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Intervista a Naomi Klein. «Se permetteremo la crescita delle temperature, non dovremo fare i conti solo con un clima estremo, ma anche con un mondo più estremo». Il manifesto, 15 dicembre 2015


Abbiamo incontrato la giornalista e attivista canadese Naomi Klein a Parigi, all’indomani dell’approvazione dell’accordo intergovernativo, sottoscritto alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici Cop21.

Come valuti gli esiti di due settimane di negoziati.


«Credo che oggi siamo arrivati a un momento chiarificatore. Non siamo venuti qui a pregare i leader di salvare il mondo, perché abbiamo gli occhi ben aperti e sappiamo che ciò che hanno portato al tavolo dei negoziati non ci condurrà ad alcuna soluzione definitiva. C’è ancora un’enorme distanza tra quello che tutti dicono si dovrebbe fare per abbassare le emissioni e per mantenere le temperature al di sotto dell’incremento di un grado e mezzo, da una parte, e quello che sono effettivamente disposti a fare, e il modo in cui si intende procedere, dall’altra. Versione dopo versione, fino al testo finale dell’accordo, non vi è nulla di decisivo sui combustibili fossili, rispetto alla necessità di lasciare nel sottosuolo gran parte delle riserve esistenti di carbone, petrolio e gas naturale. Ma la gente che ha riempito le piazze, qui a Parigi, non si sta piangendo addosso, non è disperata. Siamo invece ben consapevoli che dobbiamo lavorare ancora più duramente. E dobbiamo essere noi a fare quello che i politici non vogliono fare.

Nonostante la situazione creatasi dopo le stragi del 13 novembre, decine di migliaia di persone, dalla Francia e dal Nord Europa, con significative presenze dal Sud del mondo e dal Nord America, hanno reso sabato evidente l’esistenza di un movimento planetario per la “giustizia climatica”, forse oggi l’unico movimento sociale di scala globale. Come può riuscire a essere davvero incisivo?


«Dobbiamo accrescere la nostra forza. E come si possa fare, per riuscire a condizionare le scelte delle multinazionali, l’abbiamo già visto: per le strade, nelle foreste, sui mari. Come gli attivisti in kayak che hanno circondato le piattaforme petrolifere della Shell, costringendola a cessare le trivellazioni in Artico e in Alaska, per non vedere la propria immagina rovinata. O nel caso dell’oleodotto Keystone XL, e di tutte le pipe-line legate all’industria estrattiva delle «sabbie bituminose», ogni singolo tratto ha dovuto fare i conti con le forti proteste di ogni singola comunità locale. A partire da queste esperienze, dobbiamo essere capaci di creare coalizioni sempre più ampie, di cambiare il modo con cui l’attivismo si presenta all’esterno, di esprimere la stessa varietà e diversità che si vede nelle nostre città e territori. Lo sapevamo anche prima, ma ora è più chiaro: non abbiamo dei leader che agiranno per l’ambiente, dobbiamo farlo noi in prima persona.

«La leadership deve venire dal basso, dalle comunità. Praticando azioni dirette. Azioni che devono diventare visibili, nei mercati finanziari e nei tribunali: disinvestire nelle aziende che estraggono combustibili fossili, farli apparire investimenti rischiosi, denunciare le bugie e la disonestà di corporation come la Exxon, portarle davanti ai giudici, dimostrando che conoscevano gli effetti del cambiamento climatico e che hanno mentito di proposito. Dobbiamo cambiare la dinamica, indebolendo il potere degli interessi che stiamo combattendo».

Parigi è stato lo scenario su cui si sono confrontate le scelte politiche dei governi nazionali, il ruolo giocato dalla grandi imprese impegnate, a suon di sponsorizzazioni (penso al ruolo di Total e dell’italiana Eni, contestate da una riuscita protesta all’interno del Louvre), a rifarsi un’immagine “verde”, e l’azione dei movimenti. Con quale bilancio?

«Le ultime due settimane ci hanno offerto proprio lo scontro con quelle «soluzioni», offerte dalle multinazionali, che non sono affatto soluzioni. E che non avranno alcun effetto reale sulle emissioni. Continueranno invece ad arricchire le élite esistenti, le stesse che commerciano sementi ogm, l’industria nucleare, petrolifera. E anche qui hanno usato Le Bourget come il loro megafono, mentre il governo francese ha cercato di imbavagliare chi proponeva soluzioni diverse, come chi si batte per la giustizia energetica, un’agricoltura ecologica e il trasporto pubblico, la proprietà e il controllo delle comunità sulle fonti di energia rinnovabili. Invece abbiamo sentito parlare Bill Gates e Richard Branson, mentre mettevano il bavaglio alle proteste.

«Non è servito a niente, perché le persone erano determinate a scendere in piazza comunque. Il governo francese ha capito che non poteva sostenere politicamente questa scelta. E che scontri con la polizia nell’ultimo giorno di Cop 21 sarebbero stati un disastro per la propria immagine. Per questo, qui a Parigi, hanno dovuto sospendere loro malgrado il divieto a manifestare. E, probabilmente, chiudere al traffico una strada piena di negozi in un sabato pomeriggio pre-natalizio ha fatto di più per la riduzione delle emissioni, di quanto non abbiano realizzato loro alla Conferenza».

Ci viene detto che siamo in uno «stato di guerra», stiamo forse entrando in un periodo di guerre per il clima?

Il cambiamento climatico ha già contributo a innescare la guerra civile in Siria, che aveva appena sperimentato la più terribile siccità della sua storia recente, con conseguente carestia che ha prodotto migrazioni interne, che hanno coinvolto quasi due milioni di persone. E quando c’è scarsità di risorse si creano inevitabilmente nuove tensioni, che sono andate a sommarsi ai conflitti già esistenti in quella regione, causati a loro volta storicamente dalla lotta per impadronirsi delle risorse energetiche. Si crea perciò un effetto a tenaglia: da un lato l’effetto destabilizzante della caccia ai combustibili fossili, dall’altro gli effetti destabilizzanti prodotti dall’utilizzo di quegli stessi combustibili.

«Quando parliamo di cambiamenti climatici, questi provocano non solo un clima più caldo o l’innalzamento del livello dei mari: provocano anche un’epoca più crudele.

«Una situazione di scarsità come questa non può che creare ulteriori conflitti. Ricordiamo perciò sempre che, se permetteremo la continua crescita delle temperature, non dovremo fare i conti solo con un clima estremo, ma anche con un mondo più estremo».

Si ringraziano per la collaborazione Niccolò Milanese di European Alternatives, Marica Di Pierri di A Sud e Barbara Del Mercato di «Venezia in comune»

La cronaca di Anna Maria Merlo e il commento di Giuseppe Onufrio. Finalmente qualcosa è cambiato. Prodotto di altri cambiamenti e spinte. Il manifesto, 13 dicembre 2015

COP21: C’È L’ACCORDO.
E’ STORICO?

di Anna Maria Merlo
Riscaldamento climatico. Suspense fino all'ultimo. Approvato un testo che fa dei passi avanti e ha vari difetti. Importante perché è un accordo multilaterale e le mentalità stanno cambiando. Adesso ci saranno le ratifiche degli stati. Un successo per la presidenza francese»

Suspense fino all’ultimo, poi un colpo di martello di Laurent Fabius e di Christiana Figueres dell’Onu alle 19,28, la Tour Eiffel scatenata con lampi di luce: l’accordo di Parigi della Cop21 è approvato. Una “svolta storica”, come afferma Fabius, presidente della Cop21, che parla di accordo “giusto, durevole, dinamico, equilibrato, giuridicamente vincolante”? Addirittura “un messaggio di vita”, come lo ha definito François Hollande dopo un riferimento alla “Francia straziata” dagli attentati? Un compromesso con delle pecche, come ha affermato Kumi Naidoo di Greenpeace, che vede “un accordo che mette le energie fossili nella parte sbagliata della storia”, ma “non risponde alla domanda: come arriveremo a realizzare gli obiettivi”? Un testo che non fornisce “nessuna garanzia di sostegno per i più colpiti dall’impatto del climate change”, come ha commentato Tasneem Essop del Wwf? Una delusione, come affermano molti militanti che hanno manifestato ieri a Parigi, che non fermerà il riscaldamento climatico che corre verso +3° al minimo? “Polvere negli occhi”, nel giudizio degli Amis de la Terre? Comunque, come afferma l’ambasciatore del clima Nicola Hulot, la mobilitazione è stata tale che “più nulla la fermerà”.

Dopo due settimane estenuanti, con varie notti bianche, un testo di accordo di 31 pagine e 29 articoli è stato presentato ieri mattina ai delegati, dal ministro Laurent Fabius, con la voce ad un certo punto rotta da un quasi-singhiozzo. La prova, in negativo, che il testo ha un certo peso è venuta ieri pomeriggio: la seduta plenaria per arrivare all’approvazione, che avviene per consenso, che doveva aver luogo alle 15,30 è stata rimandata di varie ore. Fino a sera, ancora chiarimenti su alcuni punti, soprattutto una perplessità Usa (su un “shall” legato ai “targets” dei paesi sviluppati all’art.4.4) per timore di dover passare di fronte al Congresso. L’iter prevede l’adozione da parte dei 195 paesi della Cop21 (più la Ue) durante il 2016. L’accordo sarà operativo quando verrà approvato da almeno 55 paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas a effetto serra, per entrare in vigore nel 2020, alla scadenza del Protocollo di Kyoto, ormai moribondo. “Siamo quasi alla fine della strada, senza alcun dubbio all’inizio di un’altra”, ha riassunto Fabius. “Bisogna finire il lavoro”, ha insistito ieri mattina il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. Le forti tensioni che hanno accompagnato il consenso mostrano un aspetto che non è scritto nero su bianco nel testo: non tutti usciranno vincenti dalla lotta al riscaldamento climatico, è tutto un modello economico che deve essere messo in causa.

«La Francia vi scongiura di accettare il primo accordo universale sul clima», ha chiesto François Hollande, che attende anche ricadute interne di un successo internazionale. La principale qualità dell’accordo è di essere “universale”, cioè un’intesa multilaterale, importante e in contro-tendenza in un periodo di guerre e di divisioni. La Francia ha difatti legato la lotta contro il disordine climatico alla pace. La principale qualità dell’accordo è “di aver svegliato le coscienze”, riassume un militante ecologista presente alla catena umana al Champs de Mars ieri pomeriggio. Tra le mancanze, l’assenza di riferimento ai diritti umani, all’uguaglianza di genere, ai diritti delle popolazioni indigene, alla sicurezza alimentare.

Il testo è un compromesso a 195 e ha tutte le qualità e tutti i difetti di un’operazione diplomatica. “L’accordo non sarà un successo per nessuno se ognuno lo legge alla luce dei propri interessi”, ha avvertito Hollande, facendo riferimento al fallimento di Copenaghen nel 2009. “Il progetto conferma il nostro obiettivo centrale, vitale, di contenere l’aumento della temperatura media ben al di sotto dei 2° e di sforzarsi di limitare l’aumento a 1,5°” ha riassunto Fabius. Nel testo non c’è nessuna cifra precisa sulla percentuale di gas a effetto serra che dovrà diminuire: solo un impegno all’”equilibrio” nella seconda metà del secolo. Sarà la responsabilità degli stati, in 185 hanno preso degli impegni presentando ognuno i propri Indc (Intended Nationally Determined Contributions). Il problema è che, sommando queste promesse, non verrà rispettato l’impegno dei 2° (tanto meno, quindi, di 1,5°), ma il riscaldamento climatico salirà di 3°, se non di più. Il testo è detto “giuridicamente vincolante”: ma non ci sono sanzioni per chi non rispetta gli impegni e l’Onu non ha gli strumenti per farli rispettare. Questo “vincolo” significa in sostanza che ogni paese decide per se stesso sugli sforzi di riduzione di gas a effetto serra. Un meccanismo che diventerà un po’ più impositivo con la “trasparenza” sulle azioni intraprese: ma alcuni paesi emergenti, Cina e India in testa, rifiutano di sottomettersi agli stessi controlli del Nord sul loro operato.

Nel testo finale si istituisce la “revisione” degli impegni, “ogni 5 anni” e “al rialzo”. Per il momento, la prima “revisione” è prevista per il 2025, con un “bilancio” nel 2023. Una cinquantina di paesi (dove c’è la Ue) si sono riuniti in una “grande coalizione” per chiedere un’anticipazione dei tempi della revisione. C’è un’attenzione per le foreste, mentre gli oceani sono assenti, che pure sono i principali ricettori di Co2.

Il testo accoglie la “differenziazione” delle responsabilità, cioè il Nord deve agire con maggiore forza del Sud del mondo. Ma l’accordo resta nel vago, non ci sono precisazioni con delle cifre al riferimento, comunque un passo avanti, alla “necessaria cooperazione su perdite e danni”, a favore dei paesi più colpiti e più poveri. “E’ un accordo dove gli interessi dei più poveri, in particolare l’adattamento (all’impatto del climate change) non è sufficientemente preso in conto – osserva Tim Gore di Oxfam – abbiamo la nozione di perdite e danni, ma non ci sono le compensazioni, non ci sono sufficienti garanzie che i finanziamenti per l’adattamento proseguiranno dopo il 2025, mentre sappiamo che i costi del climate change continueranno a crescere”. Stessa preoccupazione per Samantha Smith del Wwf: “non c’è garanzia di assistenza per i paesi più vulnerabili per adattarsi al climate change”. Non viene detto niente di preciso sui trasferimenti di tecnologia, che il Sud e in particolare il gruppo Like Minded Developing Countries (Cina, India, Argentina, Cuba, Egitto) aspetta, mentre il Nord frena. Nel corpo centrale dell’accordo non c’è il riferimento ai 100 miliardi di dollari l’anno, promessi dal Nord al Sud del mondo a Copenaghen. Questa cifra è relegata in Allegato (su richiesta Usa, cosi’ Obama evita di dover far votare il Congresso, che è dominato dai Repubblicani con una forte presenza di negazionisti del clima), ma definita un “minimo”.

I paesi petroliferi hanno tolto dal testo la parte sul prezzo del carbonio. Si tratta di una tassa, che viene decisa a livello nazionale o per gruppi di paesi. Secondo Bill McKibben, co-fondatore dell’ong 350​.org, “adesso tutti i governi sembrano riconoscere che l’era delle energie fossili deve finire in fretta. Ma la potenza dell’industria fossile trasuda dal testo. La transizione è talmente ritardata, che nel frattempo avranno luogo immensi guasti climatici, perché adesso la questione cruciale è il ritmo, i militanti devono raddoppiare gli sforzi per indebolire questa industria”. Ma in questo periodo il calo del prezzo del petrolio soddisfa i consumatori, che pagano meno la benzina. Una contraddizione tra le tante. Nel testo mancano cifre precise sulle energie rinnovabili. “Conosciamo la strada più breve per andare verso 1,5° di riscaldamento – spiega Jean-François Juillard, direttore di Greenpeace France – passa per la conversione alle energie rinnovabili. Se Parigi deve portare a un punto d’arrivo, l’accordo ci porta fuori dalla strada più corta. Altri protagonisti restano pero’ sulla buona strada”.

CE N'EST QU'UN DEBUT
E ALLORA NON È MALE
di Giovanni Onufrio


A Parigi è successo qualcosa di storico. Anche se il testo approvato dai 195 capi di stato non è quell’accordo vincolante e ambizioso che servirebbe a fermare i cambiamenti climatici al di sotto della soglia dei 2°C — e tantomeno al di sotto di 1,5°C -, comunque mette in moto un processo necessario, anche se non ancora sufficiente, a centrare l’obiettivo.La coalizione, presentata a sorpresa negli ultimi giorni, che riunisce Ue, Usa e Paesi africani, cui si è aggiunto poi il Brasile, porta a casa la citazione dell’obiettivo a 1,5°C (mai rientrato finora in nessun testo).
E porta inoltre a casa un riferimento all’obiettivo di raggiungere emissioni nette nulle nella seconda parte del secolo. Questo secondo obiettivo, vera questione su cui si sono scontrati i diversi interessi in campo, pur scritto in modo non privo di ambiguità (e del resto nessun trattato è del tutto privo di ambiguità) è rilevante.

Infatti, facendo riferimento all’analisi scientifica dell’Ipcc ha però un’implicazione logica: la necessità di eliminare le fonti fossili entro il 2050 e azzerare le altre emissioni entro il 2080, come analizzato dall’Ipcc e sottolineato dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite (Uned) di recente. In questo senso, come ha dichiarato Kumi Naidoo, direttore di Greenpeace International, l’accordo mette dalla parte sbagliata della storia i produttori di fonti fossili.

Sul versante dei contributi finanziari, i 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020 al 2025, che successivamente dovrebbe essere aumentato, non è adeguato alle necessità dei Paesi poveri che pagano e pagheranno i costi più alti dei cambiamenti climatici. Né i riferimenti ai popoli indigeni sono sufficienti, non essendovi un impegno preciso contro la deforestazione, aspetto cruciale per molti di quei popoli.

La Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, principale esito della Conferenza di Rio del 1992, rimane nei fatti l’unico vero tavolo negoziale per tentare una governance globale oggi. Dunque ha a che fare anche con le prospettive di pace su scala globale a medio-lungo termine, e il processo che esce da Parigi può consentire di orientare le politiche pubbliche. Tutto ciò non basterebbe a dare speranza se non avessimo, allo stesso tempo, tecnologie e misure che possono dare una risposta sia ai cambiamenti climatici che a maggiore equità e accesso alle risorse energetiche. Su questo c’è oggi ampia consapevolezza, come testimonia un recente rapporto di Goldman Sachs che identifica quattro tecnologie che, in virtù della loro costante riduzione dei costi, possono cambiare le cose: il solare fotovoltaico, l’eolico a terra, i sistemi di illuminazione Led e i veicoli elettrici. Anche se mobilità sostenibile non significa assolutamente solo auto elettriche, queste ne fanno parte.

Nel motore di un’auto elettrica ci sono una dozzina di pezzi e non quasi duecento come in un motore a benzina o diesel. Il punto cruciale per entrare in modo consistente nel mercato sta nel costo e nell’autonomia delle batterie, e nell’esistenza di una rete di ricarica. I costi delle batterie stanno rapidamente scendendo e al contempo cresce la loro capacità, mentre la rete di ricarica è una infrastruttura da sviluppare ma ampiamente fattibile. Inoltre avere auto che si collegano alla rete per ricaricarsi sarà una componente che potrà interagire utilmente nelle nuove reti intelligenti. Questa evoluzione è tecnologicamente fattibile e vicina, con buona pace di Marchionne.
Un cambio di paradigma energetico è già in corso, pur se variamente ostacolato dagli interessi fossili ancora ben presenti nel mercato e nelle politiche, e l’accordo di Parigi dà un riferimento e consente di accelerare un processo e una direzione. Speriamo il governo Renzi si adegui finalmente, cessando di ostacolare le rinnovabili e promuovendo trivelle in ogni dove.

Come già scritto in queste pagine, di per sé quest’accordo da solo non basta e va considerato un punto di partenza: la partita vera per una grande trasformazione energetica e ambientale dell’economia inizia adesso. E non sarà comunque una partita facile.

L'autore è direttore di Greenpeace Italia

«Il grande convitato di pietra si chiama “mercato” con i suoi meccanismi e le sue mani invisibili. Anche nella bozza di accordo finale viene proposta la frase dove si evidenzia come le misure contro il cambiamento climatico non dovrebbero costituire un mezzo di limitazione del commercio internazionale». Comune.info news letter, 11 dicembre 2015

Si è aperta la seconda settimana di negoziato alla Cop21 di Parigi, la Conferenza delle Parti dell’Onu sul cambiamento climatico. L’Ad Hoc Working Group on the Durban Platform for Enhanced Action (Adp), nato a Durban con l’obiettivo di accompagnare il percorso verso Parigi sia per l’accordo post 2020, sia per gli impegni pre 2020. All’ultima sessione di Bonn nell’ottobre scorso, i due co-chair presentarono un “non paper”, una prima bozza, definita da Cina e G77 come inaccettabile. Sono diversi i punti cardine su cui, nei prossimi giorni, si focalizzerà lo scontro interno alla Cop soprattutto dopo la diffusione della bozza di accordo conclusa il 5 dicembre. Sul significato di “accordo vincolante” si giocherà buona parte delle interpretazioni del post Parigi.

La vera questione è che cosa verrà inserito nell’accordo, soprattutto come Annesso, per definire al meglio i termini della questione. Gli Stati Uniti, da una parte, convergono su un accordo legalmente vincolante che non leghi loro le mani per le proprie politiche di riduzione delle emissioni, ma sono contrari a qualsiasi tipo di impegno su tagli decisi e imposti internazionalmente visto il rischio di un veto del Congresso a maggioranza repubblicana. Per questo ritengono che gli impegni vadano comunicati al Segretariato dell’Unfccc, ma al di fuori della cornice dell’accordo che uscirà.

Una posizione alternativa rispetto a quella di diversi “paesi in via di sviluppo”, che al contrario vorrebbero un Annesso specifico sulla falsariga dell’Annex 1 del protocollo di Kyoto, dove gli impegni siano elencati e resi vincolanti. Semplificando, si potrebbe dire che lo scontro concettuale è tra “Accordo legalmente vincolante” e “Accordo con impegni legalmente vincolanti”. Quanto l’accordo rifletterà una reale volontà di impegno dipenderà da molti fattori, tra cui il reale significato di Responsabilità Comune e Differenziata (Cbdr) e di equità, da cui dipenderà l’effettivo ruolo dei Paesi industrializzati nelle politiche di adattamento (leggi risorse economiche stanziate o mobilizzate per far fronte alla catastrofe ambientale) e di mitigazione negli altri impegni necessari alla lotta al cambiamento climatico.

Mentre i paesi industrializzati tendono a ridimensionare gli Indcss, cioè gli impegni nazionali, al semplice taglio delle emissioni climalteranti, buona parte dei paesi del Sud del Mondo ampliano la lista degli impegni alla questione del finanziamento dell’adattamento, al loss and damage e al trasferimento tecnologico.

In tutto questo, il grande convitato di pietra si chiama “mercato” con i suoi meccanismi e le sue mani invisibili. Anche nella bozza di accordo finale viene proposta la frase già presente nel preambolo della Convenzione quadro, dove si evidenzia come le misure contro il cambiamento climatico non dovrebbero costituire un mezzo di limitazione del commercio internazionale (“Unilateral measures shall not constitute a means of arbitrary or unjustifiable discrimination or a disguised restriction on international trade“), come dire “cambiare tutto per non cambiare nulla”.

Non mettere mano ai meccanismi che permettono al sistema economico di consolidarsi significa non risolvere la questione del cambiamento climatico alla radice. La posizione del parlamento europeo di fine ottobre, che ha chiesto dispositivi per tutelare i risultati dell’accordo di Parigi dall’ingerenza dei mercati e soprattutto dall’invasività dell’Isds, l’arbitrato tra investitori e Stati previsto in trattati come il T-tip, è un sintomo del conflitto di modelli che sta dietro a questo evento. Che rischia, dal prossimo venerdì, di sdoganare definitivamente una goovernance globale dove ciò che è vincolante e sanzionatorio riguarderà commercio ed economia, lasciando nel fumoso mondo del volontariato e della discrezionalità la protezione dei diritti e la tutela dell’ambiente.

«Dilemmi. Ridurre l’inquinamento nei Paesi sviluppati non cambierà praticamente nulla. Il paradosso è che nei Paesi poveri si tutela l’ambiente aumentando l’utilizzo di fonti fossili: meglio bruciare il petrolio che intossicarsi in casa con la legna». Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)

La narrazione ha il sapore del déjà vu. Un rituale che si ripete ogni anno dal 1992. Parliamo della conferenza sul clima che si è aperta da poco a Parigi. Per molti è "l'ultima chance di salvare il Pianeta" (come a Copenhagen nel 2009). Dopo, ha detto il presidente francese François Hollande, «sarà troppo tardi». I numeri ci raccontano però una cosa diversa: stando ad una analisi del Mit, se gli impegni volontari presi dalla maggior parte dei Paesi che partecipano alla conferenza saranno rispettati - e i dubbi sono legittimi non essendo previsti meccanismi sanzionatori per le inadempienze - la riduzione della temperatura del Pianeta al termine di questo secolo sarà dell'ordine dei due decimi di grado. Ma i costi complessivi saranno dell'ordine di centinaia di miliardi di dollari all’anno.

L'aspettativa salvifica nei confronti del summit si aggiunge ai numerosi miti di cui si alimenta il dibattito sui cambiamenti climatici ma che non trovano riscontro negli stessi documenti dell'Ipcc, l'organismo delle Nazioni Unite che di questi cambiamenti si occupa. Al centro dei più recenti negoziati sul clima vi è l'obiettivo di contenere l'aumento di temperatura rispetto ai livelli pre-industriali entro i 2 °C (oggi siamo a circa + 0,9 °C). È questa una soglia da non oltrepassare per nessuna ragione? La scelta sembra essere arbitraria. Nel più recente rapporto dell’Ipcc, le evidenze disponibili sugli impatti dei cambiamenti climatici vengono sintetizzate in un grafico che evidenzia come fino ad un aumento di 2-2,5 °C gli effetti positivi del riscaldamento sono grosso modo equivalenti a quelli negativi.

La ricaduta complessiva di tale aumento di temperatura può essere paragonata a quella di un anno di recessione economica: lo stesso livello di benessere che, in assenza del riscaldamento, sarebbe raggiunto nel 2100, verrebbe raggiunto l'anno successivo. Nel lungo periodo, certo, le conseguenze negative avrebbero il sopravvento. Ma, se guardiamo al presente, il problema ambientale più rilevante è, ancora sulla base dei dati forniti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, quello dell'inquinamento atmosferico all'interno delle abitazioni dei Paesi più poveri. Inquinamento dovuto non all'eccessivo uso, ma alla indisponibilità di fonti fossili, e al ricorso a combustibili "naturali" (legna ecc.). Il problema interessa quasi 3 miliardi di persone, causa 4,3 milioni morti premature per anno, soprattutto bambini (la concentrazione di polveri sottili nelle abitazioni dei Paesi poveri è di circa 1.000 microgrammi/metro cubo, venti volte superiore a quella che si registra nell'atmosfera di una città dell'Europa occidentale). Per costoro un maggior consumo di combustibili fossili avrebbe immediate ricadute positive.

Questo è il dilemma. La riduzione dei consumi dei "ricchi" non potrebbe modificare, se non in misura molto modesta, le emissioni previste per questo secolo. Il peso dell'Europa sul totale della CO2 emessa a livello mondiale è già diminuito dal 20% del 1990 al 10% attuale e si ridurrà al 7% nel 2030. Circa tre quarti delle emissioni nei prossimi decenni verranno da Paesi a basso reddito. Imporre ad essi drastici tagli significa ostacolare quel processo di miglioramento delle condizioni economiche che ha portato negli ultimi tre decenni a straordinari risultati in termini di riduzione della povertà, della mortalità infantile, di incremento della speranza di vita e della capacità di difendersi da eventi climatici estremi. Il benessere è più correlato al reddito che non al clima: Norvegia e Israele sono caratterizzati da climi diversi ma da analoghe condizioni di vita.

Le politiche attuate finora non hanno avuto né purtroppo avranno effetti apprezzabili sull'evoluzione del clima (solo l'1,5% dell'energia mondiale proviene da solare ed eolico). Come sottolinea l'Economist, sarebbe quindi auspicabile una drastica riduzione dei sussidi che i governi destinano a fonti alternative poco efficienti, carbone e prodotti petroliferi (sussidiati in molti Paesi). Una parte delle risorse così risparmiate potrebbe andare ad attività di ricerca nel settore energetico per sviluppare forme di produzione che siano a minor contenuto di carbonio, meno costose e altrettanto affidabili di quelle oggi garantite dalle fonti fossili.

Un prezzo che può valer la pena pagare per evitare un grave rischio che potrebbe emergere nei prossimi secoli. Una strategia ancora diversa è quella auspicata dal premio nobel Paul Krugman e da William Nordhaus, il primo economista ad occuparsi di cambiamenti climatici: concentrarsi sulla fonte principale di emissioni, il carbone, che tuttavia ha il vantaggio di avere ridotti costi di abbattimento delle emissioni. Gli interessi dei due maggiori produttori di carbone, Usa e Cina, rendono questa strada molto difficile. Una “carbon tax” proporzionata alle emissioni, altra strada raccomandata dalla maggior parte degli economisti perché poco manipolabile dagli interessi costituiti, avrebbe tra i suoi effetti positivi anche quello di orientare le tecnologie verso quelle che generano i costi più bassi per ogni tonnellata di inquinamento prodotta.

«L’Africa ora al centro del vertice. Incontro con le leadership africane e i finanziatori. Dalla Banca Mondiale l’"Africa Business Plan": per risanare il Continente (distrutto dalle multinazionali)». Inizia una nuova fase del business neocolonialista? Il manifesto, 2 dicembre 2015, con postilla

Per la prima volta, l’Africa ha un posto centrale nei negoziati di una conferenza internazionale sul clima. Ieri, François Hollande ha presieduto una riunione alla Cop21 con la presenza di una ventina di capi di stato e di governo africani, che hanno incontrato dei potenziali finanziatori. Sul tavolo, dei progetti concreti: a cominciare dalla costruzione di una «grande muraglia verde» per lottare contro la desertificazione, investimenti sul lago Ciad, che dagli anni ’60 a oggi ha perso circa l’80% della sua superficie e per il fiume Niger, il terzo per importanza del continente, che dalla Sierra Leone alla Nigeria attraversa paesi (Guinea, Mali, Niger) in grandi difficoltà e in preda a conflitti. Questo progetto, in evoluzione, prevede ormai la creazione di «sacche» verdi, molto ravvicinate, con rimboscamento della zona, interventi sull’habitat e sulla produzione di energia. Un’Iniziativa africana per le energie rinnovabili completa il quadro discusso ieri.

È stata esplicitamente fatta una connessione tra effetti deleteri del disordine climatico – distruzione delle fonti economiche, pauperizzazione – e la crescita del terrorismo: il Sahel è una delle aree dove la Francia interviene militarmente in questo momento. In prospettiva, 16 miliardi di dollari dovrebbero venire mobilitati per queste iniziative, con fondi pubblici ma anche privati, solo un inizio visto che il piano dell’Unione africana per le energie rinnovabili prevede costi per 250 miliardi complessivi, tra i 12 e i 20 miliardi per un primo passo entro il 2020 (10 gigawatt supplementari dalle rinnovabili). L’Africa «è il continente che soffre di più del disordine climatico – ha affermato il presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim – rispondere a questa sofferenza è una questione di giustizia e una condizione perché la Cop21 sbocchi su un accordo serio».

Hollande ha promesso di raddoppiare i finanziamenti francesi tra il 2016 e il 2020 per sviluppare le energie rinnovabili in Africa, portandoli a 5 miliardi di euro, con almeno un miliardo destinato all’adattamento al cambiamento climatico, il parente povero dell’impegno finanziario (solo il 16% dei fondi mondiali per il clima sono destinati a questo aspetto).

«Oggi sono fiero del mio continente – ha commentato ieri Kumi Naldoo, direttore esecutivo di Greenpeace International, di origine sudafricana – è spesso stato detto che le nazioni africane non hanno la stessa responsabilità storica per agire perché hanno fatto molto poco per causare il problema. Ma oggi si fanno avanti e dimostrano di avere una visione significativa. Gli africani sono sulla linea del fronte del cambiamento climatico. Il piano per sviluppare 300 gigawatt di energie rinnovabili di qui al 2030 è certamente ambizioso. La maggior parte deve venire dal solare e dall’eolico, non dalle grandi dighe. Solo così questa iniziativa avrà un basso impatto energetico per grandi quantità di esseri umani, che non hanno ancora accesso all’elettricità». Per Naldoo, «l’Africa deve diventare il continente dell’energia pulita». In Africa, i due terzi della popolazione – oggi 1,1 miliardi, 2 miliardi nel 2050 – non hanno accesso all’elettricità.

Oggi, il peso dell’Africa nella produzione di gas a effetto serra è inferiore al 4%. La Banca Mondiale ha in programma l’Africa Climate Business Plan, per pilotare nuovi finanziamenti. Al recente vertice Ue-Africa a La Valletta è stato approvato un Fondo d’emergenza per l’Africa di 1,8 miliardi di euro. Anche i paesi del G7 hanno fatto promesse nel giugno scorso.

Adesso bisognerà vedere se si passerà dalle parole ai fatti.

Come ha ricordato il ministro dell’ambiente del Senegal, Abdoulaye Bibi Baldé, «l’obiettivo mondiale dei 2 gradi corrisponde a un aumento reale delle temperature di 3–4 gradi nei paesi costieri dell’Africa, cosa che rischia di causare dei disastri sul piano ecologico. Per questo chiediamo una revisione a 1,5 gradi», richiesta che quasi sicuramente non verrà soddisfatta.

Sul fronte dei finanziamenti, c’è il progetto sostenuto da Bill Gates e altri miliardari (Zuckerberg di Facebook, Jack Ma di Alibaba, l’indiano Ratan Tata, Branson di Virgin, Jeff Bezos di Amazon ecc.) per una Breaktrough Energy Coalition (Coalizione per un’energia di rottura) per coinvolgere gli investimenti privati, far saltare quello che Gates chiama «il muro della morte» e arrivare rendere le energie rinnovabili accessibili a tutti.

Ieri, Obama si detto «ottimista», «riusciremo», sulla Cop21. Sono in corso le riunioni tematiche, tra i 7mila negoziatori presenti al Bourget, in rappresentanza di 196 paesi. Questa fase dovrebbe concludersi sabato 5 dicembre, con la presentazione di un testo – le 55 pagine dell’ultima redazione dell’accordo, ancora piene di parentesi quadre, cioè di punti controversi – al ministro Laurent Fabius. Poi ci sarà la «fase ministeriale» di analisi del testo proposto, fino al 9 dicembre.

Due giorni verranno dati agli stati per studiare nei dettagli le implicazioni giuridiche del testo, nella speranza che venerdi’ 11 dicembre venga firmato un accordo generale.

postilla
Invece di impegnarsi a esportare in Africa le energie rinnovabili servirebbe che: (1) smettessero di esportare i modelli nostrani del primo mondo: di vita, di consumo, di organizzazione degli insediamenti, follemente energivoro; (2) promuovessero le pratiche di impiego saggio e durevole delle risorse naturali proprio di numerose culture africane; (3) oltre, e forse prima, di rendere più largamente utilizzabile l'energia elettrica si preoccupassero di garantire l'accesso all'acqua potabile e lo smaltimento dei rifiuti.

«Il fondatore della rete Slow Food, intervistato da Rachele Gonnelli, lancia l’appello online: "Non Mangiamoci il Clima". È grave - per Carlo Petrini - che il paradigma del summit sia legato al business. L’unico che parla di biodiversità è il papa». Il manifesto, 29 novembre 2015

«Non si comincia mica bene». Il vertice dell’Onu sul clima a Parigi non è ancora cominciato e Carlin Petrini, fondatore di Slow Food e eco-gastronomo di fama internazionale, è preoccupato.

Perché non si comincia bene?

«Nelle 54 pagine del testo che apre i lavori non c’è la parola “agricoltura”, neanche una volta, non si cita mai il problema della biodiversità. È una carenza grave perché si tagliano fuori miliardi di persone e poi segnala un errore di impostazione. Perché agricoltura significa cibo, economia locale, significa sovranità alimentare dei popoli.

«L’agricoltura è insieme vittima del cambiamento climatico, e anche, in parte, corresponsabile del problema. È vittima in quanto ogni aumento di un grado della temperatura media determina uno spostamento delle coltivazioni di 150 chilometri verso il nord geografico e di 150 metri più in alto. Questo slittamento vuol dire perdita di prodotti in aree tipiche, distruzione di zone rurali, impoverimento di intere comunità e conseguente migrazione delle popolazioni che non riescono più a vivere dove vivevano un tempo.

«Nello stesso tempo l’agricoltura, per come si è andata configurando negli ultimi cinquant’anni, ha incorporato lo spirito e il senso dell’economia industriale, è diventata per la maggior parte un’agricoltura che mira al massimo profitto a una produzione massiva che non ha a cuore la difesa della natura e la salvaguardia delle risorse della terra.

«L’agricoltura intensiva insieme all’allevamento industriale sono responsabili del 70% del consumo di risorse idriche e la zootecnia da sola della produzione del 14% delle emissioni di gas serra. Sappiamo quanto siano disastrosi questi allevamenti, non solo per il benessere degli animali, ma anche per l’impatto che hanno sull’ambiente. Il modello che intensifica le produzioni non rispettando i ritmi naturali , le stagioni, i raccolti, è lo stesso che ci porta sulla tavola ogni giorno qualsiasi tipo di cibo, anche dal più sperduto buco del mondo, come fosse una cosa normale».

Come se non avesse un costo sociale, un ultra-prezzo? Non ci siamo un po’ abituati a tutto questo? ( pioggia autunnale come un monsone, pesci tropicali nel Mediterraneo, insetti e piante di altri climi).

«Sì, come ci hanno abituati a considerare normale che il 35% del cibo prodotto venga buttato, uno spreco che equivale alla distruzione delle colture di 1,4 miliardi di ettari di terra. Coltivazioni che hanno prodotto emissioni nocive. Perciò bisogna cambiare logica rispetto al mantra che ci impone solo di consumare, consumare, consumare.

Nell’agenda del summit di Parigi ci saranno anche gli incontri dell’Ifad, l’agenzia dell’Onu che chiede investimenti a vantaggio dei piccoli agricoltori per combattere la desertificazione, Slow Food può farsi sentire lì?

«Abbiamo con l’Ifad una partnership diretta. Quando organizziamo, annualmente, Terra Madre partecipa sia l’Ifad sia la Fao. Aggiungo che un mese fa al meeting Terra Madre indigenous abbiamo radunato 145 comunità indigene di 40 paesi del mondo. Anche da lì è nato il nostro appello “Non mangiamoci il clima” che rivolgiamo ai governi riuniti a Parigi.

«L’appello è già sottoscritto da centinaia di associazioni e movimenti e ora sul sito www .slowfood .it attende la firma dei cittadini. Penso che la presenza operativa della società civile si debba far sentire, adesso o mai più. Non è possibile che Cop21 parta dando per scontato che, se va bene, il pianeta si surriscalderà di 2 gradi. Se poi i limiti di emissione dei gas serra, come sembra, non saranno vincolanti, non so dove si andrà a finire».

Se invece che di biodiversità e land grabbing, si parlerà soprattutto di agrofuel e carbon markets, non è perché le grandi company del nucleare, dell’acqua, delle auto nel voler “dare il loro contributo alla causa ecologica” stanno facendo lobby? L’ong Transnational institute dice che sono loro ad aver sostenuto come sponsor il 20% delle spese del summit.

Non mi stupisce. Già sei-sette mesi fa avevamo segnalato come certe sponsorizzazioni di multinazionali non fossero un buon segnale. Ma sono i governi che devono prendere le decisioni, a loro ci dobbiamo rivolgere.

Lo slogan dei movimenti che saranno in piazza oggi è “system change not climate change”. D’accordo? Si deve cambiare sistema?

«Non c’è ombra di dubbio. Bisogna cambiare paradigma, dico io. Si deve capire che le cattive pratiche, basate solo sul business, generano iniquità e sconquassi ambientali. Bisogna anche capire che si tratta di cambiare stile di vita. Ora sappiamo tutti dell’allarme dell’Oms sull’eccessivo consumo di carne. Ma si deve anche sapere che se in Europa il consumo medio pro capite in un anno è 100 chili e negli Usa 125 chili, non si può chiedere agli africani, che ne consumano in media 5 chili l’anno, di ridurlo perché inquina.

«Il ragionamento deve essere: contrazione per che chi consuma troppo e convergenza per chi non ne ha a sufficienza. Questa è una vera governance mondiale. Ma attualmente l’unico capo di Stato che sostiene un paradigma di equità e sostenibilità è il pontefice romano. L’enciclica Laudato Si è un documento straordinario di riflessione sul cibo, la biodiversità, la povertà, su come tutto sia connesso».

Per una governance mondiale ecologica non servirebbe, come in Bolivia, una sorta di tribunale dell’Aja per i reati ambientali?
Può essere una via. La scorsa settimana in Brasile c’è stato un immane disastro ambientale e i responsabili non sono punibili in base alla legge brasiliana. Non lo sarebbero stati fino a vent’anni fa neanche in Italia.

«In Italia ancora manca una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sempre più invasi dalla cementificazione. Se continuiamo così oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento».

«Fondamentale, oggi più di ieri, operare una forte pressione popolare sui governi che a Parigi avranno la responsabilità di decidere del futuro dell’umanità ed è per questo che il 29 novembre è stata indetta una marcia mondiale per il clima». Il manifesto, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

A pochi giorni dagli attentati terroristici di Parigi, Beirut, Bamako e Tunisit la Francia ospiterà la COP21, la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima.

Non sarà facile raggiungere un accordo vincolante per limitare il riscaldamento climatico globale sotto i 2°C o opporsi al modello «dell’iperproduzione e dell’iperconsumo» quando la Francia e l’Occidente sembrano accecati dall’odio e parlano esclusivamente il linguaggio della vendetta. Quando il socialista Hollande chiama l’intera Europa, l’occidente e i suoi alleati ad una nuova guerra infinita ed intanto vieta tutte le manifestazioni pubbliche, vara leggi speciali e lo stato di emergenza, sospende le democrazia o quando il capo del governo francese, Valls, annuncia possibili attacchi chimici, contribuendo ad alimentare la paura che ci spinge a modificare i nostri stili di vita, ad abbandonare «lo spazio pubblico» e rinchiuderci ulteriormente nel privato.

Il clima di terrore nel quale siamo precipitati aumenta il rischio di fallimento della Conferenza di Parigi. D’altronde, già prima che le spese finanziarie per pagare eserciti e guerre fossero escluse dal patto di stabilità, così come approvato pochi giorni orsono dalla Commissione Ue, gli impegni finanziari erano molto al di sotto dei 100 miliardi necessari, come le misure concrete per ridurre le emissioni di gas serra e la dipendenza dai combustibili fossili e dal nucleare, che sono tra le cause principali delle innumerevoli guerre oramai giunte nel cuore dell’Europa, e che ancor oggi godono di 5 volte i sussidi pubblici rispetto alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica. Infatti, nel 2013 Gran Bretagna, Germania, Italia, Giappone e Francia hanno bruciato il 13% di carbone in più rispetto al 2009. Me la Spagna di Rajoy mette addirittura una tassa sull’energia solare evidenziando una vera volontà politica per non far decollare le rinnovabili.

In Italia Renzi autorizza le trivellazioni contro la volontà di intere comunità. Ennesimo atto di arroganza del governo, che si presenterà alla conferenza di Parigi portando in dote questo regalo fatto alle multinazionali del petrolio, a cui si aggiungono i continui colpi inferti alle rinnovabili.

Se si superassero i 2°C di aumento della temperatura il livello del mare aumenterebbe di 5 metri entro il 2065, con un aumento di 4°C sarebbero a rischio i paesi del Mediterraneo, Nord Africa, Medio Oriente e America Latina. Se a questo aggiungiamo altre variabili, quali le guerre per l’accaparramento delle risorse naturali, il consumo di suolo, la carenza di risorse idriche, la cementificazione dei territori, le pratiche di «land grabbing», le conseguenze sulla parte più indifesa delle popolazioni potrebbero essere enormi, tanto da provocare una vera e propria crisi umanitaria. Centinaia di milioni di profughi in prospettiva.

Diventa, dunque, fondamentale, oggi più di ieri, operare una forte pressione popolare sui governi che a Parigi avranno la responsabilità di decidere del futuro dell’umanità ed è per questo che il 29 novembre è stata indetta una marcia mondiale per il clima. In tante capitali del mondo i movimenti e la società civile scenderanno in piazza per far sentire la voce dei popoli, per ridurre il riscaldamento climatico sotto l’1,5°C, per un modello alternativo al neoliberismo, per la difesa dei beni comuni, contro il terrorismo, contro le guerre, contro il razzismo e per la libera circolazione dei migranti, contro le politiche securitarie e il drastico restringimento delle libertà collettive e individuali.
È giunto il momento di contribuire, ognuno per la propria parte, alla ricostituzione di un movimento capace di coniugare le battaglie globali sul clima e la giustizia ambientale e le azioni a difesa del territorio e la giustizia sociale.

Non c’è un gran clima in giro per il mondo ed ecco perché il 29 Novembre i movimenti e le associazioni italiane scenderanno in piazza a Roma — alle 14 da Campo de’ Fiori ai Fori Imperiali — per il clima e per la pace, facciamo sì che questa giornata segni l’inizio di un nuovo e inedito protagonismo della società civile italiana!

«L’agricoltura e l’allevamento sono i più grandi utilizzatori di acqua dolce, Per questo abbiamo diffuso il manifesto “Non mangiamoci il clima”. La Repubblica, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

Che cosa c’entra il clima con la coltivazione della terra e con il nostro cibo quotidiano? Alcuni numeri possono dare una prima risposta. Su scala mondiale, l’agricoltura e l’allevamento sono i più grandi utilizzatori di acqua dolce, consumando il 70% delle risorse idriche disponibili. I fertilizzanti a base di azoto rappresentano il 38% delle emissioni dell’agroalimentare. Allevamenti industriali sempre più grandi producono grandi quantità di deiezioni, creando problemi di inquinamento e smaltimento; il mangime arriva da monocolture intensive, spesso lontane centinaia o migliaia di chilometri, e causa di deforestazione. Il settore zootecnico - di conseguenza - è responsabile del 14% dei gas serra.

Eppure, nel dibattito mondiale sul clima (in vista dell’appuntamento di Parigi, dove si incontreranno i governi di tutto il mondo per tentare di trovare un accordo, dopo oltre 20 anni di dibattiti, mediazioni e forum fallimentari) il settore dell’agricoltura è relegato ai margini. Nelle 54 pagine del testo dei negoziati, non compaiono nemmeno una volta i termini “agricoltura”, “biodiversità” e “coltivazione”. L’attenzione si concentra sui settori dell’energia, dell’industria pesante, dei trasporti; si parla anche di suolo e di sicurezza alimentare, ma non si riconosce in modo esplicito il ruolo centrale del rapporto diretto fra clima, coltivazione della terra e cibo.
La produzione del cibo, in realtà, rappresenta una delle principali cause e una delle prime vittime del cambiamento climatico. Le siccità sempre più frequenti, le inondazioni e il caldo estremo condizionano ogni produzione, sia vegetale sia animale. L’aumento di 1°C della temperatura media equivale a uno spostamento delle colture 150 chilometri più a nord e 150 metri più in alto. La biodiversità sta registrando livelli di erosione che non si erano mai verificati in passato. Secondo la Fao, negli ultimi 70 anni abbiamo perso i tre quarti dell’agrobiodiversità che i contadini avevano selezionato nei 10.000 anni precedenti.
Ogni giorno, milioni di persone perdono terra, fonti d’acqua, cibo, e rischiano di trasformarsi in veri e propri profughi climatici. Secondo un rapporto della Banca Mondiale le conseguenze del cambiamento climatico potrebbero portare alla povertà oltre 100 milioni di persone entro il 2030. E queste comunità si trovano nelle regioni più svantaggiate del pianeta. In gioco, quindi, c’è anche la giustizia sociale. L’equilibrio fra uomo e natura si è rotto quando abbiamo iniziato a gestire le fattorie come industrie. L’industria non tollera i tempi della natura.
L’agricoltura industriale è nata dopo la seconda guerra mondiale per riconvertire l’industria bellica. Il nitrato di ammonio, principale ingrediente degli esplosivi, era infatti anche un’ottima materia prima per produrre i fertilizzanti, che hanno affiancato i fosfati minerali, introdotti in agricoltura 150 anni fa. Prima di allora si arricchivano i terreni grazie alla rotazione con le leguminose e al letame. Da quel momento, abbiamo iniziato a comprare fertilizzanti chimici di sintesi. E poi pesticidi, diserbanti e carburanti per la meccanizzazione. Abbiamo puntato sempre più su monocolture e produzioni di massa, a scapito di suolo, acqua, foreste e oceani.
L’impatto ambientale di questo modello riguarda la produzione, ma anche il trasporto e la distribuzione degli alimenti. Siamo abituati a disporre di qualunque prodotto in ogni stagione e così i prodotti percorrono migliaia di chilometri, attraversano gli oceani e consumano quantità enormi di combustibili fossili. Questo modello si basa su un’idea di crescita infinita. Produrre sempre di più e sempre più velocemente, inoltre, non ha risolto il problema della fame, anzi.
Il paradosso più stridente è che, da un lato, la quantità di cibo prodotta nel mondo supera il necessario (potrebbe sfamare addirittura 12,5 miliardi di persone, ben più dei 7 miliardi attuali), ma dall’altro, 800 milioni di persone continuano a soffrire la fame. L’altra faccia di questo sistema iperproduttivistico, infatti, è lo spreco. Ogni anno, buttiamo via circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, ovvero un terzo degli alimenti prodotti. A livello europeo, si possono attribuire circa 170 megatonnellate di CO2 allo spreco alimentare, equivalente al totale delle emissioni della Romania o dell’Olanda nel 2008. Il cibo prodotto ma non consumato usa quasi 1,4 miliardi di ettari di terra, che rappresentano quasi il 30% dell’area coperta da terreni agricoli nel mondo.
Per affrontare concretamente il problema del riscaldamento climatico, è necessario cambiare radicalmente paradigma - economico, sociale e culturale - promuovere un’agricoltura basata su pratiche agroecologiche e un sistema diverso di produzione, distribuzione e accesso al cibo. La società civile è impegnata su questi temi da tanti anni e, anche in occasione della conferenza di Parigi, si stanno mobilitando associazioni di produttori, di consumatori, di ambientalisti di tutto il mondo.
Come Slow Food, ci rivolgiamo ai rappresentanti dei paesi e delle istituzioni internazionali riuniti a Parigi e chiediamo che l’agricoltura sia posta al centro del dibattito. E per questo abbiamo diffuso il manifesto “Non mangiamoci il clima”, che è già stato sottoscritto da centinaia di organizzazioni e associazioni e che invitiamo tutti quanti a firmare, andando sul sito www.slowfood.it
Riferimenti

Sullo stesso argomento un punto di vista complementare sul ruolo dell'agricoltura sui cambiamenti climatici è quello proposto su eddyburg dal nostro opinionista Piero Bevilacqua, Economia estrattiva e beni comuni. Sul rapporto tra cibo e petrolio si veda anche l'opinione di Giorgio Nebbia Ricordando il petrolio. Sul superamento dell’attuale modo di produrre e di consumare si veda di Guido Viale Il clima (e non solo) a Parigi.

«La più recente acquisizione scientifica secondo cui il suolo costituisce una spugna che trattiene il carbonio e dunque riduce l'effetto serra è un tassello che pone una questione ineludibile: il suolo è un bene comune, drammaticamente scarso e di inestimabile valore». Il manifesto - supplemento clima, 27 novembre 2015

Uno degli effetti indesiderati delle conferenze mondiali sul clima è che essi rafforzano, nella mente del comune cittadino, l'impressione di una spoliazione delle proprie possibilità d'azione, la certificazione dell'inefficacia del suo agire personale. Come se la soluzione dei problemi fosse interamente affidata agli accordi internazionali tra gli stati, chiamati a quella sorta di consulto mondiale sulla salute del pianeta. Un sentimento di impotenza, che induce, nel migliore dei casi, all'attesa di un vaticinio finalmente fausto per il nostro avvenire.

E invece il fatto che si ponga al centro dell'attenzione, sia pure per pochi giorni, il grande tema del riscaldamento globale, costituisce un'occasione importante non solo per familiarizzare con una nuova cultura scientifica, ma anche per indicare il ruolo attivo, le possibilità di lotta e di contrasto che hanno i singoli individui, le associazioni, le popolazioni, nei loro territori, indipendentemente dalle stesse scelte degli stati. Partiamo da un rilevante dato scientifico che mostra le enormi potenzialità a nostra disposizione per mitigare la concentrazione di gas serra nell'atmosfera.
Come viene ricordato nel manifesto Terra viva (2015), coordinato da Vandana Shiva, sulla base di studi scientifici recenti «I suoli rappresentano il più grande bacino per l’assorbimento del carbonio e contribuiscono a mitigare il cambiamento climatico. Il suolo è dunque capace di assorbire gas serra. Esso contiene in tutto il mondo il doppio di carbonio rispetto all’atmosfera e trattiene più di 4000 miliardi di tonnellate di carbonio». Dunque il terreno è un immenso serbatoio di vita che trattiene e metabolizza carbonio contribuendo in maniera rilevante all'equilibrio climatico di tutta la biosfera. E' noto, grazie alle scienze ecologiche, che l'aratura dei suoli sprigiona co2 nell'atmosfera, così come accade quando si abbattono gli alberi di boschi e foreste.
Ma tutta l'agricoltura industriale del XX e secolo, la stessa rivoluzione verde degli anni '60 e '70, le agricolture biotecnologiche degli anni recenti hanno ignorato sovranamente questa verità. E non a caso. Esse sono figlie legittime della logica lineare ed estrattiva che connota il capitalismo del nostro tempo. Un rapido sguardo mostra il grande paradosso economico ed ecologico sui cui si fonda l'edificio dell'alimentazione contemporanea: dopo essere stata, per tutti i precedenti millenni della sua storia, produttrice netta di energia sotto forma di cibo, l'agricoltura è una consumatrice passiva di energia sotto forma di concimi chimici, diserbanti, pesticidi, irrigazione ( azionata da motori elettrici), movimentazione di macchine agricole, ecc. Su questo squilibrio drammatico nel bilancio energetico dell'agricoltura contemporanea abbiamo dati inoppugnabili e clamorosi.
Confrontando i dati sulla produzione granaria mondiale tra il 1950 e il 1985 e il consumo energetico nello stesso periodo, ricaviamo una divaricazione statistica senza precedenti. La crescita produttiva in questi 35 anni è stata del 250%. Ma il consumo di energia è esploso, toccando la percentuale del 5000% (D.A. Pfeiffer, Eating fossil fuels. Oil, food and the coming crisis in agriculture, 2006 ) Mangiamo, dunque, petrolio. Ma questo dato fornisce una evidenza solare all'insostenibilità ambientale del capitalismo. La crescita produttiva dell'agricoltura è dovuta all'uso del potassio, ai fosfati, sottratti nelle varie miniere del mondo e soprattutto al consumo di petrolio a buon mercato per fabbricare azoto, elaborare i concimi, produrre i diserbanti e i pesticidi, ecc. e al ricorso all'acqua, che costituisce il 70% dei consumi idrici mondiali. Non è un caso che all'agricoltura viene addebitata la produzione del 40% dei gas serra.
Ma tutti questi imput non sono dei ritorni ciclici di energia organica alla terra, come accadeva nella vecchia agricoltura. Sono la dissipazione lineare di energia fossile sottratta alla terra una volta per sempre. I concimi chimici non fertilizzano il terreno, nutrono direttamente la pianta, mentre il suolo si isterilisce ed è sempre meno capace di trattenere carbonio, acqua, vita. All'effetto serra delle estrazioni minerarie e delle produzioni industriali si assomma quello del suolo impoverito di sostanza organica. Di più. Il crescente emungimento di acqua tramite i pozzi impedisce il riformarsi delle falde idriche. La mancanza di rotazioni agrarie nelle coltivazioni non consente ai suoli di ripristinare la propria fertilità e le proprie difese dai parassiti, costringendo gli agricoltori ad accrescere il peso della chimica. La rottura dei cicli, che costituiscono il modo di evoluzione della natura, blocca la rigenerazione circolare delle risorse, imponendo la continuazione dell'economia estrattiva e lineare, sempre più economicamente costosa, sempre più ambientalmente distruttiva.

Dunque, l'agricoltura è un ambito in cui molto si può fare dal basso per ridurre l'effetto serra. Molte pratiche agricole sono già in atto, per ridare al suo suolo la sua piena funzione di ecositema: l'agricoltura biologica e biodinamica, la permacultura (che elimina o riduce l'aratura dei suoli), il ricorso ai concimi organici e al compost. Ma ancora tanto si può fare, attraverso uno sforzo di lunga lena capace di produrre una trasformazione culturale profonda a livello di massa, e intercettando un filone teorico di critica dirompente al capitalismo del nostro tempo. Pensiamo all'atteggiamento dissipatore che domina ancora nelle zone agricole. Ogni anno, nei mesi dall'inverno alla primavera, le campagne fumano. Gli agricoltori bruciano in qualche angolo della loro azienda la ramaglia della potatura delle piante o delle siepi. Si tratta di altra anidride carbonica che si aggiunge a quella solita. Ma si tratta anche di una rilevante quantità di biomassa che potrebbe trovare altri usi, e che l'assenza di una organizzazione di raccolta rende impossibile. Eppure essa si imporrebbe, soprattutto per ragioni culturali. Il materiale che la natura produce non va distrutto, deve ritornare in qualche modo alla terra, o trovare comunque un uso economicamente utile. Si deve spezzare in ogni ambito la logica dell'estrazione lineare.

Ma la scoperta del ruolo che il suolo gioca nell'assorbimento del carbonio ci porta a ricordare quanto si possa fare per ripristinare un'economia circolare, che aiuti la natura a chiudere i suoi cicli. E un ambito rilevante è quello del rapporto tra la città e la campagna. Per secoli, in Italia, come nel resto d'Europa e del mondo, la città non era solo consumatrice di beni agricoli, ma riforniva le campagne di energia sotto forma di letami, deiezioni, materia dei pozzi neri, ecc. (E. Sori, La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, il Mulino 2001).

La raccolta differenziata dei rifiuti rappresenta una delle leve per fondare una nuova economia del riciclo, che rompa la logica estrattiva, e avvii un nuovo corso. Quanti dei nostri rifiuti organici possono ritornare al terra per renderla più fertile, più capace di trattenere acqua e carbonio? Ma il grande snodo teorico che può fondare una svolta anche politica di rilevante portata è una acquisizione del pensiero ecologico recente: comprendere che la città è un ecosistema. Essa non è , sotto il profilo fisico, una foresta di pietre. Oltre a costituire una vorace dissipatrice di energia prodotta al suo esterno, essa vive dentro un territorio, che condiziona e da cui è condizionata: altera il clima generando calore, inquina l'aria e i suoli dei d'intorni con discariche, fabbriche, ecc.

Ebbene oggi sappiamo, in Italia meglio che in qualunque altro Paese d'Europa, che l'asfalto e il cemento impediscono l'assorbimento dell'acqua piovana, ormai causa sistematica di allagamenti devastanti anche nei centri urbani. Un tempo le periferie erano in gran parte orti o campi, oggi sono strati di cemento che veicolano le acque piovane sulla città in forma di fiumi. Sappiamo inoltre che la progressiva sparizione di spazi verdi in città e nei dintorni aumenta la presenza di particolato nell'aria, che non viene assorbito né dagli edifici, né dall'asfalto. Non solo lo smog, anche l'edificato contribuisce a rendere patogena l'aria che respiriamo.
La più recente acquisizione scientifica secondo cui il suolo costituisce una spugna che trattiene il carbonio e dunque riduce l'effetto serra è un tassello che pone una questione ineludibile: il suolo è un bene comune, drammaticamente scarso e di inestimabile valore. Esso ci protegge dalla pioggia, dall'inquinamento aereo, dal riscaldamento climatico. Le conseguenze politiche che si debbono trarre da queste verità rappresentano un terreno di conflitto da far esplodere in ogni angolo della Penisola. Orti e alberi dentro e fuori la città, in tutte le aree dismesse e in tutti gli spazi possibili, devono contrastare la distruttività lineare dell'edificazione.
Qualunque lembo di terra sottratto alla sua condizione di campo è un atto contro il bene comune della sicurezza urbana, un incremento dei danni alla nostra salute, un tassello all'accrescimento del riscaldamento climatico e alla invivibilità estiva nelle nostre città. La proprietà fondiaria dei privati non può fornire a questi alcun diritto a edificare e a coprire suolo con cemento. Il bene comune oggi appare troppo sovrastante rispetto al profitto solitario dei singoli. Ecco un punto nevralgico in cui le scienze ecologiche danno al pensiero politico della sinistra l'universalità e la potenzialità egemonica che essa ha perduto. L'unificazione del mondo rende ormai troppo evidente che la predazione estrattiva dei pochi costituisce un crescente danno per tutti.

«Movimenti. Verso la manifestazione nazionale del 29, la coalizione delle associazioni ambientaliste discute a Roma proposte e iniziative economiche e sociali». Il manifesto, 14 novembre 2015

Come è noto, all’inizio di dicembre si svolgerà a Parigi il COP 21, il convegno mondiale sullo stato e sulle dinamiche del cambiamento climatico del pianeta Terra a cui aderiscono tutti i paesi del mondo. Anche l’Italia parteciperà, ed ha riunito a Roma il 6 Novembre la coalizione nazionale delle associazioni ambientaliste, in vista della manifestazione romana del 29 Novembre e discutere la linea da seguire in Italia e a Parigi. Chi scrive fa parte di questa coalizione in quanto presidente dell’Associazione Nazionale “Ambiente e Lavoro”, nata con il disastro di Seveso con l’obiettivo di combattere i pericoli della produzione all’interno del luogo di lavoro e nell’ambiente tutto, collegando ambientalisti e lavoratori.

Per molto tempo è stato difficile unire ambiente e lavoro avendo come obiettivo l’eliminazione dei possibili effetti negativi per l’ ambiente e la salute fuori e dentro l’azienda senza dover ridurre l’occupazione. Nell’incontro del 6 Novembre si sono espresse voci di ambientalisti, ma anche di rappresentanti della Cgil, e delle organizzazioni dei lavoratori in genere, rappresentanti degli studenti, una organizzazione trasversale come Avaaz, operatori che lavorano nelle regioni e nei comuni. Per la prima volta, per quanto ricordi, ha preso corpo una discussione di “ambientalismo sociale ed economico” che, invece di affrontare solo genericamente i concetti di base del cambiamento climatico, i suoi effetti e lo stato generale dell’ambiente, si è concentrata sul nostro Paese affrontando insieme i problemi economici, sociali e politici italiani su cui intervenire in previsione della accelerazione del processo climatico.

Sul piano economico si è richiesto di evitare le spese che poco hanno a che fare con l’ambiente e le vite umane, quelle che servono essenzialmente ad aumentare la parte finanziaria della nostra economia. Come è successo con Expo, con il piano del modello di sviluppo di Eni, con la costruzione di Enel gas a Manfredonia, e in genere con costruzioni che fanno guadagnare i costruttori, senza tenere conto degli effetti negativi della cementificazione. O con gli interventi inclusi nel cosiddetto “sblocca Italia”, le pericolose trivellazioni, così vicine al cosiddetto fracking praticato egli Stati uniti ed criticato da moltissime associazioni nel mondo. A tutto questo si aggiungono i mancati finanziamenti per nuovi piani per l’agricoltura, il disastro che si determinerebbe con la eliminazione dei forestali, unica organizzazione di controllo delle foreste, elemento fondamentale per l’uso e il blocco di CO2 .

Tutto avviene in un Paese sempre meno democratico in cui si discute molto raramente con le persone e le associazioni che, in Italia, chiedono di essere considerate portatrici delle idee degli associati e delle comunità locali. Molto rilevanti per la democrazia e per la richiesta di attivare lo scarso dibattito sull’ambiente in genere, e in particolare sull’ambientalismo sociale ed economico, sono stati gli interventi vivaci e competenti degli studenti per l’ambiente, con l’annuncio di una manifestazione nazionale a Roma il 17 Novembre, e degli insegnanti presenti, critici della “buona scuola”, dove si parla sempre meno del cambiamento climatico, nonostante l’interesse e le richieste dei ragazzi che, come negli interventi hanno ampiamente dimostrato, sono ormai sempre più coscienti e preoccupati della accelerazione prevista e continua del cambiamento climatico. Ben poco se ne parla sia nei diversi gradi della scuola che nei giornali e in televisione. Così ben pochi sono informati dei due strumenti generali su cui si può puntare per la sopravvivenza del pianeta: la mitigazione, cioè la riduzione dell’aumento dei gas serra, e l’adattamento, che significa la salvaguardia degli ambienti naturali e degli elementi fondamentali per la vita: la terra, le agricolture, l’aria pulita, le energie rinnovabili, l’acqua potabile.

A questi elementi si aggiunge anche la biodiversità, unico strumento che permetterebbe di adattarci in molti e, appunto, diversi ambienti nel tempo e nello spazio. Tutti questi strumenti necessari per la sopravvivenza della nostra specie vanno conservati, usati, e resi utilizzabili da tutti. Ne va perciò combattuta con assoluta fermezza la brevettazione, soprattutto da parte delle multinazionali delle piante e degli animali, come Monsanto & Co. che hanno purtroppo già brevettato l’acqua del Kasakhstan .

L’ambientalismo non può più limitarsi alla salvaguardia, pure fondamentale, delle specie in vie di estinzione e in genere della biodiversità. Non può non affrontare e modificare con tutti gli strumenti possibili l’economia reale combattendo quella finanziaria, promuovendone il ritorno al significato iniziale, allo scopo di mantenere leggi necessarie per le vite non solo umane ma della Biosfera. Di questo, molti parlano e molto spesso, ma raramente, come si è verificato nell’incontro di Roma, persone di tutte le categorie, interessate alla tematica ambientalista, hanno chiesto con forza e chiederanno alla manifestazione nazionale che economia e politica siano consapevoli della unicità del nostro pianeta e della necessità di permettere al mondo vivente di sopravvivere insieme alle infinite diversità presenti sulla terra, tutte non solo sufficienti ma a tutte necessarie.

Un appello sul cambiamento climatico in vista dell’incontro a Parigi della COP21 firmato da Desmond Tutu, Noam Chomsky, Vivienne Westwood, Naomi Klein e un centinaio di attivisti che chiedono di “fermare i crimini climatici”. Frenare il cambiamento climatico significa ripensare radicalmente il nostro modello di società, senza false soluzioni». Comune.info, 9 ottobre 2015

Un centinaio di attivisti, accademici, figure di spicco della società civile mondiale chiamano ad un’azione globale in vista della prossima Conferenza delle Parti dell’Onu sul cambiamento climatico, prevista a Parigi a dicembre. Personaggi comeDesmond Tutu, Vivienne Westwood, Naomi Klein e Noam Chomsky assieme a molti altri referenti di realtà di movimento chiariscono come questo sia un momento storico, in cui è necessaria una crescente pressione dei cittadini per portare a un vero e proprio cambiamento strutturale.

“Siamo di fronte a un bivio” si legge nell’appello, pubblicato nel libro “Stop Climate Crime” prodotto e diffuso da 350.org e Attac France, tra le principali realtà mobilitate contro un modello di sviluppo insostenibile, “nel passato, uomini e donne determinati hanno resistito e sconfitto i crimini della schiavitù, del totalitarismo, del colonialismo e dell’apartheid. Decisero di combattere per la giustizia e la solidarietà e sappiamo che nessuno di loro lo avrebbe fatto per se stesso. Il cambiamento climatico è una sfida simile, e noi stiamo alimentando un’altrettanto simile reazione”. Tra i firmatari dell’appello, l’organizzazione italiana Fairwatch. “La 21a Conferenza delle Parti di Parigi è un’occasione storica – dice Alberto Zoratti, presidente di Fairwatch e delegato accreditato Ong alla COP21 – per riuscire a invertire la rotta di politiche che, piuttosto che affrontare e risolvere il dramma del cambiamento del clima e delle tragedie che si porta dietro, sembrano ignorare il problema proponendo false soluzioni”.

La recente bozza di documento negoziale resa pubblica il 5 ottobre dalle reti della società civile, mostra come l’obiettivo sostanziale sia quello di orientarsi sempre più verso un sistema non vincolante, basato su impegni volontari di riduzione delle emissioni e di stanziamento di risorse. Un approccio che risponde certamente alle esigenze delle lobbies economiche ma che non è all’altezza della sfida posta dal climate change.
“La centralità dei mercati, la liberalizzazione dei commerci sono sempre più proposti come la risposta alle crisi che stiamo vivendo” continua Zoratti. “Ma frenare il cambiamento climatico significa ripensare radicalmente il nostro modello di sviluppo, abbandonando i combustibili fossili, focalizzando risorse sulla crescita di economie e agricolture locali, sostenibili e adatte alle esigenze delle comunità e dell’ambiente. Quanto i grandi gruppi economici siano realmente interessati ad un futuro più sostenibile è dimostrato dal caso Volkswagen e da come gli standard ambientali siano troppo spesso considerati limiti da aggirare se non addirittura disarticolare, a tutto vantaggio di manager e azionisti”.

Fairwatch, tra i promotori della Campagna Stop T-tip Italia, sarà presente alla COP21 di Parigi in qualità di osservatore e parteciperà alle iniziative e alle mobilitazioni organizzate dalla piattaforma di movimento Coalition 21.

Per aderire all’appello “Fermiamo i crimini climatici” .

Intervista a Achim Steiner, direttore del programma Onu per l’ambiente: «Bisogna reinventare l’economia in tutti i campi: edilizia, trasporti, industria manifatturiera, agricoltori. Non è un’impresa impossibile». La Repubblica, 6 ottobre 2015 , con postilla

Roma. «Ormai è difficile contarli. I disastri prodotti da eventi meteo estremi, come quello che ha messo in ginocchio la Costa Azzurra, si moltiplicano a un ritmo impressionante. Dal punto di vista scientifico la situazione è chiara: è il nostro sistema produttivo a provocare il caos climatico che ci danneggia. Adesso la parola passa ai decisori, alla conferenza di Parigi chiamata a scrivere la road map verso la green economy».

Achim Steiner, direttore dell’Unep, il Programma ambiente delle Nazioni Unite, ha già fatto scattare il conto alla rovescia per l’appuntamento Onu: a dicembre, in Francia, si sceglierà il futuro climatico del pianeta. Alluvione dopo alluvione, il consenso politico è cresciuto. Ma gli impegni restano modesti. I tagli già annunciati dai governi consentono di ridurre di circa un grado l’aumento di temperatura previsto nell’arco del secolo: da 4,5 si scenderebbe a 3,5. Calcolando che la soglia di sicurezza è 2 il cammino resta lungo.
«È vero, siamo agli inizi, ma il trend si è rovesciato: abbiamo cominciato a tagliare le emissioni previste, mentre fino a ieri crescevano. Questo dimostra che cambiare è possibile. E io aggiungo che è anche conveniente dal punto di vista economico. Diminuire il consumo di combustibili fossili e passare all’efficienza, alle fonti rinnovabili, al recupero della materia utilizzata nel ciclo di produzione significa combattere lo spreco, premiare l’innovazione, dare spinta ai mercati».
C’è chi obietta che questa cura è toppo cara. È così?
«I sussidi globali a petrolio, carbone metano viaggiano attorno ai 500 miliardi di dollari l’anno. E l’assieme dei costi provocati dai combustibili fossili è stimato in 5 mila miliardi di dollari, sempre all’anno. Se destinassimo questa bolletta alla promozione dell’economia sostenibile, alla cura invece che al problema, saremmo già a un ottimo punto verso la riconversione a una società carbon neutral , che prospera senza alterare l’equilibrio di carbonio in atmosfera».
Una parte della finanza sta cominciando a prendere le distanze dai combustibili fossili, anche perché vincoli ambientali potrebbero limitarne l’uso. In quel caso scoprire nuovi giacimenti diventerebbe inutile perché non potrebbero essere usati. Pensa che questo trend possa accelerare?
«Sì, ad esempio il Fondo sovrano norvegese, il più grande del mondo, ha già deciso di disinvestire dal carbone e la Fondazione Rockefeller ha annunciato l’uscita dal business delle trivelle. Del resto l’Ipcc, il gruppo dei climatologi che da decenni studiano il riscaldamento gobale, ci ricorda che, per evitare che sia ridotta a zero la capacità produttiva di intere aree del pianeta, nella seconda metà del secolo dovranno essere ridotte a zero le emissioni di CO2. L’aumento della temperatura va fermato entro la soglia dei 2 gradi: su questo c’è ormai un consenso molto ampio».
Ma gli impegni dei governi restano assolutamente insufficienti.
«Abbiamo aperto la strada, ora si tratta di percorrerla. Occorre lavorare perché gli impegni si rafforzino in tempi brevi. Bisogna reinventare l’economia in tutti i campi: edilizia, trasporti, industria manifatturiera, agricoltori. Non è un’impresa impossibile. Basta pensare che 15 anni fa in Europa l’80 per cento dei nuovi impianti di energia funzionava con i combustibili fossili, oggi il 72 per cento dei nuovi impianti europei utilizza fonti rinnovabili».
Nei paesi di nuova industrializzazione o in corso di industrializzazione la situazione è diversa?
«Solo in parte: da due anni più del 50 per cento degli investimenti globali sull’energia viene collocato sulle fonti rinnovabili, parliamo di 270 miliardi di dollari all’anno. E queste cifre tenderanno ad aumentare anche grazie al Fondo per agevolare il trasferimento delle tecnologie pulite previsto negli accordi sul clima»

postilla

Il fatto è che «reinventare l’economia in tutti i campi: edilizia, trasporti, industria manifatturiera, agricoltori non è un’impresa impossibile», come giustamente afferma Steiner, ma è possibile a una sola condizione: che sia cancellata dalle menti e dai cuori, la credenza che lo "sviluppo", così come oggi si interpreta questo termine, sia l'obiettivo dell'uomo, della società e della politica, eche vengano abbattuti i totem derivanti da questa credenza (Pil, il Denaro).

«I politici sono soddisfatti e ottimisti: niente flop, come nel 2009, a Copenaghen. Gli scienziati e i tecnici sono preoccupati.». La Repubblica, 5 ottobre 2015 (m.p.r.)

I politici sono soddisfatti e ottimisti: niente flop, come nel 2009, a Copenaghen. È l’alba di un’era nuova per la politica: dalla conferenza di Parigi, a dicembre, uscirà un accordo mondiale sul clima. Gli scienziati e i tecnici sono preoccupati. La tempesta di violenza inattesa che devastato ieri la Costa Azzurra è l’ennesima conferma che il clima impazzito è già qui. E l’accordo di cui si parla non basta a bloccare il riscaldamento del pianeta e a impedire che, nel giro di qualche decennio, mezza Terra sia scorticata dal sole e l’altra metà (da Venezia a New York, alla stessa Copenaghen) finisca sotto il mare. Chi ha ragione? Tutt’e due.

Nelle parole pronunciate in queste settimane da papa Francesco, da Obama, da François Hollande, il presidente francese che sarà il regista della conferenza di dicembre, è quasi palpabile la sensazione che il mondo abbia acquisito una nuova consapevolezza e una nuova urgenza. Quando, l’anno dopo il fallimento di Copenaghen, a Cancun, tutti i paesi presero l’impegno a fissare limiti volontari alle emissioni di anidride carbonica, sembrò un modo di chiudere le polemiche, con il minor sforzo possibile, rinviando all’infinito gli impegni. Invece, il deterioramento del clima, dalle siccità agli uragani, ha spinto i leader mondiali a onorare la promessa. Praticamente ogni capitale ha annunciato obiettivi e strumenti di contenimento dell’effetto serra. Gli ultimi sono stati il Brasile e l’India.
Ma la svolta era venuta da Pechino, dove il paese che più di ogni altro sputa CO2 nell’atmosfera si è impegnato a bloccare le emissioni e ha annunciato la creazione, all’europea, di un mercato in cui le aziende si possano scambiare i diritti alle emissioni, all’interno di un tetto predeterminato.
Quello che preoccupa gli scienziati è che tutti questi sforzi, questi impegni, queste svolte sono insufficienti. L’obiettivo solennemente affermato a Cancun è fermare il riscaldamento del pianeta a 2 gradi centigradi, una temperatura che scongiurerebbe le grandi catastrofi di un mondo affamato e desertificato. Senza interventi, infatti, la temperatura media della Terra (con scarti ben più in alto nelle aree tropicali e subtropicali) arriverebbe, nel 2100, ad un aumento di 4,5 gradi, con effetti difficilmente quantificabili sull’intensità degli uragani, sull’estensione delle siccità. Ma gli impegni presi finora per Parigi non bloccano questa deriva. La fermano a 3 gradi e mezzo. Di tanto aumenterebbe la temperatura media del pianeta, nonostante gli impegni presi dai governi di tutto il mondo.
Questo dice il modello preparato da Climate Interactive, una fondazione, insieme al Mit, il Massachussetts Institute of Technology. Sono conti, dunque, da prendere sul serio, perché Climate Initiative non è una fondazione qualsiasi. Molti governi e, in particolare, quello americano, secondo il New York Times , usano i suoi modelli e i suoi calcoli come base dei negoziati. Di conseguenza, l’allarme lanciato dalla loro valutazione è già sul tavolo della trattativa in corso in vista di Parigi. E aiuta anche a capire qual è il suo autentico messaggio politico.
Difficilmente la conferenza di Parigi spingerà i singoli governi a modificare i livelli di contenimento della CO2 appena annunciati e definiti dopo aspri dibattiti interni. Ma la battaglia riguarderà gli impegni futuri. Un contenimento della CO2 ha senso solo se è permanente e crescente. Gli impegni che Stati Uniti, Cina e gli altri grandi paesi hanno preso hanno, però, un orizzonte che si limita al 2025 o al 2030. E dopo? La conferenza di Parigi deve prevedere sin da ora un meccanismo che non solo stabilizzi i livelli raggiunti, ma li abbassi via via sempre di più, con l’obiettivo di arrivare a emissioni zero nel 2100? Il modello preparato da Climate Initiative serve proprio a far esplodere questo problema. Il calcolo che prevede lo sfondamento del limite di 2 gradi è realizzato tenendo conto degli impegni ma anche della loro scadenza.
Il modello considera che, al 2025 o al 2030, si raggiunga un certo livello, più basso dell’attuale, di emissioni, ma che questo venga semplicemente mantenuto e non ulteriormente abbassato. A questo punto, però, la temperatura ripartirebbe verso l’alto e si arriverebbe ai 3,5 gradi del 2100. Insomma, gli impegni presi finora in vista di Parigi ci faranno guadagnare 10-15 anni di respiro, ma, se non sappiamo fin d’ora che devono aver seguito, saranno serviti a ben poco. L’alternativa è fissare subito una tabella di marcia per la lotta all’effetto serra nei prossimi decenni. Di fatto, un altro trattato di Kyoto. Un’idea che spaventa molti leader politici.
Tanto più che questa tabella di marcia, per essere credibile, dovrebbe prendere di petto l’uso o meno dei combustibili fossili. Il calcolo fatto non dagli ambientalisti, ma dai tecnici dell’Ocse, ha ricordato il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, è che, per non sfondare il tetto dei 2 gradi di riscaldamento planetario, bisogna lasciare inutilizzate sottoterra fra il 70 e l’80 per cento delle riserve di gas, petrolio e carbone esistenti. Ma questo vuol dire azzerare o quasi il patrimonio di molti giganti dell’economia, che quelle riserve hanno negli attivi dei bilanci. Solo alla Borsa di Londra, una azienda su cinque, fra le 100 più importanti, è nel settore energetico. Carney lancia l’allarme: bisogna prepararsi al fallout finanziario del cambiamento climatico. La verità è che gli interessi in gioco sono enormi e a Parigi potrebbe esserci battaglia vera con lobby fra le più potenti al mondo. Dopo il discorso di Carney, infatti, sarà più difficile far finta che il problema non esista.

Come i grandi media nostrani, hanno rapidamente gettato nel dimenticatoio l'ultima enciclica di papa Francesco, così hanno totalmente ignorato questo importante documento del mondo islamico. Lo riprendiamo dal sito Lifegate, 19 agosto 2015. In calce il link al testo integrale della dichiarazione.

Redatta dai rappresentanti del mondo islamico, la Dichiarazione invita i fedeli a seguire il testo sacro per proteggere "il fragile equilibrio del pianeta".

Il simposio, tenutosi il 17 e 18 agosto 2015 a Istanbul, ha visto impegnati più di 60 rappresentanti del mondo islamico, provenienti da 20 Paesi. L’incontro si è concluso con la redazione della “Dichiarazione islamica sul cambiamento climatico“. Un’importante presa di posizione da parte del mondo islamico, che sprona il 1,6 miliardo di musulmani a prendersi cura del “fragile euqilibrio (mīzān) della Terra” e i leader politici a sottoscrivere degli accordi vincolanti durante la prossima Conferenza sul clima a Parigi, perché: “Le attività umane stanno facendo una tale pressione sulle naturali funzioni della Terra, che la capacità degli ecosistemi di sostenere le generazioni future non può più essere dato per scontato“.

Ecco alcuni dei passaggi più rappresentativi:
- Gli ecosistemi e le culture umane sono già a rischio a causa del cambiamento climatico;
- Il rischio di eventi estremi causati dal cambiamento climatico come ondate di calore, precipitazioni estreme e le inondazioni delle coste sono già in aumento;
- Questi rischi sono distribuiti ineguale, e sono maggiori per le comunità povere e svantaggiate di ogni Paese, a tutti i livelli di sviluppo;
-Gli effetti prevedibili avranno ripercussioni sulla biodiversità terrestre, sui beni e sui servizi prodotti dai nostri ecosistemi e sulla nostra economia globale;
- Gli stessi sistemi fisici della Terra sono a rischio di bruschi e irreversibili cambiamenti.

La dichiarazione afferma che:
- Dio ha creato la Terra in perfetto equilibrio (mīzān);
- La sua immensa misericordia ci ha dato terreni fertili, aria fresca, acqua pulita e tutte le buone cose sulla Terra che rendono la nostra vita qui praticabile e piacevole;
- Le funzioni naturali della Terra nei suoi cicli stagionali e naturali: un clima in cui gli esseri viventi – compreso l’uomo – possono prosperare. L’attuale catastrofe del cambiamento climatico è il risultato della perturbazione umana di questo equilibrio.

Per questo nella dichiarazione si chiede:
- Di stabilizzare le concentrazioni di gas serra ad un livello tale da impedire pericolose interferenze antropogeniche con il sistema climatico;
- Di ridurre le emissioni comunque non oltre la metà di questo secolo;
- Di riconoscere l’obbligo morale di ridurre i consumi cosicchè la parte più povera della popolazione possa beneficiare delle risorse non rinnovabili del pianeta;
- Di rimanere entro il limite dei “2 gradi”, o meglio di 1,5 gradi, tenendo a mente di lasciare nel suolo i 2/3 dei rimanenti combustibili fossili;
- Di impegnarsi verso l’obiettivo del 100 per cento di rinnovabili e/o una strategia a zero emissioni il prima possibile.

Qui la versione integrale della dichiarazione.

Quello che dovrebbe essere lo scenario normale dopo che la maggioranza assoluta dei cittadini italiani si è espressa in modo preciso, in realtà è un sogno ad occhi aperti. Il governo Renzi ha deciso di aprire un nuovo grande ciclo di privatizzazione e finanziarizzazione del servizio idrico e di tutti i servizi pubblici locali. Il manifesto, 13 giugno 2015 (m.p.r.)

Sono passati 4 anni dalla straordinaria vittoria referendaria del giugno 2011 sull'acqua pubblica. In tutto il Paese si è proceduto a ripubblicizzare il servizio idrico, mediante l'uscita dei privati dalle aziende che gestiscono il servizio stesso che sono state trasformate in aziende speciali, soggetti di diritto pubblico, le tariffe sono diminuite, gli investimenti, a partire da quelli finalizzati ad abbattere le perdite d'acqua, sono stati incrementati, l'occupazione nel settore si è accresciuta per effetto degli investimenti aggiuntivi, la qualità dell'acqua è migliorata grazie a nuovi controlli. Tutto ciò grazie ad una legislazione nazionale che ha recepito l'esito del pronunciamento referendario, sostanzialmente mutuata da quella di iniziativa popolare promossa ancora nel 2007 dal Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua e sostenuta all'epoca da più di 400.000 firme.

Questo, che dovrebbe essere lo scenario normale dopo che la maggioranza assoluta dei cittadini italiani si è espressa in modo preciso, in realtà è un sogno ad occhi aperti. Anzi, contraddetto da una sorta di incubo, che è ciò che sta concretamente avvenendo. Il governo Renzi ha deciso di aprire un nuovo grande ciclo di privatizzazione e finanziarizzazione del servizio idrico e di tutti i servizi pubblici locali: la cornice legislativa per realizzarlo è rappresentata dallo SbloccaItalia, dall'ultima legge di stabilità e dal disegno di legge delega Madia sulla Pubblica Amministrazione, il «braccio armato» dalla 4 grandi multiutilities quotate in Borsa (A2A, Iren, Hera e Acea). A queste ultime è affidato il compito, grazie agli incentivi definiti nelle suddette leggi, di ridurre ulteriormente il ruolo della proprietà pubblica ed espandersi assorbendo le aziende di dimensioni medio-piccole che gestiscono i servizi pubblici locali, con l'idea che, alla fine, le stesse formeranno definitivamente l'oligopolio del «mercato» dei servizi pubblici, peraltro orientato dal primato della finanza e della quotazione in Borsa.
I fatti di questi ultimi mesi sono, a proposito, eclatanti e inquietanti e tutti in una direzione contraria a quanto realizzato a Napoli, che continua a rimanere l'unico esempio positivo di effettiva ripubblicizzazione. Acea annuncia l'intenzione di accaparrarsi le aziende del servizio idrico in Toscana e Umbria, Hera ha deciso, alla fine di aprile, che la proprietà pubblica scenderà dall'attuale 57% al 37%, sancendo per la prima volta che essa diventerà minoritaria. Ancor più grave è la vicenda in corso a Reggio Emilia. Lì, a fine 2011, è scaduta la concessione del servizio idrico affidata a Irea. Si è iniziato, dopo la vittoria referendaria, in una città che ha visto una partecipazione molto alta a quel voto, un percorso importante che, su spinta del Comitato dell'acqua pubblica di Reggio Emilia, ha visto dar vita al Forum provinciale per l'acqua, promossa dall'allora Provincia, con il concorso dei Comuni, dei movimenti, delle associazioni economiche e sociali.
Il Forum ha lavorato per più di tre anni e, dopo un approfondita discussione e dopo aver esaminato anche le condizioni di sostenibilità economica e finanziaria, è arrivato alla conclusione di poter costruire a Reggio Emilia una società a totale capitale pubblico per la gestione del servizio idrico, scelta che a noi non soddisfa pienamente, perché ancora troppo poco coraggiosa rispetto ad una compiuta ripubblicizzazione, ma che ha il grande pregio di sancire una soluzione per cui si sottrae la gestione ad Iren e alla sua logica assolutamente privatistica. Ebbene, a pochi giorni dal voto con cui il Consiglio comunale dovrebbe definitivamente sancire con il voto tale scelta, arriva il vergognoso voltafaccia del Pd, che in una riunione della sua direzione provinciale «decide», con assoluto spregio delle procedure istituzionali, che costituire una SpA pubblica è troppo oneroso e insostenibile per le casse dei Comuni del territorio. Si accampano ragionamenti forzati e pretestuosi per non dichiarare esplicitamente che ci si è piegati agli interessi dei poteri forti, in questo caso di Iren.
Il Pd, con questa vicenda, scioglie ogni sua residua ambiguità e diventa a tutti gli effetti il partito della privatizzazione dell'acqua, dopo che, nei mesi scorsi, lo abbiamo visto, con la scelta del contratto a «finte tutele crescenti», e ultimamente con il provvedimento contro la scuola pubblica, iscriversi compiutamente al campo dell'abbattimento dei diritti del lavoro e del Welfare. Il movimento per l'acqua pubblica continua la sua battaglia per opporsi a queste scelte e affermare la prospettiva del rispetto coerente dell'esito referendario: lo faremo domani in molte piazze del Paese, lo faremo anche a Reggio Emilia con una manifestazione forte e colorata e con un «acampada» che durerà fino a lunedì, giorno in cui è prevista la riunione del Consiglio Comunale per discutere di questi temi.
Diremo con chiarezza al Pd e anche ai soggetti politici suoi alleati che non intendano dissociarsi dalla sua «decisione», con le necessarie conseguenze, che il negare il risultato referendario costituisce non solo un profondo «vulnus» democratico, ma alimenterà ulteriormente il solco con il popolo democratico e di sinistra che il renzismo ha già provocato e che è destinato ad approfondirsi sempre più. Soprattutto ci sentiremo impegnati per rilanciare le nostre ragioni, per far vivere l'idea che i beni comuni non possono essere consegnati alla finanza e al mercato. Con una nuova consapevolezza, e cioè che difendere i beni comuni, tutelare e dare diritti alle varie forme del lavoro, rilanciare il ruolo dello Stato sociale e dell'intervento pubblico, a partire dalla scuola e dalla sanità, sono ormai facce della stessa medaglia e fanno parte di un medesimo obiettivo. Quello di battere il renzismo, fedele interprete nazionale della linea neoliberista dominante in Europa, e di costruire un processo di unificazione sociale e di relazione con i tanti soggetti che pensano che sia il tempo di un nuovo modello produttivo e sociale.

“Devastando egoisticamente il pianeta e ostentando una spietata noncuranza verso l’ambiente, abbiamo contribuito a tutti i disastri naturali” dice la scrittrice indiana. “Faremmo bene a ricordare che non siamo noi i padroni”. La Repubblica, 29 aprile 2015

CHISSÀ cos’è stato a far tremare la Terra domenica mattina. Da un punto del fondale marino, per motivi sconosciuti e cause impreviste, si è sprigionata dell’energia. Un’energia la cui potenza è stata tale da percorrere una faglia lungo il fondale e ripercuotersi sulla terra sino a raggiungere Dacca in Bangladesh, Nuova Delhi in India e Lahore in Pakistan. Ma è stato nel regno himalayano del Nepal che l’energia ha trovato il suo massimo sfogo. Un epicentro che ha trasformato per sempre la vita di quella terra e il suo paesaggio.

In metafisica “bindu”, o “punto”, è il luogo dove ha inizio la creazione. Un accumulo di energia in grado di irradiare a sua volta energia. L’iconografia tantrica paragona il bindu a Shiva: tutta la creazione e la distruzione. Nel Buddismo, bindu è il cadere della goccia. Lo scorso 25 aprile è stato come se iconografia, filosofia e una malvagia forza distruttrice si fossero abbattute a circa 55 chilometri da Katmandu sotto forma di una goccia di magnitudo 7,9.

Stavo finendo i miei preparativi per un lungo sabbatico che mi allontanerà da tutto, e a casa, per iniziare ad abituarmi, avevo staccato tv e Internet. Quella mattina mi trovavo in ufficio per controllare alcune cose online, quando su Facebook e Twitter è apparsa la notizia del terremoto che aveva colpito Delhi. Non le ho dato peso, pensando si trattasse della solita propensione all’iperbole tanto diffusa nel lessico dei social media. Anziché sorridere scriviamo “lol” o “rolf”, e invece di piangere digitiamo “col”. Poi però mi sono accorta che la devastazione aveva colpito anche altri luoghi.

La goccia, cadendo, ha fatto tremare la terra a Katmandu. Come una corsa sulle montagne russe che si conclude in maniera drammatica, una delle destinazioni più ricercate al mondo aveva smesso di esistere. Valanghe di neve sono precipitate lungo i pendii del monte Everest. Edifici crollati. Templi e torri ridotti a macerie. Persone seppellite dalle rovine, o spazzate via. E Katmandu e le zone circostanti, verso le quali tutto il mondo — scalatori, balordi, famiglie in vacanza, tipi solitari in cerca di salvezza, filosofi e depravati, religiosi e scalmanati, monaci e hippy — converge, hanno assistito a quel fatale cadere della goccia.

Il mondo si affretta a prestare soccorsi. E nel mezzo di tutta quella sofferenza, lo squallore di una nazione che nell’Indice globale della fame occupa la 54esima posizione su 81 appare eviden- te. Pensate che il Nepal, oltre a rifornire i bordelli dell’India e di altre regioni del Sud-Est asiatico, è anche una fabbrica di bambini. Secondo alcuni resoconti, infatti, Israele avrebbe inviato delle incubatrici per trasferire in tutta sicurezza i circa 24 neonati che negli ultimi giorni sono nati in Nepal da madri surrogate per conto di coppie di genitori israeliani.

Frugo Internet per saperne di più. Il numero delle vittime aumenta con il passare dei minuti. I racconti sui morti e sui feriti stanno facendo il giro del mondo. La lista delle devastazioni si fa sempre più lunga. Tiro un respiro profondo e mi domando: «Perché?». Saccheggiando egoisticamente la Terra e ostentando una spietata noncuranza verso l’ambiente, noi umani abbiamo contribuito a tutti i disastri naturali. Questa volta, però, la nostra colpa è probabilmente pari a quella della goccia che è caduta. E mi viene da pensare che il popolo nepalese stia pagando il prezzo dell’avidità umana. Il sovrappopolamento ha compromesso la capacità portante della catena “delle colline di mezzo”, soprattutto nella valle di Katmandu. La deforestazione, dovuta all’esigenza di raccolti, combustibile e mangimi, e l’erosione hanno causato alluvioni. La nostra ricerca del Nirvana, da conseguire attraverso la scalata di pareti di roccia, la marijuana o l’illusione, ci ha spinti a cercare destinazioni che non sono pronte a far fronte a un aumento della popolazione. Sfruttiamo un’economia povera affinché possa soddisfare le nostre futili esigenze. Abusiamo della natura perché pensiamo di averne il diritto. Il silenzio delle montagne riecheggia di un vocio incessante e del suono metallico dei registratori di cassa.

Ci impossessiamo di un regno sulle montagne e lo riduciamo in macerie come se vi avessimo conficcato in lungo e in largo dei candelotti di dinamite a un metro e mezzo di distanza l’uno dall’altro. Per certi versi, con la nostra mancanza di rispetto verso la natura e gli ecosistemi, abbiamo fatto cadere la goccia. Si tratta di una colpa collettiva di cui dobbiamo farci carico e alla quale dobbiamo cercare di porre rimedio. Dal momento che quanto è accaduto non è che un monito di quel che ci attende. Faremmo bene a ricordare che la Terra non è nostra, e non possiamo farne ciò che vogliamo. Siamo solo di passaggio. ( Traduzione di Marzia Porta)

«Ma la rete dei cittadini ha raccolto 1,8 milioni di firme per proporre alla Commissione Ue una legge che riconosca le risorse idriche come bene dell’umanità, dunque da escludere dal mercato interno e dai trattati internazionali». Il manifesto, 24 marzo 2014 (m.p.r.)

Si chiude oggi a Bruxelles la Conferenza europea dell’Acqua. Il Forum italiano dei movimenti e la Rete europea erano ieri in sit in davanti al parlamento per protestare, poiché dalla manifestazione, che riunisce istituzioni e multinazionali, sono state escluse le realtà sociali e l’Ice - European citizens initiative, che nel 2013 ha raccolto oltre 1 milione e 800 mila firme per proporre alla Commissione europea un provvedimento legislativo basato su tre punti: riconoscere l’accesso all’acqua da bere e per i servizi igienici come bene dell’umanità; escluderlo dalle «norme del mercato interno» e dalle liberalizzazioni; sottrarre la materia dai trattati internazionali.
La norma è stata discussa nel parlamento europeo a marzo 2014 e poi è sparita dall’agenda. «La commissione ci ha risposto – racconta Corrado Oddi del Forum italiano - che il principio andava bene ma non toccava all’Ue legiferare in materia di concorrenza e privatizzazioni, a differenza di quanto ci ripetono i governi italiani, e che per i trattati occorreva fare attenzione. Poi però nel Ttip – il Trattato transatlantico sul commercio si parla anche di risorse idriche. L’intenzione della Rete europea è tornare a fare pressione sul parlamento che si è insediato l’anno scorso perché ci dia risposte».
In Italia la vittoria ai referendum del 2011 aveva sancito la volontà di portare l’acqua fuori da logiche di profitto e di mercato ma la resistenza degli enti locali ha aperto la strada alle nuove iniziative del governo Renzi che, di fatto, vanno nella direzione opposta: l’esecutivo infatti sta utilizzando una serie di strumenti per favorire processi di fusione e aggregazione tra aziende che gestiscono i servizi pubblici locali (tra cui anche l’acqua) consegnandoli ai privati, obiettivo perseguito senza mai dichiararlo apertamente.
Il taglio di risorse che costantemente soffoca gli enti è l’arma per costringerli ad accettare questo tipo di misure. Il primo passo è stato il piano sulla Spending review che punta al taglio delle società partecipate dagli enti locali, seguendo lo slogan «riduzione da 8mila a mille». Poi c’è stato il decreto Sblocca Italia: gli articoli dedicati al servizio idrico prevedono la creazione di un gestore unico regionale, se si sceglie di avere degli ambiti territoriali devono corrispondere alle province o città metropolitane. Un meccanismo che non tiene conto dei bacini idrici naturali e, soprattutto, induce le realtà più piccole (e spesso pubbliche) ad essere divorate dalle grandi multiutilities come Acea, Hera, Iren, A2A.
«L’esecutivo – prosegue Oddi – punta a creare un oligopolio: Iren in Piemonte, Liguria e nell’area nord dell’Emilia; A2A in Lombardia; Hera nel resto dell’Emilia Romagna, Padova e Trieste; ad Acea il centro Italia con Toscana, Lazio e Campania. Il comune di Bologna e le altre amministrazioni faranno scendere la loro quota in Hera dal 51 al 35%, come voleva il decreto Ronchi abolito dai referendum. Il modello Hera prevede la divisione degli utili come una variabile indipendente, così si accumula un disavanzo che viene coperto dalle bollette o dal sistema creditizio. Già oggi l’indebitamento ha raggiunto un livello non più sostenibile». Il governo però amplierà il loro giro di affari e Cassa depositi e prestiti ha già pronti 500milioni per finanziare le fusioni. Ad Acea la gestione dell’acqua di gran parte del centro Italia. In Campania la multiutility di Caltagirone ha già un piede nell’area Sarnese-Vesuviana, la legge regionale in discussione potrebbe assegnarli il resto della torta.
Il consiglio comunale di Napoli ha approvato la delibera che assegna la gestione all’azienda speciale pubblica Abc per cercare di bloccare l’operazione di occupazione da parte di Acea. La norma regionale però potrebbe mettere le competenze di più di 500 comuni nelle mani di 12 sindaci all’interno del consiglio di indirizzo, da cui però sono escluse le città metropolitane cioè il comune partenopeo e l’Abc. La legge di stabilità dà un’ulteriore spinta: quanto incassato dagli Enti Locali per la vendita delle quote delle società partecipate può essere speso al di fuori del patto di stabilità. E poi c’è il ddl Madia in discussione al Senato sulla riforma della pubblica amministrazione: «Praticamente è il Job act applicato ai servizi pubblici – spiega Simona Savini del Forum italiano dei movimenti per l’acqua – cioè un decreto con norme generali che dà una delega in bianco al governo per disciplinare una materia fondamentale, sottratta al parlamento. I principi che richiama sono una ulteriore spinta verso le fusioni. Del resto la stessa Confindustria ha più volte detto che sono passati quattro anni dal referendum, è tempo che il governo ci metta mano. Lo stanno facendo». Intanto che l’esecutivo produce le norme, si è mossa l’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico che ha messo a punto un nuovo metodo tariffario che, di fatto, reinserisce la remunerazione del capitale investito consentendo ai gestori di aumentare i guadagni ma facendo anche salire i costi per gli utenti. Solo nel 2013 le tariffe sono cresciute del 7,4%, negli ultimi 10 anni dell’85%.

«Nelle stesse ore delle celebrazioni ufficiali si è svolto a Milano un altro incontro: “Nutrire il pianeta o nutrire le multinazionali?” Perché produciamo alimenti in grado di nutrire 2 miliardi di persone più di quante abitano il pianeta e abbiamo un miliardo di affamati». Sbilanciamoci.info, 10 febbraio 2015

L’Expo di Milano incombe ed è utile dare conto di quanto sta succedendo. Dalla grande stampa emerge un problema: il dissenso dell’orchestra della Scala a suonare il primo maggio, giorno dell’Expo ma anche dei lavoratori, manda a gambe all’aria la Turandot dell’Inaugurazione. Matteo Renzi vuole riconquistare il palco per essere lui a cantare “Stasera vincerò”. Tutto questo rischia di fare del famoso Teatro l’unico punto di resistenza contro l’Expo dei ricchi.

Milano è una città ben strana. Lo era già ai miei tempi, e si è mantenuta così ancora oggi in pieno XXI secolo. Proprio di fronte al Teatro della Scala c’è ancora – in effetti c’era da prima, dal sedicesimo secolo – Palazzo Marino, la casa dei cittadini. Qui nelle stesse ore dei discorsi ufficiali si è svolta un’altra riunione Expo: “Nutrire il pianeta o nutrire le multinazionali?” Era l’occasione per leggere, insieme, la lettera inviata, da un piccolo gruppo di persone, a Renzi e agli altri potenti per ricordare loro l’impegno “nutrire il pianeta”, di ridare “energia per la vita”, un impegno disatteso dal Protocollo mondiale per il cibo, affidato alla Fondazione Barilla. Erano presenti a Palazzo Marino molte centinaia di persone; moltissime ragazze dai 18 agli 80 anni, tutte sicure che, tutto considerato, dovunque nel mondo sono le donne a coltivare e a mettere in tavola. (nell’altro campo, tra i renziani dell’Hangar, se ne è ricordata Marta Dassù). L’impegno di tutte e di tutti era quello di ottenere, anche attraverso l’Expo, molto criticata, ma anche l’unica Expo che abbiamo a disposizione, che il cibo fosse considerato come un diritto universale e non una merce.

Le relazioni sono state di Piero Basso dell’Associazione Costituzione Beni Comuni che ha tracciato l’accorata storia dell’Expo 2015, tra costruttori, cooperative, giochi d’acqua, fiumi artificiali, sprechi, affari loschi. Un decennio di storia milanese e lombarda che abbiamo l’obbligo di non dimenticare. L’altra introduzione è stata di Curzio Maltese, parlamentare europeo eletto con la lista Tsipras che si è ripromesso di orientare in modo fattivo le future iniziative del Gue (Gruppo della sinistra europea). Sono seguiti quattro piatti o portate principali, e possiamo ben scriverlo, visto che di cibi si tratta. Susan George del Transnational Institute ha mostrato la presa del potere finanziario sulla produzione alimentare, tanto quella organizzata in modo capitalistico e industriale che sull’altra quella dei poveri, costretti ad abbandonare le terre ormai insufficienti per campare. Emilio Molinari del Contratto mondiale dell’acqua ha trattato, come si conviene, il tema dell’acqua imprigionata dalle multinazionali nonostante il nostro referendum vinto nel 2011; ha poi ripetuto il paradosso: produciamo alimenti in grado di nutrire 2 miliardi di persone più di quante abitano il pianeta e abbiamo un miliardo di affamati. Flavio Valente segretario generale del Fian Internazionale è tornato sul tema della sovranità alimentare e sul diritto a un cibo sano, i temi che aveva già svolto in sede Fao in autunno. Infine Vittorio Agnoletto anch’egli della Ong Costituzione Beni Comuni ha spiegato, anzi ha fatto vedere, la forza e gli intrecci delle multinazionali alimentari, delle connessioni con le banche, i collegamenti e le linee di forza che compromettono il nostro futuro se non ci daremo da fare per informare le popolazioni, per impedire che la rete si stringa ancora di più.

Hanno infine concluso Basilio Rizzo, presidente del consiglio comunale di Milano e Moni Ovadi,aattore scrittore drammaturgo. Rizzo ha toccato, tra gli altri, il tema del che fare dopo. A Expo digerito, si deve demolire tutto, riaffidando le aree ormai fabbricabili alla speculazione privata, oppure si può, si deve, applicare le tecniche del riuso, chiedere ai paesi partecipanti di non andarsene, ma di fare dell’Expo milanese un bene comune durevole? Moni Ovadia ha parlato del papa, destando qualche mormorio, al primo momento. Poi la sua capacità di attore e di narratore ha conquistato l’attenzione. Parlava con il suo copricapo, segno di un’altra religione e al tempo stesso di grande tolleranza.

La parola di oggi l’ha detta il papa – così ha cominciato – ed è “iniquità”. Il cibo e chi se ne appropria, chi lo toglie ai bambini e ai poveri e lo trasforma in denaro, compie un delitto che non può avere scusanti. Conclude Moni Ovadia che abbiamo eletto parlamentare europeo, ma che si è dimesso prima ancora di cominciare. Il suo breve intervento è servito non solo a riportare nel luogo che gli era proprio – il Palazzo Marino, l’assemblea dei cittadini liberi ed uguali, sotto lo stendardo del comune – le giuste parole di Bergoglio, rilette da Ovadia, capaci di accusare l’iniquità dei ricchi della finanza e l’invito a stare uniti, nella forma del bene comune, dell’intelligenza comune, della lealtà nei confronti degli altri fratelli e sorelle del mondo.

La filosofa e attivista ambientalista indiana sostiene giustamente che il problema dell'alimentazione nel mondo (una delle maggiori nefandezze prodotta dal capitalismo di ieri e di oggi) merita un'esposizione internazionale: ma non questa di Milano, farcita com'è dalla presenza dei maggiori responsabili dell'affamamento dei paesi piu poveri. Huffington post, 13 novembre 2014

Il mondo ha bisogno di una cultura alimentare che si basi su qualità e diversità. Soprattutto oggi, in un momento in cui gli alti costi ecologici, sanitari e sociali dell'agricoltura industriale stanno diventando sempre più evidenti. La cultura alimentare dell'Italia è ricca e va nella giusta direzione. Per questo ho sempre sostenuto il progetto iniziale dell'Expo e ho creduto che il posto giusto per realizzarlo fosse l'Italia. In questo paese dove esiste una tradizione alimentare ricca di biodiversità, creatività millenaria e saperi locali si sono sviluppati con grande armonia i temi come il biologico, la filiera corta e la libertà dagli ogm. Tutto questo è stato possibile perché la vocazione del mondo rurale italiano trae forza dall'agricoltura familiare e dal concetto che ogni campo si trasforma in un organismo in equilibrio ambientale, capace di alimentare la fertilità del suolo e di chi ne trae nutrimento. E da queste radici avrebbe dovuto trarre nutrimento e crescere l'Expo. Soprattutto ora che abbiamo montagne di prove scientifiche che eleggono l'agricoltura familiare come l'unica strada per sconfiggere la fame.

Ad Expo, a discutere di agricoltura e di ambiente, non dobbiamo lasciare solo le multinazionali della chimica e dei semi. Entità - come dice anche il mio amico Carlo Petrini - senza volto ma con mille braccia e fortemente impegnate non solo nella difesa dei loro interessi ma anche in una vera e propria campagna di conquista della cultura del Nord del mondo che rischia di fare molti nuovi adepti. Expo avrà un senso solo se parteciperà chi s'impegna per la democrazia del cibo, per la tutela della biodiversità, per la difesa degli interessi degli agricoltori e delle loro famiglie e di chi il cibo lo mette in tavola. Solo allora Expo avrà un senso che vada oltre a quello di grande vetrina dello spreco o, peggio ancora, occasione per vicende di corruzione e di cementificazione del territorio. Sono stata nominata fra gli ambasciatori dell'Expo e ringrazio per l'onore che mi è stato fatto.

Purtroppo però non vedo nei programmi o nei calendari delle iniziative specifici richiami a temi fondamentali: la giustizia e la sovranità alimentare, l'agricoltura familiare, la biodiversità, il dramma dell'erosione genetica e le possibili soluzioni. Questa mancanza di chiarezza nel promuovere temi così essenziali sta producendo un vuoto che gli interessi commerciali e finanziari dell'industria biotecnologica rischiano di riempire con una campagna di spot pubblicitari: l'Expo rischia di trasformarsi in una fiera della colonizzazione finanziaria e industriale dei campi piuttosto che un'occasione di risposta alle vere cause della fame.

Non intendo in nessun modo sostenere, nemmeno indirettamente, le compagnie biotecnologiche che promuovono tutto ciò che è contrario alla buona nutrizione, non ecologico, insostenibile e che provoca al contempo la distruzione dell'agricoltura familiare. Il monopolio e l'illimitata pretesa di guadagno distruggono la sovranità e sostenibilità alimentare. L'agricoltura industriale che proviene dagli Stati Uniti fornisce cibo di cattiva qualità e provoca danni alla salute umana, inquina il suolo e danneggia l'ambiente. Le compagnie agroindustriali considerano il principio di precauzione, cioè la salute umana, un ostacolo al libero commercio da eliminare. Al contrario uno dei principali obiettivi dell'Expo deve essere proprio il rafforzamento della biosicurezza e dei modelli agroecologici. Per queste ragioni, come ambasciatrice dell'Expo - aderendo anche all'appello di Carlo Petrini, don Luigi Ciotti e Ermanno Olmi, anche lui ambasciatore dell'Expo - chiedo che sia fatta subito chiarezza sulla promozione dei principi a cui, assieme a tanti altri, sto lavorando da più di trent'anni e che ciò risulti evidente a tutti nell'agenda della manifestazione.

La mia proposta è semplice: affrontiamo a un tavolo il modello di produzione alimentare da mettere in agenda. Facciamo entrare le idee dentro Expo e teniamo fuori la cultura del profitto che danneggia le persone e il pianeta. Affrontiamo la questione chiave: il modello di produzione del cibo che viene proposto per il futuro è quello industriale basato su ogm e brevetti che finiscono per controllare la filiera alimentare da parte delle multinazionali oppure è quello che promuove la sovranità alimentare basata sulla biodiversità e sui sistemi ecologici, locali e territoriali? Questo dibattito ha una portata mondiale e l'Italia è il paese che più legittimamente può proporlo considerando anche le scelte chiare e coraggiose che ha fatto il suo governo sugli ogm. Mi rendo perfettamente conto che l'attuale crisi economica in Italia, provocata da Wall Street e dal sistema bancario, ha un impatto sullo stanziamento previsto in origine per l'Expo e che perciò le imprese biotech, in forza della loro capacità finanziaria, tendono a prendere una piattaforma più ampia. Ma proprio questa crisi rende ancora più evidente la validità del modello che tanti movimenti contadini propongono da decenni e che sostengo con tutta me stessa perché so essere quello migliore per garantire la salute del pianeta, il diritto al cibo e a un lavoro dignitoso per tutti.


«Il summit di New York. "Bisogna invertire la rotta", tutti d’accordo al vertice Onu sul riscaldamento globale. Ma Obama ha le mani legate. Gli Usa, in pieno boom petrolifero, non firmeranno trattati internazionali». Il manifesto, 24 settembre 2014

Nella time line dei sum­mit ambien­tali quella di ieri a New York è stata una tappa più che altro sim­bo­lica in attesa del ver­tice «di lavoro» in pro­gramma a Parigi a fine 2015 da cui dovrebbe sca­tu­rire un vero pro­gramma. Dal quar­tiere gene­rale Onu, alla­gato durante l’uragano Sandy due anni fa, il segre­ta­rio gene­rale Ban Ki-Moon ha dichia­rato che è essen­ziale che il mondo diventi carbon-neutral entro la fine del secolo. Sul podio ieri si sono suc­ce­duti ora­tori come il sin­daco di New York Di Bla­sio, Al Gore e Leo­nardo di Caprio, ognuno ha par­lato degli effetti distrut­tivi ormai incon­tro­ver­ti­bili di un clima in uno sta­dio avan­zato di muta­mento e del tempo ormai in sca­denza per agire.

Ma il sum­mit sul clima ha visto il pre­si­dente degli Stati Uniti in una posi­zione fin troppo con­sueta. Obama ha esor­tato i 125 capi di stato che hanno accolto l’invito del segre­ta­rio Ban Ki-Moon, a «intra­pren­dere passi con­creti» per limi­tare le emis­sioni serra, riba­dendo che non agire oggi sul riscal­da­mento glo­bale equi­var­rebbe a un tra­di­mento delle gene­ra­zioni future. Pur­troppo anche que­sta volta, come in tanti pre­ce­denti con­sessi, i lea­der in pla­tea hanno leci­ta­mente potuto chie­dersi da che pul­pito è arri­vata la predica.

Il fatto è che dalla disfatta di Kyoto la posi­zione ame­ri­cana sul clima è stata segnata dall’impotenza se non dalla col­pe­vole iner­zia. Il pro­to­collo di Kyoto venne sottoscritto nel 1997 da Bill Clin­ton ma non fu mai rati­fi­cato da un con­gresso ostile e for­te­mente influen­zato dalle potenti lobby petro­li­fere Usa. A quella scon­fitta ne seguì una incas­sata per­so­nal­mente da Obama con il nulla di fatto a Cope­n­ha­gen nel 2009, all’inizio del suo mandato.

Le pro­spet­tive per Parigi non si pro­fi­lano migliori. La firma di un accordo inter­na­zio­nale vin­co­lante richiede una mag­gio­ranza di due terzi nel par­la­mento ame­ri­cano. Impen­sa­bile nell’attuale clima poli­tico che fra meno di due mesi potrebbe addi­rit­tura vedere entrambe le camere in mano a un par­tito che sposa uffi­cial­mente il nega­zio­ni­smo cli­ma­tico. Fra i prin­ci­pali osta­coli alle effet­tive riforme spicca quindi un sostan­ziale ecce­zio­na­li­smo ame­ri­cano per cui gli Usa non hanno ad esem­pio mai sot­to­scritto i trat­tati inter­na­zio­nali con­tro la discri­mi­na­zione delle donne e per l’eliminazione della tor­tura, delle mine anti-uomo e delle bombe a grap­polo. In ognuno di que­sti casi l’argomento uffi­ciale è stata la tutela della pre­ro­ga­tiva «indi­pen­dente» degli Stati Uniti.

Pre­ce­denti che non depon­gono certo a favore della bat­ta­glia con­tro le emis­sioni atmo­sfe­ri­che, dove sono in gioco miliardi di fat­tu­rati e pro­fitti indu­striali. Obama ha quindi avuto un bel esor­tare ma la realtà è che ha le mani legate. Eppure senza una piena par­te­ci­pa­zione ame­ri­cana non sono rea­li­sti­che le pro­spet­tive per inver­tire la rotta. Il pre­si­dente Usa ieri ha riman­dato l’annuncio di nuovi obiet­tivi a lungo ter­mine al 2015. John Pode­sta, segre­ta­rio per il clima e l’energia, ha con­fer­mato che biso­gnerà aspet­tare il primo tri­me­stre del pros­simo anno.

Obama si è dun­que limi­tato a dichia­ra­zioni di gene­rico intento e a ricor­dare le sue recenti riforme come le nor­ma­tive varate a giu­gno per il con­te­ni­mento delle emis­sioni e la ridu­zione del 30% entro il 2030 dell’inquinamento delle cen­trali ter­mi­che a car­bone rispetto ai livelli del 2005. Un passo con­creto che gli è valso l’aperta oppo­si­zione di molti espo­nenti, anche demo­cra­tici, degli stati in cui l’industria carboni­fera è più forte. E que­sto è il discorso emerso come cen­trale a New York. Tutti gli inter­ve­nuti hanno infatti ripe­tuto che una effi­cace poli­tica ambien­tale pre­sup­pone una effet­tiva riforma eco­no­mica, che non può esserci pro­gresso sul clima senza una fon­da­men­tale revi­sione delle pra­ti­che indu­striali. Nelle mani­fe­sta­zioni popo­lari orga­niz­zate alla vigi­lia del sum­mit Naomi Klein aveva riba­dito il con­cetto di sostan­ziale «incom­pa­ti­bi­lità ambien­tale» dell’imperante libe­ri­smo capi­ta­li­sta. Un con­cetto ripreso anche da molti rela­tori all’interno del palazzo di vetro, come Leo­nardo Di Caprio. «Dob­biamo smet­tere di dare agli inqui­na­tori la licenza che hanno avuto nel nome del libero mer­cato — ha detto l’attore rivolto ai capi di stato — non meri­tano i nostri con­tri­buti fiscali ma sem­mai il nostro attento scru­ti­nio». Un idea riba­dita anche dall’ex pre­si­dente mes­si­cano Felipe Cal­de­rón che ha ricor­dato che glo­bal­mente il com­parto ener­ge­tico gode ancora di 600 miliardi di dol­lari di sus­sidi e incen­tivi pub­blici rispetto ai soli 100 a favore delle ener­gie rinnovabili.

È una realtà par­ti­co­lar­mente evi­dente nel paese ospite. Nono­stante i nuovi limiti impo­sti al car­bone infatti, gli Stati Uniti sono nel pieno del mag­giore boom petro­li­fero dagli anni 40, un enorme revi­val degli idro­car­buri che ha il tacito appog­gio di un’amministrazione che ha auto­riz­zato un numero record di esplo­ra­zioni off shore. Gra­zie a nuove tec­ni­che di estra­zione super inqui­nanti come il frac­king, sono diven­tate acces­si­bili enormi riserve di gas e petro­lio. Acqua e agenti chi­mici iniet­tati ad alta pres­sione hanno «libe­rato» metano pro­fondo e petro­lio. Nuovi oleo­dotti si sno­dano dai pozzi del Dakota e dalle sab­bie bitu­mi­nose del Canada verso le raf­fi­ne­rie del Golfo del Messico.

Il boom sta tra­sfor­mando l’America da impor­ta­trice a espor­ta­trice netta di idro­car­buri. Le impor­ta­zioni infatti sono dimi­nuite del 50% solo negli ultimi 7 anni e il paese sarebbe pra­ti­ca­mente auto­suf­fi­ciente se non fos­sero le stesse com­pa­gnie petro­li­fere a non volerlo. È di gran lunga più lucroso gestire un mar­gine di scar­sità, non satu­rare il mer­cato interno e otti­miz­zare invece quote di gas e petro­lio su quello inter­na­zio­nale. In que­ste con­di­zioni si pre­vede un aumento del 60% della domanda di idro­car­buri nei pros­simi 20 anni — l’esatto oppo­sto di ciò che è stato auspi­cato nei discorsi di ieri.

In que­sta sbor­nia di car­bo­nio, il ruolo poli­tico è stato di col­pe­vole acquie­scenza nel nome di un'imprescin­di­bile ripresa eco­no­mica. Enne­sima con­ferma che forse solo quando i danni eco­no­mici del muta­mento cli­ma­tico - il calo dei con­sumi nel vor­tice artico dello scorso inverno, ad esem­pio, o la dram­ma­tica sic­cità nel paniere cali­for­niano - supe­re­ranno i rapidi pro­fitti petro­li­feri, i poli­tici ritro­ve­ranno la «lun­gi­mi­ranza». Salvo poi essere troppo tardi.

Quello dell'orsa inopinatamente abbattuta non è un problema da animalisti romantici e mollaccioni, o di caso specifico, ma pone una questione di metodo nel nostro approccio all'ambiente e al territorio, fondamentale nel millennio dell'urbanizzazione planetaria. Corriere della Sera, 12 settembre 2014, postilla (f.b.)

L’epilogo della storia di Daniza è stato definito il fallimento di una convivenza. Il fallimento, a mio parere, è nostro e la convivenza di fatto non è mai iniziata né mai si sono creati corretti presupposti perché comunque potesse durare nel tempo. Il presupposto fondamentale è culturale. La salvaguardia della fauna selvatica si fonda su conoscenze scientifiche di ecologia, biologia, fisiologia, comportamento delle diverse specie. La gestione della fauna selvatica è una disciplina inserita nei corsi di laurea e tema anche di prestigiosi master. È stata introdotta da decenni proprio per rispondere alla necessità di formare competenze specifiche in materia di valorizzazione del nostro patrimonio faunistico. Oggi abbiamo una generazione preparata ad affrontare temi di gestione ambientale che opera anche nelle amministrazioni locali. Ma evidentemente non basta. La presenza dell’orso in Trentino era stata accolta positivamente in quanto garanzia di buona qualità di quel territorio. Ma quando mamma Daniza ha reagito verso un uomo invadente solo per proteggere la prole è stata dichiarata «animale problematico». Il resto è cronaca nota. Si poteva forse non arrivare al triste epilogo con un maggiore e più capillare impegno di educazione.

Gli orsi se non disturbati non attaccano. Va reso noto il loro comportamento, le loro esigenze e cosa fare in caso di incontri ravvicinati. In altri Paesi questo è fatto tutto l’anno con operatori specializzati e cartellonistica sparsa ovunque. In caso di razzie di bestiame i rimborsi sono garantiti e veloci. Insomma si opera per attenuare tensioni e conflitti fra interessi opposti. Nel caso di Daniza, al contrario si è creata una pressione quasi ossessiva, una sorta di ridicola sfida antica fra uomo e fiera. Mamma orsa inspiegabilmente andava catturata, al di là di ogni ragione della scienza e dei sentimenti. La cattura, si sa, prevede un’anestesia, operazione di per sé complessa e delicata. Ho consultato un po’ dell’ampia letteratura scientifica e ho scoperto interessanti dettagli. Ad esempio ci sono aree del corpo più sensibili su cui indirizzare l’anestetico; periodi più favorevoli per farlo, ad esempio quando l’orso entra in stato di ipotermia; è ovviamente indispensabile una valutazione attenta del dosaggio. Infine vanno rilevati i parametri fisiologici di base per garantire l’eventuale trasporto. Per Daniza qualcosa non ha funzionato ed è morta. Aveva solo reagito per difendere i suoi cuccioli e ora, rimasti soli, anche su di loro grava un destino incerto.

postilla

Forse hanno a modo loro ragione, quelli che liquidano la faccenda con sorrisetto da compatimento, come romanticismo da orsacchiotti, ma senza sapere che proprio l'orsacchiotto di peluche segna un passaggio fondamentale nell'idea di gestione del territorio naturale in epoca urbana e industriale. Il pupazzetto “Teddy Bear” nasce come immagine popolare, infatti, quando il presidente americano Teddy Roosevelt manifestò un primo gesto di riflessione ufficiale sul nostro rapporto non meccanico con l'ambiente, proprio durante una battuta di caccia all'orso, rifiutandosi di abbatterne uno ferito. Il fatto è datato 1902, e pochi anni più tardi iniziavano ad esempio le riflessioni sulla “megalopoli verde” dell'Appalachian Trail, appendice naturale del grande sistema insediativo e socioeconomico delle metropoli atlantiche che un paio di generazioni più tardi la geografia avrebbe ribattezzato Bos-Wash. Un progetto di pianificazione regionale sviluppato da un tecnico del settore parchi federale molto sponsorizzato dal Presidente. In altre parole, col gesto originario di pietà di Roosevelt nasce la prima scintilla di una consapevolezza piuttosto dura da affermare: non solo siamo parte integrante dell'ambiente come esseri umani, ma anche le nostre attività di trasformazione dell'ambiente, l'industria, l'agricoltura, l'urbanizzazione, in esso si inseriscono e con esso si devono confrontare in un dialogo. Dialogo che deve farsi sempre più stretto, va quasi da sé, nel millennio dell'urbanizzazione del pianeta. Nel millennio in cui passa quasi inosservato quel particolare, dell'orsa abbattuta nel suo territorio, a pochi minuti da un centro abitato. Ne dobbiamo fare di strada, e non solo per inventarci migliori dosaggi di sedativo (f.b.)

Una soluzione tecnologica è un passo in avanti, purché non venga applicata da sola, ma adeguata al contesto complesso di problemi in cui si inserisce. La Repubblica 25 giugno 2014, postilla (f.b.)

Cespugli di fiori e prati all’inglese al posto di paraboliche e panni stesi. Così potrebbe cambiare la vista dall’alto delle nostre città in base alla prima delibera del Comitato per lo sviluppo del verde urbano del ministero dell’Ambiente, che prevede incentivi fiscali fino al 65 per cento per chi trasforma il tetto di casa in un giardino pensile.

La terrazza condominiale e il lastrico solare che diventano un’oasi green , per godersi il panorama, prendere il sole o fare una festa, non è più solo un capriccio o un lusso: secondo il comitato di saggi che deve indirizzare i regolamenti attuativi della legge numero 10 del 2013, quella sullo sviluppo degli spazi verdi in città, è una metamorfosi da incoraggiare perché migliora le prestazioni energetiche degli edifici quanto l’installazione dei pannelli solari o la sostituzione degli infissi vecchi. Quindi deve godere degli stessi sgravi fiscali.

Diffusi soprattutto al centro sud, i lastrici solari sono una costante delle periferie italiane costruite a partire dagli anni Sessanta. Solo a Roma ce ne sono 20mila, per un polmone verde potenzialmente vasto 400 ettari: cinque volte Villa Borghese o 570 campi da calcio. Ma la delibera approvata in aprile può aiutare anche città poco verdi a riempirsi di parchi ad alta quota: a Mestre, per esempio, ci sono tanti lastrici e solo l’1 per cento di verde urbano. Per ottenere gli incentivi le strade sono due: presentare la certificazione che attesta il risparmio energetico, e in questo caso si arriva allo sgravio del 65 per cento sulla spesa sostenuta, o presentare l’intervento come ristrutturazione generale e sfruttare l’incentivo del 50 per cento.

Tantissimi i benefici: le “coperture verdi” riducono le emissioni di anidride carbonica, assorbono i rumori, filtrano le polveri sottili, trattengono l’acqua piovana alleggerendo la rete fognaria, tallone d’Achille degli allagamenti, migliorano l’isolamento termico dei palazzi e il panorama. «I giardini pensili cambiano anche il clima estivo nelle città perché smorzano l’isola di calore » spiega l’ingegnere Giorgio Boldini, membro del comitato e presidente dell’Associazione italiana verde pensile.

«A Roma in agosto la temperatura è più alta di cinque gradi rispetto alle campagne circostanti: il sole batte sull’asfalto, sui muri di cemento e questi si arroventano, riscaldano l’aria e il calore resta durante la notte. A Milano i gradi diventano anche nove in più». Nel suo giardino sul tetto, cento metri quadrati di erba e arbusti a quota 24 metri nel quartiere Prati, a Roma, Boldini ha addirittura piantato dei pioppi argentati che hanno raggiunto i sei metri di altezza. «Grazie a queste piante a casa non ho bisogno dell’aria condizionata» continua.

Non serve la bacchetta magica per mutare un lastrico in giardino ma basta sostituire le piastrelle con uno strato impermeabile, un altro inerte e qualche centimetro di terra. L’operazione costa sui 150 euro al metro quadrato. «Esattamente quanto ci vorrebbe per rifare un lastrico vecchio: per questo la trasformazione conviene quando bisogna ristrutturare » chiarisce Boldini. «L’intento della delibera è dire che si può trasformare un tetto in giardino e ricavarne un beneficio economico».

Questa posizione apre grandi prospettive per architetti e garden designer amanti della biodiversità: Roma, Milano, Napoli o Bari non conquisteranno certo lo splendore dei mitici giardini pensili di Babilonia, considerati una delle Sette Meraviglie dell’antichità, ma riconvertire in verde le distese di tegole e piastrelle impone un nuovo sguardo sulla progettazione. «Le città del futuro saranno sempre più integrate con gli elementi naturali» spiega Edoardo Bit, architetto specializzato nel verde verticale. «Questo significa riportare in quota i corridoi ecologici per le specie animali e vegetali spodestate dai palazzi».

postilla

Non è certo un caso se pur in mezzo a tanti altri aggeggi assai più ingombranti e vistosi, dentro il quartiere forse più decantato d'Italia dei nostri tempi, spicchi fra tutti il cosiddetto Bosco Verticale: la natura va di moda, e in una certa prospettiva è pure ottima cosa provare a uscire dalle secche di certi approcci meccanici puri alla città che sull'arco del '900 hanno creato tanti guai. Ed è ulteriormente positivo che questo guardare alla natura non si declini più in quelle versioni ideologiche fallimentari della città giardino villettara, energivora, palesemente insostenibile e a orientamento automobilistico detta comunemente sprawl e non solo dai suoi critici. Però tocca come sempre distinguere la parte dal tutto: c'è una bella differenza tra un adeguamento edilizio e la cosiddetta “città del futuro”, esattamente come c'è un abisso fra un terrazzo, per quanto verdissimo e produttivo di cose pure da mangiare, e un parco metropolitano, una rete ecologica, un campo agricolo. Per esempio in questi giorni si sta sviluppando con l'iniziativa http://www.habitami.it/ una campagna pubblico-privata di riqualificazione energetica degli edifici, e va benissimo, ma nessuno si sognerebbe mai di definire, da sola, una cosa così “la città del futuro”. Ecco, proviamo a considerare sempre, tutto, nelle giuste proporzioni, non di più, non di meno (f.b.)

Uno strano appoggio di Legambiente al perverso lavorìo distruttivo che Renzi sta conducendo contro le tutele che ostacolano il suo FARE. Eppure, chi volesse suggerire qualcosa al PMR in materia di ambiente ed ecologia avrebbe un ricco elenco di atti da proporre, a partire da un serio piano nazionale per l'energia e della definizione dei "lineamenti fondamentali dell’assetto del territorio nazionale". Magari non affidandoli alla coppia Lupi-Realacci. Greenreport, 12 giugno 2014

Legambiente festeggia il Wind Day, la giornata del vento promossa da European Wind Energy Association e Global Wind Energy Council dimostrando che anche in Italia dal vento può arrivare energia pulita a prezzi competitivi. L’associazione, accusata proprio in questi giorni da una campagna del Fatto Quotidiano di essere troppo vicina alla “lobby” delle energie rinnovabili, rivendica il suo sostegno all’eolico e spiega che «Complessivamente sono 8.650 MW installati in Italia a fine 2013, tra impianti di grande taglia e mini eolico, che hanno consentito di soddisfare i fabbisogni di oltre 5,5 milioni di famiglie attraverso 14,8 TWh prodotti dal vento (quasi il 5% dei consumi complessivi). In ogni parte del mondo cresce la potenza eolica installata, che negli ultimi dieci anni è decuplicata, con oltre 300 GW installati e per il 2014 si stima che le nuove istallazioni potranno raggiungere i 47 GW di potenza».

Edoardo Zanchini, vice presidente di Legambiente, sottolinea che «L’eolico è oggi una realtà in Italia e in tutti i continenti che nessuno può più considerare marginale. n particolare in un periodo di crisi e di necessità di ridurre consumi e importazioni di fonti fossili, un Paese come l’Italia ha tutto da guadagnare nel puntare sull’eolico. Oggi siamo a un passaggio decisivo, perché le rinnovabili garantiscono oltre un terzo dell’energia elettrica consumata in Italia e possiamo costruire un modello energetico moderno e distribuito incentrato su efficienza energetica e rinnovabili».

Cogliendo l’occasione del Wind Day Legambiente lancia anche un appello al Governo Renzi perché intervenga rispetto ai troppi problemi e veti che fermano lo sviluppo di impianti eolici: «Il principale problema su cui intervenire riguarda le regole – dicono al Cigno Verde – perché in tante Regioni è di fatto impossibile realizzare nuovi impianti eolici: dalla Sicilia alla Sardegna, dall’Emilia Romagna alle Marche, norme e linee guida bloccano ogni tipo di progetto. Inoltre, le Soprintendenze sempre più spesso bloccano i progetti anche quando sono al di fuori di aree protette e di vincoli per un pregiudizio estetico sempre più evidente. Ultimo caso è il progetto di 4 torri bocciato nei comuni di Vado Ligure e Quiliano, fermato proprio per ragioni estetiche dopo aver avuto una VIA positiva da parte della Regione».

Secondo Zanchini, «Occorre fare finalmente chiarezza rispetto alle regole per l’approvazione degli impianti eolici, perché l’incertezza delle procedure sta diventando una barriera insormontabile ovunque. Basti dire che a fronte di 15 progetti presentati per impianti off-shore nessuno è in funzione o in cantiere, per l’assenza di qualsiasi riferimento normativo e per i veti di Regioni e Soprintendenze».

E l’eolico offshore, che vive da tempo un boom in Europa e che sta prendendo piede anche in Cina, mentre sono stati sbloccati da Obama progetti al largo della costa Atlanti Usa, in Italia non ha nemmeno in vigore le linee guida nazionali introdotte nel 2010, e Legambiente evidenzia che «La situazione di conflittualità è tale che vengono bocciati anche progetti a diversi chilometri dalla costa o davanti all’impianto siderurgico di Taranto». Per quesyto gli ambientalisti chiedono al Governo PD-NCD-centristi di «Intervenire con un provvedimento che affronti questi temi come fatto negli altri Paesi europei, dove la gestione dei progetti avviene in maniera molto diversa e trasparente».

Legambiente fa l’esempio della Spagna, dove il governo centrale ha approvato un piano che individua le aree incompatibili con la realizzazione di impianti eolici per ragioni ambientali o di rotte di navigazione commerciali o militari, «Così nelle altre aree si possono proporre impianti da sottoporre a valutazione». La Francia ha scelto una procedura differente, che prevede l’individuazione da parte del Governo delle aree dove realizzare impianti eolici off-shore e recentemente si sono aperte gare trasparenti per la selezione delle proposte, individuati incentivi ma anche vantaggi per i territori. Per Legambiente «Procedure analoghe devono essere introdotte anche in Italia in modo da superare l’attuale situazione, e permettere alle imprese di avere certezze rispetto agli investimenti, escludendo le aree incompatibili e fissando criteri per la selezione delle proposte».

Gli ambientalisti non sfuggono però ad un’altra tematica cara a chi, come Lipu e Italia Nostra, si oppone agli impianti eolici e sottolineano che «Un ritardo rilevante lo sconta il nostro Paese anche rispetto al tema dell’interazione tra impianti e avifauna, al momento infatti non vi sono regole nazionali o linee guida in materia. L’obiettivo anche qui dovrebbe essere di alzare il livello del confronto scientifico su questi temi, per aprire un confronto con Regioni, studiosi, associazioni, al fine di evitare o limitare al minimo gli impatti nei confronti della biodiversità, studiando attentamente le diverse situazioni territoriali e le specie presenti».

Zanchini conclude: «Al Governo chiediamo di cambiare marcia rispetto alla situazione degli impianti eolici nel territorio italiano. Per continuare nella crescita delle installazioni si deve intervenire con politiche attente ai territori, come la sostituzione e il repowering degli impianti esistenti, la realizzazione di nuovi progetti di piccola e grande taglia integrati nel paesaggio e poi attraverso impianti off-shore nei tratti di costa dove le condizioni di vento e ambientali lo consentono. Legambiente stima una potenzialità dell’eolico pari al 10% dei fabbisogni elettrici italiani complessivi con lungimiranti politiche di sviluppo degli impianti e di efficienza energetica, che sarebbero una garanzia importante per un futuro energetico realmente sicuro e pulito».

Qualunque cosa diventa potenziale elemento di degrado quando è di massa, e quindi quella demografica è per forza una tematica centrale per il futuro. Le prospettive della prossima enciclica ecologica di Papa Francesco. Corriere della Sera, 16 maggio 2014, postilla (f.b.)

Leggo che papa Francesco sta preparando una enciclica «verde», vale a dire una enciclica che condanna la crescente scomparsa delle zone vergini della Terra, sempre più erose dalla cementificazione dell’uomo. Una cementificazione prodotta dal crescente e insensato aumento della popolazione. Siamo già più di sette miliardi e, se le proiezioni di poco fa indicavano un tetto massimo di nove miliardi, oggi se ne prospettano persino dieci. Dove li mettiamo? Per ora affollano città sempre più smisurate e squallide periferie rese pericolose da immigrati affamati senza lavoro e senza mestiere. Tokyo potrebbe arrivare (nella ultima proiezione dell’Economist ) a 39 milioni di abitanti, Delhi a 30 milioni, San Paolo e Città del Messico a più di 20 milioni, e così via.

Ma la popolazione che cresce di più e più rapidamente è in Africa con punte di nascite fino a 40 figli, una follia che potrebbe e dovrebbe essere contrastata. Senonché nel 1968 papa Paolo VI con l’enciclica Humanae Vitae ha condannato l’uso dei contraccettivi. Nessun’altra religione e nemmeno i cristiani protestanti hanno recepito questo messaggio. Ma la Chiesa di Roma, con l’appoggio dei Paesi sudamericani e dei potentissimi cattolici americani, ha bloccato perfino la politica della contraccezione sia alle Nazioni Unite sia e soprattutto in Africa (dove gran parte delle missioni sono cattoliche).

La storia della enciclica Humanae Vitae è nota ed è stata minutamente raccontata. Il Papa costituì una commissione di teologi che concluse i suoi lavori dichiarando che la dottrina cattolica non forniva nessun sostegno alla tesi di Humanae Vitae . Ma Paolo VI non si lasciò convincere.
Per la fede l’uomo è tale e diverso da tutti gli altri esseri viventi perché dotato di anima. E San Tommaso, il massimo pensatore della Chiesa, nella sua Summa Teologica distingue tre forme e fasi dell’anima. La prima è «l’anima vegetativa», la seconda è «l’anima animale», e solo la terza è «l’anima razionale» che caratterizza gli esseri umani, e che arriva tardi, soltanto quando il nascituro è formato o anche già nato. Dunque il Tomismo vieterebbe l’aborto di una anima razionale, ma certo non vieta i contraccettivi.

Dunque spero ardentemente che l’enciclica «verde» di papa Francesco lasci cadere la Humanae Vitae . Il Papa argentino ha scelto di essere francescano ma è anche stato educato dai gesuiti, un ordine che assieme ai domenicani costituisce l’ordine colto della Chiesa. L’enciclica che sta elaborando papa Francesco non può ignorare che un formicaio umano ucciderebbe anche il verde della Terra, la natura «vera». Gli esperti ci dicono che ci restano 10 anni prima della catastrofe climatica che sarebbe anche la catastrofe umana delle donne e degli uomini che la stanno vivendo.

Papa Francesco, si obbietterà, non può ignorare e tanto meno contraddire la tesi dei suoi recenti predecessori. Invece nulla lo vieta. La dottrina della infallibilità papale è del 1876, e riflette la caduta del potere temporale della Chiesa. In ogni caso questa infallibilità vale soltanto per i pronunciamenti solenni ex cathedra , su materie di fede e di morale. E quindi papa Francesco è liberissimo di asserire — come ha già fatto, visto che cito proprio lui, da una omelia del 19 marzo 2013 — che «la vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani ma una dimensione che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero Creato, la bellezza del Creato». Sante parole.

postilla
Anche al netto della pessima abitudine del professor Sartori di provare a dare la linea pure al Papa. Anche al netto dal fatto che (lo avranno già pensato in molti) quello del problema demografico è un antico pallino del professore. Ecco, anche al netto da queste considerazioni, e dei probabili sorrisetti di compatimento di chi sta già pensando ai fallimenti di politiche come quella cinese sul figlio unico eccetera eccetera, va detto che il problema sovrappopolazione è ovviamente centrale. Tutto quanto chiamiamo temi ambientali, ovvero gli impatti delle attività umane sugli equilibri naturali, dalle emissioni al land grabbing ai consumi energetici e alla produzione di rifiuti, tutto insomma, dipende in buona sostanza da quello. E non a caso quando si discute di una cosa o dell'altra, spessissimo emerge la solita considerazione: beh, finché si tratta di una cosa di élite possiamo non farci caso, ma quando riguarda centinaia e centinaia di milioni di persone diventa inquietante. Appunto: al netto delle simpatie per il professor Sartori, quei quaranta figli africani citati dovrebbero dare i brividi, e ovviamente non perché sono africani, ma esattamente perché gli augureremmo, a tutti quanti, una casa, doppi servizi, un'auto, tre pasti abbondanti al giorno, il weekend al centro commerciale. Chiaro, no? (f.b.)

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