«Tre ministeri (Beni culturali, Ambiente, Agricoltura) legiferano pestandosi i piedi tra loro, per non dir poi delle Regioni e dei Comuni, che ignorano spesso le norme statali». il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2017 (p.d.)
Ma la molteplicità e contraddizione di sistemi normativi oggi vigenti si spinge anche oltre. Di fatto, il territorio nazionale è governato da quattro insiemi di leggi separati e incoerenti fra loro, che riguardano il paesaggio e il territorio urbanizzato, ma anche l’ambiente e i suoli agricoli, moltiplicando in tal modo l’Italia per quattro. Tre ministeri (Beni culturali, Ambiente, Agricoltura) legiferano pestandosi i piedi tra loro, per non dir poi delle Regioni e dei Comuni, che ignorano spesso le norme statali, né si coordinano tra loro se confinanti. Contrasti che allargano le zone grigie, seminando speculazione edilizia e abusivismi, terreno di coltura dei periodici condoni.
Rimediare a questa gigantesca stortura richiede competenza e intelligenza politica, agendo sull’ordinamento ma anche sulla Costituzione, con un intervento limitato e mirato, e non riforme “a raffica” stile Renzi-Boschi. Un buon punto di partenza sarebbe la proposta di Massimo Severo Giannini (anni Settanta) di introdurre forme di controllo pubblico delle aree fabbricabili. Si può fare, scorporando il diritto di proprietà, che resta intatto, dal diritto di edificazione, e assoggettando quest’ultimo a un rigoroso sistema pubblico di controllo, basato su parametri verificabili. Basterebbe, ad esempio, commisurare le ipotesi di crescita urbana a previsioni di crescita demografica certificate dall’Istat per troncare alla radice una gran parte della cementificazione del territorio (molti Comuni truccano impunemente le statistiche). Altri criteri: la presenza e la frequenza di edifici abbandonati, invenduti o inutilizzati, e di aree de-industrializzate da destinare a uso collettivo; o ancora il tasso di edilizia condonata. Infine, un radicale riesame dei “piani-casa” regionali e degli stessi condoni alla luce della Costituzione (vedi il Fatto Quotidiano del 13 agosto), ma anche di una corretta gestione del rischio sismico e idrogeologico.
Città e paesaggi sono la principale ricchezza d’Italia. Sono il sangue e l’anima della nostra memoria storica e culturale, l’eredità che abbiamo ricevuto e che dobbiamo consegnare alle generazioni future. Lo slogan straccione “padroni in casa propria”, che Renzi ha copiato da Berlusconi, guida un degrado civile che privilegia il miope profitto privato sull’interesse pubblico e sulla legalità. È lecito a un cittadino sperare che la prossima legislatura, chiunque ci governi, segni una svolta? Sono ancora attuali le parole di Aldo Moro (1964): “Dobbiamo por fine alla sostanziale sopraffazione dell’interesse privato sulle esigenze della comunità, all’irrazionalità e alla disumanità degli sviluppi delle nostre città, con la conseguenza di una diffusa e crescente distorsione del vivere civile”. Per rispondere a questa responsabilità storica troppo a lungo disattesa, agire sull’ordinamento è necessario e urgente.
Il comune pagherà le spese per il tram collegherà il centro al nuovo store di Eataly (Fico). Ennesimo esempio della subalternità della pianificazione urbanistica all'interesse privato. Un passetto in più dalla contrattazione al vassallaggio. il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2017 (p.d.)
«Intervista realizzata il 29 giugno a Bologna, dove Harvey era presente per la Summer School "Sovereignty and Social Movements"organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theories». connessioniprecarie, 14 luglio 2017 (c.m.c)
Cominciamo dalle origini della tua elaborazione, che parte da Cambridge ‒ dove non ti muovevi all’interno di un approccio marxiano – e a fine anni Sessanta muove sulla sponda opposta dell’Atlantico, a Baltimora. Qui hai modo di osservare la scaturigine o l’affermarsi di un plesso di processi che negli anni a venire e sino a oggi formano i principali vettori di analisi dell’urbano. Baltimora è infatti piuttosto emblematica per quanto riguarda i processi di razzializzazione inscritti nella geografia urbana e le forme di conflitto che a essi si accompagnano, come nei riot dei Sessanta «riapparsi» nel 2015 dopo la morte di Freddie Gray; è una tipica città duramente segnata dalla post-industrializzazione; caso emblematico di gentrification del centro cittadino col rifacimento del porto; nonché esempio iconico di sprawl urbano nella cosiddetta BA-WA, la metropoli diffusa che lega Baltimora a Washington. Sono questi elementi che ti conducono a concentrarti sulla «città» quale lente analitica privilegiata, tanto da arrivare anni dopo a dichiarare che «il mio obiettivo è la comprensione dei processi urbani sotto il capitalismo»?
come mai decidi di dedicarti allo studio di Marx e di usarlo assieme alla città quali framework della tua analisi? C’entra forse l’analisi di Henri Lefebvre?
«Sono andato a Baltimora un po’ perché ero interessato alle lotte sociali che erano in corso nelle zone urbane degli Stati Uniti nel corso degli anni Sessanta, mentre era in pieno svolgimento quella che veniva definita come Urban Crisis. Quella era davvero una crisi, o volendo una serie integrata di crisi, che toccava l’urbano così come i soggetti dimenticati e marginalizzati, la questione razziale… Quindi sono partito con l’idea di curvare il mio lavoro verso la ricerca urbana.
«Quando sono arrivato stavano succedendo anche molte altre cose: il movimento conto la guerra, il movimento per i diritti civili… Erano tempi duri per la storia americana, ed era impossibile non rimanere coinvolti in quel contesto. E io rimasi profondamente coinvolto in quanto stava avvenendo a Baltimora, in particolare nel 1968 dopo l’assassinio di Martin Luther King, quando gran parte della città venne data alle fiamme, venne in pratica cacciato il governo civile dalla città e ci fu un’occupazione militare della città.
Ci fu davvero un’insurrezione della popolazione, non solo a Baltimora ma anche a Los Angeles, Detroit, Chicago, dappertutto. Ho dunque cominciato a sviluppare dei progetti di ricerca per l’università per comprendere le condizioni che avevano portato a questa eruzione. Mi confrontai col problema di come scrivere di quei fenomeni in un modo che avesse un qualche senso, accorgendomi che la maggior parte dei discorsi proposti dalle scienze sociali di fatto non funzionava, parlando sia degli studi sociologici, sia di quelli economici o psicologici.
«Quindi andai alla ricerca di altri framework interpretativi, e assieme ad alcuni studenti decidemmo di leggere Marx per vedere se poteva avere una qualche utilità. Quindi cominciai a leggerlo, scrivendo dei testi sulla questione abitativa della città, adoperando alcuni suoi concetti come quelli di "valore d’uso" e "valore di scambio", e mi accorsi che le categorie che si possono prendere da Marx potevano essere davvero utili per spiegare la situazione. Fu davvero interessante che, iniziando a scrivere numerosi rapporti di ricerca con un linguaggio marxista e presentandoli a banchieri, persone della finanza o delle istituzioni, tutti mi dicevano che erano lavori eccellenti (perché non sapevano che venivano da Marx!).
«Fu lì che capii definitivamente che Marx aveva ragione e dunque proseguii in quella direzione, facendo lentamente emergere il progetto dello sviluppo di un approccio marxista all’urbanizzazione, cosa per nulla comune al tempo se non per qualche sociologo francese come Henri Lefebvre, ma io a quel tempo non l’avevo ancora letto. Conoscevo Manuel Castells e lo incontrai nel 1967, cosa che mi aiutò a conoscere ciò che stava accadendo in Francia a quel tempo. Tutto ciò mi ha portato alla pubblicazione del mio primo libro, Social Justice and the City, che è diviso tra una parte formulata in termini liberali e una marxista. […] Baltimora era una città industriale quando arrivai lì e la classe operaia bianca impiegata nei motori, nell’acciaio, nella costruzione di navi era molto sindacalizzata e stava piuttosto bene, potendosi permettere la casa nei suburb e uno stile di vita piuttosto privilegiato.
«Questa suburbanizzazione era intrecciata a una politica reazionaria legata a doppio filo a una dimensione razzista, implicata in ciò che stava accadendo nel centro città – che veniva letto sostanzialmente come un’insorgenza razziale. In parte ovviamente lo era, ma più che altro quel fenomeno indicava una divisione all’interno della working class tra pezzi di classe operaia bianca privilegiata e tutto il resto, che veniva lasciato davvero molto indietro».
Hai fatto accenno a Castells, e mi pare interessante il fatto che tra voi due ci sia una sorta di parallelismo, anche se segnato da nette e molteplici divergenze. Il primo tuo libro di cui parlavi segue di un anno La questione urbana di Castells (1972). Nel 1989 escono due vostri testi ‒ The Urban Experience (Harvey) e The Informational City (Castells) – mentre più di recente avete affrontato entrambi il tema dei «movimenti urbani» con Rebel Cities (Harvey, 2010) e Networks of Outrage and Hope (Castells, 2012). Avresti voglia di spendere qualche parola rispetto a convergenze e differenze tra il tuo approccio e quello di Castells?
«In qualche modo dovresti chiederlo più a lui che a me, perché io ero molto vicino a lui durante gli anni Settanta, ma con The City and the Grassroots (1983) egli iniziava a ritenere che i movimenti urbani non fossero movimenti di classe, abbandonando quindi la prospettiva marxista. Io invece non vedevo il motivo di tale abbandono, e non ho mai capito cosa lo portò a tale cambio di direzione. Probabilmente ha a che fare col lavoro politico che stava facendo con il Partito Socialista, che aveva il suo istituto di ricerca col quale collaborava, e lavorare all’interno del filone socialdemocratico avrà sicuramente influito sul condurlo verso modelli interpretativi socialdemocratici.
«È un passaggio che ha coinvolto molti comunisti spagnoli, come ad esempio Jordi Borja. Più tardi, ai tempi degli scritti sulla città informazionale, Castells rientra in qualche misura all’interno di una posizione marxista, di quelle che ritengono che sono le forze produttive a guidare la storia. Ma questa non è la mia posizione, e credo che nemmeno Marx abbia mai assunto questa postura teorica. Ritengo dunque che Castells abbia avuto un’interpretazione di Marx piuttosto limitata, relativa appunto alle sole forze produttive e molto legata a quello che si potrebbe definire come il dogma dei Partiti comunisti europei (penso a quello francese, a quello spagnolo, a quello italiano ecc…). Lui è sempre stato molto coinvolto in quei mondi. Io ho invece sempre pensato che ciò che accade nella produzione debba costantemente essere messo in parallelo con l’analisi di classe e con le dinamiche della riproduzione.
«E da questo punto di vista ritengo che l’urbano sia il quadro all’interno del quale questi vettori possono essere meglio interpretati congiuntamente. Ho sempre interpretato Marx in questa direzione: c’è una politica della produzione, e c’è una politica per la realizzazione del valore, che avviene nelle città. E il processo complessivo è importante tanto quanto il momento produttivo. Diciamo che cerco di tenere assieme quella che potremmo definire come la "totalità" marxiana, mentre la posizione di Castells è molto più ristretta, esclusivamente produttivista […] e in questa direzione si capisce come si possa arrivare ad abbandonare Marx. […] Ciò non vuol dire che alcuni concetti di Castells non siano comunque molto rilevanti».
A partire dagli anni Ottanta vieni definendo uno dei temi che contraddistingueranno la tua ricerca, ossia l’analisi critica del neoliberalismo. Potresti mettere questo tema in relazione alle mutazioni dello Stato nel suo rapporto con la città? Quali sono le implicazioni del trasformarsi di questa relazione?
«Quando lo Stato ha iniziato a ritirarsi dalla fornitura di servizi sociali, il progressivo declino del welfare state, si sono aperte una serie di questioni rispetto a chi e come si dovesse sviluppare la distribuzione dei servizi sociali. E uno dei modi coi quali lo Stato si è relazionato a tale problema è stato quello di ributtare tutte queste funzioni addosso ai governi delle città dicendo: "non è un mio problema, risolvetevela voi". E chiaramente a quel punto non è che lo Stato ha inviato maggiori risorse alle città, nonostante queste stessero affrontando un numero crescente di problematiche come il social housing, l’aumento delle povertà ecc… Le municipalità vennero abbandonate, dovendo cominciare a trovare le risorse in maniera autonoma.
«È quello che ho definito come il passaggio da una forma manageriale del governo locale a una governance urbana di tipo imprenditoriale. A quel punto il tema dello sviluppo urbano è divenuto centrale, con un peso sempre più rilevante acquisito dai developer, di fatto gli unici soggetti a garantire un gettito fiscale per il bilancio delle città per poter affrontare i problemi sociali. Purtroppo ciò ha prodotto uno spostamento netto delle risorse, che sono andate sempre meno a coprire i costi necessari per il sociale e sempre più a sussidiare le corporation, proprio mentre i fondi statali diminuivano. E nessuno si oppose a ciò. Qualcuno disse che si poteva costruire una città in cui i bisogni sociali sarebbero stati affrontati col gettito proveniente dallo sviluppo urbano.
«Ad esempio Bloomberg a New York diceva che solo le industrie che versavano contributi alla città sarebbero potute rimanere in città. Ma il retro-pensiero di tutto ciò è che la stessa regola sarebbe dovuta valere anche per le persone… E quel modello si è realizzato, come abbiamo da poco visto rispetto a quel terribile incendio che c’è stato a Londra alla Greenfell Tower. È stato l’emblema di come un municipio ricco tratta e considera i poveri, di come di fatto ci si occupi di disfarsi di loro non preoccupandosi del tema della sicurezza abitativa. È questo il tipo di gestione che si è sviluppato nella città imprenditoriale, un modello contro i poveri che si è diffuso nella maggior parte dell’Europa occidentale e del Nord America».
Colleghiamoci a quest’ultimo tema per porre una domanda sui movimenti sociali, in particolare in relazione alla loro possibilità di incidere su queste dinamiche, dunque rispetto a un nodo che per molti anni è stato rimosso, ossia quello della relazione tra movimenti e la questione del potere. Nello specifico, negli ultimi anni si stanno confrontando diverse esperienze ed elaborazioni teoriche. Giusto per menzionarne alcune, si potrebbe citare una posizione che guarda all’"assemblea" quale forma specifica dei movimenti sociali (penso ai recenti scritti di Judith Butler o a Negri e Hardt), ci si potrebbe riferire a un’esperienza come il Rojava, dove una forma-partito piuttosto tradizionale si è misurata con una dimensione inedita (riassumibile a livello teorico nell’incontro della riflessione di Abdullah Öcalan con le idee municipaliste di Murray Bookchin), passando infine per una spinta a riconsiderare il ruolo dello Stato (soprattutto, ma non solo, all’interno del cosiddetto "populismo di sinistra"). Ti chiederei dunque qualche riflessione in proposito, legandola magari al discorso di prima sullo Stato.
«Io sono stato molto d’accordo con quanto diceva ieri sera Sandro [Mezzadra, all’evento "Critical Dialogue" che ha visto un confronto tra i due, nel contesto della Summer School bolognese "Sovereignty and Social Movements"], ossia che lo Stato ha un ruolo davvero importante in qualsiasi tipo di trasformazione radicale dell’ordine sociale. Ossia non dobbiamo essere Stato-fobici, con ciò intendendo che non vogliamo avere nulla a che fare con lo Stato. Allo stesso tempo, se si assume una postura Stato-centrica ci si allontana dalla possibilità di realizzare effettivamente una trasformazione radicale.
«L’unica possibilità è che si costituiscano una serie di poteri al di fuori dello Stato, che siano però in grado di intrattenere una relazione forte con esso. Ma appunto, senza questo "fuori" dallo Stato, non ci sono possibilità. È quanto abbiamo visto ad esempio con l’esperienza di Syriza e il suo progressivo identificarsi col potere dello Stato, che ha prodotto un drastico esaurirsi dei poteri dal basso. Anche in Spagna credo che Podemos sia in qualche modo di fronte allo stesso dilemma, non che siano nella stessa posizione di Syriza, ma potrebbero arrivarci. Io penso ci siano grandissime potenzialità in questa relazione: lo sviluppo di movimenti sociali indipendenti dall’apparato politico e come questi possono interagire sullo Stato.
«Un’organizzazione politica davvero forte non può che svilupparsi assemblando differenti strutture e molteplici livelli, cosa che in qualche misura si sta determinando in Rojava, nel nord della Siria. In questo senso credo sia necessario trovare un bilanciamento rispetto a questo continuo timore di rapportarsi allo Stato, proprio nel momento in cui gli Stati sono sempre più dominati dal potere finanziario che lavora di continuo contro i movimenti sociali».
Proprio rispetto a questo, tu in passato hai adottato la formula del "Partito di Wall Street" per indicare come lo Stato fosse sempre più colonizzato dalla finanza. Non è un rischio, o una potenziale contraddizione, guardare allo Stato proprio in questo contesto?
Bisogna considerare che il Partito di Wall Street è stato recentemente sfidato dal movimento che si è prodotto attorno alla candidatura di Bernie Sanders, anche se probabilmente da quando lui ha deciso di accettare la politica corrente l’emergenza che si era prodotta attorno alla sua figura è in qualche modo rientrata. Ma il punto è che bisogna chiedersi il perché il Partito di Wall Street controlla il Congresso, di fatto comprandoselo. Poi ci sono chiaramente altri livelli dove le cose possono andare in modo differente.
I municipi possono essere luoghi per una possibile rivalsa di una politica di sinistra, e ciò sta accadendo a Seattle, Los Angeles, e in molte altre città. Anche a livello amministrativo ci sono molti governi urbano estremamente più radicali delle stesse forme a livello nazionale. A questo livello Wall Street non ha lo stesso tipo di presa, anche se ovviamente esistono altri tipi di poteri che contrastano questa possibilità. Penso in primo luogo ai developer e alle loro lobby, in generale al mondo delle costruzioni (anche i sindacati dei costruttori in fondo hanno posizioni pro-development).
È dunque in corso una battaglia in molte città. Per esempio a New York c’è un sindaco molto di sinistra, ma di fatto non è in grado di contenere il potere delle lobby del real estate (che qui sono davvero forti, più che da ogni altra parte), anche perché bisogna considerare che l’attuale piano di sviluppo urbano è stato per lo più disegnato dal precedente sindaco Bloomberg, con una forma tutta protesa verso la speculazione. Quindi c’è anche un problema di tempo, per cui anche una posizione molto di sinistra come quella di De Blasio fatica a incidere per davvero.
Facendo un salto nel discorso per arrivare alle ultime due domande, potresti sviluppare una riflessione rispetto alla proliferazione di teorie che negli ultimi decenni sempre più stanno mettendo in relazione la città e il globale. Dalla rete di città-mondo di Allen J. Scott alla nota città globale di Saskia Sassen, passando per la più recente concettualizzazione sull’urbanizzazione planetaria proposta da Neil Brenner e Christian Schmid, fino ad arrivare alla relazione tra urbano e antropocene sulla quale riflettono Ash Amin e Nigel Thrift in Seeing Like a City o alla Connettografia basata sul ruolo geopolitico delle mega-città proposta da Parag Khanna, la relazione tra urbano e globale pare in qualche modo ormai costitutiva. Cosa ne pensi? Come interagiscono per te queste due dimensioni soprattutto in una prospettiva politica?
Penso che in effetti questa concezione di un’urbanizzazione planetaria sia un fatto indubbio. Siamo di fronte a una configurazione di poteri politici locali che possono essere giocati nei termini di una mobilitazione di massa per incidere nella politica. Credo che l’esempio più recente cui possiamo guardare rispetto a questo tema è relativo a ciò che avvenne nel 2003, il 16 febbraio, quando milioni e milioni di persone scesero in strada contro la possibilità di una guerra.
In milioni per le strade di Roma, Madrid, Londra, New York… E ovviamente senza nessun tipo di organizzazione specifica né tanto meno una sorta di grande mano invisibile cospirazionista alle loro spalle! Si trattava di una rete complessa che aveva generato un movimento globale di massa. E fenomeni del genere hanno luogo anche a livello nazionale, come accaduto in Turchia quando, dopo la sollevazione di Istanbul, moltissime altre città si sono mobilitate. O ancora in Brasile, quando dopo San Paolo in tantissime altre città le persone sono scese per strada.
Quando succedono cose simili non si può far finta di nulla, o pensare che non ci sia una qualche dinamica in atto nel profondo… Sarebbe una pura fantasia sennò. Il punto, ovviamente difficile, ma che andrebbe pensato, è cosa sarebbe successo se tutte quelle persone scese in strada nel 2003 contro la guerra fossero rimaste in strada… Cosa sarebbe successo? Cosa sarebbe successo, politicamente, se si fosse realizzato uno sciopero di massa di quello dimensioni e in tutto il mondo? Se tutte quelle persone avessero detto: "Basta, questa guerra non la farete, noi rimaniamo per strada finché non capitolerete".
Credo davvero ci sia una concreta possibilità in ciò. Al contempo non è che voglio romanticizzare, parlando troppo delle reti di città liberate o cose simili… Ma comunque su questo non bisogna sminuire. Voglio dire: l’insorgenza brasiliana è iniziata una settimana dopo quella di Gezi, e quello che mi ha colpito quando ho parlato con alcuni attivisti coinvolti in quella protesta è mi hanno detto: "Certo, stavamo guardando ciò che stava accadendo a Gezi!". Insomma, l’"effetto contagio" può davvero essere molto forte e veloce. Ora, la domanda difficile è: quale politica è possibile costruire su tutto ciò? Quale politica sta dietro a questi movimenti di sinistra? […]
Ma il punto è che, per me, in questo momento c’è un’enorme alienazione della popolazione urbana, a causa di una sempre minor democrazia, sempre minor potere, il declino della qualità della vita, l’austerità e il taglio dei servizi sociali, un mercato immobiliare divenuto totalmente pazzo, fuori dal controllo e totalmente speculativo, coi prezzi che sono schizzati a livelli ridicoli… Abbiamo tutti questi temi ai quali vanno aggiunti il declino degli investimenti nell’educazione e tanti altri fattori… E i partiti non rispondono a questi temi, i governi sono guidati dai developer e dalla finanza… Ecco, credo davvero ci sia la possibilità che accada qualcosa di molto rapido per una trasformazione urbana.
Ultima domanda. Tu sostieni che il modo nel quale organizziamo le nostre città dev’essere legato al tipo di persone che vorremmo essere e, da un punto di vista in qualche misura analogo, che dobbiamo sempre più chiederci se le città debbano essere spazi per l’investimento o luoghi per l’abitare. A me questa «scissione» riporta in mente l’antica distinzione latina tra urbs e civitas, tra la città intesa come infrastruttura fisica e la città come insieme dei cittadini, elementi che per i romani rappresentavano un campo di tensione e che invece la modernità ha progressivamente separato fino a rendere la città meramente un urbs. Si potrebbe dire che sarebbe oggi necessario riconnettere i due termini?
«Sì, penso che il punto stia esattamente qui. Sarebbe decisivo rivitalizzare l’idea di cittadinanza nei termini della città, un qualcosa che si è assolutamente perso. In qualche modo penso sia possibile ripartire dalle forme di democrazia praticate dai «movimenti delle assemblee» per recuperare quella concezione. Allo stesso tempo sarebbe necessario riuscire a esercitare una qualche forma di influenza sugli investimenti urbani e sui progetti che su di essi vengono elaborati, insistendo sulla direzione di questi investimenti: da dove vengono? A quali interessi rispondono? Stanno funzionando per migliorare l’ambiente nei quartieri e la vita delle persone? Danno una possibilità egualitaria di accesso all’educazione? Consentono una eguale distribuzione delle possibilità di vita nella città? Sono orientati all’integrazione delle popolazioni migranti all’interno della città (mentre le attuali politiche migratorie stanno attualmente distruggendo le città)?
«Invece gli urbanisti stanno per lo più producendo e riproducendo il modello della gated community, e l’isolamento di questa popolazione segregata dentro le loro mura… Ronald Regan disse a Gorbačëv ¨abbatti quel muro!", ma avrebbe dovuto dirlo ai costruttori americani dei suburb, dei veri e propri costruttori di muri. Adesso le mura sono ovunque in America, questi spazi chiusi alla città dove non c’è nessuna possibilità di sviluppare un’idea di appartenenza alla totalità della città, e dunque non si realizza nessun interesse rispetto a ciò che in essa accade, non c’è nessuna attenzione nemmeno a ciò che succede al proprio fianco.
Questo discorso rimanda a quanto scrisse in uno dei suoi ultimi articoli Henri Lefebvre, che nel 1989 in Quand la ville se perd dans la métamorphose planétaire uscito su Le Monde Diplomatique chiudeva, facendo in qualche modo il punto sulla sua intera prestazione intellettuale, dicendo: "Il diritto alla città non implica nulla di più che una concezione rivoluzionaria della cittadinanza politica".Esatto, penso ci sia ancora molto da pensare proprio partendo da lì».
«Il grande progettista si racconta alla vigilia dei novant’anni “Tutto è cambiato. Chiudo lo studio”». la Repubblica, 12 luglio 2017 (c.m.c.)
Il 10 agosto compie novant’anni, ma il motivo non è solo anagrafico.
«L’architettura non interessa più», dice persino sorridendo nel salotto della sua casa milanese – Casa Candiani, un edificio eclettico di fine Ottocento, un po’ neogotico, un po’ neorinascimentale, fra San Vittore e Santa Maria delle Grazie. Fino a qualche mese fa al pianterreno c’era la Gregotti Associati, fondata nel 1974, lavori in Italia e nel mondo, dalla Germania al Portogallo alla Cina. Ora, di là dal vetro, si scorgono scaffali vuoti e la luce spenta. «Abbiamo tre progetti ancora in piedi, ad Algeri, in Cina e poi a Livorno, dove facciamo il piano regolatore. Li cura il mio socio Augusto Cagnardi».
E niente più?
«Niente più. D’altronde compio novant’anni, ma cosa sta succedendo nel nostro mondo? Una società immobiliare decide se, con i soldi dell’Arabia Saudita, investire a Berlino, a Shanghai o a Milano, a seconda delle convenienze. Stabilisce il costo economico, compie un’analisi di mercato, fissa le destinazioni. E alla fine arriva l’architetto, a volte à la mode, al quale si chiede di confezionare l’immagine».
Lei fa questo mestiere dall’inizio degli anni Cinquanta: ne avrà visti di periodi bui. O no?
«Certo. Ma non è un caso che nella mia vita sia stato amico più di letterati, di artisti e di musicisti che di architetti. Da Emilio Tadini a Elio Vittorini, da Umberto Eco a Luciano Berio. E poi ho sempre concepito l’architettura come un prodotto collettivo: un valore che si è perso».
Dove l’ha appreso?
«Lavorando da operaio in uno stabilimento di proprietà della mia famiglia, a Novara ».
Lei si è occupato tanto di letteratura, di filosofia, di musica. Ha fatto il conservatorio. Eppure lamenta che i suoi colleghi oscillano dall’iperspecialismo alla tuttologia.
«Ma mantenere relazioni fra filosofia, letteratura e architettura non è tuttologia. I miei modelli sono il capomastro medievale e il suo sguardo d’insieme. Capii questo a Parigi, nel 1947, dove lavorai nello studio di Auguste Perret. Dovunque girassi incontravo intellettuali che incrociavano le diverse competenze. Tornato a Milano, appena le lezioni del Politecnico me lo consentivano, andavo a sentire Enzo Paci che parlava di filosofia teoretica».
Studiava architettura, ma non le bastava.
«La svolta fu nel 1951, quando partecipai a Hoddesdon al convegno dei Ciam, il Comitato internazionale per l’architettura moderna. C’erano Le Corbusier e Gropius. Si rifletteva sul rapporto con la storia e il contesto. E a chi insisteva che il contenuto del nostro futuro sarebbe stato la tecnologia, si contrapponeva la dialettica con il passato, con i luoghi in cui si realizzava un’architettura. Ciò che preesisteva non andava ignorato, anche nel caso in cui il nuovo fosse un’eccezione».
E i rapporti con gli scrittori?
«Rimasero intensi. Ho anche partecipato al gruppo 63: si ragionava su come vivere il tempo libero senza finire preda del mercato, una questione cruciale per un architetto».
Comunque sempre pochi architetti.
«Gli architetti erano divisi in due categorie. Una prediligeva la natura d’artista e considerava la letteratura o la filosofia discipline distanti. L’altra era quella dei professionisti, che interpretavano il mestiere onorevolmente, ma che non andavano al di là del dato tecnico».
Comunque sia, lei ha sostenuto che allora ci si confrontava con una società in cui prevaleva l’industria. E che oggi, invece, poco ci si rapporta con quella post industriale.
«Oggi non ci si preoccupa di rappresentare una condizione sociale collettiva. È andato smarrendosi il disegno complessivo della città, che viene progettata per pezzi incoerenti, troppo regolata da interessi».
Questo è dovuto all’irruzione del postmoderno?
«Il postmoderno è un’ideologia tramontata. Ma ha avuto effetti significativi. Si è interpretato in modo ingenuo il rapporto con la storia, non ponendosi nei suoi confronti in termini dialettici, ma adottandone lo stile. E l’involucro è stato considerato indipendente dalla funzione di un edificio. Poi il postmoderno ha incrociato il capitalismo globale».
E che cosa è successo?
«Sono saltate le differenze fra culture. Ora ovunque si distribuiscono prodotti uguali. Prevale il riferimento a un contesto globale, che diventa moda, più che a un contesto specifico. Avanzano lo spettacolo, l’esibizione, l’ossessione per la comunicazione».
Mi fa un esempio?
(Sul tavolo davanti al divano pesca una rivista, c’è la foto di un edificio che sembra accartocciato) «Guardi, questo è il centro di ricerca progettato a Las Vegas da Frank Gehry. Gehry è un mio amico, ma ha superato ogni limite nel rapporto fra contenuto e contenitore. È l’ammissione che l’architettura è sfascio».
Le piace la Nuvola di Fuksas?
«Assolutamente no».
E il Maxxi di Zaha Hadid?
«Il suo fine è la trovata, la calligrafia, senza rapporto con la funzione. Queste sono architetture popolari, d’altronde se non fossero popolari non potrebbero esistere. Contengono un messaggio pubblicitario. Anche nel Seicento le facciate barocche delle chiese lo contenevano, ma si riferiva a un universo spirituale. Qui è la moda a dettare le prescrizioni».
Lei ha realizzato il quartiere Bicocca, a Milano, e a Pujang, in Cina una città da centomila abitanti. Ha fatto il piano regolatore di Torino e il Centro culturale Belem a Lisbona. Ha collaborato con Leonardo Benevolo al Progetto Fori a Roma, mai realizzato, purtroppo. Ma le viene spesso rinfacciato il quartiere Zen a Palermo: c’è chi ne invoca la demolizione.
«Lo Zen avrebbe dovuto essere diverso da quel che è stato, una parte di città e non una periferia. Palermo ha il centro storico, le espansioni otto-novecentesche e poi doveva esserci lo Zen, con residenza, zone commerciali, teatri, impianti sportivi. Doveva possedere un’autonomia di vita che non si è realizzata».
È il problema di molte periferie pubbliche italiane. Qualche responsabilità ce l’avete voi progettisti?
«Io non sono per demolire lo Zen o Corviale. Sono per demolire il concetto di periferia, non basta il rammendo. Ci siamo illusi in quegli anni di poterlo realizzare? È vero, ci siamo illusi di costruire quartieri mescolati socialmente, dotati delle attrezzature che ne facevano, appunto, parti di città e non luoghi ai margini. Rispondevamo a un’emergenza abitativa. Ma se noi ci siamo illusi, quello che contemporaneamente si costruiva o quello è venuto dopo cos’è stato se non la coincidenza fra interessi speculativi e l’annullamento di ogni ideale progettuale? Corviale ha un’idea, che andava realizzata. Non è solo un tema d’architettura».
Lei è stato insegnante a Palermo e ad Harvard, a Venezia e a Parigi. Come guarda ai futuri architetti?
«Mi preoccupa il loro disorientamento. Vengono spinti a coltivare una pura professionalità, a saper corrispondere alle esigenze del committente, oppure ad avere una formazione figurativa stravagante e capace di essere attraente. È pericoloso l’abbandono del disegno a mano. Con il computer si è precisi, è vero, ma non si arriva all’essenza delle cose. I materiali dell’architettura non sono solo il cemento o il vetro. Sono anche i bisogni, le speranze e la conoscenza storica».
"Creare comunità" è la nuova "mission" annunciata da Facebook che sta avviando di 1500 appartamenti in una cittadina di sua proprietà. Una volta si chiamavano company town. la Repubblica, 10 luglio 2017 (p.s.) con postilla
Adesso nella Silicon Valley inizieranno presto i lavori di una nuova cittadina. Ci sarà una farmacia, un negozio di alimentari, trasporti efficienti, e 1500 appartamenti. A delimitarne i confini, forse, un cartello con stampato un pollice in su. Perché stiamo parlando di Willow Park, il primo villaggio di proprietà Facebook. A metà strada tra quartiere residenziale e luogo destinato agli uffici. La compagnia ha appena annunciato di aver presentato il piano al consiglio comunale di Menlo Park, sede dell'azienda di Mark Zuckerberg.
Una scelta necessaria, spiega in un post sul blog ufficiale del social network John Tenanes, responsabile degli immobili e delle infrastrutture di Facebook. Le ragioni sono facili da capire. Negli ultimi anni il boom delle aziende hi-tech con radici nella valle del silicio ha moltiplicato la forza lavoro presente nell'area. Con conseguente congestione del mercato immobiliare. I prezzi degli affitti sono schizzati alle stelle. E una delle città più penalizzate è stata Menlo Park. Qui, stando alle stime di una compagnia immobiliare riportate dal Guardian, la somma mensile necessaria per aggiudicarsi un appartamento con due stanze da letto è più che triplicata dal 2011 a oggi, raggiungendo quota 3,349 dollari. Una delle più alte degli Stati Uniti e considerevolmente maggiore di quella necessaria a New York.
postilla
Le "company towns" non sono certo una novità nello sviluppo del capitalismo. Nei soli Usa sono 3.500, e sono numerose in tutte le regioni del mondo. Nella piccola Italia le "città aziendali" sono le seguenti: Metanopoli, sede della ENI, fu creata da Enrico Mattei per i lavoratori dell'azienda e per i laboratori allora all'avanguardia legati allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi della Padania; Crespi d'Adda, costruita per i lavoratori del cotonificio Crespi, è entrata a far parte della Lista del Patrimonio dell'umanità dell'Unesco; così la seteria San Leucio, manifatture reali dei Borboni, sono oggi anch'esse ‘patrimonio dell'umanità dell'Unesco; la “città sociale di Valdagno" fu realizzata ai margini dell’omonima cittadina in relazione all’allargamento e alle razionalizzazione fordista dei lanifici Marzotto. Rosignano Solvay, creata dalla Solvay Group per i lavoratori dello stabilimento, fu costruita a fianco della città stessa; Zingonia, tra Milano e Brescia, fu realizzata dall’imprenditore Renzo Zinconi, in relazione al boom economico della regione. (e.s.)
Una riflessione lucida sui disastri provocati nella Città Metropolitana milanese dalla Delrio, una legge inadeguata, scaturita da obiettivi incongrui e potenzialmente dannosa. arcipelagomilano.org, 4 luglio 2017 (m.c.g.)
Come noto il Decreto Salva Italia all’inizio, e a seguire la Legge Delrio e le Finanziarie degli ultimi anni, hanno fortemente ridimensionato risorse, ruolo e capacità di azione di province e città metropolitane, fino alla situazione critica che si può constatare oggi, ampiamente descritta nei tre interventi citati.
È certo difficile governare in una situazione di così grave carenza di risorse, che è stata voluta per smantellare le strutture provinciali ancora prima di avere portato a compimento la Riforma Costituzionale, ma che è stata ciecamente applicata anche alle città metropolitane, di fatto tarpandone le ali già sul nascere, nonostante la loro istituzione sia stata sbandierata come uno degli obiettivi importanti della legge. La situazione, a parte qualche piccolo e marginale palliativo, continua paradossalmente anche dopo la bocciatura della Riforma.
È certo difficile governare quando la Regione vede la Città metropolitana come un ingombrante concorrente nel controllo del territorio. Già ai tempi della Provincia di Milano, appena si è presentata l’occasione la Regione ne aveva favorito il ridimensionamento affrettando l’istituzione della nuova Provincia di Monza e Brianza. La Città metropolitana è oggi molto più piccola del sistema metropolitano reale (2), e la Regione si oppone a ogni richiesta di allargamento che viene dai comuni confinanti, come mostra il recente caso di Vigevano (3).
È certo difficile governare quando il Sindaco di Milano – e della Città metropolitana – ha intuito i vantaggi operativi e politici del doppio incarico, che per legge gli assegna la disponibilità di un territorio molto più ampio senza dovere rispondere, nella verifica elettorale, ai cittadini dei comuni di cintura, e quindi interpreta questo secondo incarico esclusivamente come ancillare alle finalità del primo. Non è un caso che l’elezione diretta inserita nello Statuto della Città metropolitana venga posposta a data da destinarsi, il più possibile lontana nel futuro.
È certo difficile governare quando ANCI, l’associazione dei comuni, si oppone con tutto il suo peso a ogni tentativo di regolare il consumo del suolo nei piani comunali, che è uno degli argomenti sui quali le province hanno negli anni fondato la propria competenza di pianificazione del territorio. La recentissima (fine maggio) modifica alla Legge Regionale 31/2014 sul consumo di suolo permette ai comuni di attuare direttamente questa legge, autocertificando il rispetto dei generali e generici criteri del PTR (piano territoriale regionale), e allontanando molto in là nel tempo la redazione del PTM (piano territoriale metropolitano), che dovrebbe contenere regole rivolte ai comuni più dettagliate di quelle del PTR.
È certo difficile governare quando la già citata modifica di legge, invece di contenere il consumo di suolo come dichiara nel titolo, finisce in modo paradossale, ma probabilmente voluto, per accelerare l’attuazione di quanto già programmato. In che modo? Regalando un plusvalore ai fortunati proprietari delle aree già programmate nei Piani dei comuni, anteponendo il riequilibrio dei bilanci di società e banche al governo del suolo come bene comune.
È certo difficile governare quando la Regione con il nuovo PTR condiziona il futuro delle aree urbane più rilevanti, compresa buona parte del territorio metropolitano, alla preliminare approvazione di accordi negoziali di interesse regionale (quindi di iniziativa e guidati dalla Regione), limitando in questo modo l’autonomia degli strumenti di pianificazione territoriale della Città metropolitana, delle province, e degli stessi comuni capoluogo (4).
È certo difficile governare quando diventa sempre più sistematica la marginalizzazione della Città metropolitana sui temi strategici del territorio, come già sperimentato per esempio nelle vicende inerenti le aree Expo, o di recente le aree ferroviarie dismesse (i famosi scali), che sono patrimonio pubblico e dovrebbero servire alle esigenze dell’intera comunità metropolitana, non solo di chi vive entro i confini di Milano.
L’elenco potrebbe continuare. Se certo è difficile governare in queste condizioni, tuttavia almeno in quelle poche occasioni in cui ci sono i poteri e qualche risorsa si deve cercare di usarli il meglio possibile. Vedo invece in alcuni interventi recenti ancora citato il Piano strategico approvato un anno fa come buona pratica della Città metropolitana, nonostante le numerose critiche pubblicate, anche su questo sito, che ne hanno evidenziato la pochezza. Basta andare a rileggerne alcune del 2016, sono sempre attuali (5).
Il Piano strategico è stato affidato ad una struttura esterna, quando invece ci sono valide competenze interne, ed è stato tenuto separato dal PTM (Piano territoriale metropolitano), nonostante i due strumenti siano complementari e dovrebbero procedere assieme, il più integrati possibile. Gli uffici di pianificazione territoriale della Città metropolitana, anche se ridotti nei ranghi, possiedono solide competenze tecniche, ed una pluriennale esperienza nel rapporto con gli uffici tecnici dei comuni, quindi una conoscenza approfondita e puntuale dei problemi territoriali, che nessuna struttura esterna può neppure lontanamente eguagliare.
Il Piano strategico è stato attivato e approvato in tempi abbastanza rapidi, mentre il PTM deve ancora partire. Ma le indicazioni del Piano strategico rimangono nel libro dei sogni se non sono accompagnate e integrate con le regole e modalità di governo del territorio che solo il PTM può possedere. Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 2921 del giugno 2016, proprio sul caso di un comune del Milanese, ha riaffermato il ruolo di coordinamento della pianificazione territoriale provinciale e metropolitana, e ne ha ribadito la centralità rispetto alla pianificazione dei comuni. I contenuti di questa sentenza sono lì a disposizione, hanno efficacia immediata, vanno semplicemente usati.
Se andare avanti nelle sfavorevoli condizioni di contorno attuali è difficile, almeno partiamo cercando di fare bene quel poco che norme, risorse, competenze, giurisprudenza e altre condizioni ci consentono oggi di affrontare (6).
(1) Si vedano gli interventi su ArcipelagoMilano di Valentino Ballabio del 7 giugno 2017, di Arianna Censi del 13 giugno e di Ugo Targetti del 20 giugno.
(2) Sulla questione delle dimensioni di città e sistema metropolitano segnalo i miei interventi su ArcipelagoMilano del 16 settembre 2016 e dell’11 maggio 2016. Se l’ampliamento della Città metropolitana fino a coincidere con il Sistema metropolitano reale è troppo complesso e irrealistico, bisogna quantomeno immaginare un sistema di governance che coinvolga nelle decisioni sul sistema metropolitano almeno capoluoghi e polarità urbane delle province confinanti.
(3) Sulla stampa locale il Presidente della Regione ha dichiarato recentemente la propria contrarietà alla domanda del Comune di Vigevano di annessione alla Città metropolitana; si veda per esempio l’articolo sulla Provincia Pavese del 15 giugno 2017.
(5) Alcuni interventi sono stati pubblicati su ArcipelagoMilano il 12 aprile 2016, si vedano per esempio quelli di Giorgio Goggi e di Riccardo Cappellin. Cito anche un mio intervento sempre su ArcipelagoMilano del 24 maggio 2016.
(6) Per un riassunto dei contenuti della sentenza si veda il mio intervento su ArcipelagoMilano del 13 luglio 2016.
Per alleviare la pressione demografica di Pechino si progetta una nuova citta', si prospettano speculazioni immobiliari, sfratti e dismissione delle attività' agricole, Internazionale, 30 Giugno 2017, (i.b.)
La costruzione del nuovo distretto di Xiongan, nello Hebei, che unisce le contee di Xiaxiong, Rong cheng e Anxin: “Insieme alla zona economica speciale di Shenzhen e al distretto di Pudong a Shanghai, Xiongan rappresenta un importante passo in avanti per tutto il paese”. Nei tre giorni successivi all’annuncio, la contea di Anxin è stata invasa da decine di migliaia di persone in cerca di nuove possibilità di investimento nella zona. Da un lato Yuantou è contento perché se da giovane, quand’era lontano da casa, per spiegare da dove veniva doveva dire “vicino al lago Baiyang”, ora basta che risponda “il nuovo distretto di Xiongan”. Dall’altro, però, Yuantou è preoccupato per le sue anatre, che alleva da 33 anni. Tra gli abitanti della cittadina è quello che lo fa da più tempo. Stando alle stime del 2014, il 12 per cento della produzione nazionale di uova d’anatra proviene dallo Hebei, e più del 60 per cento di quelle salate che si mangiano a Pechino è prodotto nella contea di Anxin. Ogni anno le anatre di Yuantou producono decine di migliaia di uova, che da Anxin si vendono in tutta la Cina.
Quando ha cominciato a circolare la voce sulle demolizioni e i trasferimenti, Li Fei, un compaesano di Yuantou, ha pensato di piantare alberi da frutto sul suo terreno così da far aumentare il suo valore. Ma i coltivatori della zona gli hanno consigliato di lasciar perdere: “Non pensarci nemmeno, tempo fa abbiamo aiutato una famiglia a fare lo stesso e il giorno dopo, le piante sono state sradicate”. Gli abitanti preoccupati devono trovare altri modi per cavarsela. Quando hanno sentito che gli indennizzi sarebbero stati assegnati su base individuale, due abitanti di Santai, un villaggio vicino a Daiwang, hanno chiamato i figli: “Sbrigatevi a fare un bambino, non si sa quanto tempo rimane ancora!”. Altrove si è sparsa la notizia che anche i condizionatori e gli scaldabagno alimentati a energia solare sarebbero stati rimborsati, e una famiglia, che aveva già installato un impianto, è corsa a comprarne un altro. Da un po’ Yuantou trascorre più tempo nel cortile o seduto alla finestra a guardare le anatre razzolare. I tanti anni passati all’aperto s’intuiscono dalla sua pelle color rame, come quella dei pescatori. Ormai è anziano, e sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il momento di lasciare la sua casa, ma non pensava che sarebbe successo così all’improvviso.
«A volte si ha l’impressione che a frapporsi tra l’ordine e il caos ci sia solo un robusto tedesco di 51 anni, Kilian Tobias Kleinschmidt. È un tecnico dell’espropriazione, non uno psicologo. Costruisce e amministra città per la gente perduta». Questa è la descrizione che David Remnick, il direttore del New Yorker, dava di Kilian Kleinschmidt dopo averlo incontrato nel campo profughi di Zaatari, in Giordania (Internazionale 1018), dove all’epoca vivevano 120mila siriani che avevano dovuto abbandonare il loro paese.
Da allora il numero di ospiti di Zaatari è sceso a 80mila, Kleinschmidt di anni ne ha compiuti 53 e non è più il “sindaco” di quel germoglio di città sviluppatosi nel deserto giordano. L’esperto di interventi umanitari ha lasciato le Nazioni Unite per aprire a Vienna la sua agenzia, Switxboard, e dedicarsi a progetti più “dirompenti”, come ha dichiarato in un’intervista al sito d’architettura Dezeen.
Il 29 giugno Kleinschmidt sarà a Venezia per parlare di “Città in esilio-città del futuro” il cui tema quest’anno è la Siria, la distruzione delle sue città e le opportunità della ricostruzione.
Andare avanti o restare fermi
«Dovremmo cambiare il modo in cui parliamo e guardiamo ai profughi», dice al telefono da Vienna. Si tratta di 65,6 milioni di persone: «Non vengono da Marte né vanno visti come una specie a parte». Kleinschmidt conosce bene il presente, ma ha anche lo sguardo rivolto al passato: da secoli gli esseri umani si muovono da una parte all’altra, e il mondo di oggi si è costruito intorno a quegli spostamenti. Le ragioni sono state varie: guerre, persecuzioni, ma anche la ricerca di opportunità economiche. In una recente visita a Berlino, racconta, ha visto lo scavo archeologico di un insediamento di ugonotti scappati dalla Francia: anche loro erano rifugiati, e hanno contribuito a creare la città. Molte grandi città europee di oggi, afferma, sono sorte da campi di coloni, da insediamenti nati in funzione difensiva o altro ancora.
Negli ultimi settant’anni, però, i rifugiati sono stati trattati in modo diverso. Se da una parte gli è stato riconosciuto uno status che li tutela, sono diventati anche “ostaggi” della situazione in cui si sono venuti a trovare: ostaggio degli aiuti umanitari, dei governi che li ospitano – e che non gli riconoscono gli stessi diritti degli altri cittadini – o dei movimenti politici che li rappresentano. Quando ne hanno la possibilità, afferma Kleinschmidt, i rifugiati fanno quello che fanno tutti: vanno avanti. Senza scordare da dove vengono, si confrontano con la nuova realtà dell’esilio e, di conseguenza, cambiano le loro ambizioni e aspirazioni.
Progetti innovativi
Mi fa l’esempio di esperienze di successo come quella di Mobisol, un’azienda tedesca che offre sistemi per la produzione di energia solare alle famiglie di paesi in via di sviluppo, che restituiscono il prestito man mano che l’investimento si rivela proficuo, o Africa Greentec, che costruisce piccole centrali solari in Africa grazie al crowdfunding. O quello di un’azienda di Nairobi che ha installato delle stazioni di rifornimento di acqua fresca e pulita negli slum, a prezzi più bassi di quelli dei venditori informali. In definitiva queste imprese danno alle persone quello che gli serve a prezzi accessibili. Niente di particolarmente complicato, no?
«Il mito della Barcellona risorta con le Olimpiadi del ’92 ha indicato la strada per la rinascita alle altre città europee post industriali. Ma Barcellona è davvero un esempio da seguire?». Sbilanciamoci-info, 29 maggio 2017 (c.m.c.)
Nel capoluogo della Catalogna c’è chi, da anni, mette in discussione il suo modello di sviluppo urbano, assurto a dogma da amministratori e media mainstream e preso a riferimento anche da molte città italiane. Tra le voci critiche più interessanti, ci sono i sociologi e antropologi Giuseppe Aricò e Marc Dalmau i Torvà: il primo è membro dell’Osservatorio di Antropologia del Conflitto Urbano (OACU), il secondo, socio della cooperativa La Ciutat invisible, ha partecipato all’esperienza di Can Battló, caso esemplare di recupero del patrimonio industriale da parte della cittadinanza. E’ per conoscere il loro punto di vista che sono venuto qui. E perché la questione urbana è una delle grandi questioni del nostro tempo.
Ogni volta che torno a Barcellona sono preda di sentimenti contrastanti. Da una parte la città sembra avere tutto ciò che si possa desiderare: mare, clima, bellezza e dolce vita. Dall’altra, continua a perdere pezzi della sua identità e assomiglia sempre più ad altre città globali. Cammini a Sant Antoni, un tempo quartiere popolare, e ti sembra di stare a Shoreditch o a Williamsburg, i quartieri hipster più famosi di Londra e New York: ristoranti dalla cucina ricercata, café veg, cibi organici, succhi estratti a freddo, negozi vintage e mobili retrò. E gli affitti in zona sono schizzati alle stelle.
Trasformazioni non meno radicali hanno interessato il poco distante Poble Sec, l’ex quartiere operaio ubicato tra il centralissimo Raval e la collina del Montjuic: oggi, tra bar e ristoranti, si contano ben 45 attività commerciali lungo i circa 620 metri della sua “rambla” pedonalizzata. Processi simili, poi, sono in atto anche nel vecchio pueblo di Gracia e nel quartiere del Poblenou, simbolo del passato industriale della città. Per non parlare del quartiere marinaro della Barceloneta, dove invece degli economici chiringuitos di una volta si trovano più ambiziosi gastro-chiringuitos e si sorseggiano cocktail all’ombra di un hotel a vela che fa tanto Dubai.
Emergenza casa
Nessun quartiere viene risparmiato. Si chiama gentrification: chi più, chi meno, chi prima, chi dopo, tutti subiscono una metamorfosi identitaria, che comincia con l’impennata degli affitti e si conclude con la sostituzione di classi medio-basse e basse con classi medio-alte e alte. Idealista, portale online leader nell’ambito dell’ospitalità, sostiene che in alcuni quartieri gli affitti sono saliti addirittura del 15% rispetto ai picchi del 2007, quando si era ancora in piena bolla immobiliare. Un aumento vertiginoso, favorito anche dal proliferare di appartamenti turistici, che, secondo uno studio del comune, sfiorano le 16000 unità, di cui il 40% senza licenza. In una città come Barcellona, ormai una delle principali mete del turismo internazionale, gli affitti brevi rendono molto di più degli affitti a lungo termine e molti proprietari non si sono lasciati scappare l’occasione. Per questo, la sindaca Ada Colau ha intrapreso una battaglia legale contro Airbnb e Homeway, veri e propri colossi di internet nel settore degli affitti a breve termine.
Non è questa l’unica iniziativa dell’attuale giunta per affrontare l’emergenza abitativa, priorità assoluta per Ada Colau, che nel decennio passato è stata protagonista delle lotte per la casa, prima con il collettivo “V de Vivienda” e poi guidando la piattaforma contro gli sfratti (PAH). L’azione della sindaca si sta sviluppando in due direzioni: da una parte, ha predisposto la costruzione di oltre 2000 alloggi da destinare all’edilizia pubblica, oggi ferma all’1,5% contro il 15% della media europea; dall’altra, sta studiando come limitare i prezzi degli affitti. Inoltre, è notizia di questi ultimi giorni, l’amministrazione comunale starebbe preparando in segreto un piano contro la gentrificazione.
A ogni città i suoi palazzinari
Basterà? Secondo Giuseppe Aricò le cose non potranno cambiare in profondità senza puntare il dito contro i veri responsabili: «Un vero cambiamento non può che toccare i poteri forti della città, che hanno nome e cognome: Jose Luiz Navarro, la famiglia Sanahuja, quella Koplowitz e altri grandi grandi investitori immobiliari. Perché tutto inizia e finisce con il settore immobiliare in una città come questa».
Pensando alla grande speculazione in atto a Roma con lo stadio di Tor di Valle, verrebbe da dire: a ogni città i suoi palazzinari. Palazzinari che a Roma hanno esercitato enormi pressioni per la candidatura dell’Urbe alle Olimpiadi del 2024, sbandierandole come volano economico dai benefici universali: guardate – dicevano – le Olimpiadi di Barcellona come hanno cambiato pelle alla città e guardate Torino che ha seguito quel modello e si è rilanciata con i giochi olimpici invernali del 2006 (dimenticano però di dire che il capoluogo piemontese è così diventato la città più indebitata d’Italia, con una eredità di strutture costruite per l’occasione e costate decine di milioni di euro, oggi in stato di abbandono). I grandi eventi, quindi, vengono universalmente presentati come propulsori della trasformazione, o, come viene chiamata spesso, rigenerazione. In nome di una logica che, in tempi di crisi – soprattutto di idee – è rimasta uno dei pochi appigli a cui aggrapparsi.
Le Olimpiadi come tassello mancante di un lungo processo
Per capirne dinamiche e conseguenze, occorre ripercorrere brevemente la storia di Barcellona. A guardarla bene, emerge un quadro diverso da quello diffuso nell’opinione pubblica: le tanto celebrate Olimpiadi sono state solo un importante tassello di un processo che veniva da lontano e che rispondeva a un’ideologia precisa. «L’origine del modello Barcellona – spiega Marc Dalmau i Torvà – possiamo datarlo con la prima esposizione universale (1888), quando si decise di seguire un modello urbanistico di crescita illimitata, nonostante i limiti geografici».
Ma è circa 60 anni fa che si gettano le fondamenta dell’impianto che conosciamo oggi. Si era allora in pieno franchismo e sullo scranno più alto del governo cittadino sedeva il notaio Josep Maria de Porcioles, longa manus del regime e collante con il catalanismo. Nei suoi ben 16 anni di amministrazione, dal ’57 al ’73, Porcioles avviò uno sviluppo urbanistico senza precedenti, per fare di Barcellona una meta turistico-commerciale di fama internazionale. Come recitava uno slogan del tempo, “Barcellona, città del turismo e dei congressi”.
E’ in quest’epoca che si affermano quelle collaborazioni pubblico-private che guideranno la trasformazione olimpica della città. L’era Porcioles, infatti, sdogana la privatizzazione delle politiche comunali e arricchisce alcuni gruppi immobiliari della città attraverso grandi opere speculative e continue riqualificazioni del suolo urbano. Ritrovare i nomi delle stesse imprese nella maggior parte degli interventi cittadini degli ultimi 50 anni pone qualche dubbio sulla vulgata comune, che suddivide la storia urbanistica di Barcellona in tappe e, soprattutto, in tre fasi distinte: il periodo franchista, la transizione e, infine, l’eldorado felice dell’urbanismo democratico, condiviso per il bene di tutti e simboleggiato dalle Olimpiadi.
«Si è soliti pensare – mi racconta Giuseppe Aricò – che abbiamo vissuto un urbanismo del prima, dove non si permetteva la partecipazione cittadina, e un urbanismo del dopo, ispirato dal principio di una città aperta, una città partecipativa. Nonostante gli slogan di allora, le Olimpiadi, però, ci hanno mostrato che non è così: la collaborazione pubblico-privata è stato un trionfo non tanto del pubblico, quanto del privato, ossia degli interessi privati del mercato immobiliare».
E che un filo accomuni i diversi periodi storici lo si capisce anche dalla continuità dei piani urbanistici. Nel 1976, tre anni dopo la fine dell’amministrazione di Porcioles, fu approvato il piano tutt’ora vigente: alla sua base, l’idea di una città terziaria, fondata sul consumo e abitata in particolare da classi medie e medio alte, che non necessitino di molti servizi. Con buona pace delle classi più basse. Per trasformare i desideri in realtà serviva, però, un grande evento. Porcioles, per il suo piano Pla Barcelona 2000, presentato nel 1967 e poi naufragato in un mare di proteste, lo aveva individuato nell’Esposizione Universale del 1982. Toccherà invece alle Olimpiadi realizzare i sogni di rigenerazione urbana del sindaco franchista e dei grandi gruppi immobiliari.
Che la “riqualificazione” abbia inizio!
Sin dalla prima metà degli anni ’80, in concomitanza con il processo di candidatura di Barcellona alle Olimpiadi, fioriscono i primi interventi di “agopuntura urbana”. «Si tratta – continua Giuseppe Aricò – di micro e piccole operazioni, distribuite a pioggia. E’ nel centro che si è concentrata la maggior parte degli interventi, ma hanno subito trasformazioni anche quartieri considerati periferici, convertiti in nuove centralità». All’agopuntura urbana si affiancarono, poi, i progetti per aprire Barcellona al mare, recuperando il litorale dalla Barceloneta alla Mar Bella. «L’apertura verso il mare cancellò la storia delle popolazioni che vivevano nei quartieri lungo il litorale».
L’azione più radicale riguardò il quartiere di Icaria, che venne raso al suolo per far spazio alla Vila Olimpica (Città Olimpica), un quartiere residenziale per ceti abbienti, a due passi dal mare. «E’ il quartiere dei premi Fad, premi d’architettura e interior design, istituiti da Oriol Bohigas, il principale ideologo dei criteri di trasformazione urbanistica della Barcellona democratica».
L’impatto delle archistar si rivela spesso devastante per gli equilibri sociali delle aree in cui operano. E la Vila Olimpica non fa eccezione, incarnando ancora, a decenni di distanza, l’immagine di un “non-quartiere”: composta da blocchi di edifici, progettati da famosi architetti e cinti da giardini privati, ospita vite indipendenti, senza punti d’incontro e relazione e senza attività commerciali. Un “non-quartiere” che esprime una concezione di città esclusiva ed escludente, a scapito dei tessuti sociali pre-esistenti. Un esempio lampante di come rigenerazione non costituisca di per sé una parola positiva, ma possa rivelarsi portatrice di effetti negativi, quando non tiene in considerazione il rispetto della storia di un luogo e dei suoi abitanti.
Città imprenditoriali per un necrourbanismo
Il geografo e urbanista David Harvey, uno dei massimi studiosi di Marx, sostiene che l’urbanizzazione capitalista svolge «un ruolo particolarmente attivo (insieme ad altri fenomeni come le spese militari) nell’assorbire le eccedenze che i capitalisti producono costantemente nella loro ricerca di plusvalore». Come nota lo stesso autore, questo ruolo pare notevolmente aumentato da quando la crisi degli anni ’70 ha spinto le città a passare da una funzione manageriale, in cui gestivano le risorse fornitegli da Stati keynesiani, a una funzione imprenditoriale, in cui perseguono obiettivi di crescita e si pongono in competizione tra loro.
Il risultato di quest’ultima fase, quella neoliberista, è ciò che Marc Dalmau i Torvà definisce “necrourbanismo”. «Lo chiamo così perché è specialista nel generare spazi vivi per il capitale e per la circolazione delle merci e in cambio uccide, depreda tutti gli spazi pubblici, di convivialità, di reciprocità, di socialità, che è quello che in definitiva dovrebbe caratterizzare qualsiasi spazio pubblico». La morte della città nella sua vera essenza.
«Il capitalismo neoliberista sta uccidendo la dimensione umana delle città e sta costruendo un’altra cosa: metropoli, conurbazioni, spazi totalmente segregati, disciplinati dal perseguimento del plusvalore». Con impatti tremendi sulla vita delle persone. «La nostra vita va a rotoli. A causa di questo modello, che durante molti anni è stato premiato e preso a riferimento da altre città, veniamo espulsi dai nostri quartieri, dove coltiviamo relazioni, ci aiutiamo e ci procuriamo i mezzi di sostentamento. Per gli urbanisti e i politici responsabili di questo sviluppo può essere un gioco, ma per noi, che siamo di carne e ossa e viviamo tra le pietre del nostro quartiere, è una questione vitale importantissima, perché perdiamo i nostri riferimenti, i nostri spazi comuni e i luoghi di cui ci appropriamo quotidianamente».
C’è chi dice no
Ma Barcellona è una città tutt’altro che remissiva. Qui, le lotte non sono mai mancate. «Si è soliti pensare – spiega Giuseppe Aricò – che la protesta cittadina sia qualcosa di molto recente, relazionato, non solo qui ma in tutta la Spagna, con i movimenti del 15 maggio 2011 (giorno d’inizio delle proteste degli Indignados, che darà il nome al Movimento 15-M). Questo è un falso mito, perché le lotte hanno caratterizzato questa città sin dal principio del secolo scorso e non sono mai entrate in letargo. Piuttosto, sono state occultate». Durante le Olimpiadi, ad esempio. «Una protesta nota come l’intifada del Besos (quartiere che deve il suo nome all’omonimo fiume, n.d.r.) riuscì a paralizzare un piano di costruzione di case in vista della celebrazione olimpica».
E da lotte più recenti, alla Barceloneta, usciranno le persone che fonderanno la PAH di Ada Colau. Lotte che, nonostante qualche importante vittoria, non sono però riuscite a fermare l’onda della trasformazione neoliberista e della conseguente gentrificazione. Con qualche eccezione, come, per esempio, Can Battlò, ex fabbrica tessile ubicata a Santz, quartiere di grande tradizione operaia. Una storia che vale la pena di essere raccontata
«Le diverse crisi in corso costringono ad abbandonare certezze, immaginari, linguaggi e schemi cognitivi, a ripensare l’insieme delle relazioni sociali». comune-info, 22 maggio 2017 (c.m.c.)
«L’utopia oggi non consiste affatto nel preconizzare il benessere attraverso la decrescita e il sovvertimento dell’attuale modo di vita; l’utopia consiste nel credere che la crescita della produzione sociale possa ancora condurre a un miglioramento del benessere, che essa sia materialmente possibile»[1].
Queste parole di André Gorz, scritte nel lontano 1977, oggi suonano ancora più attuali e azzeccate di allora. Per diverso tempo gli scienziati e gli studiosi che hanno evidenziato e discusso attorno ai danni e ai limiti della crescita sono stati bollati assieme di catastrofismo e di mancanza di realismo. Dopo anni di crisi economica, di aumento delle diseguaglianze, di precarizzazione del lavoro, di indebitamento, di indebolimento delle forme di garanzia sociale, con l’aggravarsi delle problematiche dell’inquinamento, del cambiamento climatico, dei conflitti per le risorse, con la forsennata ricerca di nuovi territori di profitto attraverso la capitalizzazione della natura, dei corpi e della vita stessa, il paesaggio è almeno in parte cambiato.
Il sospetto che i paradigmi interpretativi e gli orizzonti valoriali emersi con la rivoluzione industriale e che si sono cristallizzati nel secondo dopo guerra nell’ideale della crescita economica siano ormai utensili inutilizzabili è un pensiero che inizia a diffondersi anche negli ambienti più convenzionali. Ma l’invenzione e la ricostruzione di paradigmi interpretativi differenti, richiede di accettare di abbandonare certezze e sicurezze che si appoggiano non solo a canoni disciplinari codificati ma anche a immaginari, linguaggi e schemi cognitivi depositati nell’esperienza comune.
Ciò di cui discutiamo non è semplicemente una revisione dei modelli o delle politiche economiche ma piuttosto un ripensamento radicale del nostro modo di concepire la modernità, l’insieme delle relazioni sociali, l’idea di benessere e di benvivere, le logiche di fondo alla base dell’evoluzione tecnica e organizzativa e della costruzione di una democrazia politica.
La decrescita non è una soluzione o una facile ricetta, ma è piuttosto un orientamento di fondo e un orizzonte di ricerca e sperimentazione pratico e teorico[2]. Nel dibattito sulla decrescita convergono in effetti riflessioni maturate attorno a diversi ambiti e a relative crisi che si delineano nel nostro tempo: una crisi economica, una crisi ecologica, una crisi energetica, una crisi politica, una crisi sociale e culturale.
Interconnessioni
Le diverse crisi e problematiche sia di tipo ambientale che economico e sociale, sono fra loro interconnesse e si influenzano a vicenda ponendo tutta una serie di questioni e sfide alla politica. Quella che chiamiamo crisi ecologica ha profonde implicazioni politiche ed economiche perché altera e spesso compromette gli ambienti ecologici e sociali sui quali si fonda la vita e il benessere delle comunità.
Vediamo tre scene diverse, che riguardano l’estrattivismo, la crisi alimentare e il cambiamento climatico.
L’economia legata all’estrattivismo pone problemi non solo a valle, nel consumo e nelle emissioni ma anche a monte, nel prelievo di risorse. Quando pensiamo al petrolio noi sul piano ambientale siamo concentrati soprattutto sui danni che derivano dal consumo, per esempio della benzina e quindi dalle emissioni di CO2 e dall’effetto serra. Ma questo è solo una parte del problema. Il resto riguarda l’estrazione, lo sfruttamento, nonché la distribuzione. Le stesse attività di estrazione intatti determinano una distruzione dell’ambiente circostante, esplorazioni sismiche con dinamite, deforestazione, la contaminazione del terreno, delle acque superficiali, estinzione delle sorgenti d’acqua, danni alla flora e alla fauna che spesso fugge spaventata.
Anche il trasporto del petrolio che richiede la costruzione di oleodotti determina un forte impatto ambientale. Sul piano sociale poi i danni sono ancora più immediati e visibili. Lo sfruttamento petrolifero, quando avviene in territori abitati, può determinare tutta una serie di violenze sulla popolazione locale. Le popolazioni locali possono essere deportate e represse, le comunità spesso sono distrutte nella loro organizzazione sociale, ecologica ed economica. Spesso ne nascono dei conflitti violenti tra governi, multinazionali e popolazioni indigene. Va anche notato che man mano che la pressione sulle risorse aumenta ed esse iniziano a scarseggiare, comincia una sempre più disperata ricerca di risorse in condizioni e con processi sempre più difficili, costosi e inquinanti che producono conseguenze sociali e politiche ancora più gravi[3].
Il petrolio non è peraltro l’unica risorsa chiave. Lo è e lo diventerà sempre di più anche l’acqua. Persino nei conflitti che affliggono attualmente Iraq e Siria, il tema dell’acqua sta diventando sempre più centrale, e gli osservatori politici sottolineano che il controllo delle fonti idriche finirà col divenire più importante del controllo delle raffinerie di petrolio[4].
Cambiando scenario, il collasso del patrimonio biologico sta avendo fra l’altra conseguenze visibili per esempio sulla disponibilità e sul costo del cibo (frumento, granturco, riso, mais, pesce ecc.). Negli ultimi anni si sono registrate sempre più spesso delle proteste e delle rivolte per questioni alimentari. Per esempio l’aumento del costo di riso, latticini, carne, zucchero e cereali è stato alla base di una forte ondata di proteste verificatasi tra il 2007 e il 2008, in paesi come Haiti, Messico, Nicaragua, Guatemala, Thailandia, Indonesia, Filippine, India, Bangladesh, Egitto, Yemen, Pakistan, Uzbekistan, Costa d’Avorio, Etiopia e gran parte dell’Africa subsahariana. In alcuni paesi come Haiti i prezzi dei prodotti alimentari sono saliti mediamente del 40 per cento in meno di un anno. Il riso è raddoppiato di prezzo. In Bangladesh tra il 2007 e il 2008 il prezzo del riso è raddoppiato a fronte di uno stipendio medio mensile di soli 25 dollari. Nello stesso periodo in Egitto i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati del 40 per cento.
Ma anche la scintilla delle diverse delle rivolte nel Maghreb e in altre zone del 2011, è venuta da una rivolta contro il peggioramento delle condizioni economiche, una crescita dei costi dei beni primari, in particolare alimentari, a fronte di un reddito piuttosto basso (7.100 euro lordi all’anno è il reddito medio in Tunisia, 4.665 euro lordi è il reddito medio in Egitto). Quello che è successo in questi ultimi anni nel Maghreb, in Africa e nel Medio oriente – mi riferisco alle rivolte in Algeria, Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein, Siria, Libia, Marocco, Arabia Saudita, Oman, Iraq, Sudan, Mauritania, Uganda – ci racconta ancora una volta della centralità delle risorse e del legame tra beni fondamentali nel nord e nel sud del mondo.
L’aumento fortissimo dei costi dei cereali e del pane e di altri beni alimentari tra il 2007 e il 2011 è il risultato di diversi fattori tra loro intrecciati:
– la crescita della popolazione mondiale e della domanda di questi beni. In particolare occorre tener conto del mutamento dei rapporti tra la popolazione urbana e quella rurale, nonché della trasformazione delle abitudini alimentari;
– il cambiamento climatico che produce un aumento della temperatura globale ma anche una estrema variabilità del clima stagionale con la produzione di fenomeni estremi;
– fenomeni locali come picchi di siccità o l’esaurimento degli acquiferi; per esempio nel 2012 una terribile siccità ha colpito Usa, Russia e Kazakhstan, riducendo del 3% il raccolto globale dei cereali;
– la diminuzione di suoli fertili sia per il fenomeno dell’erosione e della desertificazione che per l’espandersi dell’urbanizzazione e della cementificazione unito all’impossibilità in molte aree di estendere ulteriormente l’estensione delle terre coltivate;
– la crescita dei costi di investimento dovuti alla diffusione dell’agricoltura industriale e al fenomeno dei “brevetti” dei semi.
– fenomeni economici come l’aumento del prezzo del petrolio. In effetti la meccanizzazione dell’agricoltura (l’uso di macchinari agricoli a motore), l’uso di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti (derivati dal petrolio) e il costo della distribuzione dei cereali verso i mercati ha determinato una situazione in cui un qualsiasi aumento dei costi del petrolio fa scattare un aumento dei beni alimentari di base. Si creano dunque dei circoli viziosi, con degli anelli di feedback negativo. Come ha scritto Michael Klare, «il prezzo del petrolio fa salire quello dei generi alimentari; a sua volta il rincaro del cibo provoca disordini politici nei paesi produttori di petrolio, che di conseguenza spingono ancora più in alto i prezzi del greggio e quindi quelli dei generi alimentari».[5]
– Il tentativo di alcuni governi di diminuire la dipendenza dal petrolio e le emissioni di CO2 che contribuiscono al riscaldamento globale indirizzandosi verso le coltivazioni di biocarburante piuttosto che di cibo. Questo a sua volta, diminuendo le disponibilità, ha contribuito ad alzare i prezzi dei beni alimentari.
– Infine un ulteriore elemento da tenere in considerazione è stata la speculazione finanziaria alimentare. Negli ultimi anni con la liberalizzazione del mercato le banche, le finanziarie e i fondi di investimento, quindi gli investitori internazionali hanno fatto grandi speculazioni sui beni alimentari attraverso la compravendita di titoli (futures). Si stima che oramai oltre un 70 per cento degli scambi in questo mercato sia di tipo speculativo, ovvero fatto da persone che sono di fatto totalmente estranee alla produzione agricola.
Questo aumento dei costi dei beni alimentari primari come i cereali provoca a sua volta alcuni effetti a catena. In primo luogo accade che i paesi esportatori comincino a limitare le esportazioni per tenere più bassi i prezzi dei beni alimentari al proprio interno e questo produce una diminuzione della disponibilità di cibo e un problema di improvvisa scarsità nei paesi importatori con un più basso reddito.
Di fatto i rincari dei generi alimentari hanno spinto sull’orlo della denutrizione oltre 75 milioni di persone. Attualmente si calcola che circa 799 milioni di persone al mondo (il 18 per cento della popolazione mondiale) soffrano la fame. Cina a parte, la percentuale di persone in condizioni di insicurezza alimentare sulla popolazione è aumentata in diverse zone del mondo, dal Sud America dove nell’ultimo decennio è cresciuta del 19 per cento all’Asia dove è cresciuta del 9 per cento. Nella sola Africa il problema della fame investe fino al 35 per cento della popolazione.
L’aumento dei costi, la diminuzione delle esportazioni, la scarsità di cibo, l’aumento della fame, il sorgere delle proteste fa si che alcune nazioni cerchino di tutelarsi appropriandosi di terre in altri paesi, dando luogo così al fenomeno noto come land grabbing. Questo naturalmente può creare nuovi conflitti e nuovi problemi di giustizia ambientale e sociale.
Secondo uno studio accurato di tre ricercatori[6] è possibile notare che quando il Food Price Index[7] della FAO raggiunge o supera l’indice di 210 è probabile lo scoppio di rivolte per il cibo. Non è un caso che un attento commentatore di questioni politiche e di conflitti Nafeez Mosaddeq Ahmed ha sottolineato che nel prossimo futuro le rivolte per il cibo potrebbero diventare la normalità della nostra vita.[8]
Tutto questo ci ricorda comunque la centralità del problema del cibo nei decenni a venire. Nei paesi occidentali gli effetti di questi cambiamenti generalmente si vedono in ritardo perché in una prima fase quello che viene intaccato sono le scorte, gli stock di riserva, ovvero il surplus della produzione per esempio cerealitica. Negli ultimi due decenni negli Usa come in Europa sono stati via via erosi i margini di sicurezza in questo campo. Come ha scritto Lester R. Brown, «Il mondo sta passando da un’epoca caratterizzata da una grande abbondanza di cibo a una di scarsità. Nel corso degli ultimi dieci anni, le riserve globali di cereali sono diminuite di un terzo. A livello mondiale i prezzi degli alimenti sono più che raddoppiati, stimolando una corsa planetaria ai terreni agricoli e ridisegnando la geopolitica del cibo. In questo nuovo periodo storico, il cibo è importante come il petrolio e il terreno agricolo è prezioso come l’oro».[9]
Ora torniamo al tema del cambiamento climatico per sottolineare questa volta, che esso avrà numerose conseguenze sociopolitiche legate a questioni quali la carenze di scorte alimentari, l’acidificazione degli oceani, la diminuzione di disponibilità di acqua potabile, l’aumento della desertificazione e della salinità dei terreni, inondazioni causate da eventi climatici estremi, migrazioni di massa e profughi climatici, aumento dei conflitti per le risorse e infine moltiplicazione di occasioni di violenza in direzione di quelle che sono già state ribattezzate “guerre climatiche”. In sostanza i mutamenti climatici si tradurranno in un vistoso aumento delle catastrofi sociali che colpiranno fra l’altro in modo disuguale i paesi più ricchi e responsabili di questo stato di fatto e i paesi meno responsabili ma anche meno attrezzati a fare fronte ai disastri climatici.
Noi non siamo abituati a pensare che queste emergenze possano colpire anche noi, ma uno studioso come Harald Welzer ci mette sull’avviso: «una fase di prosperità che ormai dura nei paesi occidentali da due generazioni fa si che si ritenga la stabilità ciò che è lecito attendersi e l’instabilità ciò che è da escludere. Se si è cresciuti in un mondo in cui non ha mai avuto luogo una guerra, non sono mai state distrutte delle infrastrutture a causa di terremoti, non c’è mai stata fame, si ritengono la violenza di massa, il caos e la povertà problemi che riguardano gli altri»[10].
In realtà quanto più governi e popolazioni dei paesi più inquinanti rimanderanno interventi e azioni volte all’autocorrezione e autolimitazione, tanto più le condizioni peggioreranno e la pressione per soluzioni rapide e drastiche si farà più intensa. Questo potrebbe stimolare l’uso della violenza. Uno studioso di diversa impostazione come Gwynne Dyer[11] ricorda come gli scenari legati al cambiamento climatico giocano un ruolo sempre più importante nella pianificazione militare delle grandi potenze. In altre parole sono le agenzie militari e di sicurezza le prime a basarsi su scenari realistici di tensioni o conflitti dovuti a mutamenti climatici.
Dunque su questo sfondo emergono i conflitti ambientali e i rifugiati ambientali, le guerre per le risorse, le guerre del cibo e dell’acqua, nonché le prime guerre climatiche. Insomma c’è un evidente correlazione tra questioni ecologiche, questioni energetiche, questioni economiche, questioni sociali e questioni politiche.
La crisi della politica non è solamente legata ad una semplice mala gestione delle risorse ma mette in evidenza quanto il tradizionale nazionalismo politico si scontri con un contesto ambientale che il più delle volte non corrisponde ai confini statali e che rappresenta un possibile ostacolo nell’affrontare problematiche ecologiche ampie e complesse. La crisi politica è anche una crisi che riguarda i rapporti tra generi e generazioni. I regimi democratici si rivelano incapaci nel loro funzionamento ordinario, costituito da scadenze elettorali, dalla competizione nello spazio pubblico, e dalla costruzione del consenso nel brevissimo periodo di incorporare una responsabilità intergenerazionale di più ampio respiro. Idee e prospettive di azione e rinnovamento relative e a risorse, clima, inquinamento si misurano anche con i limiti culturali dei nostri sistemi e delle nostre istituzioni politiche. È chiaro che oggi non possiamo più permetterci il lusso di affrontare un problema in maniera isolata non tenendo conto del contesto più ampio.
Oggi siamo chiamati a leggere e interpretare le interdipendenze tra fenomeni diversi e complessi quali le dinamiche del commercio internazionale, la disponibilità e il costo economico e sociale delle risorse, l’organizzazione del sistema agroalimentare globale, il consumo energetico, il problema delle emissioni di CO2, il riscaldamento climatico, l’erosione della biodiversità, i conflitti ambientali e le lotte per i beni comuni. Tutto questo chiama in causa il nostro stile di vita, le nostre abitudini quotidiane, il nostro rapporto con altri paesi e culture, e un sempre più inevitabile ripensamento delle relazioni sociali fondamentali tra uomini e donne di differenti generazioni.
In questo stesso potremmo dire che l’idea stessa di “crisi”, pur rimanendo imprescindibile, si rivela per molti aspetti inadeguata. In primo luogo perché come abbiamo visto queste crisi non si sommano semplicemente l’una all’altra ma si intrecciano e si rafforzano vicendevolmente fino a gettare le basi di una riconfigurazione complessiva. In secondo luogo perché non stiamo parlando di qualcosa di reversibile ma di qualcosa che segna un profondo momento critico, e probabilmente un punto di non ritorno. Certo possono essere possibili parziali rilanci, magari favoriti dalla scoperta di nuovi giacimenti di petrolio, da nuove tecnologie, da nuove forme di sfruttamento o da speculazioni sempre più sofisticate.
Questo potrà dilazionare i tempi ma non modificherà il senso della parabola che stiamo vivendo. Non sarà l’uscita dalla crisi che molti ancora sognano. In questa prospettiva il discorso sulla decrescita rappresenta un richiamo a rileggere quello che stiamo vivendo in termini più complessivi di Passaggio di civiltà. «La convinzione secondo cui tutte le società prima o poi seguiranno i modelli di sviluppo dei paesi della OECD si è rivelata nient’altro che un’illusione, e per giunta antistorica – ha notato Harald Welzer – : l’esperimento occidentale è in corso da duecentocinquanta anni e la fine di questo esperimento non segnerà certo la fine della storia»[12].
La questione è allora come ci poniamo di fronte a sfide di questo livello che richiedono non un diverso governo o una differente maggioranza politica, ma un ripensamento complessivo della nostra visione ecologica, sociale, economica e politica del mondo.
Tra paure e desideri di cambiamento
Come ha scritto Robert Engelman, presidente del Worldwatch Institute, «A meno che gli scienziati siano completamente fuori strada nella loro comprensione del mondo biofisico, sarebbe saggio oggi pensare a un “contenimento drastico” e rapido della domanda – che si voglia chiamare decrescita o semplicemente risposta adattativa a un pianeta ipersfruttato – per dirigersi verso un mondo davvero sostenibile che soddisfi i bisogni umani»[13]
La riflessione sulla decrescita si offre dunque come una discussione differente nella percezione della portata e della natura dei cambiamenti che dobbiamo affrontare. La proposta della decrescita è nata in opposizione a teorie ingannatrici come quelle dello sviluppo sostenibile. L’idea di sviluppo sostenibile ha avuto tanto successo perché va bene a tutti. Perché in fondo ci da l’illusione che possiamo continuare sulla stessa strada di sempre con qualche attenzione e cautela in più. Molti dei nostri discorsi, dei nostri saperi producono la stessa consolante illusione.
La parola decrescita è urtante, da fastidio. Ed è questo che la rende potente. Perché ci ricorda che non un sistema ma un’intera era è finita. Che la civilizzazione che l’ha caratterizzata è al collasso e che l’unica possibilità di immaginare un futuro vitale sta in un profondo cambiamento riflessivo. L’idea di decrescita contiene un richiamo ad elaborare questo lutto e a riconoscere la necessità di una radicale discontinuità. Qui ci scontriamo con i limiti della nostra immaginazione, ma la nostra ricerca sociale e politica dovrebbe focalizzare l’attenzione su questo.
Qualche tempo fa Ulrich Beck ha notato che «Le questioni principali delle teorie della società si riferiscono perlopiù alla stabilità e alla creazione dell’ordine e non a ciò di cui ci tocca di fare esperienza e che perciò dobbiamo comprendere: un mutamento epocale e discontinuo della società nella modernità»[14].
Mi sembra una buona intuizione che dobbiamo assolutamente sviluppare. In termini di ricerca occorre studiare e immaginare le forme di una discontinuità radicale e il possibile disordine tenendo conto insieme delle possibili o probabili dimensioni negative (conflitti per le risorse, guerre climatiche, rifugiati ambientali) ma anche creative (fantasia e reinvenzione, movimenti emergenti, economia solidale, iniziative di transizione, ecc). C’è un enorme possibilità di ricerca se solo apriamo le nostre menti alla consapevolezza riflessiva della estrema fragilità della nostra civiltà consumistica e se allarghiamo la nostra capacità di immaginazione.
Come ha notato Andrè Gorz «La decrescita è dunque un imperativo di sopravvivenza. Ma essa suppone un’altra economia, un altro stile di vita, un’altra civiltà, altri rapporti sociali. In assenza di questi, il crollo non potrebbe essere evitato se non a forza di restrizioni, razionamenti, allocazioni autoritarie di risorse, caratteristiche di un’economia di guerra. L’uscita dal capitalismo dunque avrà luogo in un modo o nell’altro, sarà civilizzata o barbara. La questione riguarda soltanto la forma che questa uscita prenderà e la cadenza secondo la quale andrà a realizzarsi»[15].
Da un punto di vista sociale ed educativo dovremmo concentrare i nostri sforzi su due aspetti, il disapprendimento (lavoro riflessivo di decostruzione e destrutturazione) e il pensiero creativo capace non solo di scarti ed invenzioni ma anche di nuove sintesi. Sono necessari entrambi.
Credo che l’aspetto più difficile di fronte a questa sfida sia come tener insieme il senso di urgenza e l’avvertito timore per le prove che ci aspettano, con il desiderio e la fiducia nella possibilità di cambiamento nonché la riscoperta di un rapporto diverso con noi stessi, con le nostre alterità, e con tutto il vivente.
La consapevolezza di un pericolo non coincide infatti con la motivazione al cambiamento. Come hanno notato Miguel Beanasayag, Gérard Schmit, «Se gli adulti si esprimono in termini di minaccia o di prevenzione-predizione, è senza dubbio perché pensano che quella attuale non sia un’epoca propizia al desiderio e che occorra innanzitutto occuparsi della sopravvivenza. E poi, si dicono, “per quel che riguarda il desiderio e la vita, si vedrà dopo, quanto tutto andrà meglio”. Ma è una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare dei legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro.
La nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati. […] La grande sfida lanciata alla nostra civiltà è quindi quella di promuovere spazi e forme di socializzazione animati dal desiderio, pratiche concrete che riescono ad avere la meglio sugli appetiti individualistici e sulle minacce che ne derivano. Educare alla cultura e alla civiltà significava – e significa ancora – creare legami sociali e legami di pensiero»[16]. I due autori richiamano quelle che Spinoza chiamava le passioni gioiose. Occorre mostrare pratiche ed esperienze di relazione e di condivisione più potenti, ricche e desiderabili di quelle offerte dal consumo privato e dalla competizione.
Il successo crescente di manifestazioni come le Conferenze internazionali sulla decrescita (Parigi, Barcellona, Venezia, Lipsia, Budapest) dove si ritrovano persone da tutto il mondo per discutere delle strade di un cambiamento epocale costituisce uno dei tanti segnali di incoraggiamento. Dimostra che dentro le società ricche e sviluppate si sta facendo largo un movimento profondamente consapevole che la civiltà dell’accumulazione, del consumismo e della crescita si rivela oggi per quel che realmente è: una parentesi nella storia umana, un vicolo cieco evolutivo. L’idea della ricerca di una qualità della vita differente fondata sulla frugalità, sul fare con meno, non è più il patrimonio di una nicchia ma sta pian piano attraversando l’intero corpo sociale e diventando un patrimonio diffuso.
Nel cuore delle società opulente ci sono persone che si impegnano in una riduzione dei consumi, in una trasformazione degli stili di vita, nella riscoperta di saperi artigianali e nella sperimentazione di nuove forme di riciclo e riuso; in un contesto di crisi del lavoro c’è un crescente ritorno all’agricoltura contadina e ci sono persone che inventano modelli di scambio, di condivisione, e forme di economia solidale; in un contesto di crisi energetica e di mutamento climatico comincia un ripensamento delle forme di mobilità tanto che negli ultimi anni in Italia come in altri paesi europei le vendite delle biciclette superano quelle delle auto. Nel 2012 per la prima volta in 26 dei 28 paesi dell’Unione Europea sono state vendute più biciclette che automobili.
Forse qui c’è un insegnamento da trarre. Quando pensiamo al cambiamento pensiamo alla sostituzione di una struttura con un’altra, ma fatichiamo a vedere la propensione, la tensione, la modificazione che stira e deforma il mondo di cui facciamo parte. Fatichiamo a parlare di decrescita nel momento in cui la crescita declina in decrescita. O del lavoro nel momento in cui il lavoro salariato muta verso forme di lavoro ibride e plurali. Dobbiamo invece vedere quello che sta emergendo di nuovo dentro il deperimento del vecchio. Attraverso tutte quelle forme di autorganizzazione, di autoproduzione, di scambio e condivisione si riduce pian piano la propria dipendenza dal mercato e si va lentamente ricostituendo una forma di “sussistenza moderna”[17]. Al momento si tratta di movimenti silenziosi, ma che presto – sotto la spinta di pressioni esterne – subiranno una forte accelerazione e il miraggio della crescita perderà rapidamente tutta la sua credibilità. Insomma ciò in cui siamo imbarcati con tutte le difficoltà e le sfide del caso non è il fatto di risolvere una crisi economica ma l’affrontare un vero e proprio passaggio di civiltà.
Il futuro non è ovvio
La prospettiva che si è delineata nelle ultime Conferenze internazionali sulla Decrescita (Parigi 2008, Barcellona 2010, Venezia 2012, Lipsia 2014, Budapest 2016) è quella di un movimento non solo capace di integrare percorsi e sensibilità differenti ma di offrire un orizzonte di pensiero culturalmente ampio e complesso da diversi punti di vista.
In primo luogo si tratta di mettere in relazione culture formali e istituzionalizzate tramite la ricerca teorica e scientifica e culture informali e autoprodotte in una miriade di esperienze dal basso. In questa prospettiva studiosi e studiose del mondo universitario, degli istituti di ricerca, o di realtà indipendenti, si incontrano e si confrontano con attivisti e attiviste, persone impegnate a costruire ogni giorno progetti, esperienze e pratiche concrete di cambiamento sociale, economico e politico. Riteniamo infatti che la ricerca teorica e le pratiche concrete debbano procedere attraverso uno scambio e un confronto continuo poiché linguaggi, saperi e immaginari producono cambiamenti profondi e pratici nelle nostre vite, mentre le esperienze, le prassi e le sperimentazioni sono di per sé impregnate di assunti teorici e producono continuamente nuove forme di riflessione e di conoscenza che vanno nominate e organizzate.
In secondo luogo l’orizzonte della decrescita si caratterizza per una pronunciata transdisciplinarietà. Quella della decrescita non è infatti una proposta semplicemente o principalmente economica. Anzi riteniamo che rinunciare al pensiero unico, o alle forme di riduzionismo significa anzitutto rinunciare a pensare per ambiti separati. Il mondo, la natura, le nostre vite non sono fatti di pezzi separati o di conoscenze separate e sconnesse. Abbiamo bisogno di un sapere plurale e polivalente che tagli, attraversi e intrecci discipline della vita e della terra, con discipline umane, culturali e sociali; discipline politiche ed economiche, con discipline del corpo, dell’arte e della comunicazione per realizzare quella che Gregory Bateson chiamava ecologia della mente o ecologia dei saperi[18] o che Roger Callois chiamava scienze diagonali[19]. Per affrontare le sfide che ci attendono abbiamo cioè bisogno di un sapere delle relazioni e delle interconnessioni.
La stessa parola “decrescita” non è una categoria che si può utilizzare ovunque ed essere spacciata come nuovo paradigma universalista. Questa parola nasce dalla storia dell’Occidente e parla in primo luogo del passaggio di civiltà che occorre fare in questa parte del mondo per ritrovare le forme di una vita buona, conviviale e soddisfacente. Ma la ricerca della buona vita si nutre di percorsi plurali. Ha bisogno di parole e visioni diverse a seconda dei territori, delle culture, delle condizioni di vita: a seconda dei luoghi si può chiamare decrescita, buen vivir, rigenerazione, sussistenza, ecc. Come ha scritto Serge Latouche: «Si potrà chiamare umran (realizzazione) come in Ibn Khaldun, swadeshi-sarvodaya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, botaare (star bene insieme) come tra i toucouleur, o fidnaa/gabbina (dispiegamento di una persona ben nutrita e libera da ogni preoccupazione) come tra i borana d’Etiopia, o semplicemente sumak kausai (vivere bene) come tra i quechua dell’Equador»[20].
Per questo motivo dobbiamo pensare al percorso da compiere nei termini di un incontro di soggetti, reti, movimenti e filoni di pensiero differenti e plurali che propongono un’idea di transizione, di trasformazione, di giustizia, solidarietà e sostenibilità che a nostro avviso si possono incontrare e confrontare anche criticamente con le idee della decrescita: le prospettive della sussistenza e del dopo sviluppo, i movimenti per la transizione, i movimenti ambientalisti, il femminismo e l’ecofemminismo, l’associazionismo culturale e sociale, i centri sociali, l’economia ecologica, il pensiero della complessità, le reti dell’Economia solidale, i movimenti per il consumo critico e il cambiamento di stili di vita, le esperienze dei Forum Sociali, i movimenti per l’Acqua pubblica, per i beni comuni, i movimenti contro il consumo di suolo, i movimenti per la riduzione dei rifiuti e per la salute ambientale, i movimenti per la sovranità alimentare, Slow Food, I movimenti per la giustizia ambientale, la Teologia della Liberazione e movimenti di impegno religioso, i movimenti per la democrazia partecipativa, i movimenti per il ripensamento del lavoro ecc.
Ci auguriamo che tutte queste esperienze possano contaminare e arricchire la riflessione sulla decrescita e che la proposta della decrescita possa contaminare e arricchire queste esperienze. Se vogliamo riuscire a dar vita a un movimento capace di cambiare davvero il mondo in cui viviamo, di realizzare una grande transizione verso una società più equa, solidale e sostenibile, abbiamo assolutamente bisogno di confrontarci con questa pluralità e più in generale con le differenze che abitano tra noi: differenze sessuali e di genere, di generazioni, di culture, di storie. Lo spirito che ci deve muovere non è quello di chi cerca di incontrare l’identico ma di chi vuole ascoltare e dialogare ricercando relazioni, connessioni e convergenze a partire da una comune tensione per un mondo migliore. Il futuro non è ovvio. In verità stiamo partecipando ad un movimento di trasformazione più grande e più profondo, che ora possiamo solamente intuire e che infine ci cambierà tutti.
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NOTE
[1]André Gorz, Ecologia e libertà, Éditions Galilée, Paris, 1977; trad. it., Ecologia e libertà, a cura di Emanuele Leonardi, Orthotes, Napoli, 2015, p. 40.
[2]La letteratura internazionale sulla decrescita è molto vasta e impossibile da riassumere. In lingua italiana si possono vedere fra l’altro: Jean-Louis Aillon, La decrescita, i giovani e l’utopia. Comprendere le origini del disagio per riappropiarci del nostro futuro, Edizioni per la decrescita felice, Roma, 2013; Denis Bayon, Fabrice Flipo, Francois Schneider, La decrescita. 10 domande per capire e dibattere, Asterios, Trieste, 2012; Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Marx e la decrescita. Perché la decrescita ha bisogno di Marx, Asterios, Trieste, 2010; Emiliano Bazzanella, Oltre la decrescita. Il tapis roulant e la società dei consumi, Asterios, Trieste, 2011; Jean-Claude Besson-Girard, Decrescendo cantabile. Piccolo manuale per una decrescita armonica, Jaca Book, Milano, 2007; Bruna Bianchi, Paolo Cacciari, Adriano Fragrano, Paolo Scroccaro, Immaginare la società della decrescita, Terra Nuova Edizioni, Firenze, 2012; Mauro Bonaiuti (a cura di), Obiettivo decrescita, Emi, Bologna, 2006; Mauro Bonaiuti, La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino, 2013; Paolo Cacciari, Pensare la decrescita. Sostenibilità ed equità, Carta/Edizioni IntraMoenia, Napoli, 2005; Paolo Cacciari, Decrescita o barbarie, Edizioni Carta, Roma, 2008; Alain De Benoist, Comunità e Decrescita. Critica della ragion mercantile, Arianna Editrice, Bologna, 2006; Paolo Ermani, Valerio Pignatta, Pensare come le montagne. Manuale teorico pratico di decrescita per salvare il Pianeta cambiando in meglio la propria vita, Terra Nuova Edizioni, Firenze, 2012; Giuseppe Giaccio, La decrescita. Un mito post-capitalista, Diana, Frattamaggiore, 2013; Angela Giustino Vitolo e Nicola Russo, Pensare la crisi. Crescita e decrescita per l’avvenire della società planetaria, Carocci, Roma, 2013; Anselme Jappe, Serge Latouche, Uscire dall’economia. Un dialogo fra decrescita e critica del valore: letture della crisi e percorsi di liberazione, Mimesis, 2014; Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2007; Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008; Serge Latouche, Mondializzazione e decrescita, Dedalo, Bari, 2009; Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, Bollati Boringhieri, Torino, 2011; Giovanni Mazzetti, Critica della decrescita, Edizioni Il Punto Rosso, Milano, 2014; Maurizio Pallante, La decrescita felice, Editori Riuniti, Roma, 2005; Maurizio Pallante (a cura di), Un programma politico per la decrescita, Edizioni per la decrescita felice, Roma, 2008; Maurizio Pallante, Meno è meglio. Decrescere per progredire, Bruno Mondadori, Milano, 2011; Valerio Pignatta, L’insostenibile leggerezza dell’avere. Dalla decrescita alla pratica: la decrescita nella vita quotidiana, Emi, Bologna, 2009; Nicolas Ridoux, La Decrescita per tutti, Jaca Book, Milano, 2008; Filippo Schillaci, 2013, Un pianeta a tavola. Decrescita e transizione alimentare, Edizioni per la decrescita felice, Roma; Fabrizio M. Sirignano, Pedagogia della decrescita. L’educazione sfida la globalizzazione, Franco Angeli, Milano, 2012; Gianni Tamino, Paolo Cacciari, Adriano Fragrano, Lucia Tamai, Paolo Scroccaro, Silvano Meneghel, Decrescita. Idee per una civiltà post-sviluppista, Sismondi Editore, 2009.
[3]Fra le altre cose si pensi anche al tema emergente dei terremoti stimolati dalle nuove tecniche di estrazione degli idrocarburi, come il fracking.
[4]Cfr. John Vidal, “La guerra per l’acqua”, (The Guardian)Internazionale, n. 1059, 11 luglio 2014, p. 18-19.
[5]Michael Klare “Il circolo vizioso”, Internazionale n. 891, 1 aprile 2011, p. 39.
[6]Marco Lagi, Karla Z. Bertrand, Yaneer Bar-Yam, “The Food Crises and Political Instability in North Africa and the Middel Est”, New England Complex Systems Institute, http://necsi.edu/research/social/food_crises.pdf
[7]L’indice FAO è una media dei prezzi globali di cereali, olii, carne, latticini e zucchero,
[8]Nafeez Mosaddeq Ahmed, “Why food riots are likely to become the new normal“, The Guardian, march 6, 2013, http://www.theguardian.com/environment/blog/2013/mar/06/food-riots-new-normal
[9]Lester R. Brown, 9 miliardi di posti a tavola. La nuova geopolitica della scarsità di cibo, Edizioni Ambiente, Milano, 2012, p. 35.
[10]Harald Welzer, Guerre climatiche, Asterios, Trieste, 2011, p. 207.
[11]Gwynne Dyer, Le guerre del clima, Tropea, Milano, 2012.
[12]Welzer, op. cit, p. 239.
[13]Robert Engelman, “Oltre la sosteniblablablà”, in Worldwatch Institute, State of the World 2013. È ancora possibile la sostenibilità?, Edizioni Ambiente, Milano, 2013, p. 49.
[14]Ulrich Beck, Disuguaglianze senza confini, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 31-32.
[15]André Gorz, “L’uscita dal capitalismo è già cominciata” in Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009, p. 33.
[16]Miguel Beanasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 63.
[17]Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Boroli Editore, 2005, p. 78.
[18]Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 2000.
[19]Roger Caillois, L’occhio di Medusa. L’uomo, l’animale, la maschera, Raffaello Cortina, Milano, 1988.
[20]Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri, 2011, p. 122.
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Per mille vie prosegue la guerra contro i poveri. Dovremo aspettare che essi diventino la maggioranza in ogni luogo della terra perché la rabbia esploda? Cronaca di di Giuliano Santoro, commento di Tommaso Di Francesco e info della redazione de il manifesto, 11 maggio 2017
Cosa è e cosa non dovrebbe mai essere. Illuminante puntualizzazione sulla rigenerazione urbana che dovrebbe essere tenuta a mente nelle revisioni delle attuali leggi urbanistiche regionali. La città conquistatrice, 11 aprile 2017 (p. d.)
Si sottolinea spesso che se il terzo millennio presenta la sfida dell’urbanizzazione planetaria, al suo interno esistono tante altre sfide per nulla minori, prima fra tutte quel che si intende dire quando se ne parla. È il famigerato gioco delle «parole della città», su cui si impegnano folte schiere di azzeccagarbugli più o meno prezzolati (a volte solo altezzosamente ignoranti), per rigirare concetti come frittate, di solito azzerando o quasi gli sforzi di chi si impegna a studiare fenomeni ed escogitare politiche. Non sfugge al rischio ideologico e speculativo anche la «rigenerazione urbana», termine che nasce in sostanza nel quadro della deindustrializzazione delle città britanniche nella seconda metà del ‘900, e che apparentemente si caratterizzava in modo saldo e univoco. Che avrebbe dovuto significare, coerentemente? Facile: linee di intervento pubblico per riattivare la vitalità socioeconomica di aree cittadine fortemente colpite dalla disoccupazione, dalla dismissione, dal degrado complessivo da mancanza di investimenti, restituendo almeno in parte fiducia e prospettive agli abitanti. Questo doveva essere, la rigenerazione urbana, che in sé e per sé poteva anche comporsi di quote molto variabili, di quegli interventi a «riattivare la vitalità», ovvero certamente in qualche modo intrecciandosi con la riqualificazione edilizia e urbanistica, ma non per forza consistendo prevalentemente di quello.
Rigenerazione, riqualificazione, ricostruzione …
Del resto, perché mai qualcuno avrebbe dovuto prendersi la briga di coniare un termine nuovo, per descrivere una cosa vecchia e banale come le manutenzioni straordinarie, o nei casi più gravi la demolizione e ricostruzione edilizia? Per quello c’erano già consolidate denominazioni, dal restauro, al cosiddetto diradamento, fino al radicale urban renewal inventato dagli americani. Invece il termine nuovo stava nelle intenzioni a dire che nessuno voleva far passare necessariamente ruspe o imbianchini, idraulici e serramentisti nei quartieri, salvo all’interno di un programma nel quale la loro opera contribuisse al raggiungimento di quegli obiettivi: restituire vitalità locale, e magari innescare virtuosi processi di sviluppo. Ma non si erano fatti i conti con l’antica fede nell’edilizia come volano onnicomprensivo, nonché con l’idea piuttosto reazionaria (quella sì derivata dallo urban renewal pratico) che in fondo quelli non erano investimenti, ma spese di contenimento per una pressione sociale che si voleva in via di esaurimento. Chiudere la gente dentro qualche casetta un po’ risistemata, aspettando che la smettesse di pretendere altro, e magari lasciar speculare un po’ i privati interessati all’affare. È così che via via la «rigenerazione» ha cominciato a non rigenerare alcunché, riversando tutte le proprie risorse nelle trasformazioni edilizie e urbane, a volte addirittura nella sostituzione sociale detta propriamente gentrification. Che fare? Qui rispunta una idea «di sinistra» piuttosto ovvia, che però pareva essere sfuggita: ribadire i termini iniziali, manco fossimo in un Dizionario.
Tema, svolgimento
Ovvero che parlando di «rigenerazione» bisogna far riferimento a un marchio registrato, e che questa registrazione deve essere garantita, per esempio da chi eroga fondi e concede deroghe o facilitazioni. Cosa c’è di meglio, se non un vero e proprio «Manuale per avvicinarsi alla Rigenerazione dei Quartieri mettendo al centro i loro Abitanti»? Ci ha pensato l’amministrazione progressista della Grande Londra, specificando da subito che il vero processo Doc è quello applicato in modo circoscritto ai complessi di edilizia sovvenzionata per famiglie bisognose (ergo da rivitalizzare o garantire): lì dentro anche una relativa centralità dell’intervento edilizio, spesso giustificatissima per pregressa mancanza di investimenti in manutenzioni e adeguamenti, pare abbastanza ovvio metta al centro gli abitanti, le loro relazioni, e probabilmente anche la società urbana nel suo complesso. Gli obiettivi, molto tecnicamente parlando, sono qui riassumibili in tre grandi categorie: garantire abitazioni di qualità decorosa, magari anche sperimentando soluzioni innovative da vari punti di vista; rispondere alle nuove e vecchie domande residenziali e di composizione funzionale-sociale dei quartieri, dei servizi, degli equilibri con il contesto; migliorare complessivamente intere zone dal punto di vista socioeconomico e fisico, in modo diverso dal processo di valorizzazione immobiliare classico della «riqualificazione» privata. E fare tutto questo con più di un occhio di riguardo a grandi strategie di evoluzione metropolitana (per esempio dal punto di vista della mobilità sostenibile attraverso gli standard) e degli strumenti di programmazione del territorio. Con buona pace delle «visioni» di qualche riqualificatore a senso unico, in realtà mandato da chi vede un solo futuro per la città: farci molti soldi. Una visione poco progressista quest’ultima, no?
Spazi pubblici e gentrification. Piccola testimonianza dell'effetto High Line di New York. La riprendiamo un articolo del Chicago Tribune, nella traduzione (e dal sito) di Fabrizio Bottini. La Città Conquistatrice online, 1 aprile 2017
Nel 1991, mia nonna e le mie due zie — lavoratrici da poco immigrate dal Messico alla ricerca del Sogno Americano — decisero di comprarsi casa in un edificio ad appartamenti un po’ mal messo. Nulla di particolare a prima vista, tra i viali di Central Park e Armitage, ma a distanza di parecchi anni, di alti e bassi, l’appartamento significa molto ma molto di più. Nel raggio di tre isolati c’erano un negozio di liquori, un mercato, un tratto ferroviario abbandonato, e dopo vent’anni e più il negozio ha cambiato nome, nelle scuole si tengono seminari di aggiornamento multitematici, e la ferrovia abbandonata è stata oggetto di un progetto di riuso sul modello della High Line di New York. Un percorso dove passano a centinaia, a piedi, in bicicletta, sereni e tranquilli là dove io da ragazzina avevo assoluta proibizione di andare, nonostante fosse lì sotto casa. Dove le bande si ritrovavano a fumare, bere, e spararsi e ammazzarsi.
Con la realizzazione del nuovo percorso ciclabile e pedonale, il mio appartamento vale quattro volte quanto è stato pagato. Parrebbe una gran fortuna, salvo che ovviamente sono anche aumentate le tasse immobiliari. Lentamente le persone con cui sono cresciuta hanno cominciato ad andarsene, il flusso continua, e il mio quartiere si popola di estranei continua. Sparite tutte le case economiche nella zona di Logan Square, e lungo la strada 606 si tirano su nuovi condomini buttando giù man mano tutte le vecchie case: certo quella via non è in sé la causa o l’inizio della gentrification, ma è un punto in cui si catalizza. Passeggi per strada e vedi tutti questi uomini con la barba e i capelli lunghi. O quelle donne tutte vestite in modo culturalmente corretto. Entrano ed escono dalle caffetterie o dai ristoranti vegani, à dove c’erano negozi di liquori o botteghe messicane. Sugli angoli dove un tempo bighellonavano le bande di strada, adesso stanno cagnolini col cappotto e le babbucce.
Per tutta l’estate, l’autunno e l’inverno 2016 ho bussato alle porte a raccogliere firme per chiedere una delibera che impedisca l’espulsione delle famiglie, che mantenga abitazioni economiche. In genere tendo ad essere piuttosto fiduciosa, mi aspetto che la gente capisca, che condivida. Ma trovo anche parecchi ignoranti, fra gente piena di titoli di studio, che paga anche tremila dollari d’affitto al mese, ma non riesce proprio a cogliere le conseguenze della gentrification. Senti spessissimo frasi come «Beh, il quartiere adesso è più sicuro», oppure «Certamente le cose stanno molto migliorando», quando giri, ma sono cose che non significano nulla per una famiglia di quattro persone cacciata dalla casa dove ha abitato per vent’anni. Da quello che è già accaduto nell’area di Logan Square non si può certo tornare indietro, ma credo che contribuire a mantenere qui quelle famiglie, a mantenere diversificato il quartiere, debba essere una priorità anche per i nuovi che arrivano. Tutte le trasformazioni sulla strada 606 sono scelte del sindaco Rahm Emanuel, pensate senza badar molto a certe conseguenze, e quindi dobbiamo pensarci noi cittadini a opporci, a far qualcosa per chi ha costruito tutta questa vitalità, che deve essere mantenuta.
Dal Chicago Tribune, 1 aprile 2017 – Titolo originale: «An old train track» – traduzione di Fabrizio Bottini» – traduzione di Fabrizio Bottini
«Il vivere urbano è cambiato. Ma resta luogo di pratiche autoritarie e inique dovute al controllo dei dati. Un saggio adesso ci dice: è ora di riprenderceli». lettera43, 19 marzo 2017 (c.m.c.)
Come si abita oggi una città? Per orientarci ricorriamo a Google Maps; per avere suggerimenti su dove mangiare consultiamo TripAdvisor o Yelp; per cercare un posto dove dormire, AirBnb o Hostels.com; e così via. Basta riflettere un istante per riconoscere l’elusività di una linea che separi lo spazio materiale e quello digitale. In apparenza queste applicazioni sembrano del tutto innocue, meri servizi; ma nascondono delle dinamiche di controllo con pesanti ricadute sulla città “in carne e ossa”. Per valutare correttamente questo lato oscuro dell’informazione urbana, però, occorre un atteggiamento diverso nei suoi confronti.
La lezione di Lefebvre.
Nel 1968 Henri Lefebvre pubblicò un testo seminale al riguardo, Il diritto alla città (oggi edito in Italia da Ombre Corte). Secondo il sociologo francese si trattava di rivendicare una maniera di abitare ispirata all’autogestione e alle comunità cresciute dal basso. Invece di demandare sempre il controllo degli spazi alle autorità – che molto spesso si limitano a cercare accordi con le élite economiche – occorre riappropriarsene in prima persona, di quartiere in quartiere. Ora, è fuori discussione che ci sia bisogno di politiche inclusive e un approccio più egualitario. Il crescere delle diseguaglianze, la segregazione delle zone periferiche e la progressiva riduzione di spazi pubblici a favore di enti privati conferma tutta l’attualità di queste tesi. Ma come abbiamo visto e come verifichiamo ogni giorno estraendo uno smartphone per strada, il nostro modo di vivere la città è cambiato a un livello più profondo. Il che suggerisce un aggiornamento dell’intuizione di Lefebvre.
I nuovi diritti digitali legati al vivere urbano.
È quanto propone un gruppo di ricercatori americani nel recentissimo pamphlet Our digital rights to the city (Meatspace Press), curato da Joe Shaw e Mark Graham. Il breve volume, scaricabile gratuitamente online, raccoglie una serie di contributi ispirati al rapporto fra potere delle tecnologie e forme dell’abitare metropolitano. Se Lefebvre difendeva il «diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare, il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione», questi studiosi ne aggiungono un altro ancora. Il diritto digitale, appunto: la possibilità di gestire i propri dati relativi al vivere urbano, invece di darli in pasto a Google & Co.; e ribadire la politicità di queste informazioni.
Il pregio principale del saggio è quello di affrontare questi temi con grande chiarezza e incisività. Un buon esempio è il paper di Valentina Carraro e Bart Wissink (The Jerusalems on the map). Secondo gli accordi di Oslo (1993), Gerusalemme è ancora sotto gestione internazionale e non appartiene né a Israele né a un futuro Stato palestinese. Ma se cercate “Gerusalemme” su Google, l’infobox a destra dice che è la «capitale di Israele»: consolidando la descrizione proposta da Wikipedia e ratificando così un potere non riconosciuto in teoria, ma esercitato nella pratica. Per Carraro e Wissink è una dimostrazione della politicità delle mappe, che vanno molto al di là di una rappresentazione neutra di come stanno le cose. A questo si può opporre un tipo alternativo di cartografia, certo. Il progetto collaborativo e open source OpenStreetMap fornisce un campo aperto di discussione, dove gli utenti possono ridefinire costantemente la mappa stessa. E tuttavia, anche OpenStreetMap risente delle diseguaglianze: il fatto che si possa discutere non significa che tutte le opinioni siano equamente considerate. Tant’è che la comunità di questo progetto è largamente a favore di Israele.
La logica del controllo colonizza la vita quotidiana.
Passando dalla geopolitica all’abitare, il saggio di Jathan Sadowski propone un interessante esperimento mentale. Il palazzo dove vive il sociologo ha installato un tornello elettronico a ogni ingresso: purtroppo la chiave non funziona bene e lui è rimasto più volte chiuso fuori casa. Questa pratica, secondo Sadowski, illustra la «logica del controllo che colonizza la vita quotidiana, riempiendola di posti di blocco che regolano l’accesso e rafforzano l’esclusione»: il problema è che ce ne accorgiamo solo quando questi sistemi si ritorcono contro di noi; quando le password smettono di funzionare.
Ci aspetta un futuro dispotico?
Pensate all’idea stessa di smart city: un luogo dove le infrastrutture sono connesse alla rete, e degli algoritmi su vasta scala lo rendono più efficiente in termini di mobilità e servizi. Tutto molto bello, ma sotto la narrazione pacificata e cool si nasconde altro: la raccolta di dati relativi ai cittadini esprime anche un forte bisogno di monitoraggio. A tal proposito, Sadowski propone due scenari per il futuro. Forse un domani sarà impossibile accedere in un negozio se non si hanno soldi sufficienti sulla carta di credito; o non potremo entrare in una certa zona se il nostro “punteggio di sicurezza” non è abbastanza alto e veniamo classificati come minacce. I fan di Black Mirror, la serie tivù di Charlie Brooker, avranno riconosciuto una variazione sul tema: e proprio come in Black Mirror, non si tratta di remota fantascienza. Ma di un’ipotesi molto realistica. Che fare, dunque?
Non si tratta di allinearsi agli sforzi di Snowden o WikiLeaks, bensì dichiarare che l’informazione verrà organizzata autonomamente dagli abitanti .
Una proposta è offerta da Mark Purcell nel suo contributo. Invece di limitarsi a una percezione liberale del diritto digitale alla città, è necessario considerarlo come parte di un progetto politico più vasto e di matrice antagonista. Non si tratta di allinearsi agli sforzi di Snowden o WikiLeaks, bensì dichiarare che l’informazione verrà organizzata autonomamente dagli abitanti.
Un esempio concreto sono gli attivisti che riscrivono dati e mappe nelle città indiane per garantire a tutti – anche agli strati della popolazione ignorati dallo Stato – un autentico accesso ai servizi. Oppure la comunità Lacan di Los Angeles, che documenta gli abusi polizieschi nei quartieri in modo da fornire prove per chi desidera fare ricorso. Come riassume Taylor Shelton, si tratta di gestire i dati in modo da «aiutare a produrre letture dei problemi urbani che non stigmatizzino ulteriormente i quartieri già emarginati, ma che invece ne situino i problemi all’interno di un più ampio contesto storico, geografico e politico-economico».
Ogni nostro dato può generare profitto.
Come sempre, la frattura è tra chi accumula potere e numeri e chi invece ne è deprivato, spesso in maniera silenziosa o surrettizia. Del resto, anche gli strumenti più banali ricordati in apertura – Maps, TripAdvisor, Yelp – non sono certo opera di benefattori per agevolare la vita quotidiana. Come sottolinea Kurt Iveson in Digital labourers of the city, unite!, queste applicazioni gratuite richiedono da parte nostra un lavoro altrettanto gratuito che viene sfruttato su base quotidiana. I nostri movimenti, i nostri like, le nostre ricerche: ogni singolo dato è assorbito per generare profitto.
In conclusione, il diritto digitale alla città si compone di tante diverse richieste: una migliore conoscenza delle rappresentazioni urbane; la libertà nel gestirle senza deleghe; un’eguaglianza che sia materiale e digitale allo stesso tempo; la possibilità di agire sul territorio al di là della governance istituzionale. Per chi vede gli spazi comuni della metropoli come una semplice serie di servizi – la rete di trasporti, le strade, le piazze – non è nulla di troppo importante. Ma per chi ritiene che l’abitare sia qualcosa d’altro e di più prezioso si tratta di un tema particolarmente urgente.
(Questo articolo è tratto dal nuovo numero di pagina99, '"quante tasse pagano in Italia Google & co", in edicola, in digitale e in abbonamento dall'18 al 24 marzo 20).
Benedetto Vecchi intervista Saskia Sassen. Nella sua analisi la sociologa sottolinea le nuove rapaci iniziative di sfruttamento messe in atto dal capitalismo della globalizzazione, soprattutto nel dominio della finanza. il manifesto, 18 marzo 2017, con riferimenti
L’esclusione di parti rilevanti della popolazione mondiale dalla vita attiva è la triste realtà del presente e degli anni a venire. È la tesi di Saskia Sassen, sociologa della globalizzazione e delle città globali, distillata nei suoi ultimi due libri – Territorio, autorità, diritti (Bruno Mondadori) e Espulsioni (Il Mulino) -. E se il primo offre una riflessione sul rapporto dinamico tra globale e locale, il secondo analizza le caratteristiche del capitalismo estrattivo, categoria o figura delle tendenze emergenti dell’economia mondiale, dove l’espulsione di popolazioni dai luoghi dove hanno sempre vissuto e il land-grabbing sono elementi di una pratica diffusa di appropriazione privata di ricchezze naturali, conoscenza.
L’espropriazioni di regioni africane, asiatiche e anche europee per darle alle imprese multinazionali dell’agro-alimentare, il saccheggio delle risorse naturali sono elementi ricorrenti nelle cronache del capitalismo estrattivo. Qui è la finanza il protagonista di una espropriazione di ricchezza che non ha antecedenti nella storia. Una analisi, quella di Saskia Sassen, che delinea un futuro dove la tendenza all’espulsione della popolazione ha il contorno di una apocalisse sociale.
La lettura dei saggi usciti recentemente vedono invece Saskia Sassen impegnata nel contrastare una lettura riduzionista della globalizzazione – una parentesi destinata a chiudersi – per affinare la critica appunto del capitalismo estrattivo che non ama l’isolazionismo e contrasta il nazionalismo economico. Intervistarla è un’avventura che alterna incontri vis-à-vis (a Roma durante un suo passaggio) e numerosi scambi di mail per registrare precisazioni al fine di sgomberare il campo da possibili equivoci.
Uno dei refrain dei media recita che la globalizzazione è arrivata al capolinea con il ritorno al centro della scena dello stato nazione. Come interpreta questa fase dell’economia globale?
«Siamo nel pieno di un sommovimento globale, dovuto alla crisi economica e al rafforzamento del capitalismo che qualifico come estrattivo che sta plasmando una nuova geografia del potere mondiale. In questa nuova geografia del potere si sono formate zone intermedie tra globale e locale che hanno costituito lo spazio dove globale e locale hanno perso l’opacità che li contraddistingueva per diventare momenti distinti ma interdipendenti l’uno con l’altro. Sono «spazi di frontiera» che non hanno nulla a che fare con la geografia, ma sono i luoghi, le dinamiche che portano a prendere decisioni che travolgono l’operato tanto delle istituzioni sovranazionali che di quelle nazionali e locali.
«Nel tempo, sono saltate le vecchie divisione tra Nord e Sud del pianeta, tra Est e Ovest, tra paesi centrali e paesi periferici del capitalismo. Sia ben chiaro non sono scomparse, bensì saltate nel senso che non sono più centrali. Non è quindi rilevante stabilire se ritorna o no lo stato-nazionale, che ha già subito trasformazioni negli assetti costituzionali, negli equilibri tra potere giudiziario, legislativo, esecutivo per essere in linea con le necessità dell’economia mondiale. Ha ceduto cioè parte della propria sovranità su un determinato territorio.
«Nell’esercizio della governance mondiale sono semmai centrali gli "spazi di frontiera" ai quali ho fatto riferimento. Piegano ai loro voleri la sovranità nazionale e le regole definite internazionalmente per quanto riguarda i flussi finanziari, i diritti umani, la tutela ambientale. Contribuiscono inoltre a plasmare una nuova e tuttavia mutevole divisione internazionale del lavoro».
Donald Trump ha vinto le elezioni facendo leva sul patriottismo. Indica la Cina e l’Europa come ostacoli dell’economia statunitense. Ha promesso di far tornare in patria il lavoro decentrato al di fori degli Stati Uniti dalle imprese americane. Possiamo considerare Trump un presidente che vuole la deglobalizzazione? O più realisticamente come il presidente del declino degli Stati Uniti come unica superpotenza mondiale?
«Per il momento, non posso dire se Donald Trump sarà il presidente del declino americano. È presto per dirlo. So però che ha preso decisioni pericolose dal punto di vita del loro contenuto razzista. Non ho mai immaginato che questo potesse accadere, ma invece è accaduto. Negli Usa viviamo una situazione di smarrimento, incredulità che forse anche voi in Italia avete avuto con Berlusconi: soltanto che quel che ha fatto il leader di Forza Italia è un gioco da ragazzi rispetto a quanto promette di fare Trump.
«Le sue posizioni non sono amate dalle élite liberali. È cosa nota, ma non possiamo però ignorare il fatto nel recente passato i liberal non si sono opposti efficacemente alla crescita della povertà e che non hanno fatto molto per affermare politiche a sostegno della classe operaia e del ceto medio: tutti elementi che Trump dice invece di voler fare».
Nel libro Espulsioni, il capitalismo estrattivo si caratterizza per depredare le ricchezze di una nazione e poi abbandonare il paese. Questo potrebbe andare bene per quanto riguarda alcune risorse naturali – il petrolio e altre risorse naturali. Il discorso diventa più complicato per quanto riguarda il land-grapping, la biodiversità, la proprietà intellettuale. Ma se ci si sofferma sui Big data, la tesi del capitalismo estrattivo come brutale pratica predatoria diventa problematica. Facebook, Google, Amazon non abbandonano mai il campo perché i dati sono prodotti dall’attività on line di uomini e donne….
«Il land-grapping, la biodiversità, la proprietà intellettuale, le piattaforme digitali possono certo essere considerati esempi di capitalismo estrattivo, ma è la finanza il modello emergente di capitalismo estrattivo sia rappresentato dalla finanza.
«Le attività bancarie offrono servizi, ma sopratutto prestano danaro e per questo si fanno pagare degli interessi. Fin qui tutto normale. Diverso è invece il caso dei nuovi servizi finanziari finalizzati ad estrarre valore da ogni attività economica, sia che riguarda la produzione, la distribuzione che la vendita di merci e servizi.
«Il cuore dello stile economico occidentale ha visto uno spostamento da un paradigma dove erano centrali la produzione e il consumo di massa a una realtà dove la capacità di spesa dei singoli o delle famiglie è oggetto di attenzione da parte delle imprese finanziarie, che puntano a sfruttare proprio questa capacità di spesa per produrre redditi e profitti. In anni recenti si è molto scritto e letto della privatizzazione dei servizi sociali, del credito al consumo. Bene, la finanza estrae valore dal consumo, dall’accesso monetario all’acquisto di servizi sociali, ma anche dal finanziamento delle imprese, dalla borsa, dal debito pubblico degli stati. Le imprese finanziarie hanno sviluppato sofisticati strumenti per ognuno di questi aspetti e quando la vena del valore si sta esaurendo, lasciano il campo, indifferenti alla povertà, all’implosione del legame sociale, financo al fallimento degli stati nazionali. E’ un cambiamento radicale rispetto il passato».
Questa rapacità della finanza ha caratteristiche nichiliste, non crede?
«Mi interessa sottolineare il cambiamento di prospettiva. Il consumo è stato sempre parte integrante del capitalismo, ma siamo di fronte a una radicalizzazione del suo ruolo. Lo stesso vale per la finanziarizzazione del welfare state, che in passato era prerogativa dello Stato nazionale. Ora sono i singoli e le famiglie che devono comprarsi, indebitandosi con le imprese finanziarie. Gli stati nazionali hanno visto tuttavia crescere il loro deficit e per evitare il collasso e il fallimento hanno fatto ricorso alle imprese finanzarie. Questo significa che gran parte dell’entrate fiscali vanno a pagare gli interessi sul debito. Siamo cioè di fronte a una forma estrema di capitalismo estrattivo.
«Gli strumenti sviluppati, il software usato, i dispositivi messi in campo riguardano infatti tutte le forme di capitale. Questa è la dinamica che sta cambiando la globalizzazione degli ultimi venti anni. Non credo quindi che stiamo entrando in una fase di deglobalizzazione, ma di un suo mutamento. Il problema è come immaginare delle risposte a tutto ciò. E su questo il ritardo è immenso. Ma non dico che è impossibile colmarlo».
Dalle Città globali alle Espulsioni .
Docente alla Columbia University, Saskia Sassen è la teorica delle Città globali, come recita il volume che l’ha resa nota a livello mondiale. Ha pubblicato anche Fuori controllo (Il Saggiatore), Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa (Feltrinelli), Le città nell’economia globale (Il Mulino), Globalizzati e scontenti (Il Saggiatore), Una sociologia della globalizzazione (Einaudi), Territorio, autorità, diritti» (Bruno Mondadori), Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale (Il Mulino)
Riferimenti
Numerosi articoli di Saskia Sassen sono raccolti, in eddyburg, li trovate digitando il suo nome e cognome nella finestra sensibile in cima a ogni pagina, a sinistra della piccola lente
«Proteste e reazioni negative alla proposta di sottoscrivere un contratto per 99 anni dell'atollo di Faafu per investimenti turistici. Una "città" per le élite mondiali. India fortemente contraria». la Repubblica online, 10 marzo 2017. con postilla.
L'annuncio di una possibile vendita all'Arabia Saudita di un grande atollo delle Maldive ha già provocato molte reazione negative, non solo nell'arcipelago ma anche sul fronte delle relazioni politiche internazionali. L'idea del re saudita, Salman, è quella di sottoscrivere un contratto di affitto per 99 anni dell'atollo di Faafu, composto da 18 isole, per investimenti turistici.
Nei progetti i sauditi, che hanno già ottenuto un pre-accordo con il presidente maldiviano Yameen, vorrebbero costruire sull'atollo "una città di prima classe" per le élite mondiali con servizi all'avanguardia, università, e ospedali. Le indiscrezioni su una possibile vendita di Faafu, dove abitano circa 6mila persone, sono bastate per scatenare le proteste dell'opposizione. "In altri tempi - ha affermato Ahmed Naseem, esponente del partito democratico maldiviano - vendere terra delle Maldive agli stranieri sarebbe stato considerato alto tradimento e punito con la pena di morte".
Ma quello che più preoccupa sull'arcipelago è il pericolo che Riad voglia usare i suoi investimenti per diffondere ancora di più alle Maldive la sua dottrina religiosa wahhabita, interpretazione molto conservatrice dell'Islam. Alle Maldive i sauditi già finanziano borse di studio e vorrebbero esportare insegnanti per le scuole islamiche locali. Il presidente maldiviano, che due anni fa ha fatto approvare un emendamento alla Costituzione per permettere agli stranieri di possedere terre sugli atolli, risponde che si tratta di esagerazioni. Per il presidente Yameen, l'Arabia Saudita sta solo cercando di diversificare i suoi investimenti per ridurre la dipendenza dal petrolio.
Ma nel nome di questa nuova alleanza con Riad, il governo delle Maldive è visto con sempre maggiore diffidenza dall'India e ha praticamente rotto le relazioni diplomatiche con l'Iran. Quest'ultimo è stato un favore a Riad che subito dopo la rottura dell'arcipelago con Teheran, nell'estate del 2016, ha concesso alle Maldive un prestito da 150 milioni di dollari per realizzare nuove infrastrutture, tra le quali c'è anche l'ammodernamento del principale aeroporto della capitale Malè. Alle Maldive l'Islam è religione di Stato ma lo scivolamento verso la versione più fondamentalista promossa dai sauditi preoccupa non soltanto i suoi vicini.
postilla
Lì, alle Maldive, protestano. Se invece i sauditi cambiassero idea e volessero impadronirsi delle isole veneziane dell'Idroscalo, Sant'Andrea e Vignole, che si stanno vendendo al miglior offerente, magari nel regno di Brugnaro troverebbero qualche mugugno e molti applausi.
«Spazi urbani. Un’intervista a Neil Brenner, autore del volume "Stato, spazio, urbanizzazione". Il nazionalismo economico nutrito da xenofobia e populismo come risposta allo tsunami della crisi. Oggi l'intervento del teorico statunitense all'Università di Roma 3». il manifesto, 8 marzo 2017 (p.d.)
Il libro sarà presentato oggi al Dipartimento di architettura – Ex Mattatoio – Aula Libera dell’Università Roma 3 (ore 16, Largo Giovanni Battista Marzi 10). L’intervista che segue si è costruita con diversi momenti e incontri. Dallo scambio estemporaneo su Internet alle pazienti spiegazioni e chiarimenti dell’autore.
Con la svolta neoliberale, le metropoli diventano le piattaforme produttiva che non distingue più tra vita e lavoro. È nelle città che sono governati i flussi di capitale, conoscenza, uomini e donne. La finanza diviene inoltre centrale nella ristrutturazione urbana. Non come rendita, ma come momento di governo del regime di accumulazione. Alcuni studiosi hanno scritto espressamente che, con il neoliberismo, l’uso capitalistico del territorio raggiunge il suo acme. Cosa pensa di questa tendenza?
Con la crisi del 2007, assistiamo a uno tsunami a livello globale. La città, nuovamente, è il luogo dove si manifesta. E se ci sono studiosi che parlano dell’esistenza di metropoli globali come piattaforme dell’economia mondiale, altri focalizzano l’attenzione sul «pianeta degli slums». Più prosaicamente assistiamo alla crescita di nuove metropoli e al declino di altre…. ?
«Questo processo di distruzione dello spazio pubblico sono fenomeni strettamente connessi alla riduzione generalizzata del lavoro a "servitù automatizzata", dell’istruzione ad "addestramento tecnologico", della democrazia a "partecipazione controllata"». La Città invisibile, 4 marzo 2017 (c.m.c.)
«Ogni cinque giorni la popolazione urbana nelle città del mondo aumenta di un milione», ci avvertono i tecno-ecolocrati, con la gravità di chi sta pronunciando una sentenza di condanna e con la sicurezza di chi sta riconoscendo un’inesorabile legge della storia.
Sullo sfondo di questa neutra minaccia, come uno scenario naturale, c’è la compiuta attualizzazione di ciò che J.C. Michéa ha chiamato la distruzione delle città in tempo di pace: l’ipertrofia globale del sistema suburbano, la trasformazione dello spazio cittadino in un’alternanza delirante di tristi periferie, quartieri residenziali «senza misura», capannoni e centri commerciali come templi per la terapia del consumo al dettaglio, snodi e svincoli stradali per movimentare l’irrinunciabile traffico automobilistico, con l’opzionale coreografia di centri storici trasformati in vetrine hi-tech e “parchi giochi” per turisti, videosorvegliati come prigioni a cielo aperto.
In tutto ciò si mettono in opera inedite contrazioni e convergenze, così che non è più possibile distinguere tra i tanti termini in circolazione: tecnopoli, megalopoli, conurbazione, etc. La “città globale” cresce con il “pianeta urbano”, la metà dell’umanità che consuma oltre l’ottanta per cento delle risorse energetiche e che abita agglomerati tenuti insieme per mezzo di dispositivi di mobilità e interconnessione, delocalizzazione e rilocalizzazione, decomposizione dei quartieri e riorganizzazione delle relazioni spaziali dietro le spinte dello “sviluppo” economico e del mercato della “sicurezza”.
Questo processo di distruzione dello spazio pubblico e la conseguente giustapposizione cumulativa di ambienti privatizzati e flussi sorvegliati, sono fenomeni strettamente connessi alla riduzione generalizzata del lavoro a «servitù automatizzata», dell’istruzione ad «addestramento tecnologico», della democrazia a «partecipazione controllata», dei servizi pubblici a «servizi d’interesse generale», insomma a tutte le componenti attive della guerra condotta dal modo di produzione dell’economia politica contro l’uomo, le sue attività pratiche, la sua ragione socializzata, il suo “mondo comune” come spazio di permanenza e di azione, che nasce proprio nella culla della città e che vi trova la sua naturale protezione.
Ma se questa guerra ha trovato fino a tempi recenti una sua espressione primaria nella ricorrente modificazione strategica dell’ambiente architettonico urbano, negli smembramenti e nelle compartimentazioni che organizzavano e delimitavano le aree di pertinenza e di appartenenza delle diverse classi sociali, oggi, sotto il vessillo della scarsità delle risorse e dell’emergenza ambientale, la Banca mondiale e i connessi “organismi internazionali” sperimentano nuovi modi d’intervento centrati in modo privilegiato sulle metropoli cosiddette “emergenti”, per farne dei modelli operativi a vocazione universale.
Com’è attestato con chiarezza dalla “crisi” in corso, l’effettivo movimento socio-tecno-economico – di persone, cose, dati, denaro, petrolio, acqua, elettroni, etc. – sul quale si basa il meccanismo d’incessante modificazione-perpetuazione del modo di produzione, si avvale oggi di una massa di popolazione largamente inferiore a quella che abita l’intero pianeta.
Ci sono dunque città “utili”, e città che non lo sono. Le prime sono quelle maggiormente suscettibili di “attirare gli investitori”, innanzitutto perché offrono infrastrutture come strade scorrevoli, aeroporti, servizi di “interesse generale” e di “alta qualità” (alias con elevato grado di automazione e interconnessione digitale); hanno almeno un’università in grado di mettere a disposizione esperti nei settori chiave delle tecnologie integrate al modo di produzione, in particolare nel campo dei “big data”, dei “sistemi distribuiti”, del “data intelligence”, dell’erogazione di “servizi smart”, e via innovando; inoltre garantiscono produttività, mobilità e adattabilità al cambiamento della mano d’opera; sono in grado di migliorare la “raccolta di risorse” interrompendo i “cicli di dipendenza”, ad esempio smettendo di sovvenzionare l’abitazione e i servizi urbani per abbandonarli eventualmente al mercato privato; assicurano garanzie di “pace sociale” dando prova di una governance efficace nella gestione della messa in scena della partecipazione; infine, ma è un aspetto primario, sono provviste di un grado sufficiente di “eco-sostenibilità”, soprattutto sul piano energetico.
I conglomerati urbani o suburbani in grado di garantire in misura sufficiente tali caratteristiche sono detti «città intelligenti» o, nell’imperante gergo anglico, smart cities (dove l’aggettivo smart risuona anche di altri significati tra cui “alla moda”, “abile”, “malizioso”). Le dieci grandi città attualmente classificate le più “intelligenti” del pianeta sono Copenaghen, Tel Aviv, Singapore, New York, Barcellona, Oslo, Londra, San Francisco, Berlino, Vancouver. Ma molte altre ambiscono a questo marchio. E così Seul prepara un piano di “crescita verde”. Abu Dhabi ha avviato da alcuni anni un progetto di città satellite sostenibile ad emissioni zero, Masdar City, in grado di accogliere cinquantamila residenti e altrettanti pendolari le cui condizioni di vita, logistiche e ambientali, siano monitorate e regolate nei minimi dettagli. Al momento appare però un deserto in mezzo al deserto, animato solo dall’onnipresente ronzio di un’enorme torre del vento per il condizionamento dell’aria, un nonluogo già costato quasi venti miliardi di dollari ma frequentato solo dagli addetti alla sicurezza e alle pulizie.
Già da qualche anno, la proverbiale filantropia internazionale dell’Ibm (nota ad esempio per la fornitura di macchinari e assistenza tecnica necessari ad “automatizzare” la gestione dei campi di sterminio nazisti) ha avviato la Smarter Cities Challenge, una selezione tra varie città in tutto il mondo, sulla base della solerzia dei loro amministratori nel volersi consegnare alla tecnocrazia di “ultima generazione”, per irrorarle di esperti, innovazione tecnologica e sovvenzioni al fine di renderle, appunto, smarter.
Tra queste, Birmingham, che sta cercando di riconvertire il proprio centro storico in un paradiso del commercio digitale a banda larga ultraveloce; e Siracusa, che dovrebbe cercare di «conciliare tecnicamente le diverse anime del territorio»: industria petrolchimica e turismo di qualità. E, curiosamente, anche Accra, la città del Ghana nota per un suo suburbio che “accoglie” ogni anno milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici dall’occidente, che poi vengono bruciati dagli abitanti per ricavarne metalli rivendibili. Si dà il caso che recentemente vi sia stato scoperto anche un consistente giacimento di petrolio.
Così, solo le “città intelligenti” – adattabili ai sempre nuovi scenari globali perché “messe in forma” con i principi dello “sviluppo sostenibile” – potranno restare “competitive” ed eventualmente sopravvivere alle diverse catastrofi che la crescita incessante della popolazione mondiale urbanizzata insieme alla crescente scarsità o deperibilità delle risorse (acqua, energia, etc.) ci promettono. E parrebbe precisamente questo il loro scopo. In tutto ciò s’intravede poi anche un elemento di circolarità, un mulinello che si avvita su se stesso, e che esprime eloquentemente il tipo di “dinamica” che sostiene oggi il sistema socio-tecnoeconomico.
È evidente, infatti, che la possibilità di accedere allo status “smart” sarà tanto maggiore quanto più le condizioni di partenza sono “vergini”, cioè quanto più radicalmente la tradizionale dimensione urbana – che in questo contesto non può rappresentare altro se non un inutile ostacolo alla “modernizzazione” – sarà stata smembrata e annientata, e la maniera più efficace per raggiungere in tempi brevi condizioni di questo tipo, a meno di non progettare una “città” da zero, è evidentemente quella di passare attraverso una “catastrofe”, ad esempio un disastro naturale come un forte terremoto o una devastate inondazione, oppure un disastro di natura tecnologica, ad esempio nucleare, o ancora un bombardamento o una guerra civile, con le connesse condizioni di paralisi e di trauma psichico collettivo che in questi casi investono la popolazione sopravvissuta per lungo tempo, mettendola nelle condizioni “ottimali” di poter accettare l’inaccettabile.
Gli esempi si moltiplicano. Gli abitanti di New Orleans, sparpagliati e deportati anche in Stati lontani, dopo che alcuni anni fa l’uragano Katrina aveva colpito la loro città, hanno scoperto che le loro case, le loro strutture pubbliche, gli ospedali e le scuole, non sarebbero mai state riaperte o ricostruite. A loro posto, si sta ri-pianificando una nuova città intelligente, un paesaggio “verde” e “neutro”, in cui l’ingegneria sociale, coadiuvata dagli esperti dell’Ibm, si cimenta nella gestione controllata di tutti i “parametri vitali”: la circolazione, il consumo energetico, l’inquinamento, la “comunicazione”, la “salute dei cittadini”, etc. Un destino simile è ampiamente prevedibile per la regione di Fukushima, in Giappone, dove, tra le altre cose, la bioingegneria è già al lavoro per mettere a punto nuove specie di riso in grado di crescere in terreni impregnati di radioattività.
Più vicino a noi, l’occasione per fare “prove di smart city” arriva dalla città-non-più-città dell’Aquila, dopo la completa disgregazione del tessuto sociale e lo spopolamento del territorio che hanno seguito il devastante terremoto del 6 aprile 2009. Il progetto, avviato nel 2012 dall’Ocse e sostenuto dallo Stato italiano, prevede la trasformazione dell’Aquila in un «laboratorio vivente», dove «sistemi energetici intelligenti», «moderne tecnologie edilizie» e «nuovi materiali» possano essere usati per «la progettazione di nuovi luoghi di vita» e per «celebrare e valorizzare la storia della città»; in cui «possono essere creati luoghi di lavoro moderni, creativi e flessibili, che siano adatti a nuovi modelli di business», così che «tutti gli spazi e i luoghi nuovamente progettati e ricostruiti diventerebbero delle vetrine volte a dimostrare l’applicazione inequivocabile di queste innovazioni, e, in quanto tali, diventerebbero parte integrante dell’offerta turistica, parallelamente ai beni ambientali, culturali e storici già esistenti».
Società come Ibm, TechnoLab e Telecom sono operativamente coinvolte nell’esperimento, che tra l’altro ha già trovato due gemellaggi “intelligenti” nelle città di Lorca in Spagna, anch’essa vittima di un violento terremoto nel maggio del 2011, e di Mostar in Bosnia, simbolo della guerra civile nella ex-Jugoslavia. Le amministrazioni delle tre città hanno sottoscritto «un patto di amicizia volto a condividere un programma di ricostruzione basato su modelli ecocompatibili, all’insegna del risparmio energetico, della mobilità sostenibile e della sicurezza». Gli esiti a medio termine dell’esperimento aquilano sono per altro tristemente immaginabili: una vetrina di facciate pseudo-antiche, falsificate e rese “sensibili” dal maquillage nanotecnologico, dietro le quali c’è solo la città invisibile del turismo affaristico e del controllo sociale. I “cittadini”, ovunque risiedano, restano altrove, dissolti in uno spazio senza storia.
Peraltro, laddove ve ne siano le condizioni e le risorse, questi esperimenti a cielo aperto per testare le “nuove tecnologie” nella gestione della sopravvivenza possono essere fatti anche su un terreno integralmente vergine, in cui gli abitanti umani sono solo virtuali. E anche qui la storia si ripete, seppure con mutevoli sembianze: il 5 maggio 1955, una bomba atomica da 31 chilotoni (circa il doppio di quella sganciata dieci anni prima sulla città vivente di Hiroshima) fu fatta esplodere su Survival City, una città fantasma costruita appositamente dall’esercito degli Stati Uniti nel deserto del Nevada e completamente equipaggiata di abitanti-manichini, derrate alimentari, acqua corrente ed elettricità, e con telecamere installate in posizioni strategiche per registrare i dettagli dell’esplosione. Tra gli obiettivi dell’esperimento, la messa a punto dei parametri di costruzione dei rifugi antiatomici.
Oggi, la società privata Pegasus Global Holdings, sta progettando un’altra città fantasma nello stato del New Mexico, chiamata The Center for Innovation, Testing and Evaluation, allo scopo di testare il grado di penetrazione e di efficacia dell’innovazione tecnologica integrata – la convergenza di nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione e scienze cognitive – nella gestione di una “città ideale”, inserita in un contesto di emergenza socio-ambientale permanente e totalmente depurata dalle scorie della storia. La presenza di abitanti in carne ed ossa, in questo caso, non è prevista, non perché verrebbero inceneriti da un’esplosione, ma perché non sono, letteralmente, necessari a definire il “contesto urbano”.
In una “città ideale” come questa, infatti, e in misura progressiva anche nelle città dove è in corso un processo di riconversione come quelli sopra descritti, la “gestione sociale” non avverrebbe più per mezzo dei dispositivi “classici” di inclusione-esclusione (partecipazione rappresentativa, organizzazione architettonica, polizie pubbliche e private, videosorveglianza, etc.) ma giungerebbe soprattutto dalla completa smaterializzazione dello spazio pubblico: un luogo esiste solo in quanto è provvisto di coordinate geografiche e di un’identità anagrafica digitale, divenendo così una location (le coordinate geografiche creano la connessione tra lo spazio fisico e il suo corrispondente digitale anagrafico) e così l’intero spazio fisico esiste solo in quanto è posto in corrispondenza con un’infrastruttura invisibile che ne determina in modo univoco le caratteristiche e l’agibilità controllata.
Chi è privato della possibilità di stabilire una “connessione” con tale infrastruttura, non “esiste” e, viceversa, tutto quanto lo circonda si riduce a una spettrale città fantasma.
Per riprendere il luminoso pensiero degli impiegati del progresso e sacerdoti della servitù volontaria citati in apertura:
«questi meccanismi di base aprono scenari di innovazione e creatività immensi», visto che «stabilita la connessione, lo smartphone mette a portata di un clic, o meglio di un touch, il “contesto” che riguarda il luogo in cui ci troviamo, lo spessore dell’identità anagrafica di quel luogo, fatto di informazioni, foto, video, recensioni, commenti, dati e creando la possibilità di interazione sociale “connessa” a quel luogo. Questo grazie ai metadati di georeferenziazione delle informazioni […] geolocalizzarsi è la chiave di accesso al contesto che ti circonda».
La fine della città e dello spazio pubblico che essa protegge porta con sé anche la fine della ragione, mettendo a nudo una volta di più che, come ha scritto Hannah Arendt in una lettera a Karl Jaspers nel 1946: «si tenta in modo organizzato di sterminare la nozione di essere umano».
«Più cemento, meno centro è l’era della post-metropoli. Gli ultimi studi e un convegno internazionale“ Oltre la metropoli”rilanciano il tema dei nuovi assetti urbanistici». la repubblica, 7 marzo 2017 (c.m.c.)
L’urbanizzazione del pianeta procede e avanza a ritmo incessante. Un’immagine satellitare che abbraccia l’intero globo e che registra l’intensità delle luci accese documenta quanta superficie terrestre occupi l’espansione urbana. Un tappeto luminoso si distende fra la California e la penisola della Kamchatka, con isole nette e nebulose sfumate, copre l’India, molta Cina, l’Africa meridionale e le coste sudamericane. Ma sono città tutti gli spazi dai quali provengono i bagliori?
La domanda rimbalza da anni nel settore degli studi urbani e interpella architetti e urbanisti, sociologi, geografi ed economisti. E l’abituale identificazione fra l’urbano e la città vacilla, fino a cadere fiaccata: possono diffondersi nel territorio case, anche palazzi, centri commerciali e centri logistici, stabilimenti industriali e paradisi del divertimento, possono distribuirsi (quando va bene) infrastrutture, strade e linee ferroviarie. Ma non è detto che questo faccia città — e città distinta nettamente dalla non-città.
Il fenomeno va avanti da qualche decennio. Ma faticano le sistemazioni teoriche e, soprattutto, è incerto come si possa fronteggiare un processo che genera affanno, spreco, alimenta individualismi e solitudine. Insorge l’espressione post- metropoli, coniata dal geografo Edward Soja, scomparso nel 2015. Un analista coinvolto su questo fronte d’indagine è il sociologo Neil Brenner, docente ad Harvard, fra i più innovativi e anche radicali analisti delle trasformazioni urbane, alle quali oppone l’idea che «un’altra urbanizzazione è possibile, alternativa a quella imposta dall’ideologia neoliberista». Di Brenner, che spesso si richiama alla Scuola di Francoforte, è uscita in Italia una raccolta di saggi ( Stato, spazio, urbanizzazione, introduzione di Teresa Pullano, Guerini associati, pagg. 190, euro 18,50) e Brenner stesso è atteso a un convegno domani a Roma.
Brenner punta a dimostrare come l’urbanizzazione investa l’intero globo e sia figlia di un capitalismo fortemente finanziarizzato. Ma non basta ad attestarlo la migrazione di popolazione verso i centri urbani, che una stima Onu colloca oltre il 75 del totale nel 2050. No, insiste Brenner, a parte l’attendibilità dei dati, occorre cambiare prospettiva «perché è la città che è esplosa. Ed è anzi azzardato parlare di città riferendosi a quelle forme di urbanizzazione che un po’ si concentrano, un po’ si diradano, si spalmano in maniera non pianificata o secondo logiche economiche, tutte private, ma che non è più possibile ripartire fra urbano, rurale e persino periferico».
Centro e periferia, per esempio, è una coppia di concetti che perde peso. Questa urbanizzazione avviene mescolando funzioni diverse «residenziali, ma non solo, ci sono reti infrastrutturali e di trasporto, stabilimenti industriali inquinanti, discariche», spiega Brenner. «Non esiste un modello unico», aggiunge il sociologo, «la mia intenzione è di provocare una riflessione generale su quali forme assume l’urbanizzazione planetaria».
E in Italia? Alessandro Balducci, urbanista del Politecnico di Milano, per un anno assessore nella giunta Pisapia, ha avviato una ricerca insieme ad altre università (Piemonte orientale, Iuav di Venezia, Firenze, La Sapienza a Roma, Alghero, Federico II di Napoli, Palermo). Ne è nato un Atlante (www.postmetropoli.it) che mostra come, in maniera differente che altrove e con marcate diversità al suo interno, anche in Italia si assiste a un’espansione dell’urbano che non fa città (già dagli anni Novanta si parla di “città diffusa”, grazie agli studi di Francesco Indovina e Bernardo Secchi). «È però preoccupante», lamenta Balducci, «che una delle forme di governo più recenti di queste realtà, le aree metropolitane, sia completamente inadeguata. Pensiamo nel XXI secolo di governare con strumenti del XX secolo entro confini del XIX».
Ma quali indicazioni fornisce l’Atlante? «Una condizione post- metropolitana caratterizza le regioni che hanno conosciuto una fase metropolitana in passato », spiega Balducci. «Penso a Milano e, in misura diversa, a Napoli. Qui l’urbanizzazione non si dirada a mano a mano che si esce dal centro e anche dalla periferia novecentesca, andando verso i nuovi insediamenti. Proliferano nuove centralità in luoghi periferici, e la popolazione è anziana, si riducono i componenti del nucleo familiare e c’è un forte incremento di immigrati, tutti fenomeni che fino a ieri avevano caratterizzato solo le aree centrali dei contesti metropolitani».
Diversa è la situazione in Veneto o in Toscana, dove, sostiene Balducci, «non c’è mai stata una fase metropolitana e prevale una forma “polinucleare”». Il Veneto è uno dei primi laboratori della “città diffusa”, con una crescita dissennata dell’edificato che ha saturato molti spazi, ora intasati di capannoni vuoti. Qui, ma anche in Toscana, le urbanizzazioni «attraversano i confini delle vecchie province», dice Balducci, «e non sono né Firenze né Venezia il fulcro intorno al quale ruotano le dinamiche territoriali».
Altra storia ancora è quella di Roma, messa a fuoco in un volume di saggi curato da Carlo Cellamare, docente alla Sapienza ( Fuori raccordo, Donzelli, pagg. 357, euro 34) che applica alla capitale il tema della post-metropoli. Una capitale in cui intorno al Grande raccordo anulare, il Sacro Gra indagato da Niccolò Bassetti e portato al cinema da Gianfranco Rosi, è cresciuta un’urbanizzazione che conta un milione di abitanti.
All’inverso di Milano o di Napoli, più ci si allontana dal centro più i nuovi insediamenti si diradano fino a toccare densità talmente basse da non essere più pertinenti a una dimensione di città. Una densità che non consente un decente livello dei servizi, in particolare del trasporto pubblico. Fallimentare è stato il tentativo di costruire nuovi centri direzionali. Mentre, ricorda Giovanni Caudo, urbanista di Roma 3 ed ex assessore con Marino, «in tutti i comuni della provincia di Roma e in quelle di Viterbo, Terni e L’Aquila, si sono trasferiti centinaia di migliaia di romani, creando un insediamento fatto di cerchi concentrici, attraversati da un pendolarismo quotidiano».
Non c’è città meno città di Roma, dove più di un terzo delle persone vive in una sommatoria di brandelli. E dove si registra un’altra delle condizioni analizzate da Brenner: l’aumento del disagio e delle diseguaglianze che producono conflitti e, appunto, insiste il sociologo, «la richiesta di un “diritto alla città” — una città come spazio comune, prodotta e condivisa da tutti, tendenzialmente più egualitaria e democratica. Per questo penso che il progetto di subordinare l’assetto urbano a una logica di puro profitto è sempre controverso e contraddittorio e incontra una crescente resistenza ».
Il Convegno“Oltre la metropoli” s’intitola il convegno di domani ( Aula Magna di Roma Tre, ore 9.30) al quale partecipa Neil Brenner.
«Palestina. L’albergo voluto dall’artista denuncia una barriera ormai dimenticata dalla comunità internazionale. Tra gli strumenti dell’occupazione israeliana c’è la distruzione dell’economia palestinese».il manifesto, 5 marzo 2017 (c.m.c.)
Una signora porta una pianta, suo marito saluta cordialmente il manager dell’hotel, Wassim Salsaa, che dispensa il benvenuto agli invitati che accedono al “The Walled Off Hotel”, l’hotel dello street artist britannico Banksy. Tutti sorridono lasciandosi alle spalle i lastroni di cemento armato, decorati con slogan politici, manifesti, imprecazioni e frasi di speranza, che compongono questa sezione del Muro israeliano che circonda Betlemme.
Proprio all’ingresso, una nicchia ricorda Lord Balfour mentre nel 1917 promette la Palestina al popolo ebraico. Nella hall di stile vario, con alle pareti riproduzioni e originali di opere di Banksy, tra le decine di persone presenti gira una domanda: mescolato tra di noi c’è anche il famoso graffitaro? La lente di ingrandimento è su un paio di uomini, alti e con uno spiccato accento british. Ma il mistero resterà irrisolto per tutta la sera. Banksy sa custodire il suo anonimato e i suoi collaboratori palestinesi hanno lavorato per oltre un anno all’hotel lontano dagli occhi dei media.
Al secondo piano, in una sala ampia e ben illuminata, sono esposti i lavori di pittori palestinesi: Tayseer Barakat, Khaled Hourani, Slyman Mansour e altri ancora. Alcuni di loro sono giù nella hall. Poi comincia un breve intrattenimento artistico, utile a spiegare il “The Walled off Hotel”. Ad un certo punto, su di uno schermo, appare Elton John live da Los Angeles. Wassim Salsaa sostiene che il cantante britannico si esibisce anche in onore di questo piccolo albergo in Palestina. Scattano gli applausi.
Eppure le attrazioni della serata restano la stanza decorata dallo stesso Banksy e il murales che ritrae un palestinese e un poliziotto israeliano che si prendono a cuscinate. Si provano sentimenti contrastanti girando per questo hotel che, come ha ripetuto Wassim Salsaa in questi giorni, «ha la vista più brutta del mondo». Come dargli torto. I lastroni del Muro sono a pochi metri dalle finestre del “The Walled Off Hotel”.
Inevitabile porsi degli interrogativi. Questo albergo è una iniziativa artistica o commerciale? Ha un significato politico o è figlio di quella superficialità occidentale che sempre più spesso avvolge la questione palestinese? È una denuncia sincera della barriera israeliana o proprio quei lastroni di cemento finiscono per renderlo trendy?
Probabilmente è tutto questo e anche altro, con gli amministratori palestinesi che appaiono un po’ meno interessati ai contenuti rispetto allo stesso Banksy che a Betlemme ha donato la sua guerrilla art per condannare l’orrore del Muro.
Lo street artist un paio d’anni fa è stato anche a Gaza, per lasciare i suoi graffiti sui ruderi delle case abbattute dai raid israeliani. E non passa inosservato, accanto all’hotel, il negozio dove è possibile acquistare magliette, poster, souvenir con le immagini dei lavori del graffitaro iconoclasta. Si dice che l’hotel voglia favorire il dialogo fra israeliani e palestinesi e riportare i riflettori su Betlemme, la città della Natività che, soffocata dal Muro, non riesce a sfruttare il suo potenziale turistico e le capacità dei suoi noti artigiani del legno d’olivo.
Sarebbe già tanto se riuscisse a persuadere i giornalisti italiani a non definire il Muro che divide Betlemme da Gerusalemme e dalle campagne circostanti, sempre e soltanto come una «barriera anti-terroristi» e a considerare quanta terra questa “opera” ha sottratto alla Cisgiordania per annetterla di fatto a Israele e i danni che ha causato a decine di migliaia di palestinesi, specie gli agricoltori, spesso riducendoli alla fame.
Gli abitanti di Betlemme non hanno un giudizio unico del “The Walled Off Hotel”. Molti lo apprezzano, altri alzano le spalle, altri ancora lo ignorano. A Banksy comunque tutti i palestinesi dovranno dire grazie per aver riportato attenzione sul Muro.
Quei 700 km di cemento e reticolati che dal 2002, come un serpente, si incuneano nella Cisgiordania restano per i palestinesi il jidar al fasl al unsuri, il muro della separazione razziale. Ormai non se ne parla più, non fanno più notizia le manifestazioni settimanali che a Bi’lin e in altri villaggi contro quel mostro di cemento. Negli anni passati, oltre a Banksy, altri artisti, come Roger Waters dei Pink Floyd, hanno denunciato il Muro. Poi più nulla o quasi.
Ed è caduto nell’oblio il parere emesso il 9 luglio 2004 dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia: «L’edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale». Nel 2017 un piccolo hotel e un artista di strada riaprono il caso.
Ampia rassegna di ricerche e articoli, prevalentemente statunitensi, sul ruolo delle città, della rendita immobiliare e delle politiche urbane nel capitalismo dei nostri anni. Intervento introduttivo al seminario "Le piattaforme delcapitale", Milano, 3-4 marzo. EuroNomade, 3 marzo 2017
Vorrei partire da un libro di recente uscita intitolato The Complacent Class: The Self-Defeating Quest for the American Dream (New York, 2017) scritto da Tyler Cowen, un economista mainstream di orientamento conservatore (nel libro simpatizza apertamente con l’amministrazione Reagan degli anni Ottanta), noto per animare uno dei blog di economia più letti negli Stati Uniti. Nel libro l’autore sostiene che la società statunitense, e in particolare il suo ceto medio, ha perduto il dinamismo e la smania per il cambiamento (la restlessness) che la ha animata fin dalla fondazione della nazione americana.
Gli statunitensi non si muovono più come un tempo da uno stato all’altro in cerca di migliori opportunità di realizzazione personale, come hanno fatto fino agli anni Settanta del Novecento, a differenza degli europei visceralmente legati alla propria città natale; non cambiano lavoro come un tempo e hanno smarrito lo spirito imprenditoriale che li caratterizzava: a dispetto della retorica sul tema, il numero di imprese start-up – fa notare Cowen – è in costante diminuzione negli Stati Uniti, perfino nel decantato tech sector, il settore tecnologico che ha fatto parlare del tech boom 2.0 negli anni successivi alla “grande recessione”, dal 2010 a oggi.
L’autore manca di offrire un’analisi di perché ciò sia avvenuto. Il suo saggio, in linea con la tradizionale vena moraleggiante degli economisti conservatori, non offre soluzioni di public policy ai problemi di immobilità sociale che mette in evidenza, ma finisce per l’appunto con lanciare una strigliata morale alla nazione americana, colpevole di crogiolarsi in un apparente benessere dove in realtà sotto le ceneri covano sentimenti di frustrazione e risentimento sociale portati alla luce dall’elezione di Donald Trump.
In un articolo apparso in The Atlantic nel novembre 2015 (in era pre-Trump dunque) intitolato “Why the Economic Fates of America’s Cities Diverged” (Perché i destini delle città americane hanno iniziato a divergere) Phillip Longmann ha offerto un’accurata riflessione sulle cause dei crescenti divari regionali, in termini di distribuzione della ricchezza e del reddito, negli Stati Uniti: secondo lui, tali divari sono da attribuire alla mancanza di una politica di riequilibrio territoriale come quella che aveva orientato la politica economica federale nei decenni post-bellici, nell’era pre-neoliberale. I divari regionali sono ben evidenziati dai differenziali nei prezzi delle case tra le varie città.
L’elite di città che si sono poste alla testa del technology boom post-recessione hanno visto un’impennata dei prezzi (San Francisco, New York, Boston, Washington, Seattle, in parte Chicago e Los Angeles), mentre quelle che sono rimaste ai margini o del tutto escluse da tale fenomeno (ossia la stragrande maggioranza dei centri urbani americani) hanno avuto mercati immobiliari stagnanti. Queste ultime oggi attirano coloro che non possono più permettersi di vivere nelle città investite dal boom tecnologico. Per la prima volta – Longmann fa notare – gli americani si muovono non più alla ricerca di migliori opportunità di lavoro (cioè di più elevati salari) ma di un luogo più a buon mercato, con più bassi costi della vita, anche se ciò comporta mettere da parte le proprie aspirazioni di mobilità sociale.
Tale fenomeno riflette la dinamica ben illustrata da Michael Hardt e Antonio Negri in Commonwealth: i real estate values, ossia i prezzi immobiliari, sono direttamente proporzionali all’attrattività dei luoghi, in termini di esternalità positive (concentrazione di imprese e università innovative, governi dinamici, servizi efficienti etc.) come le chiamano gli economisti. È quel che abbiamo sotto gli occhi anche qui a Milano, la città italiana dove si osserva meglio il fenomeno della gentrification: l’ad di Starbucks ne ha tessuto nei giorni scorsi le lodi come “città modello”, nel motivare la scelta di aprire la prima sede in Italia della famosa catena di caffetterie.
In queste città d’elite si concentrano le imprese tecnologiche start-up, le comunità di pratiche innovative (i cosiddetti “imprenditori urbani” di nuova generazione: dai citymakers ai fablab), oltreché i servizi rari per le imprese, come avevano mostrato i primi analisti delle città globali già negli anni Novanta (da Saskia Sassen a Peter Taylor).
Nel resto dei centri urbani, si tira avanti, si raccolgono le briciole, covando quella “politica del risentimento” che vediamo esemplificata nell’esplosione del fenomeno del nazional-populismo nelle sue diverse manifestazioni: dai 5 Stelle a Brexit e a Trump. Alcuni teorici della sinistra, come Jodi Dean, autrice di The Communist Horizon, giungono a sostenere l’idea che la sinistra debba smettere di guardare alle grandi città trendy, dove la politica alternativa si è ridotta a pratiche fondamentalmente borghesi come la cura degli orti urbani e la filosofia del cibo a km zero, e debba concentrarsi invece sui piccoli centri, quelli rimasti ai margini dello sviluppo economico, dove appunto si alimenta il rancore sociale.
Ma a livello politico è realistica l’indicazione di Dean? Sempre a proposito degli Stati Uniti c’è un bel libro della politologa Katherine Cramer The Politics of Resentment: Rural Consciousness in Wisconsin and the Rise of Scott Walker (Chicago, 2016) che esplora la cultura del risentimento sociale nelle aree rurali e suburbane del Wisconsin, alla base dell’ascesa del governatore ultra conservatore Scott Walker, dove i repubblicani hanno tradizionalmente una presenza egemonica. È realistico pensare che la sinistra ricominci da questi territori? La spettacolare Women’s March del gennaio scorso ha in realtà mostrato la potenza delle città per quella che Andy Merrifield ha chiamato “politics of encounter”, la crowd politics, la politica della moltitudine diciamo noi che ha avuto nel 2011 il suo momento più alto e che la marcia delle donne ha riportato all’attualità.
Detto questo, vorrei tornare sul punto principale: perché una ristretta elite di città e grandi centri urbani svolge tale ruolo di catalizzatore del progetto di “imprenditorializzazione della società e del sé”, già intuito da Michel Foucault, rappresentato dal fenomeno del tech boom di imprese start-up di cui si diceva e dal connesso fenomeno della sharing economy ufficiale per cui tutti diventiamo un po’ imprenditori di noi stessi (anche se non lo siamo ufficialmente)?
Certamente esistono i fattori immateriali di cui si diceva prima: l’attrattività della location, per dirla in breve. Ma se vogliamo sfuggire a un’analisi meramente socio-culturale del fenomeno, vale a dire basata sui comportamenti e sulle preferenze individuali del consumatore o del lavoratore, che si avvita su se stessa e alla fine asseconda la politica neoliberale dominante, come quella offerta da Richard Florida nel famoso The Rise of the Creative Class (secondo il quale la classe creativa sceglie di vivere nei centri urbani più tolleranti e culturalmente predisposti verso minoranze, talenti e tecnologia), allora dobbiamo volgere il nostro sguardo per l’appunto al platform capitalism di cui si parla nel convegno.
Come ha ben illustrato Nick Srniceck nel suo libro recente sul tema (Cambridge, 2016), il movente essenziale delle imprese capitalistiche di piattaforma è la raccolta di ingenti masse di dati. Le grandi città e aree metropolitane, e in particolare i centri urbani divenuti egemoni nell’immaginario collettivo, funzionano da “laboratori viventi” (living labs) per le imprese chiave della nostra economia: per “i nuovi profeti del capitale”, come li ha chiamati Nicole Aschoff, che parlano da filantropi mentre fanno affari nel nome del “bene comune”.
Per questa ragione, Microsoft e Google approdano nelle favelas di Rio de Janeiro, affermando di voler far emergere il talento imprenditoriale oggi soffocato dalla povertà, distribuendo smartphone agli abitanti e digitalizzando la vita urbana. Per la stessa ragione, Amazon oggi utilizza Seattle per testare i gusti dei consumatori in previsione di una sua esplorazione di nuovi sbocchi di mercato, nel campo del cibo e dell’abbigliamento. Ma lo stesso fanno le imprese start-up.
Ne ho avuto conferma recentemente intervistando il rappresentante italiano di un’impresa start-up francese operante nel campo della mobilità urbana, impegnata ormai da vari anni nell’internet of things, ossia nel rendere connessi gli oggetti alle persone per monitorare i loro spostamenti e le loro forme di vita: «non ci interessano i piccoli centri, ci interessano le grandi città, le metropoli affollate di persone», ha dichiarato. È nelle grandi città che i “profeti del capitale” così come le start up emergenti ritrovano le forme di vita in comune da cui traggono linfa essenziale per il proprio business, oltreché in molti casi l’ambiente istituzionale, sociale e culturale che consente loro di svilupparsi e costruire la propria narrazione di “felicità”.
Il platform capitalism e i collegati fenomeni della smart city e della start-up city in tal senso offrono potente dimostrazione del passaggio, segnalato da Gilles Deleuze poco prima della sua morte, alla scala urbana da una società disciplinare, fondata su meccanismi centralizzati come i “grandi eventi” e i “grandi progetti” (la recente crisi economica e politica brasiliana, all’indomani di Olimpiadi e Mondiali, è una prova della crisi del “mega-evento” come propulsore di sviluppo economico), a una società del controllo fondata sulla dispersione dei meccanismi di coinvolgimento sociale e valorizzazione, ma oggi tenuta insieme dalla rendita del comando capitalistico, in particolare da quello che qui chiamiamo “capitalismo delle piattaforme”.
Podemos ha fallito nell' obiettivo per mezzo delle elezioni generali. Tuttavia, da Barcellona a Madrid, passando per Valencia e Saragozza, le forze progressiste critiche hanno conquistato molti municipi strategici. Ma cambiare il sindaco permette di cambiare il mondo? il manifesto, "Le Monde diplomatique", 25 febbraio 2017 (c.m.c.)
Nella piazza del Pilar si erge una montagna di fiori e di crocifissi; è metà ottobre, periodo in cui si svolge l’annuale festa di Saragozza. Le strade sono invase da turisti e i grandi magazzini sono pieni: non ci troviamo di fronte ai soviet o alla presa di un Palazzo d’inverno iberico. Qui, come a Madrid, Barcellona o ancora Valencia, le elezioni municipali del maggio 2015 sono state vinte da una «coalizione di unità popolare» formata da militanti dei movimenti sociali e da diversi partiti di sinistra. Malgrado le grida di terrore lanciate dai conservatori, angustiati da questi successi, la rivoluzione mantiene un basso profilo. «Non si può cambiare una città in un anno e mezzo», dichiara Guillermo Lázaro, coordinatore del gruppo municipale della coalizione Zaragoza en Común (Zec) (1).
Prima di aggiungere che, malgrado le promesse di progresso sociale assicurate dai programmi elettorali, la popolazione sembra aspirare più all’allontanamento della «casta» che all’abolizione della proprietà privata: «La gente non si aspettava un reale cambiamento delle condizioni di vita, ma piuttosto l’accesso al governo di persone normali, simili a sé».
A Santiago di Compostela, la piattaforma vincente Compostela Aberta («Compostela aperta») è nata da «un disgusto», ci spiegano Marilar Jiménez Aleixandre e Antonio Pérez Casas, rispettivamente portavoce e militante della coalizione. «Appena un anno dopo la sua elezione, il precedente sindaco, il conservatore Gerardo Conde Roa, è stato condannato per frode fiscale». Altri due amministratori si sono susseguiti nel corso di un mandato scandito dai processi giudiziari; da qui il soprannome attribuito alla città di «Santiago de Corruptela».
Questa crisi della rappresentanza politica, motore del movimento 15-M (sorto il 15 maggio 2011 a Madrid), ha favorito la nascita di coalizioni eteroclite, che rinnovavano il profilo dei tradizionali esecutivi: «Compostela Aberta è in parte composta da ex militanti dei grandi partiti, ma non solo, affermano Jiménez Aleixandre ePérez Casas. Molti dei suoi membri non avevano mai fatto politica prima o provenivano dalle associazioni di vicini (2), dal movimento femminista o sindacale, dai collettivi di lotta contro la speculazione immobiliare, ecc. Vi si trovano anche personalità, scrittori, rappresentanti del mondodella cultura, oltre a persone coinvolte nel 15-M». E non tutti si definiscono «di sinistra».
La denominazione «comuni Podemos» (dal nome del partito costituito nell’ottobre 2014), utilizzata dagli avversari e da una parte della stampa, non tiene conto dei rapporti complicati, spesso conflittuali, che queste squadre intrattengono con la giovane formazione. Del resto, «al di là delle differenze tra noi e le altre coalizioni municipali, abbiamo un presupposto comune, osserva Jiménez Aleixandre: non ci concepiamo come dei partiti. La maggior parte dei tradizionali partiti di sinistra dà la priorità agli interessi dei propri nuclei dirigenti: mantenere il posto, senza il minimo dialogo con i militanti. Anche all’interno di Podemos si osserva un’evoluzione simile. Noi sperimentiamo diverse forme di organizzazione per dare la priorità al nostro programma».
Mano nella mano o faccia a faccia?
Quale? Da una città all’altra, strategie specifiche si affiancano a diversi propositi comuni: democrazia, ripartizione della ricchezza, riduzione del peso della Chiesa, riappropriazione dei servizi pubblici, diritti delle donne, ecc. A pochi minuti dall’inizio del nostro incontro, il sindaco di Santiago di Compostela, Martiño Noriega Sánchez, si alza: «Scendo in cortile, ci avvisa. Osserviamo un minuto di silenzio ogni volta che una donna muore per le percosse di un uomo». In questa città di quasi centomila abitanti, parallelamente a iniziative del genere, assistiamo al ripristino di un centro d’accoglienza per le donne vittime di aggressioni, ma anche a campagne di sensibilizzazione per dare visibilità alla loro lotta. Il 25 novembre, data che le Nazioni unite hanno individuato come Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la città si è tinta di nero e, su autobus e vetrine, è comparsa la scritta «Contra a violencia».
Al suo ritorno, il sindaco ci espone il piano per le prestazioni sociali entrato in vigore a ottobre e a cui spera si ispirino altri governi. «“Compostela Suma” è il programma più ambizioso che a oggi sia stato presentato. Abbiamo firmato degli accordi con alberghi, associazioni, come la Croce rossa, e sbloccato i fondi per dare riparo ai senza fissa dimora, utilizzando edifici del comune mai destinati prima a questo scopo». Il programma prevede di aiutare gli abitanti considerati «troppo ricchi» per accedere ai sussidi di inclusione sociale della Galizia (Risga). Noriega Sánchez non nasconde, inoltre, il proprio sostegno ai lavoratori in sciopero che hanno preso parte alle grandi giornate di mobilitazione dei lavoratori precari e in subappalto presso Telefónica, il principale operatore di telecomunicazioni spagnolo.
Tra i bersagli delle nuove squadre municipali ci sono alcuni simboli. A Barcellona, la ricomparsa di una statua decapitata del generale Francisco Franco ha turbato i conservatori.
Per l’Epifania, il 6 gennaio 2016, il sindaco di Valencia ha fatto gridare allo scandalo per la sostituzione di alcuni Re magi con delle regine. Provocazioni gratuite? Si tratta piuttosto di una critica alle eredità franchiste e cattoliche, eco dell’ideale repubblicano del 15-M, che continua ad aleggiare sulle manifestazioni spagnole, per mezzo della bandiera viola, gialla e rossa (i colori della seconda repubblica spagnola, 1931-1939).
Dopo aver definito il programma e vinto le elezioni, bisogna governare. L’ingresso nell’istituzione di ex militanti associativi abituati, per averli spesso subiti, a rapporti conflittuali con le squadre municipali ha provocato un cambio di atteggiamento del nuovo potere locale verso il settore associativo. «Constatiamo la volontà di includerci nei processi decisionali, afferma compiaciuto Enrique «Quique» Villalobos, presidente della Federazione regionale delle associazioni di vicini di Madrid (Fravm). Ottenere le informazioni è diventato più facile. Può sembrare poca cosa, ma è un passo enorme, perché quando si entra in possesso delle informazioni, è possibile formulare delle rivendicazioni. I conflitti che attualmente ci oppongono al comune sono stati favoriti dal comune stesso!»
Lavorare mano nella mano, ma senza rinunciare al faccia a faccia: per i collettivi militanti, la collaborazione con i propri ex compagni impone la preservazione della propria indipendenza, per «mantenere alta la pressione». Perché il miglioramento dei rapporti tra gli attori delle sfere pubbliche e politiche non garantisce progressi sociali, così come la cordialità non è sinonimo di collaborazione. «Il nostro sguardo sulla prima fase del governo di Barcelona en Comú è contrastante, dichiara Daniel Pardo, membro dell’Assemblea dei quartieri per un turismo sostenibile (Abts). Si sono aperti degli spazi di dialogo, mentre prima le questioni legate al turismo erano competenza esclusiva dell’istituzione, in stretto rapporto con i professionisti del settore: i secondi decidevano e la prima firmava. Ma siamo decisamente sorpresi nel vedere che lanostravoce, a difesa dell’interesse pubblico, è messa sullo stesso piano del parere di un qualsiasi albergatore».
Nell’ottobre 2016, in un giorno di consiglio municipale, Carlos Macías, portavoce della Piattaforma delle vittime del credito ipotecario (Pah) di Barcellona, in compagnia di una ventina di militanti riconoscibili per le magliette verdi e gli slogan allegri, manifesta davanti alcomune. È appena stata adottata una mozione che sostengono da lunghi mesi. Denuncia una clausola per l’indicizzazione degli interessi di alcuni prestiti immobiliari su un indice il cui metodo di calcolo è stato rivisto in maniera molto favorevole alle banche da una legge di settembre 2013. La vicenda riguarderebbe più di un milione di prestiti e molte famiglie si troverebbero nell’impossibilità di pagare la rate a causa del gravoso costo aggiuntivo frutto di questa disposizione, regolarmente giudicata illegale dai tribunali.
Ormai, a Barcellona, il comune si impegna a non lavorare più con le banche che la utilizzano e a fornire un aiuto amministrativo alle vittime. Tuttavia, su scala nazionale, il ruolo dei comuni è limitato: nel migliore dei casi, possono chiedere al governo spagnolo di modificare la legge, di adottare un sistema di prestiti a tasso zero e di rimborsare tutti gli interessi illecitamente riscossi dalle banche. Di che far tremare i grandi gruppi finanziari. «So che è altamente improbabile che il comune smetta di lavorare con questi istituti finanziari, confessa Macías. Rimarrebbero solo due banche, tutt’al più, e nessuna che possa concedere prestiti.
Ma sono convinto che si debba continuare a fare pressioni affinché la squadra municipale non si arrenda».
Non abbandonare la lotta, questa sarebbe la priorità. «Barcelona en Comú o Podemos hanno una responsabilità: quella di un discorso coerente, prosegue Macías. Se il messaggio che viene mandato ai propri elettori è: “Va tutto bene, calmiamoci, siamo arrivati al potere e sistemeremo ogni cosa”, vuol dire che nel corso degli ultimi quarant’anni non abbiamo imparato nulla». Le nuove squadre sostengono di essere consapevoli del rischio: «Non vogliamo assolutamente ripetere l’errore del 1982, quando la vittoria del Psoe [Partito socialista operaio spagnolo] ha portato allo sgretolamento del movimento sociale, rassicura Luisa Capel, membro della squadra di comunicatori di Ahora Madrid («Madrid ora»). Allora, la sinistra aveva scelto la logica della democrazia rappresentativa, e noi abbiamo perso potere nelle piazze. Questa situazione si è protratta durante gli anni 1990, con effetti devastanti. Ci auguriamo che il movimento sociale mantenga il proprio ruolo per aiutarci a portare avanti la nostra politica.Dall’altra parte, non smettono certo di eserciare pressioni».
«Tecnica di profanazione delle istituzioni»
Tuttavia, quest’invito provoca alcune tensioni. A Barcellona, si concentrano sulla lotta contro il turismo di massa, punto forte del program- ma di Barcelona en Comú. Nell’estate 2015, il sindaco Ada Colau, ha adottato una moratoria di un anno (prorogata fino al giugno 2017) sulle licenze per l’apertura di nuovi spazi ricettivi, in attesa di mettere a punto una politica di lungo termine in una città in cui tutti i quartieri subiscono le conseguenze del turismo di massa. Se la moratoria – a scapito dei rappresentanti del settore – offre una risposta alla prima delle esigenze dell’Abts, il Piano speciale urbanistico per gli alloggi turistici (Peuat) che la accompagna ha provocato forti critiche da parte dell’associazione.
Questa normativa, di cui si sta ancora discutendo per via del susseguirsi di un centinaio di emendamenti, prevede la definizione di quattro zone urbane. Nel centro, zona detta di «decrescita naturale», non verrebbe autorizzata alcuna nuova costruzione alberghiera, e le strutture esistenti non potrebbero essere ingrandite o sostituite qualora l’attività dovesse cessare; nella seconda zona, verrebbe mantenuto lo status quo; invece, si permetterebbe l’attribuzione «sostenibile» di licenze nei quartieri periferici della terza e della quarta cintura, con delle restrizioni in funzione della superficie e del numero di posti delle strutture. «Sappiamo che questo progetto è quanto di più coraggioso sia stato proposto per Barcellona, ma sappiamo anche che è insufficiente, spiega Pardo.|
Il comune ci chiede di sostenerlo, ma non possiamo firmargli un assegno in bianco. La “decrescita naturale” è un abile raggiro di retorica. Allo stato attuale, alcuni quartieri rappresentati nelle nostre assemblee si ritroverebbero immediatamente in balia della speculazione. La nostra esigenza? Una moratoria indifferenziata. Politicamente, forse, è un suicidio, ma non possiamo chiedere niente di meno». Ogni giorno, i «comuni del cambiamento» devono affrontare le difficoltà che insorgono con il passaggio dalla piazza alle istituzioni.Quest’evoluzione priva il movimento sociale di una parte significativa delle proprie forze.
Seduta nel dehors di un bar, Ana Menéndez, recentemente catapultata a capo della Federazione delle associazioni di vicini di Barcellona Favb), conta i suoi ex compagni che ora lavorano per i servizi municipali. Questo fenomeno siergià presentato all’epoca in cui Podemos si era accaparrata molti militanti attivi nel movimento sociale. Jiménez Aleixandre, dalle file di Compostela Aberta, non riesce a mascherare il proprio sconforto quando analizza l’impatto sull’azione militante dell’anno e mezzo di presenza nelle istituzioni: «Negli ultimi tempi, il funzionamento di Compostela Aberta, come quello di altri “comuni del cambiamento”, ha subito i gravi effetti dei processi elettorali. In un anno e mezzo, abbiamo attraversato un’elezione municipale, due generali e una regionale! Ci siamo buttati a capo fitto in questi appuntamenti, che hanno assorbito una parte enorme dell’energia che avremmo potuto dedicare alla città. Senza contare le tensioni interne che questo processo ha provocato, perché le coalizioni cambiavano a seconda del tipo di elezione».
VALENCIA. Manifestazione degli indignados. Queste tensioni non derivano solo da visioni divergenti. Mettono in luce anche la difficoltà di riprodurre le pratiche e le parole d’ordine del movimento sociale nelle istituzioni politiche. I nuovi comuni, fedeli all’empowerment, rielaborato e sviluppato da Podemos, si approcciano alla sfera istituzionale come a un campo di sperimentazione politica. Investono nella creazione di piattaforme digitali civiche (3) – una riproposizione dei metodi attuati durante il 15-M, quando alla fine di un dibattito, in un angolo della piazza, chiunque poteva scrivere le proprie proposte su un cartellone bianco. «L’obiettivo è spezzare la burocratizzazione della partecipazione per fare qualcosa di più dinamico, in linea con lo spirito del 15-M, in cui gli accordi si raggiungano attraverso il consenso e in cui non sia necessario appartenere a una determinata associazione per poter partecipare», spiega Capel a Madrid.
ASTURIE, OVIEDO. Manifestazione in appoggio al movimento 15-M Ma quest’inventiva digitale – che il giornalista Ludovic Lamant definisce «tecnica di profanazione delle istituzioni (4)» – e la buona volontà che la accompagna si scontrano, a volte, con le consuetudini degli abitanti. «Molti hanno finalmente capito che l’istituzione non è Twitter», constata il direttore della Fravm. A Santiago di Compostela, il voto dei bilanci par- tecipativi ha coinvolto un migliaio di persone, ossia un po’ meno di un abitante su cento. A Madrid, nel 2016, durante la grande campagna di riabilitazione della piazza di Spagna, 31.761 persone hanno votato on line per i diversi progetti: circa l’1% della popolazione totale della capitale. La scelta della ripartizione dei 60 milioni di euro del bilancio partecipativo, invece, ha suscitato l’interesse di 45.522 abitanti. Illu- sionismo o «democrazia reale»? Per il sindaco di Santiago di Compostela, Noriega, questi metodi dimostrerebbero la propria efficacia in maniera retroattiva, «non appena gli abitanti si accorgeranno che le proposte, di cui loro stessi sono gli autori, sono state adottate e messe in pratica».
Diventare semplici esecutori locali?
Tuttavia, la condizione necessaria è che queste misure siano portate avanti e adottate dal con- siglio municipale. Nessuna delle coalizioni di sinistra giunte al potere nel maggio 2015 gode della maggioranza assoluta. «Governiamo la città, ma non abbiamo il potere», riassume Pablo Hijar, consigliere municipale per le politiche abitative di Zec. Quindi, il sostegno di altri gruppi – spesso il Psoe, o partiti regionali come Chunta aragonesista (Unione aragonese, Cha), movimento nazionalista ed ecosocialista, in Aragona – diventa indispensabile. A Saragozza, «i socialisti ci impediscono di applicare dei criteri di progressività fiscale», afferma con irritazione Pedro Santisteve. «Il Psoe ostacola sistematicamente le grandi decisioni, quelle che mettono in discussione il sistema capitalistico», aggiunge Guillermo Lázaro, di Zec.
Senza contare che alcune misure presenti nei programmi elettorali sono prerogative regionali o nazionali. «Se il cambiamento si fosse verificato simultaneamente anche a questi livelli, sarebbe stato più facile, sospira Villalobos. La regione di Madrid gestisce gli ospedali, la pubblica istruzione, la legge del suolo. Molte decisioni del comune sono quindi accessorie: invita
la regione a prendere questa o quella misura... per lo più senza successo».
I mezzi non bastano per mettere in pratica le disposizioni radicali promesse contro gli sfratti. Soprattutto perché i comuni subiscono la pressione finanziaria di Madrid: «A loro arriva solo il 12,8% del bilancio nazionale, riprende Santisteve. Eppure, devono rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini per quanto riguarda trasporti, gestione dell’acqua e dei rifiuti».
La strategia di «cambiamento dall’interno» promossa dai nuovi esecutivi municipali si arena sulla definizione delle competenze, ereditata dalla transizione democratica e dalle leggi nazionali. In particolare la legge di razionalizzazione e sostenibilità dell’amministrazione locale, detta legge Montoro, dal nome del ministro delle finanze di Mariano Rajoy, Cristóbal Mon- toro, al quale si deve la sua adozione nel 2013. La prima fase del suo preambolo non lascia margini di dubbio sulle sue mire: «La riforma dell’articolo 135 della Costituzione spagnola (...) consacra la stabilità di bilancio come il principio fondante alla base dell’azione di tutte le amministrazioni pubbliche».
Questa legge, dettata dal «rispetto degli impegni europei in materia di consolidamento fiscale», e arrivata sulla scia delle politiche di austerità, impone, oltre alla riduzione del deficit, anche la destinazione di un eventuale attivo di bilancio al rimborso del debito. Al di là delle esigenze della propria politica, i sindaci devono portare avanti una battaglia sul concetto stesso di azione municipale: bisogna accontentarsi di diventare gli esecutori locali in un ambito definito dallo Stato, oppure tentare di rafforzarsi come entità politiche a pieno titolo, sulla scia della tradizione «municipalista» radicata nella storia del paese dal XIX secolo?
Questa situazione impone alle coalizioni progressiste strane acrobazie in materia di comunicazione. Nonostante possano tutte vantare il risanamento dei conti pubblici e la creazione di un favorevole attivo di bilancio dal loro arrivo al potere (5), hanno dovuto, in virtù della legge Montoro, versare quest’ultimo alle banche (2,3 miliardi di euro accumulati [6]). Tuttavia, alcune decidono di fare buon viso a cattivo gioco: non potendo investire i soldi recuperati, scelgono di presentare questi rimborsi come prova della buona gestione.
Una simile strategia non impedisce agli uomini e alle donne di punta del movimento di battersi per una modifica della legge. Nell’ottobre 2016, con il sostegno dei «comuni del cambiamento», il gruppo parlamentare Podemos ha presentato una proposta di legge in questo senso. Alla fine di novembre, una cinquantina di rappresentanti municipali si è riunita a Oviedo allo scopo di lanciare un ciclo di incontri per denunciare il debito illegittimo e i tagli di bilancio. La riunione di Oviedo, che non è sola nel suo genere, rispecchia una pratica classica dei «comuni ribelli»: far fronte. Il 4 e il 5 settembre 2015, a Barcellona si è tenuto il summit «Città per il bene comune. Condividere le esperienze del cambiamento», continuato il mese successivo a La Coruña. In entrambi i casi si sono dibattuti i soggetti più conflittuali: la rimunicipalizzazione dei servizi pubblici, i centri di identificazione ed espulsione, i rifugiati, la memoria.
Vincolati alle decisioni dei predecessori Per alcuni, tuttavia, dodici mesi sono basta- ti per far nascere un sentimento di delusione. Macías, successore di Colau nel ruolo di portavoce della Pah della capitale catalana, si rammarica per la lentezza dei cambiamenti promessi: «Si prenda ad esempio la questione della sanzione delle banche proprietarie di alloggi tenuti sfitti: il sindaco non ha tenuto fede alla propria missione. Ha inflitto tra le cinquanta e le sessanta sanzioni, invece delle duemila dovute. O non sta andando nella giusta direzione, oppure è troppo lenta. E, a riguardo, non c’è dubbio sulle sue prerogative: è proprio competenza sua».
All’inizio del 2016, la squadra municipale è stata scossa da un conflitto sulla gestione dello sciopero dei lavoratori nei trasporti pubblici. A fine febbraio, durante il Mobile World Congress, vetrina internazionale del settore della telefonia, sono state organizzate delle mobilitazioni che chiedevano la fine dei contratti precari, lo sblocco degli stipendi e la pubblicazione dei redditi dei quadri dirigenti. Quando i sindacati hanno respinto le soluzioni proposte dal «comune ribelle» per l’interruzione dello sciopero, Colau ha definito il movimento «sproporzionato», e la sua consigliera ai trasporti, Mercedes Vidal,ha rivolto ai lavoratori in sciopero un appello alla «responsabilità».
«Questa posizione totalmente ostile allo sciopero, più feroce forse di quella di altre squadre municipali, ha stupito molto, riferisce José Ángel Ciércoles, delegato Cgt Metro, il sindacato maggioritario in questa branca dei trasporti. Naturalmente quanti avevano votato per Ada Colau si sono sentiti traditi».
Albert Ruba Cañardo, presidente di Ateus de Catalunya («Atei di Catalogna»), un’associazione nazionale che denuncia il peso della religione cattolica nella società spagnola, si chiede quando sarà portato a termine il censimento delle proprietà immobiliari della Chiesa – e dei relativi privilegi –, reclamato al comune di Barcellona e considerato un dato fondamentale nella questione della casa. «Il concordato, che vogliamo abolire, esonera dalle imposte le pro- prietà della Chiesa accatastate come luoghi di culto. Ma è un’ipocrisia. Un edificio immenso di proprietà della Chiesa, con una facciata lunga più di cento metri, affacciato sulla piazza centrale della città, con all’interno uffici di avvocati, negozi, tutti in affitto. Su questo immobile, la Chiesa non paga alcuna imposta. Perché? Perché in un angolo ha messo la statua di un santo».
Prendendo il posto della destra, come a Madrid, dove Manuela Carmena è stata eletta dopo ventiquattro anni di governo del Partito popolare (Pp), le coalizioni ereditano accordi e progetti precedenti. Così, i nuovi arrivati subiscono delle critiche che dovrebbero per lo più essere rivolte alle amministrazioni passate. La capitale spagnola ha appena avallato la costruzione del quartiere Los Berrocales, progettato dalla precedente squadra municipale. Più di 22.000 alloggi da costruire entro il 2018. «Il Pp ha lasciato dietro di sé un’eredità di contratti di trent’anni o più, con questa o quell’impresa, commenta Villalobos.
Per annullarli bisognerebbe pagare enormi indennizzi. Los Berrocales, per esempio, è una follia. Oggi, la città dispone di un numero di alloggi sufficiente per i prossimi trenta o quaranta anni. Se costruiamo un nuovo quartiere, altri si svuoteranno». Carmena aveva promesso che non avrebbe autorizzato nuovi cantieri urbani di questa entità; tuttavia, ha considerato di non poter revocare questo progetto concepito dai suoi avversari politici.
Nell’aprile 1931, la vittoria delle forze progressiste in molte grandi città del paese, tra cui Madrid, aveva posto le basi per la II Repubblica. Alcuni sembrano scorgere nei «comuni del cambiamento» un’eco di questo precedente. Ma si sta diffondendo una forma di delusione, pari all’entusiasmo suscitato dalle vittorie del 2015, seppure in un contesto diverso. Allora, nuove formazioni politiche, Podemos in testa, avevano dalla loro un forte dinamismo. Speravano di trionfare alle ultime elezioni legislative. I loro dirigenti teorizzavano l’idea di un «assalto istituzionale»: la conquista rapida del potere a tutti i livelli attraverso una consapevole strategia elettoralista, poco conflittuale (il discorso del «né destra né sinistra») e apertamente rivendicata come «populista».
In attesa di un nuovo assalto, e al di là delle contraddizioni interne, i «comuni del cambiamento» devono affrontare esecutivi nazionali e regionali strutturalmente più potenti, e ben decisi a tenerli in scacco.
(1) Formata da Podemos, Izquierda Unida (unione del Par- tito comunista spagnolo e altri partiti della sinistra radicale), Equo (ecologisti), Puyálon (sovranisti aragonesi anticapita-listi), Somos (repubblicani di sinistra), Demos Plus (nato dal movimento sociale di difesa della sanità e dell’educazione pubbliche) e Piratas de Aragón (Partito pirata).
(2) Il movimento delle associazioni di vicini ha un ruolo particolare in Spagna dall’epocadella dittatura franchista.
Queste ultime, presenti in tutto il paese, sono raggruppate in federazioni nelle comunità autonome e partecipano in maniera attiva al dibattito pubblico.
(3) Il comune di Madrid, per esempio, ha creato la piattaforma https://decide.madrid.es
(4) Ludovic Lamant, Squatter le pouvoir. Les mairies rebelles d’Espagne, Montréal, Lux, 2016.
(5) Madrid, in particolare, passa per l’«alunna modello», dopo aver ridotto il debito pubblico del 19,7% in un anno.
(6) Eduardo Bayona, «La deuda en los ayuntamientos del cambio se reduce 160.000 euros cada hora», Público, 26 novembre 2016.
(Traduzione di Alice Campetti)
In questi giorni tutti i tg sparlano della querelle sul nuovo stadio della Roma e ci dicono di cosa pensa Grillo e delle dimissioni di Berdini, senza dirci di cosa si tratta.
Io ho capito questo:
- L’Associazione Sportiva Roma spa (valutata da Forbes con un valore di 307 milioni di dollari) chiede di aver un impianto proprio per evitare e di collegare al calcio nuove e redditizie attività quali centri commerciali, show room, ristoranti,ecc. il tutto immerso in un ambiente gradevole con cosiddette “attività di pregio”, viabilità adatta e gli immancabili enormi parcheggi;
- l’ex sindaco Marino rivendica di avere dichiarato il progetto di pubblica utilità e di averlo subordinato ad un tale numero di opere pubbliche di carattere ambientale e viario da rendere la zona degradata di Tor di Valle un nuovo e ridente quartiere di Roma a spese del privato;
- giungono notizie dalla sovraintendenza di aver, ex post, bloccato la demolizione della tribuna dell’ippodromo di Tor di Valle, quello della mitica “mandrakata” di Gigi Proietti;
- la Giunta Raggi come al solito non sa cosa fare e si affida alla Casaleggio ed eredi.
Finite le favole, alla beneficienza dei privati oramai non ci credono più neanche i bambini. La storia ci insegna che l’urbanistica contrattata, dopo aver raccontato una bella novella, dieci, venti anni dopo “fatta la festa, gabbato lo santo, lascia ai posteri traffico, inquinamento, concorrenza commerciale, consumi energivori, congestione urbana e spesso qualche fallimento. È la storia dell’urbanistica di questi ultimi 60 anni. La sinistra in alcuni casi ha creduto di essere più furba del mercato per poi accorgersi, nella migliore delle ipotesi, di non avercela fatta.
Veniamo a Firenze. Domenici a fine mandato, consentì ai Della Valle di annunciare la volontà, tramite un progetto fatto per altre società, di realizzare un nuovo impianto per il gioco del calcio diverso dal monumentale Artemio Franchi. La famosa “nuvola” dell’archistar Fuksas. Tutto ciò in piena redazione del regolamento urbanistico, con i lavori della Stazione Foster e della tramvia in corso e con ancora aperta la questione del Pue di Castello. Senza un’idea delle funzioni della Firenze Grande intesa come area vasta più complessa della Grande Firenze asfittica e chiusa nelle mura.
All’epoca, ero sindaco di Sesto Fiorentino, convinto che l’idea di un nuovo, più piccolo ma più moderno impianto fosse positiva suggerii alla Fiorentina e all’inesistente Città Metropolitana di individuare un’area in località Osmannoro dove il piano strutturale prevedeva già insediamenti commerciali e direzionali, attività per lo svago e dove insistevano una serie di attività economiche in palese affanno. La proposta che avrebbe visto la realizzazione di un nuovo casello autostradale a servizio di una delle aree produttive più vivaci della Toscana, la riconversione di un’area degradata e la risistemazione idrogeologica dell’intero quadrante trovò l’opposizione del comune di Firenze (Renzi sindaco) perché afflitta dalla maledizione del 50019 (il cap di Sesto Fiorentino): nessuna funzione pregiata doveva essere fatto al di fuori dell’asfittico e congestionato confine del capoluogo. La Piana, nei desideri di Renzi, ma anche di Rossi, doveva essere il contenitore delle cose brutte: impianti per i rifiuti, grande viabilità, centri commerciali, ecc. Tant’è che si è preferito far sviluppare con risorse pubbliche un aeroporto privato a spese dell’espansione del Polo Scientifico dell’Università di Firenze. Dimenticavo: la famiglia Della Valle da gran signori quali sono manco rispose “no grazie”.
La cronaca di questi anni ci racconta della volontà di insediare il nuovo stadio in uno dei quartieri più popolosi di Firenze, con una viabilità congestionata e un antico problema nella ricerca della sosta di superficie. Per fare il nuovo stadio dunque si devono trasferire i Mercati Ortofrutticoli di Firenze. Vi domanderete dove, pensando sicuramente che quell’attività che non richiama televisione e trasmissioni via satellite dei sindaci in tribuna, potesse essere decentrata in un’area produttiva limitrofa a Firenze, un’area industriale dismessa dello sprawl urbano fiorentino. Giammai! Perdere l’ICI di questa grande impresa sarebbe un problema, poco importa se ci saranno problemi di viabilità e d’ambiente, l’importante è che tutto rimanga nella firenzina bella e dorata. Quella con il cap 50100.
Quale sarà dunque l’incastro? E qui viene il bello. Qualche lettore più anziano si ricorderà la querelle “Fiat-Fondiaria” della fine degli anni '80 con la famosa frase “sentivo puzza di bruciato” di Achille Occhetto. Dopo il completo fallimento del Piano urbanistico di Castello, dopo lo sfregio della nuova Scuola Marescialli dei Carabinieri, l’area, funestata da numerose inchieste giudiziarie è recentemente passata di mano da Fondiaria al gruppo Unipol. L’area libera più grande di Firenze quindi, nell’intenzione dei nuovi urbanisti fiorentini (quelli del cemento zero) vedrà una parte occupata da una nuova ed inutile pista aeroportuale per la delizia dei banchieri e dei turisti danarosi e poi il trasferimento (c’è uno scontro tra comune di Firenze e Unipol sul prezzo) delle attività di logistica distributiva di frutta e verdura. Sicuramente nessuna crescita “smart”. Il comune di Firenze dovrà comprare e trasferire le attività delle aziende che operano attualmente dentro l’attuale mercato ortofrutticolo mentre il gande Diego comprerà (suppongo) l’area di Novoli per farci stadio, centro commerciale e quant’altro necessario per tenere in piedi economicamente un’operazione di puro lucro privato.
Tutto al contrario di come si dovrebbe fare. Vuoi fare lo stadio? Trovati e compra un’area compatibile con il Piano Strutturale, trasferisci le attività, compra l’area e costruisci. Il tutto a spese tue. Il tutto dentro un progetto di sviluppo del quadrante Nord Ovest di Firenze insieme ai comuni confinanti (Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio) ma anche con la vicina Prato. Ma di piani strutturali di area o di piani di sviluppo regionale degni di questo nome neppure l’ombra.Ho richiamato tutto questo per riportare sulla terra il dibattito sulla scissione del Pd e sulla costruzione di una sinistra nuova, sia essa di Fratoianni, di Pisapia o di Emiliano.Il mondo è cambiato. Crisi economica e demografica, riscaldamento globale, finanziarizzaione del capitalismo, falsa austerità hanno messo in ginocchio l’occidente ed in particolare i paesi più deboli come l’Italia.Sarà possibile anche solo pensare ad una sinistra nuova, moderna, popolare che abbia compreso la lezione?Sarà possibile rompere con il renzismo senza invertire nessuna delle politiche che ce l’hanno regalato? Di questo mi piacerebbe parlare.
Riferimenti
Sullo stadio di Firenze, vedi in eddyburg, l'articolo di Ilaria Agostini Prima lo stadio poi l'urbanistica. Numerosi articoli sullo stadio a Roma vedi nella cartella Roma
Un'intelligente sintesi del pensiero di David Harvey, premessa a una stimolante visione poliedrica della condizione urbana nel capitalismo del XXI secolo. casadellacultura online, ciclo "città bene comune, febbraio, 2017 (c.m.c.)
L'agile volume di David Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, riedito per tipi di Ombre corte nel 2016 (I ed. 2012), raccoglie in centoventiquattro pagine tre articoli e un'intervista all'autore già pubblicati in inglese su altrettante riviste. Nel primo, Il diritto alla città, è chiarito e analizzato il senso di tale diritto in quanto "collettivo". Il secondo, La visione di Henri Lefebvre, è un breve saggio sull'ormai classico testo, Il diritto alla città, del filosofo marxista francese, uscito per la prima volta a Parigi nel 1969 e rieditato in italiano nel 2014 da Ombre corte. Il terzo, Le radici urbane delle crisi finanziarie. Restituire la città alla lotta anticapitalista, è un saggio dove l'autore ripropone in breve, e in relazione alle crisi finanziarie come quella recente, le tesi, strutturate e sviluppate in altri suoi libri, sulla relazione tra la necessità di assorbimento della sovraccumulazione di capitale e l'urbanizzazione, che pone la "città" - la parola è usata da Harvey per il suo valore iconico - come luogo centrale delle lotte anticapitaliste (dunque non più solo la fabbrica come nelle teorie marxiste tradizionali). Chiude il libro l'intervista, che verte, appunto, sulle possibilità di una Rivoluzione urbana.
Le tesi di Harvey
Il primo articolo funge da introduzione. È utile soffermarvisi perché fornisce, in modo abbastanza semplice e chiaro, la chiave interpretativa dell'intero sviluppo discorsivo. Constatata la centralità del tema dei diritti umani nell'attuale dibattito etico e politico, Harvey distingue quelli - dominanti nel nostro tempo - basati sull'individualismo, proprietà privata e ricerca del profitto, da quelli "collettivi" (lavoratori, donne, gay, minoranze etniche e così via), per porre al centro dell'attenzione tra questi ultimi il diritto alla città, che in qualche modo sembra implicitamente unificare gli altri.
È così già lasciata emergere una delle contraddizioni del capitalismo, ossia un'opposizione cosciente di diritti e di conseguenza una lotta, perché solo lo scontro pratico può deciderne la gerarchia. Si tratta - come ricorda Harvey - di un concetto centrale nel pensiero di Marx in vari luoghi della sua pubblicistica. Ma anche, possiamo aggiungere, riassunto con più rigorosa coerenza in questo aforisma di Nietzsche: «il diritto è la volontà di rendere eterno un rapporto di potenza momentaneo», ossia qualsiasi diritto ottenga da un determinato scontro di potere una qualche supremazia, questa sarà sempre contingente.
Rivendicare il diritto alla città «significa rivendicare una forma di potere decisionale sui processi di urbanizzazione e sul modo in cui le nostre città sono costruite e ricostruite» [pp. 9-10]. Fin dalle origini le città sono concentrazione geografica e sociale "di un surplus produttivo". Perciò, ne deduce Harvey, «l'urbanizzazione è sempre stata in qualche modo un fenomeno di classe, dal momento che tale surplus si è sempre dovuto ricavare da qualche parte e da qualcuno, mentre il controllo del suo uso è sempre rimasto nelle mani di pochi» [p. 10].
E anche oggi è così, ma con una differenza peculiare. Il capitalismo è continua ricerca del profitto. I capitalisti, realizzatolo, si trovano di fronte a un "dilemma faustiano": "reinvestire" il profitto "per guadagnare ancora più denaro" o impiegarlo "in spese voluttuarie".
«Le dure leggi della concorrenza - dice Harvey - li obbligano a reinvestire, perché, se qualcuno decide di non farlo, ci sarà sicuramente qualcun altro che lo farà al suo post» [p. 10]. Di qui una crescita tendenzialmente esponenziale di plusvalore e la conseguente «perenne ricerca di territori favorevoli alla produzione e all'assorbimento delle eccedenze di capitale» [p. 11]. Il processo continuo di accumulazione è così descritto nella sua essenza. Il capitalista deve affrontare una serie di ostacoli: trovare "nuovi mezzi di produzione" e "nuove risorse naturali", incrementando la pressione sull'ambiente.
La concorrenza tra capitalisti fa sì «che vengano continuamente messe in azione nuove tecnologie e forme organizzative»; perché solo coloro che possiedono "una produttività più elevata" riescono a prevalere. Ma, eccoci al punto. Quando uno di questi "ostacoli alla circolazione e all'espansione del capitale" si rivela insuperabile, "l'accumulazione stagnerà o cesserà, il capitale si svaluterà (o andrà perso)" [p. 11] e il capitalismo dovrà affrontare una crisi. «In che modo dunque - scrive Harvey - l'urbanizzazione permette al capitale di superare tali ostacoli e di allargare il terreno per svolgere un'attività remunerativa? La mia ipotesi - afferma - è che l'urbanizzazione svolga un ruolo particolarmente attivo (insieme ad altri fenomeni, come le spese militari) nell'assorbire l'eccedenza prodotta dalla continua ricerca di plusvalore» [p. 12]. Segue una interessante serie di esempi storicamente determinati di processi di crisi e di impiego delle eccedenze di capitale nell'urbanizzazione a partire dal caso della Parigi di Haussmann fino all'enorme crescita urbana nei paesi emergenti del nostro tempo.
Ed ecco infine quel che Harvey ne deduce: «l'urbanizzazione ha svolto un ruolo cruciale nell'assorbimento delle eccedenze di capitale, agendo su una scala geografica sempre più ampia, ma al prezzo di processi di distruzione creativa che hanno espropriato le masse urbane di qualunque diritto alla città. Questo meccanismo - prosegue l'autore - sfocia periodicamente in rivolte, come quella degli espropriati di Parigi del 1871 che cercavano di riprendersi la città che avevano perso. I movimenti sociali urbani del 1968, da Parigi a Bangkok, a Città del Messico e Chicago, hanno analogamente cercato di definire un sistema di vita urbano diverso da quello imposto dai costruttori capitalisti e dallo Stato» [p. 34].
A seconda di come è interpretato il pensiero di Marx, si può ritenere che il capitalismo sia destinato a perire sotto il peso delle sue intime contraddizioni e a dar luogo, in senso deterministico, a una società senza classi. Oppure ritenere che ciò non è detto che accada, se non c'è un intervento rivoluzionario che faccia leva sulle contraddizioni, dando loro la soluzione voluta dagli sfruttati. Queste sono appunto opposizioni coscienti di classe, da intendersi oggi non più solo nella visione ristretta di un tempo, lavoratori di fabbrica e capitale, ma nel senso più ampio che investe ogni forma di produzione e riproduzione del capitale e dunque di spoliazione di sempre più vasti strati sociali urbani.
Harvey propende esplicitamente per quest'ultima interpretazione come viene in chiaro in tutti i suoi scritti, tra questi a esempio Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (2014), dove ribadisce (autocitandosi da L'enigma del capitale): «Il capitalismo non cadrà mai da solo: dovrà essere spintonato […]. La classe capitalista non cederà mai volontariamente il potere; dovrà essere espropriata […]. Ci vorranno ovviamente un forte movimento politico e moltissimo impegno individuale».
Si pone tuttavia l'annoso problema di come condurre a unità le ribellioni che gli effetti negativi del capitalismo continuamente provocano nei diversi luoghi e nei diversi momenti dei suoi cicli di espansione e crisi. I numerosi e vari movimenti urbani esplodono, separati gli uni dagli altri, e si spengono.
Ed ecco l'ipotesi di Harvey variamente espressa anche in altri luoghi e nell'articolo in esame ribadita: «Ma se questi vari movimenti di opposizione dovessero in qualche modo incontrarsi e coalizzandosi, ad esempio, sulla parola d'ordine del diritto alla città, che cosa dovrebbero chiedere? La risposta è piuttosto semplice: un maggiore controllo democratico sulla produzione e sull'uso dell'eccedenza.Dal momento che il processo urbano ne rappresenta un importante canale di assorbimento, il diritto alla città si costituisce con l'instaurazione di un controllo democratico sulla distribuzione di tale eccedenza attraverso l'urbanizzazione. Avere un surplus di produzione non è un male: anzi, in molte situazioni è decisivo per una sopravvivenza accettabile […]. L'aumento della quota di surplus sotto il controllo dell'apparato statale funziona solo qualora lo Stato verrà riformato e riportato sotto il controllo democratico popolare» [pp. 35-36].
Harvey, nel capitolo successivo, vede nel pensiero di Lefebvre interessanti anticipazioni: «Il nostro compito politico, suggerisce Lefebvre, è immaginare e ricostruire un tipo completamente diverso di città, lontano da questo immondo bazar creato da un capitale che globalizza e urbanizza in modo sfrenato. Ma ciò non potrà accadere senza la creazione di un vigoroso movimento anticapitalista che abbia come proprio obiettivo la trasformazione della vita quotidiana nella città» [p. 50]. La teoria di un movimento rivoluzionario di Lefebvre consiste nel «convergere spontaneo in un movimento di "irruzione", quando gruppi eterotopici vedono all'improvviso, anche solo per un attimo, la possibilità di una azione collettiva per creare qualcosa di radicalmente diverso» [p. 51].
Ma «Lefebvre - mette in evidenza Harvey - era fin troppo consapevole della forza e del potere delle pratiche dominanti per non riconoscere che il compito ultimo richiedesse di sradicare tali pratiche attraverso un più ampio movimento rivoluzionario. […]. Rivendicare il diritto alla città è una tappa verso questo obiettivo. Non può mai essere un fine in sé, anche se appare in modo sempre più crescente come uno dei percorsi più propizi da seguire» [p. 52].
L'analisi che segue nel terzo capitolo sfrutta e aggiorna, per porla al centro della forma odierna del capitalismo, quella di Marx sul "capitale fittizio", avendo di fronte, tra l'altro, la crisi attuale scatenata dalla "bolla immobiliare". L'intento è di chiarire «come circolazione di capitale produttivo e fittizio si combinino all'interno del sistema del credito dei mercati immobiliari» [p. 74].
La sopravvivenza del settore edilizio «presuppone […] che possa non solo essere prodotto ma anche realizzato sul mercato. È qui che entra in gioco il capitale fittizio. Il denaro è prestato ad acquirenti che si presume abbiano la capacità di restituirlo con le loro entrate (salari e profitti). In questo modo il sistema finanziario disciplina in misura considerevole sia l'offerta che la domanda di abitazioni […].La stessa società finanziaria spesso può fornire finanziamenti sia per costruire sia per comprare ciò che era stato costruito» [p. 75].
«Ma […] mentre banchieri, immobiliaristi e imprese di costruzione si uniscono facilmente per stringere un'alleanza di classe […], i mutui dei consumatori sono individuali e divisi […]» [p. 75]. «I marxisti hanno tradizionalmente relegato queste forme di sfruttamento, e le lotte di classe […] che inevitabilmente ne nascono, ai margini della loro riflessione teorica e delle loro scelte politiche […]. Quel che voglio qui sostenere - afferma Harvey - è che invece tali forme costituiscono, almeno nelle società a capitalismo avanzato, un vasto terreno di accumulazione ottenuto con l'esproprio [più appropriato è il termine "spoliazione" n.d.r.], attraverso il quale il denaro è risucchiato nel flusso di capitale fittizio per sostenere le grandi fortune create all'interno del sistema finanziario» [p. 82].
Una delle affermazioni significative di Harvey nell'intervista che chiude il volume è la seguente: «L'urbanizzazione è essa stessa un prodotto» [p. 98] e «Il diritto alla città non è un diritto esclusivo, ma un diritto mirato. Include non solo i lavoratori edili ma anche tutti coloro che facilitano il riprodursi della vita quotidiana: badanti, insegnanti, addetti alle fognature e alla metropolitana, idraulici ed elettricisti, lavoratori ospedalieri e conduttori di camion, autobus e taxi, lavoratori dei ristoranti e intrattenitori, impiegati di banca e amministratori pubblici. È una ricerca di unità all'interno di un'incredibile varietà di spazi sociali frammentati […]. Questa è - secondo Harvey - la forza proletaria che deve essere organizzata se si vuole cambiare il mondo […]. I produttori urbani devono sollevarsi e rivendicare il loro diritto alla città che collettivamente producono» [p. 106].
Alcune considerazioni
Da almeno due secoli si confrontano riflessioni sul capitalismo e sui suoi esiti. Le principali sono raggruppabili in due poli dell'economia politica: le teorie liberali e quelle socialiste più o meno marxiste. La dimensione filosofica resta sullo sfondo e per lo più in ombra. Ma, in specie Karl Marx, è innanzitutto filosofo. Non solo, senza aver presente il senso dello strutturarsi e coerentizzarsi del pensiero filosofico è difficile venir a capo dello spazio concettuale in cui si muovono e da cui sono condizionati pensiero e agire del nostro tempo.
Lo scontro teorico e pratico tra le varie forme di liberalesimo più o meno a sostegno del capitalismo e le varie forme di socialismo più o meno contro il capitalismo è tra due opposte basi etiche sulle quali poggiare la società. Scontro che peraltro vede ancora in campo grandi etiche di più antica formazione, quali Cristianesimo e Islam. E nel clima di liberazione dalle tradizioni, oltre alle varie declinazioni della democrazia, si è creato lo spazio per il proliferare di proposte etiche differenti anche da quelle più recenti. Ciò è indizio che il coerentizzarsi del pensiero filosofico ha condotto negli ultimi due secoli alla consapevolezza che nessuna etica ha fondamento incontrovertibile: nessuna ha verità nel senso forte della tradizione.
Il pensiero di Marx è uno dei contributi significativi - ma non definitivo - in questa direzione. Quando a esempio - come cita più volte Harvey - afferma che "fra diritti uguali decide la forza". Nella forma più generale il concetto è espresso nella seconda Tesi su Feuerbach: «La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. È nella prassi che l'uomo deve dimostrare la verità […]». In base a questo principio - si noti per inciso - il "socialismo reale", stando all'esito della sua più grandiosa sperimentazione, quella sovietica, risulta storicamente una verità smentita, avendo perso lo scontro pratico col suo nemico mortale. E, a un tempo, quello stesso principio ci dice che la (apparente) vittoria del capitalismo non è verità, se non nella più assoluta contingenza storica.
Ecco, la verità nel nostro tempo è il divenire delle cose quale totalità della realtà e la conseguente impossibilità di qualsiasi immutabile a suo dominio. Il che implica la completa disponibilità delle cose alla costruzione e distruzione: l'assoluta libertà di creare e distruggere, dunque anche di rifare da capo il mondo, come, a esempio, vogliono le rivoluzioni o le utopie; e come pure opera, a scopo di profitto, la "distruzione creativa" del capitale.
Indizi se ne trovano nello stesso pensiero di Harvey laddove, a esempio, afferma «Non esiste […] una risposta non contraddittoria a una contraddizione» (Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo). Questo l'esito, in forma succinta, della coerentizzazione del pensiero filosofico greco emersa negli ultimi due secoli di speculazione. Tuttavia è ancora raro incontrare chi ne trae fino in fondo le conseguenze. Forse perché, oltre che irritanti sul piano etico e politico, possono risultare anche psicologicamente spaventose.
Guadagnata una relativa consapevolezza che nessuna etica può aver fondamento non smentibile, si è di fronte a una pluralità di etiche in conflitto, ciascuna determinata dal proprio scopo primario: salvezza dell'anima nelle diverse religioni, profitto, molteplici sensi del "bene comune" (democrazie, socialismi, liberalesimi e così via). A differenza del passato, vi è consapevolezza che determinante nello sconto non è la supposta verità dell'etica, da farsi valere solo in forza dell'argomentazione tesa a mostrarne incontrovertibilmente il fondamento, ma la capacità pratica di prevalere sulle avversarie, in modo tale che lo scopo primario dell'una domini i fini delle altre.
Il dominio si realizza riducendo i fini delle altre a mezzi di perseguimento dello scopo vincente. Ma stante tale logica, è impossibile che la contesa abbia fine, se non contingente. Nella nostra contingenza è per lo più dominante il capitalismo, ossia quell'agire individuale e sociale il cui scopo primario è il profitto. Di qui la riduzione a denaro, a valore venale, di ogni altro valore d'uso e godimento di qualsiasi bene materiale e immateriale. Ogni altro valore è subordinato a quello di scambio. Ogni altro fine è mezzo di perseguimento dell'accumulazione di denaro.
Ma è proprio il caso del capitalismo a rivelare, in modo ben poco equivocabile, quale sia la logica del rapporto mezzo fine. Il denaro è un potente mezzo di scambio delle merci, ossia la più rilevante tecnica economica. Il capitalismo è il rovesciamento del mezzo in scopo. Un rovesciamento, logicamente necessario, proprio perché è potenza di realizzazione di quello scopo costituito dalla volontà di scambiare le merci. Marx nel Capitale rappresenta tale rovesciamento contrapponendo due formule, dove M sta per merce e D per denaro: M-D-M, la merce è venduta in cambio di denaro allo scopo di acquistare un'altra merce, e D-M-D, la merce è acquistata col denaro allo scopo di rivenderla in cambio di una maggior somma di denaro. In tal modo il capitalista acquista potenza sul mercato rispetto a chi ha solo scambiato merci a mezzo di denaro e non denaro a mezzo di merci.
La storia, letta in questa chiave, potrebbe mostrare una lunga serie di rovesciamenti del mezzo in scopo, ben al di là del caso del denaro. In generale, posto uno scopo, che in quanto è ciò che si ha in mente di realizzare è sempre ideologico, si ha necessità di individuare, possedere e ordinare i mezzi per perseguirlo. La connessione calcolata, secondo differenti razionalità, dei mezzi al fine si chiama "tecnica". Nelle diverse epoche e culture la tecnica ha assunto varie configurazioni a seconda del senso del mondo e del tipo di razionalità che guidava l'esistenza individuale e sociale: mitologica, metafisico teologica e, nel nostro tempo, scientifico tecnologica. La tecnica è, tradizionalmente e tuttora, posta quale mezzo per perseguire scopi.
Ma così come (e lo si è visto anche leggendo Harvey) la concorrenza tra capitalisti costringe ciascuno a reinvestire il profitto (declassandolo tendenzialmente da scopo a mezzo) nell'accrescimento della produttività (potenziamento dei mezzi di produzione e realizzazione del profitto: nuove tecnologie, nuove organizzazioni del lavoro, nuove configurazioni delle leggi e delle politiche economiche, nuovi modi di governo e così via), il conflitto tra i differenti scopi posti come primari dalle diverse etiche - e tra queste e il capitalismo stesso - costringono ognuna di esse ad assumere quale scopo il potenziamento del mezzo per prevalere nello scontro pratico con le altre. È questo l'autentico "dilemma faustiano", come lo chiama Harvey, ma che non sta in relazione solo alla concorrenza tra capitalisti.
È così che si spiega il crollo, a esempio, dell'Unione Sovietica. Lo scontro pratico tra i due paesi egemoni, gli USA del capitalismo e l'URSS del comunismo, li ha condotti a potenziare, in linea di principio indefinitamente, i loro rispettivi armamenti nucleari, insieme alla scienza e la tecnologia necessarie. I Sovietici a un certo punto (in specie dopo il lancio da parte di Reagan del progetto di "scudo spaziale" o "guerre stellari") si sono resi conto che tener fermo lo scopo del comunismo avrebbe indebolito il mezzo: l'uso logora il mezzo e lo scopo è un limite al potenziamento che lo scontro pratico con lo scopo avverso continuamente richiede.
Mantenere fermo lo scopo del comunismo significava essere perdenti, continuare a potenziare il mezzo implicava lasciar tramontare lo scopo. Il dilemma faustiano, cui è destinata qualsiasi volontà etica, è stato sciolto a favore del potenziamento del mezzo.
La Russia, non più comunista, è tuttora la seconda potenza militare del mondo. Insieme agli USA detiene circa il 95% degli armamenti nucleari coi quali è possibile distruggere il mondo, rendendo improbabile una terza guerra mondiale.
Se si volge lo sguardo all'insieme dell'apparato scientifico tecnologico del nostro tempo, tenendo presente la logica del rapporto mezzo scopo sopra succintamente esposta, allora ci si può rendere conto che la tendenza che viene a determinarsi, per effetto dell'azione delle differenti etiche in conflitto, è il continuo potenziamento della capacità della tecnica nel suo complesso di realizzare scopi: qualsiasi scopo di qualsiasi orientamento etico. Il che implica che questa crescita della potenza toglie a ogni scopo etico posto come primario la pretesa di escludere gli altri e dunque la sua supposta primarietà.
In altri termini e per concludere, ciò che Harvey sembra non considerare è che spesso più che le differenti etiche a cui comunemente guardiamo e con cui spieghiamo la realtà che ci circonda è la potenza della tecnica a dominare (1). Anche lo spazio urbano. È con questo che dovremmo misurarci, qualsiasi sia la nostra idea di città e di società.
Note
(1) Rigorose speculazioni, tra le più profonde e coerenti, intorno alla tecnica, in specie alla logica del rapporto mezzo scopo, si trovano in alcuni dei numerosi scritti di Emanuele Severino, quali a esempio: Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica (1978); Téchne. Le radici della violenza (1979); La tendenza fondamentale del nostro tempo (1988); Il declino del capitalismo (1993); Il destino della tecnica (1998); Tecnica e architettura (2003); Capitalismo senza futuro (2012); e (con Natalino Irti) Dialogo su diritto e tecnica (2001).