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Comunicazione al convegno :“Il tramonto dell’Occidente”, Cagliari 9/10/11 novembre 2012

Il legame tra “tutela del paesaggio” e “progetto della decrescita” può essere molto stretto (intuitivo, persino banale) nella sua accezione fisica: il paesaggio lo si difende innanzitutto facendo un uso rispettoso e accorto del suolo, programmando un “minor consumo del territorio” - come recita anche il Codice dei beni culturali e come si prefigge il nuovo DDL Monti-Catania. La decrescita, dal canto suo, è anzitutto la diminuzione dell’impronta ecologica delle attività antropiche. Tra paesaggio ed ecologia ci sono legami ancora più profondi e fecondi. Infatti, la nozione di paesaggio ci aiuta a capire che:
1. natura e cultura sono inseparabili (sfidando qualche secolo di cultura illuministica, di ibris tecnoscientifica e di delirio di onnipotenza della tecno-economia) (Marchetti);
2. i “beni comuni”, quelli necessari ad un vivere dignitoso, sono correlati e concatenati (sfidando le separatezze dei saperi specialistici e delle discipline accademiche codificate) (Piero Bevilacqua);
3. i processi di cambiamento hanno bisogno anche di una presa di “coscienza di luogo” (oltre che di classe, di genere, di generazione…) soggettiva e collettiva (sfidando due secoli di appartenenze politiche a “una dimensione”) (Magnaghi).

Il paesaggio: dove tutto si tiene

Per capire la nozione di paesaggio prendo a prestito la famosa metafora di John Ruskin (“Il paesaggio è il volto amato della patria”), aggiornandola così: il paesaggio è il volto di una comunità ecologica, l’immagine di un sistema vivente in cui tutte le componenti antropiche e naturali, presenti e passate, sono poste in relazione (compreso l’osservatore, che ne fa parte integrante). Come scrive Tiziana Banini: il paesaggio è “l’espressione visibile dell’interazione unica e irrepetibile tra uomo e ambiente” (Banini).

In un paesaggio c’è quindi qualcosa che va oltre la somma delle sue singole, complesse, infinite componenti fisiche e storiche; c’è “un di più” inconoscibile con i soli strumenti di indagine analitico-descrittivi di tipo “scientifico”.

Il paesaggio non è un “ammasso di frammenti” (Consonni), non è fatto solo di “tutte le cose che vi si radunano”, ma anche “di tutte le idee con le quali vengono lette”, ordinate, vissute (Luciani). Per comprendere il senso di un paesaggio non bastano tutti gli specialisti di tutte le discipline, serve una “attitudine dialogica”. Uno sguardo d’insieme. Serve “una razionalità sensibile e una ragione cordiale”, per dirla con Leonardo Boff.

La realtà che vediamo attraverso uno sguardo paesistico va oltre la sua evidenza fisica. E’ una immagine di una località che provoca emozioni, crea legami sentimentali, evoca ricordi di esperienze. Un paesaggio può essere bello o squallido, amichevole od ostile: gradevole, rasserenante, facilitare la socievolezza, oppure al contrario può apparire inospitale, provocare disagio psicologico, insicurezza, disgusto, “turbamento, dolore, rabbia”, per usare le parole di Pasolini di fronte alle offese al comune “senso estetico” inferte dalla cementificazione attorno alle città antiche.

Il laboratorio della scuola dei territorialisti di Alberto Magnaghi sta facendo esperienze davvero straordinarie (Associazione Eco Filosofica, 2009) con la costruzione partecipata delle “mappe di comunità e paesaggio”, attraverso le quali avviene una autorappresentazione dei luoghi da parte degli abitanti.

Le persone che popolano (abitano o visitano) quel luogo sono collocate all’interno di quello stesso spazio, ne fanno parte. Sono allo stesso tempo soggetti osservatori e oggetti condizionati dal contesto.

Il paesaggio non è quindi, una “cartolina”, un “Belvedere”, un “cono visivo” (con un determinato angolo prospettico, come recitano i Piani paesaggistici regionali), ma un “paesaggio-ambiente-territorio” (Settis), un “paesaggio-luogo” (Bonesio, 2007) in cui le dimensioni fisiche, ambientali, storiche, culturali, estetiche formano un unicum inseparabile.

L’azione mentale che ci permette di vedere e riconoscere le cose che ci stanno intorno e che ci fa percepire un paesaggio come amichevole od ostile, confortevole o stressante, piacevole o alienante… è un procedimento cognitivo principalmente di tipo estetico. La realtà (per quanto complessa, articolata, sfaccettata…) ci appare a noi sempre all’inizio come un “unicum”.

Per riuscire a comprenderlo, è necessario possedere una capacità di lettura e una apertura mentale tale da riuscire ad elaborare una visione d’insieme, nella sua “totalità estetica” (Farinelli) e farci così esclamare: “che bello! Mi piace”. Oppure: “che orrore! Dio me ne scampi”.

Jane Adams (femminista, premio Nobel per la Pace, fondatrice della Hull House di Chicago) ebbe a dire che ci sono casi di “contagio emotivo unito alla socievolezza” che nascono dal nostro innato “senso estetico” e che, per esempio, “ci spingono a chiamare alla finestra tutti coloro che si trovano in casa quando compare una processione per la strada o un arcobaleno nel cielo”. “Le esperienze fondamentali della vita umana” in grado di suscitare sensazioni di appartenenza sono “il rapporto con la terra e la natura, il sentimento religioso, l’amore”.

Nel paesaggio c’è forse anche qualcosa che va oltre lo stesso senso estetico. Ciò che è stato chiamato il “genius loci”, l’identità profonda dei luoghi, il loro carattere speciale e singolare, il loro “temperamento” e “personalità” che riescono ad essere percepiti dalle popolazioni insediate, dalle comunità che li abitano e, persino, dai visitatori occasionali.

Vi sono “connessioni sottili che attraversano natura e paesaggi che si estendono dal sensibile al sovrasensibile” (Scroccaro, 2007). Il “genius loci” appartenente ad una dimensione simbolica, metafisica e spirituale. (Per quanto abbia sempre inevitabilmente bisogno di essere ben supportato da determinate strutture fisiche). Il paesaggio è attraversato dal “soffio della vita”.

Se vogliamo essere più prosaici, se temiamo di essere fraintesi con l’esoterico e lo spiritualismo, possiamo allora prendere le parole della splendida sentenza della Corte Costituzionale (n.378 del 2007): “L’ambiente è un bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende la tutela e la salvaguardia della qualità e degli equilibri delle sue singole componenti”.

Questi valori devono però essere percepiti e riconosciuti. “Il luogo non esiste per sé, ma solo se viene riconosciuto dalla comunità che lo popola” (Daniela Poli cit. da Luisa Bonesio in La sobrietà come stile di vita e valore identitario).

Se questo processo di riconoscimento e di identificazione (soggettivazione) con i luoghi non avviene, non si crea nemmeno quel rispetto per i territori di appartenenza, unica vera condizione di base per una loro salvaguardia, preservazione e presa in cura. Almeno che non si creda che l’opera di salvataggio del paesaggio, della natura, dei beni culturali sia una partita riservata a pochi eroici sovraintendenti statali, da una parte, contro i perfidi immobiliaristi cementificatori e speculatori, dall’altra. Il riconoscimento giuridico, costituzionale del paesaggio è destinato a rimanere lettera morta se i suoi valori non entrano nella cultura delle popolazioni insediate. I vandali sono in casa nostra, scriveva Antonio Cederna (“Vandali in casa”). I vandali siamo noi.

Scrive Scroccaro: “L’esperienza del ‘rispetto’ è un ingrediente indispensabile di una pratica rivolta alla cura del paesaggio; correlativamente, la carenza di sensibilità paesaggistica si inscrive nella più generale incapacità di praticare il rispetto nei confronti del mondo naturale e culturale. A questo proposito, prendiamo a prestito da Hillman (James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali, 2002 p.55-56) l’espressione ‘ottundimento psichico’ per indicare l’anestesia disorientante che predomina attualmente” (Scroccaro, p.139). La dissoluzione dei luoghi procede di apri apsso con la “spoliazione del corpo” (Toesca), con la “morte del prossimo” (Luigi Zoia), con la perdita della soggettività individuale e delle relazioni affettive ed etiche con gli altri.

La perdita della capacità di riconoscere l’identità dei luoghi (l’indifferenza) non è diversa dall’incapacità di riconoscere se stessi come individui sociali. La distruzione dei luoghi non è un incidente, un eccesso di voracità di qualcuno, ma un obiettivo intrinseco del sistema economico dominate: recidere le relazioni tra l’individuo, l’ambiente, gli altri da se. Costringendo l’individuo nella sola dimensione produttiva/consumistica. Spaesamento, sradicamento sono effetti coerenti di una logica di dominio volta ad annichilire l’individuo. Così il territorio, spogliato dal paesaggio, sterilizzati i “genī loci”, diventa strumento neutro del potere economico, liberamente cartografabile, per esercitare il “terrere” sui sudditi, tracciare confini ed erigere enclousers dentro cui segregare i propri sudditi.

Scrive Magnaghi che la “coscienza di luogo” è la “capacità di riacquisizione dello sguardo sul luogo come valore, ricchezza, relazione potenziale tra individuo, società locale e produzione di ricchezza. Un percorso da individuale a collettivo in cui l’elemento caratterizzante è la ricostruzione di elementi di comunità in forme aperte, relazionali, solidali”.

La mia tesi, quindi, è che i veri progressisti, la sinistra sociale autentica, non debbano temere di rivendicare per tutti (ricchi e poveri, acculturati o selvaggi…) il diritto di coltivare ed esercitare il senso artistico, di partecipare al godimento estetico (contemplativo), di curare il proprio benessere culturale e spirituale e di pretendere la bellezza: cioè un ordine delle cose armonioso, equilibrato, confortevole, realizzante, socializzante.

Spesso si teme di chiedere troppo. Si dice che la pancia viene prima della mente e la mente prima del cuore. Ed è un errore e una trappola fatale. (Edgar Morin non smette di ricordarcelo: siamo animali al 100% razionali e al 100% sentimentali). E’ proprio questo errore che il paradigma del paesaggio ci insegna a non commettere. Ogni scissione e gerarchizzazione dei bisogni, rompe l’interezza della natura umana e fa degli individui dei pezzi subalterni di un ingranaggio fuori dal loro controllo.

Produttori in fabbrica, consumatori al supermercato, abitanti-residenti a casa, turisti amanti del paesaggio in vacanza, cittadini alle elezioni… La vita si segmenta e perdiamo il suo senso.

“Reclamiamo il progresso della bellezza delle città e dei paesaggi, il progresso della purezza delle falde freatiche che forniscono l’acqua potabile, della trasparenza dei corsi d’acqua e della salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell’aria che respiriamo, del sapore degli alimenti (…) La diminuzione della pressione eccessiva del modo di funzionamento occidentale sulla biosfera è una esigenza di buon senso e nello stesso tempo una condizione di giustizia sociale” (Latouche).

Acqua, vento, sole, prima di essere turbine, pale eoliche, pannelli solari, sono fragranza, profumi, luce.

Il paesaggio oggi

Ogni paese ha il paesaggio che si merita (Settis).

Non ci sono discordanze sul giudizio da dare sui processi di “megalopolizzazione” in corso, che sono stati variamente definiti:, “enlarged city”, “campagna urbanizzata” (Giacomo Becattini), “urban sprawl” (Salzano), città diffusa, infinita, espansa, dilatata, sparpagliata…“Metroregione policentrica in rete” (Ernst Bloch, in: M.Davis), “Sistema urbano polinucleare” (Aldo Bonomi)…

I guasti prodotti da questo “non-modello” di urbanizzazione (“losangelizzazione”) sono stati straordinariamente descritti da Eugenio Turri, lungo la autostrada “A4”: “Una sterminata periferia senza forma e senza sentimento” (p.24), “un’ampia poltiglia”. “Dallo spazio – dalla quota dei satelliti - ciò che risulta oggi (…) è anzitutto (…) una macchia che sembra simile ad un fenomeno cancrenoso, ad una escrescenza, una muffa, ciò che fa pensare alla antropizzazione come a qualche cosa di innaturale, ad una degradazione della biosfera” (Turri, p.46).

“La colata” di cemento sommerge ogni spazio libero. “Il saccheggio” procede. Il paesaggio sparisce: “Il capannone è il tipico edificio che più si ripete, il leit motiv. Solo piccolissimi varchi tra un edificio e l’altro permettono di gettare uno sguardo oltre la muraglia di capannoni” (Vallerani e Varotto).

E’ possibile invertire la rotta?

Ci dobbiamo chiedere perché tutto ciò è potuto accadere? Di cosa dobbiamo veramente indignarci?

La mia tesi è che non sia solo per colpa degli “eccessi speculativi”, del peso della rendita fondiaria (sempre denunciato da Salzano). Della sola attività immobiliare e della cricca dei costruttori (vedi le varie inchieste sui “sacchi” e sulle “colate”). Della sola corruzione politica. Dell’insipienza e incultura tecnica (Vezio De Lucia). Della sfortunata storia politica del nostro Paese: dalla Dc a Craxi a Berlusconi. Della Costituzione tradita (Settis). C’è anche dell’altro. Ancora più profondo, strutturale, grave e più difficile da contrastare ed eliminare.

La distruzione del paesaggio è la inevitabile conseguenza della preminenza dell’interesse economico su ogni altro valore, del dogma della crescita economica che ha soppiantato ogni altra visione del mondo. Dobbiamo sapere che è la stessa logica che travolge ogni campo del vivere umano: nel lavoro, deumanizzato, alienato; nella ricerca scientifica, finalizzata alla produzione di brevetti; nel “territorio”, ridotto a supporto inerte (“factum brutum”) (Settis) per ogni iniziativa capace di produrre valori monetari. I sindaci più bravi sono quelli che riescono ad attrarre maggiori “investimenti esteri”, le amministrazioni premiate sono quelle che offrono più opportunità insediative. Da qui una gestione del suolo che ha assecondato qualunque iniziativa economica e un sistema normativo che ha lasciato la massima libertà di scelte localizzative.

C’è un filo rosso che lega ciò che avviene nei luoghi di lavoro (lavorare sempre di più in di meno), nei luoghi di studio e di ricerca (finalizzare gli insegnamenti e i piani di ricerca alla loro immediata utilizzabilità nei cicli produttivi), nei luoghi di vita (spezzare ogni rapporto dei nuclei familiari tra loro e con la campagna, la natura). E’ al logica della massimizzazione dei rendimenti economici. E’ il mito della efficienza fine a sé stessa. Della crescita per la crescita.

L’azione della difesa del paesaggio si inserisce, quindi, perfettamente nel quadro più generale (socio-economico e finanche antropologico e culturale) delineato dal progetto della decrescita: decrescere la dipendenza della società dalla logica del mercato capitalistico.

La difesa del paesaggio può costituire una molla concreta per attivare dei passi lungo la via della decrescita. Pensare alla tutela del paesaggio come un principale obiettivo/motore attivatore della decrescita.

Ma per fare diventare il paesaggio un punto di forza delle ragioni della decrescita è necessario sviluppare alcuni passaggi logici.
Innanzitutto mettersi d’accordo (non solo tra noi – troppo facile! – ma nel “comune buon senso”) su cos’è il paesaggio. Poi includere “questo” paesaggio (“i beni paesaggistici” del Codice dei beni culturali e non solo) tra i beni comuni da rivendicare e da sottrarre alle leggi del mercato. (Persino la Biennale di Venezia si è sentita in dovere di titolare l’edizione di Architettura di quest’anno: “Commonground”). Infine decidere di “prenderlo in cura” (governarlo e gestirlo) in forme e modalità efficienti e condivise. Serve cambiare mentalità, atteggiamenti, regole, codici di funzionamento sociale.

Le esperienze pilote, le pratiche virtuose, i casi di gestione condivisa del bene comune territorio, villaggio, condominio, “città di città”… sono molti (Cacciari). Credo che per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, della bellezza dei paesaggi, della equità sociale e del “buon vivere”, si possa partire da qui. Il ventaglio delle azioni possibili è davvero ampio: si va dall’appello del progettista edile Tommaso Gamaleri che ha lanciato la campagna per l’obiezione di coscienza contro gli incarichi professionali di progetti di edifici su terreni non edificati, alle amministrazioni comunali che modificano i piani regolatori a “Zero consumo di suolo”. Dalla campagna “Salviamo il paesaggio”, alle “Transition town” (autosufficienza energetica). Dalla rete delle “Slow city” (Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, ne era il promotore in Italia), ai “Contratti di fiume”. Dal movimento per gli orti urbani collettivi, agli ecomusei, al turismo sostenibile e alla ospitalità diffusa. Dai Parchi agricoli multifunzionali legati alle Reti dell’altra economia e ai Gruppi di acquisto solidali, al movimento per la difesa degli usi civici. Dal cohousing, agli ecovillaggi, ai condomini solidali. Dai piani di bacino idrogeologici, alle bioregioni. Dagli innumerevoli movimenti di cittadinanza attiva, di cui i NoTav della Val di Susa sono un emblema, al laboratorio urbano della Scuola dei territorialisti che ci insegna come è possibile attivare processi di riappropriazione dei luoghi rigenerando relazioni e identità territoriali.

La città (urbs e civica, assieme) decrescente è tutto questo. Un grande movimento dal basso per sottrarre paesaggio-ambiente-territorio-luoghi alla logica economica del mercato.

Venezia, 12 novembre 2012.

Note bibliografiche

Banini Tiziana, Il cerchio e la linea, Aracne, 2011.
Bevilacqua Piero, A che serve la storia? Donzelli, 2011.
Bonesio Luisa, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, 2007.
Bonesio Luisa, La sobrietà come stile di vita e valore identitario in: Angelo Marino (a cura di) Tutela e valorizzazione del territorio come patrimonio culturale e identitario”, AEF Treviso 2009.
Cacciari Paolo (a cura di), Viaggio nell’Italia dei beni comuni, Marotta e Cafiero, Napoli, 2012.
Consonni Giancarlo, Il viandante e lo scienziato. La città tra ordo e oikos, in “La terra vista dalla luna”, n.1, 66-71, 1995.
Davis M., Città morte, 2005.
Luciani Domenico, Ragioni e azioni per il buongoverno dei luoghi, in Angelo Marino (a cura di) Tutela e valorizzazione del territorio, AEF Treviso, marzo 2009.
Farinelli Franco, L’invenzione della Terra, Sellerio, 2007.
Latouche Serge, Altri mondi, altre menti, altrimenti. Oikonomia vernacolare e società conviviale. Rubettino, 2004.
Marchetti Laura, Il paesaggio dei valori comuni, in: Paolo Cacciari (a cura di), La società dei beni comuni, Ediesse, 2010.
Magnaghi Alberto, Oltre la globalizzazione, verso una municipalità allargata e solidale, in: Tutela e valorizzazione del territorio, AEF Treviso, marzo 2009.
Angelo Marino (a cura di) Tutela e valorizzazione del territorio come patrimonio culturale e identitario, AEF, Treviso, Marzo 2009.
Mattei Ugo, La nozione del comune, in: Paolo Cacciari (a cura di) La società dei beni comuni, Ediesse 2010.
Scroccaro Paolo, Sobrietà come stile di vita, in: Tutela e valorizzazione del territorio, AEF Treviso, marzo 2009.
Settis Salvatore, Paesaggio Costituzione cemento. La lunga battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, 2011.
Salzano Edoardo, L’habitat dell’uomo bene comune, in: Paolo Cacciari (a cura di) La società dei beni comuni, Ediesse 2010.
Toesca Pietro M. Il paesaggio impossibile, ovvero il mondo perduto, in Eupolis, n.35/2005.
Eugenio Turri, La megalopoli padana, Marsilio 2000.
Vallerani e Varotto, Il grigio oltre la siepe. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto. Nuova dimensione, 2005.

Nella New York colpita dall’uragano Sandy si sovrappongono la crisi climatica e le contraddizioni di quella dell’energia, evidenziando problemi e forse prospettando soluzioni. Il manifesto, 3 novembre 2012 (f.b.)
NEW YORKHotdog, 6 dollari; 6 ravioli ripieni, 6.50; una fetta di pizza, 3 dollari; caffè, 1 dollaro; ma il riso al curry gratis e i fiammiferi, da sempre gratis, 10 centesimi.Questo il menu oggi pomeriggio nell'East village mentre camminiamo verso Alphabet City, la parte del quartiere più colpita dall'uragano Sandy, per andare a trovare i nostri amici. Non rispondono e siamo preoccupate. Ma nessuno risponde, tuttavia, se il telefono è un cellulare, le torri di controllo sono quasi tutte giù. Siamo arrivate da Brooklyn, abbiamo attraversato il ponte di Manhattan in autobus, una novità per noi che prenderemmo la metro per arrivare sull'isola ma il tunnel sotto l'acqua è inagibile, il treno si ferma nell'ultima stazione di Brooklyn. Le corse sono gratis, i cancelli sono aperti, nel microfono i conducenti continuano a ripetere le nuove, inusuali fermate. A Manhattan ci fermiamo sulla Bowery, appena passata Chinatown, e proseguiamo a piedi. Prima di prendere il treno abbiamo ritirato i soldi da un bancomat e io una tazza di caffè e un panzarotto agli spinaci dal giamaicano, perché sapevamo che dove stavamo andando la città era spenta.«Preparati» mi ha consigliato Stefania che c'era stata ieri. E infatti, una volta entrate sull'isola i cellulari smettono di funzionare. E la città è vuota, chiusa, spenta.Una pizza a 3 dollari non è proprio costosissima, ragioniamo ora, sedute nella pizzeria sulla Prima Avenue tra la Seconda e la Terza Strada. A luci spente, un solo forno in funzione, attivato dal gruppo elettrogeno.

Ma un hotdog a 6 dollari su Saint Mark's Place, nonostante sul menu ci sia scritto 2 dollari e 75. Ma questo è niente, scopriamo da fonti sicure che sciacalli in possesso di generatori chiedono mille dollari per l'uso dei loro macchinari per poter pompare l'acqua fuori dei seminterrati dei poveri disgraziati in preda alla disperazione.Eppure, all'angolo tra la decima strada e la Prima Avenue, al ristorante Sapporo, il gentiluomo giapponese dinanzi alla porta invita i passanti ad entrare per un piatto caldo di riso al curry. Gratis.«Riso al curry, accomodatevi, prego». E da fonti altrettanto sicure sappiamo di uomini e donne di buona volontà che vanno in giro per l'East Village con i loro generatori mettendoli a disposizione per i disperati con l'acqua alle ginocchia per pompare l'acqua fuori dei loro seminterrati. Tra gli altri, i gestori del NuBlu.Incoraggiate, proseguiamo. L'East Village è surreale, irriconoscibile nel silenzio e nell'immobilità.

East Village, l'altra Mela

Questo quartiere è conosciuto per il suo estremo dinamismo, la sua peculiare creatività, la sua gente spesso sui generis, e quel brulichio incessante ma senza fretta e senza stress, così tipico di ogni altro quartiere di Manhattan e così alieno in quest'area della città, domicilio da sempre della classe popolare tedesca, ebrea, ispanica, e poi, negli ultimi cinquant'anni, degli artisti. Incontriamo il bassista Melvin Gibbs in bicicletta. Anche lui è arrivato da Brooklyn, alla ricerca di amici latitanti. Scambiamo quattro parole, ci suggerisce di andarci a consolarci al MoRUS, il Museum of Reclaimed Urban Space, così svoltiamo l'angolo sull'Avenue C e la Decima. Il museo è al piano terra di un palazzo occupato da squatters. E di fronte si presenta effettivamente una scena interessante. Due biciclette adoperate da volontari sono collegate una ad un generatore di corrente che ricarica cellulari e computer e un'altra ad uno che pompa acqua dal seminterrato del palazzo e la riversa per la strada. Quest'ultima fa un po' fatica. È lo stesso progetto di Time's Up Bike Energy, formato dai giovani ingegneri dell'energia sostenibile che usarono le biciclette per sostituire i generatori a gas e gestire l'infrastruttura energetica durante Occupy Wall Street a Zuccotti Park l'anno scorso, per tenere in funzione computer, cellulari, cucine, stufe, luci, eccetera.

Il 17 novembre prossimo il Museo avrebbe aperto le sue porte al pubblico e le biciclette in azione sarebbero state parte dell'esposizione. «Il museo non aprirà per un po' di tempo ancora, i danni sono estesi. Siamo nella Zona A, una delle più disastrate, l'acqua è arrivata oltre i due metri, qui» mi spiega Laurie Mittelmann, una delle direttrici del museo. È seduta a terra, vicina ad un furgone di una stazione televisiva locale. Ha il computer acceso, attaccato alle prese alimentate dal generatore attivato dalla bicicletta. «Sei in rete?»«Sì, finalmente dopo due giorni» mi risponde, «prendo il segnale dalla stazione televisiva».Sul marciapiede di fronte al museo, gli squatters del palazzo cucinano su di un grill e mettono a disposizione del quartiere il cibo, gratis. Una lunga fila si forma in attesa delle salsicce, degli hot dog, degli spiedini di verdura e del riso. «Lo faccia sapere a chi può che noi continueremo a cucinare per tutti finché avremo cibo, e a caricare i cellulari e i computer di tutti, pedalando.
Questo quartiere si è sempre distinto per la responsabilità civile dei suoi abitanti e per il suo senso di comunità» mi dice Laurie prima di tornare allo schermo.Non si può dire che non sia vero. Ne sono testimoni i numerosi giardini recuperati dai lotti vacanti che gli abitanti del quartiere hanno coltivato negli anni, o una sorta di spirito indomito che contraddistingue quest'area della città da altre più cangianti, meno permanenti.

Nelle case senza acqua e luce

Non è facile arrivare a casa di ognuno degli amici che cerchiamo. I citofoni non funzionano e bisogna urlare dalla strada come si faceva una volta. Se i loro appartamenti sono situati nel retro delle piccole palazzine che contraddistinguono la graziosa architettura dell'East Village c'è poco da fare, bisogna aspettare che qualcuno sulla strada apra il portone con le chiavi e salire brancolando nel buio pesto delle scale bussando alla porta con il pugno, sperando siano in casa. Questo perché ci siamo scordate le pile tascabili a casa. A casa dei nostri ospiti, tè, offerta di condivisione del cibo portato dai vicini che prontamente rifiutiamo perché siamo i fortunati che torneranno a casa nella città "buona" stasera, e per riscaldarci acqua a bollire sul fornello e per illuminare una visita al bagno, una coroncina di luci a batteria. Mentre siamo seduti bussano alla porta, un'amica del nostro ospite viene a chiedere una coperta per un amico comune. Il nostro amico si alza e ne prende una molto calda. «Gliela regalo».

L'amica esce con l'involto sotto il braccio.Il nostro amico continua a riempirci le tazze di tè.Ci congediamo, invitiamo i nostri ospiti a raggiungerci a Brooklyn, spieghiamo come fare, dove prendere gli autobus che attraversano il ponte. «Non c'è bisogno di chiamare, la mia casa è la tua, ti aspetto». Camminando vediamo tante persone camminare con valigie. In un bar completamente vuoto ci fermiamo a parlare con il barman. «La gente se ne va, non si può vivere senza elettricità». Sul bancone quattro candele accese si riflettono nello specchio dietro la scansia piena di bottiglie. Non c'è musica dagli altoparlanti, dalla radio. La colonna sonora di questi giorni sono i passi per strada, il ronzio dei generatori, i canti della gente agli angoli della strada, le chitarre e i tamburi, le grida di chi si chiama da una finestra all'altra:«Come ti chiami?». «Jane». "Quanti anni hai?» «70». «Stai bene?». «Sì». «Io sono Mark. Grida se hai bisogno, che vengo». «Okay».Sarà stato così ai vecchi tempi, quando New York non ne aveva di elettricità, quando il mondo non ne aveva.
Ma di bar, questa parte della città ne era fornito come l'intero mondo. Per consolarsi della fatica dell'essere vivi. Non sono d'accordo con lui, si potrebbe in fondo vivere senza elettricità. È invece col freddo che non si può convivere. E a New York il freddo e l'umido possono essere feroci.

Dov'è il governo?

Perché la situazione infine è questa, da Canal Street alla 31esima strada: una città spenta, senza risorse, e lasciata per lo più a se stessa. Dov'è la Fema? Dov'è la Croce Rossa? E tranne che per le chiese, per le organizzazioni private, per i generosi uomini e donne che si alternano a pirati e sciacalli, dov'è il governo? Per raggiungere la luce, il cibo e il calore bisogna camminare chilometri e se si è malati, vecchi, obesi è impossibile. Ma rimane il fatto che procacciarsi il cibo rimane solo uno dei problemi da risolvere ogni giorno. Ritornare a stomaco pieno in una casa fredda a New York non è pensabile.Quanto può durare questa situazione? A un tratto Stefania, la fotografa che mi accompagna, e io ci rendiamo conto che si farà presto buio. Vogliamo arrivare alla Avenue D, la più vicina al fiume East, e ci avviamo. Ed ecco il mostro, all'altezza della dodicesima strada, la centrale elettrica che è scoppiata la sera di lunedì alle 8.30 dopo che la Con Edison aveva già tagliato l'elettricità a ben 6500 utenti nel tentativo di ridurre i danni causati dall'acqua salata al sistema della metropolitana e alla rete elettrica al sud del quartiere finanziario della città.

Le sue quattro colonne spente sembrano delle livide corna. Eppure è proprio a ridosso della centrale che in un grandissimo posteggio di automobili decine di volontari insieme a militari e poliziotti scaricano da camion dell'arma scatole di cibo che organizzano su lunghissimi tavoli. Potenti fari illuminano l'area protetta da poliziotti. Stefania si avvicina con la sua macchina fotografica e immediatamente un poliziotto grasso ma dall'aria ingenua, le si para di fronte per vietarle di fotografare.«Perché?» chiede Stefania, «finora ci è stato detto che eravate latitanti. E ora che siete qui non vi fate fotografare?»Il poliziotto sembra rabbonirsi.«Va bene, allora fotografi pure».Un soldato ci spiega che la Fema e una chiesa, ma non saprebbe dirci quale, hanno organizzato gli aiuti e che l'esercito è lì per consegnare i viveri. Saranno qui anche domani e nei giorni successivi.

«Ma allora l'elettricità non tornerà?» chiedo.«Indipendentemente. Noi saremo qui».Sulla via del ritorno incontriamo il musicista blues Francesco Pini e Wendi Oxenhorn, direttrice della Jazz Foundation. Sono stanchi e ci spiegano che stano girando per la città spenta alla ricerca di musicisti blues e jazz per recapitargli dei sacchetti di pronto soccorso: pollo fritto, verdura, mutandoni di lana, guanti, un gallone d'acqua, torcia elettrica.«Erano contenti, tutti. Molti sono vecchi o malati, altri semplicemente bloccati qui da giorni, come tutti. Non pensavano che qualcuno si ricordasse di loro. Abbiamo gridato il loro nome dalla strada e ci hanno aperto».
«Avete trovato tutti?»«Più o meno, solo James Blood Ulmer non c'era, sarà uscito».Ho abbracciato Wendy, delicata fata, sebbene sia poi una delle più feroci armoniciste d'America. Me la ricordo ancora suonare insieme al sommo Pete Cosey con Melvin Gibbs e J.T. Lewis, sollevare gli spiriti dei morti che erano seduti lì in prima fila, più di una volta, anni fa. E si faticava a star fermi e a mantenere gli occhi asciutti. Anche stasera, di fronte a tanta determinazione.Bene, è ora di tornare a casa.

Ritorno a Brooklyn

Non facile, nel buio pesto. Ed è in questo rientro fino al Bowery dove ci aspetta l'autobus per tornare a Brooklyn che ragioniamo che la situazione è esplosiva. Per la prima volta dopo tantissimi anni, la mia città adorata, e in essa il mio quartiere preferito, che ho amato tanto fino a celebrarlo in un mio romanzo, mi dà i brividi. Finora hanno prevalso il buon senso e la responsabilità civile dei miei concittadini. Ma se, aumentando il freddo e facendosi amaro il disagio dovesse montare la rabbia, chi può dire cosa accadrà? Manderanno allora centinaia di poliziotti? Quegli stessi che non persero un istante a riversare nelle strade per proteggere la cittadinanza l'anno scorso da un gruppo di giovani in un parchetto di pochi metri quadri a piazza Zuccotti nel mezzo del quartiere finanziario? Stamattina la benzina scarseggia. La maggior parte delle stazioni di benzina a New York sono chiuse. Il maggiore distributore della città, che si trova in New Jersey, è al buio.

Sebbene la città sia divisa a metà e a nord della trentesima strada Manhattan sembra essersi ripresa, almeno in superficie, è tutto difficile. Raggiungerci l'un l'altro un'odissea. Harlem, il Queens e il Bronx diventano Itaca per noi qui a Brooklyn. E noi per loro.Brooklyn. Nel quartiere di Red Hook alle 7.30 si è formata una lunghissima fila di persone in attesa del camion della Fema1, che aveva promesso di arrivare con un camion pieno di viveri e prodotti di pronto soccorso. Dopo ore di attesa nel freddo, alcuni dei residenti in fila che sono riusciti a ricevere il segnale avvalendosi della connessione wi-fi di un furgone parcheggiato poco lontano hanno ricevuto messaggi via testo in cui si annunciava l'arrivo dei camion nel pomeriggio.Mi sono ricordata di una donna ieri, in bicicletta, che commentava l'inettitudine della città di New York: «Certo una cosa così non sarebbe mai accaduta in Europa, vero? O in Australia! Queste cose succedono solo in un paese incivile come il nostro».

Ho aggrottato le sopracciglia. Vaglielo a spiegare. Queens. A Breezy Point, il quartiere nella penisola di Rockaway che si affaccia sull'oceano atlantico, ad un passo dall'aeroporto Kennedy, dove 111 case sono bruciate come fiammiferi in fila, mentre i pompieri remavano nell'acqua su piccole imbarcazioni, per arrivare alle case in fiamme e tiravano fuori ad uno ad uno i superstiti dall'inferno d'acqua e fuoco che si divorava in un batter d'occhio un'intera strada, la distruzione è totale. Anche lì, i volontari sono quasi eroici. Con camion, macchine, motociclette, individui arrivano da ogni parte della città portando alla gente del luogo quello che serve, in attesa che torni la luce. Forse ha ragione il barista su Avenue C, è impossibile vivere senza elettricità.

Obama surclassa Romney

Io penso che questa tempesta, catastrofica, orrenda ed essenzialmente fuori stagione, ha fatto tanto bene alla campagna di Obama. Intanto lui si è comportato da vero politico gentiluomo. Ha abbandonato di botto la campagna elettorale dedicandosi a noi. Nel New Jersey ha preso tanto a cuore l'orrenda situazione della bella costa distrutta da Sandy - che onestamente, come ha scritto su Facebook ieri il grande intellettuale e musicista Greg Tate, merita di chiamarsi Sandra e lasciarsi indietro il vezzeggiativo infantile che le è stato tanto incautamente dato, da guadagnarsi le lodi del governatore repubblicano Chris Christie, che ha naturalmente appoggiato Romney durante tutta la campagna elettorale. In un'intervista su Fox News, il canale televisivo più reazionario di New York, Christie ha rilevato quanto straordinaria fosse stata l'attenzione del Presidente degli Stati Uniti e immediato ogni intervento e ogni risposta alle richieste dello Stato del New Jersey.

Infine - e qui ha scioccato tutti - quando uno dei cronisti ha suggerito se non fosse il caso di invitare anche Romney a fare un giro delle zone devastate dall'uragano, il governatore ha risposto con un tono piuttosto seccato: «A me non me ne importa un fico secco delle elezioni in questo momento e se lei pensa altrimenti, non mi conosce» e ha aggiunto che il suo compito era quello di occuparsi del suo Stato, che era in uno stato d'emergenza.Che piacere, ogni tanto, risentire un po' dei toni graffianti del vecchio John Wayne incrinare l'ipocrisia nella nuova America patinata. Sarà l'assenza di elettricità. Ironia a parte, New York è in ginocchio. E non soltanto la parte al freddo e al buio. Tutta, anche quella calda e illuminata al centro di Brooklyn, in cui scrivo al computer, ascoltando Jimi Hendrix e Thelonious Monk e mandando questo reportage via e-mail. È un solo cielo livido che la copre tutta, come un ombrello. E come un ombrello, su di essa si apre e si richiude.

Città Giardino - i Tre Magneti

Slow cities: a tutti gli effetti un movimento nel solco delle utopie urbane, è adeguato alle esigenze attuali di sostenibilità? Il manifesto, 1 novembre 2012 (f.b.)
A Novellara il raduno delle slow cities. Requisiti: non avere più di 25 mila abitanti, essere ricche di piazze, teatri, caffè, paesaggi originari. E gente che riconosce la lentezza del vivere
Comunità. L'essere umano al centro. Andare verso il basso. Ricominciare dal basso. Fiducia - nell'altro e in se stessi. Connettersi all'interno di una società frammentaria. Questi sono solo alcuni dei concetti chiave sentiti in quasi tutti gli interventi teorici - e non - nel corso dell'edizione 2012 di Uguali_Diversi, festival delle culture inventato nel 2009 dal sindaco di Novellara, Raul Daoli, assieme a un gruppo di intellettuali e studiosi per fronteggiare i tanti problemi emersi in una zona con un tasso di immigrazione altissimo, e soprattutto con tante etnie diverse da tutto il mondo. A cominciare dagli indiani arrivati dal Punjab per allevare le mucche che producono il latte per le tonnellate di parmigiano-reggiano, dai marocchini attivi soprattutto nel settore edile, i cinesi nella ristorazione, gli albanesi, i pakistani, i russi, ecc.

io. tu. noi. Ecco il motto breve di quest'anno per un tema di ampia portata: Comunità. Come? Argomento che si affianca perfettamente alla quinta assemblea generale delle città slow svoltasi in contemporanea dal 19 al 22 ottobre con centinaia di partecipanti giunti dalle oltre centocinquanta città sparse nei cinque continenti che ormai aderiscono a questa rete di piccole città riunite sotto il concetto che aveva dato vita all'ormai famosissimo Slow food di Carlo Petrini. Mentre questo si potrebbe paragonare a un brand, e di fatto è un'associazione privata con soci privati, qui ci sono enti pubblici a mettersi insieme nel loro ruolo di rappresentanti delle varie comunità, le città.
I requisiti per avere il «marchio»
Novellara è membro dal 2010, e come per miracolo è stata soltanto sfiorata dal terremoto di maggio che aveva devastato l'intera zona attorno a Reggio Emilia, Mantova e Ferrara in un raggio di settanta chilometri. Fu il terremoto a far rinviare la data di questa due giorni straordinaria che per Raul Daoli era «l'assemblea di una Onu dal basso», avendo portato tanti sindaci dal mondo intero a studiare assieme strategie del "buon vivere". Questo è lo slogan della rete internazionale delle cittadine che per farne parte non devono superare i 25 mila abitanti e devono superare un rigoroso test per quanto riguarda i requisiti necessari: «Siamo alla ricerca di città, in cui vivono persone curiose del tempo ritrovato, città ricche di piazze, teatri, caffè, ristoranti, luoghi animati, paesaggi originari, artigianato, in cui le persone riconoscono la lentezza del vivere, il ritmo salutare della stagioni, la bontà dei prodotti e la spontaneità delle usanze, nonché sanno gustare i sapori e rispettare la salute...» La prima città slow era nata in Italia nel 1999 per volere dell'ex sindaco illuminato di Greve in Chianti, Paolo Saturnini, a cui si sono da subito uniti quelli di Orvieto, Positano e Bra per fondare la rete con sede nella stessa Orvieto (vedi cittaslow.org).
Significativa e simbolica in questo senso è stata la grande cena di sabato 20 ottobre, anche primo giorno di questo festival che nel suo essere dedicato alle culture di fatto parla di politica nel senso originario della sua radice greca polis - la comunità, appunto. Nell'enorme salone Giovanni Paolo II, ex magazzino della Motori Slanzi di oltre 500 mq. ristrutturato cinque anni fa e di proprietà della parrocchia, dotato di tutte le autorizzazioni necessarie, sono state servite otto portate con piatti originari di altrettanti paesi per oltre quattrocento persone provenienti da tutto il mondo. Piatti tipici preparati dalle donne, lavorando (e quindi parlando e ridendo) assieme per ore e ore in cucina sotto la sapiente guida di Eletta, donna delle terre emiliane artefice del progetto interculturale Nessuno escluso per avvicinare le persone grazie alle arti culinarie (sarà un caso che questa donna di oltre sessant'anni, energica, ama anche ricamare, fare composizione floreali all'insegna di "colori e sapori"?).
Abbiamo imparato così che l'insalata russa in Russia si chiama Salade Olivier, dal cuoco francese che l'aveva adattata ai freddi siberiani utilizzando le verdure trovate a Mosca nell'Ottocento avendo lavorato nelle cucine del museo L'Hermitage, o che il cous-cous si usa fare con sette o anche meno verdure. Che tanti progetti nascono intorno a un tavolo si sa, e qui di progetti ne sono nati di sicuro tanti, visto che il sindaco della tedesca Waldkirch ha parlato agli altri seduti vicino del riscaldamento a pellet sperimentato con successo nel suo comune, mentre altri si preparavano ad accogliere nell'assemblea plenaria di domenica mattina la candidatura di Kesennuma, città tra le più colpite dallo tsunami nel marzo 2011 in Giappone. Come tutte le altre, il suo sindaco aveva fatto richiesta, ci spiega Pier Giorgio Olivetti (direttore di Cittaslow Int'l), per avviare la ricostruzione coi principi di città slow e alimentare così un profilo alto sul piano culturale, scientifico, nella difesa del suolo, della memoria e della resilienza (termine che deriva dalle scienze biologiche e vuol dire «svilupparsi senza alienare il proprio patrimonio territoriale», quindi no! a cementificazione eccessiva, distruzione dei piccoli negozi, alle vecchie e nuove povertà, e sì! a etica nel lavoro, coesione sociale, nuove alleanze tra le generazioni - al benessere tout court).
Gita a Mirandola
Di ricostruzione si parla molto anche in Emilia. Domenica mattina siamo andati in macchina da Novellara a Mirandola, la città con cui Raul Daoli ha da subito stretto «un patto di amicizia e ricostruzione culturale» per sostenere questa città tanto sfregiata (il teatro, benché intero, è chiuso da maggio perché la sala, il palco e i camerini sono inagibili). Sin da subito Caterina Della Casa, assessore alla cultura di Mirandola, è stata coinvolta nel calendario del festival, per cui nella tensostruttura eretta in Piazza Costituzione si sono svolti ben due interventi dedicati alla comunità: di quella ferita ha parlato Maurizio Campa, giornalista e saggista, di quella che risorge ha cantato Moni Ovadia. Dico cantato perché le sue parole si erano alzate come canti poetici, pieni di rabbia e di speranza, nel cielo grigio fino a far disperdere le nuvole e far uscire il sole. Tetra fu l'atmosfera quando arrivammo passando per i paesini di Cavezzo e Concordia, entrambi distrutti, dove nell'ultimo è stata tolta da poco la tendopoli (in cui erano ospitate soprattutto famiglie di origini non italiane e povere) e il cui cimitero distrutto avvolto dalle nebbie assumeva un'aria ancor più desolante. Entrando a Mirandola s'incontra per prima l'edicola, in un container, poi la banca, in un container, la farmacia, in un camper, i bar nelle casette di legno: fuori le stesse file di persone che ci sarebbero state anche in condizioni cosiddette normali.
La desolazione regna nel centro storico, appena girato l'angolo della grande piazza, le stradine transennate, le case abbandonate, le tende tirate, un silenzio tombale in cui fanno eco i propri passi, mentre lo sguardo cerca appigli tra le tante finestre e porte sorrette da impalcature di legno. La facciata della Chiesa di San Francesco è impacchettata, con strutture di legno e tubi innocenti, con una croce in cima che si staglia minacciosa e speranzosa contro il bianco-grigio del cielo, mentre quello nero in ghisa, caduto dal Duomo, crollato, è sdraiato sul cumulo di mattoni per terra, accanto al capitello intatto, sul piazzale davanti. Passa qualche persona, ognuna racconta il proprio vissuto di quell'istante in cui le fondamenta hanno tremato, non solo quelle delle case ma anche quelle di tante vite che da allora sono cambiate. Profondamente. Lì, in mezzo alle strade transennate, ai tanti edifici crollati, alle case ferite, si percepisce un'aria di morte, il brioso tempo di vita congelato in un attimo. Fermo. Dietro la chiesa sorge l'ex convento che oggi ospita il liceo-ginnasio intitolato a Pico della Mirandola, una realtà scolastica che conferisce onore e identità a questa cittadina scossa fino a metà luglio (e tuttora, ci dicono) da ondulazioni benché minime tra il grado 2 e 2.8 della scala Richter.
Si è tanto parlato di efficienza e ricchezza di queste zone, molto più veloci nella ricostruzione rispetto a L'Acquila. Si può fare un confronto tra una zona colpita in larghezza (il cratere misura oltre settanta chilometri con tanti piccoli centri) e una città colpita nella profondità dei suoi tesori artistici? Il benessere diffuso nell'Emilia ha senza dubbio contribuito a contenere più o meno il danno laddove c'erano edifici ristrutturati da poco, pubblici e privati; la buona amministrazione pubblica ha sicuramente contribuito a mettere da subito in moto le azioni in rete, così come gli esercizi di prevenzione hanno dato i loro frutti. Prove di evacuazione per sisma e incendio si fanno tre volte all'anno in tutte le scuole, e gli insegnanti ci confermano che proprio lì ci sono stati meno problemi nella fase acuta. La capacità organizzativa in una società in cui molte imprese e aziende sono strutturate in cooperative lascia intravedere dove sono stati spesi i soldi: nelle strade, nelle fognature, nelle reti elettriche e del gas. Ci dicono che la luce non era quasi mai mancata. Molti problemi sono emersi dopo. Quel dopo che crea le maggiori difficoltà: dalle molte crepe nelle case alla cristallizzazione della paura. I cosiddetti "campi della paura", ad esempio, c'erano fino alla fine di giugno nei parchi: piccole tendopoli autogestite in cui ogni famiglia aveva eretto la propria tenda per dormirci e mangiarci, dopo il lavoro.
Quanta materia di studio per sociologi e psicologi, se solo si fossero affacciati! Veri e propri laboratori di convivenza socio-culturale: le grandi tavolate delle famiglie napoletane o i cartoni apparecchiati da marocchini e pakistani. I bisogni delle persone si esprimevano nelle abitudini della quotidianità, riprodotte fedelmente in una dimensione sociale importante. Se la piazza principale e le piazzette sono transennate si perdono spazi importanti di aggregazione: basta ricrearli altrove. Non è facile, dato che nelle piccole città il fulcro della vita sociale è pur sempre il centro, l'uscita dalla chiesa, dal teatro, dalla scuola. E qui, paradossalmente, si avvia una riflessione positiva per esempio nel campo della politica economica, per cui i piccoli negozi che "prima" erano a rischio chiusura per via dei tanti megastore sorti nelle periferie, ora nel "dopo" vengono sostenuti nella riapertura nei centri.
Dopo il terremoto
In questa direzione andavano gli interventi di Maurizio Ciampa e di Moni Ovadia: benché l'istante in cui la terra trema dura poco, la ponderazione sopraggiunge dopo. E la terra trema anche a livello simbolico, ha precisato Ciampa citando testi storici che parlano di terremoti storici per consigliare a insegnanti come accompagnare i giovani nell'elaborazione di questo trauma. Il terremoto mette in discussione la vita, fa perdere i presupposti per ogni cosa, è l'irrazionale per eccellenza, l'assoluto imponderabile. Ti sorprende, sempre, e un male irriducibile non permette di fare esperienza. Ciampa riflette anche sul fatto che ai tempi del terremoto di Lisbona, nel 1655, i pensatori si erano sentiti chiamati a rispondere all'enigma sorto, a quello nel Giappone invece era seguito il "silenzio del pensiero". Come mai? Forse per l'eccessiva presenza di tecnica che richiede risposte tecniche e non di senso, dato che la tecnica non sa riflettere su se stessa? Chi non si era meravigliato dei tanti servizi visti in televisione sulla popolazione giapponese addestrata nel tener testa alle difficoltà del dopo?
Zygmunt Bauman e Marx
La tecnologia avanzata serve per la previsione e per la prevenzione, ma nel caso di un terremoto non è in grado né di prevedere né di prevenire: il terremoto è imprevedibile. Per cui ci scuote, dentro e fuori. Prova ne è che a detta di un'insegnante sono stati i bulletti ad andar giù di testa per primi, essendo in fondo di costituzione fragile, dentro, ed è stato grazie a Marco Maggi e Alberto Genziana, rispettivamente di Cuneo e di Piacenza, che gli stessi insegnanti sono stati formati per poter narrare e far narrare l'imponderabile incapsulato nelle anime travolte da ciò che l'essere umano non (si) sa spiegare. A cosa fare riferimento? Attorno a cosa farsi coesi? Come rinsaldare le relazioni nel piccolo e nel grande per affrontare i conflitti che nascono nelle e dalle ferite personali e pubbliche? «Si può solo ripartire dalla comunità, con la consapevolezza che l'essere umano è collocato in una natura che lo può sopraffare, sempre», suggerisce anche Moni Ovadia. Per coltivare le relazioni umane contro i poteri forti, avendo l'essere umano il diritto alla dignità e al proprio valore. A prescindere, da tutto ciò che oggi ci codifica o vuole codificarci attraverso l'economia, il lavoro, il denaro. E qui torniamo a ciò che abbiamo sentito dire da Zygmunt Bauman nel suo intervento in video Comunitas.
Bisogno di comunità, attorno al concetto marxiano di "classe in sé" e "classe per sé" nonché di Gemeinschaft vs Gesellschaft (in italiano: comunità vs società). Entrambi i concetti erano stati ripresi da Salvatore Natoli chiamandole «comunità di appartenenza» e «comunità di elezione».
Nel giardino e nelle sale della Rocca dei Gonzaga, sede del comune di Novellara e dell'intera manifestazione, c'erano anche vari laboratori: dai cittadini pensanti alla biblioteca vivente, fino a Mi gioco la città. Inventiamo e costruiamo la nostra città ideale, per i bambini. Calza a pennello la frase tratta da Servabo di Luigi Pintor, citata da Brunetto Salvarini nella presentazione del nuovo libro di Gabriella Caramore, Nessuno ha mai visto dio, che si è svolta alla Casa della carità: «Non c'è in una intera vita nulla di più importante che chinarsi, affinché un altro cingendoti il collo possa rialzarsi».
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