Cambiamenti climatici, sprechi e infrastrutture colabrodo: la mancanza d'acqua investe nuove aree del paese ed è sempre più in anticipo. Articoli di Andrea Giambartolomei e Luca Mercalli. il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2017 (p.d.)
L’ITALIA ASSETATA
SPRECA E ORA E'
IN EMERGENZA
di Andrea Gianbartolomei
Dopo un inverno con poche precipitazioni c’era da aspettarlo. Fiumi e laghi hanno meno acqua del solito e, come se non bastasse, a mettere in ginocchio alcune aree e l’agricoltura si aggiungono i venti caldi che arrivano dal deserto africano. È allarme siccità in Italia e per questo ieri il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato di emergenza nelle province di Parma e Piacenza, che riceveranno 8,65 milioni di euro e avranno alcune deroghe alle norme per assicurare la fornitura di acqua potabile alla popolazione. Sulla stessa linea si muove la Regione Sardegna, che ieri ha chiesto al ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina di prendere provvedimenti anche per l’isola.
La siccità sta colpendo soprattutto “i bacini idrografici padano e delle Alpi orientali, nonché il lago di Bracciano nel Lazio e la Sardegna”, riferisce il ministero dell’Ambiente in una nota. Sarà monitorata la situazione del bacino dell’Adige, mentre sul bacino del Po i valori di portata sono nuovamente in calo. Sempre lungo il Po, all’altezza di Alessandria, i dati rivelano una situazione più grave. L’Arpa Piemonte, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale, ha calcolato che il volume di acqua che passa ogni secondo all’idrometro di Isola Sant’Antonio (Alessandria) è sotto della media storica, quasi il 65 per cento in meno rispetto la media mensile del periodo 1995-2015. Anche le riserve idriche disponibili invasate risultano essere inferiori del 60 per cento rispetto alla capacità massima teorica complessiva. Di conseguenza, a Est di Alessandria, nella zona di Piacenza (dove il Po è sotto il livello medio di 1,5 metri), e poi di Parma, la situazione suscita una grande preoccupazione al punto di arrivare allo stato di emergenza. Le autobotti stanno già rifornendo di acqua potabile alcune zone, mentre la Coldiretti – che ha già stimato un miliardo di euro di danni a livello nazionale – sottolinea i rischi per questa zona dell’Emilia in cui si realizza il 35 per cento della produzione agricola nazionale, un quarto dei pomodori da conserva e molte eccellenze agroalimentari.
Non è l’unica zona a essere in allerta. Nell’Italia centrale “la situazione più delicata è certamente quella che coinvolge la città di Roma e i Comuni limitrofi, collegata, in particolare, con la condizione del lago di Bracciano”, continua la nota del ministero dell’Ambiente. Così nella Capitale la sindaca Virginia Raggi ha ordinato di limitare l’utilizzo di acqua nei giardini, orti e piscine e nel lavaggio delle auto per evitare sprechi.
Nel Lazio, per far fronte alla sofferenza idrica in alcuni Comuni, la Regione ha autorizzato un maggiore prelievo idrico alle sorgenti Pertuso. In Toscana, invece, è soprattutto il Grossetano a soffrire: nella piana è stata persa quasi la metà del raccolto di grano e senza piogge saranno a rischio pomodori, foraggi, viti e ulivi. Nonostante le difficoltà di molte aree, il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti si auto-elogia: “La situazione idrica nazionale e la gestione pro attiva che della stessa stanno facendo gli Osservatori distrettuali ci conferma, ancora una volta, la lungimiranza dell’azione intrapresa da questo ministero, che ha creato, in tempi record, su tutta Italia, tali Organismi di gestione partecipata delle risorse idriche”.
Non sono d’accordo molti ambientalisti. Ad esempio il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli ricorda i mancati investimenti nel miglioramento delle reti idriche: “28 milioni di metri cubi di acqua potabile che si perdono quotidianamente a causa principalmente della fatiscenza di acquedotti che, sommati, portano all’incredibile somma di oltre un miliardo di metri cubi all’anno dispersi”. La rete degli acquedotti è un colabrodo: va perso circa il 40 per cento di acqua e le perdite maggiori si hanno al Sud, sostiene l’Istat in un rapporto di poche settimane fa. Per adeguare la rete idrica ci vorrebbero cinque miliardi,stimava nel maggio 2016 Utilitalia, federazione delle imprese di acqua, energia, ambiente. La media di investimento, ha osservato l’organizzazione, è di 34 euro per abitante all’anno, contro una media europea che viaggia tra gli 80 e i 130 euro.
“SERVE UN PATTO MONDIALE,
MA PER TRUMP SONO FROTTOLE”
Andrea Gianbartolomei intervista Luca Mercalli
«I casi di siccità degli ultimi anni sono qualcosa di inedito, mai verificato nel passato”. Il meteorologo Luca Mercalli non è sorpreso ma “la situazione è grave».
Era prevedibile?
Sicuramente perché non c’è stata pioggia e neve durante l’inverno almeno nelle due zone critiche del Nord, che sono il Veneto e l’Emilia. Da un paio di mesi venivano previsti questi problemi.
C’era qualche modo per prevenire i disagi?
L’acqua se non c’è non si può creare. Le autorità del bacino del Po, allertate da tempo, avranno fatto le loro conferenze per decidere gli usi prioritari dell’acqua. Al di là di fogli e carte bollate, se l’acqua non c’è non può essere inventata.
E i ghiacciai montani non possono aiutare?
Di solito ci danno acqua nella seconda metà dell’estate. In genere nella prima parte dell’estate sono coperti da neve, che con queste temperature sta andando via molto rapidamente e mette a repentaglio il contributo dei ghiacciai. Invece sulle Dolomiti non è nevicato nell’inverno e la situazione è peggiore. Lì i ghiacciai cominciano a scoprirsi.
Si ritireranno ancora?
Quello accade tutti gli anni e un’ondata di calore come questa accelera un pochino il fenomeno.
Secondo lei si sta facendo dell’allarmismo sui media?
Penso che manchi un collegamento tra le emergenze come questa e il cambiamento del paradigma economico. Quando passa l’emergenza nessuno si dà da fare per dei cambiamenti strutturali. Bisognerebbe seguire quanto scritto dal Papa nell’enciclica Laudato si’o seguire l’accordo di Parigi, che per Trump sono tutte frottole.
Con questo caldo dovremmo rinunciare a ventilatori e condizionatori per rispettare l’ambiente?
Con questo caldo il condizionatore diventa una necessità. Quello che si può fare è l’isolamento termico alla casa, qualcosa di strutturale.
Le città (e nelle città) sempre più alte differenza e disagio per i cambiamenti climatici. Come affrontare il problema: Legambiente propone la green economy, ci sono anche altre strade . il manifesto, 1 giugno 2017, con postilla
Non bisogna scrutare l’orizzonte con l’elmetto in testa per scorgere gli effetti dei cambiamenti climatici. Il clima è già cambiato e lo dicono i danni provocati in Italia dai cosiddetti fenomeni metereologici «estremi». Alluvioni, piogge, nevicate eccezionali, periodi di siccità e ondate di calore che rendono complicata, e in alcuni casi anche letale, la permanenza nelle città.
Si possono già contare i morti: dal 2010 al 2016 in Italia hanno perso la vita 145 persone a causa delle inondazioni. Solo l’ondata di calore del 2015 ha provocato 2.754 decessi tra la popolazione anziana di 21 città (over 65). Nello stesso periodo sono stati 126 i comuni italiani colpiti da 242 fenomeni metereologici che hanno provocato danni al territorio e – direttamente o indirettamente – alla salute dei cittadini. Questo è il quadro fotografato dal dossier Le città alla sfida del clima realizzato da Legambiente e presentato a Roma, insieme a un nuovo osservatorio on-line che dà la possibilità di raccogliere, mappare e informare sugli eventi climatici che mettono a rischio le città italiane (cittaclima.it).
Con lo sguardo rivolto agli ultimi sette anni, il rapporto registra già numeri importanti. 52 casi di allagamenti provocati da piogge intense, 98 episodi di danni provocati alle infrastrutture sempre dalle piogge, come i 56 giorni di stop a metropolitane e treni urbani nelle più grandi città (19 giorni a Roma, 15 a Milano, 10 a Genova, 7 a Napoli, 5 a Torino). Danni anche al patrimonio storico (8 episodi), 44 frane provocate da precipitazioni e trombe d’aria. E ancora: 40 esondazioni, 55 giorni di black-out elettrici (il più importante nel gennaio di quest’anno in Abruzzo, con più di 150mila abitazioni rimaste senza luce in seguito a una nevicata). Tra le regioni più coinvolte da «fenomeni estremi» c’è la Sicilia.
LE ONDATE DI CALORE, sottolinea Legambiente, sono un fenomeno sottovalutato che impatta non solo nei centri urbani (gli effetti nocivi per anziani e malati si verificano quando le temperature non scendono di giorno sotto i 35 gradi e di notte sotto i 25). La parola chiave a questo punto è adattamento ed è un messaggio rivolto alla politica, come sottolinea il vice presidente di Legambiente Edoardo Zanchini: «Questa è la vera grande sfida del tempo che viviamo, per vincerla dobbiamo rendere le nostre città più resilienti e sicure, cogliendo l’opportunità di farle diventare anche più vivibili e belle. L’esatta conoscenza delle zone urbane a maggior rischio sia rispetto alle piogge che alle ondate di calore è fondamentale per salvare vite umane e limitare i danni».
Per Edoardo Zanchini è arrivato il momento di rendersi conto che le città non possono più essere lasciate sole: «Non è più rinviabile l’approvazione del Piano nazionale di adattamento al clima, che deve diventare il riferimento per gli interventi di messa in sicurezza del territorio e dei finanziamenti nei prossimi anni, in modo da riuscire in ogni città a intensificare le attività di prevenzione, individuando le zone a maggior rischio, e a realizzare gli interventi di adattamento al clima e di protezione civile».
Il cambio di prospettiva si rende necessario per ribaltare una politica non più sostenibile e non solo economicamente, lo spiega bene un altro dato significativo: l’apertura di 56 stati di emergenza provocati da frane e alluvioni è servita ad accertare danni stimati per 7,6 miliardi di euro e a verificare che lo stato ha stanziato meno del 10% della cifra necessaria (738 milioni di euro). Oltre 1,1 miliardi di danni in Campania, 800 in Emilia Romagna e Abruzzo, 700 milioni in Toscana, più di 600 in Liguria e Marche, che sarebbero serviti per mettere in sicurezza il territorio e dare ossigeno alle attività produttive colpite.
Legambiente ha anche stilato una sorta di decalogo per avere città più resilienti. Oltre all’approvazione del Piano nazionale di adattamento al clima che deve porsi l’obiettivo di mettere in sicurezza le città più vulnerabili, servirebbe un monitoraggio degli impatti sanitari dei cambiamenti climatici sulle aree urbane. La messa in sicurezza dei fiumi che scorrono nelle vicinanze delle città, l’approvazione di linee guida per l’utilizzo di materiali progettati per ridurre l’impatto dei cambiamenti climatici nei quartieri più a rischio (per restare a Milano sono considerati isole di calore preoccupanti i quartieri Forlanini-Ortica, Corsica, Parco Lambro, Mecenate e Quarto Oggiaro). Poi delocalizzare gli edifici a rischio e tutelare le misure di vincolo per evitare la costruzione di nuove strutture in aree allagabili. Buone pratiche sono già presenti in alcune città – dice Legambiente citando il caso milanese di piazza Gae Aulenti – dunque si tratterebbe solo di replicarle per migliorare la vita dei cittadini. Con quali soldi e con quale governo, sarà l’oggetto del prossimo dossier. Forse.
postilla
Ci sono due modi per contrastare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici sull’habitat dell’uomo. L’uno è quello tipico dell’ideologia della “green economy” È quello che mira a ridurre gli effetti adoperando gli stessi strumenti che li hanno causati: nuove tecnologie, nuovi prodotti che sostituiscano sempre di più quelli naturali, regolazione artificiale della temperatura nelle abitazioni, negli uffici, nelle automobili e negli altri luoghi ove vivono i benestanti.
L’altro modo è quello di contrastare le cause dei cambiamenti climatici, a tutte le scale: alla scala planetaria, territoriale, urbana. Affrontando il problema sia nella dimensione globale che in quella locale: a livello sia delle intese interstatali (come quelle che Trump, e non solo lui, energicamente rifiuta), sia nelle politiche locali. In particolare, quelle territoriale e urbanistiche. Su questo piano sarebbe necessario e possibile realizzare un pesante riequilibrio tra suolo libero, verde, prati cespugli alberi acque correnti e ferme da una parte, e cemento, asfalto, ghiaia e ghiaietto, laterizio, lamiere dall’altra parte.
Ma la seconda strada è molto più difficile: impedisce di fare affari, di accrescere privatizzazioni e conseguenti rendite. E potrebbe perfino (udite, utile) impedire la crescita del PIL. Ecco perché gli imbroglioni e gli sfruttatori si affannano a seguire la prima strada (con il loro largo seguito di ingenui un po’ tonti) e così pochi insistono per seguire la strada giusta. (e.s.)
«Un’abbondanza seriale ha cancellato la sapienza del vocabolario agricolo. Anticipiamo il testo di una delle relazioni previste per il Festival dei sensi ( Valle d’Itria, in Puglia)». il manifesto, 25 maggio 2017 (c.m.c.)
Viviamo certamente e da spettatori spesso impotenti, nell’epoca dei paradossi. Se ne potrebbe stilare un elenco esemplare. Uno di questi, davvero clamoroso, è la foga di accumulazione di nuovi beni da parte dei contemporanei. Una bulimia consumistica che crede di acquisire, di impossessarsi, di conquistare, e invece non si accorge di quante perdite va accumulando nel suo vorace avanzare.
L’agricoltura del nostro tempo è un ambito eccellente per scorgere il vasto continente di beni perduti mentre ci si schiude al presente un’abbondanza da sovrapproduzione. Ricade nell’esperienza di tutti. Mai, in nessuna epoca del passato, i banchi dei mercati, al chiuso e all’aperto, erano stati così traboccanti di verdure, di legumi, di frutta. Un’abbondanza abbagliante. Eppure essa maschera un grave processo di impoverimento generale. L’abbondanza in bella mostra è solo di quantità, non di qualità e soprattutto non di varietà. Pensiamo alla frutta, che è il bene agricolo più familiare ai consumatori.
Certo, oggi la velocità dei vettori di trasporto e la rete del commercio internazionale ci mettono a disposizione anche i frutti tropicali che non crescono nei climi delle nostre campagne. Ma le mele e le pere che mangiamo correntemente, quelle che dominano il mercato, si esauriscono in quattro, cinque varietà, come le Golden, le Gala, l’Annurca, le Renette e, per le pere, l’Abate Fetel, le Decane, le William, le Kaiser e poche altre. Da tempo vivaisti e amatori hanno rimesso in circolazione un po’ di varietà antiche.
Quel che qui si vuol ricordare è che fino a poco più di mezzo secolo fa, le varietà sia di mele che di pere, susine, ciliegie, ecc, erano centinaia e centinaia, non solo sui banchi del mercato, ma nel paesaggio delle nostre campagne. Costituivano il frutto secolare della straordinaria produttività biologica della natura modellata dalla creatività e dal genio di infinite generazioni di contadini.
La perdita, però, non è solo di ordine materiale. Non è solo un vasto patrimonio genetico, accumulato in millenni di storia, che è stato rovinosamente intaccato per far posto a un’abbondanza seriale e senza qualità. Non meno grave è la mutilazione estetica e culturale che abbiamo subito. La varietà della piante coltivate costituiva anche la condizione della varietà e ricchezza del nostro territorio.
Sotto il profilo del paesaggio agrario il Bel paese – quello oggi in gran parte cancellato dalle uniformi e monotone piantagioni industriali – si identificava con l’agricoltura promiscua della società contadina. Un paesaggio vario e multiforme, in cui si alternavano i seminativi al frutteto, il pascolo all’uliveto, l’orto alla macchia. La varietà era componente intrinseca della bellezza.
In Italia la fuoriuscita dalla penuria e dalle fatiche della società contadina – mai abbastanza lodata per le sue componenti di umana liberazione – ha reso tuttavia insensibili i contemporanei di fronte alle gravi perdite di beni immateriali che si andavano nel frattempo accumulando.
Chi non ricorda la solitaria lamentazione di Pier Paolo Pasolini per la «scomparsa delle lucciole»? Oggi la rammentiamo soprattutto perché quella scomparsa era un segnale dell’inquinamento provocato dall’avanzare della chimica nelle nostre campagne. Ma Pasolini recriminava però una perdita più grande e struggente: la scomparsa di una visione del mondo notturno, il buio formicolante di migliaia di lumi che parlava alla fantasia di chi osservava, che aveva popolato per millenni l’immaginario delle popolazioni contadine.
Non costituiva una perdita rilevante la privazione di quella umana esperienza fatta di fascino, fantasticheria, incanto, poesia, che si dileguava per sempre?
Ma l’avanzare dell’agricoltura industriale ha prodotto una perdita culturale gigantesca e assai meno visibile di quella del paesaggio. Nel 1983 un autorevole storico inglese, Keith Thomas nel suo Man and the natural world (Einaudi, 1994) rivelò , e forse fu il primo storico a farlo, la mirabolante conoscenza che i contadini inglesi ed europei avevano della infinita varietà delle piante presenti nelle campagne in età moderna.
Prima della classificazione tassonomica operata da Linneo nel XVIII secolo, che esemplificava l’intricata foresta di nomi di piante e animali, designati con nomi locali, gli agricoltori possedevano una sapienza vernacolare delle piante che noi oggi stentiamo a percepire. Col tempo la riduzione della biodiversità naturale e di quella agricola si è accompagnata alla perdita del patrimonio di cognizioni e di parole che l’accompagnava e l’aveva trasmesso nel corso di millenni.
Insieme alle varietà della flora e della fauna si sono a poco a poco estinte anche le parole, il ricchissimo dizionario che aveva tessuto la lingua geniale che le aveva catalogate e che le faceva quotidianamente vivere nelle comunità. Un processo di perdita giunto fino ai nostri giorni, che non è stato solo di parole, ma come al solito anche di immaginario, di senso, di emozioni, di rapporto della mente con le cose, di relazione tra il corpo umano e le altre creature viventi.
Una vicenda di desertificazione del sopramondo fantastico che accompagnava la vita quotidiana che oggi possiamo certificare in tutta la sua ampiezza. Gian Luigi Beccaria, in un libro prezioso, un archivio della nostra memoria linguistica (I nomi del mondo. Santi, demoni folletti e le parole perdute, Einaudi 1995) ha ricordato che «Il mondo totalmente profano, il Cosmo completamente desacralizzato è una invenzione recente dello spirito umano. Sono cadute da pochissimo dalla memoria collettiva, insieme alle parole, le leggende di un ieri non lontano, radicate in una Europa cristiana fittamente gremita di racconti, con ogni momento della giornata, ogni data dell’anno che traeva con sé una folla di credenze e di parole che vi alludevano».
Di fronte alla sbornia consumistica, che fa da battistrada al nichilismo contemporaneo, non è oggi tempo di guardare, non con nostalgia a un passato non tutto da rimpiangere, ma alla ricchezza dello spettro dell’umana spiritualità, di cui dobbiamo sempre più tener conto in un’epoca unidimensionale di abbondanza e di sperpero? Se pensiamo che l’uomo possa tornare a essere non il centro o il padrone ma «la misura di tutte le cose».
Finalmente Carlo Petrini, intervistato da Angelo Mastrandrea, "la butta in politica": ha compreso dove stanno le radici dei disastri in atto e lo dice. La sua è una critica radicale al neoliberismo e ai colonialismi vecchi nuovi. il manifesto 23 aprile 2017
Guardiamo alla salute del pianeta, ma pure a quella di chi lo abita, sembra dire Carlo Petrini, un una singolare sintonia con papa Francesco. Solo se si guarda al problema da questa prospettiva si potrà avere uno sguardo più ampio che consenta di connettere questioni che nell’agenda politica sono rigorosamente separate: i cambiamenti climatici, la produzione alimentare e le migrazioni, ad esempio.
L’ideatore di Slow Food è convinto che non si può affrontare la febbre che rischia di portare la Terra al capolinea pensando solo di alleviarne i sintomi. A suo parere è necessario affrontare il malessere alla radice, combattendo «il folle sistema economico» che lo produce e proponendo un «cambio di paradigma» radicale. Socialista e umanitario, verrebbe da dire.
La sua ricetta teorica per salvare il pianeta si compone di due ingredienti fondamentali: la decolonizzazione del pensiero e la creazione di un nuovo modello socio-economico. Quella pratica si risolve nella proposta di un Piano Marshall per i paesi più poveri. «Due giorni fa il nostro primo ministro Paolo Gentiloni ha detto che bisogna aumentare gli aiuti ai paesi di partenza dei migranti per creare lavoro a casa loro. Giusto, però la verità è che l’Ue non fa nulla. Se volesse intervenire davvero, dovrebbe inventarsi una sorta di Piano Marshall, ma ancora più forte», dice.
Vorrebbe dire abbandonare l’austerity, proprio quello che l’Unione europea non vuole.
«Sarebbero tanti soldi, certo. In ogni caso, se non si fa nulla quei costi li pagheremo ugualmente, perché non ci saranno muri che terranno di fronte all’ondata migratoria. È questa la battaglia politica più importante oggi in Europa, l’unico modo per far fronte all’avanzata dei Salvini e delle Le Pen».
Oggi si celebra la Giornata mondiale della terra, ma a nessuno è venuto in mente di legarla alle migrazioni come fa lei.
«Se non vediamo la connessione tra distruzione degli ecosistemi e migrazioni non capiamo nulla di quello che sta accadendo. La maggior parte delle persone non fugge per le guerre, ma perché le loro prospettive di vita sono nulle. I giovani africani si vedono negato il diritto alla terra, che un tempo era consuetudinario, perché i nuovi colonizzatori arrivano ad acquistarla legalmente, accaparrandosela a prezzi ridicoli grazie ai governi-canaglia figli della decolonizzazione».
Chi intende per nuovi colonizzatori?
«Penso ai cinesi e agli indiani, che comprano milioni di ettari di terreni in Africa per produrre cibo che non finisce agli africani, o ai fondi sovrani che fanno lo stesso per produrre biocarburanti. Questo causa la perdita di biodiversità e di fertilità dei terreni, e provoca le migrazioni di massa.
Poi ci sono i vecchi colonizzatori. Molti investimenti europei in Africa sono legati alla sostenibilità ambientale.
«Anche questo è un terreno minato. Le faccio un esempio: in Uganda il governo locale ha messo a disposizione della Norvegia una grande superficie di terreno per la riforestazione. Di per sé sarebbe una cosa positiva, se non fosse che 10 mila pastori sono rimasti senza lavoro. Bisogna imparare a decodificare le nuove forme di colonialismo che si nascondono dietro questi progetti, che possono essere sostenibili dal punto di vista ambientale ma non da quello sociale. Soprattutto in Africa, è necessario un processo di decolonizzazione del pensiero, anche perché la storia comincia a presentarci il conto. Dopo lo schiavismo, il colonialismo becero e quello mascherato degli accordi con i governi post-coloniali, ora le popolazioni cominciano a ribellarsi. Intere aree si stanno desertificando a causa dei cambiamenti climatici, masse di diseredati non possono più vivere su quelle terre. Questa situazione non regge.
Lo sfruttamento delle risorse però non si ferma.
«Il comportamento dell’umanità negli ultimi cinquant’anni è stato senza dubbio irresponsabile. Basta pensare a quello che è stato fatto con le deforestazioni e con le estrazioni minerarie e petrolifere, dove le maggiori penalizzate sono state le comunità locali. Se adottiamo questo punto di vista, avere un’attenzione per i più deboli ci porta a pensare a una visione di ecologia integrale simile a quella prospettata da papa Francesco nell’enciclica Laudato sii: è necessario pensare non solo alla terra ma pure a chi la abita. Ci sono forme di egoismo e di insensibilità che la comunità internazionale tollera da troppo tempo, quasi che le risorse siano infinite. La sofferenza degli ecosistemi si somma a quella delle comunità».
La sua è una critica radicale al neoliberismo.
«Bisogna risalire alla fonte di questi comportamenti irresponsabili. Io credo che la ragione principale sia una logica economica perversa che mette di fronte a tutto il profitto e non guarda in faccia a nessuno. Si tratta di un iperliberismo sfrenato che sta distruggendo il pianeta a beneficio di pochi. Per questo è necessario un cambio di paradigma. Se non si pensa alla costruzione di un’economia di comunità, che guardi ai bisogni a livello locale, non ne usciremo.
Poi c’è la questione del cibo, che è stato tra i primi a sollevare con Slow Food e Terra Madre.
«La questione alimentare è uno dei punti chiave, ma la comunità internazionale non l’ha mai messa in evidenza. Si parla di cambiamenti climatici e della perdita di fertilità dei suoli e non si mette in discussione la pratica più invasiva, che è la produzione di cibo. Si parla delle tonnellate di plastica in mare, ma si tace sulla pesca a strascico per la produzione di mangimi animali, che depreda la biodiversità. O i governi cominciano a riflettere su queste cose o andiamo verso il disastro. Purtroppo, le cose non stanno andando in questa direzione: Trump non dimostra quella sensibilità che dovrebbe avere una delle potenze mondiali che hanno più responsabilità nel disastro ecologico. Siamo a un crocevia decisivo».
«Domani si celebra la Giornata della Terra “E noi scienziati saremo in piazza contro Trump” spiega Marco Tedesco, glaciologo a New York», intervistato da Federico Rampini. la Repubblica, 21 aprile 2017
FRA noi c’è chi reagisce mobilitandosi. Chi cerca nuovi canali di comunicazione con l’opinione pubblica. E chi rimane paralizzato». Così lo scienziato italiano Marco Tedesco riassume i tanti impatti di Donald Trump sui ricercatori che si occupano di cambiamento climatico. Esperto della Nasa, docente alla Columbia University di New York nello Earth Institute (uno dei più importanti poli mondiali di scienze ambientali), Tedesco ha acquisito la sua fama negli Stati Uniti per esplorazioni e ricerche che spaziano dalla Groenlandia all’Antartide all’Himalaya. Tutte hanno in comune lo stesso tema: il cambiamento climatico. Sabato sfilerà nella manifestazione di New York, con partenza a Central Park.
Questo è il primo Earth Day nell’èra Trump, il presidente che nega la scienza dell’ambiente. Come reagisce la comunità scientifica?
«Molti fra noi si danno da fare per proteggere dati preziosi che sono minacciati, per difendere la ricerca, e i diritti civili degli scienziati. C’è una corrente che esplora anche nuove strategie di comunicazione con l’opinione pubblica: per far capire che facciamo davvero scienza, e su questa base vogliamo dialogare anche con chi ha posizioni politiche o culturali ostili. Tra i più impauriti ci sono tanti giovani, per esempio dottorandi: nell’attesa di ciò che può succedere temono di vedersi chiudere le prospettive, i progetti su cui volevano costruire una vita di ricerche».
Quanto pesa l’aspetto economico, il taglio dei fondi?
«Il problema maggiore è l’incertezza. E non mi riferisco all’incertezza nei modelli matematici sul cambiamento climatico: con quella siamo attrezzati a misurarci… Di fronte alla mannaia dei tagli alla ricerca è come se fossimo su una spiaggia dove sta arrivando lo tsunami, ma senza vie di fuga e senza conoscere l’altezza dell’onda. È bloccata la National Science Foundation, la più grossa agenzia federale che finanzia la ricerca pura, non può selezionare progetti perché non sa quali risorse avrà. Dalla Nasa all’Ente oceanografico e atmosferico, si tagliano anche i satelliti del meteo. Vuol dire creare dei buchi di conoscenza, generare lacune, interrompere la copertura satellitare del pianeta da cui dipendono le serie temporali sul clima. Possono essere rovinati 40 anni di dati sulle emissioni carboniche ».
In America c’è una robusta tradizione di mecenatismo privato, non potrebbero intervenire gli imprenditori ambientalisti, rimediare di tasca loro?
«Possibile ma poco probabile. Il pubblico e il privato hanno ruoli diversi: è lo Stato che sostiene la ricerca di base, mentre le imprese preferiscono quella applicata che ha ricadute commerciali. E la comunità scientifica che seleziona i progetti a cui dare finanziamenti federali, ha i criteri più rigorosi».
Quanto danno può fare l’Amministrazione Trump all’ambiente in cui viviamo?
«Tanto, troppo. Anche l’aggiunta di una quantità relativamente limitata di CO2 rispetto agli scenari precedenti, può scatenare reazioni del clima i cui effetti si sentiranno molto a lungo. I processi di cambiamento climatico oltre una certa soglia raggiungono il punto di non ritorno, diventano incontrollabili. E lui sta accumulando decisioni dannose: dal via libera agli oleodotti, alla deregulation che elimina restrizioni sulle emissioni di centrali elettriche o automobili. Tutto questo aumenterà il fattore di stress sul pianeta. Va ricordato che con Barack Obama eravamo sulla buona strada, sì, ma non sulla strada ottimale. Vedo anche un altro attacco alla scienza: il tentativo di creare delle task-force cosiddette indipendenti, per mettere sotto controllo la comunità dei ricercatori. È un progetto che vuole spostare i finanziamenti verso think tank legate alle lobby del petrolio. Un’altra minaccia: la fuga in avanti verso la geo-ingegneria, il tentativo di manipolare il clima, con progetti controversi come il lancio di solfati che raffreddino l’atmosfera. Esperimenti pieni d’incognite, di pericoli, di conseguenze inattese».
Le sue ricerche sul campo la portano a vivere per mesi ogni anno alle latitudini più estreme, le zone ghiacciate del pianeta dove spesso gli effetti del cambiamento climatico sono allo stadio più esacerbato. Che conclusioni ne trae?
«È un susseguirsi di campanelli d’allarme, dall’Artico alla Groenlandia continuano ad esserci record battuti. Il permafrost, lo scioglimento delle nevi, i ghiacciai marini, le correnti nei fiordi, è tutto un sistema che ci sta dicendo quanto è avanzato l’impatto del cambiamento climatico ».
«E' quanto emerge dal 12° Rapporto sulla qualità dell’ambiente urbano di Ispra. Il report aggiorna per tutti i 116 capoluoghi di provincia italiani un insieme di indicatori fondamentali per valutare la qualità ambientale delle città e della vita nelle aree urbane italiane». Il Fatto Quotidiano online, 16 dicembre 2016 (c.m.c.)
Dall’inquinamento da polveri sottili, migliorato nei primi mesi del 2016 rispetto al 2015 (un vero e proprio anno nero), allo stato del suolo e del territorio italiano con 2 milioni di persone a rischio alluvioni e oltre 22mila frane censite. Sono questi alcuni degli aspetti affrontati nel 12° Rapporto sulla qualità dell’ambiente urbano di Ispra, l’Istituto di ricerca del Ministero dell’Ambiente e del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente.
Dai fattori demografici, alla qualità dell’aria, dalla mobilità alle risorse idriche, fino al suolo e ai rifiuti: il report aggiorna per tutti i 116 capoluoghi di provincia italiani un insieme di indicatori fondamentali per valutare la qualità ambientale delle città e della vita nelle aree urbane italiane. Si tratta del primo rapporto a essere presentato dopo l’approvazione della legge 132 del 28 giugno 2016 (che entrerà in vigore il 14 gennaio 2017), che istituisce il Sistema nazionale a rete per la protezione dell’ambiente (SNPA), costituito da Ispra, Arpa e Appa.
Fattorisociali ed economici
In Italia, al 31 dicembre 2015, i residenti erano circa 60 milioni e 665mila, oltre 130mila in meno rispetto all’anno precedente. La diminuzione della popolazione residente ha interessato 87 dei 116 comuni presi in esame, più di tutti Roma (-7.290) e a Torino (-6.244). Al contrario i residenti sono aumentati maggiormente a Milano (8.696), Parma (2.552). L’incidenza dei cittadini stranieri è massima nei comuni capoluogo di provincia di Milano, Brescia, Prato e Piacenza dove più di 18 residenti su 100 sono stranieri. Anche nel 2015, la densità della popolazione è più alta a Napoli, seguita da Milano e Torino. Nel Comune di Roma, il più esteso dei comuni italiani, risiede circa il 5% della popolazione nazionale. Dal punto di vista economico di segno positivo, anche per il 2015, è il tasso di crescita delle imprese (0,2 punti percentuali in più rispetto al 2014) che, grazie al saldo positivo di 45mila nuove imprese, a livello nazionale ha raggiunto lo 0,7%. I nuovi imprenditori ‘under 35’ hanno contribuito con 66.202 nuove unità, 32mila sono quelle create dagli stranieri e 14.300 dalle donne.
Qualitàdell'aria
Un capitolo del dossier è dedicato al rapporto tra inquinamento atmosferico e salute, sulla base degli studi più recenti in materia e sottolinea che l’aria che respirano milioni di italiani nelle maggiori città della Penisola rappresenta ancora un grave problema di salute. Per quanto riguarda l’inquinamento da polveri sottili, al 13 dicembre 2016 almeno 18 capoluoghi di provincia hanno già superato il limite giornaliero per il pm10 (Frosinone, Venezia e le altre città della pianura padana le peggiori. Ma anche Napoli e Terni).
I dati sono migliori rispetto a quelli del 2015, quando 45 aree urbane su 95 non hanno rispettato il valore limite giornaliero del pm10. Sempre lo scorso anno, il 90% della popolazione nei comuni considerati è risultato esposto a livelli medi annuali superiori al valore guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità per il pm10, l’82% a quello del pm 2,5, il 27% a quello del biossido di azoto. “Emerge chiaramente – rileva il rapporto – la notevole distanza dagli obiettivi dell’Oms” e, quindi “non sorprende il fatto che nelle stime recentemente elaborate dall’Agenzia Europea per l’Ambiente l’Italia figuri tra le nazioni con gli indici di rischio sanitario più elevati”.
Rischio alluvioni e frane
Uno dei principali elementi di pericolo per il territorio è costituito dai fenomeni di dissesto idraulico. Le conseguenze risultano in genere più pesanti in quelle aree dove l’intervento dell’uomo ha profondamente modificato il territorio e il paesaggio naturale, rendendoli più fragili e vulnerabili. La popolazione a rischio alluvioni è stimata in 1.950.954 abitanti, pari all’11,1% della popolazione residente totale nei 116 comuni.
Le città nelle quali è stato individuato un maggior rischio sono quelle lungo i grandi fiumi italiani (Po, Tevere, Arno) o in aree di pianura, oltre alla città di Genova. Dodici comuni capoluogo hanno più di 50mila abitanti a rischio. “Altro fenomeno di grande impatto – spiega il rapporto – sia per l’incolumità della vita umana che delle per i danni a infrastrutture ed edifici, è quello dei fenomeni franosi”. L’11,5% dell’area totale dei comuni censiti è compreso in aree a pericolosità da frana e in aree di attenzione dei Piani di Assetto Idrogeologico, il 3,3% se riduciamo l’analisi a quelle soggette a maggiori rischi e, quindi, a vincoli di utilizzo del territorio più restrittivi.
In questa pur ridotta percentuale di territorio vivono attualmente circa 170mila abitanti, pari all’1% della popolazione totale dei comuni capoluoghi di provincia. Nel 2015 sono 22.270 le frane censite nell’Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia che ricadono nel territorio dei 116 Comuni capoluoghi di provincia. I comuni con più abitanti a rischio frane sono: Napoli, Genova, Massa, Chieti, Palermo, Catanzaro, Salerno, Caserta, Siena, Lucca, Trento, Grosseto, Ancona, La Spezia e Campobasso. Ma il fenomeno rappresenta un rischio anche per i beni culturali: 1.117 sono a rischio, ovvero l’1,9% di quelli che si trovano nelle aree prese in esame.
Risorse idriche e balneabilità
Tra il 2012 e il 2015, nelle 116 città prese in esame si è registrata una riduzione dei consumi idrici dell’8,4%, ma nel 2015 è stata registrata una dispersione reale dell’acqua immessa nella rete di distribuzione del 35,4%. In 90 città si hanno valori di dispersione di rete reali superiori al 20%, di cui 18 superiori addirittura al 50%. Per la stagione balneare 2016, i monitoraggi confermano che la quasi totalità dei tratti costieri dei 9 capoluoghi costieri di Regione, monitorati da Snpa, è idonea alla balneazione. Diversi i dati sui pesticidi. Per il 2014 riguardano complessivamente 79 capoluoghi: su 160 punti di monitoraggio nelle acque superficiali, 26 (16,2%), relativi a 18 città, hanno livelli di concentrazione superiore ai limiti.
«A venticinque anni dalla sua approvazione, il Senato, snaturandone i presupposti, approva modiche inadeguate alla legge sulle aree protette che ha garantito la conservazione della natura e la salvezza di una parte cospicua del territorio italiano». Carteinregola online, 14 novembre 2016 (c.m.c.)
Il 10 novembre il Senato ha approvato in prima lettura il disegno di modifica della legge 394/91 sulle aree protette (in calce in download), che adesso passerà alla Camera. 17 associazioni che si sono battute per apportare miglioramenti al testo hanno diramato un comunicato stampa che denuncia i numerosi e preoccupanti punti critici, dalla modifica della governance delle aree protette in cui viene prevista la presenza di portatori di interessi specifici, all’assenza di competenze specifiche in tema di conservazione della natura di Presidente e Direttore degli Enti Parco, alla mancata definizione di strumenti di partecipazione dei cittadini e la mancata previsione di comitati scientifici, a una norma che attraverso la “gestione faunistica”, con la governance prevista, acuirà le pressioni del mondo venatorio, al mancato divieto delle esercitazioni militari nei parchi e nei siti natura 2000…
COMUNICATO
«Né il Senato, né il Governo hanno accolto le osservazioni e le proposte di 17 Associazioni Ambientaliste e di centinaia di esperti e uomini di cultura, che hanno criticato in modo fermo e elaborato proposte migliorative. Risultato: una riforma sbagliata che chiediamo con forza venga modificata alla Camera».
Così le Associazioni subito dopo il voto con cui Palazzo Madama ha approvato, in prima lettura, il disegno di modifica della legge 394/91 sulle aree protette.
«Non volendo cogliere il senso costituzionale che vede la tutela della natura in capo allo Stato, la riforma non valorizza il ruolo delle aree protette come strumento efficace per la difesa della biodiversità e non chiarisce il ruolo che devono svolgere le Comunità del Parco.
Un testo che doveva rafforzare il ruolo e le competenze dello Stato centrale nella gestione delle aree marine protette, ma che in realtà continua a lasciare questo settore nell’incertezza e senza risorse adeguate.
Perché non possiamo non sottolineare che questa riforma viene fatta senza risorse, che la legge approvata non riesce a delineare un orizzonte nuovo per il sistema delle aree protette e senza migliorare una normativa che, dopo 25 anni di onorato servizio, non individua una prospettiva moderna per la conservazione della natura nel nostro Paese».
Numerosi e tutti molto preoccupanti sono i punti più critici del disegno di legge approvato al Senato:
Una modifica della governance delle aree protette che peggiora la qualità delle nomine e non razionalizza sufficientemente la composizione del Consiglio direttivo, in cui viene prevista la presenza di portatori di interessi specifici e non generali come deve essere. Non vengono definiti strumenti di partecipazione dei cittadini né la previsione di comitati scientifici;
Una governance delle Aree marine Protette che non prevede alcuna partecipazione delle competenze statali e individua Consorzi di gestione gli uni diversi dagli altri;
L’assenza di competenze specifiche in tema di conservazione della natura di Presidente e Direttore degli Enti Parco;
Un sistema di royalties che, pur legato ad infrastrutture ad alto impatto già esistenti, deve essere modificato per evitare di condizionare e mettere sotto ricatto i futuri pareri che gli enti parco su queste dovranno rilasciare;
Una norma che attraverso la “gestione faunistica”, con la governance prevista, acuirà le pressioni del mondo venatorio;
L’istituzione di un fantomatico Parco del Delta del Po senza che venga definito se si tratti o meno di un parco nazionale, quando peraltro la costituzione di questo, come Parco Nazionale, è già oggi obbligatoria ai sensi dalla legge vigente;
Non si vietano le esercitazioni militari nei parchi e nei siti natura 2000;
Non si garantisce il passaggio delle Riserve naturali dello Stato, del personale e delle risorse impegnato, ai parchi.
Sono alcuni dei motivi che fanno di questa riforma una riforma sbagliata, incapace di dare soluzioni ai problemi delle Aree Protette, ma addirittura tale da avvicinare troppo sino a sovrapporre pericolosamente i portatori d’interesse con i soggetti preposti alla tutela, svilendo la missione primaria delle aree protette e mettendole in ulteriore sofferenza.
Alla luce di ciò, gli elementi utili introdotti dalla riforma, soprattutto in termini di pianificazione, di classificazione e gestione dei siti della rete Natura 2000, di considerazione dei servizi ecosistemici, appaiono sostanzialmente depotenziati.
«Abbiamo dato la massima disponibilità al confronto, elaborando argomenti seri e proposte dettagliate. Con infinito rammarico siamo costretti a dover prendere atto di mancate risposte del relatore, della maggioranza e del Governo, con il risultato doppiamente negativo di perdere l’opportunità di miglioramenti costituzionalmente coerenti e di determinare un grave scollamento tra la politica italiana ed un approccio alla conservazione della natura coerente alle indicazioni ed agli obblighi internazionali», continuano le Associazioni ambientaliste che concludono:
«A venticinque anni dalla sua approvazione, il Senato, snaturandone i presupposti, approva modiche inadeguate alla legge sulle aree protette che ha garantito la conservazione della natura e la salvezza di una parte cospicua del territorio italiano. La questione ora si sposta alla Camera dei Deputati dove le Associazioni Ambientaliste faranno di tutto per far sentire una voce va ben oltre loro e coinvolge tutto il mondo della cultura e della scienza del nostro Paese».
Le associazioni che hanno chiesto modifiche al Senato
Ambiente e Lavoro
AIIG – Associazione Insegnanti di Geografia
Club Alpino Italiano
Centro Turistico Studentesco
Ente Nazionale Protezione Animali
FAI – Fondo Ambiente Italiano
Greenpeace Italia
Gruppo di Intervento Giuridico
Italia Nostra
LAV – Lega Antivivisezione
Legambiente
Lipu
Marevivo
Mountain Wilderness
Pro Natura
SIGEA
WWF Italia
http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/45868.htm
http://www.carteinregola.it/wp-content/uploads/2016/11/Modifiche-alla-legge-6-dicembre-1991-n.-394.pdf
«Privatizzazioni. Nel disegno di legge sul servizio idrico, si assiste all’assoluta soppressione del modello dell’azienda speciale, l’unico modello di gestione dei servizi autenticamente pubblico, ancora vigente nel nostro ordinamento». il manifesto, 29 ottobre 2016 (c.m.c.)
La Camera dei deputati nell’aprile del 2016, in prima lettura, ha privatizzato il servizio idrico integrato. Tale voto si pone in assoluto contrasto con la legge di iniziativa popolare che voleva la gestione dell’acqua attraverso enti di diritto pubblico.
Proviamo adesso a fare una simulazione, immaginando già di stare in un modello costituzionale che attribuisce soltanto ad una camera il potere legislativo, con un Senato, composto da 95 personaggi in cerca di autore, impreziositi da 5 legionari del presidente della Repubblica.
Cosa succederebbe in ordine alla gestione dell’acqua? Non ci sarebbe più la possibilità di impedire che il referendum sull’acqua bene comune venga calpestato e con esso la volontà di 27 milioni di cittadini che nel giugno del 2011 votarono contro la svendita dei servizi pubblici essenziali.
Ecco, se malauguratamente dovesse vincere il Sì, quali sarebbero i primi ed immediati effetti nefasti della riforma costituzionale: annullare luoghi di rappresentanza, di discussione, di conflitto. Il bicameralismo perfetto, che in passato, proprio attraverso la tanto deprecata “navetta”, era riuscito a recuperare “sbandate” o “atti di forza” di una delle due camere, non potrà più svolgere quest’azione di ripensamento e di pressione contro indirizzi politici dominanti.
Riavvolgiamo il nastro e vediamo in che contesto si andrebbe ad inserire una non auspicabile riforma costituzionale. Come è noto, sono in corso di approvazione la legge per la gestione del servizio idrico integrato ed il decreto delegato Madia sui servizi pubblici locali di interesse economico generale.
In questo scenario, il 10 agosto u.s. è stato approvato dal Consiglio dei ministri il cd. decreto Madia 1, meglio conosciuto come Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, concepito con l’obiettivo dichiarato di privatizzare le società partecipate, anche quelle che erogano servizi essenziali (il c.d taglia partecipate).
Il fil rouge di tali normative è di calpestare gli esiti del referendum del 2011, di privatizzare e commercializzare i servizi pubblici locali; di sotterrare definitivamente il concetto di impresa pubblica, in evidente contrasto con la parte economica della nostra Costituzione.
Addirittura si indica il ricorso al mercato come criterio di preferenza per l’attribuzione di risorse pubbliche. Ad appena cinque anni dal referendum abrogativo, mentre alcune amministrazioni, quale Napoli, tra mille difficoltà, attuano la volontà referendaria (costituzione di Abc Napoli), Governo e Parlamento stanno costruendo un sistema normativo che ripropone in maniera ancora più virulenta il progetto Berlusconi-Ronchi del 2008.
Il progetto di riforma Madia 2 sui servizi di interesse economico generale esclude che i servizi a rete, quale è l’acqua, possano essere affidati a soggetti di diritto pubblico, come l’azienda speciale.
Siamo in presenza di un progetto normativo che si contrappone anche alla Corte costituzionale che nel 2012, evocando il rispetto della sovranità popolare e degli esiti referendari, aveva enunciato il vincolo referendario, stabilendo che il legislatore dovesse rispettare quanto espresso dai cittadini.
Nel disegno di legge sul servizio idrico, si assiste all’assoluta soppressione del modello dell’azienda speciale, l’unico modello di gestione dei servizi autenticamente pubblico, ancora vigente nel nostro ordinamento. Ovvero, si nega ai comuni, alle autorità d’ambito, anche in contrasto con il diritto europeo, la possibilità di poter scegliere un modello alternativo al mercato.
Il progetto è quello di privatizzare le grandi società pubbliche ex municipalizzate presenti nel nostro Paese (Iren, A2A, Acea, Hera) e porre il territorio italiano sotto il loro dominio e a loro volta della finanza, anche tossica , che le sostiene, da quando si ventilarono i falsi paradisi delle privatizzazioni.
Ma impedire che soggetti di diritto pubblico, quali le aziende speciali, possano gestire servizi pubblici essenziali, è un’operazione non conforme e non compatibile con la Costituzione. Rappresenta un tradimento della volontà popolare e dell’inequivoco risultato politico espresso, che aveva fortemente voluto, tra l’altro, l’abrogazione della clausola della remunerazione del capitale investito, proprio quella che spinge capitali e finanza a gestire l’acqua, a prescindere dalla qualità del servizio, della tutela delle risorse naturali, degli investimenti nelle infrastrutture.
Ma sono violati anche principi di diritto europeo, quali la sussidiarietà verticale e la libertà di definizione, impedendo ai comuni di scegliersi il modello di gestione più adeguato ed opportuno al proprio territorio ed alla propria realtà socio-economica, così come previsto, tra l’altro, dall’art. 106 del Trattato.
Un disegno politico talmente aggressivo da essere incoerente con il principio di neutralità del diritto dell’Unione europea rispetto al regime della proprietà ed ai modelli di gestione, che attribuisce ai comuni il potere fornire ed organizzare i propri servizi d’interesse economico generale e di attivare un “reale” regime pubblicistico in deroga alla regola della concorrenza.
Il ministro Madia ha detto che l’acqua non c’entra con il decreto e comunque il governo non intende privatizzarla. Bene, allora si suggerisce di procedere in tal senso:
1) presenti come emendamento del governo nel dibattito al Senato, relativo al disegno di legge sull’acqua, un emendamento all’art. 7 che preveda espressamente la modalità di gestione del servizio attraverso un ente di diritto pubblico;
2) stralci dallo schema di Decreto Madia 2 la gestione delle risorse idriche, come tra l’altro ha vivamente suggerito di fare la commissione affari costituzionali della Camera in sede consultiva.
Nel caso il quadro normativo rimanesse immutato, i comuni potrebbero scegliere l’acqua pubblica fondando la propria azione amministrativa direttamente sul diritto europeo il che non escluderebbe anche ricorsi dinanzi alla Corte costituzionale, che potrebbero attivare anche il comitato referendario per l’acqua bene comune del 2011, sollevando conflitto di attribuzioni contro gli atti posti in essere da parlamento e governo.
«Il titolo della legge, attesa in aula al Senato, promette di tutelare le aree protette cambiando governance e regole. Insorgono 17 associazioni ambientaliste sostenendo che i partiti e gli interessi locali si spartiranno poltrone e non sapranno arginare le brame di industriali, petrolieri e cacciatori.». Il Fatto Quotidiano online, 24 ottobre 2016 (c.m.c.)
Le mani della politica sui parchi, sempre più ostaggio di spartizioni e interessi locali, con un presidente e un direttore che possono non saperne niente di ambiente e si ritrovano esposti alle pressioni dei privati che pagano royalty per inquinare, costretti poi – al momento del rinnovo delle concessioni – a scegliere tra la conservazione della natura senza compromessi e la possibilità di intascare qualche euro per far fronte alle croniche ristrettezze economiche.
È questo, secondo gli ambientalisti, il destino dei parchi nazionali d’Italia se il testo della riforma della legge sulle aree protette, approvata lo scorso 20 ottobre dalla commissione Ambiente del Senato e atteso in aula, non verrà modificato. «Questa riforma non fa altro che accentuare il politicismo dei parchi indebolendo il loro ruolo principale che è la tutela della natura», denuncia il direttore del Wwf Gaetano Benedetto, sintetizzando la posizione di 17 associazioni ambientaliste che hanno diffuso un documento con tutte le modifiche necessarie perché la legge non tradisca nei fatti i buoni propositi enunciati dal relatore Massimo Caleo, vicepresidente Pd della commissione ambiente. «Il Parlamento ha saputo mettere a punto un provvedimento che finalmente aggiorna la legge sui parchi alle nuove esigenze degli enti, rafforzando le finalità di conservazione dell’ambiente e aprendo nuove opportunità di sviluppo sostenibile», ha annunciato il senatore in pompa magna subito dopo il voto, lasciando sconcertate le associazioni.
In balia degli interessi locali
A mettere in allarme gli ambientalisti è la modifica delle regole sulla composizione dei consigli direttivi dei parchi, uno degli organi principali nella gestione delle aree protette soprattutto per tutte le questioni economiche. Oggi la metà dei membri vengono dagli enti locali, portatori dunque degli interessi del territorio, mentre l’altra metà è designata a livello statale, e rappresenta gli interessi di conservazione della natura.
Con la riforma questo equilibrio rischia di rompersi, perché tra le nomine statali la legge prevede che accanto al rappresentante delle associazioni ambientaliste e a quelli di ministero dell’Ambiente e Ispra ce ne sia anche «delle associazioni agricole nazionali più rappresentative» (finora era scelto dal ministero dell’Agricoltura). Cioè un imprenditore agricolo del territorio, portatore di interessi economici legittimi, ma non proprio sovrapponibili a quelli di protezione dell’ambiente. Nei fatti, fa notare chi è d’accordo con il testo, è già così: i ministeri da sempre scelgono i loro referenti politici locali, ma per la presidente del Wwf Donatella Bianchi, «si rischia di sbilanciare i consigli verso gli interessi territoriali, diversi dalla conservazione della natura. Tra l’altro, ci sono categorie altrettanto importanti, come quella del turismo, che non vengono minimamente considerate».
Non fanno dormire tranquilli gli ambientalisti neanche i criteri per la scelta dei vertici dei parchi: «Il ddl non dice chiaramente che presidente e direttore devono avere specifiche competenze sulla conservazione della natura. Il rischio è che il presidente sia una figura più politica e che il direttore venga scelto sulla base delle sua capacità gestionali, che sono importanti ma non devono essere separate da specifiche competenze naturalistiche», continua la presidente del Wwf. In gioco c’è il lavoro stesso dei parchi, che da enti di tutela della natura rischiano di diventare ancora di più terreno di lottizzazione politica.
Per qualche euro in più
Anche la questione delle royalty si sta rivelando un vero e proprio cavallo di troia. Le legge prevede che i parchi ricevano direttamente le somme pagate da chi sfrutta il patrimonio naturale del parco o le aree contigue per attività economiche già autorizzate. Parliamo per esempio di concessioni di derivazione d’acqua per produrre energia idroelettrica, di permessi per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi o ancora di concessioni per l’ormeggio di imbarcazioni. Un contentino per compensare le aree protette delle magre risorse messe a disposizione dal ministero dell’Ambiente? Il rischio, dice il presidente della Lipu Fulvio Mamone Capria, è che «le royalty diventino merce di scambio e che i parchi siano incentivati all’allargamento delle concessioni al momento del rinnovo».
Fuori le doppiette dai parchi
Gli ambientalisti vorrebbero anche che il testo escludesse definitivamente i cacciatori dai parchi nazionali, dove oggi sono ammessi per attività di controllo delle specie invasive o troppo numerose, come i cinghiali. «Chiediamo che per queste attività si scelgano sistemi ecologici e a ridotto impatto ambientale per gli ecosistemi del parco. Gli animali possono per esempio essere catturati e poi macellati altrove. L’ingresso con le armi nei parchi deve essere l’extrema ratio, e comunque deve poterlo fare solo il personale dell’area protetta, non cacciatori e guardie venatorie», denuncia ancora Mamone Capria.
La frattura
Mentre le 17 associazioni ambientaliste hanno ritrovato l’unità per combattere contro un testo che la Lipu definisce “pessimo”, e in cui, secondo il Wwf, «in nome della semplificazione si rischia di perdere di vista la tutela della natura», Federparchi, il “sindacato” delle aree protette, non esita a definire il provvedimento «un grande passo avanti per l’Italia dei parchi». E se il presidente di Federprachi Giampiero Sammuri minimizza le differenze, dicendo che «con gli ambientalisti siamo d’accordo quasi su tutto», il direttore del Wwf Gaetano Benedetto rilancia: «Federparchi ha dato il via libera in consiglio direttivo al ddl che poi è andato in votazione in commissione, le associazioni hanno presentato un testo di critica a quel provvedimento. La fotografia è questa, non ce n’è un’altra». Un particolare da non dimenticare è che il testo affiderebbe a Federparchi la piena ed esclusiva rappresentanza delle aree protette, anche se trattandosi di un’associazione volontaria aderirvi in teoria non è obbligatorio.
Le differenze di posizione sono evidenti. Alle critiche delle associazioni, Sammuri replica che «nei consigli direttivi con la riforma non si crea assolutamente uno sbilanciamento. Le royalty sono una buona cosa, anche perché una volta costruiti e autorizzati con le concessioni, gli impianti in questione non potrebbero comunque essere smontati e portati via». Sulle competenze dei vertici, spiega che «è giusto che il direttore abbia soprattutto competenze gestionali, perché deve far funzionare la macchina del parco. Il presidente deve essere una figura politica e non un esperto di temi naturalistici, così come il sindaco non deve essere esperto di viabilità o gestione dei rifiuti. Il provvedimento è molto positivo su alcuni aspetti pratici che chi milita nelle associazioni ambientaliste non ha chiari o non ritiene abbastanza importanti. Uno su tutti l’accorciamento dei tempi per la scelta del presidente, che è fondamentale».
Quale riforma?
Il testo andrà in aula al Senato a partire dal 25 ottobre. Poi dovrà passare alla Camera. Se tutto va bene, la riforma arriverà nel 2017. «Non so se ci sarà l’apertura che le associazioni ambientaliste stanno chiedendo, perché alcune questioni sono strettamente connotate secondo la moda politica del momento: scivolamento sull’ambito territoriale, federalismo improprio, concetto economico che viene sempre prima nonostante la Costituzione dica altre cose», dice un po’ abbattuto il direttore del Wwf Benedetto. E mentre il presidente della Lipu minaccia le barricate in mancanza di emendamenti migliorativi da parte del Parlamento o del governo, quello di Federparchi dice: «So già che non ci saranno tutte le cose che chiediamo, ma non per questo mi incatenerò davanti alla Camera o al Senato».
Non sempre il mondo della finanza interviene utilizzando i suoi burattini: i governi. A volte preferisce cancellare le decisioni dei popoli direttamente«Dalla Calabria a Pisa, da Latina ad Arezzo: la finanza blocca la gestione statale del servizio». Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2016 (p.d.)
Carte segrete e acquedotti colabrodo; dighe iniziate e mai finite; un socio privato – la francese Veolia – che non vede l’ora di lasciare la Calabria, ma in cambio di un “condono”sul passato. E poi un finanziamento milionario della Depfa Bank, lo stesso istituto finanziario – controllato oggi dal governo tedesco – che sta bloccando per via legale il piano di riubblicizzazione dell’acqua a Latina. Tutto garantito da un contratto firmato 9 anni fa e ancora oggi secretato “per tutelare la banca, che non ha dato l’autorizzazione a divulgare il documento”, spiega al Fatto Quotidiano il direttore finanziario di Sorical, Simone Lo Piccolo, che nega l’accesso agli atti invocando la privacy.
Sorical Spa è uno dei tanti disastri della gestione mista pubblico-privata degli acquedotti: vende l’acqua ai Comuni della Calabria, gestisce le grandi infrastrutture e, con l’arrivo dei francesi, avrebbe dovuto incanalare con acquedotti moderni l’enorme quantità di acqua delle montagne calabresi. Dopo anni di pessima gestione, sono arrivati i commissari e il sistema idrico integrato è rimasto il grande sogno incompiuto. In pieno stile Salerno-Reggio.
Sorical, però, è anche uno dei principali clienti italiani di Depfa, la banca specializzata in derivati e finanziamenti degli enti pubblici europei, salvata nel 2014 da un fondo del governo tedesco, dopo essere finita nella bufera per via dei famigerati mutui subprime. Italia, Grecia, Spagna e Portogallo sono stati per anni il campo d’azione della banca, per un pacchetto di obbligazioni in mano a fondi internazionali che supera abbondantemente il miliardo di euro, garantito da una serie di complessi – e rischiosi – derivati. In Calabria e a Latina, Depfa ha avuto come partner principale Veolia; in Toscana i suoi compagni di avventura sono la romana Acea (al 51% del Campidoglio) e il Monte dei Paschi di Siena. Qui l’acqua, da tempo, è appannaggio del Giglio magico renziano. A partire da Publiacqua, il gestore della provincia di Firenze guidato negli anni passati da Erasmo D’Angelis, oggi direttore dell’Unità, e che nel cui cda è stata per diverso tempo Maria Elena Boschi.
I Comuni dell’ambito idrico della Provincia di Pisa, invece, nel 2002 hanno affidato la gestione del servizio alla Acque Spa, partecipata – come in gran parte della Regione – da Acea. Quando è il momento di mettere i soldi per gli investimenti previsti dalla concessione, però, la società romana contatta Depfa. Una sigla decisamente di moda nel nostro Paese all’epoca, quando il governo – attraverso il ministero delle Infrastrutture – promuoveva ovunque gli strumenti finanziari più sofisticati per realizzare gli acquedotti, senza però evidenziarne i rischi. La banca di Dublino – affiancata da Mps, da alcuni istituti locali e dalla Cassa depositi e prestiti – presenta ai sindaci della provincia di Pisa le stesse condizioni che applicherà poco dopo a Latina e di cui Il Fatto si è occupato nei giorni scorsi: in cambio dei soldi, i Comuni hanno dovuto firmare un contratto di pegno che prevede un potere totale per gli investitori. Una serie di clausole che consentono a Depfa, in caso di “evento rilevante”, di esautorare il potere d’indirizzo strategico dei sindaci sostituendosi ad amministrazioni elette dal popolo. I possibili casi di “evento rilevante” sono elencati con precisione e, tra questi, a Pisa, c’è anche la possibilità che la quota di Acea scenda sotto al 45%. Nessuna ri-pubblicizzazione, dunque, sarà mai possibile in quella zona. Eppure la volontà degli elettori di Pisa e dintorni al referendum del 2011 fu chiara: il 95,41% votò a favore dell’acqua pubblica, con un’affluenza al 65,08%. Una volontà popolare tradita l’ultima volta lo scorso anno, quando i Comuni presenti nella società Acque Spa hanno confermato, senza grande clamore, le regole del finanziamento. Incluso un complesso e voluminoso contratto in inglese con tanto di clausole riguardanti sofisticati strumenti finanziari e le norme che bloccano ogni possibilità di cambio di strategia.
Dove Depfa non è arrivata ha agito Mps, stretta alleata all’epoca sia di Acea sia della banca irlandese, insieme a un istituto finanziario ormai famoso, Popolare Etruria. È il caso di Arezzo, la provincia dove per la prima volta in Italia è stato privatizzato il sistema idrico integrato col modello, di origine francese, del partenariato pubblico-privato. Era il 1999, la gestione comunale passa nelle mani di Nuove Acque, partner privato la Suez e, poco dopo, l’immancabile Acea.
Come in praticamente tutte le esperienze simili in Italia, anche qui il privato mette i soldi per gli investimenti indebitando la società mista, attraverso lo schema del prestito in cambio di pegno delle azioni, comprese quelle dei Comuni. In questo caso entra in gioco un pool composto da BEI, Monte dei Paschi, Dexia e Etruria. È il 2005 e la gran parte dei Comuni approva: “Si consegna ai privati un potere assoluto. Con questa operazione la maggioranza pubblica di Nuove Acque diventa un guscio vuoto”, commentano i comitati locali in un documento che analizza l’operazione. Dunque anche qui, come a Latina, a Pisa e in altre province italiane, il voto per l’acqua pubblica si ferma davanti agli sportelli delle banche.
Nella Calabria degli accordi segreti, intanto, la giunta Oliverio annuncia di volersi riprendere la gestione idrica. “Io non sono stato nominato per liquidare la società, ma per rilanciarla”, spiega al Fatto Luigi Incarnato, commissario di Sorical. “Vuole sapere una cosa sul mutuo Depfa? Mi sono informato e questi asset il governo tedesco li ha acquisiti pagandoli 16% del valore nominale”. Tradotto: il credito vantato da Depfa nei confronti dei gestori degli acquedotti oggi vale assai meno. “Quindi ricontratteremo tutto – dice Incarnato – facendo entrare in società i Comuni appena Veolia se ne va. Manca solo un passaggio, vogliono una manleva sui debiti (l’esclusione di responsabilità sul passato, ndr) e il presidente ci sta pensando”. Ma di mostrare quel contratto di finanziamento che pesa sulla società per ora non se ne parla. Acqua pubblica forse, trasparente non tanto.
L'ennesima truffa , l'ennesimo favore ai padroni del governo, l'ennesimo sberleffo alla democrazia. Il dicastero di Galletti concede proroghe straordinarie alle compagnie per richiedere le autorizzazioni a cercare idrocarburi dalla Sardegna all’Emilia. Il Fatto quotidiano, 18 agosto 2016
Per mesi si è parlato di trivelle perché c’era il referendum. Ma mentre si discuteva di astensione e autorizzazioni entro le 12 miglia, il ministero dell’Ambiente concedeva proroghe a iter autorizzativi ormai scaduti da tempo. Parliamo di tre richieste per ottenere la Via, la Valutazione di impatto ambientale necessaria per cercare idrocarburi in terra e mare, in tre siti sensibili per l’impatto che questi interventi potrebbero avere proprio sull’ambiente. E di tre proroghe, concesse ben oltre i tempi stabiliti dal Testo unico ambientale. E di una frase, che circola da giorni: “I petrolieri tornano a caccia di concessioni”, ancora una volta grazie al decreto Sblocca Italia e alla decisione del ministero di resuscitare processi autorizzativi che sarebbero dovuti essere morti da mesi.
Il primo progetto è in Sardegna, 6mila chilometri quadrati di mare in cui la società norvegese Tgs -Nopec vuole fare prospezioni (indagini) dei fondali marini con l’airgun: un dispositivo che spara aria compressa in acqua, produce onde che si propagano nel fondale e che, riflesse dagli strati della crosta terrestre, forniscono informazioni sulla struttura e la presenza di gas o di liquidi. Inizialmente ritenuto illegale nel disegno di legge sugli ecoreati, visto che secondo gli esperti di tutto il mondo è dannoso per la fauna marina, è stato poi eliminato dal testo con una mossa che da molti è stata interpretata come il primo dei numerosi favori fatti ai petrolieri nei mesi scorsi.
Ed ecco un altro favore: l’istanza per ottenere la Via necessaria per le prospezioni nel Mare di Sardegna viene presentata il 5 febbraio del 2015. Il 10 agosto, sei mesi dopo, il ministero chiede all’azienda una documentazione integrativa perché quella fornita non contiene tutti i rapporti e le misurazioni necessari. Il 29 ottobre, però, le richieste del ministero non sono ancora state soddisfatte e viene concessa una proroga di 60 giorni.
Ancora una volta, il tempo pare non basti e così, con una nota del 14 marzo 2016, il ministero ne concede un’altra, di otto mesi (tanto che le integrazioni arriveranno a luglio). Eppure, gli stessi documenti per la richiesta di integrazioni parlano chiaro: devono pervenire entro 45 giorni durante i quali la società deve fornire informazioni come la durata e le modalità delle operazioni – anche in relazione a quelle già in atto nelle zone limitrofe -, dati relativi alla morfologia del luogo e quelli sulle tecniche che saranno utilizzate. Ma, soprattutto, in questo caso la Tgs – Nopec deve predisporre una dettagliata relazione sulla fauna “con specifico riferimento al vicino santuario dei cetacei Pelagos” e deve riferire sulla presenza di possibili impatti ambientali, che oltretutto il ministero comunque ritiene “scarsamente fondata”.
Inoltre, deve predisporre un progetto per il “biomonitoraggio acustico” dato che l’azienda intende usare l’airgun. Stessa storia per due siti a terra, in Emilia Romagna, per i quali sono stati concessi altri due mesi di tempo per l’integrazione documentale. Nel primo caso, la Valutazione d’impatto ambientale riguarda un territorio vicino Comacchio, prossimo al sito Unesco delle Valli: la richiesta è dell’Eni. L’altra, di Enel Longanesi Development, in provincia di Ferrara. Anche stavolta il ministero ha chiesto che le integrazioni tengano conto dell’eccezionalità del territorio in cui ricadranno le prospezioni, del rischio sismico e del fenomeno della subsidenza.
Il Fatto Quotidiano ha allora chiesto al ministero dell’Ambiente spiegazioni sul perché non ci sia stato il respingimento previsto, in questi casi, dal Testo Unico Ambientale. Le risposte ne hanno confermato l’eccezionalità.
“Sul fatto che alcuni progetti rappresentino ri-proposizioni di progetti depositati negli anni scorsi – spiegano dal ministero – i progetti di idrocarburi a terra sono di competenza statale dal mese di marzo 2015”. Il riferimento è al decreto Sblocca Italia che ha reso le prospezioni e le coltivazioni petrolifere “strategiche” per l’interesse nazionale e ha spostato la competenza per il rilascio della Via dalle Regioni al ministero di Gian Luca Galletti, di fatto ignorando pareri, vincoli e volere degli enti locali. “Quanto ai tempi del procedimento come indicati dal Codice dell’Ambiente – rispondono, se si fa loro notare che le proroghe concesse non sono previste dalla legge – si evidenzia che sono da intendersi di natura ordinatoria e che l’azione amministrativa deve essere conformata al principio di economicità ed efficacia”. Tutto pur di favorire i cercatori di petrolio.
«A Latina e provincia ri-volevano la gestione pubblica del servizio: grazie ad un contratto del 2007, ora decide tutto l’istituto finanziatore.»Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
Avviare un percorso di pubblicizzazione integrale della società di gestione dell’acqua”. Poche parole e le firme dei principali Comuni del Sud pontino, con in testa l’amministrazione di Latina, guidata da due mesi dal sindaco Damiano Coletta (lista civica). E un appello diretto alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, per fermare l’operazione di acquisizione da parte di Acea di Acqualatina, la spa partecipata per il 49% dalla multinazionale francese Veolia che dal 2002 gestisce il sistema idrico integrato della seconda provincia del Lazio.
Il documento– presentato nel corso dell’ultima assemblea dei soci del gestore degli acquedotti del sud pontino da 19 sindaci – ha un doppio obiettivo: fermare l’espansione di Acea – intenzionata a prendere il controllo degli acquedotti nell’intera regione Lazio – e ripartire dalla gestione pubblica dell’acqua. Tutto cambia dopo lo tsunami elettorale? Non è detto. Soprattutto viste le reazioni del mondo finanziario.
Pochi giorni dopo la presentazione del documento, la banca irlandese (ma con capitale tedesco) Depfa ha bloccato – per ora – il piano delle nuove amministrazioni comunali: l’annuncio dei sindaci è un “evento rilevante” per la società. Due parole prese direttamente dall’accordo di project financing del 2007, quando l’istituto finanziario specializzato in utilities (società che gestiscono servizi) concesse un mutuo di oltre 100 milioni – collegato a prodotti derivati – in cambio di garanzie in grado di incidere sulle scelte strategiche della società: se vi sono cambi di direzione ritenuti “rilevanti” dagli analisti finanziari, la Depfa Bank può sostituirsi nell’assemblea dei soci ai comuni che firmarono il pegno delle quote. Un potere dimezzato, con i sindaci sottoposti alla tutela diretta dei grandi fondi d’investimento.
La lettera della Depfa è partita da Dublino il 5 agosto, due giorni dopo l’approvazione di una delibera della conferenza dei sindaci della provincia di Latina che rimarcava l’intenzione di riprendere il controllo della gestione dell’acqua. «La situazione sopra descritta – si legge nella comunicazione dell’istituto irlandese – (…) può comportare, tra l’altro, la mancata approvazione del bilancio».
Poi, l’accordo firmato a Londra il 23 maggio del 2007: «In ragione di quanto sopra, ritenendo l’Agente (la banca, ndr) che già sussistano i presupposti per dichiarare l’Evento Rilevante Potenziale, (…) richiede alla società di inviare copia del documento denominato ‘Documento dei sindaci dell’Ato 4 sulla società Acqualatina’». Ovvero la decisione dei Comuni di gestire il servizio idrico integrato, fermando l’acquisizione da parte di Acea. Secondo il contratto di mutuo del 2007 ora la Depfa potrà arrivare a sostituirsi ai principali comuni – tra i quali Latina, che detiene la maggioranza delle quote – durante la prossima assemblea dei soci, prevista per settembre.
La lettera della Banca fa riferimento anche al duro scontro tra i privati di Veolia (rappresentati dalla srl Idrolatina) e i comuni più critici durante l’ultima assemblea dei soci, finita con l’abbandono del tavolo da parte dei rappresentanti dei francesi. In quella occasione i comuni avevano apertamente chiesto le dimissioni del management, annunciando il voto contrario all’approvazione del bilancio 2015.
Appena un assaggio di quella che potrebbe essere la prossima battaglia sulle municipalizzate e i gestori locali dei servizi pubblici, dove i cambi di gestione in amministrazioni chiave – come Roma e Torino – potrebbero scontrarsi con il sistema di regole e accordi, anche privati, consolidati nel tempo. Su acqua e rifiuti, prima di tutto. Acqualatina per anni è stata il simbolo della privatizzazione del sistema idrico: aumenti delle tariffe, taglio dei tubi per chi non poteva pagare e la presenza della politica, soprattutto di Forza Italia, rappresentata dal senatore di Fondi Claudio Fazzone. Quattordici anni da incubo per i cittadini, che oggi si trovano sulle spalle una società legata con il sistema bancario internazionale.
«Un solo albero può produrre ossigeno sufficiente per dieci persone assorbendo dai sette ai dodici chili di emissioni di CO2 all’anno, oltre che contribuire a ridurre l’inquinamento acustico».ytali online, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
Quanti comuni rispettano la legge, in vigore da tre anni, che impone di piantare un albero per ogni bambino nato o adottato nello stesso comune? L’interrogativo si pone per una ragione molto semplice e insieme allarmante: l’Italia registra una perdita di suolo alla velocità di circa otto metri quadrati al secondo. Un’involuzione inquietante per l’ecosistema che si impoverisce di alberi e piante, fondamentali per il sostegno della vita umana e animale.
Un solo albero è in grado di produrre ossigeno sufficiente per più persone, e di assorbire enormi quantità di CO2. Secondo l’Istituto superiore perla protezione e la ricerca ambientale (Ispra) negli ultimi anni i dati in perdite sono aumentati in modo catastrofico, con un picco negli Anni ’90 quando è stata sfiorata una perdita di suolo di quasi dieci metri quadrati al secondo.
Il rimedio c’è: sta nella legge n. 10 del 14 gennaio 2013, entrata in vigore un mese dopo, che impone appunto ai comuni sopra i 15mila abitanti di piantare un albero per ogni bambino nato. Un solo albero può produrre ossigeno sufficiente per dieci persone assorbendo dai sette ai dodici chili di emissioni di CO2 all’anno, oltre che contribuire a ridurre l’inquinamento acustico. In realtà la norma è tuttora ignorata dalla gran parte dei comuni. E dire che la legge è chiara e in qualche misura severa: se i comuni non ne rispettano le indicazioni, alla fine di ogni anno bisogna che le amministrazioni municipali dispongano delle varianti urbanistiche per assicurare che siano rispettate le quantità minime di spazi riservati al verde pubblico. In buona sostanza ogni comune dovrà individuare un’area nel proprio territorio da destinare a una nuova piccola forestazione urbana con posa di piante autoctone.
Il controllo del rispetto della legge e quindi dei relativi adempimenti spetta al Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, istituito presso il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio. In base a queste disposizioni ogni comune dovrà inviare al Comitato le informazioni relative al tipo di albero e al luogo della sua messa a dimora nell’ambito di un censimento annuale del nuovo verde urbano.
Ma quanti sono i comuni che rispettano quest’obbligo? Non esiste un dato, neppure approssimativo. Ma tutto lascia ritenere che siano poche, pochissime, le municipalità che hanno provveduto e provvedono in questo modo ad una sempre maggior tutela del verde pubblico, e al suo progressivo sviluppo. E dire che, per sollecitare l’applicazione della legge, è stata persino introdotta una “Giornata nazionale dell’albero” che si celebra ogni anno il 21 novembre con l’obiettivo di “perseguire, attraverso la valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio arboreo e boschivo, l’attuazione del protocollo di Kyoto” e di promuovere “attività formative in tutte le scuole”.
In Parlamento sono state presentate interrogazioni, in più riprese e da più parti politiche, per conoscere dai ministeri dell’Ambiente e delle Politiche agricole che cosa intendano fare perché sia rispettata la legge del 2013; e perché non prendano iniziative perché sia piantato un albero per ogni nuovo nato. Ma c’è una terza questione sul tappeto: perché, al fine di prevenire e contenere le alluvioni e il dissesto idrogeologico, e di tutelare la salute di ogni cittadino, il governo non assume iniziative volte a investire risorse economiche per integrare l’opera di piantumazione di nuovi alberi con quella di recupero dei territori maggiormente esposti a frane? Nessuna risposta.
«Storica vittoria ambientalista nella cittadina dell'Oregon grazie a un referendum contro la costruzione di uno stabilimento industriale pronto a sfruttare le fonti di acqua locali. Un esempio per altri Stati dove la battaglia contro la vendita dell'acqua ai privati è solo agli inizi». La Repubblica online, 24 maggio 2016
E' LA PRIMA contea americana ad aver vietato a una multinazionale di imbottigliare l'acqua delle proprie fonti. Se il caso della cittadina dell'Oregon schieratasi contro il gigante Nestlé dovesse fare scuola, potrebbe aprirsi una fase difficile per l'industria dell'acqua. La piccola comunità rurale di Cascade Locks, 1200 abitanti a 70 km da Portland, nella contea di Hood River, il 17 maggio scorso ha bocciato con una votazione popolare l'apertura di una centrale della company svizzera che avrebbe dovuto imbottigliare 450 milioni di litri d'acqua l'anno, pari al 10% dei consumi totali della cittadina. Una battaglia senza esclusione di colpi, iniziata otto anni fa con la Nestlé alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, e che ha visto fronteggiarsi da un lato i sostenitori del "Provvedimento 14-55", decisi a vietare la vendita dell'acqua ai privati, dall'altro la multinazionale, che prometteva di rimpinguare le casse del municipio (135mila dollari l'anno in tasse) e dare lavoro a 50 persone, "in un paese con una disoccupazione al 18,8%", ha detto più volte il sindaco Gordon Zimmerman.
A prevalere, alla fine, è stato il no allo stabilimento con lo stop al progetto. Tra le argomentazioni degli ambientalisti, il pericolo di una drastica diminuzione di acqua disponibile alla fonte se i piani della multinazionale fossero andati in porto. Hood River County, denunciano gli attivisti di "Local Water Alliance" è un'area a rischio siccità e l'acqua un bene comune troppo importante "per permettere ai privati di sottrarlo alla comunità". "Se oggi l'acqua è una risorsa critica, ancor di più lo sarà negli anni a venire, quando aumenterà la popolazione e diminuiranno le risorse disponibili", scrivono sul proprio sito i difensori dell'acqua pubblica. "Venderla significa consegnare il nostro futuro nelle mani di altri".
La Nestlé, intanto, prende atto della decisione. "Rispettiamo il processo democratico, pur nella convinzione che la decisione presa non vada nell'interesse di Cascade Locks", ha commentato Dave Palais, manager delle risorse naturali per la company. Se il voto del 17 maggio frena l'espansione della multinazionale in Oregon, si teme ora l'effetto contagio. Incoraggiate dalla vittoria di Hood River, altre città che ospitano i giganti dell'acqua sul proprio territorio potrebbero decidere di "ribellarsi". I primi segnali, in effetti, non mancano: a Flathead County, in Montana, gli abitanti hanno manifestato contro l'apertura di un possibile impianto di imbottigliamento, mentre lo scorso marzo, sulle montagne di San Bernardino, le autorità ambientali californiane hanno proposto un'analisi dell'impatto della fabbrica di imbottigliamento di Nestlé Waters North America. Recentemente, nel Maine, sempre alla multinazionale svizzera è stata revocata la concessione per usare la fonte di Fryeburg in seguito alle proteste degli attivisti.
"L'acqua non dovrebbe essere una commodity", sostiene Julia De Graw di Food and Water Watch, associazione ambientalista con sede a Washington che coordina l'opposizione ai piani industriali di privatizzazione dell'acqua in Usa. Sebbene il mercato sia in crescita, con la vendita di bottiglie d'acqua che l'anno scorso ha sfiorato i 14,2 miliardi di dollari (+8,4% rispetto al 2014), lo stop arrivato dal piccolo paese dell'Oregon potrebbe non essere privo di conseguenze. "Utilizziamo l'acqua non più di quanto facciano altre industrie, come l'agroalimentare o il beverage", si è difesa Jane Lazgin, portavoce di Nestlé Waters North America, interpellata dal Washington Post. "Il caso di Hood River County pone un precedente. In futuro si potrà vietare l'utilizzo dell'acqua anche per l'agricoltura e l'industria".
«L’esperienza degli ultimi decenni dimostra che quando la scambio avviene tra contraenti diversi per peso contrattuale come le multinazionali e i lavoratori, solo uno dei due contraenti ci guadagna, mentre l’altro ci perde». Il Fatto Quotidiano online, 22 maggio 2016 (c.m.c.)
Il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) è il più grande accordo di libero scambio della storia, che riguarda quasi un miliardo di persone e metà del Prodotto interno lordo mondiale. Le trattative sono andate avanti per tre anni (dal 2013) e tredici round tra esperti del Ministero del Commercio estero degli Usa ed esperti della Commissione europea, senza che se ne sapesse niente di preciso, a parte la promessa che l’accordo avrebbe creato più ricchezza, più reddito, più consumi e più posti di lavoro – la stessa promessa di tutti gli accordi di globalizzazione degli ultimi trent’anni, puntualmente smentita dai fatti.
Uno squarcio di luce si è aperto agli inizi di questo mese di maggio, quando Greenpeace ha reso nota una parte consistente dei testi negoziali trafugati (248 pagine, due terzi circa), confermando le peggiori previsioni della società civile europea.
Le ragioni del No sono molte: primo, la segretezza orwelliana con cui l’accordo è stato concepito come se i diretti interessati non avessero il diritto di dire la loro prima della sua stesura definitiva. E questo è tanto più grave perché – come risulta dalle carte rese note da Greenpeace – all’industria invece questo diritto è stato ampiamente riconosciuto.
Secondo, l’azzeramento e/o l’ammorbidimento degli standard sanitari e ambientali europei, più elevati di quegli esistenti negli Usa, che su questo terreno sono meno esigenti dei paesi europei.
Terzo, la violazione del principio di precauzione riconosciuto dall’Unione europea, sostituito dalla richiesta statunitense di un approccio “basato sui rischi”, per gestire le sostanze pericolose piuttosto che di eliminarle.
Quarto, l’istituzione di comitati arbitrali per la soluzione delle controversie, che sono tribunali privati, privi di qualsiasi legittimità democratica. Quinto, le pesanti ricadute che tutto questo avrebbe sui diritti dei lavoratori. “Avevamo ragione noi e la società civile – dice Greenpeace – a essere preoccupati: con questi negoziati segreti rischiamo di perdere i progressi acquisiti con grandi sacrifici nella tutela ambientale e nella salute pubblica”.
E’ forse maturo il tempo per chiedersi se è ancora vero che la “legge” della specializzazione produttiva di un paese – sottostante la logica del commercio internazionale – accresce la produttività di quel paese, o se provoca invece la devastazione di intere aree e la miseria delle popolazioni che le abitano. E se è ancora vero che lo sviluppo del commercio estero è un fattore di crescita per tutti i partner dello scambio: l’esperienza degli ultimi decenni dimostra invece che quando la scambio avviene tra contraenti diversi per peso contrattuale come le multinazionali e i lavoratori, solo uno dei due contraenti ci guadagna, mentre l’altro ci perde.
Le trattative sull’accordo sono ancora aperte ma in uno stadio avanzato, ed è dunque urgente mobilitarsi per bloccarne la conclusione, o introdurvi modifiche sostanziali come chiede la società civile in tutti i paesi europei.
«Firenze. 15 mila persone in piazza contro il maxi termovalorizzatore di Case Passerini sono solo l’ultima tegola per il Pd, che fa il tifo per le grandi opere ma non ha ancora capito come rendere compatibile l’impianto con il progetto di un nuovo aeroporto intercontinentale nella già martoriata Piana fiorentina». Il manifesto
, 17 maggio 2016 (c.m.c.)
Quel festoso corteo lungo tre chilometri, popolato da attivisti ed ecologisti ma anche da famiglie e studenti, nonni genitori e nipotini stretti nel loro «no» al maxi inceneritore di Case Passerini, è stato un brutto colpo per l’egemone Pd fiorentino. Costretto ancora, dopo quindici anni di ok amministrativi – fra le polemiche degli amministrati – a difendere l’impianto progettato nel comune di Sesto Fiorentino, dove ha sede operativa la municipalizzata dei rifiuti Quadrifoglio. Anche all’ingresso della città per chi arriva dalla Firenze-Mare, cioè da Prato, Pistoia, Montecatini, Lucca e Versilia. Un anacronistico e discutibile biglietto da visita per una delle capitali italiane dell’arte e della cultura.
«Abbiamo deciso di decidere». Enfatico già all’epoca, così rispondeva al manifesto, nell’ormai lontano 2006, l’allora pingue e inciuffettato neo presidente provinciale Matteo Renzi, nelle pieghe del via libera del consiglio all’impianto di incenerimento. Non ha cambiato idea, almeno a giudicare dallo Sblocca Italia che ha messo in cantiere sette nuovi inceneritori nella penisola. Fra cui Case Passerini.
Eppure c’è stato un momento in cui Renzi, già diventato sindaco di Firenze, ha pensato che il gioco non valesse la candela. Ma solo perché il grande impianto di incenerimento, con la sua torre alta poco meno di cento metri e un bosco artificiale per lenire le emissioni, finirebbe nel cono del nuovo aeroporto intercontinentale, anch’esso progettato nella già martoriata Piana fiorentina. Il piano alternativo, studiato da Palazzo Vecchio, prevedeva di sbolognare i rifiuti urbani a Livorno, al suo inceneritore dell’Aamps al Picchianti. Ma la contrarietà della municipalizzata, già in accordi con il colosso Hera per una gestione congiunta dell’affare, si tradusse in una soffiata alla stampa e nella levata di scudi della città labronica, che pure all’epoca era ancora del Pd.
Da allora si è andati avanti nelle procedure amministrative, nonostante che la contrarietà di parte della popolazione si fosse tradotta in almeno mezza dozzina di manifestazioni di protesta, dal 2006 ad oggi. Con Rossano Ercolini e Paul Connett, pionieri della strategia «rifiuti zero», invitati di volta in volta dai combattivi Comitati della Piana e da Rifondazione, Verdi e Perunaltracittà. E con Gian Luca Garetti dei Medici per l’Ambiente a denunciare, dati scientifici alla mano, l’intrinseca pericolosità di simili impianti. Fino all’ultimo sintetico dossier, appena pubblicato sul periodico La città invisibile, esaustivo per chi volesse conoscere le zone d’ombra nascoste dietro i cosiddetti «termovalorizzatori».
Agli occhi dei fan dell’incenerimento, e soprattutto della potente Cispel Confervizi che raggruppa le aziende legate alle public utilities, è arrivata per giunta la tegola dell’inceneritore pistoiese di Montale, fermato la scorsa estate a furor di popolo dopo la scoperta di ripetute, pesanti emissioni di diossine &c. L’apertura di un’inchiesta penale a Pistoia ha costretto i sindaci dell’area a promettere solennemente ai concittadini che l’inceneritore di Montale sarà chiuso. Ma solo quando sarà in funzione Case Passerini. Di più: in parallelo si sono addensate altre nubi sugli impianti toscani, dopo che un recentissimo studio sull’inceneritore di San Zeno ad Arezzo ha dimostrato scientificamente la sua pericolosità. Di qui l’ulteriore necessità, per gli inceneritoristi, di realizzare Case Passerini.
Il piano dei rifiuti urbani, approvato dalla Regione Toscana nel novembre 2014, prevedeva comunque che ai cinque impianti in funzione – Ospedaletto a Pisa, Picchianti a Livorno, Poggibonsi nel senese, San Zeno ad Arezzo e Montale a Pistoia – si aggiungesse appunto Case Passerini. L’assessora all’ambiente dell’epoca, Anna Rita Bramerini ricordava nell’occasione che l’obiettivo era addirittura il 70% di raccolta differenziata nel 2020, con solo il 20% da destinare alla «termovalorizzazione».
Ma in una regione come la Toscana, i cui abitanti (3 milioni e 700mila) sono pari a quelli dell’area vasta milanese, una simile dotazione “inceneritorista” è apparsa incongrua ai più, non solo all’opposizione di Toscana a Sinistra e M5S.
Al riguardo, Monica Sgherri di Rifondazione segnalava: «Sulla produzione dei rifiuti, in Toscana si parte da dati di gran lunga superiori a quelli che già oggi registrano regioni come la Lombardia, il Veneto e altre ancora. Ma quel che balza all’occhio è che le previsioni al 2020 contenute nel piano sono di circa 100, 150 chili annui per abitante superiori ai dati del 2012, forniti dall’Ispra, di queste regioni. In altre parole il piano si pone formalmente obiettivi anche ambizioni, quelli del 70% di differenziata e del solo 10% da destinare alla discarica. Poi però li svuota, in primis a causa del sovradimensionamento della produzione dei rifiuti indicata. Tutto quanto è naturalmente funzionale alla realizzazione, e all’attività, degli impianti di incenerimento».
L’iter autorizzativo per Case Passerini è concluso da mesi. Risale al 23 novembre scorso l’atto della Città metropolitana che ha rilasciato l’autorizzazione integrata ambientale per la realizzazione e gestione dell’inceneritore, come richiesto da Q.Thermo (Quadrifoglio al 60% e gruppo Hera al 40%). Ma le proteste sono andate avanti, fino alla manifestazione di sabato organizzata dalle «Mamme no inceneritore» e dell’Assemblea per la Piana contro le nocività, insieme all’associazione Zero Waste Italia e ai Medici per l’Ambiente. E con l’adesione di più di 200 realtà politiche e sociali, non solo toscane.
Di fronte a circa 15mila persone in corteo iperpacifico fino al centro storico, con Bobo Rondelli, Bandabardò e Malasuerte Fi-Sud per il concerto finale in piazza della Repubblica, il Pd si è innervosito. Dal Giappone, il ministro dell’ambiente Galletti, al G7 ambientale dove c’è anche il sindaco Nardella, ha dettato la linea governativa: «Utilizzare l’ambiente contro le grandi opere, o contro lo sviluppo economico in generale, fa male al paese e anche alla protezione ambientale». A seguire Galletti ha difeso il progetto di aeroporto intercontinentale di Peretola, il sottoattraversamento Tav e, appunto, l’inceneritore di Case Passerini.
Dal canto suo l’ad di Quadrifoglio, Livio Giannotti ha anticipato: «Contiamo di aprire il cantiere entro l’estate, per poi concludere l’opera in 700 giorni. Entro tre anni l’impianto sarà a regime, con emissioni nell’atmosfera che saranno, per ogni parametro, inferiori del 50-80% ai limiti di legge». Quanto a un possibile, teorico stop, Giannotti ha testualmente aggiunto: «È una decisione della Regione. Che dovrebbe però contraddire il ministero, e pagare i costi di tutti gli investimenti già fatti, circa 10 milioni di euro».
Oltre a lasciare il cerino in mano ad altri (Enrico Rossi), sono parole che sembrano nascondere un ulteriore problema: il ricorso al Tar di Campi Bisenzio, comune confinante con Sesto Fiorentino, che ai giudici amministrativi denuncia: «Per il termovalorizzatore, su cui eravamo d’accordo, dovevano però essere realizzate le opere di mitigazione e compensazione previste nel protocollo d’intesa del 2005. Queste opere non sono state realizzate». Per forza: sono quelle che farebbero cadere una pietra tombale sull’aeroporto intercontinentale di Carrai & Renzi.
«Segnaliamo la risposta di Antonio Fiorentino di perUnaltracittà a un chimico amico degli inceneritori che interviene sul Corriere fiorentino del 15 maggio. “L’inceneritore è l’unico destino che ci può essere”… “l’inceneritore è un altro passo verso la modernità». perUnaltracittà, 15 maggio 2016 (c.m.c.)
Queste sono alcune delle amenità apparse sul Corriere Fiorentino (15 maggio) dopo la grande manifestazione del 14 maggio ad opera un docente di chimica dell’università di Firenze. Dispiace constatare come in queste affermazioni ci sia tanta ideologia e scarsa rispondenza alla realtà delle cose.
Vorrei ricordare al professore che la pratica dell’incenerimento dei rifiuti è una pratica barbara, propria di una società che non è in grado di affrontare in maniera moderna ed equilibrata la gestione del ciclo dei rifiuti. Gli inceneritori sono una contraddizione in termini rispetto alla raccolta differenziata e al riciclaggio dei rifiuti. Hanno bisogno dei rifiuti, sono un limite oggettivo al loro riutilizzo.
Non è un caso che l’etimologia della parola “letame” derivi dal latino “laetare”, allietare, perché rendeva lieti coloro che utilizzavano la parte terminale di un ciclo biologico e, contemporaneamente, potevano utilizzare le stesse sostanze, i rifiuti, per impostarne un altro, e così via. Il compito di noi “moderni” non è quello di distruggere tanta ricchezza ma di renderla nuovamente disponibile. I tanto vituperati premoderni lo avevano capito! Chi ragiona in termini ideologici non ancora.
In secondo luogo con gli inceneritori le discariche non sono eliminate perché il 30% circa dei rifiuti da bruciare viene trasformato in ceneri, la cui concentrazione di inquinanti è molto elevata e fortemente tossica. Queste devono essere poi smaltite in una discarica, ergo: le discariche ci saranno ancora con il loro spaventoso carico di veleni. Come dire che delle 180.000 tonnellate di rifiuti che l’inceneritore di Case Passerini potrà trattare, ben 60.000 tonnellate di ceneri dovranno essere mandate in discarica. Scusate se è poco!
In terzo luogo, e non per ordine di importanza, il professore di chimica conoscerà bene il Principio di conservazione della massa di Lavoisier, in base al quale, lo dice anche il normale buon senso, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Ossia, se non dovesse essere chiaro, che le 180.000 tonnellate dell’inceneritore fiorentino si trasformeranno in 60.000 tonnellate di ceneri e in 120.000 tonnellate, se non di più, di gas che attraverso il camino galleggeranno sulle nostre teste, si diffonderanno sulla Piana Fiorentina.
E’ questa modernità? E’ questo il senso di responsabilità che anima politici, investitori e dotti accademici?La manifestazione di ieri 14 maggio 2016 resterà nella storia della Piana e di Firenze.Più di 15.000 persone hanno ribadito che “senza la gente non si fa niente!”.
«Summit Onu. A poche ore dalla cerimonia ufficiale di New York in cui 170 Stati hanno ratificato l'accordo di Parigi per la riduzione dei gas serra, l'Europa ammette che i 28 paesi dell'Unione non hanno ancora stabilito politiche condivise per abbattere le sostanze inquinanti». Il manifesto, 24 aprile 2016
L’intesa, sulla carta, rappresenta una svolta che la retorica in mondo visione ha già salutato come epocale. Abbiamo sentito dire che le firme dei 170 paesi che all’Onu si impegnano a far entrare in vigore l’accordo globale sul clima di Parigi potrebbero essere un risultato storico (obiettivo: limitare la temperatura media globale entro i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali). Sicuramente c’è del vero. Ma per passare dalle parole ai fatti bisogna fare in fretta perché il tempo è già scaduto. Di più, subito. E qui rischiano di essere problemi grossi proprio per il vecchio continente, disarticolato e litigioso con le sue 28 membra stanche (spesso in disaccordo tra loro) che saranno chiamate a ratificare l’accordo sulla base di intese comuni e politiche condivise.
Tanto che, a poche ore dalla cerimonia ufficiale della firma di New York, gli osservatori sanno bene che mentre Usa, Cina e India stanno correndo verso l’obiettivo l’anello debole della catena è proprio l’Europa, ancora ferma in attesa di definire i target nazionali di riduzione della C02 previsti per 2030. Il processo “prenderà del tempo”, ha ammesso il commissario europeo al Clima Miguel Arias Canete durante il discorso alle nazioni unite.
Perché non rimanga lettera morta, l’accordo mondiale per la riduzione di gas serra deve essere ratificato da 55 paesi che coprono almeno il 55% delle emissioni globali. E non è improbabile che questo possa avvenire anche senza il contributo dei 28 paesi europei, un fatto clamoroso che potrebbe escludere l’Europa dalle prime decisioni fondamentali per abbattere gli inquinanti e invertire la rotta delle politiche energetiche. “Dopo Parigi tutto il mondo si sta muovendo tranne l’Ue”, ha detto Bas Eickhout, vicepresidente del gruppo dei Verdi europei.
Usa e Cina (il paese che più di tutti sta investendo sulle energie pulite) hanno dichiarato di voler ratificare l’accordo entro la fine di quest’anno, forse già a settembre quando si terrà l’assemblea generale dell’Onu. Se così fosse, è la matematica a dire che l’Europa potrebbe diventare irrilevante anche sul piano della lotta al riscaldamento globale. “Questi due paesi – ha precisato Eickhout – insieme contano circa il 40% delle emissioni, che con l’India diventano il 45%. Se si dovesse aggiungere anche il Giappone, dietro pressione degli Usa, l’entrata in vigore nel 2016 o 2017 diventa probabile senza l’Unione europea”. Eppure Giovanni La Via (Ppe), presidente della Commissione ambiente dell’Europarlamento, non sembra molto preoccupato: “Siamo 28 paesi, è normale che il processo di ratifica sia più complesso, non è una gara e quello che conta è l’obiettivo”.
L’opinione comune, al di là dei riflessi appannati dell’Europa, è che l’accordo di Parigi dovrà ancora superare molti ostacoli prima di diventare operativo, e non solo in Europa (l’organizzazione mondiale marittima e quella dell’aviazione civile, per esempio, non hanno ancora stabilito misure per abbattere le emissioni). E che ormai il tempo è scaduto. Il “rapidamente” non basta più, spiega il Wwf in una nota, perché oltre al trattato di Parigi “anche le temperature planetarie e gli impatti climatici stanno già scrivendo un pezzo di storia del pianeta”. E questa è cronaca: è appena trascorso anche il marzo più caldo di sempre (dopo undici di mesi di record analoghi), l’Africa orientale e meridionale è colpita da una delle peggiori siccità di sempre, la quasi totalità della barriera corallina ormai è sbiancata per le acque calde e in Groenlandia ci sono temperature record attorno ai 20 gradi sopra la media. Ce n’è di che per convocare un bel vertice europeo?
«A lanciare l'allerta il n° 1 del Goddard Institute for Space Studies della Nasa (Giss), Gavin Schmidt, che prevede "sulla base dei dati sulle temperature medie globali raccolti tra gennaio e marzo dal Giss della Nasa, una probabilità superiore al 99% di avere un 2016 da record"». Il Fatto Quotidiano online, 22 aprile 2016 (p.d.)
Le temperature superficiali della Terra già nel 2016 potrebbero avvicinarsi pericolosamente a 1,5 °C in più rispetto ai livelli pre-industriali. Un aumento che potrebbe, cioè, sfiorare proprio quel grado e mezzo in più fissato come soglia limite a dicembre dalla comunità internazionale nell’accordo sul clima di Parigi. A lanciare l’allerta il n°1 del Goddard Institute for Space Studies della Nasa (Giss), Gavin Schmidt, che prevede “sulla base dei dati sulle temperature medie globali raccolti tra gennaio e marzo dal Giss della Nasa, una probabilità superiore al 99% di avere un 2016 da record”. L’annuncio, ripreso dalla rivista New Scientist, arriva a ridosso dell’Earth Day, la Giornata della Terra scelta dalle Nazioni Unite ogni 22 aprile, a partire dal 1970, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità della conservazione delle risorse naturali del Pianeta.
Per approfondire questi dati l’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), il panel Onu sul clima, come riportato dalla rivista Nature, in un meeting che si è appena concluso a Nairobi si è impegnato a realizzare tre report nei prossimi anni. Le nuove indagini, la prima delle quali sarà completata entro il 2018, analizzeranno l’impatto sul Pianeta dei mutamenti climatici legati a un aumento delle temperature di 1,5 °C. “Finora abbiamo focalizzato la nostra attenzione su quel che potrebbe accadere con un aumento delle temperature di 4 gradi o più rispetto ai livelli pre-industriali – sottolinea su Nature Corinne Le Quéré, direttrice del Tyndall Centre for Climate Change Research di Norwich, e autrice di molti dei report Ipcc -. L’impatto di un riscaldamento relativamente più modesto, infatti, è molto meno studiato. E dobbiamo imparare a comprenderlo”, precisa l’esperta.
L’impegno a “portare avanti ogni sforzo per limitare l’aumento delle temperature a 1,5 °C”, come prevede l’accordo sul clima, è, infatti, uno dei punti salienti dell’intesa stipulata da 195 Paesi alla conferenza “Cop21″ di Parigi. Ma già all’indomani del summit, alcuni esperti avevano sollevato dubbi sull’efficacia dell’accordo, giudicato insuffficiente a limitare le emissioni di gas serra, e a contenere la febbre del Pianeta. I primi dati raccolti nel 2016 e le previsioni dell’esperto Nasa sembrano andare nella stessa direzione, confermando alcune perplessità iniziali.
Secondo quanto scrive la rivista New Scientist, per sapere se le temperature medie globali della superficie del Pianeta si manterranno elevate per tutto il 2016 bisognerà, tuttavia, guardare a El Niño, l’aumento delle temperature superficiali del Pacifico. Un’attenuazione di questo fenomeno tropicale, alla base del motore climatico terrestre, potrà infatti portare, secondo gli esperti, a una riduzione di questo trend di crescita. “È essenziale – conclude Jan Fuglestvedt, climatologo del Center for international climate and environmental research di Oslo, e vice presidente del gruppo di scienze fisiche dell’Ipcc – che i Governi sappiano come e quando è necessario agire, per mantenere il surriscaldamento al di sotto di 1,5 °C”.
Argomentate risposte alle riserve sollevate su quesiti importanti:l lavoro, l'indipendenza energtica, quella economica, il ruolo dello stato. E una domanda soprattutte: Dobbiamo dirigerci verso un futuro di maggiore spreco di risorsr irriproducibili, o dobbiamo finalmente risparmiarle? Internazionale.it, 12 aprile 2016 (m.p.r.)
Il referendum del 17 aprile riguarda l’estrazione di idrocarburi offshore entro le 12 miglia nautiche dalla costa. Dunque riguarda il futuro di 88 piattaforme oggi esistenti entro le 12 miglia, che fanno capo a 31 concessioni a “coltivare” (la coltivazione indica la zona dove una compagnia ha il permesso di estrarre gas o petrolio), oltre a quattro piattaforme relative a permessi di ricerca ora sospesi. Sono in buona parte nell’Adriatico, un po’ nello Ionio e nel mare di Sicilia, come si vede da questa mappa interattiva.
In questione c’è la durata delle concessioni. Il quesito infatti chiede di abrogare la norma, introdotta nella legge di stabilità entrata in vigore il 1 gennaio 2016, che permette di estendere una concessione “per la durata di vita utile del giacimento”, cioè per un tempo indefinito. Se vincerà il sì quella frase sarà cancellata. In tal caso torneremo semplicemente a quanto previsto in precedenza dalla normativa italiana e comunitaria: tutte le concessioni per lo sfruttamento di idrocarburi o di risorse minerarie, a terra o in mare, hanno durata di trent’anni, con possibilità di proroghe per altri complessivi venti.
In altre parole, sarà cancellata un’anomalia. In effetti è insolito che una risorsa dello stato, cioè pubblica, sia data in concessione senza limiti di tempo prestabiliti (ed è per questo che la corte costituzionale ha giudicato ammissibile il quesito). Tra l’altro, è un privilegio accordato alle sole concessioni entro la fascia di 12 miglia, non a quelle a terra o in mare più aperto.
Dunque, se vince il sì le piattaforme oggi in attività continueranno a lavorare fino alla scadenza della concessione (o dell’eventuale proroga già ottenuta), ma non oltre. Certo, in gioco c’è molto di di più. I sostenitori del sì rimandano alla politica energetica del paese, parlano di energie rinnovabili, di investimenti in efficienza energetica. Ma sono accusati di mettere a repentaglio attività economiche e posti di lavoro.
Il referendum è inutile?
Chi si oppone alla consultazione ricorda che la legge di stabilità 2016 ha già bloccato il rilascio di nuovi titoli (permessi) per estrarre idrocarburi entro le 12 miglia. La durata della concessione però non è irrilevante, e ha risvolti molto pratici. Infatti, il blocco di nuove concessioni non impedisce che all’interno di concessioni già esistenti siano perforati nuovi pozzi e costruite nuove piattaforme, se previsto dal programma di lavoro. Potrebbe essere il caso della concessione Vega, nel mar di Sicilia, dove l’Eni progetta da tempo una nuova piattaforma (Vega B) da aggiungere a quella oggi in esercizio (la concessione scade nel 2022).
Ancora più importante: prolungando la durata della concessione si rinvia il momento in cui le piattaforme obsolete vanno smantellate e rimosse. È un’operazione costosa che da contratto spetta alle aziende concessionarie insieme al ripristino ambientale, quindi la spesa dovrebbe essere già inclusa nei bilanci. “Sospetto che le compagnie petrolifere puntino anche a questo, a rinviare in modo indefinito il momento in cui dovranno smantellare piattaforme obsolete”, dice Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia.
Se vince il sì chiuderanno piattaforme operative e perderemo posti di lavoro?
È una delle obiezioni di chi è contrario al referendum. Ma si può confutare. Primo, la vittoria del sì non significa la chiusura immediata di tutte le attività in corso: le concessioni oggi attive scadranno tra il 2017 e il 2034. Il referendum poi non mette in questione le attività di manutenzione né, ovviamente, quelle di smantellamento e ripristino ambientale.
Quanto ai posti di lavoro, i numeri sono incerti. Assomineraria, l’associazione delle industrie del settore, parla di 13mila persone; la Filctem, la federazione dei lavoratori chimici della Cgil, parla di circa diecimila addetti solo a Gela e Ravenna. L’Isfol, ente pubblico di ricerca sul lavoro, parla di novemila occupati in tutto il settore (mare e terra).
Quanti di questi posti siano legati alle piattaforme entro le 12 miglia è opinabile. Il sindacato dei metalmeccanici Fiom Cgil afferma che sono meno di cento. «Considerando l’indotto, arriviamo a una stima massima di circa tremila persone», dice Giorgio Zampetti, esperto di questioni petrolifere per Legambiente.
Una cosa certa è che le attività sulle piattaforme non sono labour intensive (cioè basate soprattutto sulla forza lavoro). Per lo più sono manovrate in remoto: gli addetti lavorano soprattutto nella fase di trivellazione, ma intervengono ben poco nella produzione (darebbe lavoro, casomai, smantellare i vecchi impianti). Gli attivisti di Greenpeace sono rimasti sorpresi, l’anno scorso, quando sono riusciti ad avvicinarsi alla piattaforma Prezioso, di fronte a Gela nel mar di Sicilia, l’hanno scalata e vi hanno appeso un gigantesco striscione, senza trovare ostacoli né risposta: il fatto è che non c’era proprio nessuno.
Quanto petrolio e quanto gas contengono i fondali italiani?
Non poi tanto. La produzione delle piattaforme attive entro le 12 miglia nel 2015 è stata di 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di smc (standard metro cubo) di gas. In questi giorni circolano molti dati, ma attenzione a non fare confusione. L’intera produzione italiana, a terra e in mare, arriva a circa sette miliardi di smc di gas e 5,5 milioni di tonnellate di olio greggio, secondo l’ufficio per gli idrocarburi e le georisorse (Unmig) del ministero per lo sviluppo economico.
Però la produzione nella fascia protetta delle 12 miglia, oggetto del referendum, è una parte minore del totale. Se paragonata ai consumi, copre meno dell’1 per cento del fabbisogno nazionale di petrolio, e circa il 3 per cento del fabbisogno di gas. Insomma: rinunciare alla produzione entro le 12 miglia avrebbe un peso irrilevante sul bilancio energetico italiano.
Uno degli argomenti contro il referendum è che l’Italia, con una vittoria del sì, rinuncerebbe a una risorsa importante. Davvero? L’insieme delle riserve certe nei fondali italiani (entro e oltre le 12 miglia) ammonta a 7,6 milioni di tonnellate di petrolio, secondo le valutazioni del ministero dello sviluppo economico. Al ritmo attuale dei consumi, coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole sette settimane. Sommando le riserve su terraferma si arriverebbe a 13 mesi. Quelle di gas arrivano a 53,7 miliardi di smc: neppure un anno di consumo italiano. In termini d’indipendenza energetica è ben poca cosa.
Intanto lo scenario dell’energia cambia. Negli ultimi dieci anni il consumo italiano di idrocarburi è calato, osserva Legambiente riprendendo dati del Mise. Oggi l’Italia consuma in un anno 67 miliardi di smc di gas, e 57 milioni di tonnellate di petrolio: rispettivamente il 21 e il 33 per cento in meno rispetto ai consumi di dieci anni fa. Invece, è aumentata la parte delle fonti rinnovabili, arrivate a coprire il 40 per cento dei consumi elettrici (nel 2005 era al 15,4) e il 16 per cento dei consumi energetici finali (nel 2005 eravamo al 5,3).
Gli idrocarburi portano ricchezza all’Italia?
Neppure questo è tanto vero. L’Italia impone royalty (la somma versata in cambio dello sfruttamento commerciale di un bene) tra le più basse al mondo, pari al 7 per cento del valore del petrolio estratto in mare e al 10 per cento del valore del petrolio estratto a terra e del gas (a terra o in mare). Le royalty e i canoni (sull’occupazione del terreno) pagati dalle aziende sono poi detratti dal reddito su cui le aziende verseranno le tasse. Nel 2015 l’insieme delle royalty pagate allo stato e agli enti locali ammontava a 351 milioni di euro. La royalty si calcola sul prezzo di vendita del petrolio o del gas, al netto di alcune deduzioni. Su ogni giacimento però c’è una franchigia: sono esenti da royalty le prime 50mila tonnellate di petrolio e i primi 80mila metri cubi di gas estratti offshore.
Il risultato è che molte piattaforme non pagano affatto. Secondo elaborazioni del Wwf sui dati del Mise, solo 18 concessioni in mare versano royalty, su un totale di 69 (entro e oltre le 12 miglia), ovvero appena il 21 per cento. Su 53 aziende estrattive, solo otto pagano royalty limitate e sono le più grandi (Eni, Shell, Edison, Gas Plus Italiana, Eni mediterranea idrocarburi, Società Ionica Gas, Società Padana Energia). A terra, solo 22 concessioni su 133 pagano royalty. È chiaro che alle aziende conviene prolungare la vita di pozzi che estraggono poco, perché restano sotto la franchigia.
Le piattaforme hanno avuto una valutazione d’impatto ambientale?
Che età hanno le piattaforme disseminate nei mari italiani? Anche questo punto ha risvolti molto pratici, nota l’ultimo studio pubblicato dal Wwf. Dai bollettini del ministero per lo sviluppo economico infatti risulta che 42 piattaforme (su 88) sono state costruite prima del 1986, quando è entrata in vigore la legge che istituisce le procedure di valutazione di impatto ambientale (Via). Tra queste, 26 appartengono all’Eni (o alle sue controllate), nove all’Edison e cinque all’Adriatica gas.
In altre parole, quasi metà delle piattaforme esistenti entro le 12 miglia non è mai stata sottoposta a una valutazione di impatto ambientale. Sembra impensabile, ma è così (il ministero dell’ambiente non ha nulla da obiettare?).
In generale, l’età media delle concessioni è piuttosto alta, 35 anni, e quasi la metà supera la quarantina. Su quel totale di 88 piattaforme, otto sono definite “non operative”, cioè non in produzione, e 31 (tutte a gas) sono “non eroganti” (cioè sono ferme per manutenzione o hanno cessato la produzione).
«Ci chiediamo perché le compagnie petrolifere tengano inattivi così tanti impianti», dice Fabrizia Arduini, autrice di questo studio insieme a Stefano Lenzi. «Il ministero dello sviluppo economico dovrebbe esaminare la situazione, prima che questi relitti obsoleti collassino nei nostri mari». Arduini cita il regolamento offshore sulla sicurezza, emanato dalla Commissione europea nel 2011 e poi diventato una direttiva: il regolamento “riconosce che il rischio di cedimenti strutturali dovuti al logorio degli impianti è uno dei principali fattori di rischio di incidente. Ed è chiaro che un incidente avrebbe conseguenze tanto più gravi se avvenisse vicino alla costa, cioè proprio nella fascia delle 12 miglia”.
Poi c’è il “normale” inquinamento. Il mese scorso Greenpeace ha ripreso i dati delle analisi compiute dall’Ispra (l’istituto di ricerca ambientale collegato al ministero dell’ambiente) su campioni di cozze raccolti intorno ad alcune piattaforme dell’Eni nell’Adriatico, dati mai resi pubblici: rivelano che i campioni contengono metalli pesanti e idrocarburi aromatici in quantità molto superiori ai limiti accettabili (quelle cozze sono normalmente messe in commercio, costituiscono il 5 per cento della produzione annuale della Romagna).
Ha senso continuare a puntare sulle energie fossili?
La decisione di bloccare ogni nuova attività estrattiva nei mari italiani entro le 12 miglia dalla costa risale al 2010: l’aveva deciso il governo Berlusconi sull’onda dell’allarme provocato dal disastro della Deepwater Horizon nel golfo del Messico (risale ad allora anche il regolamento europeo sulla sicurezza offshore). Due anni dopo il governo Monti ha riaperto la strada a nuove concessioni, e nel 2014 il governo Renzi ha addirittura definito l’estrazione di idrocarburi una “attività strategica”, quindi non vincolata al consenso delle regioni (che infatti hanno prima impugnato la norma, poi deciso di promuovere il referendum).
Ora le nuove concessioni sono bloccate, ma quelle in corso diventano “a tempo indeterminato”. Ma ha senso continuare a puntare sulle energie fossili? Molti, non solo gli ambientalisti, sono convinti che concentrarsi sulle energie rinnovabili e sull’efficienza energetica garantirebbe posti di lavoro, sviluppo, innovazione.
17 aprile: l'evento che il governo Renzi e i padroni degli affari petrolieri vorrebbero nascondere Domande e risposte sulla consultazione perché tutti comprendano che occorreun SI per salvare i nostri mari. Il manifesto, 17 marzo 2016
Il 17 aprile si andrà alle urne contro le trivelle e la petrolizzazione offshore. Abbiamo chiesto alcuni chiarimenti al coordinamento nazionale «No triv».
Di che si tratta?
E’ un referendum abrogativo, e cioè di uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che la Costituzione italiana prevede per richiedere la cancellazione, in tutto o in parte, di una legge dello Stato. Perché la proposta soggetta a referendum sia approvata occorre che vada a votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto e che la maggioranza si esprima con un «Sì». Hanno diritto di voto tutti i cittadini italiani, anche residenti all’estero, che abbiano compiuto la maggiore età. Scrivendo «Sì» sulla scheda i cittadini avranno la possibilità di eliminare la norma sottoposta a referendum.
Dove si voterà e cosa si chiede esattamente con questo referendum?
Si voterà in tutta Italia e non soltanto nelle regioni che hanno promosso il referendum per chiedere di cancellare la norma che consente alle multinazionali del greggio di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia dalle coste del nostro Paese senza limiti di tempo.
Qual è il testo del quesito?
Il testo è il seguente: ’Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ’Norme in materia ambientale’, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016), limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale?’.
È possibile che qualora il referendum raggiunga la maggioranza dei «Sì» il risultato venga poi «tradito»?
A seguito di un esito positivo del referendum, la cancellazione della norma che al momento consente di estrarre gas e petrolio senza limiti di tempo sarebbe immediatamente operativa. L’obiettivo del referendum mira a far sì che il divieto di estrazione entro le 12 miglia marine sia assoluto. Come la Corte costituzionale ha più volte precisato, il Parlamento non può successivamente modificare il risultato che si è avuto con il referendum, altrimenti lederebbe la volontà popolare espressa attraverso la consultazione. Qualora però non si raggiungesse il quorum previsto perché il referendum sia valido (50% più uno degli aventi diritto al voto), il Parlamento potrebbe fare ciò che vuole: anche mettere in discussione la zona offlimits.
È vero che se vincesse il «Sì» si perderebbero posti di lavoro?
Un esito positivo non farebbe cessare immediatamente, ma solo progressivamente, alla naturale scadenza, le attività petrolifere interessate dal provvedimento. Prima che il Parlamento introducesse la norma sulla quale gli italiani sono chiamati al voto, le concessioni per estrarre avevano normalmente una durata di trenta anni (più altri venti, al massimo, di proroga). E questo ogni società petrolifera lo sapeva al momento del rilascio della concessione. Oggi, di fatto, non è più così: se una società petrolifera ha ottenuto una concessione nel 1996 può – in virtù di quella norma – estrarre fino a quando lo desideri. Se, invece, al referendum vincerà il «Sì», la società petrolifera che ha ottenuto una concessione nel 1996 potrà estrarre per dieci anni, ancora e basta, e cioè fino al 2026. Dopodiché quello specifico tratto di mare interessato dall’estrazione sarà libero per sempre.
L’Italia dipende fortemente dalle importazioni di petrolio e gas dall’estero. Non sarebbe, quindi, opportuno investire nella ricerca degli idrocarburi ed incrementarne l’estrazione?
Gli idrocarburi presenti in Italia appartengono al patrimonio dello Stato, ma questo dà in concessione a società private – per lo più straniere – la possibilità di sfruttare i giacimenti esistenti. Ciò significa che le multinazionali divengono proprietarie di ciò che viene estratto e possono disporne come meglio credano. Allo Stato esse sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7% del valore della quantità di petrolio estratto o al 10% del valore della quantità di gas estratto. Non tutta la quantità di petrolio e gas estratto è però soggetta a royalties. Le società petrolifere, infatti, non versano niente per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas tirati fuori ogni anno e godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo. Nell’ultimo anno dalle royalties provenienti da tutti gli idrocarburi estratti sono arrivati nelle casse pubbliche solo 340 milioni di euro.
Il rilancio delle attività petrolifere non costituisce un’occasione di crescita per l’Italia?
Considerando tutto il petrolio presente sotto il mare italiano, questo sarebbe appena sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale di greggio per 7 settimane. Le riserve di gas per appena 6 mesi.
Cosa ci si attende?
Il voto referendario è uno dei pochi strumenti di democrazia diretta a disposizione degli italiani ed è giusto che i cittadini abbiano la possibilità di esprimersi anche sul futuro energetico del nostro Paese. Nel dicembre del 2015 l’Italia ha partecipato alla Conferenza Onu sui cambiamenti climatici tenutasi a Parigi, impegnandosi, assieme ad altri 194 Paesi, a contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi e a seguire la strada della decarbonizzazione. Fermare le trivellazioni in mare è in linea con gli impegni presi a Parigi e contribuirà al raggiungimento di quell’obiettivo.
Un fervido appello di Alex Zanotelli perchè il 17 aprile, sconfiggendo l'ostruzionismo del governo nazionale e dei gruppi petrolieri, tutti votino SI alla richiesta di abrogazione della norma che consente l'ulteriore estrazione del petrolio sulle coste italiane
Il 17 aprile dobbiamo tutti/e prepararci ad andare a votare il nostro SI’per il Referendum, proposto da nove regioni e dai comitati No Triv .
Ricordiamoci che si tratta di un Referendum abrogativo di una legge del governo Renzi sulle trivellazioni petrolifere, per cui è da votare SI’ all’abrogazione!)
La sola domanda referendaria su cui dovremo esprimerci sarà : “Si può estrarre petrolio fino all’esaurimento dei pozzi autorizzati che si trovano lungo le coste italiane entro le 12 miglia?” [vedi l'esatta domanda referendaria in calce- n.d.r]
Inizialmente erano sei le domande referendarie proposte dalle nove regioni (Basilicata, Puglia, Molise, Veneto, Campania, Calabria, Liguria, Sardegna e Marche). Ma la Cassazione ha bocciato l’8 gennaio le altre cinque domande perché il Governo Renzi, nel frattempo, aveva furbescamente riscritto due commi del Decreto Sblocca Italia 2016. Per cui ne rimane una sola.
Le ragioni date dai comitati NO TRIV per votare SI’ sono tante: il pericolo di sversamenti di petrolio in mare con enormi danni alle spiagge e al turismo, il rischio di movimenti tellurici legati soprattutto all’estrazione di gas e l’alterazione della fauna marina per l’uso dei bombardamenti con l’aria compressa.
Ma la ragione fondamentale per votare SI’ è ,che se vogliamo salvarci con il Pianeta, dobbiamo lasciare il petrolio ed il carbone là dove sono, cioè sottoterra! Il Referendum ci offre un’occasione d’oro per dire NO alla politica del governo Renzi di una eccesiva dipendenza dal petrolio e dal carbone per il nostro fabbisogno energetico. Gli scienziati ci dicono a chiare lettere, che se continuiamo su questa strada, rischiamo di avere a fine secolo dai tre ai cinque centigradi in più. Sarà una tragedia!
Papa Francesco ce lo ripete in quel suo appassionato Laudato Si’:”Infatti la maggior parte del riscaldamento globale è dovuto alla grande concentrazione di gas serra emessi soprattutto a causa dell’attività umana. Ciò viene potenziato specialmente dal modello di sviluppo basato sull’uso intensivo dei combustili fossili(petrolio e carbone) che sta al centro del sistema energetico mondiale.” Il Vertice di Parigi sul clima , il cosidetto COP 21, dello scorso dicembre , lo ha evidenziato , ma purtroppo ha solo invitato gli Stati a ridurre la dipendenza da petrolio e carbone. E così gli Stati, che sono prigionieri dei poteri economico-finanziari, continuano nella loro folle corsa verso il disastro. Per questo il Referendum contro le trivellazioni diventa un potente grimaldello in mano al popolo per forzare il governo Renzi ad abbandonare l’uso dei combustibili fossili a favore delle energie rinnovabili.
Trovo incredibile che il governo Renzi non solo non abbia obbedito a quanto deciso nel vertice di Parigi, ma che non abbia ancora calendarizzato la discussione parlamentare per sottoscrivere gli impegni di Parigi entro il 22 aprile. In quel giorno infatti le nazioni che hanno firmato l’Accordo di Parigi si ritroveranno a New York per rilanciare lo sforzo mondiale per salvare il Pianeta. Sarebbe grave se mancasse l’Italia.
Per questo mi appello alla Conferenza Episcopale Italiana perché, proprio sulla spinta di Laudato Si’, inviti le comunità cristiane ad informarsi su questi temi vitali per il futuro dell’uomo e del Pianeta, e votare quindi di conseguenza.
Mi appello a tutti i sacerdoti perché nelle omelie domenicali spieghino ai fedeli la drammatica crisi ecologica che ci attende se continueremo a usare petrolio e carbone.
Mi appello alle grandi associazioni cattoliche (ACLI, Agesci, Azione Cattolica…) a mobilitare i propri aderenti perché si impegnino per la promozione del SI’ al Referendum.
“Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti….Gli atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione, anche fra i credenti, vanno dalla negazione del problema all’indifferenza, alla rassegnazione comoda o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche. Abbiamo bisogno di nuova solidarietà universale. Come hanno detto i vescovi del Sudafrica” I talenti e il coinvolgimento di tutti sono necessari per riparare il danno causato dagli umani sulla creazione di Dio.”
Diamoci da fare tutti/e, credenti e non, per arrivare al Referendum con una valanga di SI’ per salvarci con il Pianeta.
IL QUESITO sul quale bisogna votare SI è il seguente:
«Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?»
. Questo è il testo del quesito, promosso da 9 regioni (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise), che rappresentano anche il comitato ufficiale per il SI.
Se manca l'acqua non si mangerà. I guasti che abbiamo compiuto ai ritmi della natura sono tali che oggi possiamo solo imparare ad adattarci. Un'analisi realistica, ma non consideriamola consolatoria. La Repubblica, 1 febbraio 2016
MANCA l’acqua» è ancora più inquietante di «manca il cibo ». Perché la prima frase determina la seconda. Nell’ultimo paio di decenni non sono mancati i segnali del riscaldamento globale, e non erano solo quelli che possiamo percepire contando le alluvioni o misurando i danni. Cambiano - più rapidamente del normale - i nostri paesaggi agrari, si spostano verso nord i limiti delle coltivazioni cosiddette mediterranee, mentre verso sud si combatte sempre di più e sempre più duramente con la desertificazione e l’erosione dei suoli.
Un amico e agricoltore tedesco disse tempo fa in un incontro pubblico: «Noi contadini non siamo parte del passato, ci occupiamo quasi esclusivamente di futuro. Pensiamo al futuro perché abbiamo bisogno di pianificare e perché la maggior parte di quel che facciamo acquista senso e valore anche molto tempo dopo che l’abbiamo fatto. Seminare significa occuparsi di futuro. Arare significa occuparsi di futuro».
Il 2016 non ha ancora potuto collezionare tanti meriti, ma sicuramente ne ha uno: questo inverno così mite, che segue un’estate già tanto asciutta, ci sta facendo pensare al riscaldamento globale molto più di quanto ci abbiamo pensato finora. Perché sta mancando l’acqua, e se manca l’acqua ci manca il futuro. Gli agricoltori devono decidere adesso cosa seminare e quanto far rendere i loro terreni. Senza un qualche livello di prevedibilità sull’acqua, questo non possono più farlo. Possono provare, a loro rischio e pericolo. Ma se il rischio d’impresa, in un’azienda agricola, è già di per sé più alto che nelle altre, in un’epoca di stravolgimenti climatici diventa intollerabile.
L’agricoltura massiva degli ultimi decenni ha provato a credere che industrializzando i processi di produzione, con l’aiuto della chimica di sintesi, fosse quasi possibile azzerare questi rischi pur in presenza di quanto di più rischioso la natura possa immaginare: l’uniformità delle monocolture. Come se riproponendo in campagna i modelli della fabbrica si potesse davvero creare un ambiente isolato dal “qui ed ora”, simile a quello delle fabbriche.
Ma l’agricoltura dialoga con la natura, e in natura solo la diversificazione protegge dal rischio. Questo lo sanno bene e lo praticano le agricolture tradizionali, che hanno sempre visto nella variabilità delle produzioni l’unica forma possibile di assicurazione contro l’imprevisto.
Oggi, allo sgomento che prende tutti noi - produttori e consumatori - davanti all’impossibilità di fare previsioni consolanti, e alla chiara percezione di vivere un momento climaticamente delicatissimo e pericoloso, possiamo reagire solo prendendo atto che l’arma di cui abbiamo bisogno si chiama adattabilità. La nostra agricoltura deve rendersi leggera, adattabile e pronta a trovare soluzioni puntuali a problemi globali. La sola via di buonsenso che abbiamo - se vogliamo sopravvivere fisicamente ed economicamente - è quella di ripensare, subito, il nostro modo di produrre, rendendolo amico e non antagonista dei suoli, dei microorganismi, dell’acqua, dell’aria. Quando capita un guaio occorre fare tre cose e bisogna farle in un ordine ben preciso: innanzitutto rimediare ai danni, poi chiedersi come è successo, e quindi adoperarsi perché non succeda di nuovo. Le emergenze che ci attendono nei prossimi mesi verranno fronteggiate, ma bisogna anche ragionare su quanta parte abbiamo avuto nel causarle e su come cambiare il modo in cui ci comportiamo.
I cambiamenti climatici sono in corso: bisogna essere sufficientemente adattabili per adeguarsi ad essi, ma anche sufficientemente intelligenti da non continuare a peggiorare le cose.
Intervista di Antonio Cianciullo allo storico del clima Pascal Acot. «Il fatto che intere regioni siano state sconvolte da una modifica violenta del ciclo idrico, cioè da una lunga stagione arida o da una moltiplicazione delle alluvioni, ha creato sommovimenti sociali profondi che stanno avendo conseguenze di lungo periodo». La Repubblica, 16 gennaio 2016 (m.p.r.)
«Non direi che una minaccia è più forte dell’altra. Io vedo una perfetta integrazione tra i due problemi: il cambiamento climatico rafforza il terrorismo e il terrorismo rafforza il cambiamento climatico. Serve una risposta capace di agire su entrambi i fronti». Pascal Acot, storico del clima, commenta le conclusioni del Global Risks Report, stilato da esperti e leader del World Economic Forum, da Parigi, città che nell’arco di un mese è stata vittima del terrorismo e regista del nuovo accordo sul clima.
Anche Obama ha sottolineato il nesso tra la lunga siccità che ha devastato la Siria tra il 2006 e il 2011 e la destabilizzazione del Paese che ha portato alla guerra civile.
«Quello è stato un caso da manuale, ma l’azione del cambiamento climatico è molto più larga, molto più continuativa. Il fatto che intere regioni siano state sconvolte da una modifica violenta del ciclo idrico, cioè da una lunga stagione arida o da una moltiplicazione delle alluvioni, ha creato sommovimenti sociali profondi che stanno avendo conseguenze di lungo periodo. E non dobbiamo dimenticarci che il processo del global warming è destinato ad aggravarsi: una prospettiva molto allarmante».
Il terrorismo rallenta gli sforzi per combattere il cambiamento climatico?
«Certo, perché esaspera le tensioni anziché diminuirle. Il fatto che l’attacco terroristico del 13 novembre abbia rischiato di far saltare la conferenza sul clima è emblematico. E non è un episodio isolato. L’intera azione di Daesh, il sedicente stato islamico, è mirata a scavare fossati là dove bisognerebbe costruire ponti. Per ricreare coesione sociale e per rallentare il cambiamento climatico servono invece azioni ambientali virtuose da organizzare su entrambi i lati del Mediterraneo».
Qual è il suo giudizio sull’azione svolta finora dai paesi europei?
«Pessimo. Finora hanno avuto la meglio logiche legate agli interessi nazionali o di schieramento, come lo sconsiderato attacco a chi combatte Daesh sul terreno. La stessa Francia ha combinato disastri diplomatici e militari sia in Siria che in Libia. Bisogna passare dalla logica dei bombardamenti a quella degli interventi capaci di risolvere i problemi».
Non è facile con la situazione che si è creata in Medio Oriente.
«Proprio l’aver separato i problemi ambientali da quelli politici ha aggravato la crisi. Ora non dobbiamo ripetere lo stesso errore cercando di curare la malattia che abbiamo contribuito a creare».