizzazione, pensando alla mia maggioranza ed ai funzionari regionali che hanno dato il meglio per resistere alle critiche e per fare in modo che la somma utilizzata potesse rientrare nel massacrato bilancio regionale attraverso le riserve straordinarie di Aqp. Mentre tutto ciò accadeva e nello spirito del referendum, mi accoglie una richiesta di eliminare il 7% della remunerazione dalla tariffa, con la mala fede di chi sa che questa richiesta va inoltrata all'autorità regolatrice, cioè ai sindaci pugliesi.
Questa richiesta non è tecnicamente perorabile perché in Puglia la remunerazione non è "profitto", serve a pagare gli interessi alle banche per accedere al miliardo di euro di investimenti già programmati e lo sciagurato bond su cui mi aspetto una class action nei confronti di chi se ne rese protagonista. Io non mi aspetto che i sindaci autorizzino una riduzione tariffaria del 7%, anche perché a ciò corrisponderebbe almeno la proporzionale riduzione degli investimenti: cioè l'acqua, la fogna e la salute per i pugliesi, ed in particolare per quelli più deboli.
L'unico motivo reale di dibattito, e me ne duole non aver potuto soddisfare la richiesta, attiene al quantitativo minimo vitale, che il bilancio regionale non è in grado di assicurare, perché il costo ammonterebbe a circa 70 milioni di euro. Non abbiamo la disponibilità di questa cifra anche grazie al governo nazionale che ha falcidiato le finanze delle regioni, e ciò nonostante stiamo per approvare in consiglio regionale un ordine del giorno per garantire il minimo vitale, attraverso una richiesta ai sindaci di rimodulazione tariffaria, incentrata sul pagamento gradualistico in base al reddito e al principio chi spreca paga, senza modificare il piano degli investimenti.
E' l'unica soluzione in questo momento, ed è l'unica a causa dei tagli del governo, quegli stessi che mi inducono a chiedere quando arriverà il giorno in cui capiremo che la battaglia generale contro il governo sui tagli appartiene anche ai sostenitori di battaglie settoriali? Quando capiterà che di fronte ad una battaglia settoriale di vitale importanza, come in questo caso, la voce dei sostenitori si leverà più forte, determinata e chiara? Devo aspettare ancora molto per vedermi accompagnato da un presidio permanente aperto sotto Palazzo Chigi?
Avrei potuto trincerarmi dietro la competenza dei sindaci sulla tariffa le sue modifiche, o magari mettermi alla testa di chi ha il diritto di reclamare anche l'impossibile nei confronti dell'autorità regolatrice delle tariffe (sempre i sindaci): vi prego di credermi, avrei saputo fare bene. Ma non è il mio costume. Ho promesso una stagione di riforme e le riforme non si raggiungono prendendo in giro, o eccitando l'orgoglio di una battaglia e così calpestando chi come me vuole soltanto raggiungere per davvero l'approdo comune.
Due referendum hanno giustamente sepolto la pessima legge sull’acqua voluta a colpi di voti di fiducia dal governo Berlusconi nel 2009, che, fra l’altro, imponeva la privatizzazione obbligatoria delle aziende pubbliche di servizi locali in nome dell’Europa. Un falso. La Ue ha optato per una politica di liberalizzazioni volte a creare una concorrenza fra i vari gestori. Ma il centrodestra non ha liberalizzato, ha semplicemente fatto entrare i privati nelle aziende municipalizzate sostanzialmente per comandare (si pensi a Caltagirone nella più che centenaria Acea di Roma creata dalla Giunta Nathan con referendum). Anche perché quelle stesse imprese locali, un tempo gestite con rigore da un personale competente, sono state riempite – si pensi alla recente vicenda di Parentopoli a Roma – di dirigenti senza competenze specifiche, i quali si sono portati dietro gente ancor più mediocre.
Lo stesso centrodestra che ha teso a privatizzare le imprese pubbliche locali, ha accuratamente evitato di creare una vera concorrenza fra le grandi imprese nazionali e i loro servizi (si pensi soltanto alle ferrovie coi pendolari abbandonati a se stessi). I due referendum hanno quindi azzerato delle pessime regole e riportato l’acqua fra i beni pubblici da gestire in forma coerentemente pubblicistica e non privatistica. Come invece stavano facendo, in gran fretta, le prime aziende acquedottistiche privatizzate intascando dei bei sovraprofitti.
Ora però bisogna riscrivere accuratamente le regole e la sinistra deve concorrere con proposte chiare e responsabili, in ogni settore e in particolare per l’acqua. Dove la situazione italiana è tanto seria quanto anomala. Siamo infatti il Paese che consuma più acqua al mondo per abitante dopo Usa e Canada, il primo in Europa. Con una quota fortissima, il 65 %, in agricoltura, e in particolare al Nord (irrigazione e allevamenti), con consumi industriali almeno in apparenza più ridotti, ma con tanti, troppi prelievi (e scarichi) direttamente in falda, e con sprechi inaccettabili anche negli usi domestici. Si ricicla ancora poco l’acqua già utilizzata, rari sono gli acquedotti industriali e così via. Si dissipa insomma l’acqua potabile. Anche in forza delle tariffe troppo basse di numerose città italiane: il consumo più alto lo si registra a Torino con 291 litri/abitante al giorno i più bassi a Firenze e a Forlì (130 litri/abitante). A Torino, guarda caso, l’acqua la si paga pochissimo. A Firenze e a Forlì la si paga un bel po’ di più. E’ interessante osservare che dove l’acqua costa poco, la si spreca; dove costa, la si economizza. Succede lo stesso in Europa: ad Atene l’acqua costa il doppio di Torino e Milano e se ne consuma, per abitante, meno della metà. Analogamente a Bruxelles, a Zurigo o a Berlino.
Si obietterà: in quelle città straniere gli acquedotti non registrano le perdite sovente ingenti dei nostri. Per la verità le regioni italiane nelle quali si registrano, secondo stime di Lergambiente, le minori perdite e quindi alte efficienze sono quelle – Emilia-Romagna, Umbria e Marche – dove le tariffe non sono “stracciate”, da svendita. Voglio dire che, dove le tariffe remunerano in modo equo costi e investimenti consentendo ammortamenti e miglioramenti delle infrastrutture, la rete risulta più efficiente. Come deve essere in un’azienda di pubblici servizi che si rispetti. Certo, poi ci sono i disastri di Cosenza col 70% di acqua persa per strada, di Campobasso col 65%, di Latina col 66%, ma pure di Trieste, a Palermo, a Catania, a Messina o a Cagliari dove si arriva ad un 40%. Casi in cui, temo, occorrerà un piano straordinario di investimenti. Secondo il geologo Mario Tozzi, i Km di rete idrica da rifare sono almeno 50.000 sui 291.000. Ma è una balla del centrodestra che i 60 miliardi ritenuti necessari per questo adeguamento possano (o meglio, potessero) metterceli soltanto i privati. In generale, come ha scritto di recente l’economista Marco Causi, deputato del Pd, “andrà scritta nuovamente la norma tariffaria, riportandola ai parametri del costo dell’investimento e della remunerazione della gestione industriale” evitando così gli extraprofitti. Lo stesso cantiere riformatore va esteso ad altri servizi lasciati da anni nel limbo, probabilmente per favorire così speculazioni ed ecomafie: per esempio nel campo strategico dei rifiuti urbani e del loro corretto smaltimento. Insomma, dopo questi referendum c’è tanto da proporre e da fare per rimediare alle pessime leggi e alle prolungate inerzie dei governi Berlusconi mascherate con quei commissariamenti straordinari che hanno prodotto la “cricca” con relative speculazioni a danno delle nostre tasche. Ma ci vuole, credo, un nuovo governo, davvero “responsabile”.
Acquedotti
Le Regioni più “virtuose”: Emilia-Romagna, Umbria e Marche perdono meno di 3.000 mc/ Km
La meno “virtuosa”: Campania perde quasi 25.000 mc/km
Dati Legambiente
Tariffe e consumi
Forli’ 1,29 euro/mc 130 litri/giorno abitante
Milano 0,47 euro/mc 280 litri/giorno abitante
Dati 2002 Federgasacqua
Pozzi illegali
Italia 1,5 milioni (300.000 solo in Puglia)
Spagna 510.000
Dati Wwf Italia
Tariffe acqua potabile e ciclo idrico completo*
(in euro/mc calcolate su consumi medi di 200 mc/anno)
Amburgo 1,8 4,2
Bruxelles 1,4 1,8
Barcellona 0,6 1,4
Bologna 0,7 1,3
Brescia 0,5 0,8
Roma 0,4 0,7
Milano 0,2 0,5
* Comprensivo di spese per depurazione, fognature, ecc.
Dati Federgasacqua da SMAT Torino
Classifica mondiale consumi di acqua minerale
(litri a testa/anno)
Emirati Arabi 260
Messico 205
Italia 194
Postilla
E ricordiamo anche quanta parte dello spreco dell’acqua dipende dalla cattiva pianificazione del territorio, e dalle briglie sciolte che sono state lasciate, attraverso deroghe, abusivismo, illeggittimità e altre forme di deregulation (=sregolatezza) nell’uso del suolo. Accanto alle colpe di quanti erano stati eletti per garantire il bene comune e difenderlo dalle mani rapaci dei poteri economici e hanno tradito, ci sono quelle di quanti hanno sostenuto – con le parole o le opere – l’abbandono dell’”urbanistica regolativa” e incoraggiato lo spontaneismo nell’uso del suolo.
Tutto è cominciato poco più di un anno fa, quando la raccolta delle sottoscrizioni per i referendum sull´acqua come bene comune s´impennò fino a raggiungere il picco di un milione e quattrocentomila firme, record nella storia referendaria. Pochi si accorsero di quel che stava accadendo. Molti liquidarono quel fatto come una bizzarria di qualche professore e di uno di quei gruppi di "agitatori" che periodicamente compaiono sulla scena pubblica. O lo considerarono come un inciampo, un fastidio di cui bisognava liberarsi. Basta dare un´occhiata ai giornali di quei mesi.
E invece stava succedendo qualcosa di nuovo. Il travolgente successo nella raccolta delle firme era certamente il frutto di un lavoro da tempo cominciato da alcuni gruppi. In quel momento, però, incontrava una società che cambiava nel profondo, dove l´antipolitica cominciava a rovesciarsi in una rinnovata attenzione per la politica, per un´altra politica. Ai referendum sull´acqua si affiancarono quelli sul nucleare e sul legittimo impedimento. Nasceva così un´altra agenda politica, alla quale, di nuovo, non veniva riservata l´attenzione necessaria.
Mentre i referendari lavoravano per blindare giuridicamente i quesiti e farli dichiarare ammissibili dalla Corte costituzionale, le dinamiche sociali trovavano le loro strade, anzi le loro piazze. Sì, le piazze, perché tra l´autunno e l´inverno questi sono stati i luoghi dove i cittadini hanno ritrovato la loro voce e la loro presenza collettiva. Le donne, le ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori, il mondo della scuola e della cultura hanno creato una lunga catena che univa luoghi diversi, che si distendeva nel tempo, che faceva crescere consenso sociale intorno a temi veri, nei quali si riconosceva un numero sempre maggiore di persone - il lavoro, la conoscenza, i beni comuni, i diritti fondamentali, la dignità di tutti, il rifiuto del mondo ridotto a merce.
Le piazze italiane prima di quelle che simboleggiano il cambiamento nel nord dell´Africa? Le reti sociali, Facebook e Twitter come motori delle mobilitazioni anche in Italia? Proprio questo è avvenuto, segno evidente di un rinnovamento dei modi della politica che non può essere inteso con le categorie tradizionali, che sfida le oligarchie, che rende inservibile la discussione da talk show televisivo. Forse è frettoloso parlare di un nuovo soggetto politico per una realtà frastagliata e mobile. Ma siamo sicuramente al di là di quei "ceti medi riflessivi" che segnarono un´altra stagione della società civile. Di fronte a noi sta un movimento che si dirama in tutta la società, prensile, capace di costruire una agenda politica e di imporla
Mentre tutto questo avveniva, le incomprensioni rimanevano tenaci. Patetici ci appaiono oggi i virtuosi appelli contro il "movimentismo", provenienti anche da persone e ambienti dell´opposizione, che oggi dovrebbe riflettere seriamente sulla realtà rivelata dalle elezioni amministrative e dai referendum invece di insistere nella ricerca di categorie astratte - il centro, i moderati. E se la maggioranza vuol cercare le radici della sua sconfitta, deve cercarle proprio nell´incapacità totale d´intendere il cambiamento, con un Presidente del consiglio che ci parlava di piazze piene di fannulloni, una ministra dell´Istruzione che non ha incontrato neppure uno studente, una maggioranza che pensava di domare il nuovo con la prepotente disinformazione del sistema televisivo.
Guardiamo alle novità, allora, e alle prospettive e ai problemi che abbiamo di fronte. Il voto di domenica e lunedì ha restituito agli italiani un istituto fondamentale della democrazia - il referendum, appunto. Ma ci dice anche che bisogna eliminare due anomalie che continuano a inquinarne il funzionamento. È indispensabile riscrivere la demagogica legge sul voto degli italiani all´estero, fonte di distorsioni, se non di vere e proprie manipolazione. È indispensabile ridurre almeno il quorum per la validità dei referendum. Pensato come strumento per evitare che l´abrogazione delle leggi finisse nelle mani di minoranze non rappresentative, il quorum ha finito con il divenire il mezzo attraverso il quale si cerca di utilizzare l´astensione per negare il diritto dei cittadini di agire come "legislatore negativo". Si svilisce così anche la virtù del referendum come promotore di discussione democratica su grandi questioni di interesse comune.
Ma il punto cruciale è rappresentato dal fatto che ai cittadini è stato chiesto di esprimersi su temi veri, che liberano la politica dallo sguardo corto, dal brevissimo periodo, e la obbligano finalmente a fare i conti con il futuro, con una idea di società, con il rinnovamento delle stesse categorie culturali. Un´altra agenda politica, dunque, che dà evidenza all´importanza dei principi, al rapporto nuovo e diverso tra le persone e il mondo che le circonda, all´uso dei beni necessari a garantire i diritti fondamentali di ognuno. La regressione culturale sembra arrestata, il risultati delle amministrative e dei referendum ci dicono che un´altra cultura politica è possibile.
Il voto sul nucleare non ipoteca negativamente il futuro dell´Italia. Al contrario, impone finalmente una seria discussione sul piano energetico, fino a ieri elusa proprio attraverso la cortina fumogena del ritorno alla costruzione di centrali nucleari. Il voto sul legittimo impedimento ci parla di legalità e di eguaglianza, esattamente il contrario della pratica politica di questi anni, fondata sul privilegio e il rifiuto delle regole. Il voto sull´acqua porta anche in Italia un tema che percorre l´intero mondo, quello dei beni comuni, e così parla di un´altra idea di "pubblico". Proprio intorno a quest´ultimo referendum si è registrato il massimo di disinformazione e di malafede. Si è ignorato quel che da decenni la cultura giuridica e quella economica mettono in evidenza, e cioè che la qualificazione di un bene come pubblico o privato non dipende dall´etichetta che gli viene appiccicata, ma da chi esercita il vero potere di gestione. Si sono imbrogliate le carte per quanto riguarda la gestione economica del bene, identificandola con il profitto. Si sono ignorate le dinamiche del controllo diffuso, garanzia contro pratiche clientelari, che possono essere sventate proprio dalla presenza dei nuovi soggetti collettivi emersi in questa fase.
Quell´agenda politica deve ora essere attuata ed integrata. È tempo di mettere mano ad una radicale riforma dei beni pubblici, per la quale già esistono in Parlamento proposte di legge. E bisogna guardare ad altre piazze. Quelle che affrontano il tema del lavoro partendo dal reddito universale di base. Quelle che ricordano che le persone omosessuale attendono almeno il riconoscimento delle loro unioni: un diritto fondamentale affermato nel 2009 dalla Corte costituzionale e che un Parlamento distratto e inadempiente non ha ancora tradotto in legge, com´è suo dovere.
La fuga dai referendum non è riuscita. Guai se, dopo un risultato così straordinario, qualcuno pensasse ad una fuga dai compiti e dalle responsabilità che milioni di elettori hanno indicato con assoluta chiarezza.
Si vota! Sembra incredibile ma siamo riusciti a far esprimere il popolo sovrano su questioni fondamentali per il nostro futuro, senza la mediazione dei partiti e delle burocrazie politiche. Siamo riusciti ad aprire un dibattito serio nel paese e a proporre politicamente strumenti di azione ed un linguaggio nuovo, quello dei beni comuni, che esce dalle stanze degli addetti ai lavori.
Non è un traguardo da poco, né era scontato che saremmo riusciti a raggiungerlo. Un voto popolare per invertire la rotta rispetto ad un modello di sviluppo fondato sull'ideologia della privatizzazione e su un rapporto fra l'interesse pubblico e quello privato sempre più spostato a favore di quest'ultimo, non poteva che dar fastidio a molti. E i suoi esiti possono essere politicamente dirompenti, forse perfino costituenti di una fase nuova finalmente capace di superare in Italia il blocco del pensiero unico che paralizza ogni possibilità di uscita dalla crisi. Comunque, siamo riusciti a fermare il folle banchetto nucleare che pareva già imbandito quando, poco più di un anno fa, si siglavano gli accordi italo-francesi fra Edison ed Edf. Questo pactum sceleris poteva esser presentato, senza pudore, come un passo verso la modernizzazione sulle pagine dei giornali.
Adesso la Confindustria, che già aveva l'acquolina in bocca per i ricchi trasferimenti dal settore pubblico a quello privato, si agita vieppiù nervosamente perché rischia di veder sfumare anche il business dell'acqua, dei trasporti e della spazzatura. Infatti, se dovessimo vincere il referendum, organizzeremmo la gestione dell'acqua in modo coerente con la sua natura di bene comune: ne affideremmo la gestione ad un settore pubblico ristrutturato e democratico seguendo una logica ecologica e di lungo periodo. Troveremmo gli investimenti per un grande di intervento pubblico sul territorio, per ristrutturare le infrastrutture e prevenirne il degrado. Creeremmo così posti di lavoro garantiti come quelli che, sembra un secolo fa, avevano i cantonieri prima che Anas si trasformasse in un una agenzia di gestione di gare d'appalto. Perché il privato dovrebbe investire sul lungo periodo? Perché le gare dovrebbero essere trasparenti e meritocratiche? Perché non dovrebbero esserci soldi pubblici per una riconversione ecologica del nostro modello di sviluppo mentre ci sono (200 milioni al mese) per massacrare civili in Libia e Afghanistan, in brutale violazione della Costituzione?
Porre queste domande non è stato facile. Il governo ha iniziato inserendo addirittura nel preambolo del decreto Ronchi la grande menzogna per cui la dismissione a favore del privato del servizio idrico e degli altri servizi di interesse economico generale (trasporti e spazzatura) sarebbe stato obbligatoria sul piano europeo e quindi non sottoponibile a referendum. Questo argomento è stato il mantra ripetuto dai nostri oppositori (bipartisan) mentre noi raccoglievamo milioni di firme e iniziavamo un grande processo dal basso di alfabetizzazione idrica, ecologica ed istituzionale che, già da solo, ha reso l'Italia un luogo migliore. Poi la Corte Costituzionale ha accolto per due terzi il nostro impianto referendario, sbugiardando sul punto il governo, mettendo in chiaro i limiti culturali dell'impostazione dell'Avvocatura dello Stato, e riconoscendo l'importanza anche giuridica della nozione di beni comuni (poco dopo la nozione è stata elaborata anche dalle Sezioni Unite della Cassazione).
Da quel momento il governo avrebbe dovuto divenire "amministrazione", rispettando la Costituzione. Lungi dal farlo, il governo ha innanzitutto dilapidato 350 milioni (di quel denaro pubblico impossibile da trovare per riparare gli acquedotti) rifiutando l' "election day". Abbiamo puntualmente presentato ricorso contro questa autentica vergogna, ma né il Tar Lazio né la Corte Costituzionale hanno avuto il coraggio di opporvisi. Dal 4 aprile poi è scattata la par condicio, che ha reso tabù la discussione sui beni comuni mentre, nel frattempo, la maggioranza faceva melina in Commissione di Vigilanza per impedire che si emanassero i decreti necessari per assegnare gli spazi ai promotori.
Quando la terribile tragedia di Fukushima rende impossibile non parlare di questione nucleare, il governo, come un bambino beccato dalla mamma con le mani nella marmellata, mette a segno l'autogol per far saltare i referendum. Con l'approssimazione giuridica che contraddistingue una maggioranza che a furia di disprezzare la legge non sa più utilizzarla, il decreto omnibus, cerca di cancellare il voto sul nucleare.
Se per qualche settimana la confusione prodotta nell'opinione pubblica è stata totale, il tentativo di scippo goffo e maldestro dell' ultimo minuto ha scatenato nel corpo elettorale gli anticorpi dell' indignazione. La nostra energia si è moltiplicata, nuovi appoggi, fino a quel momento impensati, sono arrivati alla nostra compagine. Mentre il legame culturale fra il nucleare e l'acqua, declinato nella riflessione sui beni comuni faceva crescere lo spessore politico delle nostre analisi ed il significato del referendum, il mondo cattolico, mobilitato da quel grande campione di visione politica di lungo periodo che è Alex Zanotelli scendeva apertamente in campo.
In questo scenario sociale i referendum, con la rete di diverse decine di migliaia di attivisti per gran parte estranei ai partiti, paiono proprio il corrispondente italiano delle primavere arabe e degli indignados spagnoli. Fra poche ore sapremo se il nostro disegno di conferire forza politica costituente a un grande ripensamento dei rapporti fra pubblico e privato attraverso lo strumento dei quesiti referendari abrogativi sui beni comuni, sarà condiviso dalla maggioranza del popolo italiano. In caso affermativo, l'avidità per l'oro blu avrà sciacquato via, almeno in Italia, la fine della storia ed il pensiero unico.
Anticipiamo il testo dell'introduzione di Tommaso Fattori all'edizione italiana dello studio di David Hall ed Emanuele Lobina – ricercatori del PSIRU (Public Services International Research Unit) dell'Università di Greenwich – Da un passato privato ad un futuro pubblico. La privatizzazione del servizio idrico in Inghilterra e nel Galles, edizioni Aracne (di prossima uscita).
Questo rigoroso studio sugli effetti della “più grande rapina legalizzata” della storia britannica – definizione del quotidiano conservatore Daily Mail – contiene elementi importanti per il dibattito sulla privatizzazione del servizio idrico che sta attraversando il nostro paese, grazie all’iniziativa referendaria "2 sì per l’acqua bene comune" promossa da una vastissima coalizione sociale.
Un dibattito nel quale colpisce l’astrattezza ideologica delle tesi dei privatizzatori, aggrappati a modelli economici irreali, talvolta per l’ingenuità tipica di chi vive asserragliato nell’accademia senza contatto con il mondo esterno, più frequentemente per i forti interessi materiali connessi ai processi di privatizzazione. L’astrattezza di queste argomentazioni, spesso comicamente ammantate di pragmatismo, rifiuta con ostinazione di confrontarsi con i dati di fatto e con l’esperienza empirica, là dove i processi di privatizzazione del servizio idrico integrato siano avanzati e consolidati da anni. Anzi, sono proprio alcune esperienze di privatizzazione “riuscita”, come quella inglese o gallese, ad essere portate ad esempio da chi evidentemente non ha idea di ciò di cui sta discettando o confida nell’ignoranza di chi ascolta. Non è un mistero che in Italia il modello inglese venga portato ad esempio tanto dal governo di centro-destra che da parte dell’ opposizione, soprattutto perché consente di pronunciare una parola magica di gran moda: authority. L’authority, intesa come autorità indipendente di regolazione e controllo, appare alle menti neoliberiste un’entità quasi metafisica, che tutto dovrebbe risolvere all’interno di un mercato monopolistico privatizzato, coniugando armoniosamente il profitto di pochi e l’interesse generale. David Hall ed Emanuele Lobina mostrano invece, con dati incontrovertibili, come la mitica authority dell’acqua –più precisamente si tratta dell’Office of Water Service (Ofwat)- non sia affatto in grado di regolare o controllare alcunché, per limiti strutturali ed insuperabili di questo meccanismo, lasciando alle società private la possibilità di ricavare immensi profitti e di distribuire agli azionisti lauti dividendi attraverso la gestione monopolistica dell’acqua. Il servizio idrico è a domanda anelastica (la stessa quantità vitale d’acqua è necessaria ad una famiglia in tempi prosperi e in tempi di crisi, ai ricchi e ai poveri) ed è un servizio fondamentale perchè permette concretamente l’accesso ad un bene comune essenziale ed insostituibile per la vita. Un bene che dovrebbe riguardare la sfera dei diritti fondamentali è così consegnato al dominio dei profitti. L’authority finisce per essere una mera foglia di fico, che copre e legittima questo processo di spoliazione.
Hall e Lobina evidenziano come l’ente regolatore Ofwat sia stato continuamente raggirato dai gestori privati, che, nel migliore dei casi, hanno intascato extraprofitti riducendo gli investimenti programmati (ossia già pagati in tariffa dai cittadini). I casi più gravi non sono però emersi grazie al controllo di Ofwat ma perchè denunciati, a posteriori, dagli stessi autori dei misfatti, pentiti e decisi a svelare i meccanismi messi in piedi a danno dell’interesse generale. Negli scandali che hanno coinvolto Severn Trent, ad esempio, “l’informatore” è stato un ex manager che ha ammesso d’aver ricevuto l’ordine di alterare dati rilevanti al fine d’ottenere dal regolatore un aumento delle tariffe. Una vicenda che ha poi permesso di scoprire, attraverso successive confessioni, come una gran mole di dati forniti dalle società private ad Ofwat fossero falsi o gonfiati: dai dati sulle perdite di rete fino a quelli sulla consistenza reale delle morosità. Tutto ciò non fa che corroborare la tesi dell’impossibile governo e controllo pubblico delle gestioni privatizzate, avvolte nel guscio del diritto privato e regolate dal diritto societario. Un’impossibilità, aggiungerei, che non dipende tanto dalla cattiva volontà di singoli individui o da limiti organizzativi contingenti ma da fenomeni strutturali, come le “asimmetrie informative”: le conoscenze rilevanti si trovano tutte in mano al gestore (il gestore “sa” perché “fa”) ed è il gestore privatizzato che trasmette le informazioni sensibili al controllore, il quale non può che dipendere, nella sua attività di regolazione e controllo, da questi dati. Altrimenti detto, il gestore ha strutturalmente maggiori informazioni rispetto al regolatore e cerca di trarre il massimo vantaggio da questa asimmetria conoscitiva, a discapito del pubblico interesse. “Fare” significa “sapere” e sapere significa “potere”: nessun ente regolatore potrà mai recuperare quel cumulo di conoscenze legate alla gestione diretta che migra inevitabilmente dalla sfera del pubblico alla sfera del privato nel momento stesso in cui viene privatizzato un servizio essenziale. Il pubblico perde le conoscenze necessarie per esercitare il proprio controllo nel momento in cui è all'impresa che passa tanto il "fare" che il "saper fare" (know how), che gli è inscindibilmente connesso. Un soggetto regolatore esterno, per esempio, non può essere in grado di avere perfetta conoscenza dei processi produttivi e delle tecnologie impiegate, dati necessari per stabilire con precisione i costi di produzione del gestore privato. Ecco perché al fenomeno delle asimmetrie informative segue automaticamente la “cattura del regolatore”: se l’autonomia conoscitiva del regolatore è limitata, anche la capacità di giudizio e intervento viene impedita, così l’ente che dovrebbe regolare e controllare tende piuttosto ad adeguare le sue analisi alle interpretazioni offerte dai gestori, perdendo ogni neutralità e schiacciando il proprio punto di vista su quello dei soggetti controllati. Oltretutto, gli enti regolatori si devono solitamente rapportare a società privatizzate la cui governance effettiva è in mano a grandi soggetti multinazionali, che entro la società hanno il reale potere decisionale. Il caso inglese gallese trova quindi un perfetto pendant nell’esperienza italiana, dove le Aato, ossia le autorità di ambito che dovrebbero regolare e controllare i gestori, non sono affatto riuscite a regolare le società privatizzate, adeguandosi sostanzialmente alle richieste e alle esigenze dei controllati, a partire da quelle relative alla definizione delle tariffe. Agli albori della privatizzazione in Italia vi è il caso dell’Ato aretino, in Toscana, dove alla fine degli anni ’90 la gestione fu affidata tramite gara ad una società mista, con all’interno una cordata di privati guidati dalla multinazionale francese Suez. Proprio ad Arezzo il presidente dell’autorità di controllo si dimise dal suo incarico denunciando l’impossibilità di regolare la società privatizzata e rilevando la "debolezza endemica del rapporto pubblico-privato" [1] all’interno di una società mista, per quanto formalmente a maggioranza pubblica. In Italia il governo s’appresta nel 2011 a sostituire le autorità d’ambito territoriali con un’authority regolatrice nazionale sul modello inglese, ma si tratta di uno specchietto per le allodole: privatizzare il servizio idrico significa consegnare di fatto saperi e poteri alle gestioni privatizzate, come l’esperienza d’oltremanica mostra in modo limpido.
Qualcuno potrebbe ottimisticamente sostenere che in Italia la nuova ondata di privatizzazione dell’acqua offrirà maggiori garanzie perché intende muovere da premesse diverse: a differenza del modello inglese e gallese analizzato da Hall e Lobina, il modello di privatizzazione italiano dovrebbe prevedere, in origine, l’affidamento della gestione ad operatori privati tramite gara (o, in alternativa, l’ingresso di soci privati nelle Spa in house almeno con il 40% di partecipazione nel pacchetto azionario, soci da individuare sempre tramite procedura ad evidenza pubblica). Le gare potrebbero pur esser vinte da società di capitali interamente pubbliche, si aggiunge, come per velare ed occultare la logica privatrizzatrice del provvedimento [2], il cui obiettivo immediato è spazzar via proprio le gestioni in house. Lo si sarà facilmente intuito, in questo caso la nuova parola magica è gara: come se la gara potesse mutare d’incanto un pervicace “monopolio naturale” – in ogni territorio passa un solo acquedotto e c’è un solo fornitore possibile - in un mercato concorrenziale. Invece il monopolio naturale si trasforma così in un solido monopolio privato, con vita peraltro assai lunga, solitamente ventennale o trentennale (addirittura 50 anni in Inghilterra e Galles, dove sono state privatizzate persino le infrastrutture). Per sua natura il servizio idrico non può essere liberalizzato ma solo privatizzato e l’esperienza, ancora una volta, dimostra come la “concorrenza per il mercato” (il meccanismo di gara), che nella teoria dovrebbe compensare e risarcire l’assenza di un’impossibile “concorrenza nel mercato”, si riveli solo l’evanescente copertura per l’ingresso di soggetti privati a caccia di rendite garantite in un mercato monopolistico. Lo dimostra l’esperienza internazionale ma anche italiana, dato che le offerte presentate in occasione di gare effettuate nel nostro paese sono state una o due al massimo: il mercato dell’acqua privatizzata è dominato da oligopoli e questi pochi attori si mettono d’accordo fra loro per spartirsi rendite monopolistiche, come accaduto fra le presunte “concorrenti” Acea e Suez nelle gare realizzate in Italia nel decennio passato. L’Autorità antitrust, nel 2007, multò le due multinazionali “per aver posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza (…), che ha avuto per oggetto e per effetto un coordinamento delle rispettive strategie commerciali nell’ambito del mercato nazionale della gestione dei servizi idrici”. Più precisamente “l’istruttoria ha consentito di verificare che Acea e Se (Suez ndr) hanno raggiunto sin dal 2001 un accordo di massima sul coordinamento delle rispettive attività nel settore dei servizi idrici. In particolare, le parti hanno concordato la partecipazione congiunta a numerose gare relative a gestioni idriche in Italia – a partire da quelle bandite in Toscana, dove la forma operativa del PPP è stata adottata per la prima volta in maniera estesa (…) – ovvero combinazioni con soggetti terzi al fine di condizionare gli esiti di procedure ad evidenza pubblica (gare, ndr)”. Né sarebbe stato difficile immaginarlo, dal momento che la quota di capitale azionario di Acea in mano alla “concorrente” Suez è sempre stata consistente (nella primavera del 2011 la partecipazione è salita addirittura dal 10 all’11,5%). Il fine di questa alleanza era evidente: “un simile accordo di cooperazione (…) è stato volto a mantenere ed aumentare il rispettivo potere di mercato secondo criteri di mera strategia imprenditoriale e non di maggior efficienza industriale”. Suez non intendeva “lasciare Acea ad approfittare da sola dei margini realizzabili nel settore non regolamentato”: “obiettivo: utilizzare Acea come ‘braccio armato’ di Suez per l’acqua in Italia.” [3]
Per un altro verso, non esiste un solo economista (in grado di separarsi, anche per un istante, dagli amatissimi modelli astratti), che non conosca la banale verità: nel servizio idrico, dove gli affidamenti durano decenni, non sono mai possibili gare che permettano di valutare con attendibilità quale sia la migliore offerta economica, perché i termini fondamentali del contratto dovranno essere necessariamente rivisti nel tempo e ha ben poca importanza l’offerta avanzata in origine. In altre parole, tutti gli elementi economicamente determinanti su cui basare la scelta -a partire dagli investimenti e dalle tariffe- dovranno essere rinegoziati svariate volte dopo la gara, nel corso del lungo periodo d’affidamento del servizio. In gare di questa natura conta l’arbitrarietà e la discrezionalità di chi sceglie ma ancor più conta la forza ed il potere dei soggetti economici privati che si propongono per la gestione del servizio. Sarà poi il gestore che avrà ottenuto l’affidamento ad essere, nel corso delle successive rinegoziazioni, in posizione dominante (detenendo sapere e potere), anche se trovasse di fronte a sé il miglior regolatore al mondo. Insomma, la pragmatica Thatcher, nel demolire i servizi pubblici, ha almeno evitato ai poveri inglesi la ridicola pantomima della gara.
I privatizzatori sostengono inoltre che l’arrivo dei privati porti di per sé un aumento degli investimenti nel settore, per la ristrutturazione degli impianti e per la realizzazione di nuove infrastrutture (in Italia soprattutto per la depurazione delle acque reflue). Per innescare un simile meccanismo virtuoso, si dice, basta legare i profitti agli investimenti: se il privato tanto più investe quanto più guadagna, sarà spinto ad investire moltissimo, perseguendo il proprio interesse che si tradurrà anche in beneficio per tutti. Certo, le bollette si alzerebbero, sia perché gli investimenti vanno pagati interamente in tariffa (in base al sistema del full cost recovery), sia perché è giusto “premiare”, con i legittimi profitti, l’investitore privato; ma se il gestore privato risultasse efficiente, s’aggiunge, potrebbe diminuire i costi operativi e così i cittadini quasi non s’accorgerebbero del profitto e dei dividendi privati caricati sulle tariffe. Il caso inglese e gallese dimostrerebbero bene la realizzabilità di un simile miracolo, viene spesso ribadito. Se invece dal magico mondo dei modelli astratti torniamo all’esperienza del mondo reale, vediamo che le cose non stanno così, né mai potrebbero stare così. Innanzitutto, a proposito di profitti occorre una premessa: chiunque abbia dimestichezza con i processi di privatizzazione sa bene quali e quanti modi vengano utilizzati normalmente dai privati dell’acqua per ottenere profitti ed extra-profitti, fra cui, ad esempio, il travestire da investimenti spese che nelle gestioni pubbliche figuravano più onestamente in bilancio come voci per normalissimi costi di gestione ordinaria; spacciare per consulenze e trasferimento di know-how quelli che invece sono “utili anticipati” per i soci privati; affidare appalti a società direttamente o indirettamente controllate o collegate, senza passare da gara (spezzettando l’appalto in più parti quando si tratti di lavori superiori ai 4,8 milioni di euro). Ma è necessario porci la domanda di fondo: davvero sono i privati a far partire gli investimenti? Cosa ci insegna, in proposito, il famoso caso inglese-gallese? Hall e Lobina mostrano chiaramente due cose. La prima è che il motore degli investimenti in Inghilterra e Galles è stata più semplicemente la necessità esogena di rispettare le nuove direttive UE, specialmente in materia di qualità delle acque. In altre parole, qualunque gestore, pubblico o privato, avrebbe dovuto realizzare le opere e programmare nuovi investimenti. La seconda, che negli ultimi anni di gestione pubblica (dalla metà degli anni ’80), dopo un periodo precedente di stallo, il ciclo d’investimenti era già ripartito ad un tasso di crescita medio persino superiore a quello riscontrato nei successivi anni di gestione privata.
Ma gli elementi importanti che Hall e Lobina evidenziano sono molteplici. Prima di tutto mostrano come nei primi dieci anni di privatizzazione un terzo degli investimenti siano stati in realtà finanziati da un insieme di “sussidi pubblici”. Anche in Italia le associazioni di categoria che riuniscono le Spa dell’acqua continuano a chiedere finanziamenti pubblici a fondo perduto –quindi denaro della fiscalità - a favore dei gestori privati per effettuare investimenti straordinari, in violazione della normativa europea e del meccanismo del full cost recovery (implicita ammissione, fra l’altro, che il meccanismo della privatizzazione della fonte di finanziamento e della gestione non sta funzionando) [4]. Insomma, socializzare i costi e privatizzare gli utili.
I due autori ricordano anche come, dopo il picco raggiunto nel 1992, gli investimenti delle gestioni privatizzate abbiano iniziato a calare costantemente, mentre non scendono affatto le tariffe pagate dai cittadini che anzi continuano a lievitare, malgrado il loro andamento debba essere teoricamente legato agli investimenti. Nelle tariffe i cittadini inglesi e gallesi pagano per decenni investimenti in gran parte mai realizzati. Gli operatori privati ottengono continuamente da Ofwat l’applicazione di tariffe più salate, gonfiando con regolarità le spese per investimento previste, salvo poi ridistribuire agli azionisti, sotto forma di dividendi, la differenza fra investimenti programmati e investimenti effettivamente realizzati. Un furto scandalosamente spacciato per capacità dei privati di risparmiare sulle spese previste migliorando in corso d’opera l’“efficienza del capitale” (fulgido esempio di cosa s’ intenda per “efficienza” della gestione privata). Di fatto, si tratta di milioni di extra-profitti che passano dalle tasche dei cittadini a quelle degli azionisti privati delle società di gestione, malgrado l’esistenza della mitica Authority a regolare e vigilare, con aplomb britannico. Hall e Lobina portano dati precisi su questa impennata di profitti ed extra-dividendi distribuiti dalle società privatizzate dell’acqua: nel 2005-6 l’ammontare del “risparmio” tocca il miliardo di sterline (il 22% di spesa in meno rispetto alla stima degli investimenti su cui Ofwat aveva stabilito la tariffa).
Così i privati hanno continuato ad intascare dividendi da favola mentre le tariffe dei cittadini hanno continuato a crescere senza sosta. Gli studi citati concordano nel rilevare una relazione diretta fra aumenti delle tariffe ed incremento dei profitti per i gestori. Nei primi 10 anni di privatizzazione i profitti delle principali dieci società idriche inglesi sono cresciuti del 147%: circa il 30% della bolletta pagata dal cittadino è intascata dagli azionisti privati sotto forma di dividendi. Nelle Spa dell’acqua italiane, quel 7% di “adeguata remunerazione del capitale investito” contro cui si è rivolta l’iniziativa referendaria [5] incide mediamente, nel 2011, per il 15% sul totale della bolletta pagata (senza mettere in conto extra-profitti e utili indiretti che i soci privati sono in grado di realizzare a danno dei cittadini). In Inghilterra e Galles all’impennata del 245% delle tariffe dal 1989 al 2006 (39% oltre il tasso d’inflazione), non è corrisposto nessun miglioramento del servizio, nessuna “efficienza” magicamente infusa nel sistema dai privati. L’analisi dei dati mostra come, in termini reali, i costi operativi siano rimasti gli stessi mentre l’aumento costante delle tariffe sia da imputare principalmente “a vari elementi associati al capitale – i costi del capitale, l’interesse, i profitti- che sono quasi raddoppiati in termini reali”. Vale la pena ricordare come vi sia universale accordo fra gli studiosi del settore sul fatto che un aumento dell’1% della remunerazione del capitale investito equivale a oltre il 10% di riduzione dei costi di gestione: il maggiore costo del capitale divora facilmente eventuali margini di efficienza, intesi come riduzione dei costi operativi. Le gestioni privatizzate costano di più e sono nella maggior parte dei casi tutt’altro che efficienti. Il mantra ideologico della maggior efficienza del privato rispetto al pubblico, ossessivamente ripetuto negli anni ’80 e ’90, ormai non è più intonato neppure da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, che pure avevano puntato molto sulla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, acqua in primis. Tutti gli studi sui servizi idrici ribadiscono che non esiste alcuna superiore efficienza delle gestioni private rispetto a quelle pubbliche, come ammette la stessa analisi pubblicata dalla Banca Mondiale nel 2005, opportunamente citata da Hall e Lobina: statisticamente “non c’è una differenza significativa fra l’andamento dell’efficienza degli operatori pubblici e quello dei privati”. A parità d’efficienza gestionale, però, l’ottimo privato costerà necessariamente alla collettività molto più dell’ottimo pubblico, data l’intrinseca necessità del privato di produrre profitti e remunerare i capitali investiti: l’obiettivo di una gestione privatistica del servizio idrico è, innanzi tutto, la creazione di valore per gli azionisti (non la garanzia del diritto d’accesso universale al bene acqua). Maggiori profitti si possono ottenere aumentando le tariffe, tagliando il costo del lavoro, riducendo la qualità del servizio. I profitti si possono incrementare anche aumentando i volumi d’acqua venduti (anziché incoraggiare il risparmio e la tutela della risorsa), riducendo gli investimenti effettivi rispetto a quelli programmati (e perciò pagati in tariffa), spacciando interventi d’ordinaria manutenzione per investimenti.
I dati e gli studi raccolti da Hall e Lobina compongono un quadro preoccupante- per quanto non inaspettato - degli effetti della privatizzazione, che va ben al di là degli impressionanti aumenti tariffari che hanno colpito i cittadini e in particolare le famiglie più povere (costrette a spendere il 4% del loro reddito per pagarsi l’acqua, se non a subire il “distacco” dal servizio per morosità). Mostrano gli impatti negativi sul lavoro e sui lavoratori, diminuiti nel settore del 21%, anche se le gestioni private hanno fatto in seguito massiccio ricorso ad esternalizzazioni e lavoro precario (meno pagato e meno qualificato), a danno della qualità del servizio. Mostrano il gran numero d’incidenti ambientali causati dalle società privatizzate, Suez ed Enron in testa. Mostrano infine come le reti idriche siano peggiorate e si siano deteriorate ad una velocità superiore alla capacità dei gestori di rinnovarle e come, a dieci anni dalla privatizzazione, la qualità dell’acqua potabile risultasse ormai al di sotto degli standard minimi, presentando quasi ovunque valori oltre i limiti consentiti rispetto a numerose sostanze dannose per la salute.
Scorrendo i dati raccolti si scopre come casi d’acqua razionata e di fornitura interrotta non riguardino solo alcune realtà del sud Italia (dove sono gli interessi mafiosi a condizionare il “governo” dell’acqua e la sua fornitura) ma, in occasioni di siccità, abbiano colpito persino aree dell’est inglese, a causa di incapacità gestionali delle società private dell’acqua, che in precedenza avevano preferito distribuire maggiori dividendi anziché realizzare importanti investimenti. A proposito delle perdite di rete (terreno su cui avrebbe dovuto misurarsi la capacità d’investimento privato), difficile non notare come la città più grande della Gran Bretagna, Londra - gestita dalla privatissima Thames Water - abbia perdite del 40%. Volendo fare un paragone con realtà comparabili del nostro paese, ossia con le città italiane più grandi, si osserverà come a Roma, gestita dalla Spa mista e quotata in borsa Acea (nel cui capitale sociale vi sono Suez, banche private e l’imprenditore delle costruzioni Caltagirone) si registrino perdite di rete del 35%. A Milano, dove si ha una gestione ancora a totale capitale pubblico che ha ereditato strutture e saperi dell’azienda municipalizzata, si registrano a tutt’oggi perdite del 10%, fra le più basse di tutta Europa. A Milano si registrano anche tariffe fra le più basse del continente, tra l’altro. Pure a Napoli l’acqua è gestita da una società a totale capitale pubblico: le tariffe sono basse e le perdite di rete sono del 18%, il miglior dato del paese subito dopo Milano, sempre secondo i dati dell’indagine Civicum-Mediobanca del 2010.
Il caso inglese-gallese impone dunque una riflessione complessiva sul capitolo degli investimenti. In Italia per anni è stato ripetuto che l’ingresso dei privati all’interno di Spa miste sarebbe stato indispensabile per ottenere i capitali freschi necessari per gli investimenti. In verità, ora che i soci privati fanno parte già da molti anni di un numero considerevole di Spa, l’esperienza indica alcune evidenze. La prima è che i privati sono entrati ottenendo, in cambio di basse capitalizzazioni (i capitali vengono conferiti per poter entrare nella compagine azionaria), la governance effettiva della società, a partire dalla nomina dell’amministratore delegato. La seconda è che i capitali utilizzati per gli investimenti derivano dall’autofinanziamento - la liquidità messa a disposizione dai cittadini attraverso le tariffe - ma soprattutto sono il frutto dei prestiti ottenuti a caro prezzo dalle banche (capitale di debito conseguito attraverso mutui o project financing), che saranno a loro volta ripagati dalle future bollette. Le banche che prestano il denaro alle società, a tassi d’interesse di mercato, sono a loro volta socie delle medesime Spa. Anche in Inghilterra e Galles la dinamica è stata la medesima: privatizzato il servizio, ben presto le principali fonti dei capitali per le società private sono state le banche. Il livello dell’indebitamento delle società con gli istituti di credito è cresciuto da un valore pressoché nullo ad un valore medio del 60% con punte del 75%.
Il costo del capitale privato è notoriamente molto più alto del costo del capitale ottenibile tramite finanza pubblica. Il modo in assoluto più costoso per finanziare gli investimenti è quello di ricorrere al capitale privato, vuoi che si tratti di capitale equity (azioni), vuoi che si tratti di capitale di debito (indebitamento con le banche). A maggior ragione ciò vale in un servizio come quello idrico, che necessita di notevoli quantità di denaro per realizzare gli investimenti e dove quindi il costo del capitale incide enormemente sul costo complessivo del servizio. Questa semplice verità è confermata ancora una volta dal caso inglese e gallese: quando si debba trovare denaro per far funzionare un servizio -mostrano le cifre e i grafici raccolti da Hall e Lobina- il finanziamento tramite capitale azionario si è rivelato il più costoso in assoluto (dividendi da pagare agli azionisti). Segue il finanziamento degli investimenti tramite prestito bancario, che è più conveniente dell’equity ma pur sempre costoso (interessi sul capitale prestato). Il modo in assoluto più conveniente per ottenere capitale per gli investimenti è, ovviamente, il ricorso a forme di finanza pubblica. In altre parole, se invece di finanziarsi attraverso l’equity, se invece di ricorrere alla borsa o di prendere prestiti in banca vi fossero aziende pubbliche dell’acqua, il passaggio a forme di finanziamento privo di rischi (titoli di debito pubblici) permetterebbe di risparmiare ogni anno cifre colossali.
Per gli stessi motivi anche in Italia la proposta alternativa di finanziamento del servizio idrico avanzata dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua prevede, al posto della costosissima combinazione di capitale equity e capitale di terzi che la privatizzazione porta con sè, un insieme di strumenti di finanza pubblica e di fiscalità generale, nel contesto di una gestione del servizio tramite soggetti di diritto pubblico [6]. Ciò permette di fuoriuscire dalla morsa stritolante del grande capitale finanziario, che, per far funzionare servizi d’interesse generale, obbliga a ricorrere all’equity e al costosissimo mercato privato del credito, con l’unico fine di far fruttare il capitale. La tariffa dell’acqua si trasforma in “prezzo” e il cittadino si trasforma in consumatore, obbligato a finanziare la creazione di ricchezza per i detentori di capitale privato per poter accedere ad un bene vitale come l’acqua. E’ questo il senso profondo della trasformazione di un bene comune in “merce”.
Gli strumenti di finanza pubblica in grado di mettere a disposizione risorse per gli investimenti ad un costo notevolmente più basso sono molteplici, dai titoli di debito classici a quelli più innovativi, dai “Bot di scopo” di lunga o lunghissima scadenza ai bond irredimibili (che possono esser emessi anche localmente). Il “prestito irredimibile” non prevede la restituzione del capitale -non incide quindi sul debito pubblico- e in cambio garantisce al prestatore una rendita perpetua ad un tasso d’interesse congruo. Questo strumento, il cui costo sarebbe pagato attraverso le tariffe, potrebbe esser utilizzato per coprire gli investimenti necessari a ristrutturare le reti. Allo stesso tempo occorre quantomeno ripensare la funzione delle banche pubbliche, o di ciò che ne resta (Cassa depositi e prestiti), se non proporsi di progettare una nuova generazione d’istituti di credito pubblici, che potrebbe contemplare anche l’istituzione di una specifica banca dell’acqua, sul modello dell’olandese Nederlandse Waterschapsbank.
La logica autentica del servizio pubblico si sposa in modo naturale e automatico con gli strumenti della finanza pubblica perché rifiuta ogni finalità speculativa: non è orientata alla distribuzione di dividendi e di profitti, ossia alla remunerazione dei capitali, bensì alla copertura dei costi attraverso i ricavi e alla necessità di reinvestire nel servizio tutti gli “avanzi di bilancio” (che per questo non possono essere definiti “utili”). In altre parole, la logica pubblica si pone il problema del costo del capitale ma non quello della sua remunerazione in termini speculativi. In tal senso sono pensati gli strumenti della finanza pubblica per reperire fondi per gli investimenti al minor costo possibile. Affinché si dia questo cambio di paradigma, però, occorre uscire definitivamente dal quadro delle società di capitali, che sono per loro natura costrette a ricorrere al mercato privato del credito per finanziarsi.
Ma è ineludibile un altro nodo. E’ necessario anche il parziale ricorso alla fiscalità generale per finanziare l’accesso al minimo vitale d’acqua cui ha diritto ciascuna persona (indipendentemente dalla sua condizione sociale) e per effettuare gli investimenti in nuove infrastrutture. Il full cost recovery, viceversa, è il meccanismo che pretende di caricare sulle tariffe tutti gli investimenti, oltre ai consumi, ai costi di gestione del servizio, ai profitti e ai dividendi per gli azionisti. Un meccanismo che, peraltro, non sta funzionando: in Italia, da quando è stato adottato circa a metà degli anni ’90, gli investimenti sono crollati di due terzi ed oggi vengono realizzate poco più della metà delle opere programmate. La domanda di fondo è: chi deve pagare gli investimenti per nuove infrastrutture, solo il cliente-utente o anche il cittadino-contribuente? I costi di una nuova infrastruttura acquedottistica o di un nuovo depuratore (esattamente come un nuovo ospedale o una nuova scuola) se costruiti grazie a fondi provenienti dalla fiscalità generale saranno pagati, in proporzione, in misura maggiore dai contribuenti più ricchi. In altri termini, le aree più avanzate di un paese o di una regione sosterranno quelle più povere e i cittadini più facoltosi parteciperanno alla realizzazione dei diritti dei concittadini meno abbienti, dato che l’imposizione fiscale è progressiva. All’opposto, caricare tutti i costi infrastrutturali in tariffa significa costruire un meccanismo di finanziamento fortemente regressivo dal punto di vista distributivo. Insomma, quando un bene essenziale come l’acqua viene interamente finanziato tramite tariffa, compresi gli investimenti infrastrutturali straordinari, ricchi e poveri si trovano a pagare l’investimento senza nessuna proporzione al reddito percepito e senza alcun meccanismo di solidarietà sociale. Inoltre -dato che ricchi e poveri hanno bisogno della stessa quantità d’acqua per bere, cucinare, lavarsi- tariffe più salate incideranno in misura molto diversa sui redditi, come ben mostra il capitolo che Hall e Lobina dedicano all’impatto della privatizzazioni sulle fasce deboli.
C’è chi taglia corto e sostiene che privatizzare interamente la fonte di finanziamento del servizio attraverso il full cost recovery, pur con i suoi effetti socialmente regressivi, è una necessità dei tempi: i soldi pubblici sono scarsi ed è inevitabile scegliere fra sanità e acquedotti, fra scuole e depuratori, come se si potesse vivere senza diritto alla salute o senza accesso all’acqua potabile, come se qualcuno ci chiedesse di scegliere se preferiamo smettere di dormire o smettere di respirare. Certamente se oggi vi è un problema di priorità di spesa questo non si pone fra acquedotti e ospedali bensì, più probabilmente, fra servizi essenziali e spese per armamenti, ad esempio. Se gli italiani potessero scegliere direttamente se considerano prioritaria l’acqua o l’acquisto dei nuovi caccia F35, la cui spesa assorbirà nei prossimi anni circa 13,5 miliardi di euro, l’esito della consultazione sarebbe scontato. Insomma, altre sarebbero le priorità o le alternative su cui dovremmo interrogarci come cittadini, dato che la fiscalità generale viene impiegata direttamente o indirettamente per cofinanziare tante delle inutili “grandi opere” previste nella così detta legge obiettivo. Senza aerei da guerra o senza nuove autostrade si può vivere, persino meglio, ma non senz’acqua. Se poi venisse rafforzata la lotta all’evasione fiscale, al contrario incoraggiata dai governi attraverso condoni di ogni genere, e se si studiassero specifiche “tasse di scopo” (ad esempio una tassa sulle bottiglie in plastica per le acque minerali) sarebbe possibile ricostruire a perfezione l’intero sistema idrico integrato del paese, grande opera utile e necessaria, senza incidere sul debito e sul deficit pubblico.
Infine, la vera vittima della privatizzazione è la democrazia. I nodi sono l’assenza di qualsiasi controllo democratico sul bene acqua una volta che ne sia stata privatizzata la gestione e la perdita di ogni potere decisionale da parte dei cittadini. Amministrazioni locali, consigli elettivi e cittadini sono allontanati dal governo del bene e le scelte si trasferiscono nelle società di gestione private e nei loro consigli d’amministrazione. Persino la proprietà del bene acqua, che formalmente resta bene demaniale e pubblico (tanto in Inghilterra quanto in Italia) passa sostanzialmente nelle mani di chi gestisce il servizio idrico: si tratta della differenza fra proprietà formale e sostanziale del bene. Il reale proprietario del bene diviene il soggetto che gestisce ed eroga il servizio. Hall e Lobina mostrano come in Inghilterra e Galles il deficit democratico investa tanto le società di gestione quanto l’ente regolatore, l’Ofwat: né le prime né quest’ultimo sono responsabili davanti agli organi rappresentativi, locali o nazionali. L’ Ofwat è talmente indipendente da essere indipendente persino dai cittadini, si potrebbe dire. Pur in un quadro differente, anche in Italia la privatizzazione ha necessariamente condotto allo stesso esito: le Spa che gestiscono il servizio idrico integrato sono divenute vere e proprie istituzioni post-democratiche, arene decisionali chiuse e opache in cui si è spostato il governo del territorio. Le Spa, guidate dalla logica della massimizzazione del valore per gli azionisti, rappresentano il nuovo luogo d’elaborazione e definizione delle politiche territoriali. Gestiscono beni comuni fondamentali come l’acqua, spesso assieme ad altri servizi pubblici locali (Multiutilities). La Spa mista pubblico-privata, declinazione su scala territoriale delle forme post-democratiche della governance globale, è in Italia il modello prevalente di privatizzazione: la Spa mista è un tavolo di concertazione a-democratico cui siedono cordate di soggetti privati (fra cui multinazionali italiane e straniere, banche, imprenditori del cemento) e personale nominato dai sindaci, senza alcun legame con i consigli elettivi. Ricostruire le catene di responsabilità all’interno dei meccanismi decisionali delle Spa è impossibile, la privatizzazione delle decisioni e delle scelte è definitiva: non vi è più nulla di pubblico nè di democratico in questo sistema di governance locale.
Sarebbe lungo ripercorrere come si sia giunti fin qui. Certo è che all’origine di questi processi di privatizzazione e “de-democratizzazione” vi sono precise scelte politiche, in buona parte legate ai cicli di riforma della pubblica amministrazione avviati negli anni ’90. In Italia le responsabilità della politica nell’erosione del pubblico sono spesso anche precedenti: non di rado élites politiche si sono surrettiziamente appropriate dei beni di tutti, considerando i beni comuni come loro beni privati e trasformando la gestione pubblica in una gestione clientelare o lottizzata. Le Spa miste – le partnership pubblico-private – rappresentano l’esito finale e il perfetto connubio di questa doppia forma di privatizzazione del bene comune: emancipatesi dal diritto pubblico per abbracciare il diritto privato, allontanatesi da ogni partecipazione e controllo dei cittadini, élites politiche e cordate di soggetti privati hanno dato vita ad un nuovo luogo di governance opaco e a-democratico. A queste istituzioni viene consegnato il governo dell’acqua e dei beni comuni, ossia de facto il governo del territorio e l’elaborazione concreta delle politiche pubbliche locali. Queste istituzioni sono fortezze senza porte né finestre, in cui privatezza e segretezza si fondono nell’opposto di ciò che dovrebbe essere una gestione pubblica, trasparente e democraticamente partecipata dei beni comuni.
Hall e Lobina ricordano come alla fine degli anni ’80 fu Margareth Thatcher, dunque ancora una volta la politica, a decidere la privatizzazione di servizi e beni che, essendo “comuni”, non avrebbero dovuto essere alienabili, in quanto non a disposizione delle maggioranze politiche e del princeps di turno. In quell’epoca le aziende private furono persino fatte entrare nella governance dello stato, ottenendo voce in capitolo nella stesura di alcune leggi (attraverso la creazione delle istituzioni così dette “quasi governative”, spiegano Hall e Lobina). Uno studio sul peso delle Spa privatizzate nella definizione delle leggi nazionali e regionali sui servizi pubblici probabilmente rivelerebbe elementi interessanti anche sul potere effettivo assunto in Italia – nella definizione del quadro giuridico – da soggetti privati e dalle loro organizzazioni di categoria. Potenti amministratori delegati si sono vantati, in alcune occasioni pubbliche, di avere “ispirato”, se non direttamente scritto, questo o quel determinato articolo di legge relativo alle privatizzazioni.
Nel passato remoto, in Italia come in gran parte dei paesi europei, le prime strutture e le prime gestioni del servizio idrico erano private. Gestioni la cui inefficienza, il cui costo e la cui incapacità di assicurare l’universalità del servizio – e di conseguenza di garantire la salute pubblica – spinsero a compiere una scelta di civiltà: all’inizio del ‘900 un’ondata di municipalizzazioni condusse alla gestione pubblica dell’acqua, per garantire a tutti l’accesso a questo bene fondamentale. Chi pensa alla privatizzazione come ad un sinonimo di “modernizzazione” ha un concetto molto antico e regressivo di modernità. I nuovi cicli di privatizzazione costituiscono un ritorno al passato, a logiche di profitto e d’esclusione, non certo un passo avanti. Il futuro deve essere certamente “pubblico”, come ricorda il titolo del saggio di Hall e Lobina, ma il pubblico deve essere ripubblicizzato. Se infatti la gestione pubblica è una condizione necessaria, perché consente di escludere i profitti di pochi da un bene di tutti, non è però una condizione di per sé sufficiente. Il nuovo pubblico deve essere trasparente e partecipato democraticamente dai cittadini, non espropriato da oligarchie politiche. Clientelismi, lottizzazioni, degenerazioni burocratiche e tecnocratiche sono state il primo stadio della “privatizzazione” e del sequestro dei beni di tutti da parte degli interessi di pochi. In futuro la gestione dell’acqua e dei beni comuni dovrà essere “comune”: gli esempi in questo senso si stanno moltiplicando, da Siviglia a Parigi. Beni comuni e ripubblicizzazione del pubblico sono la sostanza di una nuova politica per il XXI secolo, come insegnano i movimenti per l’acqua di tutto il pianeta.
NOTE
(1) Rimando a Tommaso Fattori, Impero Spa: i mercanti d’acqua, 2008 disponibile all’indirizzo http://www.perunaltracitta.org/images/quaderni/fattori.pdf
(2) Si tratta del “Decreto Ronchi”, oggetto del primo dei due quesiti referendari del 12/13 giugno 2011 (abrogazione dell’art.23 bis della legge 133/08 e successive modifiche, appunto quelle introdotte da Ronchi nel 2009).
(3) E’ possibile scaricare qui la delibera del 22 novembre del 2007 dell’autorità garante della concorrenza e del mercato: http://www.acquabenecomunetoscana.it/IMG/pdf/Sentenza_antitrust_Acea-Suez_Nov_2007.pdf
(4) Nella primavera del 2010 Federutility ha scritto al governo chiedendo senza giri di parole lo stanziamento di “fondi pubblici di accompagnamento e sostegno per cofinanziare gli interventi previsti” nel settore idrico. Nella stessa direzione anche le richieste di Cispel alla regione Toscana, regione in cui il servizio idrico integrato in 5 Ato su 6 è gestito da Spa miste.
(5) Si tratta del secondo quesito sottoposto a referendum popolare il 12/13 giugno 2011: abrogazione parziale dell’art. 154 del D.lgs 152/06 (decreto ambientale)
(6) La proposta è consultabile all’indirizzo http://www.acquabenecomune.org/investimenti.pdf
La battaglia dell'acqua in corso da alcuni anni nel nostro Paese ha già prodotto due risultati di grande importanza storica sul piano politico-culturale. Il primo riguarda l'affermazione in seno alla società italiana di milioni di persone che pensano che le nostre società, per funzionare in maniera giusta e corretta, devono essere fondate su una reale partecipazione dei cittadini al governo della res publica. Il notevole successo popolare, spontaneo, della campagna di raccolta delle firme per la legge regionale toscana sull'acqua di iniziativa popolare, poi per la legge nazionale e infine per i referendum, insieme alle lotte dei No Tav, contro il nucleare, del movimento viola, del movimento 5 stelle, dei Gas, di Altraeconomia, Altrafinanza, dei Comuni virtuosi, dimostrano che i cittadini italiani vogliono cessare di essere trattati come dei sudditi da mantenere tali grazie a un sistema nazionale di media asserviti e di proprietà dei potenti. Non vogliono più essere ridotti a consumatori beati, a degli indivualisti profittatori (evasori, abusivi...), ma vogliono (ri)diventare cittadini nel pieno senso della parola.
La battaglia per l'acqua pubblica rivela che gli italiani non desiderano affatto ritornare allo Stato di prima, ma vogliono partecipare alla costruzione di un altro Stato, di una maniera differente di vivere e far funzionare i comuni, le province, le regioni. Vogliono un altro pubblico, giusto, efficace, trasparente, dove i cittadini sono partecipanti attivi. Quel che nei referendum (nucleare ed impedimento inclusi, ovviamente) è fonte di paura per i gruppi al potere (anche della sinistra autodefinitasi moderata) è proprio questo gran desiderio di voler essere cittadini.
Dopo quarant'anni di politiche che hanno deliberatamente distrutto il welfare non clientelare, in Italia soprattutto, il senso dello Stato e della comunità «cittadina»; dopo quasi tre generazioni di giovani educati a considerare le istituzioni pubbliche - i comuni, le regioni, lo Stato - come degli enti inutili, dilapidatori delle risorse pubbliche; e dopo l'enorme propaganda ideologica che per anni ha fatto credere che solo l'impresa privata possiede le competenze e i saperi adeguati per gestire tutti i servizi pubblici detti «locali» e che solo la finanza privata dispone delle risorse per fare gli investimenti necessari, la voglia di essere cittadini rappresenta un fatto notevole, esplosivo. Si può dire che i referendum rappresentano il momento simbolico di una «rivoluzione dei cittadini» dal basso, come è accaduto nel mondo arabo, in Spagna, in America latina.
Negli ultimi anni, a partire dalla difesa dell'acqua pubblica, centinaia di migliaia di italiani sono scesi nelle strade e nelle piazze di centinaia di città con i loro banchetti, le marce, gli spettacoli, i dibattiti per dire «non vogliamo né più Stato, né più Stato corrotto, né più privato , né più privato corrotto e predatore (prendi e scappa), né potentati finanziari, partitici o sindacali, né istituzioni politiche inefficaci, né parlamenti composti da persone che non meritano di essere rappresentanti dei cittadini. L'acqua pubblica significa non solo l'acqua dei cittadini , ma anzitutto l'acqua ai cittadini, per i cittadini e dai cittadini». L'acqua pubblica diventa uno degli strumenti più importanti per ricittadinare la città del vivere insieme.
Centralità dei beni comuni
Il secondo risultato non è da meno. Concerne la (ri)scoperta della centralità dei beni comuni in una società che pretende di essere efficace, di ottimizzare il vivere insieme in termini di «progresso» economico, sociale e civile. Chi mai l'avrebbe detto solo pochi anni orsono che i «beni comuni» sarebbero diventati un'idea cosi popolare nel nostro Paese? Una moda? Un fuoco di paglia? Per il momento, la realtà è che si contano a centinaia, in tutte le regioni d'Italia, i gruppi territoriali «acqua bene comune» nati spontaneamente.
Senza alcun dubbio, l'acqua è all'origine del fenomeno. Chi dice «beni comuni» dice beni essenziali ed insostituibili per la vita, dice beni cui corrispondono intrinsecamente diritti (e doveri) individuali e collettivi, beni che esprimono la ricchezza comune messa al servizio del diritto ad una vita decente per tutti, beni che richiedono la responsabilità di tutti i cittadini. Quando si parla di beni comuni ci si inserisce in un visione del mondo e della società profondamente diversa da quella imposta negli ultimi quarant'anni. Con i beni comuni si afferma il primato del vivere insieme sulla logica di sopravvivenza individuale, dei più forti, dei più prepotenti, dei più furbi. In Italia la battaglia per l'acqua bene comune ha largamente contribuito a (ri)dare il loro titolo di nobiltà di bene comune anche al sole, all'aria, alla conoscenza, alla terra, all'informazione, all'educazione, alla salute, la cui mercificazione e privatizzazione si sono affermate con forza, e con la condiscendenza di tutte le classi dirigenti, a partire dagli anni '80. Molto verosimilmente è grazie all'acqua che i beni ora menzionati sono nuovamente, in quanto beni comuni, all'ordine del giorno dei dibattiti e dell'agenda politica concreta nazionale e soprattutto delle collettività locali.
Una spallata al liberismo
Per concludere, il vivere insieme è diventato un nodo centrale della politica italiana tout court. In questo senso i referendum rivelano problemi, sfide e scelte non imprigionabili in sacchetti per uso immediato. Leggere i referendum nei termini di una nuova spallata contro il governo Berlusconi è una tendenza facile cui molti non hanno resistito. In realtà essi debbono essere letti contemporaneamente come simbolo e sintomo di un rigetto, sempre più diffuso in Italia, del sistema economico capitalista di mercato, che ha condotto alla mercificazione di ogni forma di vita, alla privatizzazione del potere politico e alla confisca del ruolo di cittadini.
Voler (ri)diventare cittadini per la propria dignità e anche per vivere insieme agli altri nel contesto di una umanità da inventare è il secondo risultato della battaglia per l'acqua in Italia. La vita è un diritto per tutti. L'acqua, in quanto elemento essenziale e insostituibile per la vita, è anch'essa un diritto per tutti. È tempo di concretizzare i principi. La vittoria aprirà le vie a nuovi percorsi di rinnovamento, d'innovazione e di sviluppo di nuove «città».
L’Autore è fondatore del Comitato italiano per il Contratto mondiale dell'acqua, Presidente dell'Institut européen de recherche sur la politique de l'eau (Ierpe) a Bruxelles
Il National Ecosystem Assessment col suo rapporto del giugno 2011 conferma se necessario quanto sia importante per le economie investire nella tutela delle risorse naturali, non solo intese come “materie prime” per produrre e vivere, ma anche nell’accezione di solito trascurata di qualità ambientale, spazi aperti, flora, fauna ecc.
Qualcuno pensa che la tutela dell’ambiente sia un peso economico che in un modo o nell’altro rallenta lo “sviluppo”, mentre esistono invece concreti motivi economici per proteggere la natura, non ultimi quelli legati alla salute e benessere generale della popolazione, con immediate ripercussioni ad esempio sui costi dei servizi sanitari.
Più in dettaglio per il caso britannico:
Il valore economico delle zone umide in termini di qualità delle acque si può calcolare sino a 1.700.000.000 di euro l’anno
Quello degli insetti e uccelli impollinatori per l’agricoltura in quasi 500 miliardi di euro
I vantaggi dell’abitare vicino a fiumi e altri corpi d’acqua sino a 14 miliardi di euro l’anno per il paese, e quelli sanitari della prossimità di spazi verdi sino a 350 euro l’anno a persona.
Col cambiamento climatico globale e l’incremento di popolazione la natura sarà sottoposta a pressioni crescenti ed è importante iniziare a considerarla nel suo piano valore, oggi e per il futuro.
Questa è una breve sintesi del comunicato stampa ministeriale. Sul sito del Ministero il testo integraledel comunicato e il link alla pubblicazione - Oppure si può scaricare direttamente da QUI (con molta pazienza) una sintesi del rapporto (f.b.)
George Soros liquida i suoi investimenti in oro e compra fattorie in Sudamerica investendo nella Adecoagro, una conglomerata agricola con proprietà in Argentina, Brasile e Uruguay. Non è il solo: da un po’ di tempo gli hedge fund si contendono le terre coltivabili che possono essere acquistate in giro per il mondo. Se ne cercano ovunque, dalla Russia all’Africa, ma alla fine le più appetibili restano quelle negli Usa e in America Latina: più produttive, più facili da proteggere e senza troppi vincoli sulla proprietà. Un tempo chi voleva diventare ricco in fretta cercava di trasformare i terreni agricoli in aree fabbricabili.
Ma oggi negli Stati Uniti, mentre il mercato dell’edilizia residenziale vive il suo 57esimo mese consecutivo di recessione, un altro mercato immobiliare — quello delle aree coltivabili — ha raggiunto i massimi degli ultimi 32 anni: più 16 per cento dall’inizio del 2010, certifica la Federal Reserve di Chicago. Certo, c’è da restare interdetti davanti a queste sofisticate finanziarie di Wall Street che, dopo aver puntato sulle aree più avanzate e innovative dell’economia, cambiano cavallo e riscoprono un settore tenuto ai margini da quasi un secolo. Come può essere?
«Nel 2011 torna di moda un settore che aveva smesso di attrarre l’attenzione nel 1911» , si scandalizza il New York Observer. Ma Robert Shiller, celebre economista di Yale — uno dei pochi ad aver previsto non solo la «grande recessione» del 2008, ma anche la prolungata crisi del mercato immobiliare — ha appena spiegato a un pubblico di duemila operatori finanziari che, con la domanda di derrate alimentari che esplode nei Paesi emergenti e l’offerta che fatica a tenere il passo, quello in fattorie è uno degli investimenti più sicuri, visto che «i campi non si possono fabbricare» . Gli scettici sono molti: da un lato quelli che vedono nella corsa all’agricoltura il segno dell’involuzione di un mondo che ha paura del futuro, che si arrocca, teme di dover affrontare scarsità che sembravano ormai relegate nel retrobottega della storia.
Dall’altro gli analisti che invitano alla cautela: dopo la bolla dell’alta tecnologia e quella dei valori delle case, gonfiati dai mutui a go-go, adesso ne rischiamo una terza, alimentata dall’impennata dei prezzi delle derrate agricole. È normale che, in parallelo, cresca anche il valore dei terreni. Ma in Kansas e Nebraska, ai ritmi attuali, i prezzi raddoppieranno in quattro anni: insostenibile. Gli hedge, però, non vedono grossi rischi. Alcuni pensano addirittura di potersi arricchire in caso di distruzione dei raccolti per inquinamento, catastrofi ambientali o attacchi terroristici. E Larry Fink, il capo di BlackRock, che con 3.500 miliardi di dollari amministrati è il maggior gestore mondiale di patrimoni, taglia corto beffardo: «Investite sull’agricoltura e sull’acqua e poi andatevene in spiaggia» .
Nota: a questo link un po' di informazini ulteriori a proposito del fenomeno del Land Grabbing (f.b.)
Senza nulla togliere al merito grandissimo dei comitati per il referendum sull' acqua pubblica, credo che tanto il successo nella raccolta( di 1 milione e 400 mila firme) che la rapidità con cui essa è stata realizzata, nasconda ragioni prepolitiche che non ci devono sfuggire. C'è nel fondo della nostra cultura, e per così dire ancestralmente legata alla nostra esistenza, la convinzione che l'acqua, prima ancora di manifestarsi come “bene”, una risorsa economica, ci appartenga come esseri umani, che essa è nell'aria, sulla terra, nel nostro corpo. É dunque un elemento del mondo vivente, inseparabile da esso. Non solo il suo regime economico e giuridico, come ricordava nel XIX secolo il giurista Giandomenico Romagnosi, «non può essere regolato intieramente coi principi coi quali si dispone di un pezzo di podere o dell'area di una casa». Ma essa mostra altresì una universalità originaria nel processo della sua formazione che la distingue da gran parte delle altre le altre risorse naturali, rendendola moralmente incompatibile con la sua mercificazione. Il suo ciclo è un'opera gigantesca e completamente gratuita, realizzata dal sole, che solleva le acque degli oceani e quelle sparse nel pianeta e le redistribuisce purificate in forma di pioggia. Senza alcun intervento umano. Solo il momento terminale del convogliamento e della loro ripartizione necessita di un intervento tecnico e comporta dei costi. E solo questi costi dovrebbero essere sostenuti dagli utenti, equamente distibuiti, per avere a casa un bene che viene gratuitamente dal cielo. Mentre oggi, com’è noto, le grandi corporations dell'acqua pretendono e riescono a lucrarci profitti ingenti.
Non stupisce, dunque, il fatto che i cittadini boliviani di Cochabamba siano esplosi in una rivolta, nel 1999, quando la statunitense Bechtel (e altre multinazionali) imposero loro speciali licenze per potere accedere addirittura all'uso dell' acqua piovana. Perfino l'acqua senza costi, piovuta per l'appunto dal cielo, doveva entrare nel processo di valorizzazione del capitale, secondo la nuova furia predatrice che oggi anima questo modo di produzione.
Ma l'idea della mercificazione dell'acqua, anche quella distribuita dalle condotte, ripugna anche a noi italiani in quanto cittadini, abitatori da secoli di spazi urbani. Ci si fa poco caso, tanto fa parte della nostra consuetudine e del nostro sguardo quotidiano. Ma le nostre città sono disseminate di fontane pubbliche, dove l'acqua scorre liberamente, a disposizione del passante. In alcune delle nostre città – si pensi a Roma – le fontane si ammirano oggi per l'originalità e la bellezza delle fogge architettoniche, ma se ne dimentica la funzione originaria. Le fontane, l'acqua corrente per tutti, facevano parte non solo dell'arredo estetico e sociale delle città, ma ne incarnavano una funzione fondamentale: quella dell'accoglienza, del ristoro al viandante, dell'ospitalità pubblica data a tutti. Ricordo ancora, dei miei vecchi studi su Venezia, una ordinanza del Comitato di Sanità della città, del 22 giugno 1797, la quale faceva obbligo a «tutti i Cittadini aventi Botteghe» di tenere «tutto il giorno in un sito esposto sulla pubblica Strada una Mastella di Acqua dolce e netta», per dissetare i numerosi cani randagi che giravano per le vie cittadine. Anche le città piccole e medie del Sud si sono storicamente fornite di fontane pubbliche, che nelle estati torride di quelle terre svolgevano una funzione sociale importante. Nella memoria della mia infanzia, al centro del quartiere di Sant'angelo, a Catanzaro, campeggia una fontana dove le sere d'estate le famiglie che abitavano nei bassi mettevano a fresco il cocomero.
Questo carattere di bene comune dell'acqua, inscritto per così dire nella storia secolare delle nostre città, sta nel fondo del nostro immaginario, come il nostro rapporto con il cibo, con il sole mediterraneo. Ebbene, io credo che nella lotta per promuovere il referendum sino al 12 giugno .a dispetto di tutte le incertezze che gravano sulla sua celebrazione - bisogna avere la consapevolezza di questo prerequisito antropologico che lega il comune sentire degli italiani nei confronti di questo bene primario. É una base di partenza da valorizzare nello sforzo di raggiungere il quorum. Ma è anche la base per fare della campagna referendaria l'occasione di uno sforzo pedagogico di massa su che cosa sono i beni comuni. Lo stesso referendum contro il nucleare si inscriverebbe in questa prospettiva, perché volto a difendere la salubrità dell'aria e della terra dalla radioattività, a promuove l'utilizzo del sole e del vento, beni comuni illimitati. É questo il terreno solido e dischiuso sino all'orizzonte, su cui si può impostare la critica più popolare ed egemonica al capitalismo del nostro tempo, abbozzando al tempo stesso i lineamenti concreti di un diverso modo di produrre consumare, disporre delle cose. É una pedagogia che può ricorrere anche a solidi argomenti economici, che tutti noi dovremmo sforzarci di porre in evidenza nelle prossime settimane. É facilmente prevedibile, ad esempio, che la privatizzazione dell'acqua farà aumentare le tariffe. Ora, questo avverrà in un contesto economico che, come tutti sanno, è di feroce pressione sui redditi delle famiglie. Mentre la politica dell'UE si modella su una cieca politica deflattiva, con tagli sempre più dolorosi allo stato sociale, le tariffe dei servizi essenziali aumentano (luce e gas) insieme a tanti altri servizi comunali e nazionali, fatti lievitare dall'inflazione. Gli aumenti tariffari piovano sulla testa dei cittadini, senza che essi possano opporsi in alcun modo. Il referendum è in questo caso l'unico strumento a portata dei cittadini per impedire che un ulteriore aggravio si abbatta ben presto sulle loro limitate economie.
All'ampiezza di queste ragioni e motivazioni dovrebbe oggi corrispondere uno sforzo collettivo dell'intera sinistra per vincere questa grande partita. Molti hanno già sottolineato quale svolta politica e culturale potrebbe determinare una conclusione vittoriosa dei referendum. Ma vista la posta in palio, io credo che lo sforzo organizzativo necessiti non solo di uno impegno straordinario di mobilitazione. Spesso la nostra debolezza politica è anche il risultato delle mille cause che quotidianamente sposiamo, disperdendo le nostre energie. In questo mese dovremo essere più freddi e selettivi. Sarà allora necessario inventare forme di protesta originali, come quelle ideate da precari e studenti, già lo scorso anno, in grado di richiamare l'attenzione dei media, di obbligarli a parlare di eventi vendibili al loro pubblico di consumatori. Occorre che i nostri giovani volontari siano presenti con cartelli semplici davanti ai supermercati, ai mercatini e ai luoghi di maggiore concentrazione. E, a mio avviso, non dovrebbero mancare, nei vari angoli delle città, i banchetti dell'acqua: quelli stessi dove si sono raccolte le firme, che siano forniti di acqua da offrire ai passanti, con cui intrattenersi sui temi dei referendum. L'acqua pubblica della solidarietà, della nostra civiltà urbana. E gli studenti protagonisti delle lotte degli ultimi mesi dovrebbe organizzare simili presidi nelle scuole e nelle Università.
Io credo, che il raggiungimento del quorum può essere il risultato di una mobilitazione speciale, quale fu quella contro la guerra in Iraq nell'inverno-primavera del 2003. Ricordiamo tutti i drappi multicolori appesi alle nostre finestre e ai nostri balconi. Bisogna fare altrettanto per i referendum, lenzuola e drappi bianchi che invitino a votare si. Si può fare perché come allora la pace – non oggi, purtroppo - anche l'acqua pubblica accomuna, ricuce le nostre eterne divisioni, e la stessa mobilitazione può costituire l'occasione per fare prove di unità tra le forze della sinistra. Quell'unità che ci darebbe tante possibilità di vittoria, se fosse davvero seriamente ricercata. Quell'unità che nasce dall’adesione agli effettivi bisogni popolari, al reale interesse generale.
Www.amigi.org
Attenti. I tamburi delle acque libere rullano a Sud, nella penultima nocca del ditone calabro, sui monti chiamati "Le Serre". È la lotta di migliaia di abitanti stanchi di una privatizzazione zoppa che, in una terra benedetta dalle migliori sorgenti della Penisola, li obbliga a bere un liquido alla candeggina. Li vedi in processione tra i boschi, silenziosi e furenti, a caccia delle antiche fontane per riempirsi il cofano con le bottiglie di sopravvivenza. Tutta gente che promette sfracelli ai referendum di giugno. Una miccia che inquieta il Palazzo e i padroni delle acque.
Non la vogliono. Quella cosa che esce dai rubinetti è - dicono - iperclorata, sa di ruggine e ha il colore del fango. E viene dalla diga più malavitosa d’Italia, quella dell’Alaco, tra Badolato e Serra San Bruno, famosa per essere costata il decuplo del previsto. Sono anni che la gente ha paura di quell’invaso, ma negli ultimi mesi un balletto di ordinanze di non potabilità (quella di Vibo Valentia è durata 106 giorni!) poi revocate a macchia di leopardo, o reiterate all’interno della stessa rete, ha esasperato il problema, e ora il "tam-tam" corre anche sul web, contesta le rassicurazioni dei gestori, buca il silenzio di chi ha paura.
«Che venga, che venga a casa mia il sindaco di Vibo - urla una donna sui settanta accanto a una fontana sulla strada per Capistrano - venga che gli cucino gli spaghetti con l’acqua dell’Alaco... se li dovrà mangiare tutti!». In questi monti di alberi immensi, tornanti e nebbia, le donne sono le più determinate, il cuore della rivolta. «Figli di p..., scriva che siamo incazzati e non abbiamo più paura; questa è una guerra per la vita perché l’acqua è la vita», sibila un anziano ossuto dalla barba lunga, apparentemente mitissimo, e si fa il segno della Croce dopo la parola "vita" come se avesse chiamato in causa l’Altissimo in persona.
Assaggio l’acqua di Serra San Bruno: pessima. Cerco di capire, e subito mi perdo in un teorema bizantino. In Calabria funziona così: la raccolta e il pompaggio delle acque tocca a una società di diritto privato chiamata Sorical, mentre la distribuzione tramite le condutture spetta ai Comuni. E così, di fronte al vespaio scoppiato sulle Serre, nel Vibonese e dintorni, ecco l’inevitabile palleggiamento di responsabilità, con la Sorical che accusa i Comuni di avere reti colabrodo e la gente dei Comuni che accusa la Sorical di mettere in rete acqua malata. La fiaba del lupo e l’agnello.
Mettersi contro il sistema non è facile. Il giudice Luigi De Magistris che nel 2008 ha indagato sul business, s’è rotto le corna ed è stato trasferito. Diverso il destino dell’imprenditore Sergio Abramo che, dopo aver durissimamente attaccato la Sorical per certe irregolarità nel rapporto con una banca d’affari, è stato nominato presidente della Sorical medesima ed ora è assai più prudente nei giudizi.
Il fatto è che dietro la società c’è la francese Véolia, che di fatto comanda col 46,5 per cento delle azioni e gestisce pure il discusso inceneritore di Gioia Tauro, destinato al raddoppio. E’ questo il potere ed è qui la polpa: il privato (ma chiamiamolo per comodità "i francesi") che vende all’ingrosso ai Comuni la loro stessa acqua e lascia ad essi la rogna di gestire la rete. Col pubblico che si riduce a esattore per conto dei privati, anche a costo di indebitarsi.
A fronte di questo affare colossale, di canoni in forte rialzo e di investimenti tutto sommato relativi, scrive Luca Martinelli su "Altraeconomia", i francesi riconoscono alla Regione «un canone di 500 mila euro l’anno» per l’uso di tutti gli impianti calabresi. Un’inezia. L’affitto degli impianti di un’intera regione ricchissima d’acque equivale a un quarantesimo di quanto la società di gestione milanese paga per gli impianti di quella sola città. Ovvio che ai francesi piaccia la Calabria.
Ma con la diga dell’Alaco il meccanismo dell’oro blu si inceppa. La Sorical la eredita nel 2005 della Cassa del Mezzogiorno che l’ha appena messa in funzione. Una cattedrale nel deserto, costruita per spillare denaro pubblico in una zona umida con sabbie mobili e acque malariche. I fondali del lago artificiale non sono stati puliti e bonificati delle infiltrazioni di ferro e manganese contigue alle miniere borboniche di Mongiana. E quando, salutati dal plauso della politica, i francesi prendono in mano l’impianto dopo alcune migliorie, si ritrovano a mettere in rete un’acqua che grida vendetta rispetto alle fonti delle Serre. Una fornitura praticamente imposta dalla politica a 400 mila persone fino a quel momento agganciate a pozzi o condotte indipendenti, spesso - si asserisce - di buona qualità.
Nel 2010 persino la Regione Calabria, legata ai francesi, riconosce che qualcosa non va. L’Agenzia protezione ambiente dimostra che l’inquinamento viene dal lago, non dalla rete. Intervengono anche i Nas, che mettono sotto sequestro un serbatoio nel Vibonese. Nel gennaio di quest’anno il sindaco di Vibo dichiara l’acqua non potabile. Lo stesso accade in altri Comuni. Allora la gente chiede: riapriteci i vecchi pozzi che avevano acqua sicura. Ma non si può. Non sono più operativi. Qualcuno, veloce come il vento, li ha già disattivati.
«Macché pozzi buoni! - sbotta al telefono Sergio De Marco, responsabile tecnico della Sorical - questa dei sindaci è una bufala colossale. Li abbiamo chiusi perché erano di pessima qualità. Non bastavano, d’estate si svuotavano. E la storia della nostra acqua che sarebbe peggiore è un’invenzione dei Comuni che cercano un alibi per non pagarci le forniture. Possibile che per la stessa acqua altri Comuni non abbiano mai protestato? Centinaia di analisi dimostrano che l’acqua dell’Alaco è buona. Lo scriva, mi raccomando».
Per la politica, chi critica i francesi è "comunista" o propagatore di allarme. Alla Sorical si deve credere. Credere che l’acqua è buona, che il fondale del lago è pulito e che le analisi sono state fatte. Credere che un potabilizzatore da trecento litri al secondo è sufficiente per 400 mila persone. Così, per capire, bisogna andare lassù, oltre spettrali alberghi disabitati, fino al lago maledetto perso nella pioggia tra pale eoliche che paiono croci di un Golgota, in fondo a boschi così appetibili per "certi affari" che da gennaio vi sono morte già cinquanta persone per faide tra clan.
Strano, la rete che circonda l’invaso è aperta in più punti. Cancelli senza lucchetto. Nessuno pattuglia le sponde, tranne mandrie di vacche bianche che pascolano lasciando escrementi sulla battigia. Di chi sono? Sono le "vacche sacre", mi diranno a Serra San Bruno. Non hanno bisogno di pastori perché sono intoccabili. Sono della criminalità organizzata che così dimostra la sua onnipotenza e segna il territorio. Un simbolo, non un affare.
L’acqua sulle sponde è coperta di schiuma marrone quasi dorata. I ciottoli sono nerastri, hanno perso il colore originale. Cime di faggi nudi e abeti bianchi sbucano dalla superficie. Possibile siano cresciuti in acqua, dopo l’asserita ripulitura e impermeabilizzazione dei fondali? Vado a Serra San Bruno dove la resistenza, benedetta dal parroco, abita nella tana dell’associazione "I briganti", guidata da Sergio Gambino, figlio di un giornalista che ha dedicato la vita intera alla lotta contro la n’drangheta.
«Noi lo sappiamo» dice Gambino, capelli lunghi neri, occhi accesi e barbetta borbonica, «lo sanno i pastori, i boscaioli, i carbonai... Nessuno ha mai pulito quel lago... Altri sono venuti e ci hanno versato dentro non si sa cosa... La diga è in Comune di Brognaturo, retto da Cosma Damiano Tassoni, lo stesso sindaco che consentì quella diga demenziale... Credo che questi signori non abbiano idea di quanto siamo determinati a lottare per ciò che ci spetta». La sera, a Pizzo Calabro mi diranno: «Lo sa? Bossi ha ragione. Siamo una colonia francese. Ci hanno venduto. Acqua e nucleare. Ecco cos’è il patto Berlusconi-Sarkozy».
In nome dell’acqua pubblica, uno dei quesiti referendari propone l’abrogazione di un intero articolo di legge (il 23 bis del decreto legge 25 giugno 2008 n.112, più volte modificato). Inutile dire che (contrariamente a quanto vogliono farci credere i pasdaran del referendum) quell’articolo di legge non ha nulla a che fare con la proprietà della “risorsa acqua”, ma solo con le modalità di gestione del servizio idrico. È invece utile sottolineare che il 23 bis (come viene familiarmente chiamato dagli addetti ai lavori) riguarda anche altri servizi pubblici locali, tra cui i trasporti. L’eventuale abrogazione del 23 bis, dunque, riporterebbe il trasporto locale alle norme vigenti prima del giugno 2008. Qualcuno potrebbe fare spallucce e dire “poco male: dopotutto, il 23 bis non innovava granché”. Certo, il 23 bis non era la rivoluzione che alcuni speravano (e altri temevano); ma rispetto alla normativa precedente qualche pregio l’aveva. Vale la pena ricordare che - abrogato il 23 bis - tornerebbero a valere esclusivamente le norme del pasticciato e reticente Regolamento europeo CE/1370/2007 e dell’ormai lontano D.Lgs. 422 del 1997, nelle parti migliori purtroppo superato proprio dal Regolamento europeo. Non fosse altro, il 23 bis dice almeno con chiarezza che la modalità ordinaria di affidamento dei servizi è “la procedura competitiva ad evidenza pubblica” e pone una serie di vincoli agli affidamenti “in house”, cui invece il citato Regolamento comunitario lascia più o meno libero corso. Dunque, se il 23 bis verrà abrogato con il referendum del 12 giugno, liberi tutti di ricorrere al “fatto in casa”. Chissà come è contento il sindaco di Roma Alemanno del regalo che gli vogliono confezionare le vestali dell’acqua pubblica! Proprio nei giorni scorsi, in previsione di un esito abrogativo del referendum, il leader capitolino ha stretto accordi con i sindacati per confermare ad libitum il regime “in house” del trasporto pubblico romano (il fascino del “casereccio” a Roma è irresistibile) e ha poi accettato le dimissioni di quell’amministratore delegato che, nella bufera dei mesi scorsi, era stato nominato alla guida dell’Atac per riportare un po’ di ordine e di moralità in azienda. Purtroppo, il regalo non sarà solo per Alemanno: infatti è ormai esplicita e dichiarata la volontà di buona parte degli amministratori locali di non fare gare per diminuire il costo dei servizi locali, anche in caso di sprechi vistosi o gestioni dissennate: sono certi che le loro imprese non potranno fallire e che i contribuenti (e gli utenti) alla fine saranno chiamati a pagare. Sono anche convinti, evidentemente, che perderanno meno consensi così facendo piuttosto che ottenendo gestioni più sane e meno costose. Anche solo per dare loro finalmente torto, sarebbe bello che il quesito referendario venisse sonoramente bocciato.
Postilla
A parte il solito tono aggressivo e insolente che si commenta da solo, Boitani e Ponti ribadiscono il mantra e confermano i limiti (ormai davvero imbarazzanti) della loro professione. In primo luogo, ignorano quanto tutti fuorché gli economisti neoliberisti sanno da oltre mezzo secolo: separare la proprietà dalla gestione, particolarmente in ambiti come i servizi pubblici, ma anche in via generale, è operazione strutturalmente impossibile e quindi fondamentalmente ideologica. Berle e Means hanno mostrato come il management (avido di profitti e benefici privati) sia il vero proprietario. Oggi la nozione giuridica di bene comune delegittima interamente anche sul piano teorico ogni operazione di riduttivismo positivistico. Non ci basta che l’ acqua sia pubblica. Deve essere governata come un bene comune!
Inoltre i nostri irriducibili neoliberisti assumono una petizione di principio che non fa onore a una rivista avente qualche pretesa di scientificità. La “gara” aprendo al privato darebbe risultati più desiderabili della gestione in house! La gara per un monopolio naturale, in regime di asimmetria informativa grave, porta conseguenze disastrose per l’ interesse pubblico. Noi pensiamo esattamente il contrario ossia che la gestione pubblica abbia potenzialità che quella privata non ha. Sul piano teorico ciò risulta ovvio, perché la ricerca del profitto privato non puo’ dare soddisfazione a diritti e bisogni fondamentali quali acqua, trasporto, smaltimento rifiuti ecc. per l semplice fatto che la logica che deve governare questi settori non puo’ che essere ecologica, ossia di riproduzione e non di produzione. Poi sul piano concreto sarebbe bello comparare situazioni comparabili. Di esempi di malagestione privata ne abbiamo a bizzeffe. Rimando qui al bel libro di Alessandro Zardetto, H2Oro .
Ugo Mattei
Acqua è una parola che ha occupato le cronache di queste settimane del marzo 2011. Il 22 marzo è stata celebrata la giornata mondiale dell'acqua; sabato 26 marzo ci sono state manifestazioni nazionali a sostegno del referendum, che si terrà il 12 giugno, contro la privatizzazione dell'acqua. Ho sostenuto, e voterò con convinzione "si" in questo referendum che propone l'abrogazione delle norme delle leggi 99 e 166 del 2009 (IV governo Berlusconi) che autorizzano, anzi impongono la partecipazione di capitali privati nelle operazioni di prelievo dalle fonti naturali (sorgenti, fiumi, acque sotterranee, per definizione pubbliche, della collettività, e gratuite) di circa 8 miliardi di metri cubi all'anno di acqua, di distribuzione dell'acqua nei milioni di rubinetti delle abitazioni italiane, di depurazione delle acque di fogne e di riscossione delle relative tariffe, un affare di oltre dieci miliardi di euro all'anno. Chi vuole abrogare le norme di legge esistenti chiede che tali ingenti somme siano riservate a imprese pubbliche che, ci si augura, operino "pro bono publico", nell'interesse pubblico, dei cittadini utenti e acquirenti dell'acqua, il bene essenziale per la vita.
Finora abbiamo parlato di affari, di spartirsi dei soldi, mentre "acqua" significa molte altre cose di cui meno si parla. Nelle chiese cattoliche domenica scorsa è stato letto un brano del Vangelo che racconta che Gesù, un giudeo, è andato a chiedere e ha ottenuto l'acqua da bere da una samaritana (fra l'altro di non illibati costumi, ma questo poco conta), appartenente ad un popolo, gli abitanti della Samaria, che i concittadini di Gesù odiavano con tutto il cuore. C'è, in questo breve racconto, la ricetta per la soluzione di un problema, quello della sete, che esisteva duemila anni fa e che esiste ancora di più oggi; la sete può essere alleviata soltanto con la solidarietà fra persone e regioni e popoli, che, anche se si odiano cordialmente e hanno interessi contrastanti, hanno a disposizione una comune fonte di acqua; penso ai popoli che accedono, ciascuno con i propri egoismi, alle acque dei fiumi internazionali come quelle del Giordano o del Tigri e Eufrate o del Mekong, eccetera. Conflitti per l'acqua ci sono anche in Europa, per le acque del Reno o del Danubio che passano attraverso molti paesi, ciascuno dei quali vuole una propria quota di acqua e inquina, per la sua parte, l'acqua che arriverà ai paesi a valle. E anche in Italia ci sono simili situazioni; non si può certo dire che i pugliesi odiano gli abitanti della Basilicata o della Campania o del Molise, ma ci sono conflitti per spartirsi le acque dei bacini idrografici che si estendono fra le rispettive regioni, ciascuna con la sua sete e i suoi diritti.
"Giornata dell'acqua" dovrebbe significare un impegno a considerare le risorse di acqua dolce, non certo infinite, come "bene comune" attraverso accordi che superino le divisioni politiche, religiose, ideologiche. Quanto siamo ancora lontani, quanto poco la parola solidarietà risuona nelle scuole, nelle aule parlamentari, nelle conferenze internazionali, quanto denaro sprecato: si pensi a quello speso per gli armamenti che portano la morte e che potrebbe essere investito in acquedotti, fognature, depuratori che portano la vita.
Ma la giornata mondiale dell'acqua suggerisce anche altre considerazioni su problemi che sono sotto i nostri occhi ogni giorno. Può essere autunno, inverno, primavera, estate, ma sempre più spesso le acque escono dagli argini dei fiumi, allagano le campagne, le abitazioni, le officine, distruggono ricchezze e vite umane; le acque impregnano la terra denudata dal diboscamento e scorrono via veloci, trascinano a valle frane che interrompono strade e distruggono ponti. Nessun governo e, devo dire, nessuna parte politica, pone al primo punto, fra le grandi riforme, le opere per la difesa del suolo, per la sistemazione del corso dei fiumi, per la pulizia del greto dei torrenti, per il rimboschimento e la difesa del verde esistente, l'applicazione dei divieti di edificazione nelle zone note e dichiarate ufficialmente a rischio idrogeologico.
Capisco bene che molte delle zone a rischio sono appetibili per la speculazione edilizia, ma governare dovrebbe pur comprendere il coraggio di dire no alle opere, private e pubbliche, che trasformano l'acqua, da fonte di vita, a fonte di morte e di distruzione. Ho davanti agli occhi le facce disperate delle persone che, dopo una alluvione, con i piedi nel fango, si guardano intorno a cercare quanto resta del letto, del bancone, dei macchinari, in Basilicata come in Lombardia, nelle Marche come nel Veneto, in Sicilia come in Liguria, una dolorosa "Unità" dell'Italia a mollo. Chi sa che, prima del 200° anniversario dell'Unità, qualche governo non riesca ad inserire nei suoi programmi quello della difesa del suolo e del governo delle acque.
Questo articolo è stato inviato anche alla Gazzetta del Mezzogiorno
Oggi, a Roma, i promotori del referendum sull´acqua avviano non tanto la loro campagna elettorale, quanto piuttosto una grande riflessione destinata a incidere non poco sul corso della politica. In questi mesi è sembrato che i movimenti sempre più presenti nelle piazze e i partiti confinati nei loro palazzi (o in tv) appartenessero a mondi diversi, lontani.
Mondi persino caratterizzati da reciproche diffidenze. Quante volte nel centrosinistra si sono levate voci contro i rischi del movimentismo? Quante volte gli organizzatori delle manifestazioni hanno orgogliosamente sottolineato che nelle loro piazze non v´era alcun simbolo di partito?
Ora quei due mondi sono obbligati ad avvicinarsi sempre di più, fino ad incontrarsi nelle fatali giornate dei referendum. Lì confluiranno iniziative diverse. Alcune, quelle riguardanti il nucleare e il legittimo impedimento, sono state promosse dall´Italia dei Valori. Altre due, che hanno come oggetto la gestione dell´acqua, sono nate da una straordinaria mobilitazione di persone, gruppi, associazioni che, senza alcun sostegno del sistema dell´informazione, hanno raccolto un milione e quattrocentomila firme, un risultato mai raggiunto nella storia referendaria. Così i partiti sono chiamati a definire il loro rapporto con questo mondo che li circonda e che si esprime con modalità irriducibili agli schemi stanchi e ripetitivi di una politica logorata. Non dovranno confrontarsi con l´antipolitica, ma con la realtà di una politica diffusa. Nella maggioranza sono già evidenti i segni di una fuga dai referendum, la speranza che il quorum non venga raggiunto. E le diverse e variegate opposizioni hanno una occasione, forse irripetibile, per cominciare a ricostruire un consenso non più logorato da logiche oligarchiche, da culture autoreferenziali, da tattiche di brevissimo respiro.
Vi è un tratto che avvicina proposte referendarie nelle apparenze così lontane. È il "comune", quello che ci porta (o dovrebbe portarci) al di là degli egoismi e dei particolarismi, verso l´interesse generale, e così costruisce legami sociali. È giusto, allora, che siano i cittadini a dire la parola definitiva. Di che cosa ci parlano i referendum? Di un bene al quale è affidata la sopravvivenza - l´acqua. Di una condizione che riguarda la nostra stessa vita - la sicurezza. Di un principio dal quale una democrazia non può mai separarsi - l´eguaglianza.
Attraverso questioni specifiche si giunge così a nodi essenziali dell´organizzazione sociale. E, eccezion fatta per il legittimo impedimento in cui si riflette lo stato miserando in cui si trova la legalità in casa nostra, si tratta di questioni che attraversano l´intero pianeta. Una conferma, drammatica, arriva proprio dalle vicende di queste settimane. La catastrofe in Giappone ha riproposto il tema dell´energia nucleare con una radicalità che nessuna furberia consolatoria può eludere. Per il Maghreb si stima che, se non verranno prese misure adeguate, si andrà verso una crisi idrica che, nel 2050, interesserà il 90% della popolazione di quell´area.
Pensiamo davvero che ci si possa inoltrare in questo futuro che è già presente con le categorie concettuali, le coalizioni d´interesse, gli strumenti ai quali ci siamo finora affidati? Parole nuove percorrono il mondo. No copyright, software libero, accesso all´acqua, al cibo, alla salute, alla conoscenza, ad Internet come nuovi diritti fondamentali della persona. Intorno a questa inedita prospettiva sta davvero nascendo un altro genere di cittadinanza, non più legata all´appartenenza ad un territorio, ma caratterizzata appunto dalla dotazione di diritti che ogni persona porta con sé, quale che sia il luogo in cui si trova.
Così, davvero, l´intero mondo si configura come uno spazio "comune".
Ingenua utopia, illusione, estremo bagliore di una "ideologia" dei diritti fondamentali ormai al tramonto? O non è piuttosto vero che proprio l´osservazione della realtà ci mostra il numero crescente di persone che si mobilita in nome di diritti che non sono ricavati dal "canone occidentale", ma corrispondono a condizioni materiali dalle quali ci si vuole liberare e che spingono verso il nuovo "costituzionalismo dei bisogni" che ispira, ad esempio, le carte costituzionali di quello che era detto il Sud del mondo? E sono proprio i diritti così intesi ad indicare la via per una loro effettiva soddisfazione, che porta appunto verso i beni comuni, espressione di una diversa razionalità politica, economica, sociale, culturale. Si individua così una categoria di beni "a titolarità diffusa", sottratta alla pura logica mercantile, messa in rapporto diretto con tutti gli interessati, in tal modo promotrice di eguaglianza.
Non sono soltanto parole d´ordine. La considerazione dell´acqua come bene comune, sottratta alla stessa tirannia della contrapposizione tra pubblico e privato, ispira azioni concrete, capillari. Municipalità grandi e piccole si muovono in questa direzione. Ieri Parigi, oggi Berlino, dove si è appena svolto un referendum che ha visto il 90% dei votanti esprimersi per un ritorno alla gestione pubblica. Si obietta: ma lì ha votato solo il 27% della popolazione. Quanto basta per superare il quorum, fissato al 25%, per evitare manovre volte a sterilizzare il voto dei cittadini attivi e consapevoli (il vergognoso caso italiano del referendum sulla procreazione assistita), per rincuorare quanti fidano ancora nella possibilità di rivitalizzare la stanca democrazia rappresentativa grazie alla partecipazione convinta delle persone. Ricordiamo che il Trattato di Lisbona si è mosso proprio in questa direzione, prevedendo che un milione di cittadini europei possa presentare proposte per l´attuazione dei trattati.
Di fronte ad una prospettiva così ricca e così impegnativa, davvero una sfida per tutti, come reagisce il Governo della Repubblica? Prima opponendosi all´ammissibilità dei referendum e, una volta di più, la Corte costituzionale ha smentito la sua tesi. Ora ricorrendo al sotterfugio di una moratoria riguardante il nucleare, accompagnata da una virtuosa dichiarazione di un ministro che si è augurato che i cittadini non votino cedendo a strumentalizzazioni, all´emozione suscitata dal disastro giapponese. Dio mio, quanto deve essere emotiva Angela Merkel se dichiara «prima si uscirà dal nucleare e meglio sarà».
L'icona è tratta dal blog di Vito Vetrano
Il rapporto acqua-città, il dramma dei paesi poveri e le buone pratiche nel colabrodo Italia. A meno di tre mesi dal referendum, la giornata mondiale dell'acqua diventa l'occasione per rispondere alle sfide globali rappresentate dalla gestione della risorsa più preziosa
Ci sono due motivi sostanziali per cui la giornata mondiale dell'acqua quest'anno è dedicata al tema Acqua per la città: come rispondere alle sfide dell'urbanizzazione. La metà del genere umano vive in agglomerati urbani, e si calcola che tra vent'anni quasi il 60% della popolazione sarà stipata nelle principali città del mondo: 5 miliardi di persone. Essendo così decisivo il rapporto acqua-città, il problema ormai chiama direttamente in causa la responsabilità politica delle singole amministrazioni, delle aziende e di tutti i cittadini che possono influire direttamente nella gestione dell'acqua in contesti urbani - basti pensare al referendum di giugno. Di questa sfida parla il dossier preparato dal Comitato italiano Contratto Mondiale sull'acqua (www.contrattoacqua.it).
La situazione mondiale
La mancanza di acqua nelle aree più povere del pianeta (Asia e Africa) apre scenari drammatici. Almeno 5 milioni di persone ogni anno abbandonano le campagne per trasferirsi in città, 493 milioni di persone non hanno servizi sanitari, 789 milioni sopravvivono senza accesso all'acqua e il 27% della popolazione urbana nei paesi del sud del mondo non ha la rete idrica in casa. E il futuro non promette niente di buono, se è vero che nei prossimi venti anni in questa area del pianeta la popolazione è destinata a raddoppiare. Ma l'impatto dell'urbanizzazione ormai si fa sentire anche nelle città industrializzate, dove 497 milioni di persone hanno servizi igienici in comune e dove il 38% della crescita della popolazione è concentrato nelle periferie, con accampamenti totalmente sprovvisti di acqua e servizi. Sono i poveri che abitano a «casa nostra».
Acqua e povertà
La sfida più importante sarebbe quella di fornire acqua a quelle 828 milioni di persone che oggi vivono nelle baraccopoli. I poveri, oltretutto, pagano un litro d'acqua fino a 50 volte di più dei loro vicini ricchi, in quanto sono costretti a rifornirsi dai privati. Stime non proprio confortanti dicono che la popolazione dei quartieri poveri è destinata ad aumentare di 27 milioni di persone all'anno. Ma c'è chi muore di sete e chi l'acqua può sprecarla: si passa da una disponibilità media pro-capite di 425 litri al giorno per un cittadino statunitense ai 10 litri per un abitante del Madagascar (237 per un italiano e 20 per una intera famiglia africana). Allora si può ben dire, come ha scritto L'Osservatore Romano, che «l'acqua è un bene troppo prezioso per obbedire solo alle ragioni del mercato e per essere gestita con un criterio esclusivamente economico e privatistico».
Inquinamento, salute e sprechi
Ogni giorno, nelle principali città, 2 milioni di tonnellate di rifiuti umani vengono smaltiti in corsi d'acqua. La mancanza di impianti di depurazione nei paesi poveri, e gli scarichi industriali fuori controllo, provocano gravi problemi di salute (la malaria è ancora una delle principali cause di morte in molte aree urbane). La gestione degli acquedotti fa acqua da tutte le parti: i livelli di perdita delle reti idriche raggiungono anche il 70%, con una disonorevole media italiana del 47%. In totale, la quantità d'acqua potabile che ogni anno viene dispersa nelle principali città è stimata attorno ai 500 milioni di metri cubi.
Città e acque in bottiglia
Gli italiani continuano ad essere i più forti bevitori in Europa di acqua minerale (194 litri a testa, più del doppio della media europea, per un totale di 12,5 miliardi di litri imbottigliati). Le aziende produttrici gestiscono affari colossali (2,3 miliardi di euro all'anno) pagando alle Regioni pochissimi euro all'anno per lo sfruttamento delle fonti di acque minerali: sono 189, per 321 marche commercializzate. A livello di bilancio familiare, significa che una famiglia di quattro persone spende tra 320 e 720 euro all'anno per bere acqua minerale.
L'impatto ambientale di questo consumo scriteriato è presto detto: l'Italia produce 12,4 miliardi di bottiglie l'anno consumando 655 tonnellate di petrolio, scaricando in aria 910 mila tonnellate di CO2 e (nella spazzatura) 200 mila tonnellate di plastiche, il cui smaltimento è a carico degli enti locali, cioè dei cittadini. Inoltre, solo il 18% delle acque minerali imbottigliate viaggia su rotaia: significa che ogni anno 300 mila Tir fanno avanti e indietro per far aumentare i profitti stratosferici delle multinazionali o delle aziende che imbottigliano un bene comune.
Buone pratiche in città
Il Comitato italiano per un Contratto mondiale dell'acqua dieci anni fa ha lanciato l'idea di ricostruire e riattivare nelle città «punti d'acqua pubblica» come momenti di riscoperta e socializzazione del bene più prezioso. Da eventi inizialmente simbolici, oggi hanno preso corpo tre specifiche campagne che danno un prezioso contributo nella costruzione di un nuovo rapporto tra acqua e città.
1) L'etichetta dell'acqua del sindaco: si tratta di una campagna di sensibilizzazione per contrastare la tendenza a denigrare l'acqua del rubinetto, sottoscritta da diverse amministrazioni che hanno «sponsorizzato» la bontà della loro acqua, con il risultato che oggi l'acqua del rubinetto, dopo anni, è riapparsa nelle mense scolastiche di diverse città (Roma, Firenze, Milano, Bologna, Perugia...).
2) Le Case dell'Acqua: diverse amministrazioni hanno reintrodotto punti di ristoro collettivi (in giardini, piazze, scuole e stazioni) per contrastare l'uso di acque minerali.
3) Le fontanelle pubbliche: la proposta di realizzare nuove fontanelle o erogatori di acqua pubblica (anche frizzante) è stata accolta da numerosi comuni italiani, che oggi offrono ai cittadini sorsate di prodotto gratis o a prezzi stracciati. Piccole gocce di saggezza.
Meno minerale e più rubinetto
Gli italiani spendono di più per comprare acqua minerale che per acquistare vino. Dai dati forniti dall'Istat in occasione della Giornata mondiale dell'acqua, Coldiretti ha desunto che l'acquisto di minerale è la prima voce di spesa del bilancio familiare destinata alle bevande (19,71 euro al mese per famiglia). Tra alcolici e analcolici, ogni famiglia italianaspende complessivamente 41,06 euro al mese. La minerale per la prima volta ha superato il vino per il quale le famiglie italiane spendono 12 euro mensili. Negli ultimi 30 anni la spesa per il vino si è dimezzata, il consumo procapite è sceso a 40 litri per persona all'anno, per un totale di 20 milioni di ettolitri circa. L'uso della minerale è in calo mentre cresce il consumo dell'acqua del rubinetto (+1,2% negli ultimi dieci anni). Secondo l'Istat la spesa media per famiglia per il servizio idrico integrato domestico (acquedotto, canone fognatura, canone di depurazione) si aggira intorno ai 270 euro all'anno. Una famiglia su dieci (10,8%) lamenta disservizi nell'erogazione. L'Italia è come sempre divisa in due. Al sud le segnalazioni di inefficenze salgono al 18,7% (Calabria 33,4%, Sicilia 28,3%). Al nord si fermano al 5,8% delle famiglie. Conseguentemente al sud si spende di più per l'acqua minerale (20,34 al mese per famiglia contro 18,75 euro spesi al nord). Il calo di consumo di minerale cresce tanto più aumenta la fiducia nei confronti dell'acqua del rubinetto. Il 32,8% delle famiglie ha almeno un componente che non si fida dell'acqua del rubinetto con punte là dove è peggiore la situazione degli acquedotti (Sicilia, 64,2%, Calabria 52%). Le famiglie che acquistano minerale nel 2009 erano il 63,4%, mentre nel 2000 erano il 64,2%. La fiducia nel rubinetto però crolla quanto più aumentano i costi in bolletta. Rispetto al 2008 i rincari medi si attestano al 6,7% (Viterbo +53,4%, Treviso +44,7%). Dal 2000 ad oggi, 80 capoluoghi su 115 hanno ritoccato la bolletta per un aumento totale del 64,4%.
Quando l'Onda riprende il movimento dell'acqua
di Ro. Ci.
Primo appuntamento di una settimana piena di impegni per il movimento studentesco, ieri si è svolta nella facoltà di fisica della Sapienza di Roma un'affollata assemblea a sostegno della campagna referendaria per la ripubblicizzazione dell'acqua pubblica, contro il nucleare e per la difesa dei beni comuni. «Dal movimento degli studenti al movimento per l'acqua» era il tema dell'iniziativa organizzata insieme al comitato romano per l'acqua pubblica che ha ribadito le ragioni di votare due Si per l'acqua e uno contro il nucleare al referendum del 12 giugno. Gli studenti romani parteciperanno alla manifestazione nazionale di venerdì prossimo organizzata dal forum italiano dei movimenti per l'acqua pubblica e partiranno verso le due da piazzale Aldo Moro, «Siamo convinti - hanno scritto in un'appello insieme al Comitato Referendario «2 Sì per l'Acqua Bene Comune», l'agenzia italiana per la campagna e l'agricoltura responsabile ed etica e la Fondazione Rosa Luxemburg - che una vittoria ai referendum costituisca una prima e fondamentale tappa per riconsegnare il bene comune acqua alla gestione partecipativa delle comunità locali e per invertire la rotta e sconfiggere le politiche liberiste e le privatizzazioni dei beni comuni».
Il legame con la campagna del Forum per l'acqua risale a due anni fa quando la legge 133 ha legato le sorti dell'acqua con quella della scuola e dell'università. Con quella finanziaria il governo Berlusconi ha voluto privatizzare i servizi idrici municipali e ha tagliato 8 miliardi alle scuole e 1,3 miliardi all'università. Da allora i contatti si sono consolidati e non sono mancati i riconoscimenti come quello del 22 dicembre scorso quando gli studenti che manifestavano contro l'approvazione del Ddl Gelmini sull'università consegnarono uno dei loro pacchi regalo al comitato per l'acqua pubblica di San Lorenzo a Roma.
«Abbiamo aderito al comitato referendario "Vota Sì per fermare il nucleare" che si è costituito da poco più di un mese - affermano gli studenti che aderiscono a Link-Uds - la necessità di investire sulle energie verdi e di una riconversione energetica non è nata con il terremoto in Giappone». Sempre alla Sapienza, giovedì prossimo è prevista una giornata di iniziative e convegni che terrà a battesimo il nuovo gruppo «Unicommon» (ex Uniriot), mentre tra venerdì e domenica sono previste l'assemblea nazionale di «Ateneinrivolta» alla facoltà di Fisica e quella sull'«altrariforma» universitaria convocata da Link-Uds presso la facoltà di Economia.
L'acquedotto più grande d'Europa è una società per azioni a totale capitale pubblico ma assoggettata al diritto privato. Una legge ne chiede il passaggio al diritto pubblico e la sottrazione definitiva al mercato. Per questo, e per sostenere i referendum, i comitati suonano la carica Oggi a Bari movimenti per l'acqua pubblica manifestano per chiedere l'approvazione della legge sulla ripubblicizzazione dell'Aqp
Oltre un milione e quattrocentomila le donne e uomini che hanno sottoscritto i referendum perché l'acqua venga sottratta dalla logiche di mercato e dal rischio della privatizzazione. Un movimento partito dal basso che oggi, a Bari (ore 9.30, Piazza Umberto) segnerà la prima tappa di un percorso di mobilitazione popolare che il 26 marzo arriverà a Roma, per chiedere che l'acqua sia e rimanga un «bene comune». Animato dal comitato pugliese Acqua bene comune e dal Forum italiano dei movimenti per l'acqua, il movimento oggi scende in piazza non solo per affermare il sì alla ripubblicizzazione dell'acquedotto pugliese, per sostenere i due referendum sull'acqua bene comune e per fermare il nucleare, ma la riflessione si allarga sulla deriva liberista dei governi che in Italia e in Europa negli ultimi 15 anni hanno spinto verso la privatizzazione dei servizi pubblici, dalla sanità all'istruzione, fino ad arrivare, appunto, all'acqua.
Che oggi diventa il simbolo per eccellenza del concetto di bene condiviso. Proseguendo su un percorso già iniziato nel 2008, la sfida ultima del Comitato è portare il ddl per la ripubblicizzazione (nella versione originaria) dell'acquedotto pugliese, in Consiglio regionale prima dei referendum sull'acqua pubblica, in programma il 12 giugno prossimo. Secondo il Comitato «approvare tale disegno di legge prima dello svolgimento dei referendum, sancirebbe la volontà della Regione Puglia di rivendicare l'autonomia ad assumersi la responsabilità in tema di gestione pubblica del servizi idrico rispetto agli obblighi imposti dalla vigente legislazione». In Puglia infatti l'acquedotto è una società per azioni e, pur essendo a totale capitale pubblico (la Regione Puglia detiene il 100% delle azioni) è gestita secondo le regole del diritto privato. Il rischio reale è che parte delle azioni possa essere venduta ai privati. Rischio che si è corso il 25 febbraio 2009 - ricorda il Comitato - quando in Consiglio regionale il Pd, attraverso il suo capogruppo in Consiglio, presentò una mozione per vendere una parte delle azioni ai privati. Per fortuna tale mozione venne ritirata grazie alla forte e costante mobilitazione dei movimenti per l'acqua e, più in generale, della cittadinanza.
Il ddl in funzione anti-privatizzazione nasce nel dicembre 2009, sulla spinta e grazie alla collaborazione tra Comitato pugliese Acqua bene comune, Forum italiano dei movimenti per l'acqua e Regione Puglia. È approvato in giunta con alcune modifiche rispetto al testo licenziato dal tavolo tecnico, poi corrette, come richiesto dal Comitato, in una successiva delibera di giunta del febbraio 2009. Il testo non è stato però portato in Consiglio regionale entro la fine della legislatura.
L'attuale Giunta ha licenziato nuovamente il disegno di legge a maggio 2010, ma solo ad ottobre sono state avviate le audizioni presso le commissioni regionali competenti (II, Affari Generali e V, Ecologia, Tutela del Territorio e delle Risorse Naturali). «Nichi Vendola e l'assessore alle Opere pubbliche e Protezione Civile, Fabiano Amati - ricorda il Comitato - si impegnarono a portare il ddl in Consiglio prima della fine del mandato della giunta Vendola, cosa che però non avvenne. In campagna elettorale Vendola si impegnò a nome della sua coalizione, a trasformare il ddl in legge entro i primi 100 giorni del suo nuovo governo». Ma il ddl per ripubblicizzare l'Aqp giace ancora nelle commissioni competenti. In compenso, la mobilitazione non si è mai arrestata. Allo scadere dei 100 giorni dalla riconferma di Vendola alla guida della Regione, il Comitato provinciale Acqua bene comune di Brindisi ha inviato una lettera aperta alle commissioni consiliari competenti, ai consiglieri di maggioranza e agli assessori della giunta regionale pugliese, per ricordare l'impegno assunto in campagna elettorale chiedendo di procedere con sollecitudine alla calendarizzazione del disegno di legge sulla ripubblicizzazione dell'acquedotto pugliese. Il 28 dicembre 2010, invece, a seguito di un incontro con il Forum pugliese dei movimenti per l'acqua e del Coordinamento pugliese degli enti locali, Amati aveva dichiarato che «ci stiamo impegnando affinché la Puglia approvi un disegno di legge che possa effettivamente rendere pubblica la gestione del servizio idrico integrato, ed è per questo che nel prossimo mese di gennaio saremo in grado di portare in Consiglio regionale un testo che terrà conto anche delle indicazioni contenute nella recente sentenza della Corte costituzionale». La Corte, infatti, appena un mese prima, aveva rigettato il ricorso presentato da Puglia (la prima a presentarlo), Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Piemonte, che chiedevano l'abrogazione delle norme del decreto Ronchi relative alla privatizzazione dei servizi idrici, affermando che «le regole che concernono l'affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, ineriscono essenzialmente alla materia 'tutela della concorrenza', di competenza esclusiva statale». Un grave precedente, quello della Corte, che mette in relazione la «rilevanza economica» di un bene pubblico che, per definizione, dovrebbe essere scevro da logiche di profitto.
Nel mese di gennaio 2011 sono stati presentati diversi emendamenti al ddl originario e la preoccupazione dei movimenti era dettata dal fatto che «il provvedimento si stesse profilando con differenze sostanziali rispetto all'idea di partenza». Gli emendamenti proposti prevedono, tra l'altro, la possibilità che l'Aqp gestisca attività in stretta conseguenza della gestione del servizio idrico integrato attraverso la costituzione di società miste cioè da società di diritto privato con capitale privato. Ma l'acqua è considerata solo «la punta dell'iceberg della privatizzazione dei beni comuni». Il Comitato vuole avviare un percorso per la riappropriazione sociale di tutti i beni comuni e la realizzazione di un modello di gestione trasparente, pubblico e partecipativo attraverso politiche autorganizzate e dal basso. Per dire che un'altra Italia è possibile. Qui ed ora.
Il ministro degli interni della Repubblica di Bunga Bunga ha comunicato ieri che il referendum contro la privatizzazione dell'acqua si terrà il più tardi possibile, ossia domenica 12 giugno. La motivazione è che quel giorno una gran parte delle laboriose popolazioni della Repubblica si troveranno al mare o imbottigliate in coda nei loro grandi Suv e che quindi non potranno raggiungere le urne, facendo così saltare il quorum. L'annuncio costituisce il solito schiaffo in faccia al Presidente della Repubblica che, non consultato, si troverà a firmare un decreto che costerà ai pochi fra i cittadini che pagano le tasse una cifra vicina ai 10 milioni. Tanto si potrebbe risparmiare accorpando il referendum alle consultazioni amministrative, come richiesto dai Comitati promotori. Ma naturalmente si sa che Bunga Bunga è in solide condizioni economiche e quindi quei milioni si possono tranquillamente sprecare (anzi investire) allo scopo nobile di mandare deserte le urne. Del resto, sappiamo bene che il suddetto ministro degli Interni è compagno di partito di un altro brillante esponente della cultura istituzionale della Repubblica di Bunga Bunga, quel Calderoli che ha legato inestricabilmente il proprio volto a quello del porcellum.
Il tentativo di far saltare il quorum del referendum, si sa, ha per scopo quello di difendere il decreto Ronchi nei confronti di qualsiasi tipo di discussione democratica obbligando così, con un fiat dal centro, ogni territorio a spogliarsi senza fiatare dei propri beni comuni, in primis l'acqua, facendo sì che i soliti amici che finanziano le campagne elettorali romane (e non solo) possano lucrare profitti osceni alla faccia del popolo sovrano. Tutto ciò non solo è perfettamente coerente con l'idea di democrazia praticata dalla Lega, ma potrebbe consentire una volta di più di «darla a bere» ai poveri allocchi che sui territori qualche settimana prima del referendum avranno votato per il più potente partito del nord, quello che davvero governa la Repubblica di Bunga Bunga. Si mormora peraltro che la scelta del ministro dell'Interno sia largamente condivisa da diversi brillanti e ambiziosi esponenti del principale partito di finta opposizione della Repubblica di Bunga Bunga i quali, già ricoprendo importanti responsabilità amministrative al nord, fanno a gara con Ronchi nel portarsi avanti nella svendita dei beni comuni, non solo acqua ma anche tram e spazzatura. Ciò costituisce un altro tratto comune fra questi esponenti dell'opposizione, il suddetto ex ministro delle Politiche comunitarie e l'attuale ministro dell'economia e futuro premier della Repubblica, ai quali per onestà e completezza va associato anche l'esponente più prestigioso del partito delle «manette come valore», molto attivo a sua volta nelle piazze di Bunga Bunga. Tutti costoro infatti per mesi si erano improvvisati esperti di diritto comunitario e di diritto costituzionale, straparlandone senza pudore. Poi la Corte Costituzionale li ha invitati ad andare a seguire un corso di diritto europeo. Se lor eccellenze ritenessero di accettare l'invito dovrebbero però fare un po' in fretta, visto che molto presto l'università non ci sarà più, grazie al trattamento riservatole dalla ministra bresciana di Bunga Bunga, avvocatasi in Calabria. Anzi no, potranno frequentare comunque, per ragioni di puro merito, una scuola di eccellenza o magari basterà il Cepu.
Noi, da parte nostra, l'esame di diritto europeo lo abbiamo passato a pieni voti e umilmente lavoriamo per portare a 25 milioni di votanti il nostro milione e mezzo di firme. In fondo il ministro ci ha regalato un po' di tempo. Dato il sistema dei media di Bunga Bunga, possiamo utilizzare solo i banchetti per cercare di spiegare al popolo che il 12 giugno si deve andare a votare rinunciando a qualche ora di tintarella. Il banchetto è uno strumento lento ma ci darà l'opportunità di convincere la gente comune a non votare per chi dice di stare con la democrazia e il popolo mentre sta solo con i saccheggiatori e i ladroni per impedire (slealmente) che i territori decidano a casa loro come governare i propri beni comuni.
"Fiumi battete le mani", ha commentato Padre Zanotelli quando ha saputo che i quesiti referendari contro la privatizzazione dell´acqua erano stati accolti. «Cittadini, battiamo un colpo», mi viene da dire dopo aver osservato per giorni la pressoché totale indifferenza di media e politici su questo tema.
La campagna referendaria è iniziata, ma non ce ne siamo accorti perché siamo insabbiati in questa politica di piccolissimo cabotaggio, che rema a fatica da una notiziola giudiziaria all´altra. Non è un caso se tra i quesiti referendari l´unico che ha avuto dignità di stampa è quello che chiede l´annullamento della legge sul legittimo impedimento.
Ma, come diceva Einstein, non possiamo pensare di risolvere i problemi con la stessa mentalità con cui li abbiamo creati. Abbiamo creduto che il mondo della politica fosse interamente e costantemente al servizio del bene pubblico. Quella politica ha prodotto una norma inaccettabile, che addirittura dimentica alcune leggi fondamentali del tanto amato libero mercato.
Sì, perché nel libero mercato si deve essere liberi di vendere ma anche di comprare. Le due controparti (la domanda e l´offerta) si possono influenzare reciprocamente, stanno in una sorta di rapporto paritario, o per lo meno presunto tale. Se tu alzi troppo i prezzi io non compro, e quando vedrai che nessuno compra allora abbasserai i prezzi. Questo può succedere solo se tu sei libero di vendere e io sono libero di comprare. Ma se tu possiedi qualcosa di indispensabile per la mia stessa esistenza, allora la mia libertà di acquistare non esiste. L´acqua, l´aria, le sementi, la salute, l´educazione, la fertilità dei suoli, la bellezza dei paesaggi, la creatività.... non possono essere assimilate alla categoria delle merci.
Il diritto necessita di nuovi paradigmi per gestire i cosiddetti "beni comuni". Se i beni comuni diventano proprietà di qualcuno, tutti gli altri, ad esclusione di quel "qualcuno" ne avranno un danno, la loro vita sarà in pericolo.
Ora, siamo a questo punto: esiste una norma che rende privatizzabile l´acqua e con quei referendum la possiamo cancellare. Occorre però che vadano a votare almeno la metà più uno degli aventi diritto al voto. Nelle ultime elezioni politiche gli aventi diritto erano circa 47 milioni. Mal contati, occorre che circa 25 milioni di cittadini italiani, si rechino a votare.
Ma prima di tutto questo occorre che siano informati, che sappiano dove informarsi, che si rendano conto che siamo nel bel mezzo di una campagna referendaria fondamentale. A chi affidiamo questo incarico? Quella che ha prodotto la legge sulla privatizzazione? Oppure all´informazione, quella che si lascia trascinare nelle sabbie mobili della politica? Occorre iniziare a far da noi. "Uscirne da soli – diceva don Milani – è l´avarizia. Uscirne insieme è la politica". Ecco, usciamone insieme da questo pantano, e creiamo, in ogni città, un nuovo soggetto politico, che faccia da punto di riferimento per la difesa dei beni comuni e l´informazione che li riguarda. Oggi lavorerà sull´acqua, ma le emergenze non scarseggiano: dalla cementificazione dilagante alle polveri sottili nell´aria alle lapidi fotovoltaiche sui campi fertili, dalle scuole senza carta igienica alle strade piene di immondizia.
La politica dei partiti non ce la fa. Non ha strumenti né energie, in questo momento, culturali o intellettuali, per una simile rivoluzione. Occorre che i cittadini si attivino. Senza bandiere, né raggruppamenti di sigle: non importa a nessuno sapere che berretto abbiamo sulla testa, importa sapere che pensieri abbiamo dentro la testa e che azioni sappiamo produrre. Chiamiamola Azione Popolare, come suggerisce Settis nel suo libro "Paesaggio, costituzione, cemento" (Einaudi), o in qualsiasi altro modo. Ma sbrighiamoci, perché abbiamo bisogno di queste nuove strutture, leggere, puntuali, attente, legate ai municipi, alle parrocchie alle bocciofile, non importa: basta che coagulino persone che agiscano come presidi di cervelli e cuori sui territori, nelle grandi città come nei borghi. Oggi si diano da fare per far sapere a tutti di cosa si sta parlando quando si parla di acqua pubblica, quali valori sono in gioco, quali pericoli sono in agguato. Il comitato promotore dei referendum "Acqua bene comune" ha fatto, finora, i miracoli. Quasi un milione e mezzo di firme raccolte e due quesiti su tre passati è un risultato straordinario. Adesso i territori si mobilitino, fino a quando non avremo la certezza che 25 milioni di italiani sono andati a votare: altrimenti i referendum non saranno validi. Poi, statene certi, quelle strutture non resteranno senza lavoro. Lo dico con un po´ di tristezza, perché in un mondo ideale non dovrebbero avere nulla da fare. Ma siamo nel mondo reale, e c´è tanto lavoro da fare perchè diventi il miglior mondo possibile.
Perché la nostra rete è in condizioni così disastrose? Chi saranno i protagonisti della gara per gestirla? Chi gestisce oggi il sistema idrico nazionale? E quali novità saranno introdotte a fine anno dal Decreto Ronchi? La domanda che in questa fase tutti si fanno è questa: per l´utente è meglio un gestore pubblico o uno privato?
MILANO - Il risiko dell´oro blu si prepara a ridisegnare la mappa dell´acqua italiana. Nei prossimi 12 mesi - salvo stop dal referendum di giugno - un po´ di maxi utility italiane, i grandi costruttori di casa nostra e un´agguerrita pattuglia di colossi stranieri si affronteranno in una partita miliardaria: la riorganizzazione della rete idrica tricolore con un´apertura più decisa ai privati. I vincitori si spartiranno un Bingo da sogno: il ricco (e anticiclico) mercato delle bollette - già cresciute del 65% dal 2002 a fine 2010 - e la gestione dei 64 miliardi di euro di investimenti necessari per rimettere in sesto i 300mila chilometri di tubi che trasportano il prezioso liquido dalle sorgenti fino ai rubinetti di casa nostra. Un colabrodo «non degno di un paese avanzato» - come dice tranchant il Censis - che perde per strada 47 litri ogni 100 immessi in rete, con un danno di 2,5 miliardi l´anno. La strada a livello legislativo è già tracciata: entro dicembre - dice il Decreto Ronchi - gli enti locali dovranno aprire definitivamente ai privati questo mercato. Mantenendo la proprietà dell´acqua ma affidandone a terzi la gestione industriale. C´è solo un ultimo (fondamentale) ostacolo per questa rivoluzione che rischia di avere conseguenze importanti anche per il portafoglio dei consumatori: il referendum di giugno che chiede l´abrogazione del provvedimento, lasciando il servizio idrico nazionale in mano allo Stato. Ma quanta acqua potabile abbiamo in Italia e perché la nostra rete è in condizioni così disastrose? Chi saranno i protagonisti di questa corsa all´oro blu? Ed è vero che con lo sbarco dei privati nei rubinetti di casa pagheremo bollette molto più alte?
UN TESORO DAL CIELO
Giove pluvio ha avuto un occhio di riguardo per il Belpaese. Sull´Italia, certifica Eurostat, cadono in media 296 miliardi di metri cubi l´anno di pioggia (per il 42% al nord) cifra che ci mette al sesto posto nel continente dietro Francia (485), Norvegia (470), Spagna (346) e vicini a Svezia (313) e Germania (307). Al netto dell´evaporazione e dei deflussi abbiamo accesso a 157 miliardi di metri cubi (3mila l´anno per abitante). Un capitale immenso che però - come spesso accade nel nostro paese - non riusciamo a far fruttare visto che in rete pompiamo "solo" 136 metri cubi a testa ogni dodici mesi.
Dove si perde tutto questo ben di Dio che piove dal cielo? In buona parte nei fiumi e sottoterra. «L´Italia non ha gli invasi necessari per conservare questo tesoro per i periodi siccitosi», ripete da anni l´Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni (l´agricoltura consuma 20 miliardi di metri cubi l´anno contro i 16 dell´industria e i 5,2 per consumi domestici). I 337mila chilometri di acquedotti tricolori ci danno così accesso solo a un terzo di quanto è disponibile in pozzi e sorgenti. E quando bene siamo riusciti a imbrigliare l´acqua in un tubo, non riusciamo a trasportarla sana e salva a destinazione: di100 litri raccolti alla fonte, al rubinetto ne arrivano solo 53. A Bari, certifica l´Istat, bisogna mettere in rete 206 litri per riuscire a consegnarne 100. A Palermo 188, a Trieste 176. Milano (dove i smarriscono solo 11 litri ogni 100) e Venezia (9) sono mosche bianche in questa liquidissima galassia di sprechi che butta dalle sue falle - calcolano Civicum e Mediobanca - qualcosa come 2,5 miliardi di euro di oro blu ogni anno. In Germania, per dire, la dispersione è di sette litri su 100 (e lì è una cifra che fa scandalo) mentre la media europea è del 13%.
IL QUADRO DI REGOLE
Chi gestisce oggi la rete idrica nazionale? Cosa cambierà con il decreto Ronchi che - salvo successo del referendum - allargherà la presenza dei privati nel settore da fine 2011? Fino a pochi mesi fa il quadro di regole era quello disegnato dalla legge Galli a metà degli anni ‘90. Un´Italia dell´acqua "federale" divisa in 92 Ambiti territoriali ottimali (Ato) pubblici - prima se ne occupavano 8.500 comuni - che dopo aver steso un programma di interventi necessari per migliorare la rete dovevano riaffidare il servizio. Una piccola rivoluzione accompagnata dal passaggio da un sistema tariffario rigido (regolato dal Cipe per tutto il paese) a una tariffa reale media in grado di coprire gli investimenti e un rendimento garantito al gestore (il 7%). Con un tetto di incremento annuo per i prezzi al consumo fissato comunque al 5%. La metamorfosi però va ancora a rilento. A 15 anni dalla riforma, dei 92 Ato - dice il Blue Book 2010 di Utilitatis - solo 72 hanno provveduto ad affidare il servizio. E l´acqua è ancora saldamente in mano pubblica. Ben 34 Ato hanno girato la gestione a realtà controllate al 100% da enti locali. In tredici casi è stata passata a società quotate ma a forte presenza pubblica come le multitutility e in altri dodici ad aziende miste pubblico-privato. Solo 6 Ato - di cui cinque in Sicilia - hanno consegnato le chiavi dei loro acquedotti (ma non la proprietà) interamente ai privati. Cosa cambierà a fine 2011? Il Decreto Ronchi farà decadere tutti gli affidamenti in house, quelli a società interne, a meno che non si apra il capitale per almeno il 40% a un socio privato. Le municipalizzate potranno invece conservare la gestione solo se la quota pubblica del loro capitale scenderà sotto il 40% a giugno 2013 e sotto il 30% a fine 2015.
I NUOVI PADRONI DELL´ORO BLU
Chi sono i protagonisti privati di questo risiko dell´oro blu? L´identikit dei concorrenti ai nastri di partenza è già abbastanza chiaro. Anche perché molti di loro hanno già messo uno zampino nel mercato idrico nazionale e si stanno organizzando da tempo per la grande partita della privatizzazione. A far gola non è soltanto il business dell´acqua in sé. Anzi: «Il tetto al 5% dell´incremento delle tariffe è un limite che spaventa molti potenziali investitori», ammette Adolfo Spaziani, direttore di Federutility. Il boccone più grosso sono gli investimenti necessari per tappare le falle degli acquedotti nazionale: una torta gigantesca da 64,1 miliardi nell´arco dei prossimi 30 anni (compresi interventi su fogne e impianti di depurazione), stima il Blue Book 2011, che fa gola anche ai costruttori. Da dove arriveranno questi soldi? Per il 14%, stima il Censis, da aiuti pubblici a fondo perduto. Per il resto saranno finanziati con le bollette. L´aumento necessario tra il 2010 e il 2020 - calcola Utilitatis - sarebbe del 18%. Soldi. Tanti. Che hanno già attirato diversi pretendenti al business dell´acqua privata. La pattuglia tricolore vede in campo tre big e qualche comprimario. Acea, la municipalizzata romana nel cui capitale sta crescendo rapidamente il gruppo Caltagirone (attivo nelle costruzioni), ha già oggi 8 milioni di utenti in diversi Ato a cavallo tra Lazio, Toscana e Umbria. Non solo. La società capitolina non ha mai nascosto il suo interesse per l´Acquedotto Pugliese (che Nichi Vendola sta cercando di blindare in mano pubblica) e ha iniziato a muovere i suoi primi passi anche verso la Lombardia. L´astro emergente - pronto a sfidare Acea per la leadership tricolore - è la Iren, la utility nata dalla fusione delle municipalizzate di Genova, Torino, Parma, Piacenza e Reggio Emilia e partecipata da IntesaSanpaolo. Opera già in Emilia, Liguria, Piemonte, Sardegna e Sicilia. E ha stretto un´alleanza azionaria di ferro con F2I, il fondo per le infrastrutture di Vito Gamberale, pronto a una scommessa importante sul business dell´acqua. Alla finestra c´è anche la Hera, la utility bolognese, forte nella regione d´origine ma ai nastri di partenza - almeno in apparenza - con piani meno ambiziosi. Mentre A2a e Acegas si muovono per ora solo a livello locale. Chi sono i big stranieri pronti a scalare l´acqua tricolore? Due hanno già scoperto le carte: Suez, il colosso transalpino, in campo a fianco dell´Acea, con cui già lavora in Toscana e Umbria e il rivale francese Veolia, che distribuisce l´acqua nell´Ato di Latina, a Lucca, Pisa, Livorno e nel Levante ligure. Una sbirciatina al dossier Italia l´hanno data gli inglesi di Severn Trent (che ha già messo un piedino in Umbria) e gli spagnoli di Aqualia sbarcati da tempo a Caltanissetta.
IL REBUS PUBBLICO-PRIVATO
Meglio per l´utente un gestore pubblico o privato? La risposta naturalmente non è facile. E l´esperienza degli ultimi anni non aiuta certo a sciogliere il dubbio. Ci sono amministrazioni pubbliche più che efficienti ed economiche - Milano ad esempio spreca poca acqua e ha una delle tariffe più basse d´Europa - e altre con bilanci e acquedotti che fanno acqua in tutti i sensi. I privati hanno spesso prezzi più alti ma in media tendono a garantire più servizi e investimenti. Proviamo a far parlare i pochi dati disponibili. Primo fatto: in assenza di un´authority che regoli il settore nessuno, pubblico o privato, riesce a rispettare gli impegni. Gli investimenti previsti dagli Ato nei loro primi anni di vita sono stati realizzati solo al 56%, dice il Coviri, l´ente che vigila sul settore con pochissimi poteri.
Le realtà a controllo pubblico sono riuscite a mandarne in porto molto meno del 50% («anche perché lo stato taglia gli stanziamenti e loro non riescono a finanziarsi sul mercato o con nuove tasse», sostiene Spaziani). Le Spa miste e le municipalizzate li hanno ridotti "solo" del 13% in base agli studi del Blue Book. «Però da quando nell´acqua operano i privati l´occupazione è scesa del 30% e i consumi sono aumentati della stessa misura», sottolinea Marco Bersani del Forum movimenti per l´acqua pubblica. La legge Galli, per assurdo, ha ingessato il sistema. Fino al 1995, quando pagava tutto Pantalone (alias lo Stato), si spendevano 2 miliardi l´anno per la manutenzione di acquedotti, fogne e depuratori. Oggi siamo fermi a 700 milioni. Roma taglia e i privati, in assenza di meccanismi tariffari premianti, investono con il contagocce.
IL NODO DELLE TARIFFE
I privati fanno pagare di più l´acqua? Questo, naturalmente, è il dato che interessa di più l´utente finale che fino a quando vede l´acqua scorrere dal rubinetto di casa si preoccupa più del suo portafoglio che dei buchi della rete a monte. Anche qui - sul fronte della bolletta - i dati empirici sono per ora pochi. Certo gli affidamenti degli Ato ad aziende miste o private che hanno promesso più investimenti hanno comportato un balzo secco della bolletta. Nel 2002 ogni italiano pagava in media 182 euro l´anno per il servizio idrico. Oggi siamo a 301, il 65% in più. Gli abitanti di Toscana (462 euro di spesa l´anno), Umbria (412), Emilia (383) e Liguria (367) - le regioni dove il processo di privatizzazione è più avanti - sono quelli che scontano prezzi più elevato (i lombardi, per dire, spendono 104 euro). Dei 25 Ato con tariffe al top, 21 sono privati o in gestione mista. «Ma una spiegazione c´è - dice Spaziani - . Lì si investe di più mentre gli Ato a gestione pubblica privilegiano per ovvi motivi di consenso politico la tariffa bassa al servizio efficiente». Ma non sempre è così: «Ad Agrigento c´è la bolletta più alta del paese e l´acqua arriva due volte la settimana e solo in due terzi della città - dice Bersani - . Salvo poi scoprire che il gestore privato Girgenti Acque ne vende un bel po´ a Coca Cola per fare una bevanda gassata». A Latina - dove il Comune è affiancato da Veolia - i costi sono schizzati «tra il 300 e il 3000%» calcola Bersani e 700 famiglie si autoriducono ogni mese la bolletta pagando il giusto (dicono loro) al Comune. A fine 2010 un metro cubo d´acqua costava 1,37 euro (con picchi di 2,28 per l´alta Toscana e di 0,66 a Milano). Nel 2020 saremo a quota 1,63, il 18% in più con punte di +75% per l´area di Lecco (che passa alla tariffa media) e del 67% nell´Ato Bacchiglione gestito da Aps-Acegas. «Ma attenzione - dice Giuseppe Roma della Fondazione Censis - restiamo comunque ben al di sotto di quanto si spende nel resto d´Europa». Un berlinese paga per l´acqua quasi mille euro l´anno, a Bruxelles la bolletta è di 580, a Varsavia 545. A Barcellona, Oslo, Helsinki e San Francisco siamo al doppio dei 200 dollari della capitale italiana. «Purtroppo dobbiamo rassegnarci - spiega Roma - . Il dilemma pubblico-privato è un falso problema: il sistema fa acqua da tutte le parti. Due italiani su dieci non hanno il servizio di fogna, al sud quasi uno su due riceve acqua non depurata. Non importa chi gestirà la rete in futuro. Per far funzionare la rete dobbiamo alzare e non di poco il prezzo. Le tariffe oggi riflettono solo la ricerca di consenso politico». Senz´acqua, in fondo, non si può stare. E - come ricorda Spaziani - per la bolletta idrica spendiamo oggi solo lo 0,8% delle uscite mensili contro il 2% per il telefono, il 5,3% in elettricità e riscaldamento, il 14,9% per i trasporti e lo 0,9% per le sigarette. Per non parlare, dulcis in fundo, del più assurdo dei paradossi: in Italia una famiglia di 4 persone spende in media 340 euro l´anno in acqua minerale. Trentanove in più di quanto stanzia (lamentandosi) per quella che arriva dal rubinetto.
PostillaForse varrà pure la pena di ricordare che per accumulare l’acqua in eccesso alla capacità di consumo basterebbero i vasti depositi sotterranei creati dalla natura. Solo che si rispettassero quegli strumenti di pianificazione, messi a punto nel secolo scorso, con i quali si era deciso che la difesa pianificata delle acque doveva avere la priorità su agni altra decisione di trasformazione, che uguale priorità doveva avere la tutela del paesaggio, e che le decisioni di coinvolgere nuovi territori nella laterizzazione (trasformazione della terra in una repellente crosta di cemento e asfalto) dovevano avere la loro rigorosa premessa in una pianificazione orientata (e limitata) dal soddisfacimento dei fabbisogno socialmente rilevanti. Perciò la battaglia per l’acqua pubblica è strettamente legata alla battaglia contro il consumo di suolo e per una corretta pianificazione del territorio.
Ieri abbiamo partecipato, con la nostra memoria e i nostri argomenti, ad un alto momento di democrazia. Il referendum ha riacquistato la sua forza originaria, quella voluta dai nostri Costituenti, è uscito dal cul de sac dei tecnicismi e dei limiti giurisprudenziali in cui era stato condotto a partire dei primi anni del 2000. La Corte costituzionale, dietro istanza di circa un milione e mezzo di cittadini, pronti a divenire 30 milioni per dire no a quel processo di privatizzazione selvaggio voluto dal decreto Ronchi, ha dichiarato ammissibile il referendum promosso dai comitati contro il saccheggio dei beni comuni e la dismissione della proprietà pubblica. Ha dichiarato ammissibile il quesito che espunge il profitto dalla gestione del servizio idrico. Insomma uno stop a quel progetto affaristico e letale di contaminazione pubblico-privato che già aveva interessato le varie mafie locali (passando dall'acqua, ai trasporti ai rifiuti), troppo spesso collettori di voti e consensi elettorali.
Il tema dei beni comuni è entrato per la prima volta nel dibattito processuale dinanzi alla Corte, agganciato al tema dei servizi pubblici ed alla tutela dei diritti fondamentali: si è aperta dunque nel nostro Paese una nuova stagione di democrazia. I cittadini si sono riappropriati del diritto di esprimersi sui beni comuni, sui beni di loro appartenenza, su quei beni che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona e sono informati al principio e alla salvaguardia intergenerazionale. Si è ridato significato e dignità all'art. 1 della Costituzione, ovvero al principio che assegna al popolo la sovranità, in una stagione di tragedia della democrazia rappresentativa. ipartire dunque dalla campagna referendaria, ma non soltanto per raggiungere il quorum di voti necessario per la validità del referendum, ma anche per dare inizio ad una grande battaglia per la difesa dei beni comuni. Ripartire dalla campagna referendaria per aprire una stagione di lotta sul tema dei diritti violati: lavoro, università, migranti, ambiente.
Il "popolo dell'acqua" che a questo punto potrà incidere sulle politiche pubbliche del nostro Paese, e che dovrà pretendere la moratoria di tutti i processi di privatizzazione in corso, dovrà dunque essere pronto a manifestare tutta la sua indignazione e voglia di partecipazione contro tutti i soprusi e le angherie sempre più espressione di una società feudale e post-moderna. Da ieri c'è un nuovo soggetto politico con il quale il desolante sistema dei partiti parlamentare ed extra-parlamentare dovrà finalmente fare i conti.
Gli autori hanno rappresentato il Comitato per il no davanti alla Corte Costituzionale
DECISIONI IN TEMA DI AMMISSIBILITÀ DEI QUESITI REFERENDARI
La Corte costituzionale, in data 12 gennaio 2011, ha deliberato in ordine all’ammissibilità delle seguenti richieste di referendum abrogativo:
n. 149 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 1) “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione”: ammissibile
n. 150 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 2) “Servizio idrico integrato. Forme di gestione e procedure di affidamento in materia di risorse idriche. Abrogazione”: inammissibile
n. 151 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 3) “Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito. Abrogazione parziale di norma”:ammissibile
n. 152 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 4) “Norme limitatrici della gestione pubblica del servizio idrico. Abrogazione parziale”: inammissibile
n. 153 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 5) “Nuove centrali per la produzione di energia nucleare. Abrogazione parziale di norme”: ammissibile
n. 154 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 6) “Abrogazione della legge 7 aprile 2010, n.51 in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri a comparire in udienza penale”:ammissibile
Le sentenze saranno depositate entro i termini previsti dalla legge.
dal Palazzo della Consulta, 12 gennaio 2011