Di solito parlando di urbanizzazione impropria si pensa soprattutto al suolo, ma anche l'acqua ha il medesimo ruolo di risorsa finita non sostituibile. Il manifesto, 2 aprile 2014 (f.b.)
Lo scorso autunno Los Angeles ha celebrato in pompa magna il centenario del «Los Angeles Acqueduct», il canale che rifornisce d’acqua la città inaugurato nel 1913. L’anniversario è stato commemorato da gonfaloni appesi ai lampioni delle maggiori arterie cittadine e l’acquedotto celebrato come «sorgente di vita» in altisonanti articoli di giornale. Plauso per un’opera di ingegneria idrica che rende bene la misura dell’importanza tuttora attribuita all’acqua in questa regione – perlopiù in funzione della sua cronica scarsità. Si dà il caso, infatti, che nell’inverno appena concluso sia piovuto meno che in ogni anno dal 1850, quando la California, da poco strappata al Messico, è diventata uno stato americano. Inevitabile che nel mezzo della peggiore siccità a memoria d’uomo le commemorazioni civiche abbiano assunto un che di rito propiziatorio, una liturgia del «cargo cult» che in questa città come nell’intero quadrante sud occidentale d’America è legato alla risorsa più preziosa e scarsa e alla grande e perenne sete.
Le fasi aride come l’attuale in questa regione degli States sono una certezza climatica che torna con ciclica regolarità. E ogni volta rammentano come la California e l’Ovest americano (gran parte di Nevada, Utah, Arizona e Nuovo Messico, parti del Colorado e del Texas) siano sostanzialmente regioni desertiche in cui negli ultimi 100 anni si sono insediate 60 milioni di persone. Questa colonizzazione arbitraria, senza logica geografica e soprattutto senza riguardo per le risorse naturali, è avvenuta in una regione dove oltretutto esiste ampia documentazione archeologica di civiltà indigene la cui scomparsa viene ormai attribuita proprio a cause climatiche (ad esempio quella rupestre degli indiani Anasazi). Oggi paradossalmente – assurdamente – quelle che erano le regioni più inospitali del continente sono diventate l’epicentro della crescita demografica del paese.
Los Angeles, senza insenatura, senza porto naturale o un fiume navigabile, priva di vere risorse minerarie e circondata dall’aridità implacabile del Mojave è il prototipo originale di questo sviluppo «contronatura» predicato sull’irrigazione su scala mastodontica. Per un secolo il Pueblo de Los Angeles rimase poco più di un bivacco dei frati francescani spagnoli che l’avevano fondato, circondato da sterpaglia, macchia mediterranea e da piccole coltivazioni in balia di un clima imprevedibile. A fine ‘800, grazie allo scalo ferroviario della Union Pacific, la popolazione era arrivata a 80.000 abitanti e nel 1903 aveva già esaurito l’acqua dell’esiguo Los Angeles River, il torrente che raccoglieva le acque stagionali delle vicine montagne San Gabriel. Non a caso chi ancora oggi più si avvicina a un santo patrono, colui al quale è intitolata una delle strade più celebri della città, Mulholland Drive, è l’ingegnere che progettò il canale lungo 674 chilometri che a questo lembo di deserto meridionale portò l’acqua che nei decenni successivi avrebbe permesso l’insediamento di oltre 10 milioni di esseri umani.
William Mulholland era un ingegnere autodidatta irlandese arrivato in California per tentare la fortuna come cercatore d’oro, ossessionato dall’approvvigionamento idrico della città. Finanziato dai petrolieri, baroni ferroviari e speculatori dell’edilizia e agroindustriali che rappresentavano gli interessi fondativi della giovane Los Angeles, l’acqua decise di andarla a prendere alle pendici della Sierra Nevada orientale, nella verdeggiante valle dell’Owens, 600 km a nord, e trasportarla attraverso l’infuocato deserto Mojave.
Gli agenti del Department of Water and Power di Los Angeles cominciarono ad acquisire i diritti d’uso dell’acqua dagli agricoltori della Owens Valley sotto le mentite spoglie di fantomatici «ottimizzatori dell’irrigazione». E quando con proditorietà da insider trader ante litteram ebbero in mano i necessari pacchetti di maggioranza sulle acque montane, annunciarono la diversione nel canale in costruzione. In sostanza avviarono il commissariamento delle acque che avrebbe condannato la ridente vallata a trasformarsi in polveroso deserto. In quel momento il bacino aveva già perso metà del proprio volume ed era avviato a prosciugarsi. 700 famiglie di agricoltori locali occuparono allora le chiuse e tentarono di dirottare il flusso dell’acquedotto nuovamente verso i campi moribondi. Los Angeles rispose inviando centinaia di agenti di polizia mentre gli sceriffi del luogo presero la parte dei ribelli. Lo scontro armato venne evitato in extremis solo da un accordo che avrebbe restituito una parte delle acqua ma che non fu mai rispettato da Los Angeles. Tanto che una campagna di attentati dinamitardi contro l’acquedotto – 17 in tutto sarebbe continuata per diversi anni fin quando la rivolta dell’acqua non venne sedata con la legge marziale e l’istituzione di guarnigioni con mitragliatrici poste ad intervalli regolari lungo tutto il percorso della tubatura.
La vicenda è accennata in chiave di noir nello splendido Chinatown di Roman Polanski (nel film Mulholland è l'inquietante patriarca interpretato da John Huston) e costituisce il «peccato originale» del trionfo di Los Angeles. Un’allegoria perfetta per l’ipersviluppo degli stati dell’Ovest. L’esproprio delle acque è stato replicato in varia misura da tutte le metropoli del deserto: la fondazione di Phoenix e Las Vegas, la crescita di Salt Lake City e San Diego sono dovute a massicce opere di irrigazione, dato che come dichiarò all’epoca il ministro degli interni di Herbert Hoover, Ray Lyman Wilbur, «con l’aggiunta di acqua, la conquista del Sudovest assicurerà la crescita di una grande e stabile civiltà».
Un secolo dopo, nel mezzo dell’ennesima drammatica siccità, e ora con milioni di abitanti che dipendono da una risorsa ancora altrettanto incerta, il costo della «grande civiltà», quella dei 100 campi da golf di Palm Springs, delle mega-fontane di Las Vegas, delle mille suburbie spuntate come funghi nel deserto, è infine ineluttabile. Del lago Owens oggi rimane un fondale secco da cui si levano turbini di polveri sottili che rendono irrespirabile l’aria della valle un disastro ecologico simile a quello del lago Aral in Kazakhstan. Appena fuori Bishop, capoluogo della Owens Valley, ancora oggi ci sono incongrui tombini recanti la dicitura «acque di Los Angeles» e le chiuse sono ancora protette da imponenti reticolati spinati con la stessa scritta.
Ma quando negli anni ’70 il Department of Water and Power decise di mettere in atto la terza fase del progetto Mulholland, andando a pescare ancora più a nord nelle acque vulcaniche di Mono Lake, condannando anche questo splendido lago alpino a una morte sicura, la campagna per salvarlo diventò subito una pietra miliare del movimento ecologista californiano, che organizzò proteste e petizioni e ricorse in tribunale per fermare la conquista dell’acqua cominciata 80 anni prima. Nel 1988 la corte federale decretò che l’intrinseco interesse alla tutela del patrimonio naturale prevaleva su quelli di singole municipalità; Los Angeles stavolta dovette interrompere i prelievi e istituire invece misure di risparmio idrico. Il lago, una delle meraviglie naturali della Sierra Nevada, venne salvato e oggi sta lentamente recuperando volume.
Tutto giusto, tutto vero. L’ennesima argomentazione del perché tutela del territorio e tutela del lavoro siano due temi strettamente intrecciati e la prevenzione sia essenziale per la nostra sopravvivenza. Però… La Repubblica, 1 febbraio 2014, con postilla
Una scena che si ripete a ogni inverno, anzi quasi a ogni pioggia. E se non ci sono vittime, ceri in tutte le chiese,Te Deum e processioni di ringraziamento. Questa Italia che si vuole tecnologica e si scopre incapace di badare a se stessa rivive ogni anno la stessa stagione di disastri, condita da dichiarazioni dei padri della patria che promettono immediate contromisure, elogiando l’indomito popolo italiano che sfida le avversità. Una sola cosa, a quel che pare, non viene in mente ai Soloni che affollano le aule della politica, le penombre dei partiti, le stanze dei bottoni: che bastava un po’ di prevenzione per evitare, o quanto meno ridurre, il danno. O meglio, di prevenzione si parla, ma senza poi far nulla. Per citare la voce più autorevole, è di ieri il discorso del Presidente Napolitano dopo l’alluvione delle Cinque Terre (quattro morti, ottobre 2011): «bisogna affrontare il grande problemanazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall’emergenza alla prevenzione». Sagge parole, alle quali non è seguito nulla di concreto.
In preda a colpevole amnesia, dimentichiamo la fragilità del nostro territorio, il più franoso d’Europa (mezzo milione di frane censite), il più esposto al danno idrogeologico e all’erosione delle coste. Fragilità che colpiscono periodicamente, con danni gravissimi alle persone, alle attività economiche, al paesaggio, al patrimonio storicoartistico. Non sono i colpi di un destino avverso, ma eventi che dovrebbero innescare meccanismi di consapevolezza e di prevenzione: una miglior conoscenza dei territori, mappe del rischio, soluzioni possibili. E invece, rassegnati, passiamo dalla retorica della prevenzione a una cultura dell’emergenza che piange perennemente su se stessa.
Un esempio solo, ma eloquente: la carta geologica d’Italia, indispensabile per la conoscenza del territorio. La prima, al 100.000, fu voluta da Quintino Sella, ma è largamente superata, se non altro per l’enorme crescita degli insediamenti e delle cementificazioni che fragilizzano il territorio. La nuova carta, avviata da più di vent’anni, prevedeva 652 fogli al 50.000, ma solo 255 sono stati realizzati: abbiamo dunque una carta aggiornata solo per il 40% del territorio, e per completarla manca un adeguato finanziamento. Eppure, secondo il rapporto Ance-Cresme (ottobre 2012), il 6,6% della superficie italiana è collocato in frana (547 frane per Kmq nella sola Lombardia), il 10% è a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico. I costi della mancata manutenzione del territorio sono stati valutati in 3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare le perdite di vite umane): negli anni 1985-2001 si sono registrati 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti. Nonostante questi terribili segnali di allarme, cresce ogni anno «l’abbandono della manutenzione e presidio territoriale che assicuravano l’equilibrio del territorio ».
Ma che vuol dire “prevenzione”, se mai il governo volesse prendere sul serio questo tema? Vuol dire limitare il dissennato consumo di suolo che “sigillando” i suoli ne riduce l’elasticità e accresce gli effetti di frane e sismi; vuol dire incentivare l’agricoltura di qualità, massimo baluardo contro il degrado dell’ambiente e dei paesaggi, mettendone in valore l’alto significato culturale ed economico. Vuol dire porre una moratoria alla cementificazione dei suoli, rinunciando alla menzogna secondo cui le “grandi opere” e l’edilizia sarebbero il principale motore dello sviluppo. Vuol dire rilanciare la ricerca sulle caratteristiche del nostro suolo e le strategie di prevenzione. Capire che la messa in sicurezza del territorio è la prima, la vera, l’unica “grande opera” di cui il Paese ha bisogno. Secondo il rapporto Ance-Cresme, un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio richiederebbe un investimento annuo di 1,2 miliardi per vent’anni, che assorbirebbe una consistente manodopera bilanciando il necessario decremento delle nuove fabbricazioni: e invece negli ultimi anni gli investimenti pubblici per la messa in sicurezza del territorio sono diminuiti mediamente del 50%. Un piano come questo può generare occupazione convogliando anche risorse private, purché sia evidente l’impegno pubblico in volontà politica, risorse economiche e capacità progettuale. Il governo Letta si mostrerà capace di un’inversione di rotta come questa, per esempio spostando sulla difesa del territorio, e su connesse politiche di occupazione giovanile, una parte dei 26 miliardi di spese militari?
postilla
Peccato che il “pensiero unico” che è alla base delle “grandi intese” e degli accordi renzusconiani, entrambi sponsorizzati dall’attuale presidente della Repubblica, abbiano nella delegittimazione della pianificazione del territorio e negli altri strumenti del governo pubblico del territorio, il fondamento della loro ideologia e delle conseguenti prassi. Peccato che da mezzo secolo si ripete invano che il governo pubblico del territorio e il metodo della pianificazione costituiscono l’unica prevenzione effice dai disastri reiteratamente annunciati. Leggete, sd esempio, questo articolo di Antonio Cederna del 3 gennaio 1973, nell’archivio del vecchio eddyburg.
«Ieri la pioggia ricadendo trovava un territorio ancora integro, ovvero organizzato secondo razionalità ecologica. Oggi incontra la "città diffusa"». Il manifesto, 31 gennaio 2014
Affoga la «città diffusa». Ormai basta un temporale un po’ più consistente,neppure alluvionale, e pezzi interi di quartieri vanno sott’acqua, i fiumi esondano, i sottopassi diventano cisterne di acqua sporca e melmosa, pronta a riversarsi nell’intorno. Il clima impazzito, perché sovrabbondante di entropia ed energia da attività antropiche, scarica le proprie bizzarrie su un territorio indebolito; paradossalmente dall’elemento che più doveva consolidarlo, oltre che modernizzarlo, il cemento delle città.
In questi giorni – che sarebbero quelli della «Merla», ovvero i più freddi dell’anno – registriamo temperature e precipitazioni da inizio autunno. I trend ci dicono che il riscaldamento globale provoca frequenti alternanze di siccità e forme alluvionali, che provocano sempre più spesso, con precipitazioni concentrate (le così dette bombe d’acqua), autentici disastri. Che si eviterebbero se le piogge ricadessero su un territorio ecologicamente solido. Al contrario un ciclo dell’acqua alterato ricade su contesti ambientali e insediativi fortemente indeboliti proprio dalla diffusione urbana, con consumo di suolo e cementificazione che hanno dissestato, degradato, scassato gli ecosistemi, oltre ogni possibile capacità di tenuta. Fino ad ieri, specie in un ambiente tendenzialmente chiuso come quello mediterraneo in cui si estende la nostra penisola, cicloni ed uragani costituivano eventi eccezionali. Oggi invece precipitazioni alluvionali diventano la norma e trovano un territorio stravolto da un’urbanizzazione che ormai ingombra circa il 20% della superficie nazionale. Con il paradosso di aver sconvolto gli ecosistemi ed i paesaggi del Belpaese per realizzare un enorme patrimonio di volumi edificati, abitativi, commerciali, industriali, infrastrutturali, che in gran parte oggi restano vuoti; a testimoniare il doppio danno, da spreco e da disastri ambientali conseguenti alle loro realizzazioni. Decine di milioni di stanze vuote, miliardi di metri cubi di capannoni abbandonati sono un monumento al trionfo della rendita, ma soprattutto allo sfascio e all’idiozia nazionale. E contribuiscono costantemente a innalzare i livelli di rischio idrogeologico — come appare evidente ogni giorno di più — ma anche sismico, ci ricordano L’Aquila e gli altri centri colpiti da eventi recenti.
Ieri la pioggia (o la neve) ricadendo trovava un territorio ancora integro, ovvero organizzato secondo razionalità ecologica. I bacini montani erano i primi ad intercettare le precipitazioni, ma ne traevano giovamento nell’alimentazione delle fonti e del patrimonio boschivo. Il deflusso verso valle dell’acqua riscontrava versanti saldi e vie di fuga libere, pronte ad essere fruite in caso eventi alluvionali. A valle colture e insediamenti rispettavano gli alvei fluviali: in prossimità di questi rimanevano ambienti tendenzialmente naturali o colture umide.
Oggi la città diffusa, non solo italiana, ha stravolto tale paesaggio: dalla Megalopoli Padana, alla blobbizzazione del Nord Est, alla mega conurbazione lineare adriatica, alle città allargate dell’Emilia, della Toscana, della campagna romana, alla sporca marmellata insediativa napoletana, alle coste iperurbanizzate e spesso abusive di Calabria e Sicilia, fino alla cementificazione dei contesti urbani sardi (che Cappellacci vorrebbe ancora ampliare). Così le colture montane abbandonate favoriscono il dissesto e le frane, anche per l’abbandono della cura del bosco protettivo. Ancora l’urbanizzazione si è spinta spesso verso i versanti sub collinari, negando le vie di fuga di fiumare e torrenti, spesso intubati o cementificati. In regime alluvionale, i corsi d’acqua trovano argini sempre più alti – che devono «proteggere» la città estesa fino al limite o dentro gli alvei — e diventano condotte forzate. La rottura delle reti ecologiche e della continuità dei collettori per la diffusione urbana non permette più esondazioni «tranquille», in caso o fuoriuscita o rottura degli argini, o di innalzamenti repentini delle falde. Si tendono a formare così le «macrovasche urbane» che abbiamo visto l’anno scorso in Veneto e poi in Sardegna e oggi a Roma: muri e costruzioni hanno chiuso corridoi di deflusso e vie di fuga; l’intorno si riempie di acqua e fango e il liquido melmoso sale repentinamente. Urge una svolta drastica nelle politiche territoriali e ambientali
Un'esperienza ambientale, economica, soprattutto sociale e con forte caratterizzazione di genere, che lascia un solo dubbio: si tratta di un prodotto collaterale dello slum, o di una vera alternativa, per quanto settoriale, alla metropoli globalizzata? Il manifesto, 17 ottobre 2013 (f.b.)
La maggior parte degli edifici di Mumbai, come in altre città in India ma anche in Medio Oriente o in Nord Africa, sono connessi dai tetti. Tetti piani, terrazzi a tutti gli effetti, separati tra loro solo da muretti bassi, facili da scavalcare. Qui vengono spostate attività come stendere, cucinare o dormire per adattarsi al cambiamento del tempo e delle stagioni o della posizione del sole. Non solo estensione della casa, i tetti sono anche passaggio per amici, vicini, amanti o il percorso quotidiano da casa a scuola.
Da sempre sono il luogo privilegiato delle donne, quindi privato, protetto, ma anche aperto, vitale. In alcuni casi la sola possibilità all'esterno per rilassarsi inosservate, per una temporanea fuga dalle incombenze domestiche dei piani di sotto. Qui le donne creano nuove relazioni, prestano e si scambiano cose, osservano le attività dei loro vicini, si invitano l'una con l'altra. Si crea così non solo uno spazio di libertà, ma anche una forte rete di condivisione tutta femminile. D'altronde sono pochi o inesistenti i luoghi in città dedicati esclusivamente alle donne, mentre gli uomini hanno numerose possibilità, formali o informali, fuori dalle mura domestiche.
Spazi di transizione tra dentro e fuori, paradigmatici, simbolici, così come i giardini, i tetti sono ambienti domestici che rappresentano nello stesso tempo lo spazio interiore ed esteriore. Mondi sospesi, sono descritti nei poemi o nelle poesie urdu e nella lunga tradizione della narrativa indiana: luoghi letterari, dove avventure, amori, tragedie, amicizie si consumano, si sviluppano e si sciolgono per raccontare, in realtà, le difficili condizioni di vita delle donne. Naturalmente il loro status non è uguale per tutte, dipende dalla posizione nella società, ma la discriminazione di genere è largamente diffusa, nonostante sia vietata per legge. Nella Costituzione le donne hanno diritti uguali agli uomini, nei testi religiosi sono rispettate e adorate, ma nella pratica spesso sono sfruttate, torturate e umiliate. La loro vita è un ciclo senza fine di doveri come madre, moglie, sorella, la loro identità e il loro ruolo nella società negate.
Nuove forme di partecipazione
Così diverse associazioni e organizzazioni hanno cominciato a promuovere e diffondere proprio sui tetti di Mumbai l'urban farming, affinché nuovi orti e frutteti possano diventare nuove forme di partecipazione per le donne e, nello stesso tempo, di attenzione all'ambiente e nuove risorse economiche e alimentari. Tra queste la ong Sneha, che realizza progetti contro la violenza alle donne e si occupa di salute materna e infantile, in collaborazione con l'organizzazione no profit Fresh&Local che si dedica alla parte progettuale.
Dalla terrazza del Mohamedi Manzil building, in una delle zone più convulse di Mumbai, la vista è quella di terrazzi anneriti, cavi attorcigliati, ammassi disordinati di antenne. Insomma il tipico aspetto spoglio e un po' squallido di tutte le megalopoli. Ed è qui che Adrienne Thadani di Fresh&Local prova a realizzare il suo obbiettivo: creare a model rooftop urban farm, cioè un grande orto urbano, un modello da esportare in quanti più tetti possibili. Ben cinquecento metri quadrati per piantare trenta varietà diverse di alberi da frutta, come mango e chikoo o arbusti di okra che crescono dentro grandi cesti, mentre in cassette di plastica blu disposte in file geometriche a formare delle grandi aiuole, spuntano ortaggi e erbacee tra aromatiche, spezie e medicinali, come aglio, menta, o come il tumeric (Curcuma longa) e la lemongrass (Cymbopogon citratus), entrambe molto utilizzate nella cucina indiana e con numerose proprietà curative. Adrienne ha calcolato che con il raccolto di solo 1,5 mq si riuscirebbe a dare un piatto di verdure e frutta al giorno a una persona per sei, otto mesi all'anno, tenendo anche conto dei quattro mesi di monsoni.
Per il momento la frutta e la verdura prodotta, rigorosamente bio, viene regalata agli stessi abitanti dell'edificio, ma il programma prevede successivamente di venderle a un prezzo equo per poter sostenere e ingrandire ancora orto e frutteto e così dare lavoro a una persona che si occupi della manutenzione. Dopo aver appurato la capacità del tetto a sostenere il peso della terra e delle piante e l'assenza di danni alla struttura e di infiltrazioni di acqua ai piani inferiori, anche il proprietario dell'edificio è diventato il loro maggiore sostenitore.
Dopo questo primo lavoro, Fresh&Local ha dato il via alla trasformazione radicale di altri tetti, terrazzi e davanzali mentre il tetto del Manzil Building continua a evolversi, diventando uno spazio di sperimentazione che quando sarà terminato conterrà anche un vivaio, un'area specifica per il compost e una per la vendita diretta, uno spazio per le lezioni di yoga e infine una zona all'ombra per laboratori e corsi, per incontri e cene della comunità. Così si ampliano anche gli obiettivi; non solo orto, ma un modo per stare insieme, condividere interessi e passioni, imparare cose nuove. Infine rigenerare i tetti come spazio vitale e vissuto.
Un'altra esperienza, guidata da una donna, riguarda i 300 mq di orto sospeso, il Central Kitchen Garden, nella zona del porto, parte del Mumbai Port Trust. Questo grande tetto terrazzo, adiacente alla mensa, oggi è un paradiso lussureggiante di alberi da frutto tra chikoo, guava, banani, cocco, limoni, con centocinquanta altre varietà tra alberi, arbusti ed erbacee, tra cui un settore specifico per le tisane. Insomma un'oasi di biodiversità, poiché la presenza di tante piante ha portato anche tanti uccelli, insetti tra api, libellule e farfalle nel mezzo della zona portuale della città, tra docks e containers.
Catering e compostaggio
L'idea di creare un orto nasce per risolvere un problema legato alla mensa e in particolare allo smaltimento di una gran quantità quotidiana di rifiuti, dato che ogni giorno la cucina produce cibo per duemila impiegati. Così nel 2002 Preeti Patil, direttrice del servizio di catering, organizza per tutto lo staff della cucina un breve corso sulle principali tecniche di compostaggio. Poco a poco comincia a crescere qualche albero e ortaggio fino ad arrivare alla vera giungla verde di oggi visitata non solo da famiglie e scuole, ma anche da organizzazioni e aziende che desiderano seguire un percorso sostenibile.
Così, poco a poco, mentre continua ad aumentare il prezzo di frutta e verdura e proprio quando è sempre più evidente e conosciuto l'effetto nocivo di fertilizzanti e pesticidi chimici di suolo, aria, acqua, animali, piante, alcune persone hanno trovato a Mumbai una soluzione radicale, olistica, che è anche economica, pulita e sostenibile. Invece di seguire i metodi proposti dall'industria, riscoprono il gusto di frutta e verdura biologiche, che non hanno viaggiato per tutto il paese e che non sono stati in celle frigorifere per conservarsi o per maturare.
Una delle prerogative più interessanti di questo movimento è l'adozione sui tetti di pratiche sostenibili e tecniche di coltivazioni naturali adottate nei campi, come la natueco farming (unione delle parole Nature ed Ecology) creata negli anni '60 e che sfrutta i processi naturali per creare terriccio fertile e ricchissimo di sostanze nutrienti grazie a un processo molto rapido. La ricetta si trova su internet ed è tipicamente indiana, poiché sfrutta la libera circolazione delle vacche sacre che permette di disporre facilmente di urina e sterco freschi. Oppure il sistema Prayog Pariwar (prayog significa esperimento e parivar rete familiare): dato che ogni orto è unico e differente dagli altri, poiché sono differenti le condizioni, le persone, le piante e le varietà coltivate, per ogni situazione e per ogni problema ci sono più soluzioni.
Quindi, senza adottare delle regole di coltivazione fisse, che non funzionerebbero in tanti casi, è importante che ognuno sperimenti da solo, tenendo anche conto delle altre esperienze e diffondendo i propri risultati. Ciò assicura un continuo, dinamico scambio di conoscenze legate a situazioni pratiche e concrete.
Questo metodo di condivisione dei saperi e la tecnica natueco sono stati entrambi adottati dall'organizzazione Urban Leaves, fondata nel 2009 a Mumbai da Preeti Patil dopo la sua esperienza al Mumbai Port Trust, per creare nuovi orti, e così offrire nuove opportunità e risorse, per favorire l'integrazione e il coinvolgimento di donne e uomini insieme, per stimolare una sorta di up-date della vita sui tetti e scoprirne tutte le potenzialità.
L'Istituto per la Protezione dell'Ambiente ha presentato oggi 11 ottobre a Roma il suo rapporto 2013, riportiamo per ora una breve presentazione proposta da la Repubblica online, e il documento integrale scaricabile
Cala lo smog ma cresce il cemento: meno 5 ettari al giorno, PM10 oltre soglia
Nona edizione del Rapporto sulla Qualità dell'Ambiente Urbano. Le 51 aree comunali monitorate hanno cementificato 220mila ettari di territorio, quasi 35mila solo a Roma. La lista delle città più inquinate comprende la Capitale, Taranto, Milano, Napoli e Torino e riflette quella della circolazione delle auto
Migliora l'aria nelle città italiane, molte delle quali però restano ad alto rischio di sforamento dei valori considerati sicuri per gli inquinanti, mentre non si arresta la cementificazione, che ogni giorno richiede il suo tributo al territorio urbano: ben 5 ettari. La fotografia viene dai dati della nona edizione del Rapporto sulla Qualità dell'Ambiente Urbano presentato a Roma dall'Ispra.
Tra il 2000 e il 2010, afferma il documento, a livello nazionale c'è stata una diminuzione delle polveri sottili del 37%, complici anche le minori attività industriali, e in quasi tutte le 60 città prese in esame il trend è in diminuzione. "In tutte le città considerate tranne Livorno - sottolinea però il rapporto - nel 2011 le concentrazioni medie di pm10 sono state superiori al valore soglia consigliato dall'Oms, e in 6 centri abitati del bacino padano i valori hanno superato la soglia annuale prevista dalla normativa".
La lista delle città più inquinate da questo punto di vista, che vede Roma, Taranto, Milano, Napoli e Torino ai primi posti, riflette quella della circolazione delle auto. Se nelle otto metropoli considerate, con l'eccezione di Roma, le immatricolazioni sono in calo, i valori assoluti restano alti.
"Quello che abbiamo notato - spiega Silvia Brini, curatrice del rapporto - è che nelle città grandi, ad eccezione di Roma, le auto circolanti tendono a diminuire, mentre in quelle più piccole avviene il contrario". Oltre che inquinate le città risultano dal rapporto anche sempre più 'grigie'. Napoli e Milano hanno ormai consumato oltre il 60% del territorio, e anche Torino e Pescara superano il 50%. Le 51 aree comunali monitorate hanno cementificato 220mila ettari di territorio, quasi 35mila solo a Roma, con 5 ettari di nuove aree 'catturati' ogni giorno. Trento mostra i valori più alti di verde pubblico, mentre Messina, Venezia e Cagliari sono le città con le quote più alte di territorio protetto. "In questi tre casi si parla di percentuali significative, ben oltre il 50% - sottolinea Brini - un dato che ci ha positivamente impressionato". Quasi una reazione al colore monotono dominante nelle città sono sempre di più gli uccelli alloctoni, introdotti cioè da fuori, a cominciare dai pappagalli. Le specie più avvistate sono i parrocchetti, ma ci sono anche l'anatra mandarina, il cigno nero e l'amazzone fronteblu.
Qui scaricabile il Rapporto ISPRA 2013
Grazie all’iniziativa di Indiana Jones e alla tenaciadella lotta della popolazione locale restituite al popolo le foreste commercializzate dallo stato e trasformate da foreste tropicali disetanee in fabbriche d'olio di palma, con pesanti ricadute sul clima globale. LaRepubblica, 30 settembre 2013
Quando la Gazzetta ufficiale della Repubblica indonesiana ha pubblicato la sentenza della Corte costituzionale sui diritti degli indigeni delle foreste, Harrison Ford ha letto il testo con la curiosità tipica del suo Indiana Jones.E ha scoperto che nel grande arcipelago islamico il governo di Giakarta aveva sfruttato illegalmente per 40 anni milioni di ettari di terre delle popolazioni autoctone che non gli appartenevano.
Durante l’intervista per un documentario della tv americana, il ministro delle Foreste indonesiano Zulkifli Hasan si è trovato così incalzato dalle domande dell’attore sugli abusi di cui Ford era stato testimone a Sumatra, e ha reagito con una tale stizza da farlo minacciare di deportazione immediata. Il risultato è che da quel giorno la sentenza, passata nel silenzio quasi generale, è oggi sulle labbra di tutti.
In pratica l’Alta Corte ha accolto gli esposti di diverse tribù raccolte dall’Associazione nazionale del Popolo indigeno, che rivendicavano per gli abitanti originari e le comunità tradizionalmente legate alla vita della foresta il dirittodel suo utilizzo e sfruttamento. Milioni di ettari di giungla, poco meno di un terzo del totale, hanno perso d’un colpo lo status di “foresta dello Stato” per diventare “giungla ancestrale”, quindi non più soggetta alle leggi demaniali e ai profitti delle vendite e delle concessioni da parte del governo centrale e di quelli regionali o provinciali, bensì a quelle di capi tribù e dei consigli di villaggio. È un affare colossale, considerando che le sole tasse per l’esportazione dell’olio delle palme — piantate al posto delle foreste pluviali — porta alle casse dello Stato oltre 6 miliardi di dollari l’anno, l’11 per cento dell’intero ricavo dell’export. Se troverà applicazione pratica, la sentenza può costituire un precedente storico anche per Paesi come l’India, la Malesia e molti altri, e assesta un colpo micidiale all’intero castello di interessi costruito in 40 anni dal governo di Giakarta che domina da Giava le risorse naturali di tutte le altre 18000 isole dell’arcipelago. In particolare diventa automaticamente incostituzionale la famigerata “Legge delle Foreste” implementata dieci anni fa dal governo e «usata come strumento — si legge negli esposti accolti dalla Corte — per espropriare i diritti delle genti indigene sulle loro terre», ovvero i luoghi “ereditari in natura” dove hanno vissuto gli antenati degli attuali residenti secondo i principi etici, culturali e religiosi della tribù.
Non a caso i giudici hanno sottolineato il fatto che «le popolazioni indigene esistevano ben prima della nascita della Repubblica indonesiana», come testimoniano antichi cimiteri, sorgenti dai nomi di antiche lingue, totem degli antenati e perfino templi induisti e buddhisti sopravvissuti all’islamizzazione.
Uno degli effetti più macroscopici dello sfruttamento statale su terre spesso considerate sacre e inviolabili, dove vivono specie animali rare come gli oranghi del Borneo e le tigri di Sumatra, sono stati i tagli sistematici degli alberi e l’incendio del sottobosco e delle torbiere. Ogni anno se ne vanno in fumo infatti giganteschi pezzi di polmone verde di questa delicata Amazzonia dell’Est. Al loro posto sono sorte distese a perdita d’occhio di palme da olio che portano una certa ricchezza ma provocano un aumento dei gas letali per l’effetto serra, a causa del mancato rilascio di ossigeno dovuto al taglio degli originari alberi della pioggia. Senza contare il surriscaldamento dovuto agli incendi per “ripulire” dalla giungla primordiale il terreno destinato alle nuove piantagioni, con dense colonne di fumo e spesse coltri di nubi miste a cenere che raggiungono in certe stagioni la Malesia, Singapore e il Sud della Thailandia. Secondo Greenpeace,tra il 2009 e il 2011 le palme da olio sono state la principale causa della deforestazione, piazzando l’Indonesia al primo posto nel mondo con metà della produzione globale.
Grazie, Svizzeri del Cantone dei Grigioni. «Democrazia dal basso: per 124 voti il gruppo Repower sarà costretto ad abbandonare il progetto. Anche se la società, a partecipazione pubblica, ha già dichiarato che non cambierà strategia». Il manifesto, 24 settembre 2013
Il destino dell'ambiente in quel lembo di terra che si affaccia sullo Stretto di Messina, nella punta estrema della Calabria, l'hanno deciso domenica scorsa i cittadini. Solo che a esprimersi tramite un referendum popolare e a decidere che no, la centrale a carbone progettata nel distretto industriale di Saline Joniche, frazione di Montebello, in provincia di Reggio Calabria, non s'ha da fare, sono stati i cittadini svizzeri. Grigionesi, per l'esattezza.
In quel cantone hanno discusso e si sono scontrati per anni anche aspramente e alla fine, domenica 22 settembre, in 50 mila hanno partecipato al voto, il 40,17% degli aventi diritto, e hanno scelto - con soli 124 voti di scarto - di rigettare il controprogetto del Gran Consiglio federale che tentava di salvare il piano del gruppo Repower (ex Rezia-energia), società a partecipazione cantonale leader nella produzione energetica, e di accettare invece l'iniziativa popolare cantonale «Sì all'energia pulita senza carbone» che non solo impedisce lo scempio di una megacentrale da 1320 Mw e da oltre un miliardo di euro di spesa su una delle preziose coste italiane ma impedisce anche da subito, con una riforma della Costituzione cantonale, ogni partecipazione dei Grigioni alla costruzione di centrali a carbone.
Nell'urna, i cittadini dei Grigioni hanno risposto a tre domande nelle quali si chiedeva di promuovere o bocciare le due proposte opposte, e nell'ultimo quesito, quello risolutivo, di scegliere tra le due. L'iniziativa del comitato ambientalista Pro Natura ha raccolto 700 voti in meno (28.878 sì) rispetto al progetto del governo federale (29.553 consensi) che intendeva salvare l'investimento della Repower (partecipata per il 58% dal cantone Grigioni) a Saline Joniche e in cambio affermava il divieto a investire in futuro «in centrali a carbone per le quali non vi è una riduzione sostanziale delle emissioni di CO2». Stranamente dunque è solo con l'ultima domanda referendaria che i grigionesi hanno scelto - con 24.650 voti contro 24.526 - di aderire all'iniziativa popolare e di bocciare il controprogetto del Gran Consiglio. Da noi un responso così avrebbe sollevato sicuramente una polemica infinita. E invece molto probabilmente la scelta del cantone influirà inesorabilmente anche sulle politiche ambientali future dell'intera confederazione elvetica. Anche se ieri sera la Repower ha fatto sapere che non intende «cambiare strategia» ma si appresta invece ad osservare «con attenzione il processo legislativo che seguirà» al voto. Perché, secondo la società grigionese, ai votanti è stata sottoposta una «proposta generica» che quindi non ha ripercussioni dirette nel «rispettivo articolo costituzionale».
A questo punto invece la società Repower, dopo aver abbandonato il progetto di una centrale a carbone a Brunsbüttel, in Germania, dovrebbe essere costretta a ritirarsi anche da Saline dove avrebbe investito il 58% dei costi (altri partecipanti sono le italiane Hera, per il 20%, e Aprisviluppo per il 7%, insieme alla statunitense Foster Wheeler che avrebbe finanziato il 15%). Al posto della società energetica svizzera però potrebbe subentrare anche l'Enel. D'altronde il progetto della centrale calabrese che dovrebbe sorgere nel sito dell'ex Liquichimica avrebbe ottenuto nel giugno 2012 dal governo Monti, secondo quanto riportato dal Consiglio federale elvetico, la compatibilità ambientale. Perché, come si legge nelle spiegazioni fornite a corredo della consultazione popolare di domenica scorsa, si tratterebbe secondo il loro punto di vista di un impianto «altamente moderno che soddisfa gli standard ambientali più elevati e riduce le emissioni di Co2 del 30% rispetto agli impianti tradizionali». Nelle intenzioni della Confederazione elvetica - dove la lobby ambientalista ha forte influenza - in ogni caso la società di gestione di Saline Joniche, nel rispetto delle norme europee, deve «acquisire corrispondenti certificati di emissione, finanziando così progetti per la riduzione del Co2 in misura equivalente», in modo da rendere la centrale calabrese «neutrale» dal punto di vista delle emissioni. Secondo il comitato di iniziativa popolare Pro Natura, invece, «una centrale a carbone come quella prevista in Calabria emette ogni anno sei volte più Co2 di tutte le economie domestiche nei Grigioni». Oltre al fatto che «il carbone per quella centrale va trasportato in Italia da oltremare»: «Un'assurdità economica ed ecologica», bollano il progetto i Verdi svizzeri. Tanto più perché, spiegano, «i pericolosi mutamenti climatici potrebbero essere evitati smantellando 550 centrali a carbone in tutto il mondo».
L'eco del referendum grigionese ha risuonato fino a 1.500 chilometri più a sud. Esultano anche gli ambientalisti italiani - Legambiente, Wwf e Greenpeace Italia - per il voto che «indica una scelta chiara e inequivocabile in direzione di una definitiva rinuncia a investimenti sulla fonte fossile più inquinante», e che «deve tradursi come primo atto nell'immediato ritiro del progetto di costruzione di una nuova centrale a carbone a Saline Ioniche, rifiutato nettamente da istituzioni e cittadini calabresi e, contrariamente a quanto affermato dai suoi sostenitori, ben lontano dall'essere autorizzato». Per Legambiente la presa di posizione della Repower rispetto al voto di domenica «è inaccettabile». Piuttosto la società «prenda atto della volontà popolare ritirando il progetto o riconvertendo l'investimento, puntando a Saline come in Svizzera sulle rinnovabili e sull'efficienza energetica».
Un bel caso esemplare di recupero di tecnica tradizionale di gestione del territorio per scopi modernissimi di recupero ambientale e valorizzazione del paesaggio. Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2013 (f.b.)
Una delle emergenze ambientali della penisola è il processo di desertificazione e salinizzazione dei suoli che, secondo gli studi più avanzati, vede nel Salento il primo avamposto. Per contrastare tale emergenza sette anni fa, in provincia di Lecce è nato un progetto pilota, che tenta di contrastare il deserto catturando l’acqua dal vento e consentendo così di irrigare un orto botanico senza apporto meccanico di acqua.
Si chiama Orto dei Tu’rat , esperienza sorta su un terreno di macchia arida situato nel comune di Ugento, dove sono state realizzate 12 mezze lune di pietra a secco, i Tu’rat, che consentono di catturare come in un retino il vento più umido prevalente, che in quella zona è il libeccio. L’obiettivo è che questo, insinuandosi tra i pertugi delle pietre, rilasci all’interno delle strutture acqua sotto forma di rugiada e che poi, per percolamento, scende al suolo consentendo di irrigare un orto botanico impiantato secondo i principi del massimo rispetto per il territorio.
Racconta Cosimo Specolizzi, fondatore del progetto: “La possibilità di irrigare a goccia in zone aride fu studiata per la prima volta nel 1959 da Simcha Blass e da suo figlio Yeshayahu che introdussero in Israele il primo metodo che all’epoca suscitò l’entusiasmo di un miracolo. Decine e decine di ettari desertificati ritornarono ad essere coltivati, a produrre frutta e verdura, a nutrire popolazioni che sopravvivevano a stento. La bellezza delle strutture, così come le abbiamo costruite ci è quasi sfuggita di mano tanto che le persone che vengono nell’Orto rimangono prima incantate dal fascino paesaggistico del posto, dall’effetto di straniamento che suscitano i tu’rat, per il loro essere disposti in modo tale da farli sembrare dune del deserto e al tempo stesso paesaggio lunare, fascinazione che poi, solo in seconda battuta, rivela la ricaduta ambientale di tale bellezza”.
Specolizzi, laureato Dams e artigiano a Bologna, ha deciso di avventurarsi in questa iniziativa, creando così la scenografia di un orto votato alla risoluzione delle emergenze ambientali. Intorno al suo sforzo iniziale, è poi nata l’associazione culturale omonima, che oltre a curare la messa a dimora e lo stato di salute delle piante, si occupa di organizzare eventi culturali.
Premio Legambiente nel 2012 come innovazione intelligente, L’orto, pur essendo riconosciuto come un progetto di valore dagli assessorati della Regione Puglia e dal Comune di Ugento, per ora non ha ancora ottenuto alcun contributo pubblico che gli consenta di essere portato a termine, tanto che gli associati stanno tentando attraverso piattaforme di crowd funding di attivare micro finanziamenti dal basso. Certo, i propositi della Regione sembrano buoni e l’associazione sta aspettando la firma di un protocollo di intesa con il comune di Ugento, che pare imminente.
Le speranze, però, sono passate in secondo piano quando il 15 giugno l’Orto dei Tu’Rat ha subito il terzo attacco incendiario, segno evidente della volontà di boicottarne l’esistenza.
Il rogo ha reso cenere le più importanti strutture in legno, un gazebo, un palcoscenico e undici ulivi pluricentenari. Un colpo durissimo a tutto ciò che l’associazione aveva fin qui realizzato.
Sulla piaga degli incendi che ogni anno danneggiano centinaia di ettari di macchia mediterranea, in quella zona del Salento, circolano tante voci. Ciascuno ha una ipotesi su chi abbia la consuetudine di dare fuoco agli uliveti e alle campagne. Ma in questo caso, dopo il terzo incendio subito, l’Associazione comincia a sospettare che l’evento non sia del tutto casuale e soprattutto comincia a temere che ci sia qualche volontà ostile al loro modello di dialogo con il territorio. “Insieme alle piante e alle strutture si è affumicata anche la nostra determinazione e l’illusione di essere accettati nel territorio” spiega Gianna Milo. Al momento del rogo l’associazione aveva appena messo a punto la stagione estiva, con il patrocinio della Regione e del Comune, con eventi di teatro, concerti, serate di poesia ed action painting dal 29 luglio al 7 agosto. Il rogo ha trasformato tutto in cenere. Le piante dell’orto botanico hanno sofferto molto, e la maggior parte sono seccate.
Così un progetto pilota, premiato e apprezzato a livello europeo, dovrà ripartire da capo, e potrà farlo solo con l’aiuto di tutti. “Non intendiamo arrenderci - assicura Laura Abatelillo - di fronte a questi gesti di spregio, reimpianteremo l’orto, pianta per pianta, il giuggiolo, il pero spinoso, il corbezzolo, e chiederemo alla Guardia Forestale di avere dei giovani ulivi da reimpiantare per dare una risposta di vita alla scempio che abbiamo subito”. Come scrive il poeta salentino Antonio Verri: “... quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi”.
ROMA— Sempre meno alberi nelle città italiane. Gli abbattimenti aumentano vertiginosamente, le ripiantumazioni sono invece insufficienti, complice anche il profondo rosso delle casse comunali. A Roma, negli ultimi due anni, sono stati sradicati 6.647 esemplari, appena 2.198 sono stati sostituiti. A Palermo, il punteruolo rosso ha decimato 10mila palme, sono solo duemila quelle piantate. Un parassita del legno ha aggredito betulle, aceri, platani e pruni a Milano: 133 gli abbattimenti, la promessa è di seminarne altri. Promesse, appunto. Ma intanto l’Italia butta via il patrimonio arboreo delle sue città.
La Capitale guida questa triste classifica. Nelle strade e nei parchi di Roma si registra un saldo negativo di oltre quattromila fusti. Il trend dei dati forniti dal Servizio Giardini dal 2010 al 2012 non si discosta molto da quello degli anni precedenti. Il rischio è che avremo una metropoli con sempre più cemento e meno verde poiché i numeri non lasciano spazio a dubbi: 1.900 alberi in meno ogni anno. «Il patrimonio arboreo pubblico di Roma è stimato in circa 300mila alberi, almeno secondo l’ultimo censimento del 2002 — sottolinea Nathalie Naim, consigliera dei Verdi del Municipio Centro storico di Roma — e se si mantiene questa media fra 150 anni non rimarrà un solo albero pubblico». La distruzione degli arbusti negli ultimi tempi ha colpito quasi tutti i quartieri. Il centro storico ha perso 476 esemplari, l’area dei Parioli e del Flaminio altri 428.
Il caso Roma fa scuola su come cambia il volto verde delle città. Iplatani e i pini che sono i simboli verdi della Città Eterna (basti ricordare quelli di piazza Venezia che sono stati rasi al suolo per la costruzione della nuova metropolitana), ora non vengono più piantati. Il Comune opta per il frassino che devasta meno l’asfalto, il pero e le robinie. A questi numeri si vanno asommare gli abbattimenti nei giardini privati che, con il pretesto della mancata approvazione di un regolamento del verde, sono stati liberalizzati con una circolare del 2011. E da allora sono aumentati in modo esponenziale. «Si tratta di diverse migliaia di alberi tagliati per lasciare spazio a un posto auto o aun pratino all’inglese», conclude Naim.
Se la Capitale batte ogni primato, i dati sono allarmati anche nelle altre città italiane. L’attacco del punteruolo rosso ha decimato la palme Canariensis di Palermo. Sono stati abbattuti 10mila esemplari nelle zone più prestigiose dellacittà dal lungomare Foro Italico a via dell’Olimpo, una delle strade che porta alla spiaggia di Mondello. Di queste, ne sono state sostituite solo il 20%. A Bologna, il caso di piazza Minghetti ha provocato una sommossa popolare. Il progetto di restyling, assai criticato, ha fatto sì che fossero rasi al suolo 12 alberi (sostituiti con sole due magnolie), sacrificati per rendere ben visibili i palazzi delle due banche. A Varese, le motoseghe hanno fatto capitolare 18 arbusti a Casbeno, di fronte al palazzo della Provincia, per la costruzione di un parcheggio. Critica la situazione a Milano dove 133 alberi sono stati tagliati perché contaminati dal tarlo asiatico. L’amministrazione ha ordinato «l’abbattimento di ulteriori piante non sintomatiche nel raggio di 20 metri da quelle infestate». Una morìa. Nella lista dei fusti sono finite le betulle e gli aceri in via Novara, i filari di platani in via Diotti al confine con Settimo Milanese, gli aceri e pruni in via Taggia vicino all’ospedale San Carlo. «Le alberature stradali rappresentano corridoi ecologici utili agli uccelli per la riproduzione — spiega Matilde Spadaro del comitato Verde urbano — Si tutelino queste vite e si mettano regole vincolanti nei comuni d’Italia».
Postilla
Spiace dirlo, e in questo caso specifico pare un po’ di sparare sulla Croce Rossa, ma tra le varie cause del degrado, certamente non unica ma importante, c’è quella dell’approccio estetizzante e di settore che da troppo tempo prevale nel verde urbano. Per fare un esempio complementare, pochi giorni fa nella già citata Milano è esplosa una polemica sulle enormi quantità di alberi magari regolarmente piantumati, ma che poi non reggono alla prova, e devono essere sostituiti con notevoli spese (in città la tendenza è di operare con esemplari adulti assai costosi), magari per fare poi la stessa fine. Perché c’entra l’approccio estetizzante, o al massimo di settore? Perché tende a burocratizzare i controlli, ad esempio sul sistema degli appalti, o della manutenzione, o dell’esecuzione o meno di lavori, ma non tocca la prova del nove, che da sola darebbe l’idea del patrimonio economico che si sta gettando al vento, ovvero il contributo delle alberature al metabolismo urbano. Se ne parla sempre, affrontando il tema, ma in modo settoriale ed episodico: mai, come accade in tante grandi metropoli del mondo, nel quadro di una verifica periodica regolare su indici trasversali, che darebbero oggettivamente il quadro di ciò che non funziona, stimolando automaticamente gli interventi necessari. I criteri sono quelli del tetto massimo di emissioni, del contrasto alle isole di calore urbano, al contenimento dei consumi energetici ecc., che quando vedono quantificato e integrato il ruolo delle alberature e altre infrastrutture verdi cittadine fanno sì che non debbano essere poi solo le denunce, ad attivare la pubblica amministrazione. In questo sito, sulla totale confusione delle politiche urbane di settore si veda perlomento l'intervento di Lodo Meneghetti "L'odiato albero milanese" (f.b.)
Siamo oramai alla vigilia di Rio+20, il grande summit dell’Onu sullo stato del pianeta, che si terrà in Brasile dal 20 al 22 giugno, e sulle pagine dei giornali di tutto il mondo è già apoteosi della green economy. Come lo fu vent’anni fa lo "sviluppo sostenibile". Cambiano gli slogan, la retorica rimane identica. Formule magiche per tentare di conciliare irriducibili contraddizioni: l’aumento delle rese economiche e la salvaguardia degli ecosistemi. Capitale e natura non vanno d’accordo. Il primo s’è mangiato la seconda. Vent’anni di fallimenti, di promesse mancate, di convenzioni e di protocolli disattesi non bastano a far ammettere ai capi di governo e al mondo della politica ciò che è sempre più evidente: la crescita delle attività economiche mirate ad aumentare i profitti, accumulare la ricchezza finanziaria, investire in sempre nuove attività imprenditoriali non può che far peggiorare gli impatti del sistema umano sui cicli bio-geochimici della Terra.
Il metabolismo di questo sistema economico ci dice che il consumo di natura – sia per quanto riguarda i prelievi, sia sul versante degli sversamenti, delle emissioni e dei rifiuti – procede a ritmi insostenibili, nonostante i benefici venuti dalla prolungata crisi. La green economy revolution è una chimera: sostiene che sarebbe possibile un disaccoppiamento (decoupling) tra crescita illimitata dei profitti, dei salari, dei consumi e del Pil da una parte, e diminuzione dei materiali primari impiegati nei processi produttivi e di consumo (throughput). Il miracolo sarebbe opera, per l’appunto, delle tecnologie verdi e blu, ad impatto zero, capaci di imitare i cicli naturali, che notoriamente funzionano a cascata e a riciclo continuo. La dematerializzazione delle produzioni e la decarbonizzazione dell’energia sarebbe a portata delle innovazioni tecnologiche in essere: nanotecnologie, miniaturizzazione degli strumenti, bioingegneria, energie rinnovabili, ecc. applicate intelligentemente (smart cities) grazie all’informatizzazione dei processi.
Bio+Web, qui starebbe la svolta salvifica, la via di uscita dalla crisi, i nuovi posti di lavoro, il ritorno ad un rapporto armonioso con la natura, insomma la grande riconversione ecologica dell’economia, il new deal verde. I nostri figli troveranno un lavoro soft, bello e buono, noi mangeremo più sano, le città saranno un fiorire di orti urbani. Grazie alla green economy anche Obama (forse) riuscirà ad essere rieletto e speriamo che anche Ermete Realacci (ultimo il suo: Green Italy, Chiarelettere, 2012) possa avere più successo nel suo partito. Cos’è che non va, allora? The end of growth è il titolo di un libro di Richard Heinberg. Ma ci sono anche altri pensatori che la vedono allo stesso modo. Per esempio, Chris Marthenson, un analista finanziario che ha venduto tutto e che sul suo sito consiglia di comprare terra e metalli preziosi. La loro analisi si basa sulla convinzione che il Pianeta, allo stato delle tecnologie disponibili oggi e nei prossimi vent’anni, non è in grado di fornire sufficienti materie prime per fronteggiare l’impatto dell’aumento demografico e della moltiplicazione dei consumi. «Il problema non è solo il picco del petrolio, ma il picco di tutto il resto» per usare un’espressione dell’analista finanziario Jeremy Grantham.
La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti sulle "terre rare", necessarie proprio per produrre energie alternative e le tecnologie necessarie alla green economy, sembra confermare queste diagnosi. Non basterà nemmeno aumentare di un fattore 10 l’efficienza nell’uso delle materie prime per far fonte ad una crisi da rarefazione delle risorse naturali in un pianeta che ha esaurito il 95% delle riserve conosciute dimercurio; l’80% del piombo, dell’argento, dell’oro; il 70% dell’arsenico, del cadmio, dello zinco; il 60% dello stagno, del selenio, del litio; il 50% del rame, del manganese del bellerio. L’aiuto che ci può venire dalla ricerca scientifica è certamente indispensabile per tentare di sopravvivere il più a lungo possibile con ciò che abbiamo a disposizione, ma ciò sarà possibile solo se scienza e tecnologia saranno liberate dai meccanismi e dalle logiche del mercato, cioè dai loro committenti. Nemmeno un guru della sostenibilità come Jeremy Rifkin sembra rendersi conto del paradosso cui è immersa la green economy. Egli ha infatti sostenuto la necessità di un forte investimento finanziario a favore di idrogeno, rinnovabili, case intelligenti, smart grid, auto elettriche, poiché «senza investimenti non ci può essere crescita» (la Repubblica del 1 giugno).
Ecco che torna il «dilemma» (come lo chiama Tim Jeckson) della green economy: strumento, occasione, opportunità … per rilanciare e allargare il mercato ingrassando di denaro chi detiene i brevetti (da far pagare ai paesi in via di sviluppo; versione aggiornata del colonialismo, questa volta, del sapere) ovvero via di uscita dell’umanità per liberarsi dalle logiche ossessive e suicide, accrescitive, lineari, esponenziali … quindi insostenibili del mercato? Per dirla altrimenti; non basta un’altra tecnologia, servono nuove forme di collaborazione internazionale, «un nuovo paradigma economico», come afferma il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, per consentire una vita dignitosa per sette (oggi) otto (nel 2030) o nove miliardi di esseri umani (nel 2050) e anche nuove politiche demografiche, che consentano alle donne il controllo della propria fertilità. Il nuovo rapporto del centro Nuovo modello di sviluppo di Pisa sulle Top 200 multinazionali ci dice che due terzi del commercio internazionale è controllato da loro. Non c’è nessuna tecnologia leggera che ci potrà liberare dal loro potere se non viene accompagnata da politiche forti.
Onestamente, la cosa che lascia più perplessi davanti a certi studi scientifici è la reazione della stampa cosiddetta di informazione. In questo caso, una analisi comparata su un periodico dalla serietà indiscutibile propone un confronto tra quanto producono le pratiche agricole correnti e quelle biologiche, e qualcuno come il Daily Emerald non trova di meglio che titolare su presunte “difficoltà dell’agricoltura urbana”. Mentre nella ricerca a cui ci si riferisce la parola “urbano” si può leggere solo nelle note finali, nel titolo di un saggio in bibliografia che evoca un generico “urban myth”, ovvero una leggenda metropolitana.
Piccola perplessità a parte, è invece gradevole scoprire certe belle notizie dentro a “Comparing the yields of organic and conventional agricolture” (Nature, aprile 2012) di Verena Seufert, Navin Ramankutty e Jonathan A. Foley. Ad esempio che la comunità scientifica dà per scontato come “le rese sono solo una parte di quanto produce complessivamente il sistema agricolo in termini ecologici, sociali, economici”, e soprattutto che, dati sperimentali e studi internazionali alla mano, la differenza di produttività tra le cosiddette tecniche tradizionali a base di petrolio (fertilizzanti, trasporti ecc.) e quelle biologiche più sostenibili sono tutto sommato contenute, oggi al massimo e solo per certi prodotti attorno al 20%.
Ovvero basterebbe davvero fare una ragionevole comparazione costi/benefici per porsi seriamente una domanda: col picco petrolifero incombente, col fenomeno ormai riconosciuto e devastante del land grabbing globale, con le possibilità universalmente riconosciute delle tecniche urbane e di prossimità, ha ancora senso sostenere le pratiche in gran voga fra multinazionali e grandi investitori? Anche l’Expo milanese del 2015 sarà auspicabilmente un nodo centrale di dibattito e sperimentazione pratica su questi temi. Per ora si può più modestamente leggere la confortante (per chi la legge senza le classicissime fette di salame) serie di osservazioni e grafici proposta dagli studiosi della McGill University/University of Minnesota, scaricabile qui di seguito.
Di particolare interesse il metodo cosiddetto della "meta-analisi" particolarmente diffuso quando come in questo caso si vuole formulare un giudizio che abbia valore globale, ovvero leggere sistematicamente la letteratura scientifica (e le verifiche sperimentali) che ha già esaminato la questione. Da un lato senza discutere necessariamente serietà e fondamento degli studi già disponibili, dall'altro per uniformarne indiscutibilmente i criteri al proprio obiettivo di analisi e giudizio. Che letto in senso letterale suona: l'agricoltura praticata coi sistemi attualmente più diffusi rende un po' di più per unità di superficie di quella biologica. Quanto, come, perché, si possono invece riassumere in quell'iniziale “le rese sono solo una parte di quanto produce complessivamente il sistema agricolo in termini ecologici, sociali, economici”. Ovvero, ci tocca scegliere un equilibrio fra le varie componenti.
Rischia di passare alla storia come il referendum tradito due volte. Tradito nei fatti, visto che niente si è mosso dopo che 27 milioni di italiani hanno votato "sì" il 12 e 13 giugno scorso alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato. Unica eccezione, la città di Napoli. Mortificato, poi, dalla bozza del decreto sulle liberalizzazioni del governo Monti, che al momento, negando agli enti di diritto pubblico (le aziende speciali) di gestire acquedotti e rete, apre di nuovo ai privati il grande affare dell´acqua italiana. A sette mesi dal voto, le tariffe sono in aumento costante: +12,5% in media dal 2009. Gli ultimi ritocchi per la stagione in corso sono segnalati tra Vicenza e Padova (4%), a Modena (6%), nel Chietino (30 euro). I gestori sono sempre gli stessi. Gli investimenti sulla rete un terzo di quelli promessi: 600 milioni contro i due miliardi necessari per aggiustare reti colabrodo.
Ieri sera davanti a Montecitorio i comitati dell´acqua pubblica hanno organizzato un rumoroso sit-in per rispondere al sottosegretario all´Economia, Gianfranco Polillo, che aveva definito il referendum sull´acqua «un mezzo imbroglio». Ricevuti dal sottosegretario allo Sviluppo, Claudio De Vincenti, professore vicino al Pd che a giugno aiutò il comitato del "no", ne hanno ricavato indicazioni incoraggianti. «Il sottosegretario ci ha fatto sapere che Monti non vuole passare come quello che ha affossato un referendum così popolare», urla al megafono Marco Bersani, leader del comitato per il "sì". Le poche righe sul divieto alle "aziende speciali" potrebbero scivolare via domani in Consiglio dei ministri. Ci sono 24 ore di tempo per capire come fare senza tradire il grande impianto liberalizzatore del decreto.
Sulla carta il referendum era stato uno scacco matto alle spa in due mosse. Il primo quesito bloccava la corsa dei privati, lanciata dal governo Berlusconi. Il secondo toglieva la possibilità ai gestori di fare soldi con l´acqua, abrogando la norma che consentiva di ottenere profitti garantiti sulla tariffa caricando sulla bolletta un minimo del 7% (remunerazione del capitale investito). Questa quota di guadagno oggi si è attestata attorno al 20%, con picchi al Nord del 25%. «È partita la nostra campagna di obbedienza civile al referendum», dice Giuseppe De Marzo, portavoce di "A Sud", «invitiamo gli utenti ad autoridursi la bolletta del 7 per cento».
Senza profitto, il privato esce. Ma non è andata così. Solo nell´Ato (Ambito territoriale ottimale) di Napoli si è passati da una spa pubblica (Arin spa) a un ente di diritto pubblico (Abc Napoli), quindi senza l´obbligo di fare profitti. Nel resto d´Italia, negli Ato dove il servizio idrico è gestito da spa miste (12), da privati (6), dai tre multicolossi Acea, Iren e A2A (13), non è cambiato niente. Non solo. I sindaci non hanno avuto la forza né i fondi per eliminare dalle bollette la remunerazione del capitale investito. Nichi Vendola, governatore della Puglia, tra i primi sostenitori dell´acqua pubblica, ha provato a spiegarlo ai lettori del Manifesto: «I sindaci non possono autorizzare una riduzione, a questo corrisponderebbe la diminuzione degli investimenti su acqua, fogne, salute».
Federutility raggruppa le imprese idriche ed energetiche e spiega: «L´Italia ha le bollette dell´acqua più basse al mondo e questo produce un elevato consumo, ma non ci sono soldi per i depuratori». L´abrogazione del 7%, dicono, non si applica ai piani d´ambito in corso: se ne riparlerà tra quindici anni. Sostiene Alberto Lucarelli, giurista e assessore ai Beni comuni di Napoli: «Non sono validi atti amministrativi e contratti basati su una legge che è stata abrogata». Abrogata dal referendum da 27 milioni.
Democrazia annacquata
di Guglielmo Ragozzino
Ieri, a metà giornata, la Camera dei deputati ha votato in segreto contro l'arresto, giusto o sbagliato che fosse, di Nicola Cosentino, un suo membro. Sei mesi orsono, 26 milioni di voti nel referendum sul «legittimo impedimento», avevano stabilito che tutte le persone sono uguali davanti alla legge. Per il Parlamento, Cosentino è dunque più uguale degli altri. Poche ore prima la Corte Costituzionale aveva reso noto la bocciatura della richiesta di referendum abrogativo sulla attuale legge elettorale, quella nota come «porcellum», sostenuta da 1,2 milioni di cittadini. Il giorno prima il governo autorevolmente rappresentato da Mario Monti aveva esposto «le norme generali sulle liberalizzazioni e tutela dei consumatori», a supporto della precedente manovra del 6 dicembre «Salva Italia». Lo aveva fatto a Berlino, ottenendo l'invocato plauso di Angela Merkel, la Cancelliera. Non una parola sui referendum sull'acqua.
Il senso di fastidio dei poteri sui referendum idrici si esprime in una frasetta: «Il presente articolo 18 non si applica al servizio idrico per il quale rimangono ferme le competenze dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas...» Ecco chiamata in causa una quarta Autorità centrale.
Camera, Corte, governo mostrano di non tenere in considerazione la volontà popolare, giusta o sbagliata che sia. Il referendum sull'acqua, preparato su migliaia di tavoli, in una discussione pubblica diffusa è malvisto da chi è convinto che l'acqua sia buona solo da vendere e che venderla sia un grande affare, il più grande del secolo, purché ritorni nella disponibilità dei gruppi multinazionali. I soliti 26 milioni - noi - sono folclore italico, non certo un modello per i popoli della Terra.
Nei decreti, quello di dicembre e quello di gennaio, sono esposti molti provvedimenti che, presi tutti insieme, trasformano il nostro paese in un modello diverso, nel quale la maggioranza dei cittadini, ancor di più gli stranieri che si sono uniti a noi, vivrà una vita più grama. Il motivo è la crisi, ora declinata nell'astrazione dello «spread», una spirale che potrebbe inghiottire tutto quello che abbiamo. Difendere il «porcellum» e Cosentino; disprezzare o deridere, a Berlino, la volontà popolare: in che paese siamo finiti?
Il governo ci vuol convincere a cedere pezzi di salario, di pensioni, di democrazia, di libertà: il Parlamento vota tutto. È una stretta implacabile, conseguenza della crisi; oppure è un veritiero caso di «Shock Economy». Naomi Klein potrebbe prendere in considerazione l'Italia se mai scrivesse una nuova edizione del suo libro. Travolti dalla crisi, terrorizzati dal gorgo spaventoso detto «spread», dovremmo accettare una democrazia a scartamento ridotto e soprattutto consentire che le libertà sindacali e sociali che l'articolo 18 della legge 300 del 1970 rappresenta per tutta la popolazione, vadano in fumo.
Da quarant'anni infatti, nel bene e nel male, la popolazione vi riconosce un principio generale di eguaglianza e giustizia. Per questo è affezionata a quel che è stato e significa ancora; sarà arduo scippare l'art 18.
Una barbarie giuridica incostituzionale
di Alberto Lucarelli
Nel testo della bozza di decreto legge sulle liberalizzazioni circolato in queste ore suscita particolare sconcerto la disposizione di cui all'art. 20. Tale disposizione, marginalizzando l'ambito di applicazione dell'azienda speciale ex art. 114 del testo unico sugli enti locali, rischia di vanificare di fatto il vittorioso esito dei referendum dello scorso giugno contro la privatizzazione dell'acqua, in attuazione del quale il Comune di Napoli ha (primo in Italia) provveduto a trasformare la natura giuridica del soggetto incaricato di erogare il servizio idrico integrato.
In primo luogo, nella fattispecie, si segnala un abuso dello strumento giuridico del decreto legge, con il quale si procede ad un riforma ex abrupto di interi settori dell'economia nazionale (servizi pubblici locali, commercio, trasporti, professioni), in assenza di adeguata meditazione, nonché dei requisiti previsti dall'articolo 77 Cost. Si realizza, in tal modo, per il tramite di un illegittimo ricorso alla decretazione d'urgenza, un tradimento della volontà popolare espressa a seguito dei referendum.
Il decreto in oggetto, così come già l'art. 4 del decreto di Ferragosto, ripropone la medesima disciplina contenuta nell'art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e successivamente abrogato tramite lo strumento offerto dall'art. 75 della Cost. La giurisprudenza costituzionale ha avuto più volte modo di affermare l'illegittimità della riproposizione sostanziale di normative abrogate con referendum. Lo stesso art. 18 della bozza di decreto ("Promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali"), riaffermando di fatto una disciplina abrogata (e limitandosi semplicemente ad eliminare i riferimenti al servizio idrico), comporta un'indebita restrizione dell'ambito di applicazione del referendum (che ha avuto ad oggetto l'intero art. 23-bis e non certo il solo servizio idrico). Anche volendo ammettere la legittimità delle parti del decreto richiamate, la disciplina dei servizi pubblici locali che ne deriva appare decisamente sbilanciata in favore di modi di gestione privatistici, in assoluta violazione del diritto comunitario.
Infine, del tutto ambigua è la riconducibilità del servizio idrico integrato al novero dei servizi di interesse economico generale, attesa la peculiare natura del bene acqua, strettamente collegato a diritti fondamentali (si pensi al diritto alla salute). È evidente che ci troviamo di fronte ad un subdolo disegno eversivo di disarmo del diritto pubblico e delle garanzie ad esso collegate, concepito ad arte per neutralizzare l'imponente movimento politico e culturale sorto in questi mesi a tutela dei beni comuni.
Le grandi manovre dei privatizzatori
di Andrea Palladino
Obiettivo del decreto è quello di svuotare il referendum che, nel primo quesito, riguardava tutti i servizi pubblici locali Gli ecodem: «Non voteremo questo imbroglio. Serve una grande mobilitazione»
Sette mesi è durata la manovra che metterà la mani nella vita quotidiana degli italiani. Un tempo in definitiva breve per cambiare nel profondo il paese, con la più grande privatizzazione mai concepita in Europa dopo l'era Thatcher. Sette mesi, due governi, tre provvedimenti ed un certosino lavoro della più potente lobby economica, quella espressa dai giganti dei servizi pubblici. Sono loro, alla fine, i principali beneficiari del corposo decreto che il governo di Mario Monti sta preparando.
Speravano nel silenzio, cercavano di bloccare le prime indiscrezioni, inviando giovedì sera alle agenzie uno stringato comunicato che cercava di smentire quel testo arrivato nelle redazioni. Un tentativo goffo, che ieri non ha avuto replica, dopo la pubblicazione di ampi stralci del provvedimento..
Le grandi manovre dei privatizzatori hanno una data d'inizio chiara, il 14 giugno scorso. Ovvero il giorno del conteggio dei 27.637.943 voti espressi dagli italiani per abrogare due norme centrali sull'acqua e sulla gestione dei servizi pubblici locali. Un evento storico, ma in fondo facilmente spiegabile: in ballo c'era quello che le multinazionali chiamano «l'essenziale per la vita». Oltre ai servizi idrici quelle norme abrogate riguardavano la gestione dei rifiuti, il trasporto pubblico, gli asili nido, le farmacie comunali. Per questo il successo dei referendum è stato travolgente. Quasi ventotto milioni di persone hanno capito che in ballo c'era molto di più di un acquedotto o di una fontanella pubblica, si trattava in fondo della qualità della vita.
La prima mossa la compie il parlamento, approvando il 21 giugno l'istituzione dell'Agenzia regolatrice dei servizi idrici. Un'autority, ovvero lo strumento principe dei mercati liberalizzati. Già allora spunta la parola chiave, liberalizzazione: «Potete scegliere il servizio migliore», si poteva leggere tra le righe dei commenti usciti dalle bocche e dalle penne dei pasdaran della privatizzazione. «Diminuiranno i prezzi», «Eliminiamo la gestione politica e le poltrone nei Cda» e, immancabile, «Il mercato è in grado di regolare i servizi essenziali».
Dopo il primo passo del parlamento si è aperto un fronte ampio quanto silenzioso, con l'obiettivo dichiarato di svuotare i referendum. Il primo luglio è intervenuta la lobby dei gestori dell'acqua, l'Ania (Associazione nazionale autorità e enti di ambito territoriale). Durante l'assemblea annuale si discute degli «effetti dei referendum». E spiegano: c'è «incertezza sulla normativa applicabile agli affidamenti dei servizi pubblici locali»; e ancora: «ridotta finanziabilità degli investimenti». Una richiesta chiara di interventi per bloccare il cambiamento voluto dagli elettori.
Pochi giorni prima, il 24 giugno, era intervenuto il docente di diritto pubblico Giulio Napolitano - figlio del presidente della Repubblica - che in un documento richiesto dalla romana Acea spiegava come difendere lo status quo: «Il referendum non ha nessun effetto sui rapporti in corso». Acea poteva stare tranquilla, quel voto non avrebbe messo in discussione la grande privatizzazione alla romana, avviata nel 1998 da Francesco Rutelli. E il futuro? Qui entra un punto chiave, che verrà ripreso dall'intervento del governo Monti. Scrive Giulio Napolitano: «L'intera materia dei servizi pubblici (...) rimane disciplinata dal testo unico sugli enti locali». Segnamoci questo passaggio.
Il 3 luglio inizia il ballo dello spread. Sono i conti pubblici il tema quotidiano dei giornali e, rapidamente, il referendum viene archiviato. In un mese e mezzo il governo Berlusconi-Tremonti prepara l'intervento della vigilia di ferragosto, dove appare, all'articolo quattro, la norma Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'unione europea. In sostanza il ministero dell'Economia riprende l'abrogato 23 bis della legge Ronchi e lo riporta - con un vero copia e incolla - nel pacchetto, escludendo il solo servizio idrico. È un imbroglio, in realtà, perché il primo quesito referendario riguardava tutti i servizi pubblici locali. Si avvia così la privatizzazione forzata dei rifiuti, del trasporto pubblico locale e di altri pezzi di vita quotidiana. Un pacchetto confermato - e rafforzato - dal decreto sviluppo, ultimo atto del governo di Silvio Berlusconi. I professori stavano già scaldando i muscoli.
A fine novembre arriva Mario Monti, curriculum da economista ed esperto di quella parola che da mesi girava attorno ai referendum e ai servizi pubblici locali: la liberalizzazione. Il paese è ingessato, bloccato dalle corporazioni, serve aria nuova, è il leit-motiv che intasa le cronache politiche. Si prepara l'atto finale.
La bozza del decreto Monti uscita giovedì ha tre articoli micidiali sui servizi pubblici: il 18, il 19 e il 20. I primi due rafforzano - e nessuno ne sentiva il bisogno - il ripescaggio del 23 bis della legge Ronchi preparato dal governo Berlusconi. L'articolo 20 va più in profondità, riallacciandosi alla sottile analisi di Giulio Napolitano, che tanto aveva tranquillizzato Acea. Intacca un articolo cardine del testo unico degli enti locali, escludendo dalla gestione pubblica - ovvero dagli enti non economici, come le aziende speciali e i consorzi - i servizi locali, acqua inclusa. Tutte le gestioni, in questa maniera, dovranno essere affidate solo alle società per azioni, possibilmente sorrette dal capitale privato. Non solo. I comuni in difficoltà finanziaria dovranno cedere quote prima di bussar cassa allo stato centrale.
Il cerchio ora è dunque chiuso. Manca il passaggio finale, il voto in parlamento, dove essenziale sarà il partito democratico. Gli ecodem spiegano che questo imbroglio loro non lo voteranno, e lo stesso Roberto Della Seta chiede aiuto anche ai movimenti: «Serve una grande mobilitazione dei comitati referendari», spiega al manifesto.
Oggi il quadro è ormai chiaro. La lunga marcia in stile Thatcher sta per arrivare all'ultima tappa.
norma «tecnica» che azzera la ripubblicizzazione di Napoli
di Corrado Oddi
Il governo ha ignorato tutti gli appelli dei movimenti. Ora fa il colpo di mano per esautorare i comuni
In molti si sono cimentati nella discussione sulla discontinuità o meno del governo Monti rispetto al precedente governo Berlusconi. Molto ci sarebbe da dire in proposito, ma certamente non si sbaglia ad evidenziare come non sia cambiato il metodo di accreditare ipotesi e regolarsi sulla base delle reazioni che esse suscitano. Non si può pensarla diversamente rispetto al fatto che nella giornata di ieri sono girati varie versioni sul presunto testo del decreto legge sulle liberalizzazioni che il governo dovrebbe varare il prossimo 20 gennaio.
Non è certamente un bel modo di fare la discussione, ma si rischia di non potersi sottrarre a quest'esercizio poco edificante se il governo sceglie di non confrontarsi con i soggetti che sono portatori delle varie istanze e rappresentanze sociali. Questo vale anche sul tema dei referendum del giugno scorso sull'acqua pubblica: subito all'indomani dell'insediamento del governo Monti il Forum dei movimenti per l'acqua ha chiesto un incontro con il Presidente del Consiglio per poter discutere sull'applicazione e il rispetto dei due referendum che hanno sancito che la gestione del servizio idrico deve essere pubblica e che su di esso non si possono fare profitti.
Questa nostra richiesta è stata del tutto ignorata; in compenso, ieri ci è toccato leggere un testo del presunto prossimo decreto del governo che all'art. 20 contiene una dizione molto tecnica, ma che assesta un colpo molto pesante alla volontà referendaria espressa dalla maggioranza assoluta dei cittadini italiani. Lì si dice che le Aziende speciali, soggetti di diritto pubblico e non società per azioni che operano allo scopo di produrre utili, sono abilitate a gestire solo servizi pubblici «diversi dai servizi di interesse economico generale». Uscendo dal tecnicismo, il governo vuol dire che il servizio idrico, considerato servizio di interesse economico generale - anche se ci sarebbe molto da dire su ciò - potrebbe essere gestito solo tramite gara o da società per azioni, eliminando il punto più importante dell'esito del primo referendum sull'acqua, quello che ha nuovamente reso possibile una gestione realmente pubblica del servizio idrico stesso. Per dirla in un altro modo, si vuole cancellare l'esperienza che ha iniziato il Comune di Napoli, trasformando la società per azioni a totale capitale pubblico che gestisce il servizio idrico in Azienda speciale, e che potrebbe interessare in tempi brevi la gran parte del nostro Paese. In più, il presunto testo del decreto rafforza la volontà privatizzatrice in materia di trasporto pubblico locale e ciclo dei rifiuti che era già stata messa in opera con la manovra dell'estate scorsa del governo Berlusconi, che contravveniva platealmente con il risultato referendario. Infine, si continua a non dare applicazione al fatto di togliere la remunerazione del capitale investito dalle tariffe del servizio idrico, non rispettando così quanto dettato dalla stessa Corte Costituzionale sul secondo quesito referendario.
È bene che il governo cambi completamente rotta: cancelli i provvedimenti ipotizzati sulle Aziende speciali, consideri il ruolo fondamentale svolto dai servizi pubblici locali anziché lavorare per la loro privatizzazione, dia applicazione all'eliminazione del profitto sulle tariffe, si confronti con chi rappresenta la volontà di 26 milioni di cittadini. Come è necessario che le forze politiche e sociali si pronuncino in modo chiaro per evitare che sia inferto un grave colpo alla democrazia nel nostro Paese. Si sappia che, comunque, la mobilitazione del popolo dell'acqua è già in corso e si intensificherà nei prossimi giorni, con iniziative in tutto il Paese, con la campagna di obbedienza civile per il ricalcolo delle bollette, con l'azione perché si affermi una gestione realmente pubblica del servizio idrico.
UN ACCORDO TIEPIDO PER UN PIANETA
CHE HA LA FEBBRE ALTA
di Pietro Greco
I diplomatici parlano di una «svolta storica», arrivata dopo una estenuante maratona notturna. Ma quanto vincolante potrà essere la «piattaforma di Durban» se Usa, Canada, Giappone e Russia continuano a sfilarsi?
Con una sfibrante maratona, che si è conclusa ieri mattina alle ore 4.44, il ministro degli esteri del Sud Africa, signora Maite Nkoana-Mashabane, si è scrollata di dosso le ingiuste accuse di inefficienza avanzate dalle delegazioni di Francia e Germania, ha ottenuto il voto unanime dell’assemblea e ha evitato il fallimento diplomatico di Cop17, la diciassettesima Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione Onu sui Cambiamenti del Clima. Era visibilmente soddisfatta, addirittura entusiasta e fresca come una rosa Maite Nkoana-Mashabane, ieri mattina all’alba. E dal suo punto di vista di ministro degli esteri del paese ospitante Cop17 ne aveva ben donde. Nessuno, sabato sera, avrebbe scommesso un soldo bucato su questo accordo finale. Onore al merito di Maite e dei diplomatici del Sud Africa, dunque.
Quanto alla sostanza dell’accordo, il giudizio va quanto meno articolato.
Tenendo conto che erano almeno tre le questioni importanti in discussione: Cop17 e l’accordo globale per mettere su politiche comuni di contrasto ai cambiamenti climatici; il rinnovo del Protocollo di Kyoto, che riguarda i soli Paesi di antica industrializzazione e che scade nel 2012; il Green Climate Fund, che a regime (nel 2020) dovrebbe mettere a disposizione dei paesi in via di sviluppo 100 miliardi di dollari l’anno per cooptarli nella lotta ai cambiamenti climatici. Ebbene Cmp7, la Conferenza delle parti che hanno ratificato il Protocollo di Kyoto è fallita. Almeno parzialmente. Perché non solo gli Stati Uniti, ancora una volta, non lo hanno ratificato, ma Canada, Giappone e Russia si sono sfilati. Non lo rinnoveranno alla sua scadenza. Solo l’Unione Europea e una manciata di piccoli paesi (Norvegia, Svizzera, Australia) hanno concordato di rinnovarlo fino al 2018. Quanto al Green Climate Fund si è deciso sì di implementarlo. Ma senza un’immediata dotazione di fondi. Si è creato il contenitore: e c’è chi lo considera un successo. Ma il contenitore è clamorosamente vuoto: e questo è un dato di fatto.
Eccoci, dunque, al piatto forte (si fa per dire). Quello che ha fatto gridare all’inatteso successo Maite Nkoana-Mashabane, i rappresentanti dell’Europa e molti altri. I quasi duecento Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione sul Clima riconoscono non solo che il cambiamento è reale e indesiderabile, ma anche che occorre uno sforzo congiunto, da parte di tutti, per contrastarlo. Questo sforzo deve consistere in un accordo, che dovrà avere «forza legale», che dovrà essere concluso entro il 2015 per diventare operativo a partire dal 2020. È un accordo con un’architettura barocca. E si espone a una duplice e divergente valutazione. Da un lato c’è chi saluta la novità politica: è la prima volta che c’è un accordo globale sulla necessità di un’azione congiunta nel quadro di impegno che abbia «forza legale». E, dunque, Durban ha realizzato quello che nessun’altra conferenza aveva mai ottenuto.
QUEI MALEDETTI 2 GRADI IN PIÙ
Dall’altro c’è chi guarda all’accordo con occhi tecnici: questo accordo non garantisce affatto che l’umanità riuscirà a contenere entro i 2 ̊C l’aumento della temperatura rispetto ai livelli dell’era pre-industriale. Entrambe sono delle verità. E tocca a ciascuno di noi valutare quale sia quella preminente. Intanto a Durban si contano, come sempre succede in queste occasioni, vincitori e vinti. Vincitore politico è certo il Sud Africa. Nonostante i sopracciò franco-tedeschi ha dimostrato di saper condurre in porto una barca oltremodo sgangherata. Vincitore è l’Unione Europea che si è ripreso lo scettro (effimero?) della leadership nella lotta ai cambiamenti climatici che Obama le aveva sottratto solo due anni fa a Copenaghen. Sconfitta – ma non troppo – è l’amministrazione Obama. È vero che non guida la carovana mondiale, ma è anche vero che potrà affrontare la prossima campagna elettorale per le presidenziali senza vincoli che la possano compromettere.
Restano invece nel limbo le grandi economie emergenti, la Cina, l’India, il Brasile. È vero che sono riuscite a non farsi lasciare il cerino in mano. Ma è anche vero che non sono riuscite ad assumere una posizione di leadership con la quale consolidare la loro scommessa sulla «green economy». Per loro, come per il clima, il passaggio a Durban è stato interlocutorio.
Corsivo
L’ULTIMA SUPERPOTENZA
di Pi.Gre.
L’accordo c’è e, infatti, i diplomatici parlano di successo. Ma è un accordo ancora privo di contenuti sostanziali. E, infatti, gli ambientalisti e molti scienziati parlano di grosso insuccesso. La domanda, allora, è: a che servono queste grandi assise del circo ecodiplomatico tipo Durban? La domanda è decisamente pertinente, se a vent’anni da Rio e dalla stesura della Convenzione sul Clima siamo ancora a un abbozzo di contenitore senza contenuti. E se l’unica piccola anforetta con un minuscolo contenuto – il Protocollo di Kyoto – torna a pezzi dal Sud Africa. Eppure, dopo averne riconosciuto tutti i limiti e le insopportabili lungaggini, la risposta è: le conferenze delle Nazioni Unite sul clima e sull’ambiente servono. Non fosse altro perché non hanno alcuna alternativa. Né efficiente, né democratica. L’Onu è barocca e inefficiente. Non è certo il governo ideale per affrontare i grandi problemi globali. Ma nessuno ha trovato finora di meglio. Nulla da fare, allora? Niente affatto. Occorre che scenda in campo, finalmente, l’unica, vera superpotenza residua: l’opinione pubblica mondiale. I governi, come i mercati, sono miopi. Non riescono ad alzare lo sguardo nel lungo periodo. Solo l’opinione pubblica mondiale ha la vista adatta. Purché sia sveglia e apra gli occhi.
L’UE: «UNA SVOLTA STORICA»
MA GLI AMBIENTALISTI:
«NON SONO PREVISTE SANZIONI»
di Emidio Russo
Entusiasmo a Bruxelles, che vede premiata la sua strategia. Anche il segretario generale Ban Ki-moon plaude. Ma il Wwf e il mondo ambientalista non è d’accordo: «Non è un accordo reale, mancano i vincoli».
L'accordo raggiunto a Durban nella notte tra sabato e domenica che stabilisce una nuova «road map» per il clima rappresenta «una svolta storica nella lotta contro i cambiamenti climatici»: lo afferma in un comunicato la Commissione europea. La soddisfazione, dopo un rush finale che aveva fatto temere i più che il vertice si sarebbe concluso con un clamoroso fallimento, è palpabile. «La strategia dell’Unione europea ha funzionato», afferma Bruxelles. «Quando numerose parti in causa hanno detto che Durban avrebbe dovuto soltanto applicare le decisioni prese a Copenaghen e Cancun, l’Ue aveva espresso il desiderio di una maggiore ambizione. Ed è quello che ha ottenuto», ha spiegato il Commissario europeo Connie Hedegaard, citato nel comunicato. «Kyoto divideva il mondo in due categorie, ora avremo un sistema che riflette la realtà di un mondo interdipendente», ha aggiunto il commissario europeo, che ha svolto un ruolo importante nelle trattative arrivate all’accordo dell’altra notte. «Con l'accordo sulla road map verso un nuovo quadro legale nel 2015 che includerà tutti i Paesi nella lotta contro i cambiamenti climatici, l'Ue ha raggiunto i suoi obiettivi chiave per la conferenza di Durban», ha concluso Hedegaard.
Anche il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, ha accolto con soddisfazione «la significativa intesa» raggiunta. La «piattaforma di Durban definisce il modo in cui la comunità internazionale si occuperà dei cambiamenti climatici nei prossimi anni», ha dichiarato Ban, poche ore dopo la fine delle trattative a oltranza che hanno impedito il fallimento della Conferenza.
AMBIENTALISTI CRITICI
Buona parte del mondo ambientalista tuttavia non è d’accordo. «Non hanno raggiunto un accordo reale, ma hanno attenuato i toni in modo che tutti saltassero a bordo», commenta Samantha Smith di Wwf International, notando che nel documento approvato non viene menzionato alcun tipo di sanzione. In base al protocollo di Kyoto del 1997 solo i Paesi industrializzati sono legalmente vincolati a ridurre le emissioni di carbonio, mentre quelli in via di sviluppo adottano misure su base volontaria. Con l’intesa raggiunta ieri, India e Cina si sono impegnate ad accettare invece in futuro target di emissioni legalmente vincolanti.
Critiche anche da Pechino: «Noi stiamo facendo quello che dovremmo e anche quello che voi non state facendo», ha detto durante i colloqui il negoziatore cinese Xie Zhenhua. Il riferimento era agli Stati Uniti, che nel 1997 non hanno ratificato Kyoto dicendo di non voler concedere alcun vantaggio competitivo alla Repubblica popolare. Il mondo, intanto, aspetta.
Esattamente sei mesi fa la vittoria referendaria contro la privatizzazione dell'acqua ha chiuso, nel senso comune e nell'opinione pubblica, un'intera epoca. Un’epoca che le oligarchie economiche e le loro schiere di cavalier serventi, più o meno “tecnici”, sono assai restie ad abbandonare, dichiarando invece guerra al 96% di "sì" referendari in Italia e al 99% dell'umanità in genere. A giugno il popolo italiano attraverso il voto democratico - termine che suona preoccupantemente démodé - tracciava di nuovo quel confine, ormai scoloratosi, fra merci e beni comuni, fra terreno dei diritti e terreno dei profitti, fra impresa di mercato e servizio pubblico d'interesse generale. Ciò accadeva dopo troppi anni d'indottrinamento neoliberista, in cui anche a sinistra ci si era convinti che il fine d'un servizio pubblico vitale fosse generare dividendi per gli azionisti e i beni comuni dovessero servire all'accumulazione di capitale privato. Il voto è stato quindi un colpo all’ideologia neoliberista che ci ha trascinati nella crisi teorizzando la fine d’ogni controllo democratico e d’ogni intervento politico sui mercati e sulla finanza, oltre che una democrazia anoressica, ridotta a mera partecipazione elettorale su agende preconfezionate. La buona novella del referendum italiano, promosso da una coalizione tanto vasta e socialmente radicata quanto squattrinata, ha fatto il giro del mondo e di tutta Europa.
Il primo messaggio che è arrivato negli altri paesi è stato semplice: le privatizzazioni e il dominio dei "mercati" non sono un destino naturale né un evento trascendentale, posto al di là della capacità d'intervento degli umani mortali. L’altro messaggio recepito è che, per poter ricondurre i nostri destini a portata di mano, dobbiamo metterci assieme, unirci, costruire reti sociali ampie ed inclusive. Dietro la vittoria referendaria, infatti, vi è un lungo processo molecolare che ha compattato, attorno all'acqua simbolo dei beni comuni, una miriade di soggetti locali e nazionali. Reti in grado d’elaborare proposte concrete, che consentano ai movimenti di "farsi direttamente legislatori". In Italia prima abbiamo usato lo strumento delle leggi d' iniziativa popolare, poi il referendum.
Possiamo tentare qualcosa di simile in Europa? Costruire un'alleanza sociale che, nel continente, sottragga l'acqua alla mercificazione, riaprendo così l'intero orizzonte dei beni comuni? A Napoli -unica città italiana che ha appena ripubblicizzato il servizio idrico, mostrando che ciò è ben possibile- sabato 10 e domenica 11 movimenti, sindacati, organizzazioni ambientaliste e molti altri soggetti sociali di tutta Europa si sono dati appuntamento, su invito del Forum italiano, per dar vita ad una rete continentale per l'acqua e per scrivere assieme un “manifesto” che fissi gli elementi condivisi, gli obiettivi e gli strumenti per realizzarli.
Perchè questa accelerazione, per un movimento che non scopre certo oggi l’impegno internazionale? Perchè allargare all'Europa il campo d'azione quotidiana, attraverso la creazione d’una rete stabile? In positivo la risposta è da ricercare nella vittoria italiana, in quella di un analogo referendum a Berlino e nei processi di ripubblicizzazione in Francia: i tempi per questo salto sono maturi. Ma la risposta è anche da ricercare nella crisi stessa. La Bce e la commissione europea, apertamente ridottesi a portavoce del potere finanziario, sono oggi una temibile minaccia per i beni comuni. Tuttavia l'Europa è, al contempo, anche la soluzione: non c'è salvezza senza Europa perchè il capitale si muove, ancor più potentemente che in passato, in una dimensione sovranazionale. Se non ci poniamo con efficacia a questa altezza, consci che nessun soggetto sociale, per quanto forte, è di per sè autosufficiente, e consci che la dimensione locale o nazionale non basterà ad arginare l'attacco del grande capitale ai beni comuni, ci troveremo più deboli e presto travolti dall'assalto della finanza globale, con il contorno di leggi nazionali e direttive europee privatizzatici. I beni comuni sono in pericolo - l'esperienza insegna come ad ogni attacco speculativo segua un ciclo di privatizzazioni e di saccheggio del patrimonio pubblico- ma allo stesso tempo sono anche la via maestra per l'uscita dalla crisi: sono una solida base di ricchezza collettiva che, se governata in modo partecipativo, non solo garantisce a tutti l'accesso a beni fondamentali, non solo ci traghetta al di là dell'eteronomia oligarchica in cui siamo immersi, ma può costituire anche il fondamento di un'altra economia, sociale e solidale. Un'economia della condivisione e della cooperazione anziché della competizione.
La nascente rete europea sceglierà così un cammino che appare quasi rivoluzionario, con i tempi che corrono, ossia quello della democrazia. Mentre il capitalismo finanziario accentua quei caratteri elitisti e mercatisti che costituiscono il vizio d'origine dell'Europa che conosciamo -come mostrano il referendum greco "negato", la lettera della Bce all'Italia e il tentativo di svuotare il referendum italiano appena vinto- di contro, come movimenti per l'acqua, risponderemo utilizzando per primi l'Iniziativa dei Cittadini Europei (attivabile con un milione di firme da raccogliere in almeno 7 paesi). L’Ice è il primo timido strumento di partecipazione democratica introdotto finalmente nell'Unione: dalla primavera del 2012 permetterà ai cittadini di spingere la Commissione a legiferare secondo la volontà indicata dal popolo europeo. Il nostro fine, ambizioso, è dar inizio a Napoli ad un percorso politico e culturale che porti dall'acqua e dai beni comuni fino a ridisegnare interi pezzi della fisionomia dell'Unione e delle politiche europee. Dal referendum italiano alle piazze degli indignados la richiesta di attivare forme di democrazia diretta sta attraversando il continente. Ad una finanza che vorrebbe sciogliere il popolo (Rossanda) e governarci direttamente, risponderemo avviando una campagna che recupererà pezzi di quella sovranità che ci è stata sottratta, per farci direttamente legislatori e artefici di un'altra Europa.
Se ci atteniamo alle parole del ministro dell’ambiente italiano Corrado Clini, c’è da essere davvero molto preoccupati. «Durban sarà una missione esplorativa sulle modalità per trovare più avanti un accordo»: questa la dichiarazione del ministro rilasciata in un convegno prima del suo arrivo qui a Durban. Signor Ministro, noi non ci possiamo permettere di rimandare, non abbiamo tempo. Il nostro pianeta ed il nostro clima rispondono alle leggi della fisica e non a quelle dell’economia stabilite dalle banche e dalle multinazionali. Sono il sistema economico ed il modello di sviluppo che devono velocemente adattarsi e non viceversa. Se non lo capiamo, non ne usciamo. Il caos climatico non aspetta e se ne frega dei giudizi delle agenzie di rating.
Le irresponsabili parole del ministro sono l’esempio lampante dello scontro in atto qui al Summit mondiale sul clima. Sono passati venti anni da quando i governi e le istituzioni sovranazionali si sono assunti il dovere di tirare fuori l’umanità dal rischio catastrofe a cui il sistema economico estrattivista e produttivista ci esponeva. Dopo venti anni siamo immersi nel caos climatico ed economico e c’è ancora chi pensa come il nostro governo di rimandare, privilegiando gli interessi economici di pochi.
Questo il «clima» qui a Durban, dove continua a mancare la volontà concreta di salvare il patto di Kyoto, unico strumento per imporre misure vincolanti ad i grandi inquinatori. E questo nonostante le aperture della delegazione cinese, disponibile a patto che i paesi industrializzati si assumano maggiori tagli in virtù delle responsabilità storiche per i 200 anni di precedente industrializzazione che ha garantito sviluppo ed egemonia economica ai grandi inquinatori del nord del mondo, Usa su tutti. Del resto, come dargli torto?
Ma in questo clima di sfiducia e tatticismo sono diversi i governi pronti a rassicurare corporation e banchieri sul fatto che nulla cambierà nel breve e medio periodo, domani chissà. Il presidente sudafricano Zuma, ad esempio, ha incontrato ieri 500 uomini d’affari del settore del carbone. Le multinazionali sudafricane producono il 90% dell’energia elettrica di tutta l’Africa sub sahariana attraverso il carbone ed ovviamente di riconversione e di riduzione delle emissioni non vogliono sentire parlare. Troppo alti i profitti ed il controllo sul mercato. Ed anche la barzelletta della difesa dei posti di lavoro non regge più. È ormai diffusa la consapevolezza che con la riconversione energetica si creerebbero almeno 14 volte più posti di lavoro che con il sistema centralizzato energetico basato sui fossili.
La rete Rigas presenta le proposte dei movimenti per il summit. Zanotelli: «Monti ha pronunciato 30 volte la parola crescita e mai ambiente. O si cambia o si muore»
Si è aperta ieri a Durban, in Sudafrica, nel silenzio dei media e nel sostanziale disinteresse della comunità internazionale, la 17° Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Conferenza incaricata di trovare in extremis un accordo sulla prosecuzione del protocollo di Kyoto, in scadenza alla fine del 2012, compito reso arduo dalla contrarietà di Usa e Cina e dall'indisponibilità di diversi paesi tra cui Russia, Canada e Giappone. L'appuntamento di Durban è destinato a concludersi con un nulla di fatto, come già è stato per gli ultimi vertici, in particolare quelli di Cancun 2010 e di Copenaghen 2009 dove pure l'attenzione era maggiore e le aspettative più rosee. Saranno circa 190 le delegazioni di negoziatori in rappresentanza di altrettanti paesi.
Per l'Italia sarà presente il neoministro dell'ambiente Clini, scettico da lungo tempo nei confronti del protocollo di Kyoto, che arriverà in Sudafrica senza una posizione chiara né impegni concreti. Dall'Italia sarà a Durban anche una delegazione di Rigas, la Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale, che raccoglie oltre 70 organizzazioni tra comitati, associazioni e sindacati, e che ha convocato ieri mattina a Roma una conferenza stampa per lanciare la partecipazione della rete alle giornate sudafricane e presentare le proposte della società civile sul clima. Al tavolo, a dimostrare la necessaria convergenza tra società civile e mondo scientifico, padre Alex Zanotelli, Giuseppe De Marzo dell'associazione A Sud, Valerio Rossi Albertini del Cnr e Livio De Santoli, responsabile energia dell'ateneo La Sapienza.
L'appuntamento sudafricano arriva in un autunno di eventi climatici drammatici anche qui da noi. Le immagini delle ultime settimane con diverse zone d'Italia ricoperte dal fango e il tragico bilancio in termini di vittime ci riportano alle gravi implicazioni locali di una emergenza di dimensioni globali. Secondo Giuseppe De Marzo «quello che stiamo vivendo è prima di tutto un geocidio, un attentato al pianeta». Basta a confermarlo un unico dato: Kyoto indicava come obiettivo la riduzione delle emissioni del 5,2% sui livelli del 1990. I dati odierni parlano invece di un aumento del 30% negli ultimi due decenni, che significherebbe vedere aumentare la temperatura globale di circa 4°. «Di fronte a questa prospettiva ci chiediamo e chiediamo alla politica: come si crea occupazione e benessere? Con produzioni distruttive dal punto di vista sociale e ambientale o attraverso la riconversione del tessuto produttivo in chiave ecosostenibile? Su che infrastrutture è meglio investire? Su quelle che creano dissesto idrogeologico o su quelle che proteggono i territori? Quali notizie è giusto mettere in prima pagina? Le cronache stanche della politica o le reali emergenze cui siamo chiamati a far fronte?».
Il Cnr, per voce di Rossi Albertini, Responsabile Energia e nuove Tecnologie, sottolinea il ruolo della scienza nella sfida climatica. «Oggi più che mai occorre investire nelle nuove tecnologie invece di lasciare che se ne occupi la Cina. Ciò può avvenire creando al contempo occupazione specializzata, prodotti di eccellenza tecnologica e contribuendo a combattere gli stravolgimenti climatici». Per Livio De Santoli, de La Sapienza, «l'impegno delle università deve essere quello di occuparsi di questi temi in maniera proritaria, lavorando assieme alla società civile e elaborando proposte concrete. Una di esse riguarda la creazione di comunità dell'energia che vadano nel senso di un modello energetico distribuito, fondato sull'efficienza, sulle fonti rinnovabili e soprattutto, sulla partecipazione». Il Citera, centro studi de La Sapienza di cui De Santoli è direttore, ha aderito da alcuni mesi a Rigas, assieme alla quale porta avanti un lavoro di formazione e di articolazione sociale sul tema dell'energia. Padre Zanotelli, tra i fondatori di Rigas e promotore dell'appello Salviamoci con la Pachamama, ha richiamato infine l'attenzione sulla necessità di attivarsi su più livelli: «È chiaro a tutti oggi che o si cambia o si muore. Monti ha pronunciato oltre 30 volte nel suo discorso al Senato la parola crescita. Noi rispondiamo che vogliamo che siano invece messe al centro dell'impegno politico la nostra salvezza e quella della Madre Terra». Una impostazione che mira a mettere assieme democrazia, sviluppo, tutela dei beni comuni, occupazione, sostenibilità.
La delegazione sarà a Durban a partire dal primo dicembre per seguire i lavori del vertice e le discussioni e mobilitazioni della società civile, riunita nel People Space montato nel polo universitario della città sudafricana. Cittadina che rappresenta, tragica ironia della sorte, uno dei più grandi poli petrolchimici del continente africano e che proprio in questi giorni sta affrontando i devastanti effetti di una terribile tempesta tropicale destinata a rimanere negli annali per la devastazione e le morti causate.
Oggi si aprono a Durban, in Sud Africa, i lavori della 17a Conferenza delle parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti del clima (Cop 17), che nel 2012 compirà vent’anni, e la 7a Sessione delle parti che hanno sottoscritto il Protocollo di Kyoto. Il clima fisico tenterà così di strappare ai venti della crisi economica che soffiano sull’Occidente e alla tempesta finanziaria che squassa il Nord l’Europa e, in parte, il Nord America, l’attenzione dei media e, soprattutto, dei governi. Non sarà facile.
Così come sarà molto difficile che, alla chiusura dei lavori, prevista con la cosiddetta “sessione ministeriale” venerdì 9 dicembre, i rappresentanti di 190 e passa Paesi troveranno un qualche accordo significativo per contrastare, con politiche comuni di prevenzione (taglio delle emissioni di gas serra) e di adattamento, i cambiamenti del clima del pianeta.
Due i grandi temi sul tappeto, tra loro peraltro interconnessi. Il primo riguarda la definizione di un reale impegno di contrasto dei cambiamenti climatici giuridicamente vincolante per tutti i Paesi – ricchi, emergenti e poveri – che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite. Il secondo riguarda il Protocollo di Kyoto, che impegna i soli paesi di antica industrializzazione, ed è in scadenza nel 2012. Adattarsi ai cambiamenti climatici significa mettere ciascun paese nelle condizioni di rispondere al meglio all’aumento, in atto, della temperatura media del pianeta. Il guaio è che la temperatura non aumenterà in maniera omogenea nelle varie regioni del pianeta e, soprattutto, che il cambiamento ha effetti diversificati. L’adattamento impone una doppia sfida: una tecnica - allestire una costellazione efficace di interventi puntuali - l’altra economica: chi paga il conto (che si aggira intorno ad alcune centinaia di miliardi l’anno)? Mitigare i cambiamenti climatici significa prevenire, per quanto possibile ormai, gli aumenti della temperatura media: ovvero tagliare le emissioni antropiche di gas serra. La Convenzione sui cambiamenti climatici a tutt’oggi non prevede impegni vincolanti. Ma ora che tutti riconoscono la realtà e la gravità del fenomeno, occorre rispondere con urgenza a due domande: chi lo dovrà fare? Come?
Il Protocollo di Kyoto impegna in maniera concreta i Paesi di antica industrializzazione che l’hanno ratificata (anche se non sono previste sanzioni per gli inadempienti): ridurre le emissioni di gas serra di circa il 5% rispetto all’anno di riferimento 1990. A Durban occorrerà sia verificare chi lo ha rispettato e chi no, sia decidere se e come rinnovarlo per i prossimi anni.
Le due classi di decisioni che dovranno essere prese rispettivamente a Cop 17 - accordo globale su mitigazione e adattamento - e a Cmp 7 - rinnovo del Protocollo di Kyoto - sono fortemente interconnesse. Alcuni Paesi che hanno ratificato Kyoto - Giappone, Canada e Russia - hanno già fatto sapere che senza un accordo globale e senza un impegno concreto e vincolante per tutti, in particolare per Stati Uniti e Cina che sono i due massimi produttori di gas serra, non parteciperanno a nessun processo di rinnovo del Protocollo.
La situazione politica è drammatica, ma chiara: o a Durban si troverà una strategia globale oppure la politica di contrasto ai cambiamenti climatici tornerà indietro di vent’anni, a quando la Convenzione sul clima venne proposta a Rio del 1992.
Il quadro scientifico e politico, rispetto a Rio, è cambiato. Venti anni fa i paesi di antica industrializzazione erano ancora i massimi produttori di gas serra. Oggi il 58% delle emissioni avviene a opera di paesi che a Rio venivano definiti in via di sviluppo. Restano le antiche responsabilità - la gran parte dei gas serra di origine antropica accumulati in atmosfera sono stati emessi da Europa, Stati Uniti e Giappone. Ma occorre prendere atto che senza il contributo attivo di Cina, India, Brasile e di un’intera costellazione di paesi a economia emergente le politiche di mitigazione perdono molto del loro significato.
I nodi politici più importanti, dunque, sono tre. Gli Usa, che non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto, si lasceranno coinvolgere in un accordo globale? E cosa farà la Cina, che ormai produce più carbonio di tutti ma continua ad avere un tasso di emissioni procapite inferiore a Usa e Europa? E cosa farà l’Europa? Finora è stata il locomotore del lento convoglio dei Paesi che intendono contrastare i cambiamenti climatici. Ma sopravvivrà la sua politica verde alla tempesta finanziaria ed economica che l’ha investita?
La crisi economica incombe su Durban. Molti ritengono che difficilmente l’Amministrazione Obama potrà assumere impegni stringenti e vincolanti, con uno dei due rami del Parlamento in mano ai repubblicani. Altri ritengono che l’Europa - dopo la figuraccia di Cop 15 a Copenaghen, dove fu esclusa dalle decisioni che contano - con la sua attuale debolezza sia ancora più marginale e comunque meno credibile. Forse le uniche speranze restano proprio i paesi a economia emergente: la Cina, il Brasile, la Corea del Sud. Non sono attraversati dalla crisi economica e stanno puntando molto - molto più di Usa ed Europa - sulla "green economy".
Saranno loro ad assumere la leadership della lotta ai cambiamenti climatici in una città, Durban, di un Paese simbolo degli emergenti, il Sud Africa? Vedremo a Durban quanto matura è la “coscienza ecologica degli emergenti”. E in che direzione andrà.
Le opzioni tecniche sono due. La prima è la politica dei vincoli stringenti, sul modello del Protocollo di Kyoto: precise quote di gas serra da abbattere, differenziate per paese. L’altra opzione è quella della "no-binding policy", degli impegni morali non vincolanti, sostenuti unicamente da meccanismi di mercato. È l’opzione del «liberi tutti di fare quel che si vuole e si può». L’unica oggi realistica, sostengono i suoi fautori. A causa della crisi, ma anche della storica ritrosia di Usa e Cina ad accettare vincoli alla propria sovranità e alla propria economia.
L’opzione no-binding, senza vincoli, sarà pure realistica. Ma ha un grande difetto: non offre alcuna certezza che gli obiettivi saranno raggiunti. La storia degli ultimi 20 anni dimostra che in un regime no-binding le emissioni di gas non diminuiscono. Ma crescono allegramente. Senza vincoli, appunto.
LA DEMOCRAZIA VIOLATA
Il doppio raggiro sul voto di giugno
di Gaetano Azzariti
«Si può continuare ad applicare una norma abrogata per via referendaria?». Hans Kelsen avrebbe giudicato priva di senso una simile domanda, bollandola come contradictio in adiecto. E poi, basta aprire un qualunque manuale di diritto costituzionale per leggere che l'unico effetto giuridico certo prodotto dal voto è appunto quello di rendere non più applicabile la norma oggetto del referendum. A dispetto di ciò, sebbene il 12 e 13 giugno del 2011 la maggioranza del corpo elettorale abbia eliminato la disposizione che stabiliva una «adeguata remunerazione del capitale investito» da garantire ai gestori dei sistemi idrici, questa norma è ancora applicata. L'elusione dell'esito referendario appare evidente. Secondo alcuni l'ultrattività della norma abrogata sarebbe giustificata dal permanere della necessità di garantire la copertura dei costi e le correlate ragioni di profitto per le aziende che gestiscono il servizio. Quest'argomentazione non ha fondamento alcuno. A dirlo è stata la Corte costituzionale, quando ha ammesso il referendum escludendo che ciò potesse incidere sulla nozione di "rilevanza" economica del servizio idrico integrato. L'eliminazione della voce «remunerazione del capitale» - ha scritto a chiare lettere la Corte - non presenta elementi di contraddittorietà, poiché se da un lato persegue chiaramente la finalità di rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell'acqua, dall'altro non incide sulla nozione di tariffa come corrispettivo, la quale assicura «la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio».
Si può evidentemente non essere d'accordo nel merito della questione: per questo s'è svolta la consultazione referendaria e tutti coloro che hanno votato no al referendum evidentemente non erano concordi. Ma il referendum ha avuto un esito inequivocabile, e ora non rimane che dare seguito alla volontà del corpo elettorale. L'inerzia e la conservazione dei vecchi contratti di gestione per il servizio idrico si configurano come un grave vulnus al dettato costituzionale, che non dovrebbe essere accettato da nessuno, neppure da coloro che si sono democraticamente opposti, con il voto contrario, all'abrogazione della norma sulla remunerazione del capitale. È alla base del vivere democratico accettare le scelte della maggioranza (del corpo elettorale nel caso dei referendum, dei membri del Parlamento nel caso delle leggi). Tutti i soggetti politicamente responsabili dovrebbero, dopo il referendum, imporre alle aziende regole di gestione estranee alle logiche del profitto.
V'è poi un secondo raggiro compiuto ai danni del referendum. Uno dei due quesiti aveva a oggetto una norma (l'art. 23 bis del decreto Ronchi) relativa alle modalità di affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica. Come ha chiarito anche in questo caso la Corte costituzionale, l'abrogazione richiesta ha riguardato una disciplina generale, relativa dunque non solo al servizio idrico. Eppure nella manovra di agosto il governo allora in carica ha reintrodotto la medesima normativa, fatta salva l'acqua; in tal modo violando il divieto di reintroduzione della normativa abrogata. Alcune regioni (la Puglia), e lo stesso comitato promotore dei referendum vogliono proporre la questione dinanzi alla Consulta, sollevando un conflitto tra poteri dello Stato. Ma, al di là delle ragioni giuridiche e costituzionali che sostengono i ricorsi, c'è da chiedersi se non vi sia anche una questione politica e di democrazia.
Al governo Monti tutti riconoscono una profonda diversità di stile: non più le sguaiatezze del populismo berlusconiano, ma un atteggiamento rigoroso che legittima - anche politicamente - la "tecnica" di governo. Questo stile - se non vuole essere solo una forma apparente - dovrebbe anzitutto esprimersi nel rispetto della lealtà costituzionale e delle leggi. Ed è proprio il problema di lealtà costituzionale e di rispetto delle leggi che oggi pongono i promotori del referendum sull'acqua pubblica. Il passato governo ha adottato comportamenti e compiuto atti tendenti a invalidare l'esito referendario. Si tratta ora di rimediare.
LA PIAZZA
Una frazione del 99 per cento
di Pierluigi Sullo
Pochi avrebbero scommesso un soldo bucato sulla manifestazione nazionale per l'acqua convocata ieri a Roma. Invece per strada si è vista, come dicono gli organizzatori, la «persistenza» del movimento per l'acqua. CONTINUA|PAGINA3 Come dire: c'è stata la grande ondata, abbiamo vinto il referendum, la scelta di 26 milioni di cittadini è stata sostanzialmente ignorata da chi aveva il dovere di rispettarla, eppure non siamo tornati a casa.
È già un gran risultato, che in piazza si sia mostrata una frazione per niente secondaria del 99 per cento, come dicono gli occupy statunitensi: perché a soffiare contro non era solo la disperante sensazione che affliggeva anche quel tale della mitologia greca, che faceva quel che subito dopo veniva disfatto e così via all'infinito. C'è stata la disgraziata manifestazione del 15 ottobre, che ha lasciato scorie nell'animo della moltissima gente senza targa che l'aveva affollata all'inverosimile. Ma, ben più in profondo, nell'animo delle moltissime persone che si industriano a tutelare ciò che è "comune" - dall'acqua al paesaggio, dal lavoro alla democrazia - si è insediato un sentimento negativo, una sospensione depressiva, qualcosa che assomiglia alla paura. Beninteso, potrei sbagliare completamente e al contrario potremmo essere in una situazione di enorme effervescenza e voglia di inventare - facendola in pratica - una società del tutto differente da questa.
Perché è a questa soglia che siamo arrivati. E però, mi pare, la scomparsa del nemico domestico e la crisi di quello globale hanno spiazzato ogni genere di movimento sociale. Come se - ed è naturale che sia così - sia più facile riconoscersi nello specchio rovesciato di ciò che si vorrebbe cancellare.
Il nemico domestico, l'apparentemente immortale Berlusconi, è stato di colpo sostituito da qualcosa che è, se possibile, ancora più inflessibile, come avversario della società. Si ha un bel dire che le buone maniere e l'etica privata dei "tecnici" ora al governo sono un sollievo. È vero. Ma con il governo Monti si è affermata una post-democrazia che non finge più neppure di ricavare la sua legittimità dal "popolo". E il mantra, il rumore di fondo ossessivo che accompagna il professor Monti, scava nell'animo pubblico, vi deposita uova di terrore. Spread, bund, Mib, Bce, rating e le molte altre parole contudenti che vengono ripetute ogni giorno, per tutto il giorno, a noi che precipitiamo verso la Grecia, a noi che perdereno la nostra moneta, l'euro, senza saper immaginare quel che verrà dopo, mentre la crisi mastica posti di lavoro e redditi, scuole e università, spesa pubblica e servizi sociali.
Perfino i riflessi condizionati di ogni persona assennata di sinistra, quanto meno democratica, vengono contraddetti: se viene un governo di centrosinistra andrà meglio? E cosa potrà fare la sinistra dentro il centrosinistra? La "maggioranza" che sostiene Monti, e che comprende il Pd e il partito di Berlusconi, e i furbissimi democristiani di Casini, è la rappresentazione plastica di quel che i movimenti sociali degli Stati uniti sanno da sempre, salvo sperare per quale mese in un candidato presidenziale giovane e nero: che la politica è andata altrove, ostaggio dei consigli di amministrazione delle banche e dei fondi pensione che speculano sui titoli di borsa. Che, appunto, la democrazia che abbiamo conosciuto, con tutti i suoi pregi e difetti, ha cessato di esistere.
Se le cose stessero così, la domanda più importante sarebbe questa: come mai in Italia la frazione importante del 99 per cento che era in strada per l'acqua non riesce a mescolarsi davvero con le altre frazioni: che so, studenti e ricercatori, comunità che difendono il territorio dalla "crescita" Passera-style, sindacati che resistono alla tempesta della produzione finanziarizzata e globalizzata, reticoli di altra economia e di welfare autoprodotto, ecc. Una miscela da cui, come negli Stati uniti o in Spagna o adesso in Gran Bretagna, potrebbe nascere l'aspirazione concreta, e ottimista e sicura di sé e vaccinata dalle illusioni elettorali, a una democrazia dei beni comuni. Dicono gli occupy di San Francisco: «Questa rivoluzione non sarà privatizzata».
BENI COMUNI
«Obbedienti civili» per l'acqua pubblica
di Silvio Messinetti
Lucarelli presenta la rete europea delle città per i beni comuni. Napoli è la capofila I comitati chiedono di togliere il 7% dalle bollette e minacciano il boicottaggio
Centocinquanta giorni dopo, il popolo dell'acqua si ritrova ancora alla Bocca della Verità. Il 13 giugno festeggiava lo straordinario successo referendario. Oggi è di nuovo qui per non farsi scippare il voto popolare. «Quella che lanciamo da questo palco è una lettera di risposta alla Bce, ai poteri forti, alle multinazionali, alle banche, che vorrebbero privatizzare e liberalizzare servizi pubblici e beni comuni - urla dal palco Simona Santini del Coordinamento romano dell'acqua - perché non si svendono beni primari, e in quanto tali inalienabili, per far cassa». Che l'acqua non sia una merce lo hanno ben chiaro le decine di migliaia di persone che nel primo pomeriggio partono dall'Esedra. Il percorso lambisce in parte quello del 15 ottobre. Ma è una giornata di festa e non di scontri. E te ne accorgi dalle bandiere dell'acqua che sventolano da un palazzo di via Labicana dirimpetto a quella caserma dismessa del ministero della Difesa andata a fuoco 40 giorni fa. Lungo le vie dell'Esquilino e del Celio scivola il fiume di attivisti e militanti. Eterogeneo, multicolore, trasversale. Dalle parrocchie ai centri sociali, dai sindacati(Cgil, Cobas, Cub, Usb) ai partiti(Prc, Pdci, Sinistra Critica, Pcl, poche le bandiere di Verdi e Sel),dalle associazioni (Arci, Wwf, Legambiente) ai tanti senza bandiere : rappresentanti di piazza di quei 27 milioni di persone che chiedono che il voto vada rispettato. Altrimenti sarà "obbedienza civile", dicono all'unisono: una campagna dal basso che il Forum nazionale lancerà dal prossimo giugno.
Oggi gli "obbedienti" sono davvero in tanti. Provenienti da ogni lembo dello Stivale. Dalla Basilicata («280 mila sì in Lucania e guai a chi li tocca») alle valli piemontesi, dall'Abruzzo alla Liguria, dalla Sicilia all'Emilia. Nutrito lo spezzone campano col gonfalone del comune di Napoli e Alberto Lucarelli, assessore ai Beni comuni, bardato di fascia tricolore. «Siamo orgogliosi che il primo caso di ripubblicizzazione dell'acqua e di gestione pubblica e partecipata dei servizi idrici sia proprio quello partenopeo» esclama Concilia Salvo del Forum campano. Il riferimento è ad ABC Napoli, istituita dall'amministrazione De Magistris il 26 ottobre scorso. Ma non son tutte rose e fiori. Perché le multinazionali non mollano l'osso così facilmente. Prendiamo un caso di scuola, quello laziale. «Acqualatina, con l'avallo del presidente della provincia pontina Cusani (Pdl), ha convocato una riunione dei sindaci che hanno deliberato un aumento del 7% delle tariffe in spregio ai referendum - ci spiega Alberto Bianchi del Comitato acqua pubblica Latina - e contro i comuni che non hanno aderito il presidente ha avuto l'ardire di presentare (invano) ricorso al Tar e poi appello al Consiglio di Stato. Se l'aumento tariffario non verrà ritirato, e se si ostineranno a non rispettare il suffragio popolare, lanceremo un boicottaggio di massa, facendo saltare il banco non pagando le bollette».
Ma i "vampiri dell'oro blu" sono tanti. E non solo in Italia. Il Forum Palestina ricorda che «Israele sottrae l'80% dell'acqua proveniente dalle falde sotterranee della Cisgiordania ed il 100% di quella che scorre nel fiume Giordano negandone l'accesso ai palestinesi il cui 84% della popolazione non ha accesso alla quantità minima d'acqua raccomandata dall'Oms». C'è poi Veolia, il colosso francese di acqua e rifiuti, che fa il bello e il cattivo tempo in giro per l'Italia. Come in Calabria dove è socio privato della Sorical, la società idrica che gestisce i servizi idrici, «e dove l'aumento delle bollette ha superato il 20% - affermano Delio Di Blasi e Giuseppe Tiano del Coordinamento acqua pubblica Bruno Arcuri - con un assurdo e antieconomico spezzatino laddove l'adduzione dell'acqua spetta a Sorical, la gestione ai comuni e la depurazione viene data in appalto a ditte su cui stendiamo un velo pietoso considerato i danni che provocano all'ambiente in termini di inquinamento».
Insomma, la speculazione su acqua e beni comuni va avanti. Nonostante il responso del 13 giugno. Anzi, il governo uscente ha inserito in Finanziaria una nuova e più drastica serie di privatizzazioni, «per far pagare a tutti noi un debito odioso e illegittimo - dicono gli universitari di Atenei in rivolta - che noi non abbiamo creato, tutelando invece gli interessi degli artefici di questa crisi ossia banche e grandi imprese». Sia chiaro, dunque, che «l'acqua non è debito», gridano i manifestanti. Anzi «noi siamo in credito di trasporti, beni comuni e servizi pubblici perché li privatizzano».
Il messaggio è diretto anche a Mario Monti e ai suoi progetti di aumentare i tagli ai servizi pubblici, accelerando i processi di privatizzazioni e liberalizzazioni. «Acqua,rifiuti ed energia, i privati devono andare via" denunciano, inoltre, gli attivisti di Rifiuti Zero Lazio, perché il business sui rifiuti è florido quanto quello dell'acqua, e lanciano la manifestazione di sabato prossimo.
Costeggiando il Circo Massimo si nota poi lo spezzone dei migranti della campagna Welcome. «Siamo in piazza perché la partecipazione è un diritto di tutti» hanno pennellato sul loro striscione. E oggi a Roma c'era tanta fame di diritti ma soprattutto tanta sete di democrazia «perché i 27 milioni di sì all'acqua pubblica devono contare». Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Si parla tanto di crescita ma dovremmo avere il coraggio di dire cosa non può più crescere. Il consumo di territorio, la speculazione edilizia, l'edilizia costruttiva e distruttiva, il consumo di cemento sicuramente no Sessanta anni fa il Polesine. Quarantacinque anni fa Firenze, ed eravamo ragazzini quando andammo per giorni e giorni a toglier fango dai libri della Biblioteca nazionale. Proprio come i ragazzi che hanno ripulito Genova nelle settimane scorse. Quasi nessuna regione risparmiata e a volte colpita più volte e in zone diverse, la Calabria e quel campeggio spazzato via a Soverato, la Campania e quella montagna di fango che travolge Sarno, la Versilia e la Lunigiana, il Piemonte tante volte ad Alessandria e ad Alba, la Sicilia colpita in queste ore e ancora una volta a Messina invasa dall'acqua e dalle frane come due anni fa, il Veneto, Vicenza e Venezia, la Liguria, le tante volte di La Spezia e il martirio di Genova (alluvionata 29 volte in 50 anni).
Queste al momento mi ricordo ma sui siti web potete trovarle tutte e impallidire alla lettura. Da oltre mezzo secolo sappiamo che tre quinti del nostro territorio nazionale è a rischio di alluvioni, frane, erosioni e dissesti. Da oltre dieci anni sappiamo che anche i cambiamenti climatici (una realtà che tanti hanno sottovalutato e alcuni persino negato) rendono ancora più drammatica la situazione e ancora più fragile il territorio. Abbiamo tanti dati forniti dal consiglio nazionale dei geologi, da molti ricercatori, dai metereologi, dalla protezione civile, dalle agenzie regionali per l'ambiente, dalle associazioni ambientaliste. Sappiamo ad esempio che consumiamo più cemento pro capite degli Stati Uniti e che ogni anno 250.000 ettari di territorio vengono cementificati (nel Veneto ad esempio pur essendo aumentata la popolazione di 400.000 unità , i 128 milioni di metri cubi costruiti erano commisurati ad un aumento di 850.000 unità e queste case non solo erano il doppio di quelle necessarie ma avevano anche una tipologia adatta a classi medie e dunque alti costi, mentre i 400.0000 abitanti in più erano immigrati, anziani e giovani) e temo che lo stesso dato troveremmo anche in molte altre regioni.
Sappiamo che il territorio agro silvo pastorale si riduce ad una velocità pazzesca, e che l'abbandono dell'agricoltura è un fattore in crescita costante che determina minore controllo sul territorio e soprattutto nessuna attenzione alla riforestazione in particolare nelle aree pedemontane. Conosciamo, per averle visitate, decine di aree artigianali e di insediamenti abitativi costruiti nelle aree di esondazione dei fiumi (aree che non dovevano mai essere urbanizzate e che invece decine di varianti ai piani regolatori o piani regolatori generali inesistenti hanno consentito di urbanizzare), possiamo fare un lungo elenco di fiumi importanti e di torrenti tombinati, irregimentati o deviati (pratica decennale che ha stravolto l'assetto idrogeologico di tantissimi bacini idrografici e che non andava autorizzata), vantiamo addirittura una centrale nucleare, quella di Caorso, costruita ai limiti dell'area di esondazione del Po. Non ci siamo fatti mancare nulla.
Tutte queste cause messe insieme hanno prodotto quelli che Cederna chiamava "brandelli d'Italia". Le risorse necessarie alla prevenzione e alla messa in sicurezza del nostro territorio nazionale si aggirano sui 40 miliardi di euro mentre quelle realmente investite negli ultimi vent'anni sono state appena 400 milioni di euro. Mentre per indennizzi, ricostruzioni e riparazione dei danni a posteriori si sono spesi (male e molto spesso per ricostruire negli stessi luoghi interessati da inondazioni e frane) 52 miliardi di euro in cinquant'anni e se sommiamo gli indennizzi post terremoti la cifra arriva a 213 miliardi di euro! Una cifra mostruosa!
Da decenni sappiamo quel che andrebbe fatto, ma non lo abbiamo mai fatto: passare dall'incuria alla cura del territorio, dalla speculazione selvaggia alla pianificazione sostenibile, dalla edilizia costruttiva alla edilizia di recupero e manutenzione, dall'intervento a posteriori alla prevenzione. Non possiamo più sprecare soldi e natura, non vogliamo perdere altre vite umane, non possiamo far vivere milioni di persone in condizioni di insicurezza. Per questa ragione l'assenza di qualsiasi riferimento ai temi della qualità dello sviluppo e alla sostenibilità ambientale nel discorso di insediamento del Presidente del consiglio Monti ci ha delusi e ci preoccupa parecchio. Tra economia ed ecologia e tra ecologia e nuova occupazione vi sono molti più intrecci di quelli che tanti economisti assai poco innovatori e riformatori riescono a vedere: un territorio sicuro per i cittadini e per le attività produttive è la condizione prima di qualsiasi sviluppo possibile, e un paesaggio di qualità è la ricchezza fondamentale dell'Italia.
Rimettiamo, per l'ennesima volta e testardamente questo tema all'attenzione delle forze sociali, politiche e dei governi nazionale e locali: perché in un paese che va sott'acqua una settimana sì e l'altra pure non c'è sviluppo possibile. Si parla tanto di crescita, mentre dovremmo avere il coraggio di dire cosa può e deve ancora svilupparsi e cosa invece non può più crescere. Il consumo di territorio, la speculazione edilizia, l'edilizia costruttiva e distruttiva, il consumo di cemento sicuramente non possono e non devono più crescere. Mentre devono crescere l'edilizia di manutenzione e recupero, l'agricoltura di qualità, la manutenzione dei fiumi e dei torrenti. Da una parte dei soldi che potrebbero entrare dalla patrimoniale, da un taglio di 1,5 miliardi alle spese militari, dallo storno delle risorse destinate all'inutile Ponte sullo Stretto, possono derivare le risorse ordinarie necessarie a mettere in sicurezza e a curare il nostro territorio.
Se non è una grande opera questa, se non è una grande riforma civile come vogliamo chiamarla? Soldi ordinari, senza commissari straordinari, gestiti dai Comuni e dalle Regioni e rendicontati annualmente. E da subito l'istituzione di una sorta di Servizio Civile Giovanile Regionale che si occupi dei primi lavori di manutenzione e pulitura dei corsi d'acqua.
Per quale trauma, forse databile con la povertà delle campagne d´inizio Novecento, in questo Paese quando si parla di agricoltura nella migliore delle ipotesi siamo distratti e nella peggiore infastiditi? Ne è un sintomo il malcelato recalcitrare di chi ogni tanto ha in sorte il ministero delle Politiche agricole e forestali, ma anche il disinteresse che l´intera società civile manifesta nei confronti dell´attuazione delle sue politiche. L´agricoltura parrebbe fuori dall´italico radar. Ma almeno, il nuovo ministro del governo Monti, Mario Catania, è un dirigente del Mipaf da più di trent´anni e sicuramente conoscerà l´importanza del settore, soprattutto la necessità di un rapporto forte con la Commissione Europea. Nell´augurargli buon lavoro dobbiamo tuttavia constatare che, dal 2008, egli è il quarto ministro dell´Agricoltura del nostro Paese, e anche questo la dice lunga sull´attenzione della politica verso la questione agroalimentare.
Nemmeno in questo momento storico, in cui la società civile si mobilita su questioni cruciali come quella dell´acqua pubblica o del consumo di suolo, quella miccia prende fuoco: sull´agricoltura non ci entusiasmiamo. E questo vale ovviamente anche a livello europeo. Per esempio, se si chiede in giro che cosa è la Pac, pochi sapranno rispondere. Pac sta per Politica agricola comune, le normative europee in tema di agricoltura. Non mi sembra una cosa normale non saperne niente. Perché se ci dicessero che non capiamo niente di cibo, ci offenderemmo. Ma come si può avere una cultura del cibo se si ritiene l´agricoltura un argomento poco interessante? Oggi l´esodo dalle campagne ha toccato il suo punto più drammatico, allora perché non riflettere sul fatto che una nuova idea di agricoltura può favorire progetti di vita per tanti giovani chiamati non a fare la vita grama dei vecchi contadini, ma un lavoro moderno, dignitoso e gratificante? Stiamo parlando di migliaia di nuovi posti di lavoro, di sostenibilità, quindi di assoluto bisogno di nuove politiche agricole.
Ora la Pac, che esiste dagli anni ´50, è in fase di revisione: dopo un lungo iter di consultazioni è stata presentata, ad ottobre, la proposta legislativa che dovrà passare attraverso un processo di co-decisione che coinvolge il Parlamento e il Consiglio d´Europa. Questo processo sarà piuttosto lungo prima che la nuova normativa entri in vigore, presumibilmente a inizio 2014, quindi c´è un po´ di tempo per partecipare, cercare i nostri parlamentari, raccogliere firme se necessario, fare dibattiti... insomma le cose normali di quando le cose ci stanno a cuore.
C´è poi un ulteriore motivo per occuparsi della Pac. Tutti i cittadini dell´Unione pagano tasse che vengono destinate ai vari settori di attività: dall´agricoltura all´educazione, alla salute. Ora, rispetto al budget totale a disposizione della Ue, circa il 40% viene destinato alle politiche agricole. Ma la domanda è: a quale agricoltura vanno questi soldi? Prevalentemente all´agricoltura di quantità, quella dell´agrobusiness, dei grandi mercati internazionali, delle monocolture, della grande distribuzione organizzata, delle grandi aziende di capitale. Con qualche lieve miglioramento rispetto al passato, anche la proposta presentata a ottobre sembra andare in questa direzione. Grosso modo l´80% del budget sarebbe ancora destinato a questo tipo di agricoltura e solo il 20% andrebbe alle produzioni sostenibili e di piccola scala.
Noi di cosa abbiamo realmente bisogno? Proviamo a fare un elenco, che vale per l´Italia come per il resto d´Europa (oltre che del mondo, ma il mondo non ha ancora un organismo di governo planetario, a meno che non si voglia ritenere che il Wto e la Banca Mondiale svolgano questa funzione): 1) abbiamo bisogno di garantire la fertilità dei suoli; 2) abbiamo bisogno di incentivare l´agricoltura nelle zone a rischio idrogeologico perché le attività forestali e agricole prevengono il degrado del territorio, mantenendo le comunità nelle loro sedi naturali a prendresi cura dei paesaggi; 3) abbiamo bisogno di ridurre le emissioni di CO2, in larga percentuale addebitabili agli allevamenti intensivi, al trasporto di generi alimentari per le grandi distribuzioni, agli sprechi energetici che il sistema alimentare globale impone; 4) abbiamo bisogno di ridurre gli sprechi, perché un terzo del cibo prodotto finisce direttamente nella spazzatura e questo è innanzitutto immorale, secondariamente stupido; 5) abbiamo bisogno di proteggere le risorse come gli oceani, le acque interne e l´aria da un processo di inquinamento chimico che non può più essere tollerato; 6) abbiamo bisogno di invertire la tendenza delle malattie "da benessere" come l´obesità, il diabete, i disordini cardiocircolatori, i tumori, causate in buona parte dall´inquinamento, dall´alimentazione di cattiva qualità, dalla presenza di chimica legalizzata nel nostro cibo quotidiano; 7) abbiamo bisogno di mitigare i cambiamenti climatici; 8) abbiamo bisogno di proteggere le culture locali, che hanno in sé molte informazioni utili in questi tempi di crisi ambientale, sociale ed economica; 9) abbiamo bisogno di proteggere le economie locali, e i mercati di prossimità, che possono rivitalizzare le nostre aree rurali e farle tornare ad essere luoghi di benessere, di produzione di reddito, di occupazione giovanile; 10) abbiamo bisogno di mantenere alte le bandiere del turismo, che non si nutre solo di visite alle città d´arte ma soprattutto di paesaggi agrari e di territori accoglienti.
E chi fa tutto questo, tutti i giorni, senza ricevere nessun compenso? L´agricoltura di qualità, che ha come obiettivo primario il cibo per le persone e non le merci per i mercati e che, nella stragrande maggioranza dei casi, è un´agricoltura di piccola scala. Ecco, noi vorremmo che la nuova Pac destinasse molto di più a questo tipo di agricoltura, e non soltanto il 20%. Se iniziamo a insistere in ogni occasione possibile, su questi argomenti, qualche passo importante si può ancora fare.
Non è solo una questione di bisogni: è anche una questione di diritti. Provate a trasformare l´elenco di prima in un elenco di diritti, vedrete che si fa in fretta. E il diritto principale, che li racchiude tutti, si chiama "sovranità alimentare". Ecco di cosa si stanno dimenticando, a Bruxelles: che abbiamo diritto a un cibo «salubre, culturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi sostenibili ed ecologici». E questo, l´agricoltura orientata all´industria, semplicemente, non lo può fare.
Titolo originale: Land over nature – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Si sa che le città continuano ad espandersi. Si sa anche molto bene quanta biodiversità stiano erodendo. La cosa inquietante però è il ritmo di questo irreversibile fenomeno a scala globale. Tra il 1970 e il 2000, l’espansione ha coperto l’incredibile superficie di 58.000 chilometri quadrati. E quasi la metà a spese della biodiversità. Con questi ritmi, nel 2030 la superficie urbana sarà di almeno 430.000 km quadri, più o meno le dimensioni di tutto l’Iraq. E un’espansione ulteriore e indiscriminata potrebbe farci arrivare a una superficie urbanizzata di 12.568.000 chilometri quadrati. É il risultato raggiunto da un gruppo di ricerca coordinato da Karen Seto della Yale School of Forestry and Environmental Studies negli Usa. Si sono analizzati 326 studi condotti in tutto il pianeta per costruire una carta della conversione ad aree urbane negli ultimi trent’anni.
Sinora, l’urbanizzazione è stata studiata utilizzando l’indicatore della popolazione. Questa nuova ricerca, pubblicata dal periodico online PLoS One in agosto, quantifica oltre alle dimensione anche i ritmi. Per comprendere le trasformazioni del suolo sono state utilizzate tecniche a sensori remoti. I ritmi più rapidi di conversione a superficie urbana sono in India, Cina e Africa. Sui tre decenni esaminati, l’urbanizzazione massima si è verificata in Nord America. Fra i motivi la crescita di popolazione e prodotto interno lordo pro capite. “L’aumento annuale di prodotto interno lordo pro capite induce circa metà dell’urbanizzazione osservata in Cina. Influenza anche moderatamente l’urbanizzazione Indiana e Africana, ma qui il processo è spinto molto di più dall’incremento della popolazione urbana” si legge nella ricerca. Nei paesi ad alto reddito, i tassi di espansione sono più bassi in rapporto alla crescita del prodotto interno. In Nord America la principale causa dell’espansione urbana è la crescita generale di popolazione.
Si colpisce la biodiversità
A scala mondiale, è la spinta dell’espansione urbana alla base della scomparsa di habitat naturali, afferma la ricerca. Il 47% delle aree urbanizzate si trova in un raggio di 10 km da zone classificate come protette dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. “Così si mettono in discussione le strategie di tutele” scrive. Si è rilevata un’espansione notevole nelle aree costiere a bassa quota, fino a 10 m sopra il livello del mare. Circa il 34% delle aree studiate ricade entro 10 m da zone del genere. L’urbanizzazione delle coste può essere dannosa all’uomo per via dell’intensificarsi dei fenomeni atmosferici e dell’innalzamento del livello del mare. Lo studio, primo nel suo genere, prova a ipotizzare i motivi di questa espansione globale. Afferma che l’estensione urbana è legata a una serie di fattori tra cui il flusso internazionale di capitali, le economie informali, la pianificazione urbanistica. La ricerca però non copre tutte le grandi città del mondo. Cinque delle più popolose —Dacca, Karachi, Kolkata, Jakarta e Delhi — non sono state studiate.
L’area urbana di Delhi è stata invece studiata dalla Jamia Millia Islamia University. Confermando come la conversione d’uso sia un grave pericolo per la biodiversità. A Delhi le superfici residenziali sono quasi raddoppiate fra il 1994 e il 2004. Usando sensori remoti e immagini dal satellite, oltre che Gis, si è rilevato un incremento costante dell’area urbana. “Su un totale di 148.375 ha del 1992, la superficie agricola era di 65.114 ha. É diminuita del 12% fino a 54.153 ha nel 2004” afferma la ricerca. Ogni giorno, sono 664 le persone che si spostano a Delhi dalle aree rurali. Un flusso enorme che produce questa espansione, afferma Atiqur Rahman, professore di geografia all’università e coordinatore della ricerca.
Questa urbanizzazione che colpisce la biodiversità innesca anche cambiamenti climatici, cambia il sistema dell’impermeabilizzazione e altera il ciclo dell’acqua. “A Delhi si sono trasformati gli ecosistemi urbani. Suolo fertile è stato impermeabilizzato, e le acque sotterranee si sono allontanate” continua Rahman. Qualcosa di simile e altrettanto significativo avviene nella ricca biodiversità di Bengaluru. É una delle zone urbane di più rapida crescita al mondo, con una superficie urbanizzata diventata il doppio in dieci anni, dai 740 chilometri quadri del 2001 ai 1.306 di oggi. “La città era cresciuta negli anni ’70, e poi di nuovo nell’ultimo decennio. Ma nella seconda fase è stato molto più forte l’impatto sui sistemi ecologici della regione” commenta Leo Saldanha di Environment Support Group.
Premettendo che ogni previsione su come sarà il mondo tra duecento anni è un esercizio che si lascia volentieri ai premi Nobel, la visione nel nuovo libro di Robert B. Laughlin offre spunti interessanti. Il tema è l´energia, ma soprattutto l´agricoltura. La tanto bistrattata agricoltura, ritenuta da moltissimi un settore marginale, data così tanto per scontata da essere trascurata, lasciata per troppo tempo e con troppo potere in mano a un sistema agroindustriale globale che ha finito con il metterla in ginocchio, prima nei paesi poveri e ora anche in quelli ricchi. E sempre con effetti nefasti per ambiente, contadini e consumatori.
Laughlin sostiene che tra due secoli l´agricoltura sarà fondamentale per continuare a garantirci la vita. Dice che il settore agricolo sarà il principale produttore di energia nell´era post-fossile. L´idea di coltivare oceani e deserti per non far entrare in competizione cibo ed energia è molto affascinante e neanche tanto fantascientifica. Però bisogna ricordare che il cibo stesso è energia, perché ci nutre e ci fa muovere e perché cresce grazie alla fotosintesi clorofilliana, dunque all´energia del sole. L´agricoltura è sempre stata, lo è oggi e sempre sarà ciò che ci garantisce la vita.
Una volta presa coscienza di questo assunto banale ma un po´ troppo spesso dimenticato, va però fatto un discorso su come dovrebbe essere l´agricoltura del futuro. Che si debba cambiare profondamente, che la si debba rinnovare è un atto dovuto anche per il palese fallimento del modello intensivo-industriale che ha dominato l´ultima metà di secolo. Che l´interazione tra produzione di cibo e produzione di energia sia già nelle cose è dimostrato poi da come facilmente molte aziende agricole facciano già le due cose insieme. Il problema è che quando prevalgono la concentrazione, l´inseguimento di presunte economie di scala, l´idea per cui l´agricoltura è come uno qualsiasi dei settori industriali - e risponde alle stesse leggi economico-produttive - cibo ed energia saranno sempre in competizione tra di loro. Non bisogna fare "cibo o energia", ma "cibo e energia". Potremo coltivare gli oceani, i deserti e anche gli altri pianeti, ma senza cambiare il nostro modo di pensare continueremo sempre a risolvere un problema creandone un altro.
Sono sicuro che ci saranno innovazioni importanti in campo energetico, e tecnologie sempre più pulite per sfruttare direttamente o indirettamente l´energia solare (l´unica vera, enorme, sicura, perenne centrale che ci fa piovere addosso, in ogni momento, enormi quantità di energia) con tutte le forme che ne derivano. Ma ci vorrà la consapevolezza che tutto questo andrà realizzato in un sistema complesso che non dovrà più essere governato in maniera centralizzata. Ci vorrà un sistema capillare, diffuso, in cui le comunità e le persone diventano produttrici di cibo ed energia prima di tutto per se stesse e poi per gli altri, in rete tra di loro. È necessaria una democratizzazione della produzione energetico-agricola, con tecnologie accessibili che si diano come obiettivo primario la sostenibilità dei processi e non la possibilità di realizzare speculazioni. Già ora vediamo come biogas e fotovoltaico, che potrebbero essere dei modi perfetti per integrare la produzione agricola a livello aziendale, in nome del profitto e dei grandi numeri possano diventare altamente insostenibili, ponendosi come alternative, e non complementari, a un´agricoltura che così com´è risulterà sempre perdente, siccome non riesce più a generare entrate dignitose per i contadini. Per garantire il futuro non sarà tanto questione di quali tecnologie ci inventeremo, ma piuttosto in quale paradigma le vorremo calare.
Dopo avere perseguito a lungo una visione che vede nell'aumento della produzione di cibo la condizione per alleviare la fame, la Fao affronta un necessario rinnovamento. Seguendo forse, finalmente, le indicazioni di studiosi come Wolfgang Sachs o Annette Desmarais
Ai vari organismi internazionali che si occupano di politiche agricole e alimentari Silvia Pérez-Vitoria nel suo Il ritorno dei contadini, non aveva risparmiato critiche anche molto aspre. Ma tra questi, la Fao (l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura) si era meritata l'attacco più duro, perché ancorata a quella visione produttivista contestata aspramente anche nell'ultimo saggio dell'economista franco-spagnola, La risposta dei contadini (vedi articolo in basso).
Se le critiche alla Fao non sono dunque una novità, più recente è invece la piena e diffusa consapevolezza che questo organismo, istituito formalmente il 16 ottobre 1945 in Québec, abbia bisogno di una profonda rifondazione. Ne è consapevole il brasiliano José Graziano da Silva, che dal prossimo gennaio assumerà la carica di direttore generale, e che, appena eletto, ha sostenuto di voler «condurre a una conclusione soddisfacente» il processo di riforma della Fao. E ne sono consapevoli tutti i suoi dipendenti, soprattutto dopo la pubblicazione, nell'ottobre 2007, del rapporto Fao. The Challenge of Renewal («Fao. La sfida del rinnovamento»), commissionato due anni prima dalla Conferenza della Fao (il più alto organo politico dell'organizzazione) a un'agenzia di valutazione esterna e indipendente.
Prospettive obsolete
Primo di questo genere, il rapporto riconosce apertamente i limiti di un'organizzazione «in profonda crisi finanziaria e programmatica», viziata da «una burocrazia pesante e costosa», che la rende «conservatrice e lenta ad adattarsi e a distinguere le aree di genuina priorità da quelle che sono le ultime tendenze», e invoca una nuova cornice strategica per un ente ridotto «a una forma istituzionale di vita assistita».
Anche il più recente rapporto redatto dal Britain's Department for International Development non risparmia critiche a un organismo che, per essere trasformato in «una istituzione moderna trasparente e responsiva, particolarmente al livello nazionale», avrebbe «bisogno di un profondo cambiamento culturale...». In effetti, prima ancora che alla vulnerabilità istituzionale e finanziaria e alla difficoltà di agire all'interno di un'architettura internazionale tutt'altro che sistemica, i limiti della Fao sembrano rimandare innanzitutto alla sclerotizzazione culturale denunciata da Silvia Pérez-Vitoria: la Fao ha perseguito a lungo, e continua a perseguire, una visione che è stata definita econometrica e tecnologica, basata su una concezione quantitativa dello sviluppo, che si è tradotta nell'invito ad abbandonare «le tecniche agricole tradizionali giudicate arcaiche e poco produttive» in favore della modernizzazione agricola.
False equivalenze
È, questa, una prospettiva analizzata criticamente già da Soulaïmane Soudjay nel suo La Fao (L'Harmattan 1996) e più di recente, nel saggio La Via Campesina (Jaca Book 2009), da Annette Desmarais, che critica l'idea di «estendere i benefici dello sviluppo mediante programmi di miglioramento tecnologico e attraverso l'aumento della produttività e della produzione». Un'idea - quella che «aumentare la produzione di cibo sia una condizione sufficiente per ottenere la sicurezza alimentare», giudicata parziale persino nel già citato rapporto interno commissionato dalla Conferenza della Fao.
Sta proprio qui, dunque, il vizio di fondo, ideologico, delle politiche della Fao: l'incapacità di sottrarsi al paradigma «sviluppista», quel veicolo concettuale della monocultura economicistica che, ci ha insegnato Wolfgang Sachs con il suo Dizionario dello sviluppo (Gruppo Abele 1998), pur avendo subito nel tempo una tornata di inflazione concettuale, non ha smesso di orientare politiche pubbliche e immaginari simbolico-culturali, da quando il presidente americano Henry Truman se ne fece portavoce, nel discorso inaugurale al Congresso degli Stati Uniti del 20 gennaio 1949.
Si tratta di quel paradigma che per tutto il Novecento ha contribuito a naturalizzare l'equivalenza tra crescita economica e giustizia sociale, in base all'assunto che il progresso e la crescita potessero di per sé risolvere le disuguaglianze sociali, sostituendo o rendendo meno rilevanti le politiche redistributive. In questi termini, così come in ambito economico è prevalsa l'idea - quasi monopolistica nel secolo scorso - che «l'espansione della torta economica (crescita del Pil) rappresentasse il modo migliore per alleviare i confitti economici distributivi tra gruppi sociali» (J. Martinez Alier, L'ecologia dei poveri Jaca Book 2009), allo stesso modo, nell'ambito delle politiche agro-alimentari elaborate dal principale organismo delle Nazioni Unite in materia, è prevalso quel modello culturale che «percepisce ancora l'industrializzazione come progresso associandolo ai falsi concetti della produttività e dell'efficienza» (Vandana Shiva, Il ritorno della terra, Fazi 2009).
La morte in vita
La Fao ha sposato la logica economica prevalente, anche quando se ne è dissociata apertamente, senza accorgersi - ha sostenuto Jean Ziegler, già special rapporteur delle Nazioni Unite sul diritto al cibo, in Dalla parte dei deboli, Marco Tropea 2004 - che «puntare in modo circoscritto sull'aumento della produzione non può alleviare la fame perché non altera la distribuzione di potere economico - altamente concentrata - che determina chi può comprare cibo in eccesso». Senza riconoscere quindi la tautologia che sta a fondamento del sistema alimentare moderno, un sistema che «crea la povertà proprio mentre favorisce l'abbondanza di cibo, determina fame e malattie tramite i suoi meccanismi di produzione e distribuzione», come scrive Raj Patel ne I padroni del cibo (Feltrinelli).
I problemi del cibo, la fame, non derivano dalla scarsa produttività dei contadini e dei piccoli agricoltori, dal loro presunto «ritardo» rispetto ai «progressi» dell'agricoltura industrializzata, ma sono l'esito di processi di esclusione, come autorevolmente segnalava già diversi anni fa il medico e attivista brasiliano Josué de Castro, tra i fondatori della Fao e suo direttore dal 1951 al 1955, in Geografia della fame: «Fame significa esclusione. Esclusione dalla terra, dal lavoro, dalla paga, dal reddito, dalla vita e dalla cittadinanza. Se una persona arriva al punto di non aver nulla da mangiare, è perché tutto il resto le è stato negato. È una forma moderna di esilio. Di morte durante la vita».