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L'Unione Sarda, 29 ottobre 2008

Così in trent'anni è esplosa Capoterra.

Un paese agricolo di 7mila persone sfiora oggi 24mila abitanti.

di Giancarlo Ghirra

CAPOTERRA «Se mi chiede cosa ne penso, dico che non sono d'accordo con le scelte urbanistiche e edilizie adottate quasi quarant'anni fa. Ma io, sindaco, ho il dovere di attuare le norme esistenti, anche quelle da me combattute e mai votate, varate con il Programma di fabbricazione del giugno del 1969». Così parla Giorgio Marongiu, cinquantaquattro anni, da sette sindaco di Capoterra, esponente del Partito democratico alla guida di una giunta di centrosinistra. «Ecco perché - insiste - oggi si costruisce ancora a Frutti d'oro come a Maddalena Spiaggia e nelle altre aree dotate di licenze e concessioni. Applico le leggi, anche quelle che appaiono incredibili davanti alla tragedia di una settimana fa. Le leggi trattano un rio, come il San Girolamo, diversamente da un fiume, e consentono di edificare a soli quattro metri di distanza dal corso d'acqua: io posso non condividerle, ma le devo applicare fino a quando Stato e Regione non le cambieranno. Ci sono lotti quasi sulla spiaggia che bloccherei volentieri e sui quali ho chiesto pareri alla Capitaneria, agli uffici nazionali e regionali. Ma quando le pratiche mi tornano indietro con bolli e timbri, devo solo dare il via libera ai proprietari. Non posso impedire al dirigente tecnico di dare via libera al cittadino che potrebbe denunciarci per violazione dei suoi diritti. Certe volte quando rallenti qualcuno arriva addirittura a fare cattivi pensieri». E così Capoterra continua la tumultuosa crescita edilizia che ha trasformato il vecchio paesone agricolo alle porte di Cagliari in un gigantesco quartiere residenziale cresciuto a dismisura e con scarso rispetto per una natura capace di vendicarsi, su innocenti, delle violenze degli uomini all'ambiente.

I RIMBORSI DEI DANNI. A chi oggi soffre per le case devastate dal fango arriveranno - dicono in Comune - i rimborsi per i danni subiti dagli immobili. Non un euro per gli elettrodomestici, le cucine, i mobili, le attrezzature, gli indumenti. «Grazie all'intervento della Protezione civile - spiega Marongiu - registreremo i danni subiti dalle abitazioni. E attiveremo i rimborsi al più presto. Poi bisognerà rimettere a posto un sistema fognario duramente provato, noi che avevamo realizzato i collegamenti al depuratore del Tecnocasic per evitare che neppure un litro d'acque reflue fosse scaricato in mare o in un fiume». Il sindaco è stanco, teso, ma non nasconde i problemi. Anzi, li enumera.

IL PROGRAMMA DEL 1969. «Ci sono ancora costruzioni in corso, figlie del Programma di fabbricazione entrato in vigore il 13 giugno del 1969 e mai superato. Erano, sono, quindici lottizzazioni per quasi due milioni di metri cubi». Il sindaco era in quel momento Felice Baire, esponente della Dc, che avrà poi illustri successori, fra i quali l'allora socialista Raffaele Farigu, oggi consigliere regionale del Nuovo Psi. Fra gli altri successori Tore Caboni, anch'egli socialista ma oggi nel Pd, bersagliato dalle bombe a metà anni Novanta insieme all'assessore all'Urbanistica Franco Piano proprio per le scelte contro nuovi progetti edilizi.

DA 7.000 A 24.000 ABITANTI. Nel corso di trentanove anni Capoterra è passata da meno di settemila abitanti agli attuali ventiquattro mila, ospitati a macchia di leopardo, quasi tutti nelle campagne e sulla costa, spesso su terreni delicatissimi dal punto di vista idrogeologico. Ma allora (e forse ancora oggi) le leggi erano assai permissive. E di questo approfittarono quei pochi che trasformarono in aree fabbricabili campi non più utili per l'agricoltura, e neppure per gli uccellatori famosi a Capoterra per la caccia con i lacci ai tordi trasformati in grive: is pillonis de taccula . La passione per le arrività tradizionali rivelò scarsa capacità di resistenza di fronte all'entusiasmo di un ceto di amministratori che nel 1969 voleva portare la popolazione a quota 50 mila e qualche anno dopo pensò addirittura a quota 62 mila.

GLI ANNI DEL BOOM. Siamo negli anni del boom economico, con le industrie insediate a Macchiareddu, e, dopo la Cinquecento e la lavatrice, la casa-villetta, magari a schiera, fa parte dei sogni di borghesi e proletari. Ma andiamo con ordine. Negli Anni Settanta cominciano i lavori e le costruzioni a Poggio dei Pini, a Maddalena Spiaggia, Torre degli Ulivi e anche vicino allo stagno. Fra i proprietari delle aree si segnalano nomi importanti: Marino Giardini (Maddalena Spiaggia, Su Spantu), Flavio Picciau, il notissimo professor Mario Floris, proprietario di cliniche private (con la "Selene agricola immobiliare" a Rio San Girolamo), la Cooperativa Mille, legata ai partiti della sinistra, che cederà poi parte della lottizzazione all'imprenditore Sergio Zuncheddu, attuale proprietario dell'Unione Sarda, di Videolina e Radiolina. «Tutti gli interventi - precisa il sindaco Marongiu - furono realizzati sulle base delle leggi». In tre anni gli stupefatti ex contadini si ritrovarono davanti, sorti dal nulla, Maddalena Spiaggia, Frutti d'Oro, Torre degli Ulivi, Su Spantu. Poi seguì tutto il resto. Ma intanto continuavano ad arrivare richieste agli amministratori per nuovi investimenti.

ALTRI 2 MILIONI DI METRI CUBI. Per l'esattezza, vennero presentate dagli anni Settanta a oggi 12 domande per costruire altri due milioni e 650 mila metri cubi, in grado cioè di portare sopra quota 50 mila la popolazione di Capoterra. Fra i propositori delle istanze di lottizzazione ci sono nomi di diversa rilevanza: su tutti Edilnord e Villalta di Paolo Berlusconi, che poi rinuncerà a costruire su 152 ettari a nord di Poggio dei Pini. Non mancano nomi di proprietari sardi, come Elisa Nurchi D'Aquila, Matilde Martello, Vittoria Bertolino, Né sfugge alla tentazione-Capoterra uno degli imprenditori locali più attivi sul fronte immobiliare, Peppetto Del Rio, che presenta con la Ediliza Nora il progetto più vasto nell'area a mare, 162 ettari: una sorta di continuazione delle costruzioni da Torre degli Ulivi sin verso Villa d'Orri. Molti di questi progetti sono ancora in campo, ma a partire dalla metà degli anni Novanta il Comune ha scelto di bloccare sostanzialmente le costruzioni anche prima del varo del Piano paesistico regionale, con delibere evidentemente solide, agganciate ai Ptp, contro le quali si sono scontrati vanamente i ricorsi alla giustizia amministrativa di alcuni dei proprietari terrieri. «Il nefasto annullamento dei Piani territoriali paesistici - ricorda ancora il sindaco Marongiu - ci fece trovare privi di paracadute la notte del 31 dicembre del 2003. Il congelamento delle proposte edificatorie era infatti legato ai Ptp. Quando caddero, immediatamente ci arrivaromo le dodici richieste per 600 ettari di lottizzazioni, i 2 milioni e 651 mila metri cubi. Non subimmo attentati e minacce, né bombe come quelle che avevano colpito negli anni Novanta l'assessore Piano e il sindaco Tore Caboni. Ma pressioni tante. Ciò nonostante riuscimmo a varare le due delibere, numero 8 e 9, che non vietano di edificare, ma abbassano fortemente gli indici di fabbricazione». Costruire non conviene più, insomma, perché si può tirar su poco. E le delibere resistono al Tar e al Consiglio di Stato, sino a quando, con il varo della salvacoste e del Piano paesistico regionale, l'edificazione nel 2004 è bloccata in quelle aree. «Oggi guida il Comune un gruppo di amministratori e consiglieri -insiste il primo cittadino- che a metà degli Anni Novanta si ritrovò sull'esigenza di salvare il salvabile di un territorio già fortemente compromesso. Una volta approvati i Piani territoriali paesistici, tentammo già allora di realizzare il Puc. Per farlo era necessaria la doppia conformità: sovrapponendo la carta del programma di fabbricazione alle norme regionali dei Ptp si capiva con facilità che le zone C ed F, quelle di espansione e turistiche, non erano realizzabili. E così, con il sindaco Tore Caboni, decidemmo di congelare le nuove costruzioni. Ma ancora oggi occorre varare subito il Piano urbanistico comunale perché le pressioni continuano a essere insistenti».

LO STOP DEL COMUNE. A Capoterra (e non solo) il dio mattone non dorme mai: le domande ancora sul tappeto riguardano una capacità edificatoria in grado di ospitare sino a 25.000 nuovi abitanti, mica uno scherzo. «Puntiamo a una svolta in futuro - dice Tore Caboni, oggi presidente del Consiglio comunale - sperando non tornino mai quegli anni fra il 1994 e il 1997 con attentati, intimidazioni e minacce, teste di capretto e crisantemi sulle porte di casa. Questo non è più il paese della mia infanzia, con 6,7 mila abitanti, ma ci sforzeremo di impedire che nuove costruzioni sorgano su un territorio delicatissimo. Ci sono quelle che hanno i bolli e i timbri dell'interesse legittimo, con lottizzazioni già assentite . Alcune furono realizzate in modo oggi incredibile, ma secondo le norme: eravamo alla vigilia della Bucalossi, ma per favorire le costruzioni venne varata una legge ponte grazie alla quale le prime case furono tirate su senza la costruzione dei servizi, poi realizzati a spese del Comune. Fu un'urbanizzazione a macchia di leopardo, con il centro storico isolato». Dalla Maddalena Spiaggia alla lottizzazione Picciau, da Frutti d'Oro 1 e 2 fino a Torre degli Ulivi, Su Spantu, Rio San Gerolamo e Poggio dei Pini, passando per la Residenza del Sole e Santa Rosa, Capoterra è, più che cresciuta, esplosa. E molto potrebbe ancora essere costruito, se non arriverà rapidamente un Piano urbanistico comunale. Nell'attesa, lo strumento urbanistico principe ancora in vigore è il Programma di fabbricazione entrato in vigore il 13 giugno del 1969. Almeno due alluvioni e tanti, troppi morti, fa.

Su fiumi e canali si continua a costruire.

CAPOTERRA. Si continua a costruire. Sin dentro i canali, su quei fiumi che dopo il lungo sonno hanno ricominciato a vivere, riprendendosi la loro strada naturale che secoli fa avevano tracciato e che avevano custodito nella loro memoria quando l'acqua era venuta a mancare per colpa della siccità.

Rio S'acqua de Tommasu, storia d'oggi. Le ruspe sono al lavoro, dentro il letto stracolmo di terra e rocce e macerie. Una casa è a rischio crollo, l'onda ha spazzato via il muro di contenimento in cemento armato innalzato tredici anni fa. L'ha abbattuto come fosse un fuscello. Nonostante i trecento quintali di ferro utilizzati per costruirlo. «Ho salvato la mia famiglia poi sono andato a lavorare con la ruspa per aiutare le altre persone», dice Marcello Deidda, proprietario della casa in bilico sul canale. «La mia famiglia è divisa, metà dai miei suoceri mentre io sto da mio padre», spiega Deidda, dipendente comunale e che ieri mattina si è ritrovato senza dimora dopo l'ordinanza di inagibilità firmata dal sindaco Giorgio Marongiu, inevitabile dopo il dettagliato rapporto dei Vigili del Fuoco. «Quando abbiamo costruito le condizioni non erano certo queste, il danno lo stanno facendo i lavori sul rio, quelli avviati dal Consorzio e non ancora terminati e quelli di un vicino cantiere edile». Neppure cento metri più a valle, Le Querce, il complesso residenziale in via di realizzazione che ha messo in vendita di appartamenti di varie metrature fatti costruire dall'imprenditore e editore (è proprietario del periodico "La Voce dei Comuni") Stefano Pala. Sei piccole palazzine da quattro piani ognuna, per un totale di una quarantina di appartamenti, la cui storia è cominciata parecchi anni fa. Sicuramente prima che edilizia da un imprenditore di Quartu, Ubaldo Caria. Vicenda tormentata, quella delle Querce. Con autorizzazioni, nulla osta rilasciati e ripensamenti, richieste di correzioni in corso d'opera del progetto. Con interventi diretti di Regione, Genio Civile, Consorzio di bonifica, Asl, Comune. E tante, davvero molte polemiche. Perché nonostante l'area fosse considerata dalle carte zona edificabile, in quello spicchio di territorio capoterrese, a Su Liori, correva e scorre il rio S'Acqua de Tommasu. Stranamente e inspiegabilmente slegata dal Pai, il Piano di assetto idrogeologico. Incombente, con i suoi vincoli, solo nella parte centrale del rio e non sulle sue sponde. E proprio qui, nel versante che guarda a Capoterra, che le ruspe stanno ora lavorando. Per la messa in sicurezza del complesso residenziale che solo successivamente potrà essere realizzato. Il sì (meno atteso, visto che l'attuale Giunta e il sindaco Giorgio Marongiu in testa si erano sempre detti contrari alle case così vicine al fiume) era arrivato il 19 ottobre del 2006. Un nulla osta della commissione edilizia appena insediata e fatta di soli tecnici, che aveva scatenato le proteste del sindaco e la richiesta di ulteriori accertamenti. Innanzitutto al Centro interdipartimentale di ingegneria e scienze ambientali ma anche Genio Civile e al Consorzio di bonifica. Soltanto per essere sicuri che lì, a Su Liori, non ci fossero pericoli. A parlare, in questi giorni, è stata l'alluvione. Che si è fatta beffa di tanti responsi, giudizi tecnici, carte

Gruppo d’intervento giuridico, 29 ottobre 2008

Quando un sindaco non la racconta tutta.

"Il nefasto annullamento dei Piani territoriali paesistici ci fece trovare privi di paracadute la notte del 31 dicembre del 2003. Il congelamento delle proposte edificatorie era infatti legato ai Ptp". Così parla il sindaco di Capoterra Giorgio Marongiu quasi per giustificare l'alluvione di cemento sulla piana e sui fiumi capoterresi che ha determinato l'alluvione di troppi corsi d'acqua che si sono ripresi violentemente lo spazio rubato loro con prepotenza dalla speculazione edilizia con l'aiuto determinante di una pianificazione urbanistica disegnata su misura.Non dice che quei piani territoriali paesistici - P.T.P. vennero annullati (1998, 2003), su ricorso degli Amici della Terra, dai Giudici amministrativi perché accoglievano affettuosamente proprio miriadi di progetti speculativi in tutta la Sardegna, Capoterra compresa. Proprio il contrario di quello che dovevano fare.

E non dice - ma nemmeno lo chiede il giornalista intervistatore - per quale cavolo di motivo in ben sette anni del suo mandato amministrativo non ha ancora radicalmente modificato quel vecchio programma di fabbricazione del giugno 1969. E non dice neppure per quale altro cavolo di motivo la sua amministrazione comunale ha voluto la del piano di assetto idrogeologico - P.A.I. per zone a grave rischio come quel Rio S'Acqua Tommasu dove già gli Amici della Terra ed il Gruppo d'Intervento Giuridico riuscirono anni or sono a non far realizzare una bella palazzina ed oggi è stato, come al solito, percorso da ondate d'acqua.

Attendiamo con fiducia le risultanze delle indagini avviate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari. Se verranno individuate responsabilità non coperte da prescrizione, le associazioni ecologiste Amici della Terra e Gruppo d'Intervento Giuridico, da molti anni impegnate contro le dissennate opere di trasformazione del territorio che comportano nuovo dissesto idrogeologico, presenteranno istanza di costituzione di parte civile nell'eventuale procedimento penale. Stiamo approfondendo, poi, su varie richieste da parte di persone danneggiate la possibilità di promuovere un'azione collettiva (quasi una class action ambientale/territoriale) risarcitoria nei confronti di amministrazioni pubbliche responsabili della cattiva gestione del territorio. Chi fosse interessato può contattarci attraverso questo spazio web all'indirizzo di posta elettronica
grigsardegna5@gmail.com. Vediamo che cosa si può fare in proposito...

Amici della Terra e Gruppo d'Intervento Giuridico

Non è vero che, dopo il blitz estivo della legge 133, la Finanziaria di fine anno non possa riserbarci più sorprese. Una ce n´è, almeno stando alle intenzioni dell´onorevole Gabriella Carlucci, che ha presentato due versioni di uno stesso emendamento (nrr. 2076 e 2077), pudicamente etichettato «Riemersione di beni culturali in possesso di privati». Basta una scorsa per accorgersi di che si tratta: una riedizione "dell´archeo-condono" già proposto dall´on. Gianfranco Conte, dalla stessa Carlucci e da altri deputati nel 2004 (nr. 5119), poi ritirato e ripresentato come emendamento alla Finanziaria 2005 (nr. 30.068), ma sconfitto, dopo una denuncia di questo giornale, anche per il deciso intervento di esponenti di spicco del governo Berlusconi di allora, come il ministro ai Beni Culturali Giuliano Urbani e il sottosegretario all´Economia Giuseppe Vegas. Vediamo di che si tratta: secondo la proposta Carlucci, «i privati possessori o detentori a qualsiasi titolo di beni mobili di interesse archeologico antecedenti al 476 d. C., non denunciati né consegnati a norma delle disposizioni del Codice dei Beni Culturali, ne acquisiscono la proprietà mediante comunicazione alla Soprintendenza competente per territorio».

Qualche documentazione che attesti la provenienza? Non c´è bisogno: basta che il dichiarante «attesti il possesso o la detenzione in buona fede», e paghi un piccolo balzello per le «spese di catalogazione». Ma niente paura, le spese di catalogazione non rovineranno nessuno, visto che vanno («in relazione al numero dei beni oggetto di comunicazione», e non al loro valore storico, artistico o archeologico) da un minimo di 300 euro a un massimo di 10.000. Non basta: con l´eccezione di quegli oggetti che la Soprintendenza dichiari di particolarissimo interesse culturale, tutti gli altri «possono essere oggetto di attività contrattuale a titolo gratuito o oneroso, e la loro circolazione è libera, in deroga alle disposizioni del Codice», e in particolare del Capo IV, sez. I (circolazione nel territorio nazionale) e del Capo V, sez. I e II (uscita dal territorio nazionale). Inoltre, «il censimento è esteso a tutti gli oggetti che i collezionisti detengono all´estero, purché li facciano rientrare all´interno dei confini nazionali», e naturalmente sulla base di un generale «principio di depenalizzazione», che si applica anche ai «non cittadini italiani che detengono i beni suddetti all´interno dei confini italiani».

Poiché questa proposta null´altro è se non la fotocopia di quella del 2004, possiamo commentarla con le parole usate allora alla Camera da due esponenti del Pdl. Il senatore Giuseppe Vegas, allora come ora sottosegretario all´Economia, definì la proposta «una sanatoria per i tombaroli» e invitò l´onorevole Conte a ritirarla. L´onorevole Gioacchino Alfano espresse «il timore che la norma finisca di fatto con l´incentivare il saccheggio del sottosuolo alla ricerca di reperti dei quali legittima l´appropriazione».

Questa è infatti la ratio della proposta Carlucci: in deroga (o in barba) al Codice dei Beni Culturali firmato da Giuliano Urbani, che è, o dovrebbe essere, fra i massimi vanti del governo Berlusconi (anche perché consolidato in una logica bipartisan dai piccoli ritocchi dei ministri Buttiglione e Rutelli), si propone qui di sanare migliaia di reati con un sol colpo di spugna, e si invitano tombaroli, depredatori e trafficanti di antichità, collezionisti finti e mercanti disonesti a mettere in vendita in Italia e all´estero i beni archeologici che fino a ieri avevano dovuto nascondere, tremando al pensiero di esser colti in castagna dai Carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio.

Questa "licenza di uccidere" il patrimonio archeologico, senza alcun limite e alcun discrimine se non la dichiarazione che tombaroli e ricettatori operano "in buona fede" non contrasta solo con le leggi e col Codice, ma anche con l´azione intrapresa dal ministro onorevole Sandro Bondi in favore del patrimonio archeologico. Giustamente egli può vantarsi di aver continuato l´opera intrapresa dai suoi predecessori Buttiglione e Rutelli nel recupero dei beni archeologici trafugati all´estero. Giustamente abbiamo celebrato nella grande mostra Nostoi, nelle nobili sale del Quirinale, il ritorno in Italia di pezzi illegalmente esportati e finiti nelle collezioni di grandi musei a New York, Boston, Los Angeles.

Ma il principio etico e giuridico in base al quale i musei stranieri hanno cominciato a restituire all´Italia il maltolto si fonda sul fatto che essi, dopo enormi fatiche della magistratura, del Ministero, dell´Avvocatura dello Stato e dei Carabinieri, hanno finito col riconoscere la solidità giuridica e culturale del principio normativo secondo cui in Italia i beni archeologici, in quanto testimonianza di civiltà che forma contesti non segmentabili, sono di pertinenza dello Stato. Se passasse la proposta Carlucci, che legittima ogni possibile traffico e consacra la clandestinità come una virtù, con quale faccia potremmo insistere per la restituzione di altri oggetti da parte dei musei stranieri?

Non è pensabile che il Governo, e in particolare il ministro Bondi, possa accogliere, in nessuna forma nemmeno truccata o mitigata, un principio che cancellerebbe di colpo ogni regolamentazione o prerogativa statale nella conduzione dell´attività di ricerca archeologica, aprendo su tutto il territorio nazionale una gigantesca caccia al tesoro. Non è possibile che un Ministero preposto alla tutela venga (come vuole la proposta Carlucci) obbligato per legge ad «assicurare la più sollecita ed ampia diffusione della conoscenza della presente legge presso l´opinione pubblica, avvalendosi anche dei mezzi di comunicazione di massa», cioè a spendere i pochi spiccioli che restano dopo i giganteschi tagli d´estate per reclamizzare il commercio di reperti illegali. E´ sperabile che l´onorevole Carlucci, dopo aver distrattamente ripescato nei suoi cassetti del 2004 una proposta già allora bollata come impraticabile dai suoi colleghi di partito, sappia comprendere che non è il caso di insistere. Non può che andare in questo senso, lo scriviamo con fiducia, l´azione del Governo e in particolare del ministro Bondi, che tanto si sta prodigando per dare respiro e progettualità al suo Ministero pur nelle gravi difficoltà di bilancio. Ogni forma di "archeo-condono" non solo delegittimerebbe in modo irreparabile il Ministero e i suoi funzionari, e dunque anche il ministro), ma offenderebbe la secolare storia della tutela in Italia e violerebbe la Costituzione.

Nel 2004, un´identica norma fu bocciata (nonostante la fievole opposizione delle sinistre) proprio per la sensibilità istituzionale di membri del Governo. Non si vede perché non dovrebbe accadere anche adesso.

Nell’anno in cui si celebrano i sessant’anni della Costituzione (con l’innovativo articolo 9) e ha preso forma definitiva (conclusa la seconda revisione) il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Italia Nostra dedica il proprio congresso nazionale a “Il primato della tutela”, per avviare (non certo per esaurire) una necessaria verifica: se e come, da un lato, quel principio fondamentale abbia trovato adeguata attuazione nella produzione legislativa ordinaria (il “Codice” innanzitutto e le altre norme che hanno definito le competenze e regolato l’esercizio della funzione di tutela); e, dall’altro, se nella prassi quel primato (sancito dalla Costituzione e sempre ribadito dalla Corte Costituzionale) sia stato fatto valere e sia osservato nei rapporti con l’esercizio di diverse attribuzioni pubbliche e nel confronto con altri interessi ai quali pur si riconosca pubblica rilevanza.

Perché il nostro congresso a Mantova. Prendemmo l’impegno oltre un anno fa quando la giunta di Italia Nostra si convocò in questa città per esprimere il suo sostegno alla Amministrazione comunale e alla Sindaco che avevano con determinazione preso atto di un errore urbanistico del recente passato e avvertivano il dovere di porvi rimedio. Un nuovo insediamento residenziale avrebbe infatti irrimediabilmente alterato il mirabile paesaggio storico che con la corona dei laghi costituisce l’intorno del nucleo monumentale urbano, fissato per sempre dalla rappresentazione mantegnesca. Fu Italia Nostra a suggerire la tutela della prospettiva anche oltre la riva del lago, da e verso l’emergenza monumentale del Castello di San Giorgio e del Palazzo ducale, ma il vincolo così disposto è stato contestato e la controversia ancora non è risolta. Per confermare le ragioni che impongono la salvaguardia dello storico paesaggio di Mantova (il sistema dei laghi che contornano la città secondo un complesso assetto idraulico merita in ogni caso il riconoscimento di bene culturale in sé e perciò una diretta tutela) Italia Nostra ha voluto qui il suo congresso nazionale.

Non vuole essere il consueto rituale omaggio, talvolta di maniera, all’articolo 9, ma il tentativo di approfondirne il significato nel complessivo disegno costituzionale dei compiti della Repubblica e di ricavare le implicazioni della posizione di assoluto rilievo che fa della tutela di patrimonio e paesaggio principio fondamentale. Dunque la Repubblica si fonda sulla tutela, perché patrimonio e paesaggio sono espressione della identità nazionale e motivano nel profondo le ragioni della unità della nazione, in essi ci riconosciamo partecipi di una comune cultura, della medesima cittadinanza. A una funzione così concepita come essenziale e primaria fu adeguata la costituzione di un apposito ministero, politicamente responsabile, quale lo volle Spadolini nel 1975 (creato addirittura per decreto-legge e l’urgenza potè dirsi giustificata dal grave ritardo). Come è noto Italia Nostra non aveva condiviso le conclusioni della Commissione Franceschini per una amministrazione autonoma che avrebbe pagato la riconosciuta autonomia degli speciali modi della tutela (cui non si addicono i modelli burocratici), con un destino di separazione se non di emarginazione, di esclusione in ogni caso dalle scelte di riforma economico-sociale. Un ministro, allora, che ha titolo per partecipare alla responsabilità di governo, che siede al tavolo della programmazione con il Cipe, se la tutela così ampiamente intesa, diretta alla promozione della cultura, non solo si esprime nelle istituzioni tradizionalmente deputate secondo le due leggi fondamentali del 1939 (oggi infine unificate nel Codice comprese le disposizioni della legge Galasso del 1985, prima legge di attuazione della Costituzione), ma è tensione di ogni scelta di indirizzo nel governo del paese e perfino di ogni determinazione di gestione degli interessi pubblici. La tutela insomma non come limite operante dall’esterno ma come istanza presente in ogni scelta destinata ad incidere sulla vita dei cittadini. (In una famosa circolare oggi in desuetudine Spadolini affermò la necessaria concorrente competenza degli uffici della tutela in ordine alla progettazione di ogni opera pubblica, fosse attuata dallo Stato o dal più piccolo dei comuni). Che poi di questo ruolo così penetrante della tutela siano stati consapevoli (e l’abbiano in concreto saputo rivendicare) i titolari che succedettero a Spadolini è legittimo dubitare e per molti anni (forse meno per i più recenti) quel ministero fu considerato, nelle logiche di composizione dei governi, di rilievo politico minore se non addirittura trascurabile.

In ragione della sua specialissima materia il ministero era stato voluto dunque e concepito secondo un modello originale e innovativo, fondato sulle competenze tecnico-scientifiche, libero dall’appesantimento di rigide strutture burocratiche, garantito nella autonomia di ogni sua determinazione. L’esercizio di una funzione cui la Costituzione assegna quel ruolo essenziale e primario esige la dotazione di adeguate risorse in mezzi e competenze, dovendo intendersi gli eventuali apporti privati come integrativi, mai sostitutivi dell’autosufficiente sostegno finanziario pubblico. A questo modello organizzativo della funzione - aderente al progetto costituzionale – è agevole constatare quanto sia lontana la effettiva condizione delle istituzioni di tutela, mortificate non solo dalla assegnazione di risorse inadeguate e in progressiva drammatica contrazione, ma strette dentro un regolamento (quello di recente approvato) che esaspera i profili burocratici e l’ordinamento gerarchico, attivando in pratica una mobilità parossistica nella assegnazione dei ruoli direttivi, non pochi dei quali rimangono tuttavia scoperti, mentre continua ad essere eluso il problema del ricambio, attraverso regolari concorsi, del corpo dei tecnici che costituisce un patrimonio di elevate competenze a rischio di inaridirsi. Sicché c’è chi non senza ragione intravede una linea di progressiva consapevole se non intenzionale liquidazione delle istituzioni di tutela.

La imputazione alla Repubblica è la conferma che una tutela così intesa e pervasiva impegna non solo lo Stato, ma tutti i soggetti dell’ordinamento secondo le rispettive differenziate attribuzioni. E al riguardo, come è ben noto, fin dalla prima attuazione dell’ordinamento regionale si è aperta una contesa talvolta perfino aspra tra stato e regioni per la definizione dei rispettivi compiti in tema di tutela per le riconosciute connessioni, innanzitutto, della disciplina del paesaggio con il governo del territorio, l’urbanistica, che è competenza primaria delle regioni. La riforma del titolo V della Costituzione, approvata frettolosamente in articulo mortis di quella legislatura, ha inteso risolvere quella contesa con l’artificiosa rottura della inscindibile endiadi tutela e valorizzazione (essendo la valorizzazione funzione interna alla tutela, la sua stessa finalità) per fondare su quella discriminazione il criterio di definizione delle rispettive attribuzioni e ha così riservato allo Stato la legislazione sulla “tutela” e la sola determinazione dei principi fondamentali della “valorizzazione”, che ha rimesso per altro alla concorrente legislazione e alla esclusiva potestà regolamentare delle regioni. Con insuperabili complicazioni, come subito si avvertì quando le regioni intesero esercitare la potestà regolamentare in tema di gestione, dunque di valorizzazione, dei beni culturali appartenenti allo Stato e la Corte costituzionale dovette risolvere con qualche difficoltà il conflitto a favore della potestà regolamentare mantenuta, in quei limiti, allo stato.

Non si dubita per altro che le funzioni di amministrazione attiva della tutela obbediscano all’esigenza dell’esercizio unitario e della adeguatezza tecnica degli organi che la esercitano (come vuole l’articolo 118 della Costituzione), perché paesaggio e patrimonio sono valori rigorosamente unitari e imputati alla collettività nazionale e implicano necessariamente la responsabilità di quel livello dell’ordinamento che è rappresentativo della istanza unitaria nazionale, dunque il ministero peri beni e le attività culturali con la trama territoriale delle sue soprintendenze. Conclusione questa che non contraddice il principio della diffusa responsabilità della tutela (la Repubblica, in ogni sua istanza istituzionale secondo l’art. 9), ma riflette la esigenza che essa sia esercitata nel nome della collettività nazionale. Regione, Province e Comuni non hanno la disponibilità di patrimonio e paesaggio che pur amministrano in funzione di tutela e valorizzazione e nella ipotesi di contrasto negli apprezzamenti di merito debbono prevalere le istanze rappresentative della dimensione nazionale, quindi le istituzioni dello Stato. E’ per questa ragione che il cedimento del ministro, allora Rutelli, alla rivendicazione delle Regioni, che ha comportato l’affermazione dell’efficacia non vincolante del parere del soprintendente in tema di autorizzazione paesaggistica, contrasta con il principio costituzionale dell’esercizio unitario delle funzioni di tutela.

L’attuazione del così detto federalismo fiscale (le misure che assicurano autonomia finanziaria a Regioni, città metropolitane, province e comuni per l’esercizio delle rispettive attribuzioni), oggetto del disegno di legge di recente definitivamente approvato dal consiglio dei ministri, non sembra che possa interessare l’ambito della tutela, se non per l’ulteriore prosciugamento delle disponibilità del bilancio dello Stato che indirettamente si riflette su quello specifico del ministero dei beni culturali (è caduto, infatti, come tra un momento vedremo, quel misterioso emendamento all’articolo dello stesso disegno di legge che detta l’ordinamento di Roma capitale).

Ma la materia della tutela è compresa tra quelle per le quali anche le singole Regioni a statuto ordinario possono chiedere (e ottenere con legge dello Stato approvata da maggioranze qualificate) “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” (è una innovazione introdotta con leggerezza nella riforma del titolo V), e già nella trascorsa legislatura si era attivato per l’attuazione di questa previsione un ampio fronte guidato dalla Regione Lombardia, fronteggiato, si deve riconoscere, con fermezza dal ministro Rutelli. Nei nuovi indirizzi di Parlamento e Governo è fondata previsione che quel movimento troverà più ampio riconoscimento. Ma un limite deve rimanere insuperabile. Il terzo comma dell’art. 116 (quello appunto che intende avviare un processo di così detto federalismo differenziato) non ha certo la forza di contraddire il principio fondamentale dell’articolo 9 e non potrà risultarne in alcun modo compromessa la dimensione unitaria della gestione dei valori di patrimonio e paesaggio, né potrà perciò derivarne l’indebolimento delle strutture che lo Stato, costituendo un apposito ministero, ha doverosamente approntato per adempiere a una funzione essenziale della Repubblica e che, inadeguate per dotazione di risorse a quel compito, debbono essere al contrario rafforzate, condizione essenziale per il primato della tutela.

Nella nuova formulazione del “Codice”sono state recuperate alle istituzioni della tutela – le soprintendenze – più incisive e dirette attribuzioni in tema di pianificazione urbanistica. La redazione dei piani paesaggistici e l’adeguamento di quelli che le Regioni si siano dati debbono essere infatti espressione della necessaria intesa tra Stato e Regioni. Copianificazione si dice. Ma le condizioni in cui versano le soprintendenze per i beni architettonici e per il paesaggio ne assicurano il paritario adeguato contributo? Le intese fino ad oggi siglate tra ministero e regioni sembrano infatti rimettere anche la disciplina del paesaggio agli strumenti propri della pianificazione urbanistica e, innanzitutto, al piano territoriale regionale al quale tutte le leggi urbanistiche regionali non attribuiscono la proprietà di dettare disposizioni immediatamente prescrittive, ma danno il compito di fissare gli indirizzi alla pianificazione sottoordinata di province e comuni. Sicché il piano paesaggistico risulterà infine dall’insieme, dal mosaico, dei piani comunali. Ma è un esito che contrasta con il modello del “Codice” che vuole uno strumento speciale, unitario e autonomo. Immediatamente prescrittivi sulle specifiche situazioni dei luoghi, necessariamente prevalente sulla generale pianificazione urbanistica. Lo ha più volte ripetuto la Corte Costituzionale, l’Urbanistica ancilla della tutela paesaggistica, piegata a realizzarla, tenuta cioè ad osservarne il primato.

Ricorderemo che la rivendicazione di nuove forme di autonomia nella tutela del paesaggio è da talune regioni fondata su una testuale (francamente, e non la sola, infelice) espressione della Convenzione europea del paesaggio (2000, ratificata dall’Italia nel 2005), secondo la quale “paesaggio” “designa una determinata parte del territorio come è percepita dalle popolazioni”. Espressione come ben si intende evasiva, perché non solo affida la identificazione dei valori del paesaggio ad apprezzamenti soggettivi, pur se collettivi, ma perché non dice e non può dire come si esprima quella percezione, quale soggetto sia legittimato ad interpretarla e quale sia il criterio di collegamento tra ambiti territoriali e popolazioni. Ebbene “le popolazioni” della convenzione dovrebbero intendersi quelle locali e da quella espressione si vorrebbe perciò ricavare l’impegno assunto dal nostro paese con la ratifica della convenzione a riconoscere l’attribuzione esclusiva dei compiti di identificazione e tutela del paesaggio ai Comuni come rappresentativi appunto delle popolazioni locali, quelle insediate nell’immediato intorno della “determinata parte del territorio”. L’argomento, come è facile intendere, è debolissimo ed è testualmente contraddetto dalla stessa convenzione (l’art. 4) la cui esecuzione si adegua alla ripartizione delle competenze secondo l’ordinamento di ogni stato e in conformità ai suoi principi costituzionali, con esplicito riconoscimento del ruolo nazionale.

Una rapida osservazione sull’emendamento al disegno di legge governativo in tema di federalismo fiscale che fonti non ufficiali ma accreditate davano approvato per conferire al comune di Roma e al costituendo ente di Roma capitale potestà esclusiva nella materia della tutela di patrimonio e paesaggio. Una amputazione colossale, è facile intendere, dell’unitario patrimonio culturale della nazione. Non è invece così e il sindaco di Roma, che lo aveva annunciato, era stato male informato. Ma l’equivoco (con le reazioni risentite subito suscitate) non deve essere stato consumato invano. La unitarietà di patrimonio e paesaggio della nazione esige, varrà ripeterlo ancora in questa occasione, unità di esercizio della tutela ed esclusivamente con leggi costituzionali (che vorremmo rimettere in discussione) sono state introdotte le sole eccezioni degli statuti “speciali” di Sicilia, Val d’Aosta, province autonome di Trento e Bolzano).

Dunque, si è detto e ripetuto, tutela come funzione essenziale della Repubblica, paesaggio e patrimonio come valori assoluti e prioritari che non tollerano di entrare in bilanciamento con altri interessi anche di rilievo pubblico sui quali debbono quindi sempre prevalere. Il primato appunto della tutela. Nel disegno costituzionale la tutela è presidiata da una straordinaria forza, della quale non sembrano sempre consapevoli non solo le soprintendenze ma perfino i comitati tecnico-scientifici, la massima istanza consultiva del ministero. Come nel caso dell’assurdo parcheggio sotterraneo che lambisce le fondazioni della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, giudicato incompatibile dal bravo soprintendente, ma infine licenziato sul parere del comitato tecnico scientifico che ha ritenuto di non potere resistere alla scelta politica e si è limitato a suggerire esornative mitigazioni. E anche il parcheggio nel cuore del Pincio era stato licenziato dal direttore regionale perché avrebbe migliorato la qualità urbana delle strade circostanti liberate dall’ingombro delle autovetture in sosta e dunque sopportabile il sacrificio degli strati millenari di fondazione della città sotto quell’assetto monumentale. E delle ragioni della tutela si sono invece investiti sindaco e ministro, negando lo sventramento del colle. Aprendosi così il delicato problema dei poteri del ministro in ordine ad uno specifico tema di tutela rispetto alla determinazione del competente organo tecnico-scientifico, intervento nella specie virtuoso, come per la tramvia che sfiora a Firenze Battistero e Santa Maria del Fiore, inconcepibile a giudizio del ministro (e per ragioni di ovvia coerenza per il parcheggio del Sant’Ambrogio a Milano e per il massiccio filobus, il Civis, nella Bologna medievale). Ma pure legittimo quando impone al dissenziente direttore del museo (è il caso dell’Annunciazione leonardesca promotrice e Tokyo del made in Italy) il prestito a una esposizione all’estero di un’opera dal direttore giudicata inamovibile?

La eccezione culturale è in linea di principio insuperabile e ha la forza di imporsi non solo sull’improprio insediamento residenziale sotto le mura di Monticchiello (e vi ha rinunciato), ma pure su altavelocità, autostrade, metropolitane, ponte sullo Stretto, eccetera; e pure quando il no del soprintendente e del direttore regionale nella sede della conferenza dei servizi rimane fermo e la questione sia stata rimessa al governo, neppure qui la politica può far legittimamente valere le sue prevalenti ragioni, perché anche il Consiglio dei ministri è chiamato a dare un apprezzamento di merito interno alle esigenze di tutela, che è tenuto a rispettare per precetto costituzionale. E’quanto non è invece avvenuto per il tracciato della autostrada Rovigo – Vicenza - Trento che sconvolge il paesaggio palladiano ed era stato fermissimamente contrastato da tutti i soprintendenti, ma il Consiglio dei ministri ha infine imposto con le superiori ragioni delle comunicazioni e dei trasporti. E il Consiglio di Stato non ha visto ragioni di censura. Perché non ha avvertito che il precetto della tutela dei beni culturali è rivolto anche al giudice (amministrativo e ordinario) che ben può, e anzi deve, direttamente applicare l’articolo 9, in ogni caso come criterio interpretativo della norma ordinaria. (Italia Nostra si propone di invitare a convegno magistrati ordinari e amministrativi per discutere con loro di “tutela e giurisdizione”). E se è vero in linea generale che le determinazioni politiche del governo trovano in se stesse, come espressione appunto della potestà politica, la ragion d’essere e dunque sono sottratte al dovere della motivazione che è requisito di legittimità dell’atto amministrativo, quando si tratti invece del destino del patrimonio culturale della nazione neppure il governo è sciolto dal precetto della tutela e deve dar conto di averlo osservato. L’amico Gianluigi Ceruti, alla cui competenza e generosità Italia Nostra affida la difesa nelle più impegnative controversie davanti al giudice amministrativo, constata con amarezza che l’aspettativa di tutela giurisdizionale dei valori di patrimonio, paesaggio e territorio è assai spesso delusa. E non è infrequente la decisione che pretende dal provvedimento di tutela (come requisito della sua legittimità) il bilanciamento tra l’esigenza di salvaguardia del bene culturale e l’interesse privato o pubblico che dalla tutela risulterebbe anche soltanto in parte sacrificato. Un giudice dunque non ancora consapevole del primato della tutela?

Certamente in contrasto con il principio di assolutezza della tutela è la norma del Codice dei beni culturali (art. 21), ereditata dalla legge del 1939, che rimette alla superiore decisione del ministero, dunque in sede di valutazione politica, “la demolizione delle cose costituenti beni culturali”, e questa competenza è stata invocata ed esercitata anche di recente per consentire alla metropolitana di Roma di travolgere lo strato archeologico con la prevista stazione di Piazza Venezia e alla metropolitana di Brescia di portar via le profonde fondazioni di una torre medievale.

Dall’articolo 9 discende la necessità per tutte la istituzioni della Repubblica di dotarsi di adeguate competenze tecnico - scientifiche e strutture organizzative per assicurare in proprio l’esercizio delle funzioni di tutela, certamente impegnate al più alto livello di responsabilità nella gestione dei musei pubblici che sono centrali, se così si può dire, nella strategia del “patrimonio”. L’aver artificiosamente sottratto la valorizzazione alla tutela apre la via alla privatizzazione di attività che sono invece espressione diretta della funzione di tutela, come appunto la gestione dei musei, che espressamente il Codice dei beni culturali e del paesaggio considera attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica. Italia Nostra ha criticato con severità la formulazione dell’articolo 115 come è risultata dalla prima revisione, quella del 2006, e così è rimasta definitivamente. Gli enti cui i musei appartengono sono sciolti dall’imperativo di costituire in proprio “strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico”, perché “al fine di assicurare un miglior livello di valorizzazione dei beni culturali” ben possono ricorrere alla gestione indiretta e cioè per concessione a “terzi”, e la scelta tra gestione diretta e indiretta “è attuata mediante valutazione comparativa in termini di sostenibilità economico-finanziaria e di efficacia”. Insomma si esprime così una netta preferenza per soluzioni esterne: la rinuncia, inammissibile in linea di principio, ad assumere in proprio la responsabilità della gestione culturale (non più soltanto dei servizi aggiuntivi) del più prezioso, complesso, impegnativo bene culturale, le cui raccolte appartengono al demanio pubblico, perché “il miglior livello di valorizzazione” è raggiunto per concessione a “terzi”. Come se poi, prive di adeguate strutture tecnico-scientifiche interne, le amministrazioni proprietarie siano capaci di guidare e controllare la esecuzione del contratto di servizio che regola i rapporti con il concessionario. Una deriva verso la dismissione di una funzione essenziale, una grave offesa al primato della tutela. Non conforta la constatazione che in pratica la gestione di un museo ben difficilmente può essere remunerativa e non pare che vi sia convenienza economica al concorso di privati concessionari . Preoccupa invece che il contratto di servizio, nella ricerca di efficaci incentivi per il terzo concessionario, sacrifichi alla sostenibilità economico-finanziaria le finalità di ricerca e promozione culturale che animano il museo.

Né abbiamo dubbi che il primato della tutela non consenta le annunciate operazioni di vera e propria messa sul mercato dei nostri patrimoni museali, ai quali si riconosce un potenziale valore locativo da spendere presso i provvedutissimi musei di oltre oceano o con quelli costituendi fondati in Medioriente sul petrodollaro. Il modello, dichiaratamente, è quello oggetto della convenzione siglata dal Louvre con il governo di Abu Dhabi per un fantasmagorico museo dell’Emirato, progetto giudicato in Francia “dissennato” da Jean Clair, il direttore del Museo Picasso, che fu per oltre dieci anni conservateur general du patrimoin. Chiediamo al Ministro di richiamare i suoi consulenti dalle visite di promozione commerciale negli Stati Uniti, che troppo li avvicinano a piazzisti. E’ la mercificazione del bene culturale pubblico, non più fine, ridotto a mezzo di produzione di utilità economica (e non importa se per essere spesa a beneficio del museo). E neppure si è riflettuto che il “Codice” pone un alt insuperabile a simili operazioni con l’art. 67, che ammette, sì, l’uscita temporanea in attuazione di accordi culturali con istituzioni museali straniere e per la durata che non può essere superiore a quattro anni, ma soltanto in regime di reciprocità, con esclusivo fine di scambio, per ottenere cioè un analogo prestito che reintegri la raccolta secondo un ragionato progetto culturale e compensi la temporanea assenza. Non certo come manovra che valga a supplire le carenze degli ordinari e dovuti finanziamenti istituzionali.

Né crediamo che questa manovra possa essere programmata e governata in sede centrale, perché ogni singola iniziativa deve essere invece espressione di accordi culturali promossi dalla direzione scientifica del museo interessato e perché la realtà dei nostri musei, già lo osservammo in altra sede, è ribelle ad assetti organizzativi unitari che facciano gerarchicamente capo a una appositamente costituita direzione generale del ministero

Per concludere. Un primato difficile. Non generalmente riconosciuto. Insidiato. Perfino apertamente contestato. Credo che si possa parlare di un allarmante fenomeno di inadempimento costituzionale.

Quale il compito di Italia Nostra. La tutela ha bisogno di un forte sostegno nazionalpopolare, lo diceva Giorgio Bassani, proprio in senso gramsciano sottolineava lui, crociano di convinta osservanza, e proponeva all’associazione il compito di suscitare la partecipazione democratica alla responsabilità della tutela, di farsi strumento di questa diffusa coscienza. E’ un compito che credo l’associazione abbia saputo sia pure con difficoltà perseguire, anche se questo impegno non si è tradotto in un corrispondente sviluppo quantitativo della sua compagine sociale, ma diffusa e radicata in ogni parte del paese. Risultati non irrilevanti possiamo registrare, e anche nel vasto movimento dei comitati. Ed è compito ancora attuale che trova un recente riconoscimento nella esplicita apertura della riforma del titolo V della Costituzione (ma che stava già in nuce nell’articolo 3), come sussidiarietà orizzontale, diretto coinvolgimento, e dunque responsabilità, di cittadini e loro libere associazioni nella stessa gestione attiva degli interessi pubblici.

STRADELLA. Stop al progetto Montalino così come era: il provvedimento o meglio la notifica dell’avvio di un procedimento (così definito in gergo tecnico) da parte del Sovrintendenza ai beni paesaggistici della Lombardia, dovrebbe essere infatti notificato al Comune, entro pochi giorni. Poi si riunirà il consiglio che, entro il 12 novembre, dovrà recepire l’atto della Sovrintendenza.

La Sovrintendenza ha forti riserve sul progetto relativo a una lottizazione in vista della basilica romanica. Tutto ancora sotto il più stretto riserbo, anche se le decisioni prese sono state già sostanzialmente preannunciate e ribadite, ieri, dal sindaco di Stradella, Pierangelo Lombardi e dall’assessore all’urbanistica e vice sindaco, Antonia Meraldi che stanno seguendo da vicibno l’intricata questione urbanistica. Il taglio dei Beni culturali non azzera i cantieri, ma li taglia in modo drastico. Cala il sipario su almeno due terzi dell’originario progetto di espansione residenziale: per circa 14mila metri quadrati sul totale di 22mila (ma i dati precisi saranno comunicati con il decreto), infatti, dovrebbe, infatti, scattare il vincolo di tutela indiretta. Cosa significa? Niente costruzioni, ma possibilità di prevedere e realizzare strada di accesso, ad uso dei disabili, alla millenaria Basilica nonché un parcheggio. «E’ un punto importante, rilevano sia il sindaco Lombardi sia l’assessore Meraldi, perché ci consente di poter intervenire per due opere essenziali nell’interesse pubblico.» Sindaco ed assessori sono concordi nell’affermare: «qui non ci sono né vinti né vincitori perché non era una guerra. Noi siamo convinti che i presupposti iniziali erano validi perché ci avrebbe consentito di avere un parco, ad uso pubblico, di cinquemila metri quadrati a costo zero. Adesso si tratta di iniziare una nuova fase di contatti con la proprietà e verificare se, almeno in parte come ad esempio per il parcheggio, si potrà procedere». L’ok a costruire rimarrebbe per circa 6-7mila metri quadrati lungo la via Cairoli (parte alta) seppur con precisi vincoli, ancora non definiti ufficialmente, da parte della Sovraintendenza.

Lungo via Cairoli, del resto, già da anni, seppur in zona più defilata rispetto alla striscia di terreno attigua alla collinetta di Montalino, si è già costruito, compreso un condominio. L’impatto edilizio qundi già esiste. «Questo è l’esito di un confronto che si era aperto più di un mese fa, rilevano il sindaco Lombardi e l’assessore Meraldi, nessuno ha mai voluto forzare la mano e non è mai venuto meno l’interesse pubblico. Una dimostrazione? Volendo, avremmo potuto approvare il progetto, in consiglio comunale già lo scorso 30 settembre visto che il termine per la presentazione delle osservazioni era scaduto il 12 settembre e le controdeduzioni erano pronte. Ma in realtà era giusto e doveroso attendere l’esito del confronto con la Sovraintendenza, da noi iniziato il 4 settembre. E’ anche questa la ragione per la quale non si è ritenuto di organizzare alcuna assemblea pubblica.» Il sindaco smentisce che a livello di giunta, sul progetto Montalino, ci siano state diversità di vedute o peggior ancora dei contrasti.

«Spesso la vicenda è èstata trattata, riferendosi ad altri al di fuori della giunta e del consiglio comunale, un po’ al di sopra delle righe» ha aggiunto Lombardi. Una volta che sarà pervenuto il decreto della Sovraintendenza, i proprietari dell’area potranno, se lo riterranno opportuno, fare ricorso. Ma si preannuncia, già dalle prossime settimane, una fase di mediazione e trattativa fra Comune e proprietari per una soluzione senza strascichi e sempre nel fermo obiettivo dell’interesse pubblico. Intanto resta vigile l’attenzione dei movimenti ambientalisti.

Nota: QUI una descrizione del "caso" Stradella/Montalino con qualche immagine ; rimane sconcertante l'atteggiamento culturale dell'Amministrazione, che continua a ribadire la "correttezza" delle proprie scelte con un linguaggio che appare più adatto a un geometra che non a chi dovrebbe rispondere dell'uso del territorio in senso lato. Sul sito del Comune di Stradella si può infatti leggere la lettera con cui l'Ente risponde alle critiche piovute praticamente da tutte le direzioni, salvo quella ovvia dei costruttori interessati. (f.b.)

Che il federalismo d’impianto leghista si prestasse ad aggravare i guasti apportati dalla modifica del titolo V della Costituzione ad opera delle sinistre, era stato denunciato più volte su queste colonne. La rubrica scorsa, appunto, lamentava come i post comunisti, nell’ansia di cancellare le proprie radici, avessero finito per gettare via, oltre a Marx e Stalin, anche Garibaldi e Cavour. Ed ora se ne vedono i frutti velenosi. Il «Comitato per la bellezza», un organismo dedito alla difesa artistica e paesaggistica, presieduto da Vittorio Emiliani, mi ha inviato in proposito una mappa delle fasi di fioritura di una di queste «mele stregate», destinata non certo ad avvelenare Biancaneve. L’11 settembre il governo presenta il disegno di legge sul federalismo fiscale che, sottoposto alla Conferenza Stato-Regioni, passa quasi indenne. Il 3 ottobre il medesimo testo arriva al Consiglio dei ministri. A fine seduta viene inserito un copioso articolo aggiuntivo di cui non si era parlato fino a quel momento, neppure con le Regioni, col quale viene, tra le altre cose, trasferita all’Ente Roma Capitale «la tutela e la valorizzazione dei beni storici, artistici, ambientali e fluviali», sin qui di competenza statale o demaniale, nonché le funzioni di urbanistica e pianificazione finora devolute alla Regione.

Appena venuto a conoscenza dell’inserimento dell’«articolo aggiuntivo» su Roma Capitale nella legge sul federalismo fiscale il sindaco Alemanno se ne rallegra pubblicamente: «E’ un risultato storico. La città avrà uno statuto europeo. I più importanti processi decisionali - inclusa la tutela dei beni culturali e ambientali - invece di passare per tre diversi livelli Comune-Provincia-Regione (e Stato) sono concentrati nell’assemblea capitolina. Così si potranno prendere con più rapidità le decisioni». Contemporaneamente il ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi, dice di non saperne nulla.

La cosa, però, non finisce qui. Prima di proseguire vorrei, però, premettere che la legge su Roma Capitale è un obbiettivo da lungo tempo giustamente atteso. Non è possibile, infatti, governare con gli stessi strumenti regolamentari di un qualsiasi capoluogo, una metropoli dove, oltre alla amministrazione comunale, sono installate tutte le istituzioni di governo e di rappresentanza della Repubblica, nonché quelle vaticane. Ciò non significa, però, che Roma debba essere sottratta ad ogni vincolo di controllo, soprattutto in tema di salvaguardia ambientale e culturale. E qui l’articolo approvato dal Consiglio dei ministri entra in conflitto con la stessa Costituzione, laddove, all’art. 9, proclama che «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Non si tratta, si badi bene, di una proclamazione retorica ma di una direttiva pratica: se questa tutela fosse stata delegata ad enti, altri dallo Stato, e in special modo a quelli locali, ne sarebbero derivati continui conflitti d’interesse per la presenza sul territorio di forze potenti, capaci di influire direttamente e indirettamente sulle rappresentanze, per loro natura più permeabili ad operazioni clientelari. Lo scandalo esploso a Roma, allorquando venne permessa la costruzione dell’Hilton sui crinali di Monte Mario, si sarebbe ripetuto ovunque e su più larga scala. Gli scempi ci sono stati egualmente ma senza il potere vincolante autonomo delle Sovrintendenze, ripreso anche dal Codice attuale dei Beni culturali sulla scia di tutti quelli precedenti, dalla legge giolittiana del 1908, a quella di Croce del ‘22, dalle due leggi Bottai del ‘39 al Testo unico del 1999, ebbene l’intera Penisola sarebbe uscita devastata.

Ricordato tutto questo, torniamo alla vicenda del famigerato articolo aggiuntivo di cui sopra. Ebbene, uscito da Palazzo Chigi il 3 settembre, si perde per strada e non arriva al Quirinale. Al presidente della Repubblica, che deve firmare il testo prima di avviarlo all’iter parlamentare, viene sottoposta la stesura precedente, quella sancita dalla Conferenza Stato-Regioni, che non contiene la corposa aggiunta su Roma Capitale, malgrado, nel frattempo, i ministri Calderoli e Matteoli dichiarino di averla approvata. Cosa c’è dietro? Probabilmente la stessa tattica seguita con l’emendamento salva-manager infilato di soppiatto nel decreto Alitalia: si nasconde la «mela stregata» agli occhi del Quirinale per non incappare in una possibile obiezione ostativa del Presidente, quindi la si ripresenterà, come emendamento, nel corso della discussione parlamentare sul federalismo. Come dice Andreotti a pensar male si fa peccato, ma si indovina. Del resto gli interessi in gioco sono enormi.

La fattoria dell’Europa porta al mercato il suo ultimo prodotto: i suicidi. Tra Cremona, Brescia, Mantova e Reggio nell’Emilia, in due anni, sono aumentati del 32 per cento. Disprezzata e infine ignorata, corrosa dalle crisi, l’agricoltura italiana espelle la scoria estrema: gli uomini. La condanna si consuma mentre la domanda di cibo, ed i prezzi, esplodono. Troppo tardi. Nelle cascine si cercano braccia, ma non ci sono più nemmeno le teste. I vecchi tornano con gli occhi agli anni Cinquanta, spartiacque tragico della fuga dalle campagne. Il granista Doriano Zanchi, 36 anni, è stato trovato nella corte due giorni fa. Ha avviato il trattore. Poi si è seduto davanti, contro il porticato. Nelle golene, lungo il Po, sono i pioppi a proteggere chi, ricontrollato l’estratto conto, si affida a certi rami leggeri. Un invisibile, drammatico passaggio storico sta spazzando via chi si è ostinato ad aggrapparsi alla terra: la contro-rivoluzione dell’agricoltura virtuale, fondata su aziende senza contadini e su prodotti senza valore. Se anche la Baviera italiana liquida silenziosamente la sua anima, significa che il processo è irreversibile. Egidio Franzoni cammina tra i meloni che la pioggia fa maturare attorno a Goito. A chi appartiene questo campo? Nessuno lo sa. Fino a tre anni fa era dei cugini. Tradizione secolare. Adesso una società rimanda all’altra. Si dividono le quote i fornitori di semi e di concimi, il grossista e l’industriale, la banca mantovana acquistata da Siena. Anche Marco Stazzini, sotto Dosolo, ignora il nome del padrone della sua stalla, appoggiata tra seicento biolche di frumenti. Sei mesi fa l’istituto di credito l’ha ceduta ad una finanziaria. Ora è il contoterzista a fornire macchine, stallieri indiani e braccianti marocchini. Le 200 vacche olandesi arrivano dalla multinazionale che gli vende i mangimi. Il brooker gli comunica la sigla del grossista, il direttore commerciale della grande distribuzione fissa il prezzo del latte. All’allevatore mantovano, soffocato dall’ennesima impennata dai costi, restano l’ipoteca sulla terra e il governo delle bestie: mungitura alle 4, smaltimento del liquame alle 22. Un finto proprietario alle dipendenze di un padrone ignoto. «Il Paese - dice lo storico dell’economia Marzio Romani - sta perdendo il controllo dell’agricoltura. è un problema enorme, anche di democrazia». Se il cibo è la fonte di energia essenziale, il confronto con la psicosi atomica e petrolifera appare ridicolo. Lombardia ed Emilia, squassate dal cortocircuito borsistico di cereali e combustibili, sono prigioniere degli scioperi del latte e del maiale, che stanno sconvolgendo l’Europa. Migliaia di contadini, in balìa delle speculazioni finanziarie, oscillano tra le decine di «Farmer Market» settimanali e i cinque «signori» che decidono quanto vale un chilo di carne. Seguire il viaggio di una bistecca significa penetrare nel buio che, salendo dalle campagne, inghiotte la civiltà metropolitana del micro-onde. Lo hanno fatto due fratelli di Asola. Uno choc. Sette padroni, prima che una fettina in sette mesi passi dalla stalla al piatto. L’allevatore che fa nascere il vitello in Danimarca. Il mediatore tedesco che lo vende ad un produttore di Suzzara. Il macellaio della «Unipeg» di Pegognaga che lo fornisce al direttore acquisti dell «Cremonini». Il commesso di Auchan che lo vende alla professoressa di Gonzaga. «Nessun bene al mondo - dice Cristian Odini, agricoltore di San Prospero - fa tanti passaggi in così poco tempo. Tutti devono guadagnare, lo scarto è del 30%». Esplode il prezzo al consumo, crolla quello all’origine. è qualcosa di più profondo della nostalgia e del paesaggio, di più sostanziale del libero mercato e del potere dei fondi americani. Andrea Biagi, a Roverbella, coltiva fragole. Trenta centesimi al cestino, fino al maggio 2007. Ha allargato le serre, trent’anni di vita sulla lama del mutuo. «Da tre mesi - dice - siamo sommersi da navi di fragole salpate da Grecia, Spagna e Africa. Dieci centesimi a vaschetta. O vendo direttamente, o chiudo». è così che il contadino, beffato dalla politica debole che nasce e muore in ufficio, scompare dalla società. «Per avviare dal nulla una fattoria media - dice Antonio Negro, patriarca degli allevatori di Formigosa - servono tra i 2 i 3 milioni di euro. Le banche ti stritolano, un crimine legalizzato: ti aprono l’ombrello se c’è il sole, te lo chiudono quando piove. Se uno è bravo, dopo una vita di sacrifici, ricava 1300 euro netti al mese. Laurearsi costa meno e rende di più: nessun giovane capace può restare nei campi». Un cortocircuito di civiltà: in Meridione, negli ultimi dieci anni, lo spopolamento agricolo ha travolto quota 56%. A suonare è la campana di un incubo: la qualità dei prodotti italiani ignorata dal mercato globale che pretende quantità. «Ci hanno costretto a ingrandirci - dice Mario Caleffi, coltivatore di mais a Commessaggio - a investire sulla competitività, a produrre sempre di più, a puntare tutto sulla qualità. Ma la gente non ha più soldi per pagare la qualità del cibo sano. Se ne frega: chi è grande chiude, chi ha tagliato i dipendenti cade in pugno ai terzisti, i terreni esausti impongono sempre più concimi chimici, la grande distribuzione paga prosciutti di Parma e grana padano come salumi e formaggi importati dalla Romania». Se fino ad oggi è stato il «cambiamento» a segnare la storia delle campagne, nella Borsa agricola di Mantova il giovedì mattina ora si pronuncia, a voce bassa, la parola «estinzione». Il pomeriggio, a Bologna, ci si spinge oltre: fino a riflettere, partendo dall’epocale crollo del prezzo dei maiali, sul significato della domanda di «territorio» che sgorga dal Nord. «Governi e organizzazioni internazionali - dice lo storico dell’agricoltura Eugenio Camerlenghi - non controllano più la produzione alimentare. Da servo della gleba, l’agricoltore è diventato schiavo della «globa». Decisiva è la riduzione della libertà di usare lo spazio: piazze, fiumi, campagna». Si nasconde qui, nella decimazione della società contadina, l’ossessione locale che impone di odiare Roma, Bruxelles, l’America e la Cina. Sfrattata dalla terra, espulsa dal territorio, la gente si tuffa nella territorialità. I nuovi orfani sociali, costretti a regalare latte e ad estirpare barbabietole, chiedono protezione ai profeti della xenofobia. «In dieci anni - dice il mantovano Roberto Borroni, presidente di Agrisviluppo - i parlamentari espressi dagli agricoltori sono passati a 90 a 2. La politica li ignora, i sindacati di categoria conservano l’ideologia contrapposta della Guerra Fredda. I contadini sono più divisi e disorientati che mai: erano la civiltà dell’equilibrio, presto saranno la leva di una rivoluzione». Possibile, proprio adesso? Sono dieci mesi che, secondo i listini, il misterioso boom dei cereali trascina le rendite agrarie. India e Cina mangiano di più e lavorano di meno, gli speculatori affittano e riempiono magazzini clandestini, gli Usa fanno la guerra energetica alla Russia parlando di biodiesel. Perché, se il valore aggiunto cresce del 7%, nelle cascine cova la rivolta? Nessuno che infili un paio di buone scarpe coi lacci e si perda tra manze e onde di erba medica. Di notte, tra Castiglione e Luzzara, le piste arginali sono intasate di cisterne. Si vive di contributi Ue anche nella pianura padana: ma le bestemmie sono tutte contro l’Europa. Autisti clandestini versano nei fossi montagne di letame e oceani di urina. «Bevevamo dai ruscelli - dice Luigina Mattioli, maestra di salami - ora ci si ammala a guardarli». Leggi incomprensibili, quanto sacrosante, costringono ad affittare terreni per smaltire i liquami, di un sorprendente odore chimico. Poche cose, come gli odori, fanno pensare. Plichi di altre norme proibitive, come recinti alti 2 metri e mezzo o luce elettrica nei fienili, suggeriscono di risparmiare scaricando tutto nel canale più vicino. La lezione delle quote-latte, termine di rottura del mondo agricolo, non è stata compresa. La finzione a pagamento su Ogm e Bio, mina anche l’ultima fiducia. «Ogni posto vacca - dice Elisabetta Poloni, presidente della Cia mantovana - arriva a costare 6 mila euro. L’Italia, a Bruxelles, conta meno della Lituania. Gli uffici Ue governano il 99% dell’agricoltura: non abbiamo nemmeno tecnici capaci di tradurre le direttive. A trattare ci presentiamo in venti: gli altri Paesi ne mandano uno». Una nazione attenta, reduce dalla spaventosa stagionalità perenne riprodotta nei supermercati, cercherebbe di capire perché, lo stesso pezzo di formaggio, oscilla tra 6 e 13 euro al chilo a seconda delle ore. Perché il grano duro è salito da 190 a 500 euro a tonnellata in tre giorni. Perché il riso è sparito. Perché un litro di latte costa 37 centesimi e viene venduto a 160. Perché un anno fa il siero veniva regalato, poi è stato quotato e oggi si torna a consegnare gratis. Perché i pollai del Veronese, in tre anni, sono caduti nelle mani di banche e industrie che forniscono pulcini, lampade a raggi infrarossi e mangime. è bastata una nave di soia americana, ferma nel porto di Ravenna, a far saltare tre contadini di Reggiolo. «La protesta che devasta l’Italia - dice Benedetto Orsini, proprietario di un’azienda modello a Castel d’Ario - affonda nel tradimento della campagna. L’assalto ai campi nomadi e ai centri di raccolta dei clandestini, il rifiuto politico dell’Europa, sono il precipitato di un abbandono sociale senza precedenti. Fattorie, paesi, periferie e città di storia agricola, consegnate a euroburocrati corrotti e finanzieri senza volto che operano dai paradisi fiscali. L’euro è un pretesto: a Roma non si capisce che la rabbia di chi produce cibo si sta saldando con l’odio di chi lo consuma». Le sera i campi di pannocchie, a Sabbioneta, ricordano i parchi pubblici. Ex contadini, finiti a fare i gelatai e i centralinisti, cercano la vita perduta nelle corti abbandonate dell’infanzia. Dimezzati in dodici anni. Ridotta ad un terzo la superficie coltivata. «Sembra che il problema - dice Fabio Spazzini, orticoltore di Guidizzolo - sia proteggere la diversità dei prodotti tipici. Si parla di marchi, mentre il cambiamento è radicale: la possibilità di coltivare torna nelle mani di pochissime dinastie estranee all’agricoltura. L’energia alimentare è la nuova arma di scambio nella lotta per il potere globale». Emilia, Lombardia e Veneto, regno degli ex metalmezzadri salvati dai consorzi, naufragano tra i profitti dell’onnipotente grande distribuzione. Il rigoglioso ceto dei capitalisti un mutande, prigionieri della terra perduta, sconvolge così il proprio profilo. Aprono agritur, fondano mercati contadini, piantano distributori di latte crudo, spacciano culatelli, inaugurano fattorie didattiche, organizzano spettacoli nelle aie. è il dramma negato di un Paese che finge di investire su salute, natura e alimenti genuini: i contadini cacciati dai campi e ridotti a sovvenzionati giardinieri, cuochi, venditori ambulanti, attori e locandieri. «Qui vivevano - dice Ferdinando Boccalari, erede della meravigliosa Corte Virgiliana di Andes - 150 persone. Un paese, pieno di bambini. Si fermavano papi e regine. Oggi, con 200 ettari coltivati e 550 animali, stentiamo in tre famiglie. Vendita diretta e multifunzionalità non sono una scelta per guadagnare di più: contribuiscono a limitare i debiti a fine mese. Migliaia di coltivatori e di allevatori dipendono dal cartello di un pugno di industrie, che impongono la dieta a milioni di persone. L’agricoltura italiana sta fallendo e nessuno alza un dito». Nelle trattorie della Bassa mantovana e del Reggiano, protetti da qualche sorso di lambrusco, i vecchi riconoscono di aver commesso molti errori: i veleni, il saccheggio del territorio, la monocoltura, le truffe sui contributi, la divisione ideologica e sindacale. L’illusione che il villano potesse mangiare più bollito del vescovo. Colpe però insufficienti a giustificare un Paese mediterraneo costretto a importare il 65% del fabbisogno alimentare, con scorte di tre giorni e un rincaro del cibo del 7,3% in un anno. è allora importante che a Villastrada, mentre partiti e televisione si affannano attorno alle nozze di Briatore e ai soldati mimetizzati nelle aiole di Milano, si ricominci a parlare di lumache, zucche, rane, meloni. Il mugnaio Romolo Perteghella dice che la terra, se ospita varie specie, riesce a tenere a bada da sé i parassiti. Alex Odini, giovane agrotecnico, dice che con altre dieci vacche potrà recuperare un campo per l’orzo. Giorgio Zombini, miscelatore di mangime, dice ha il patto di fiducia tra «produttore e consumatore» può essere recuperato. Giulio Sereni, potenza dei maiali che si ostina a chiamare suini, promette di denunciare i consorzi che vendono «salumi freschi italiani» con bestie surgelate e importate dalla Cina. Può essere che le confuse discussioni da stalla, la minaccia di presìdi e scioperi, servano ad esorcizzare la paura di aver consumato un ruolo. La sensazione però è che solo da qui, dalla riappropriazione della sua semplice e periferica identità colonica, il Paese possa attingere le risorse civili per costruire una società meno precaria. A Suzzara è sabato mattina e sul mercato contadino piove. Si vendono le prime pere mirandoline, piccole pesche di orto, latte fresco senza certificati, coste e catalogna, ciliegie della Ferrovia, formaggio di trenta mesi, qualche gallina e pochi pani di burro giallo. Prezzi da anni Settanta. I coltivatori parlano della fine di un «fiol put»: ieri sera un altro allevatore, stritolato dal mutuo sui prati per conservare cento vacche, si è buttato nella porcilaia. Sembrano rivoluzionari, partigiani di una nuova resistenza, cospiratori impegnati nel far cadere un regime. Non è il caso di sorridere, forse, con la nota sufficienza.

Il sindaco di Orosei si è dimesso riferendosi esplicitamente al clima di intimidazione di tipo mafioso e alle forme di violenza (attentati, incendi e atti vandalici verso beni pubblici e privati) verificatesi in quest’ultimo anno e mezzo nel paese. Forme di criminalità connesse all’uso del territorio e che sono una specificità di limitate aree della Sardegna. Forme simili a quelle che troviamo in Calabria o in altre regioni meridionali dove, a differenza della Sardegna, c’è una criminalità organizzata che controlla il territorio.

Questi fatti conducono a due tipi di avvenimenti: le ordinanze di demolizione delle strutture abusive e la predisposizione del Piano urbanistico comunale. Non c’è un nesso diretto tra abusivismo e Puc, ma certamente sono entrati in rotta di collisione due modi tra loro contrastanti di intendere il territorio. Pur facendo dei distinguo tra le varie pratiche di abusivismo, esso comunque è una manifestazione di illegalità che in Sardegna continua a non essere percepita come tale perché non è considerato un disvalore a livello sociale diffuso. Accanto a ciò va posta la dichiarazione del sindaco di Orosei, secondo il quale meriterebbe attenzione il fatto che queste ordinanze siano rimaste chiuse nei cassetti del tribunale di Nuoro fin dagli anni ‘80.

Non posso entrare nel merito di questa inspiegabile lentezza giudiziaria che, tutta a un tratto, accelera il suo corso, il chiarimento all’opinione pubblica va fatto dagli organi competenti; entro invece nel merito delle questioni attinenti al piano urbanistico comunale, perché come Centro Studi Urbani abbiamo svolto a Orosei due ricerche nelle estati del 2007 e del 2008, su un campione di 300 persone per ogni ricerca. Le ricerche sono servite per cogliere le domande di qualità e le aspettative dei turisti e dei residenti proprio per dare all’amministrazione elementi conoscitivi per il piano urbanistico. Sottolineo che intervistare 300 persone, rappresentative di altrettanti nuclei familiari mediamente costituiti di 3-4 componenti in un paese che ha circa 6.000 abitanti, si traduce in risultati solidamente fondati scientificamente e che hanno un’alta probabilità di essere attendibili: basti pensare che molti rapporti nazionali del Censis sono fatti su un campione di 2000 persone.

Tra gli obiettivi del piano urbanistico segnalo: 1. la preservazione dei territori che non sono stati ancora compromessi; 2 la creazione di un modello di sviluppo turistico eco-compatibile, individuando nel centro urbano forme di accoglienza alternative a quelle dei villaggi tutto compreso nella fascia costiera; 3. la sottrazione dei beni costieri allo sfruttamento immobiliare e agli effetti devastanti delle seconde case e dei villaggi turistici. Come si può constatare dalla semplice elencazione di questi obiettivi, l’amministrazione di Orosei si è posta la finalità di introdurre regole di governo del territorio, orientate verso la salvaguardia del patrimonio esistente.

Ebbene, dall’indagine svolta tra gli abitanti di Orosei non abbiamo rilevato atteggiamenti conflittuali verso questo tipo di impostazione, semmai abbiamo registrato ulteriori richieste di qualità ambientale e culturale che vanno da un’efficiente struttura sanitaria al teatro, dalla domanda di riduzione dei flussi di veicoli dentro il paese alla dotazione di piste ciclabili e pedonali, e così via. Per ragioni di rigore devo sottolineare che sull’abusivismo le risposte sono state contrastanti e comunque sono stati molti gli intervistati che hanno dato all’amministrazione comunale la responsabilità delle demolizioni, piuttosto che censurare un comportamento illecito. Ciò ha supportato i risultati di una nostra ricerca sulla criminalità, secondo cui vi sono alcune aree della Sardegna dove, più che altrove, c’è un problema di legalità.

Pur tuttavia, come si concilia una domanda di normalità con il clima di intimidazione di cui ha parlato il sindaco di Orosei? Mi scuso con lui ma rifiuto di assegnargli il prefisso ex perché nutro la speranza che la sua comunità finalmente esca dal letargo e lo richiami con forza al ruolo di amministratore.

Per concludere, pongo alcuni interrogativi alla comunità di Orosei. Dei giovani professionisti (il sindaco è un avvocato e l’assessore all’urbanistica è un architetto) scelgono di investire gran parte del loro tempo nel governo della cosa pubblica, invece di trarre il maggior beneficio possibile dalla loro attività privata. Scelgono anche di non andar via come avviene invece in molti comuni della Sardegna. Avendo avuto studenti di Orosei e di altri paesi della Baronia, so che quella di dare il proprio contributo al luogo natio è un’esigenza nuova ma sempre più diffusa tra i giovani sardi più acculturati. Come mai la comunità non considera questi nuovi amministratori, probabilmente più ingenui di quelli di professione, ma certamente più ricchi sotto il profilo della passione e della cultura, una speranza per Orosei?

So bene che introdurre limiti di vario tipo in un territorio ricco sotto il profilo turistico, e perciò appetibile dal punto di vista della rendita immobiliare, inevitabilmente genera forti conflitti, ma non è arrivato finalmente il tempo che si smetta di pensare che sviluppo equivalga a edilizia nelle coste e che, anche in Sardegna, le regole vengano considerate le sole che possano garantire equità e sviluppo duraturo, invece di viverle come una limitazione di una presunta libertà individuale?

L’ultimo interrogativo riguarda la democrazia. Si possono avere diversità di vedute ed anche interessi privati da tutelare, ma il confronto va fatto nelle sedi pubbliche e con le diverse forme di partecipazione che ogni comunità può scegliersi in modo civile. Come mai in alcune aree della Sardegna, e Orosei rientra in queste aree, le controversie sono portate avanti con strumenti di intimidazione di varia natura? Prepotenza esercitata da un ristretto numero di persone ma che la maggioranza silente subisce. Non ritengo che in altri comuni ci sia meno conflitto politico, eppure - ne sono certa - le motivazioni addotte dal Sindaco di Orosei non starebbero mai alla base di eventuali dimissioni dei sindaci di Sassari e di Cagliari.

Postilla

Ho avuto l’onore di conoscere il sindaco di Orosei e la sua giunta. Ho potuto ammirare il lavoro che hanno fatto e stanno facendo. Considero l’esperienza della giovane giunta di Orosei una delle esperienze amministrative più positive nell’Italia di oggi; non a caso, un paio di articoli su Orosei sono nella cartella Pratiche di buongoverno, e non a caso vorremmo prolungare la prossima Scuola estiva di pianificazione (che con ogni probabilità terremo ad Alghero nel settembre 2009) con una visita a quella città della Baronia.

Anch’io, come Antonietta Mazzette, avevo avuto la sensazione che i cittadini di Orosei fossero maturi – culturalmente e umanamente – per comprendere l’eccezionale positività dell’esperienza che vivevano e per condividerla. La speranza è che gli abitanti di quel meraviglioso territorio, ancora ricco di un saggio equilibrio tra vita dell’uomo e vita dell’ambiente, si raccolgano attorno al loro Municipio: che non è un Palazzo, ma un pugno di uomini coraggiosi, dotati di buona volontà, competenza e saggezza, e li stimoli ed aiuti a resistere e ad andare avanti sulla strada fruttuosamente iniziata (e.s.)

"Niente case nell´Agro romano" Dal Pd a Italia Nostra, un coro di no

Giovanna Vitale

«Giù le mani dall'Agro romano». Dal Pd ai Verdi, da Legambiente a Italia Nostra, dal Comitato per il verde urbano all'Unione inquilini, dall'IdV alla Destra di Storace, è unanime il coro di no allo schema di delibera messa a punto dal sindaco Alemanno per invitare chiunque sia in possesso di un terreno agricolo a offrirlo al Comune per realizzare 25mila case popolari. Il bando per il reperimento delle aree di riserva, che in cambio della cessione di suolo offre ai privati la possibilità di costruire altrove, sarà approvato in giunta mercoledì prossimo: la chiave per aprire alla modica del nuovo Prg e alla cementificazione della cinta naturale della capitale.

«La distruzione dell'Agro romano sarebbe non solo uno scempio, ma un danno gravissimo per i cittadini» tuona l´assessore regionale all´Agricoltura, Daniela Valentini. «Nel Lazio, negli ultimi dieci anni, sono già spariti 127mila ettari di campagna, un territorio pari a una città come Roma» denuncia. «E con il bando di Alemanno le cose non potranno che peggiorare: il nuovo Prg, infatti, ha dato certezze, stabilito quali fossero le destinazioni d'uso dei terreni, stoppato la cosiddetta agricoltura d'attesa, quella cioè praticata dai grandi costruttori che, sperando nella trasformazione delle loro proprietà in zone edificabili, le ha di fatto immobilizzate, rese improduttive». Il j'accuse della Valentini è durissimo: «Alemanno ha rimesso in moto la caccia di suolo agricolo da parte degli imprenditori romani, facendo tornare la città agli anni peggiori della speculazione edilizia. La campagna è vitale per una metropoli come la nostra: un polmone verde che può essere volano di sviluppo per un´altra economia, capace di produrre ricchezza e servizi».

E sebbene il sindaco si dica «sconcertato per le polemiche: noi cercheremo di non compromettere l'agro romano, ma abbiamo ereditato dalla precedente amministrazione una dotazione massima per 6mila alloggi che sono assolutamente insufficienti a dare una risposta adeguata all´emergenza», le associazioni ambientaliste sono sul piede di guerra. Persino Italia Nostra, da sempre vicina al primo cittadino: «Il bando non modifica certo in maniera positiva il nuovo Prg», fa sapere la sezione romana, «meglio procedere alla demolizione e ricostruzione in aree degradate o dismesse». Verificando insomma «tutte le possibili soluzioni prima di intaccare irrimediabilmente il nostro patrimonio», esorta il segretario dell'Idv, Roberto Soldà. Cominciando magari da «un serio censimento del fabbisogno abitativo reale», suggerisce Massimiliano di Gioia dei Verdi. Perché è vero che «l'emergenza abitativa deve avere risposte giuste», sostiene Annamaria Procacci del Comitato verde urbano, «ma risparmiando nuove colate di cemento su un territorio prezioso, ormai molto ridotto dall'avanzata della città».

Timore al quale si associa l'Unione Inquilini («Si avvicina una nuova cementificazione, tanto più che Alemanno fa confusione fra social housing, alloggi da affittare a canone agevolato, e case popolari»), mentre Legambiente fa il calcolo dei possibili danni. «Le aree da reperire rientrano nei circa 24mila ettari destinati ad Agro romano vincolato», spiega il responsabile Territorio, Mauro Veronesi: «Ebbene, edificare 25mila appartamenti significherebbe realizzare quasi 9 milioni di nuovi metri cubi. Ritornando così alla prima versione del Prg varato dalla giunta Veltroni nel 2002, che prevedeva 770 ettari di aree di riserva poi faticosamente ridotte a 385. Con gli attuali indici edificatori, quindi, occorrerebbero ben 750 ettari di nuovo suolo da consumare, pari a 9 volte Villa Borghese, Pincio compreso». Esplicito il sospetto di Vladimiro Rinaldi, consigliere regionale della Lista Storace: «Non vorremmo che dietro la promessa di nuove case popolari ci fosse già un piano per spianare la strada dell'Agro romano alle ruspe».

Parla l'assessore all'Urbanistica Marco Corsini "Prenderemo soltanto le aree che servono"

Giovanna Vitale

«Prenderemo tutte le aree che servono ma solo quelle che servono». È questo lo slogan coniato dall'assessore all'Urbanistica, Marco Corsini, per spiegare la ratio del bando, da lui materialmente confezionato, sulle aree di riserva.

Assessore Corsini, molti temono che con il pretesto delle case popolari si apra la strada alla cementificazione selvaggia dell'agro romano...

«La giunta ha delineato una manovra nella quale l'interpello pubblico ai proprietari costituisce uno dei passi, ma non l'unico, per individuare le aree da destinare all'housing sociale. È comunque nostra intenzione non intaccare le zone pregiate, ma solo quelle compromesse. Occorre accantonare l'ideologia della sacralità dell'Agro».

Quindi il polmone verde della città sarebbe un inutile orpello?

«L'Agro è sì patrimonio di Roma, ma quando la città ne ha bisogno per il suo sviluppo deve poterne usare con la dovuta parsimonia. Ovviamente uso non vuol dire abuso: la nostra stella polare sarà il fabbisogno reale».

Ma scusi, con l'attuale Prg si potrebbero costruire subito tra i 6 e i 7mila alloggi, fino ad arrivare a 20mila. Perché non seguire questa strada anziché quella del bando?

«Uno dei punti critici dell'attuale Prg è la scarsa flessibilità, la sua distanza dai reali bisogni dei cittadini. È vero che ha delle potenzialità edificatorie, ma richiedono i tempi lunghi della fase attuativa, incompatibili con l'attuale necessità di far fronte all'emergenza».

Insisto: anche modificare il Prg richiede tempi lunghi. Allora perché non dar corso subito all'attuazione, anziché rimettere mano alla pianificazione varata meno di otto mesi fa?

«Il Prg va corretto perché non dà sufficienti garanzie di usufruire di aree per l'edilizia popolare e per le compensazioni che servono a tutelare le zone verdi di pregio».

Ma i romani quando vedranno queste benedette case popolari?

«Intanto noi censiamo le aree, faremo una graduatoria e le lasceremo lì fin quando non sarà definito il fabbisogno. Nel frattempo speriamo di inserirci nelle procedure accelerate prevista dal governo per il Piano Casa e di ottenere i poteri speciali di Roma capitale».

Ma ci vorranno anni...

«Sono processi lunghi, certo non domani».

Intanto è partita la caccia alle aree agricole nella speranza che voi le prendiate dando in cambio nuove cubature... Una bella speculazione non le pare?

«Si chiama cessione compensativa: cubatura al posto dei soldi per l'esproprio che l'amministrazione non ha. Comprare le aree a prezzi di mercato è impensabile».

L'assessore regionale Di Carlo propone però di aumentare la densità abitativa anziché espandere la città sull'Agro...

«Significa realizzare palazzi di 6-7 piani in periferia. Roma modello Tokio a noi non piace. La bassa densità abitativa contribuisce ad aumentare la qualità della vita dei romani. E va salvaguardata».

Postilla

Come sanno i nostri lettori, eddyburg è stato fra i più rigorosi censori del recente prg capitolino a firma Veltroni-Morassut, ma in questo caso il rimedio è ancora peggiore del male. La filosofia urbanistica che traspare dalle parole dell'assessore Corsini è di tale desolante arcaicità palazzinara da meritare solo un commento lessicale: anni di battaglie per la salvezza di una delle aree più preziose e fragili dal punto di vista naturalistico, culturale, storico, liquidati come "ideologia" sorpassata. E l'Agro romano viene sacrificato in nome dei due moloch di vecchia conoscenza: "sviluppo" e "flessibilità". Non stupisce che il più convinto riconoscimento al prg veltroniano sia elargito dall'assessore alle "potenzialità edificatorie". Nomina nuda tenemus (m.p.g.)

Con legge ordinaria, con un emendamento, il governo Berlusconi rivoluziona la strategia della tutela, chiaramente nazionale, dei beni culturali e paesaggistici togliendola allo Stato, quindi al ministero per i Beni culturali, ed assegnandola al Comune di Roma o al nuovo Ente Roma Capitale.

In tal modo, aperta una clamorosa breccia nell’articolo 9 della Costituzione, spiana la strada per l’attribuzione della tutela ai Comuni. Nemmeno alle Regioni, come da anni alcune di esse chiedevano (la Sicilia la esercita già, malissimo), ma addirittura ai Comuni. Un altro colpo di clava alla unità culturale e politica della Nazione. Una autentica follia anche dal punto di vista gestionale.

Il nostro sistema di tutela, che rimonta addirittura alla lettera-manifesto di Raffaello a papa Leone X, poi ad Antonio Canova gran consigliere di Pio VII, al ceto politico giolittiano che ne raccolse la forte trama legislativa, allo stesso Giuseppe Bottai che intelligente riutilizzatore di quelle norme nelle due leggi del 1939, alla Costituzione e alle normative più recenti (come la legge Galasso e il Codice Settis-Rutelli), era e rimane un modello invidiato e imitato all’estero. Malgrado i finanziamenti scarsi, malgrado i concorsi rinviati per anni, malgrado mille acciacchi operativi, l’idea-forza di far esercitare la tutela ad organismi tecnico-scientifici il più possibile autonomi dal potere politico (tanto più da quello locale) e dalle sue pressioni ha salvato il Paese da disastri molto maggiori rispetto a quelli, pur gravi, intervenuti. I nostri centri storici si presentano, sin qui, abbastanza preservati. La rete dei musei è nettamente migliorata, semmai bisogna crederci, investire di più in essa. Il paesaggio, certo, ha subito e subisce duri colpi dal cemento, specie dopo che ai Comuni è stato sciaguratamente consentito di usare per la spesa corrente i denari incassati con gli oneri di urbanizzazione. Ma, ripeto, il sistema è valido, i soprintendenti (nonostante stipendi da 1.500-2.000 euro) sono spesso autorevoli. Negli anni di Tangentopoli non uno di loro è stato inquisito e condannato.

Si può, si deve potenziare questa struttura voluta come Ministero da Giovanni Spadolini. Invece la si intacca e la si demolisce, facendo oggi del nuovo Ente Roma Capitale e domani degli 8.101 Comuni gli organismi che decideranno tutto sul patrimonio storico-artistico, sull’archeologia, sul paesaggio, ecc. I controllati diverranno anche i controllori diretti. Gli organismi tecnico-scientifici saranno alle dirette dipendenze dei politici municipali. Fate voi.

Certo, l’articolo 9 della Costituzione parla di tutela in capo alla Repubblica, cioè allo Stato (come hanno riaffermato le sentenze, ma quanto contano oggi?, della suprema Corte) in uno, armonicamente, con Regioni ed Enti locali. Ma l’autonomia dei presidii rappresentati dalle Soprintendenze non è mai stata messa in discussione. Mai. Oggi basta un emendamento ad una legge ordinaria. È vero, Roma ha anche una Soprintendenza Capitolina. Fu una sorta di omaggio di Corrado Ricci alla capitale d’Italia quando disegnava con altri la rete delle Soprintendenze. È stata retta da studiosi come Carlo Pietrangeli e, di recente, come Eugenio La Rocca. Non ho nulla contro Umberto Broccoli, archeologo, da poco nominato dopo lunghi anni di lavoro come intelligente divulgatore culturale in Rai. Ma la sua prima intervista televisiva mi ha lasciato di sasso: ritiene di poter fare soldi prestando in giro statue e altri reperti archeologici di magazzino. Non sembra il massimo dei programmi scientifici. Sembra anzi una porta aperta all’idea fissa di “sfruttare” commercialmente il patrimonio.

E il ministro Bondi, che fa? Ha assistito docile a tagli che - lo denuncia la Cisl - riducono le risorse da 625 a 73 milioni in quattro anni e ne fanno perciò una sorta di “commissario liquidatore” del Ministero e dei suoi beni. Nelle Soprintendenze, dopo la pubblicazione del testo per l’Ente Roma Capitale e sue prerogative c’è fermento, allarme, indignazione, come nelle maggiori associazioni per la tutela. «Una autentica rovina», commentano storici dell’arte, archeologi, architetti, paesaggisti, urbanisti, bibliotecari, musicologi. Ma anche una clamorosa fesseria dovuta a quelli che Raffaello profeticamente chiamava «li profani e scelerati barbari», ma anche il suicidio di un Paese che vive sempre più di turismo e di turismo culturale. Bondi si occupa di tutt’altro: cliccate sul sito del ministero (www.mibac.it) e vedrete che il ministro-poeta occupa la prima pagina con ben tre rubriche: i suoi Appunti di viaggio (un must internazionale), la sua post@ coi cittadini e, udite udite, le sue recensioni librarie, la prima parla anche di Eros. Non di Thanatos, del suo moribondo ministero naturalmente. Ma si è accorto di fare la parte del necroforo per giunta sorridente?

Non c'è sindaco-manager, assessore d'impresa, impresario che non ripeta ossessivamente la metafora del "volàno della crescita". In genere, però, della propria crescita.

Indomabili anime lottizzatrici vedono colli non costruiti e si lamentano che là non c'è "niente". La parola "niente" significa, nel vocabolario sviluppista, che non ci sono case, alberghi, garage, parcheggi, e che ci sono solo alberi, fiumi silenziosi e declivi. Colli senza volàno.

Una parte della Sardegna è già perduta strangolata dal cemento, i posti di lavoro promessi sono apparsi e scomparsi come il lampo del magnesio, le rendite sono rimaste sempre le stesse, le medesime persone, però sono ingrassate. Intanto, gomito a gomito con le imprese, alcuni sindaci e politici ogm, insistono nell'immaginare la nostra Isola come una Golconda del mattone e confondono tragicamente l'amministrare con l'edificare. Un mondo a testa in giù che ripete se stesso sino all'estinzione.

Ricostruire.

Beh, ricostruire, come dopo una guerra, il nostro paesaggio mezzo bombardato è un modo saggio e possibile di produrre un lavoro saldo e duraturo poiché la ricostruzione e la conservazione di un tessuto urbano devastato è una faccenda complessa che non ha un termine e richiede intelligenza, inventiva, fatica e pazienza.

Allora sì che la parola "valorizzare" assumerebbe un senso profondo e non nasconderebbe, come ora, la volontà volgare di edificare qualsiasi cosa, sino all'esaurimento del territorio.

I luoghi intatti hanno un valore immenso, anche economico, in sé e certo non li "valorizza" un'impresa edile che agisce senza regole. La politica sì, li può mettere in valore proteggendoli, come è accaduto in Sardegna, con leggi e norme.

Dare un valore ai quartieri desolanti che necessitano di una bonifica urbana, rendere guardabili - e quindi vivibili - le nostre periferie, ricostituirle e dargli un decoro che non hanno mai posseduto. Decostruire i nostri paesi dissennatamente "sviluppati". Beh, questo sarebbe rendere un valore perduto ai luoghi.

Chi definisce estetizzante - con una nota di disprezzo - questa visione del paesaggio e delle cose dimentica che i sensi con i quali noi percepiamo il paesaggio veicolano ogni nostra idea, fantasia, sicurezza, cultura e perfino la salute. E dimenticano che chi costruisce bei paesi e belle città non lo fa perché è un esteta decadente e ozioso ma per l'elementare bisogno di armonia che esiste in ciascuno di noi.

Moltiplicare i metri cubi all'infinito non è "sviluppo". Consolida alcune rendite, sì, e non è definibile "sviluppo".

Ragioniamo su cosa c'è di male nei 50.000 abitanti di Olbia che assume anabolizzanti demografici e svuota i paesi dell'interno, sul significato degli innumerevoli colombari-abitazione nel devastato hinterland di Cagliari, sul perché Sassari si è circondata di una periferia sconfortante, sul perché Nuoro detiene un primato di deformità urbana che vuole estendere al suo monte, sul perché i paesi dell'interno si desertificano sedotti dal brillio della bigiotteria costiera.

Il fallimento di chi ha voluto il referendum sulla legge "salvacoste" per annullarla è il fallimento degli sviluppisti - un goffo fallimento nella Gallura dove chi gridava di più contro il Piano Paesaggistico ha avuto torto - rappresenta, prima che una vittoria politica, il segno felice di una società riflessiva che non vuole uno sviluppo malato ed esige la protezione dei luoghi sacri nei quali si identifica.

Il premier se la prende con «la legge che blocca lo sviluppo». Da Roma Silvio Berlusconi interviene sul referendum urbanistico sardo: «Necessario votare Sì».

Per l'ambiente, per lo sviluppo, per una stagione turistica «che deve durare tutto l'anno». Silvio Berlusconi, all'interno della conferenza stampa sulla scuola (con il ministro Gelmini), dopo aver mandato in soffitta lavagna, gessetti e cancellino, si pone un altro obiettivo: «Chiedo ai sardi di cancellare la legge che ha fermato lo sviluppo economico di questa meravigliosa isola, una terra verde tutto l'anno». Di fronte a una cinquantina di giornalisti e alle telecamere di tutte le testate nazionali, il presidente del Consiglio chiede «un risultato importante» per il referendum di domenica: «I sardi devono votare Sì, per il rispetto dell'ambiente, ma soprattutto perché il territorio diventi una risorsa che dia occupazione per dodici mesi all'anno».

TROPPI VINCOLI Se la prende con «i limiti imposti dal Piano paesaggistico», attacca la politica della Regione «eccessivamente rigida, che non consente agli investitori di pensare e realizzare strutture che diano lavoro e che consentano di destagionalizzare il turismo, certamente la risorsa più importante di cui dispone la mia seconda terra». In sala stampa, ci sono i parlamentari Paolo Vella - entrato in polemica con il presidente Renato Soru proprio a causa della sospensione dall'incarico di direttore della tutela del paesaggio - e Piero Testoni, responsabile della comunicazione del Pdl in Sardegna, il senatore Romano Comincioli (ancora influente in Sardegna nonostante una carriera politica esclusivamente romana) e due consiglieri regionali di Forza Italia, Giorgio La Spisa e Claudia Lombardo. A loro, con lo sguardo, si rivolge il premier: «L'Isola, per chi non ha la fortuna di viverci, non si gode se non un mese e mezzo l'anno: dal 15 luglio al 30 agosto, a causa di una politica che è la negazione di un progetto di sviluppo». Non si ferma, il presidente, nonostante i tempi strettissimi imposti da un cerimoniale che nessuno discute, a Palazzo Chigi: precedenza sempre ai temi nazionali. Per Berlusconi, evidentemente, la campagna referendaria del suo centrodestra ha lo stesso peso della lavagna multimediale del ministro Mariastella Gelmini: «La parola d'ordine deve essere destagionalizzazione, in Sardegna deve finalmente decollare l'industria dei congressi, delle importanti manifestazioni che richiamino il grande turismo anche a gennaio e febbraio, quando la Sardegna è da godere davvero. Fatevelo dire da uno che ci viene tutti i week end dell'anno». Il referendum, ha concluso Berlusconi, «regalerà un risultato importante, anche grazie all'impegno del centrodestra sardo, compatto nel mostrare ai sardi quale strada prendere per disegnarsi un futuro di lavoro e sviluppo. Se fossi sardo, andrei a votare per primo».

IL COMPAGNO DI SCUOLA Tra una battuta e i mille euro - più diploma - consegnati ai venti migliori maturati d'Italia, Berlusconi è rimasto sul tema scuola, dominante ieri sera a Palazzo Chigi, aprendo l'album dei ricordi: «Qui davanti c'è il mio compagno di banco per ben 13 anni ai salesiani. Lui sì che era un professionista della scuola», ha detto il premier, indicando il senatore Comincioli, seduto proprio sotto il tavolo della presidenza, «lui era un vero professionista. Al liceo, ogni volta che i professori lo chiamavano per interrogarlo, lui non c'era mai. E tutti noi, in coro, rispondevamo: è al cesso». Oggi, invece, ha concluso scherzando il presidente, «è un bravissimo senatore e tutti i parlamentari gli chiedono un consiglio, proprio come un vecchio zio». Poi il richiamo al voto di domenica: «La Sardegna è una terra straordinaria, tocca ai sardi decidere di farla crescere».

Postilla

I sardi sanno che la famiglia Berlusconi è proprietaria dell’area di Costa Turchese, la cui utilizzazione come insediamento turistico è stata bloccata dal Piano paesaggistico regionale. Sanno anche che il referendum è inutile, poiché le legge che con essi ci si propone di abolire non è più efficace, essendo decaduta con la conclusione del periodo di salvaguardia, e sostituita dal PPR redatto in base al Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Al perdurare tenace e recidivo del conflitto d’interessi siamo, ahimè, abituati da tempo, e così alla debolezza dell’opposizione a denunciarlo e contrastarlo. Ma questa nota è interessante soprattutto perché rivela il modello formativo che B. propone agli studenti: il suo compagno Comincioli, il quale, quando lo interrogano, sta al cesso. Ipse dixit.

Cinquecento milioni l’anno a Roma per ripianare i suoi debiti, più poteri alla Capitale, dalla valorizzazione dei beni storico-artistici alla pianificazione urbanistica, e, soprattutto, il passaggio dallo Stato al Campidoglio di un patrimonio miliardario tra cui le caserme di Prati e di Castro Pretorio.

L’emendamento del governo alla legge finanziaria è stato annunciato ieri dal sindaco Alemanno. Il Pd: "Hanno cambiato nome al consiglio comunale senza nemmeno consultarlo" Il consiglio comunale si chiamerà "Assemblea capitolina" Augello: "I beni del demanio produrranno un altro mezzo miliardo l’anno"

Le telecamere che ronzano nella Sala delle Bandiere. Gli spot delle luci accesi. E il sindaco Alemanno, completo scuro, che annuncia: "Dopo 30 anni Roma ora avrà uno statuto con poteri e finanziamenti degni di una città capitale". Cinquecento milioni l’anno alla città per ripianare i suoi debiti, più poteri, dalla valorizzazione dei beni storico-artistici alla pianificazione urbanistica, dalla protezione civile alla difesa dall’inquinamento, e, soprattutto, il passaggio dallo Stato al Campidoglio di un patrimonio miliardario: tutte quelle strutture, di proprietà del demanio, ora dismesse, tra cui terreni in periferia e le caserme di Prati e di Castro Pretorio. "In parte le venderemo» ha spiegato il sindaco «e in parte le utilizzeremo per i servizi della città».

Lui, Alemanno, di mattina presto era già davanti alla porta del Consiglio dei ministri, per attendere il provvedimento, un emendamento del governo alla legge sul federalismo fiscale. «Me lo ha portato Matteoli» racconta «E allora ho capito che i risultati erano stati raggiunti. Spero che adesso i presidenti della Provincia e della Regione Zingaretti e Marrazzo collaborino per mandare in porto l’operazione».

«I 500 milioni» aggiunge Alemanno «saranno erogati dal 2008 e serviranno per pagare le rate di ammortamento degli 8,6 miliardi di debiti accumulati». Poi non lesina stoccate all’opposizione: «Un miliardo e 800 milioni non erano emersi dal bilancio. E a maggio, quando sono arrivato, mi hanno detto che non c’erano i soldi per pagare gli stipendi ai dipendenti del Campidoglio. Ringrazio Berlusconi. Ora non si potrà più dire che il governo di Destra è contro Roma. Una svolta decisiva perché i provvedimenti per Roma capitale si attendevano fin dall’era Craxi. Anche Prodi e Veltroni avevano elaborato un protocollo, poi rimasto lettera morta».

Ma ecco l’emendamento al disegno di legge sul federalismo fiscale approvato ieri dal Consiglio del ministri, che attua l’articolo 114, comma 3 della Costituzione. Si prevede che Roma si trasformi da un normale comune in un ente territoriale, denominato, ‘Roma Capitale’ "con speciale autonomia statutaria, amministrativa e finanziaria, al fine di svolgere le funzioni di Capitale della Repubblica italiana e di sede di rappresentanza diplomatica di Stati esteri".

Il Consiglio comunale assumerà il nome di Assemblea capitolina e approverà il nuovo Statuto con particolare riguardo al decentramento municipale. Saranno trasferiti, a titolo gratuito, a Roma Capitale, i beni del patrimonio dello Stato non più funzionali alle esigenze dell’amministrazione centrale. Precisa Alemanno: «Inseriremo questo patrimonio nella revisione del piano urbanistico. Avremo così le risorse fondiarie per lanciare progetti adeguati». E secondo Andrea Augello, che lavora nello staff tecnico del sindaco «la valorizzazione di questo patrimonio potrebbe rendere al Comune altri 500 milioni l’anno».

Rimane irrisolto il problema della città metropolitana. L’emendamento approvato dal consiglio dei ministri prevede, infatti, che i confini di Roma capitale coincidano con quelli attuali del Comune di Roma. Tra le funzioni che l’emendamento attribuisce a Roma capitale, vi sono la tutela e la valorizzazione dei beni storici, artistici e ambientali; la difesa dell’inquinamento; lo sviluppo economico e sociale di Roma capitale, con particolare riferimento al settore produttivo e turistico; lo sviluppo urbano e la pianificazione territoriale; l’edilizia pubblica e privata; l’organizzazione dei servizi urbani e di collegamento con i comuni limitrofi. Le funzioni saranno disciplinate attraverso regolamenti adottati dall’assemblea capitolina e dai decreti legislativi che il Governo è delegato ad emanare entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge.

«Siamo favorevoli e disponibili ad allargare i poteri all’area metropolitana» ha concluso Alemanno «ma su questo tema il dibattito è controverso. Molti comuni dovrebbero cedere poteri a Roma e alcuni non vogliono farlo. Per il momento raggiungiamo l’obiettivo dei poteri al Comune capoluogo».

Cambiamole subito, le linee di fondo dell’urbanistica cittadina, chiede Marta Vincenzi: così, a partire dall’anno prossimo, «non dovremo più costruire quello che non vogliamo, o dover accettare eredità che non condividiamo», perché «non si possa più essere accusati di colate di cemento più o meno vere senza sapere di chi è la colpa, mettendo fine ad eredità vissute come tali e più o meno condivise». In attesa che, alla fine del 2010, ci sia il nuovo piano regolatore disegnato sulle linee tracciate da Renzo Piano e dall’Urban Lab, spiega la sindaco in commissione urbanistica, entro la fine dell’anno possiamo approvare gli indirizzi di pianificazione che ci permetteranno, nei due anni di interregno, di «approfondire, se non di bloccare» quei progetti che vanno a collidere con le linee guida di quella che vuole essere una città sostenibile, dove si costruisce sul costruito, dove non si va al di là della Linea Verde sulle colline e dove la Linea Blu garantisce che ci siano accessi e visibilità al mare. E, fa capire pur senza nominarlo, segnando davvero la discontinuità con le scelte della giunta Perìcu.

La incalzano le opposizioni: ma allora i progetti in corso? Cosa ha da dire delle future case di Boccadasse, di via Camilla e di tanti altri? «C’erano dodici progetti in movimento, troppo avanzati per bloccarli - spiega la Vincenzi dopo tre ore di discussione anche serrata - otto erano passati attraverso la conferenza dei servizi, quattro erano pratiche da sportello; abbiamo fatto ciò che potevamo, ma per certe cose, come l’Acquasola, comunque la giri non c’è via d’uscita. Mentre dobbiamo ancora esaminare, e ora vedremo come, le pratiche di via Camilla, di via Nullo e dell’area Wax e Vitale.». E intanto, insiste, ci sono due mesi pieni di lavoro, di audizioni di comitati, ambientalisti, associazioni, per condividere le linee guida; per arrivare all’approvazione all’ultima seduta di consiglio del 2008. Consultazione a tutto campo, quindi, mentre, ribadisce la sindaco, il 14 ottobre porterà al consiglio la sua proposta di débat publique, il dibattito pubblico in cui la società Autostrade presenterà i due progetti della Gronda autostradale, in maniera, anche in questo modo, di chiarire costi e benefici delle due ipotesi.

Un autunno tutto di confronto per arrivare a scegliere, insomma. cambiano i metodi, ma cambiano anche i contenuti dello sviluppo urbanistico, come ricorda Anna Corsi, l’architetto che coordina i lavori di Urban Lab e che ricorda i punti fissi: dove e come si costruisce, la possibilità di sostituire i volumi senza trasportarli, le 17 aree in cui si costruiscano edifici per il social housing, l’accento sui trasporti pubblici e la necessità di infrastrutturare la città, ma anche di riequilibrarne la composizione sociale. Poi, i piccoli progetti, quelli concordati e discussi con i municipi, altra ipotesi di realizzazione da fare nei due anni che mancano al varo del Prg. Domande e perplessità non mancano - Della Bianca, Lilli Lauro e Bernabò Brea sugli altri - ma anche dall’opposizione c’è disponibilità ad approfondire, soprattutto , come spiega Alberto Gagliardi (Fi) se si dà un taglio netto alle cementificazioni del passato. Ci si rivede in aula, e per più volte.

«Chilometri e chilometri sopra le nostre teste gli aerei sfrecciano carichi di quadri di Tiziano e Poussin, Van Dyck e Goya... Gli amministratori calcolano quale sarà il probabile impatto sul deficit del bilancio annuale, rammaricandosi che la scelta non sia caduta su Monet o Van Gogh. Intanto gli editori fanno gli straordinari per far uscire in tempo i loro voluminosi cataloghi».

Con queste parole l'inglese Francis Haskell (1928-2000), indagatore della storia sociale dell'arte, docente a Oxford, introduceva nel 2000, poco prima di spegnersi, la raccolta

postuma di saggi ora tradotta in italiano (La nascita delle mostre. I dipinti degli antichi maestri e l`origine delle esposizioni d'arte, Skira editore, 222 pagine illustrate, 25

euro). Da allora la girandola europea e nordamericana di rassegne d'arte antica ha contagiato il Giappone, sta contagiando la Cina, arriverà nei paesi degli sceicchi, là dove portano soldi e

potere. Una pratica planetaria che per Haskell non significava affatto una democratizzazione della cultura. Lo prova il libro di saggi che ha sistemato, con una cura anche affettiva, Nicholas

Penny, direttore di uno dei musei più ricchi di dipinti e più visitati al mondo, la National Gallery di Londra (4 milioni 160 mila ingressi nel 2007).

Mr. Penny, nel volume Haskell scriveva che le mostre d'arte antica crescono a danno dei musei.

«Sì, e probabilmente fu il primo a capirlo. È solo negli ultimi 20-30 anni che tutti i musei hanno iniziato ad allestire mostre».

Cosa li ha scatenati? Perché?

«L'ossessione di dover fare mostre di successo. I musei sono tenuti sotto pressione dai media, dall`amministrazione locale, dal ministero, e se una rassegna riesce o meno lo si misura solo dal numero dei visitatori».

L'unico metro di giudizio, nella cultura, nei libri, nello spettacolo, sembra diventato quanta gente compra, vede, c'è. Anche i musei si sono assogettati a questo pensiero unico?

«Sì, purtroppo. A Londra il British, la National Gallery o la Tate ogni anno vogliono avere più visitatori di quello precedente. E oggi quando si pensa a una mostra su un artista non ci si chiede se è davvero valido e va fatto conoscere, bensì quanto sarà apprezzato: è paralizzante».

Ma le mostre non sono proliferate anche perché un visitatore comprende, o pensa di capire, meglio un artista o un movimento in una selezione circoscritta che in un museo dove deve spaziare nei secoli e stili restando magari disorientato?

«E' verissimo. Ma un'esposizione ti impacchetta cosa vedi, ti dice cosa dovresti vedere dandoti la sensazione di aver capito. Invece in una raccolta devi inventarti un tuo percorso, metterlo

in relazione con il resto: è un'esperienza più impegnativa eppure più libera, più autonoma».

Le esposizioni continueranno a livello esponenziale?

«Non è detto. Ora i costi sono schizzati come razzi, le spese di assicurazione sono fuori controllo, è più difficile trovare sponsor, e poi le opere non sono più così disponibili. Anni fa

la National Gallery di Londra allestì in un quinquennio seguitissime mostre su Raffaello, Tiziano, Caravaggio e Velazquez generando due effetti: il pubblico ne voleva altre analoghe, il

che era impossibile, e per avere quei maestri il museo dovette promettere molte opere in prestito negli anni. Il fenomeno è chiaro: non ricevi grandi dipinti se non presti i tuoi in cambio.

Danneggiando chi viene al museo».

Nel saggio «Botticelli al servizio del fascismo» Haskell parla della mostra d`arte italiana del 1930 che portò a Londra, via nave superando una tempesta al largo della Bretagna, la Venere di Botticelli, la Tempesta del Giorgione, capolavori di Masaccio, Carpaccio, Tiziano e molti altri capolavori. Mussolini intendeva la mostra come utile propaganda. Pochi anni fa il ministro della cultura Buttiglione pensò di spedire, invano, Botticelli in Giappone, l'anno scorso Rutelli, su parere dei tecnici, inviò l'Annunciazione di Leonardo a Tokyo nonostante l'opinione contraria del direttore degli Uffizi Natali.

«Per me Natali aveva completamente ragione ma il punto più interessante sollevato da Haskell è che anche da un punto di vista politico spedire tesori all'estero serve a poco. Mussolini

prestò la grande arte italiana credendo di dimostrare quanto era grande l'Italia, alla fine si rese conto di non aver avuto l'impatto politico desiderato. Prestare arte all'estero anche diplomaticamente è un'idea pessima, in realtà è un omaggio alla potenza che ospita le opere.

Non vorrei sembrare irriverente nei confronti di alcuno, tantomeno di Giorgio Armani, titolando e poi così scrivendo. Ma le motivazioni che mi spingono a scrivere valgono bene il rischio, anche di apparire privo di certa supposta qualità (la qual cosa pure mi crea fastidio, io che non vesto mai a caso).

Da tempo siamo abituati a (dover) considerare il pensiero degli stilisti e invitati a coglierne i suggerimenti per migliorare la qualità dello spazio che viviamo. Non che questo corrisponda ai miei desiderata, è semplice constatazione derivata dalla lettura della stampa quotidiana, quando non anche dalla tele-visione.

Già qualche mese fa, il tra il 23 e il 25 giugno, sul tema in questione, le griffe più blasonate avevano avuto spazio nel Corriere della Sera, dalle cui pagine si era appreso dell’entusiastico Tom Ford all’inaugurazione del nuovissimo negozio in via Verri: “E’ fantastico essere di nuovo a Milano… quando sono qui mi sembra di viverci da sempre…” e della cauta Mariuccia Mandelli-Krizia, cui piace, di Milano, “la sua ricchezza di talento e la sua capacità di offrire molte possibilità: di lavoro, di svago, di cultura. Non piace il suo disordine, la sua sporcizia che è niente in confronto ad altre critiche situazioni”.

Complimenti. Non solo a loro ma anche alla redazione. Non avremmo mai osato pensare il contrario, ma leggerlo sul glorioso quotidiano è stato rassicurante.

In quella occasione, da Armani la denuncia raccolta dal Corriere: “E’ in Montenapo il vero suk”.

Il 17 settembre 2008, si è tornati nuovamente sulla questione, e nuovamente interpellato è stato Re Giorgio, per il quale, non strabuzzate occhi!, “Il centro storico muore e via Montenapoleone sembra un luna park”. Ma da quale pulpito! Verrebbe da dire, ricorrendo a un detto popolare, gallina che canta ha fatto l’uovo!

Devo sottolinearlo, se penso a Milano mi viene in mente la bruttezza. E già, a me che amo Milano, da subito questo viene in mente; non certe atmosfere, certi suoni, certe immagini, ma anche certi dati ed elementi oggettivi di spazio e di architettura, di funzioni e di relazioni, che tornano alla mente se ripenso a Copenhagen, a Praga o a Vienna. Per pensare alla bellezza di Milano devo congelare nella mente, come si fa con un layer di Autocad, la negazione della sua storia a partire dal rapporto con l’acqua, l’alterazione dell’equilibrio tra la città del risiedere e la città del lavorare, il traffico che soffoca, la perforazione del sottosuolo come fosse gruyère, il mercatone immobiliare che seleziona ed esclude, il centro storico da decenni solo commerciale e finanziario, l’immensa boutique che lo pervade e anche un po’ più in là invade. Per Milano, le sue risorse consumate come si fa spremendo un limone, non c’è spazio per un progetto che contrasti l’abbruttimento, per una idea diversa di città e di territorio.

Milano sull’acqua, se non come Copenhagen, almeno come Bruges? Illusione. Nient’affatto. Il piacere di veder riflesse cortine edilizie, giardini, ringhiere e ponticelli è tramontata da tempo e ciò che resta, al Ticinese, è diventato poco più che buono per una cartolina. Milano, caposaldo territoriale di un sistema idrografico, dall’acqua ha tratto la propria forma urbis, dal rapporto con la campagna la prima ricchezza, non solo materiale. Poi l’affermazione industriale, il ruolo di capitale morale, il primato economico e il terziario.

La folle specializzazione commerciale del centro storico a scapito dei negozi del non-lusso è andata di pari passo alla terziarizzazione delle funzioni a scapito della residenza. Espulsione degli abitanti-classi meno abbienti a favore delle attività terziarie, uffici, uffici, uffici.

Sottolineare i conseguenti movimenti pendolari significa mettere in evidenza il disastroso bilancio tra la città del giorno (due milioni e mezzo di persone) e la città della notte (a riportare il valore dei residenti, circa un milione e trecentomila persone).

Solo una classe di governo priva di lungimiranza e incapace di progetto ha potuto elevare a modello questo tipo di città, avverso ai più scontati parametri di vitalità e vivibilità. Milano, “livida e sprofondata per sua stessa mano” , tra i versi di un cantautore amato.

Ecco dunque, l’amaro calice. Milano sfigurata, Milano bevuta e digerita, vomitata mille volte da chi s’è affrettato al tavolo delle libagioni. Torta spartita, commensali satolli. Rimangono briciole, dappertutto.

E qualcuno s’indigna. Molti si indignano, e hanno ragione da vendere. Ma almeno qualcuno di questi non ha partecipato al banchetto.

Con che coraggio, cari stilisti, osate parlare di qualità dello spazio urbano, voi che avete invaso la città con ogni mezzo e con ogni mezzo invadete ogni spazio mediatico, ben supportati, peraltro, da pubblicisti che sanno (farvi) ben vendere e collocare il prodotto, dappertutto, senza esclusione alcuna, manco per la piazza, per il duomo, per il castello?

Perdonate la franchezza, ma sono ben lieto nel sapervi impegnati “con tante cose da fare” , sicché non vi resta tempo per disegnarci la città ideale.

Perbacco, quanti argomenti, scrive Paola Bulbarelli, con Armani. Milano, su tutto, ovviamente. E ovviamente, leggiamo che per Re Giorgio “l’Expo rappresenterà un momento particolare, molto positivo così come è giusto che una torta [sì, proprio così, non invento nulla, parla proprio di torta, pensa te] del genere venga controllata da un consiglio di amministrazione. Se non fossi tanto impegnato mi sarebbe piaciuto far parte della partita”. Ah, la grammatica, questa sconosciuta! Ma chi se ne frega, conta il concetto, il pensiero (unico). Del resto, non voglio mica mettere i puntini sulle i, mica punto il dito sulla pagliuzza quando di fronte c’è una trave enorme!

“Degrado e rumore di giorno, deserto di sera. Ma l’isola pedonale è un danno”. Così, nella Cronaca di Milano del Corriere della Sera, 17 settembre 2008, sotto il titolo “Armani: il centro storico muore. E Montenapo è un luna park”. E nel sommario, voce a “Maiolo, assessore al Commercio: organizziamo insieme nuovi eventi. Cadeo, Arredo urbano: pianificazione condivisa”.

Assessore, da oggi ex, ma di che eventi parla? Ma di che eventi ha bisogno Milano? Ma Milano ha bisogno di eventi? E più oltre, che dire della pianificazione condivisa (dell’arredo urbano, figurarsi).

Che miseria. E che presa per i fondelli, oltre al danno la beffa. Ci tocca anche di leggere che, foto dinamica dello stilista e catenaccio “Non si può pensare a un’isola pedonale nel quadrilatero. Figuriamoci se non ci fossero le auto: bisogna dar vita alle strade, un passeggio utile”.

Poi, “Il centro di Milano è morto, questa è la realtà”. Pensa un po’, si lamenta perché, fermandosi a seguire i lavori della nuova boutique sino alle undici di sera, constata l’assenza di persone, “Il nulla”, dice, dopo le otto, quando chiudono i negozi.

Bisogna ridere? No, tutt’altro. C’è di indignarsi pensando all’abusato cliché di fronte all’uso e consumo di tanta parte della città notturna, sin troppo viva da divenire assalto a luoghi ben identificati dai riti della movida, strampalata versione milanese del movimento sociale ed artistico nato nella Madrid che si lasciava alle spalle la dittatura franchista. Dall’aperitivo ai tour nottambuli la Milano che ama esserci si guarda bene dal frequentare certi luoghi mortificati e fagocitati dalla moda, madre ripudiata dai suoi stessi figli. Che ci dovrebbero andare a fare, nel vostro quadrilatero, i nottambuli? Parafrasando i madrileñi, Milán me mata.

Sono passati venticinque anni, il tema della vitalità degli spazi urbani era argomento di lezione in università: imparai a comprenderne il valore da Lodovico Meneghetti, con tanto di esempi, circostanziati. Tra i materiali, Lo spazio nella storia. 177 immagini in 14 capitoli; da questo, tra gli altri, i tema della piazza, della strada, dei rapporti spaziali, degli equilibri-disequilibri tra residenza e terziario, tra abitazioni e uffici, tra il pieno e il vuoto, l’affollato diurno e il deserto serale.

Anche se avessero assistito alle lezioni, certi imprenditori se ne sarebbero bellamente infischiati di fronte agli amministratori del capoluogo. Avanti, c’è posto, c’è da mangiare oltre che da bere.

Quanto poi all’isola pedonale, nel quadrilatero della moda, bene inteso, mi sembra un déjà vu. E non sbaglio. Che pena tornare ad argomenti come la presenza necessaria delle auto per dar vita alle strade. Che strazio tornare al corso Vittorio Emanuele di trent’anni fa, al tira e molla decisionale sulla pedonalizzazione. Potrei ricordare Vittorio Korach, assessore al traffico tra gli anni Settanta e Ottanta, o l’incompresa posizione del caro Aldo Rossi. Mi limito a citare ancora una volta Lodo Meneghetti, Milano uno spazio in sfacelo, lettera aperta ai colleghi e agli studenti di architettura, scritta su “polinewsia”, numero 13, aprile 1984. Lì, cari stilisti del “Figuriamoci se non ci fossero le auto” e cari giornalisti del “Non può essere smentito lo stilista”, un sacco di buoni argomenti.

Che dire, ancora, delle due pagine del “Corriere” di ieri, come di quello di oggi (come anche del resto, de “la Repubblica”). Che è scandalosa la reiterata tribuna offerta alle griffe per pontificare sullo spazio urbano. Da Armani, c’è di che trasecolare, apprendiamo che il Comune “doveva essere molto severo, troppe licenze di moda. bisognava diversificare” o che sulcorso Vittorio Emanuele, “lo struscio non sempre è di qualità”.

Ma per cortesia, si occupi se proprio vuole “dei tre-quattro russi vestiti male” visti nelle più famose vie del centro. Quanto all’autrice dell’articolo, eviti la precisazione che “non è la moda protagonista dell’Expo”, giacché a qualcuno potrebbe suggerire qualcosa, soprattutto se accompagnata dalla proposizione che “personaggi alla Armani avrebbero potuto portare notevoli contributi” (ancora, l’italiano, questo abbandonato, ma l’Expò sarà nel 2015 o si è già svolto?).

E già, si tranquillizzi pure, gentile Paola Bulbarelli, perché Re Giorgio non manca di iniziative per la sua città, a partire dal suo albergo di via Manzoni, “quello che verrà aperto fra circa un anno e mezzo, ci sarà un ristorante di altissimo livello ma solo di cucina italiana e direi milanese. Si potrà mangiare una cotoletta secondo tradizione”.

“Già l’hotel, ce n’era bisogno”? Ma che risposta avrebbe potuto avere simil domanda?

Siamo davvero soddisfatti, complimenti vivissimi e tutto va ben, madama la marchesa. Che bello esser rassicurati che non mancherà di stile, il nuovo hotel di Armani, “a cominciare dagli spazi. Riprendiamoci un senso di civiltà”.

Già, lo stile, mica è materia per soli addetti ai lavori, l’argomento attrae come api sui petali di fiore. Incauta, l’ormai ex-assessore Maiolo alle Attività Produttive esprime piena solidarietà e condivisione ad Armani e alla sua denuncia e, constatata la morte della città della moda, o del centro storico, morto pure lui, ci rimette le deleghe. Il sindaco Letizia Moratti ha un bel daffare. E non solo lei, l’Armani-pensiero sollecita le iniziative anche dell’assessore all’Arredo urbano Maurizio Cadeo che, per la nostra buona pace, assicura che “nella nuova pianificazione degli arredi del centro storico siamo impegnati nella ricerca di soluzioni condivise”.

Che ci rimane, di fronte alla pianificazione degli arredi del centro storico? Dagli architetti richiesti di un parere (Botta e Fuksas) solo conferme.

Di più, oggi si è potuto leggere qualcosa che definire rivoltante è un eufemismo. Da Achille Colombo Clerici (Assoedilizia) apprendiamo che “La città e il quartiere [della moda] vivono grazie a un mix di funzioni che non può prescindere dalla componente fondamentale dei residenti (sono un migliaio) o dai lavoratori che esercitano attività professionali e artigianali (ammontano a circa cinquemila)”. Ci spiegano, dall’associazione, che è meglio “la spontaneità della vita urbana”, con solidarietà insospettata, “per rilanciare la via e proteggere i più deboli”. Il Presidente proprietari di immobili chiosa: “Se si chiude la strada al traffico chi farà visita alla vecchia signora o al professore di italiano che abitano in quelle case”? Poi, più oltre, ciliegina sulla torta: “Certo, anziani e impiegati possono spostarsi al Lorenteggio”.

Non ci sono parole. Dall’ammutolimento non ci scuote neanche la bella e giusta lettera di Giulia Borgese sotto il titolo “Non chiamatelo quadrilatero della moda”.

A noi l’amara constatazione della ragionevolezza gettata alle ortiche, sminuzzata nel tritacarne come in un macello.

Il 28 giugno scorso, a Firenze , la Rete dei Comitati toscani guidata da Asor Rosa mostrò l’immagine della Toscana infelix sulla quale pesano, a mo’ di esempio, 109 emergenze territoriali che rappresentano l’esatto contrario di un buon governo del territorio. Furono assenti totalmente da quell’appuntamento gli Amministratori regionali (per propria precisa volontà), ma gli stessi hanno partecipato, sempre a Firenze il 17 di luglio ad un convegno sul consumo di suolo toscano.

Qui i governanti toscani, con i dati ricavati dall’interpretazione delle immagini derivanti dal programma satellitare Corine Land Cover, hanno tranquillizzato: in Toscana si è costruito pochissimo, e molto meno che nel resto dell’Italia! Le sensazioni dei Comitati e dei comuni cittadini sarebbero quindi solo false percezioni! In realtà aveva voluto tranquillizzare (e moltissimo) anche il Garante regionale della Comunicazione prof. Morisi a cui però (come all’assemblea della Rete dei Comitati di fine giugno) è sfuggita la valutazione che i Comitati stessi si dimostrano “fuori dal mondo” non solo perché percepiscono quello che non c’è assolutamente (l’eccesso di costruzioni, appunto), ma perché non si rendono conto che le “villettopoli” così vituperate in realtà sono assai richieste, e volute, e hanno mercato, quindi la Regione (che è e vuole essere dentro il mondo) cosa può fare?

Insomma la Regione Toscana (stando dentro il mondo) vuole essere efficiente interprete di queste voglie comuni di villettopoli e i margini per farlo sono ancora molto ampi. Certo, ancora ce ne vuole per deturpare tutto il paesaggio dell’intera Toscana e (graziealcielo!) esistono ancora tanti scorci intatti sfruttabili dai migliori attuatori delle nostre voglie e dei nostri bisogni: gli speculatori.

Non sappiamo, in dettaglio, cosa il satellite ha evidenziato (l’arch. Claudio Greppi, estensore della mappa delle emergenze toscane, però ne ha rilevato puntualmente l’inattendibilità, perché l’operazione è avvenuta ad una scala troppo piccola), ma in replica alle rassicurazioni toscane e solo a mo’ di esempio, voglio citare il caso della mala urbanistica lucchese, caso (con caos conseguente) appena scoppiato su dati numerici obiettivi e inconfutabili e che sono del tutto derivabili dalla politica urbanistica regionale.

A Lucca il Regolamento urbanistico

deroga dal Piano strutturale

Questi i passi essenziali degli eventi urbanistici lucchesi. Nell’anno 2000, con Del. C.C. n° 188 del 28. dicembre, viene adottato il piano strutturale ai sensi della legge urbanistica regionale n°5/95. L’anno successivo con Del. C.C. n° 129 del 09.08.2001 si procede alla definitiva approvazione di questo piano. Con Del. C.C. n° 101 del 08.04.2002 il Comune adotta il sotto-ordinato Regolamento urbanistico, applicativo delle linee programmatiche fissate dal P.S.. Nel marzo 2004 (Del. C.C. n° 25 del 10.03.2004) il Regolamento urbanistico è approvato in via definitiva.

I nuovi strumenti ampliano enormemente le possibilità di intervento edilizio, sia nuovo che di ristrutturazione. Incapaci di dare e indirizzare una visione vitale e funzionale della città per il suo futuro, questi strumenti si limitano piuttosto a rendere possibili una miriade di interventi offrendo, ovunque, una vastissima gamma di possibili destinazioni d’uso, la scelta delle quali è interamente lasciata al mercato e alle volontà e convenienze dei singoli operatori. Alcuni limiti quantitativi per i vari settori funzionali sono fissati all’interno del P.S. sia in riferimento all’intero territorio comunale sia all’interno di ogni singola UTOE (Unità Territoriale Organica Elementare).

Questa grande indefinizione qualitativa e l’estensione delle possibilità edificatorie fanno sì che a Lucca negli ultimi 8 anni si sia costruito così tanto, ma così tanto che il Comune è stato costretto a rendere noti i dati quantitativi che hanno evidenziato come in quattro zone (UTOE) le quantità residenziali massime stabilite dal sovra-ordinato Piano Strutturale (dal 2001) per quanto riguarda nuove costruzioni sono state ampiamente “sforate”…..Il rilevamento, fatto fare dall’Amministrazione comunale dando un apposito incarico esterno perché gli Uffici operavano senza monitorare la situazione, però è stato limitato alle nuove costruzioni, al settore residenziale ed ha computato solo i dati successivi al 2004 (ovvero successivi all’approvazione del R.U.) e non anche quelli relativi al triennio 2001/2004, ovvero a partire dalla data di fissazione di questi quantitativi.

Comunque, la conseguenza immediata di questa scoperta parziale è stata che il Sindaco ha bloccato il rilascio di permessi per nuove abitazioni in queste zone, rimandando a settembre la correzione dello strumento urbanistico per permettere l’estensione delle quantità fissate dal P.S.! Gli speculatori e gli amanti di villettopoli (così ben interpretati dagli Amministratori) possono quindi stare tranquilli: a settembre con facili accordi tra Comune e Regione il P.S. lucchese sarà debitamente corretto per ampliarne le possibilità! Ma, data la parzialità dei dati come evidenziata sopra, la reale situazione lucchese è ancora in gran parte sconosciuta e sicuramente molto più grave di quella, già gravissima, che è emersa finora.

Un recupero che aumenta

il carico urbanistico

Il presunto fiore all’occhiello della Toscana (è stato detto anche nel convegno del 17 luglio) è il recupero del patrimonio edilizio esistente! Purtroppo il “recupero”, che anche a noi piacerebbe veder coerentemente applicato, è termine divenuto troppo ambiguo. A Lucca, grazie alle norme toscane che orgogliosamente assegnano ai comuni grande e totale discrezionalità, tutto quello che è configurabile come recupero di immobili o ristrutturazione dell’esistente o demolizione e ricostruzione non è computato ai fini del carico urbanistico, né quello che si ottiene dallo sfruttamento delle volumetrie esistenti è scomputabile dai fabbisogni della comunità.

Allora non solo il “recupero” non serve assolutamente a limitare il consumo di nuovo suolo, ma diviene mero “abuso” di volumi comunque reperibili: così non solo palazzi e capannoni industriali sono divenuti condomìni, negozi, centri commerciali ed uffici, ma è nata anche la mutazione di serre agrarie collinari in 32 appartamenti, si sono abbattute tettoie per cavalli per costruire in centro storico 55 abitazioni ex novo, è nata la bulimica metamorfosi di baracche di lamiera in ville-portaerei con nuove strade, parcheggi e piscine sugli intatti rilievi collinari….Un “recupero” che da un lato presenta questi assurdi qualitativi, ma che diviene ancora più grave perché nessuna di queste quantità “recuperate” viene sottratta dal computo dei fabbisogni programmati...

Non basta! Il Comune di Lucca, nella sua inviolata autonomia municipale, è stato libero di regalare, ai possessori di edifici, da 150 a180 mc in più (un bonus volumetrico in regalo una tantum, al di là degli indici e delle zone) non computabile a nessun fine. Ancora non computabili come volumi risultano poi anche quelli derivanti dalle cosiddette superfici accessorie quali garage, seminterrati, sottotetti, ascensori, scale, corridoi ecc. Proprio per tutto questo le baracche di lamiera si sono tradotte in ville/portaerei.

Una proposta sensata alla Regione

Dal caso Lucca emerge, poi, anche quest’altro aspetto gravissimo: il Regolamento Urbanistico (come dimostrano i maggiori quantitativi concessi nelle quattro UTOE) di fatto prevede una forte maggiore edificabilità rispetto al sovra ordinato Piano strutturale. Ciò significa che i singoli Comuni in realtà, quando autonomamente elaborano lo strumento applicativo degli indirizzi, prefissati nel P.S. con Provincia e Regione, fanno quello che vogliono.

Il cattivo esempio lucchese (un esempio dei tanti, sicuramente) scoppiato ai primi di agosto costituisce un’esperienza negativa che dovrebbe portare ad una verifica indispensabile ed ad una correzione normativa necessaria della legge urbanistica regionale. La Regione Toscana dovrebbe immediatamente raccogliere (e far raccogliere) da tutti i Comuni i dati quantitativi, suddivisi per settore, sui permessi per nuove costruzioni, ristrutturazioni, trasformazioni, bonusvolumetrici, spazi accessori ….. rilasciati anno dopo anno dal 1995 (anno di entrata in vigore della L.R.T. 5/95). La Regione così possiederebbe, sempre aggiornata, la conoscenza numerica, obiettiva, di quello che succede sul territorio, e il confronto con i limiti fissati nei singoli Piani Strutturali permetterebbe quell’azione di controllo che la Regione stessa finora non ha voluto fare. Sicuramente questi dati, se fedelmente raccolti, sarebbero assai più credibili delle interpretazioni a piccola scala del programma Corine. Quattro mesi di tempo, nell’epoca informatica, sarebbero sufficienti per sapere obiettivamente tutto questo. Sapere e monitorare, obiettivamente, cosa è successo sul territorio toscano e dove lo stiamo portando, per chi e per quante persone e per quali constatati e previsti bisogni stiamo costruendo e martoriando città territori e paesaggi, non è un vezzo, è un dovere! Sapere serve anche per correggere! E le norme regionali che di fatto non permettono di intervenire per reprimere gli abusi dei Comuni che sgarrano (come quello di Lucca) anche sotto questo aspetto devono essere drasticamente riviste.

Se è vero che la nostra cultura affonda le radici in Grecia, dove la sacralità dell’ospite era ossequio agli dei, o se, come molti sostengono a gran voce, le radici cristiane sono le nostre ? «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Marco 10,40) ? allora abbiamo fatto una svolta selvaggia verso il puro mercantilismo. Oggi la stazione Centrale dopo la ristrutturazione sarà l’icona dell’ospitalità negata e dell’accoglienza trasformata in affare commerciale.

Solo una parte di chi viaggia lo fa per puro diletto: la maggioranza lo fa per necessità di lavoro, spesso disagiata. Costringere tutti, e questi ultimi in primo luogo, ad allungare il percorso di accesso ai treni per costringerli a passare davanti alle vetrine dei negozi, allungando così il tempo del viaggio, ha qualcosa d’incivile. I passeggeri non hanno a disposizione due percorsi, uno rapido e l’altro commerciale, ma uno solo, come se fossero in una stazione di servizio sull’autostrada (i padroni sono gli stessi): uscire passando tortuosamente tra gadget e provole locali. Se vogliamo avvicinarci a tempi più vicini, ecco l’Accademia della Crusca: «Ospitalità ? Liberalità nel ricevere i forestieri». Di liberalità nella società Grandi Stazioni non c’è traccia, persino la toilette si paga a Milano: 80 centesimi, e il tornello a moneta non dà nemmeno il resto.

Ovviamente la strategia è la stessa anche per Centostazioni, la società che provvede alla ristrutturazione delle stazioni minori. Mesi fa a Brescia, lavori terminati nel 2006, ho chiesto a un ferroviere di indicarmi la sala di attesa: «Non c’è, è stata chiusa perché insicura». Risposta lapidaria ma meno realista di quella di un agente di pubblica sicurezza: «Non c’è più, adesso per far soldi ci sono solo esercizi commerciali». Aveva ragione. Lo conferma Centostazioni Spa: «... il progetto originale ha consentito di incrementare la superficie destinata ai servizi per gli utenti...» Tra questi: bar-ristorazione, tabaccaio, agenzia viaggi, barbiere, make-up accessori, due edicole, forno, cioccolateria/sweet corner, cartolibreria, bancomat (Bnl), agenzia di assicurazione (Hdi), negozio di telefonia Tim e ottico. Costosa, dunque, l’attesa. A Padova, dove è in corso la ristrutturazione, la nuova toilette costa 60 centesimi. Il risultato: il grande parcheggio di bici annesso alla stazione, quello dei pendolari, ha ora un puzzo di urina degno del peggior sottopasso urbano. Nel nostro Paese, prospero e felice, per qualcuno ? molti ? 60 o 80 centesimi sono qualcosa. Con questo spirito e con questa generosa mentalità ci avviamo ad accogliere gli "ospiti" per l’Expo 2015. A noi ospitanti, sempre e solo il ruolo di pecore da tosare.

Nota: a parere del sottoscritto va nella medesima direzione anche la valorizzazione degli spazi ferroviaridi Venezia Santa Lucia, nel cui ambito si inquadra il nuovo ponte di Calatrava sul Canal Grande (f.b.)

La Regione si affida ancora al Consiglio di Stato, ma sul tavolo della vertenza Tuvixeddu c’è un documento che potrebbe rivelarsi decisivo per le sorti dei colli punici: è il parere paesaggistico rilasciato dal servizio tutela del paesaggio dell’assessorato regionale alla pubblica istruzione il 27 maggio del 1999. E’ un documento centrale, perchè è grazie a quello che l’intervento immobiliare della Nuova Iniziative Coimpresa ha potuto ottenere la firma dell’accordo di programma dell’agosto 2000, il via libera definitivo al progetto sul quale oggi si combatte su tutti i fronti legali. E’ stato il sovrintendente ai beni architettonici e paesaggistici Fausto Martino a togliere la polvere da quelle carte di nove anni fa per stabilire che si tratta di carte nulle: mancava allora così come manca oggi il perere obbligatorio della sua sovrintendenza. Quindi l’autorizzazione concessa il 25 agosto scorso a Coimpresa dal comune di Cagliari per gli ultimi due lotti dell’intervento non è valida, ma a questo punto non sarebbero valide neppure tutte le altre.

LA DENUNCIA. La storia recente dice che a denunciare l’assenza di questo passaggio tecnico fondamentale - o comunque obbligatorio - erano stati il Gruppo di Intervento giuridico e gli Amici della Terra fin dal 1999, a carte calde. La cosa passò inosservata, i dirigenti ministeriali erano impegnati su altri fronti e comunque su Tuvixeddu il vento del consenso era rotto appena da qualche iniziativa di ecologisti e di cronisti fuori dal coro. Ora le cose sembrano cambiate. L’amministrazione Soru è disposta a tutto pur di fermare le betoniere e la folla di cagliaritani che ha partecipato con passione anche rumorosa al convegno organizzato al palazzo Viceregio da Italia Nostra («Le ragioni del colle») dimostrano che la sensibilità per il futuro della necropoli anzichè assopirsi è cresciuta. LE NORME. Ma al di là delle tendenze culturali e politiche è chiaro che la partita su Tuvixeddu si gioca sul filo del diritto. Ed è qui - secondo il Gruppo di intervento giuridico - che l’iniziativa postuma di Martino potrebbe pesare: i legali della Regione hanno già provato a portare il decreto del dirigente statale davanti al Tar, ma l’hanno fatto in ritardo e in aula è arrivata soltanto una bozza non firmata. Al Consiglio di Stato le cose potrebbero andare diversamente, anche se l’oggetto della controversia è in realtà un altro: lo stop imposto dalla Regione in base alla legge 45, uno stop trimestrale che i giudici hanno bocciato già in fase di sospensiva. L’ACCORDO DEL 2000. C’è però un altro aspetto della querelle che è apparso stranamente trascurato: nella sentenza di fine luglio il Consiglio di Stato ha dato torto alla Regione per via della commissione del paesaggio, che doveva essere costituita con una legge. Ma ha indicato esplicitamente una strada tecnica finora rimasta singolarmente inesplorata: al contrario del Tar, i giudici di palazzo Spada hanno spiegato nella stretta sostanza che l’accordo di programma non è un patto insuperabile perchè va inquadrato fra gli accordi previsti all’articolo 11 della legge 241 del 1990. Ebbene il comma 4 di quell’articolo di legge stabilisce che «per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato». Indennizzi e non risarcimenti, che nel linguaggio giuridico sono cose molto diverse. Resta da superare quel ‘sopravvenuti motivi’, cioè motivi arrivati dopo la firma dell’accordo. Ma qui sembra venire in soccorso della Regione l’avvocatura dello stato, che ha sostenuto (Coimpresa respinge decisamente questa lettura) come siano state scavate centinaia di altre tombe dal 2000 ad oggi. Potrebbe esserci poi il decreto di annullamento dei nullaosta paesaggistici firmato da Martino, in base al quale Stefano Deliperi chiede che l’intero progetto Coimpresa venga bocciato. Potrebbe infine pesare - l’ha detto anche Soru, nel corso del convegno - un’opinione pubblica che sembra voler partecipare con energia al confronto su Tuvixeddu, cui si sono via via affiancate numerose voci autorevoli.

GARZILLO. Ultima quella del direttore regionale per i beni culturali Elio Garzillo, che al convegno di Italia Nostra ha tracciato una cronistoria critica della vicenda: «Mi ha dato da riflettere profondamente - ha detto Garzillo - l’annullamento da parte dei nostri uffici del nulla osta paesaggistico rilasciato dal comune di Cagliari nel mese di agosto per una notevole volumetria a Tuvixeddu. Il nullaosta annullato recitava che il progetto di Coimpresa era compatibile con il paesaggio a patto che ci si assicurasse che i pergolati fossero corrispondenti a certi requisiti. Ricordo inoltre alla nostra soprintendenza archeologica che le aree vincolate con vincolo indiretto dovrebbero essere aree per le quali esiste la certezza dell’assenza di rinvenimenti possibili in quanto dovrebbero essere aree già indagate, perchè la loro funzione è quella di proteggere, appunto, rendere visibili e fruibili le aree di vincolo diretto. Dovrebbero essere aree di protezione del territorio dove è presente il reperto». Una critica netta: chi può assicurare che nell’area del progetto non esistano altre parti della necropoli?

TUTELA. Ecco perchè Maria Paola Morittu di Italia Nostra «Alla sovrintendenza archeologica chiediamo semplicemente un tutela efficace. Le 431 tombe distrutte sono documentate in due pubblicazioni della stessa soprintendenza e sono finite sotto palazzi costruiti tra il 2001 e 2004, in tempi sorprendentemente recenti. Compresa quella che conteneva lo scheletro di madre e figlio sopra il quale c’è oggi una tromba dell’ascensore. Il vincolo vero inoltre, quello davvero efficace, riguarda circa undici ettari classificati zona H di salvaguardia dal Puc e non i 23 dichiarati dalla soprintendenza che non distingue tra vincolo diretto e indiretto».

REGIONE E BONDI. Per l’assessore regionale all’urbanistica Gian Valerio Sanna «vale nelle pubbliche amministrazioni la regola del principio di precauzione e questo principio ci siamo sforzati di seguire. Lo stesso avrebbe dovuto fare anche la soprintendenza, anche a seguito degli incessanti cambiamenti dell’idea del paesaggio che si sono susseguiti (Convenzione europea e Codice Urbani). Una concezione della città e dei luoghi che prevede una crescita, certo, ma anche la possibilità di “sottrarre” e di togliere quello che nel tessuto urbano deve essere rimosso. I paesi europei avanzati non consumano territorio come invece facciamo noi e noi dobbiamo adeguarci e ricercare strumenti protezione e tutela sul consumo dei suoli». Giovedì intanto Soru incontrerà il ministro dei beni culturali Sandro Bondi per parlare del caso Tuvixeddu e chiedere che il sito venga inserito fra quelli protetti dall’Unesco. Qui lo scetticismo è d’obbligo, ma non si sa mai.

Le case sono sulla spiaggia, conficcate in un arenile chiaro, appena mosso da un cordone di dune. Il mare è a dieci metri e il cantiere è recintato da una plastichetta verde. La costruzione è bloccata, si attende una decisione del Tar. Porto Garibaldi: uno dei lidi di Comacchio, il comune più grande dell’immenso Delta del Po, il delicato territorio esteso su oltre 1.300 chilometri quadrati, la zona umida più vasta d’Europa dove finisce il lungo fiume e sfumano i confini fra terra e mare, acque salate e acque dolci, pinete e saline, boschi secolari e valli allagate. Un paesaggio rasserenante eppure mai uguale a sé stesso e sempre minacciato. In Emilia Romagna, secondo calcoli prodotti dagli uffici regionali, dal 1980 a oggi c’è stato un incremento delle costruzioni del cento per cento. Il patrimonio edilizio è raddoppiato. E qualcosa del genere è accaduto anche sul litorale deltizio, la cui storia è la più emblematica fra quelle in cui si intrecciano i temi della tutela e dello sviluppo economico. Una pagina esemplare per l’ambientalismo italiano, iniziata esattamente quarant’anni fa.

Anche i luoghi festeggiano le loro date simboliche. Il Delta del Po celebra in questi giorni turbolenti diversi anniversari. Ai primi di ottobre del 1968, Italia Nostra di Ferrara organizzò un convegno che tracciò un bilancio delle sconvolgenti trasformazioni che quell’area aveva subìto nei decenni precedenti, a causa in particolare delle bonifiche decise sulla spinta della miseria che ghermiva quei luoghi. Le aree di palude, che nel 1925 raggiungevano i 45 mila ettari, nel ?68 erano scese a 13 mila. Occorreva recuperare più suolo da coltivare e da destinare a industrie oppure la fragile coesistenza di acqua e terra andava tutelata, perché non c’era niente di simile altrove e perché proprio quella coesistenza poteva essere occasione di crescita? E che cosa fare delle attività che in quei territori incerti si erano installate - l’allevamento delle vongole e delle anguille? Come comportarsi di fronte a un paesaggio che mutava in continuazione, un luogo che l’intervento dell’uomo aveva trasformato in un "paesaggio culturale"? Erano anni di formidabili accelerazioni, sia politiche che culturali, e il dibattito cominciava allora a muovere i primi passi. Il Delta fu uno dei luoghi in cui quel dibattito esordì.

Il Delta era una regione depressa. Nonostante le bonifiche, la gente continuò a fuggire ancora negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma qualcosa di sconvolgente intanto avveniva sulla fascia litoranea, dove prima lentamente poi voracemente sorgevano case per il turismo, palazzine e palazzi. Quel convegno di Italia Nostra, presieduto da Giorgio Bassani, con Pierluigi Cervellati, Fulco Pratesi, Bernardo Rossi-Doria, Paolo Ravenna, chiese di metter fine alle bonifiche, di bloccare l’urbanizzazione. La neonata Regione si mostrò sensibile alle richieste. Non si riuscì a evitare che la pregevole valle della Falce venisse prosciugata, ma si impedì la costruzione di una strada da Goro a Volano che avrebbe squarciato il Bosco della Mesola, uno dei gioielli dell’intero Delta.

Le bonifiche si fermarono e iniziò il faticoso cammino della tutela. Che comportò anche un aggiornamento culturale, adattabile a un territorio dai mille profili, quello morfologico, quello vegetale, quello della fauna. Nel 1988 nacque la porzione romagnola del Parco regionale.

Ma le minacce non sono finite. Oggi le case sulla spiaggia, bloccate da un’ordinanza del sindaco di Comacchio, Cristina Cicognani, sono l’ultimo episodio dell’impetuosa aggressione che l’edilizia compie su questo lembo incerto di terra. Un’aggressione che ha la forma di villette allineate a pettine, tutte uguali, con la scala, il ballatoio e la porta finestra. Sono le palazzine di vacanza del Lido degli Estensi, del Lido delle Nazioni e, appunto, di Porto Garibaldi, chiuse undici mesi l’anno durante i quali compongono uno spettrale insediamento (è il piano regolatore di Comacchio che autorizza questa espansione).

Le paure per il futuro si moltiplicano. Una società italo-tedesca ha messo a punto Euroworld, un progetto tanto faraonico da sembrare finto: la riproduzione di paesaggi e architetture europee (dalle spiagge dell’Algarve a Capo Nord, dall’Acropoli di Atene al Big Ben) che si estenderebbe su 124 chilometri quadrati, quasi un decimo dell’intero Delta, fra i comuni di Porto Tolle e Porto Viro. Un elefantiaco kitsch da 10 miliardi di euro, 30 mila visitatori al giorno, 25 mila posti di lavoro. Per il momento Euroworld ha l’aspetto di una boutade. A una preoccupata interrogazione del consigliere regionale dei Verdi, Gianfranco Bettin, l’assessore del Veneto, Flavio Silvestrin, ha risposto che il progetto non è compatibile con il parco. «Se arriva Euroworld non possiamo esserci noi», sintetizza Emanuela Finesso, direttrice del Parco veneto del Delta. Gli emissari della società italo-tedesca continuano però a pubblicizzare il loro progetto. E i grandi numeri suggestionano.

Sul territorio veneto del Delta incombono la conversione a carbone della centrale termoelettrica di Porto Tolle (contro la conversione si è pronunciato il Parco) e l’impianto di rigassificazione che in questi giorni viene installato a una ventina di chilometri al largo di Porto Viro. O, ancora, la ripresa delle estrazioni di gas metano, decisa con un decreto del governo. Il timore è che le estrazioni provochino un abbassamento del terreno, un fenomeno che lacera la memoria di questi luoghi flagellati dall’alluvione del Polesine del 1951. In molte zone il Po corre a un livello più alto del piano di campagna e le estrazioni accentuerebbero lo squilibrio. «Il nostro territorio è tenuto su da pompe di sollevamento», spiega Emanuela Finesso, «e le guide raccontano ai bambini che qui i pesci nuotano più in alto degli uccelli».

Nella zona romagnola del Delta la pressione dell’edilizia sta diventando insopportabile. Questa imponente mole di costruzioni «rende impermeabile una superficie enorme di terreno, che impedisce il normale assorbimento dell’acqua», denuncia Lucilla Previati, direttrice del Parco romagnolo. «È un problema in territori ordinari, ma qui può avere effetti catastrofici». Quando piove molto l’acqua si accumula in una rete scolante insufficiente, la stessa di trent’anni fa, e il trabocco è inevitabile. Basta un acquazzone e gran parte dei lidi finisce allagata. Continue sono, fra Comacchio e Goro, le richieste di aumentare gli allevamenti di vongole, una grande fonte di ricchezza, ma anche di pericolo per la morfologia dei fondali. Oltre che per la nidificazione di molte specie di uccelli - le fraticelle, le beccacce di mare, i gabbiani reali. Recentemente, poi, un privato ha acquistato una delle aree più pregiate, la valle Bertuzzi, e ha pensato di circondarla di una barriera di robinie che la rendono quasi invisibile.

Il Delta assorbe, nel silenzio delle sue valli, molte tensioni. Alcune lascia che convivano, essendo già nelle sue forme una dose di ambiguità e cercando equilibri sempre diversi, ma comunque stabili. Altre tensioni tenta di scansarle in una partita con il futuro che si riapre ogni giorno.

Dr. Salzano, da tempo la seguivo, pensavo fosse persona accorta ed obbiettiva, purtroppo mi devo ricredere, ha dato una esposizione dei fatti a dir poco sconcertante. Seguo i fatti relativi al colle di Tuvideddu ormai da oltre due anni, lo faccio da cittadino che ha dato il suo voto al presidente Soru, lo faccio per cercare di capire se ho fatto bene o meno e questa vicenda per me funziona come una cartina tornasole. Le conclusioni sono inequivocabile, ho fatto un errore madornale a dare il mio voto a Soru.

Ma torniamo alla descrizione che Lei da dei fatti, il privato non ha ceduto una parte al Comune ma a ceduto la maggior parte, l’80% delle aree, aree private di gran pregio che vengono date ai cittadini, al posto di valutare positivamente questa cessione la si fa passare in secondo piano omettendo l’entità della cessione. Il privato ha tenuto per se i fronti di cava, le zone meno pregiate e maggiormente degradate, quelle sulle quali sorgevano gli imponenti capannoni della cementeria che per anni ha devastato il colle.

Lei parla delle sentenze come quisquigle come se i magistrati che hanno esaminato sicuramente migliaia di documenti avessero espresso un parere superficiale e insignificante come se non avessero parlato di sviamento di potere e uso distorto del potere (alias abuso d’ufficio).

Una domanda mi sorge spontanea: ma Lei ha mai visitato il colle di Tuvixeddu? Conosce la realtà dei luoghi?

Mi sa proprio di no

Caro signor Giusto, suppongo che lei si riferisca all’articolo che ho scritto per la rivista Carta. Ma dell’argomento mi ero occupato anche altre volte sul mo sito. Mentre la ringrazio per la sua considerazione (che spero sopravviva all’articolo) le rispondo sui tre punti che ella solleva.

1) Il suolo, ogni suolo, di per se non vale niente ai fini dell’edificabilità. Quel suolo in particolare non poteva certo essere utilizzato per coltivare vigne o fiori: anche se a questa utilizzazione fosse stato adibito, il suo valore sarebbe stato quello derivante dalla coltivazione agricola. Il valore che deriva dall'edificabilità è un valore attribuito dalla collettività. Quindi il proprietario non ha regalato niente: ha solo ottenuto 400mila metri cubi. Lei mi dirà: lei mi parla di ciò che sarebbe giusto, ma in Italia le cose vanno in modo diverso. È vero, in Italia le leggi riconoscono al proprietario del terreno una qualche edificabilità. Ma allora, se ci riferiamo alle leggi, ricordiamo anche cje la legislazione italiana, a partire dalla Costituzione, stabilisce che prima di ogni altro diritto e interesse viene quello pubblico di tutelare i beni culturali e paesaggistici; e questi, per fortuna, senza riconoscere nessun obbligo di indennizzo. L’unico indennizzo è quello per le spese legittimamente e documentatamente sostenute dal proprietario per affidamenti che ha legittimamente ottenuto dalla pubblica amministrazione.

2) Se lei ha letto la sentenza del Consiglio di stato (e sono certo che l’ha letta) si sarà reso conto che essa invalida la scelta della Regione per questioni di procedura, non di merito. Non ha detto quell’area non era meritevole di tutela: ha detto che la procedura adottata per tutelarla non era corretta. Riconosco che le procedure sono importanti, ma i nostri posteri piangeranno per il merito della vicenda, non per le procedure.

3) Mi chiede se ho visitato Tuvixeddu. Si, ho visitato e ammirato, grazie a qualche cancello sul versante di via Avendrace che era rimasto aperto. È un sito veramente meraviglioso, mi ha dato un’emozione impagabile. E nulla mi ha turbato e scandalizzato di più che vedere quei palazzoni al piede del colle e sulle tombe, e pensare a quegli altri palazzoni che pensano di costruire lassù in cima, e al giardinetto condominiale nel quale pensano di trasformare la necropoli. Ma quello che mi scandalizza di più, devo confessarle, è il fatto che tanti cagliaritani non si sentano custodi d’un patrimonio che è dell’umanità (e che – per converso – tanti italiani ed europei non abbiano idea di quale tesoro è in discussione). Ripeto spesso che quell’area mi ricorda l’area dell’Appia Antica a Roma, che un benemerito ministro (allora quello ai Lavori pubblici) seppe sottrarre trenta anni fa alle costruzioni. Mi auguro che anche questa volta un ministro (nella fattispecie quello dei Beni e delle attività culturali) venga in soccorso del benemerito Renato Soru, al quale va tutta la mia stima e solidarietà.

È la storia a parlare attraverso la voce corposa di Ermanno Rea. E la questione Napoli diviene il tassello di un puzzle chiamato corso degli eventi: «Vorrei sapere se è una conversazione rilassata. Perché ecco, ho le mie piccole idee, non sono certo il depositario di verità acquisite, ma ho una mia analisi». Abbiamo tempo e lo scrittore napoletano, nato nel 1927, autore di un romanzi cult come Mistero napoletano, La dismissione e oggi in concorso al premio strega con l'ultimo lavoro Napoli ferrovia, non ha bisogno di domande, fa da sé. «Benissimo allora vorrei iniziare con una lettura dei discorsi parlamentari di Giorgio Amendola, in particolare della seduta del 20 giugno, quando alla fine del conflitto mondiale spiega i motivi sul perché il Pci si oppone all'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno». La lettura va avanti come una musica per un po', poi Rea d'improvviso si ferma: «E' questo il passo, lo rileggo: 'con il pretesto di dare mille miliardi di lire cercate di creare un organismo che sarà pericoloso strumento di corruzione e asservimento delle popolazioni meridionali da parte di quelle forze sociali, esse stesse responsabili della situazione'. Lui si riferiva agli imprenditori settentrionali e ai latifondisti. Ci siamo. Quasi 60 anni fa Amendola riusciva a prevedere quello che sarebbe avvenuto. La fonte originaria di tanto sviluppo della camorra e di interessi particolari. Qualcuno arriccerà il naso sentendomi parlare della questione Meridionale, visto che ormai è stata bandita dal lessico politico e addirittura si è capovolta in maniera inquietante nella questione settentrionale, ma non essendo mai stata risolta con la modernizzazione del Sud e l'adeguamento degli standard con il resto del paese, ci troviamo inesorabilmente di fronte alla Napoli di oggi».

Un epilogo inevitabile?

Assolutamente. E mi permetto di usare un altro mio cavallo di battaglia: la teorizzazione della democrazia bloccata per tutto il periodo della guerra fredda. E come è possibile farlo se non si è in presenza di un regime totalitario? Svendendo la legalità, lasciando le malefatte impunite per acquisire consenso. Non poteva non accadere quello che vediamo oggi nella nostra città. Monnezza, traffici illegali, camorra, sono processi assolutamente intrecciati, ma invece di affrontarli da un punto di vista politico e dalla prospettiva economica meridionale, si è preferito elargire prebende e sovvenzioni a pioggia favorendo la corruzione. E ora? le problematiche meridionali vengono descritte come questioni locali. Se è così la mia conclusione è pesante: ha ragione Bossi, dividiamoci. Se ho una gamba putrefatta delle due l'una, o la curo o procedo all'amputazione. E' chiaro che sono un sostenitore del corpo unico, la questione del Sud è nazionale. E mi pare di essere in buona compagnia da Guido Dorso a Salvemini, da Gramsci a Giustino Fortunato, uomini che nessuno ha il diritto di mettere in soffitta.

Intanto però passa pericolosamente il messaggio che il problema siano i napoletani.

E' il vecchio e maledetto trucco. Dando per scontato che si tratta del pensiero di una subcultura che non ci appartiene è chiaro che quando non si intraprendono i sentieri giusti, si inquinano tutti i processi negandoli. Si dice spesso che una cosa sia lo zingaro che delinque un'altra quello che vive onestamente, stesso vale per l'italiano, il napoletano, ce ne sono di ogni specie. Oggi però non esiste nemmeno più lo stereotipo di napoletano da cartolina, tollerante, disponibile e accogliente. Prendiamo per esempio i fatti di Ponticelli, io tendo a distinguere poco quanto accaduto dallo scempio dei rifiuti. Entrambi i fenomeni hanno una radice comune di degrado antropologico. Ma sono convinto che Napoli resti meticcia e il suo sarà un futuro di massima apertura.

Nello scandalo immondizia secondo lei Bassolino è un capro espiatorio o ha effettivamente grosse responsabilità?

Vorrei superare gli eventi, non conosco i fatti specifici e non mi interessano. Trovo invece interessante analizzare il suo percorso politico, con un piccolo riassunto. Napoli è stata pietrificata dalla guerra fredda, una volta caduto il muro è stata travolta, come il resto del paese, da tangentopoli. Spazzati via i vecchi centri di potere dai Gava ai Pomicino, si sono spezzati molti dei legami con il passato. E' stato allora che è nato un movimento fortunato, ribattezzato con uno slogan stupido come «rinascimento napoletano». Ma si trattava di un fermento, di una mobilitazione della popolazione che voleva combattere l'illegalità. Bassolino ne è stato il conduttore politico poi ha sbagliato. Invece di consapevolizzare la popolazione ha tentato di mettere un freno. La politica che rassicura, quindi tappa, per ottenere consensi è perdente in sé. Faccio un esempio: possibile che nessuno fosse a conoscenza degli sversamenti tossici delle imprese settentrionali nel nostro territorio? Che c'è voluto un giovanotto come Roberto Saviano per raccontarci quanto accadeva? Dove era la politica? La stampa? Quando ho letto gli ultimi capitoli di Gomorra sono saltato dalla sedia, non ne sapevo nulla.

Dal 15 aprile in parlamento c'è una sensazione di solitudine che diventa quasi clandestinizzazione nella sinistra «rossa». Un'epoca è finita anche in Campania.

A 81 anni sono ormai un uomo con un piede per tre quarti nel passato, non riesco a fare distingui, per me la sinistra ha avuto uno smacco e questo provoca gli stessi sentimenti di solitudine generalizzata. Non posso concepire un moderatismo di sinistra. Anzi mi chiedo se esiste una sinistra moderata. Non capisco Veltroni, sono figlio di un'unica sinistra molto consapevole e costituzionalista. Lo stesso vale per la questione campana, una regione d'Italia e non un'isola sperduta, dove si dispiegano le stesse dinamiche, con le dovute varianti, della Lombardia o della Sicilia. Noi prima ancora del manifesto di Marx avevamo come vangelo la costituzione, dunque l'unità nazionale e per questo la crescita del Sud.

E Berlusconi a Napoli?

Un colpo di teatro, una bella scampagnata.

Sono rimasto stupefatto dalla lettura del libro di Walter Tocci, Italo Insolera, Domitilla Morandi, da pochi giorni in libreria (Avanti c’è posto. Storia e progetti del trasporto pubblico a Roma, Donzelli, € 29). È diviso in due parti, una di Tocci, l’altra di Insolera e Morandi, tutt’e due trattano di tram, ma sono profondamente diverse. Il testo di Insolera e Morandi è dedicato davvero al tram, e dà conto degli studi e dei progetti che i due autori hanno prodotto come consulenti del comune di Roma, in particolare: via Nazionale; il centro e il lungotevere; la via Aurelia; il cosiddetto Archeotram, cioè la linea, da Termini all’Appia Antica,che avrebbe dovuto connettere i più importanti punti di interesse storico archeologico della capitale. Ogni argomento è sviluppato con grande attenzione al profilo storico, ai confronti internazionali, ad aspetti anche minutamente tecnici. Nessuno dei progetti è stato realizzato, né credo lo sarà, ed è spontanea la riflessione su come sarebbe Roma se quelle idee avessero avuto seguito, e certamente diversi sarebbero stati gli esiti delle elezioni amministrative (e forse anche di quelle politiche). Su tutto ciò spero che ci sia occasione di tornare.

Del tutto diversa è la prima parte del libro, quella scritta da Tocci. Qui il tram è un pretesto. Un pretesto per affrontare le questioni cruciali della politica urbanistica romana, gli errori commessi, le occasioni perdute, la subordinazione agli interessi fondiari (“A Roma la forza unificante dell’economia del mattone ha sempre vinto sulle differenze degli ordinamenti politici” [p. 93]. Il terzo capitolo della prima parte del libro (La chiamiamo ancora Roma) è un’indagine critica dell’urbanistica romana contemporanea molto approfondita, rigorosa, lucida, convincente. Non è che Tocci vada fuori tema rispetto al tram. Il tram, sostiene Tocci, va visto come occasione di riorganizzazione della città, non come mero intervento ingegneristico [p. 9]. “Per contenere la città infinita – scrive Tocci – l’unica possibilità è la città del tram. Nei casi migliori è stata la risposta europea alla tendenza internazionale verso lo sprawl, sempre assecondata invece negli Usa, con la generalizzazione del modello Los Angeles, e nei paesi emergenti con la formazione delle megacittà. In Italia, a dispetto della tradizione di civiltà urbana, sembra prevalere il modello insediativo americano e Roma non è da meno” [p. 10]. A Roma, infatti, si è formato “uno dei più grandi esempi di sprawl in Italia e per certi versi anche in Europa. È paragonabile a quello dell’area milanese e a quello del Nord-est, ma prende gli aspetti peggiori di entrambi, la forte gravitazione del primo e la bassa densità del secondo. In verità il modello di riferimento non è né italiano né europeo, ma quello americano delle inner cities circondate da immense distese di villette, molto diverso dalla cultura urbana che abbiamo ricevuto in eredità”. [p. 105].

Il modello insediativo americano, cioè l’espansione senza fine, a Roma hanno tentato di camuffarlo chiamandolo “policentrismo”, all’uopo inventando le cosiddette nuove centralità. Ma se un episodio urbano si ripete una ventina di volte (tante sono le nuove centralità previste alla scala urbana) non si centralizza alcunché, commenta Tocci [p. 116]. Secondo lui, il nuovo piano regolatore di Roma non è neppure un nuovo piano, ma un’ennesima variante di quello del 1962, di cui si condivide la forte geometria espansiva. “Attuare oggi quelle previsioni urbanistiche è in un certo senso più grave che averle pianificate negli anni sessanta” [p. 118]: nessuno di noi, critici da sempre del piano di Roma, aveva osato arrivare a questa conclusione. Eppure le valutazioni di Tocci non sono mai pregiudiziali ma sempre espresse a conclusione di un’analisi puntualmente documentata, spesso facendo riferimento ai risultati dei modelli di simulazione. Dai quali risulta, per esempio, che “un quartiere realizzato nella periferia anulare, dopo massicci investimenti infrastrutturali, è in grado di offrire ai cittadini un’accessibilità su ferro tre volte più bassa della media cittadina e sei volte più bassa dell’area centrale” [p. 112].

Penso che i lettori condividano il mio stupore. Tocci è stato vicesindaco di Roma e assessore alla Mobilità dal 1993 al 2001, quando fu sindaco Francesco Rutelli. È inevitabile allora che ci si chieda se l’insostenibilità del nuovo piano regolatore, Tocci l’abbia fatta presente all’amministrazione di cui è stato autorevolissimo esponente. Nel libro non c’è risposta. Apprendiamo solo che nel 1996 presentò uno studio dell’assessorato alla Mobilità sotto forma di contributo alle discussioni sul nuovo Prg (come se fosse stato un consulente). E negli ultimi giorni del suo mandato curò una pubblicazione, che assume l’importanza di un testamento (“Se non si modificano le regole della trasformazione urbanistica non ci può essere nessuna politica della mobilità in grado di risolvere il problema. Anche i piani di traffico più ambiziosi sarebbero come il tentativo di svuotare il mare con un secchiello" [p. 113]). Il vicesindaco si domanda addirittura “perché in un lungo ciclo di buongoverno come quello dell’ultimo quindicennio, non sia stato possibile compiere una svolta nella politica urbanistica” [p. 124]. Anche noi vorremmo proprio saperlo.

Ma in fondo tutto ciò non è molto importante. Importante è che abbiamo recuperato Walter Tocci. Forse non tutti i frequentatori di eddyburg sanno che Tocci è stato, per anni, uno del nostro giro. È stato fra i fondatori – insieme a Gigi Scano, Antonio Cederna, Eddy Salzano, Maria Rosa Vittadini, Paolo Berdini e altri – dell’associazione Polis, capostipite di questo sito. È un intellettuale colto, cultore aggiornato dei fenomeni urbani, e in Avanti c’è posto torna la lucentezza e la passione dello studioso di una volta. Bentornato Walter.

Antegnate, 28/08/2008

Egr.Sig. Sindaco

Antegnate (BG)



OGGETTO: Proposte ai fini della redazione del Piano di Governo del Territorio L.R. 12/2005

PREMESSO CHE:

Da qualche mese è iniziato il processo di definizione del Piano di Governo del Territorio (PGT), un evento molto importante per tutta la nostra comunità, durante il quale si definiscono gli assetti del paese.

La normativa regionale (L.R. 12/2005) per la redazione del PGT prevede che il piano sia poi sottoposto alla VAS - Valutazione Ambientale Strategica, con l’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente, un uso parsimonioso del suolo, l’integrazione delle considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione del piano e al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile come criterio primario, ovvero come decidere al meglio il futuro dei luoghi in cui viviamo e vivranno le generazioni future.

La procedura della VAS definita negli “indirizzi generali per la VAS” approvati con D.C.R. 13 marzo 2007, n. VIII/351 e succ. D.G.R. del 27 dicembre 2007, n. VIII/6420 prevede una prima fase di scoping. Il D.lgs 4/08 definisce questa fase come “analisi preliminare dei potenziali effetti del piano” e prevede la redazione di un apposito documento per la consultazione dei soggetti competenti in materia ambientale.


La nuova legge regionale ha, infatti, trasferito la maggior parte delle competenze e delle funzioni in materia urbanistica ai singoli Comuni, i quali hanno pressoché carta bianca nella stesura della pianificazione territoriale. Una grossa opportunità, ma anche un rischio.

Come contrappeso alla mancanza di un controllo superiore, la nuova legge dispone espressamente il rafforzamento della trasparenza e della partecipazione dei cittadini, associazioni e istituzioni varie per tutto il percorso di costruzione del PGT.

Tutto questo richiedeva pertanto l’apertura di un dibattito nel paese per definire tutti insieme quale tipo di sviluppo vogliamo, di quante persone riteniamo utile crescere, di quali servizi attrezzarsi per il futuro.

Molti Comuni hanno, in questo senso, promosso assemblee pubbliche con gli abitanti, le varie associazioni, gli imprenditori o distribuito questionari ai cittadini per raccogliere suggerimenti e proposte che hanno costituito, insieme al lavoro dei tecnici incaricati, la base del documento del PGT. L’informazione e il coinvolgimento della popolazione quindi, hanno avuto un’importanza fondamentale, permettendo così al cittadino di intervenire in modo consapevole.

Il PGT è uno strumento di governo del territorio completamente nuovo, che non può essere definito “a porte chiuse”, anzi, è necessario che sia fatto in modo allargato e condiviso superando la vecchia concezione dei piani regolatori come progetti calati dall’alto, “contrattati” da una ristretta cerchia di persone. Si tratta di pianificare lo sviluppo del paese, per i prossimi anni, secondo un modello urbanistico basato sul principio della sostenibilità.

Purtroppo questo ad Antegnate non è avvenuto ed il PGT che ci e’ stato proposto, oltretutto con documenti incompleti in allegato, rispecchia tra l’altro l’accoglimento delle istanze di privati per l’edificazione di una grande area adiacente al costruendo centro commerciale.

Quell’area, che confina con Barbata, è oltretutto prevista dal P.T.C.P. per una parte a costituire il corridoio ecologico e fascia ambientale tra i due comuni per evitare l’innesco di fenomeni di saldatura tra paesi e per la parte dell’area contigua alla statale è prevista la destinazione ad area agricola con finalità di protezione/conservazione.


La concertazione con il privato fa certo parte di un moderno e più avanzato concetto di pianificazione e governo del territorio, ma non si può pensare che automaticamente le sue istanze vadano nella direzione degli interessi diffusi dei cittadini.

Non si capisce anche, perché un’altra area a Nord/Est sopra la zona industriale già edificata, è stata proposta ad ambito produttivo pur essendo in netto contrasto con le indicazioni contenute nel Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale che ha previsto per la stessa la non edificabilità per la costituzione del corridoio di tutela per la TAV.

Il PGT dovrebbe tener presente come il territorio di Antegnate sarà fortemente penalizzato dal passaggio di BREBEMI e TAV, sicuramente utili ma fortemente impattanti sull’ambiente, della cava già approvata su un’area di circa 360.000 m2 e un’area estrattiva di 124.000 m2 con scavo fino a 35 mt di profondità, che comporterà anche un appesantimento della rete viabilistica e senza dimenticare la prossima apertura del centro commerciale che oltre ai benefici porterà inevitabilmente nuovi flussi di traffico e inquinamento.

Come territorio credo quindi che Antegnate abbia già dato la sua parte e che chiunque faccia una seria analisi dell’impatto ambientale e sociale di queste ed ulteriori grandi strutture su un così piccolo paese, non potrà che condividere il parere negativo per le trasformazioni proposte.

Le zone agricole non sono aree in attesa di essere edificate, ma ambiti territoriali che potenzialmente possono migliorarsi per le proprie prestazioni produttive, ambientali ecologiche e sociali e che possono offrire servizi fondamentali alla collettività e all’ecosistema.

Il territorio, patrimonio prezioso e non rinnovabile, è sempre più importante: se le scelte con le quali viene “modificato” sono prese senza il consenso dei cittadini e non nel loro interesse ma sono scelte conseguenti ad altri interessi, in se legittimi, allora i danni alla comunità saranno permanenti.


Il nostro paese naturalmente sta cambiando ma si sono create nel tempo situazioni di dispersione ed estraneità, alcune inevitabili e altre volute e lo spirito delle mie indicazioni non vuole di certo bloccare lo sviluppo e la crescita economica di Antegnate ma mira a uno sviluppo equilibrato e sostenibile, per non peggiorare la situazione del territorio ma salvaguardare chi, scegliendo di vivere ad Antegnate, lo possa fare soprattutto perché trova una dimensione di vita ottimale, non solo perché trova lavoro.

Per la mancanza di dati e con la riserva di integrarle quando l’Amministrazione Comunale metterà a disposizione i documenti completi di informazioni,

PRESENTA LE SEGUENTI INDICAZIONI

1) Si adotti una procedura corretta che dia alle autorità/soggetti con competenze ambientali i documenti preliminari con dati completi (visto che la prima conferenza di valutazione è già stata effettuata con documentazione mancante di dati), in modo da poter dar loro la possibilità di effettuare corrette indicazioni, anche perché il loro ruolo nel processo di VAS è estremamente importante perché la competenza e l’autorevolezza dei loro pareri costituisce uno dei più rilevanti strumenti di trasparenza e di garanzia per i cittadini circa la correttezza delle stime di impatto e la completezza del processo di VAS. Le stesse autorità dovranno poi essere consultate, nella fase conclusiva prima dell’adozione del piano, sulla bozza di Piano e sulla VAS che dovrà esplicitare in quale modo le loro indicazioni sono state tenute in conto.

2) L’area a Ovest adiacente al centro commerciale mantenga, per il momento, la destinazione agricola di salvaguardia ambientale come previsto dal vigente P.R.G. e si decida la sua destinazione futura dopo l’apertura della tangenziale e del centro commerciale al fine di monitorare la sostenibilità sociale, ambientale e viabilistica che è molto più importante per i cittadini dell’urgenza di un interesse privato.

3) L’area posta a Nord/Est sopra la zona industriale già edificata, recepisca le prescrizioni contenute negli strumenti di pianificazione sovraordinati, quali il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale in relazione alla futura infrastruttura ferroviaria. (corridoio di tutela TAV)

4) L’area di rispetto della Roggia Cusano in lato ovest rimanga, come previsto dal vigente P.R.G., da usufruire come oasi ambientale insieme alla piccola cappella adiacente al parcheggio dello stabilimento Zucchetti, con fascia di rispetto identica a quella imposta all’edificazione di un concittadino in quella zona.

Nota: le fotografie per niente filologiche del centro abitato e del nuovo centro commerciale (distante poche decine di metri) sono state scattate dal sttoscritto il 6 settembre 2008; su Antegnate e l'area circostante, Mall ha pubblicato due testi relativi rispettivamente al Centro Commerciale Bre.Be.Mi e al Centro Commerciale Le Acciaierie; i pochi materiali del PgT di Antegnate sono disponibili sul sito ufficiale del Comune (f.b.)

Caro direttore, credo che sia giunto il tempo di portare a conclusione un dibattito, quello sulla costruzione del parcheggio del Pincio, che sta coinvolgendo e appassionando sempre più vasti strati della società civile. Il sindaco di Roma e la giunta comunale nel suo complesso dovranno esprimersi con una memoria di giunta fondata non solo sui nostri intendimenti politici ma anche sulla legittimità che discende dalla continuità dell'azione amministrativa.

Sono due aspetti diversi che non possono essere confusi da chi in buona fede vuole difendere gli interessi incomprimibili della nostra città.

Comincio dalla volontà politica del sottoscritto: io non ritengo che sia opportuno procedere alla costruzione di questo parcheggio. Questa convinzione discende da una corretta applicazione del "principio di precauzione" che deve sovrintendere a tutte le decisioni in materia di tutela ambientale, artistica e archeologica.

Questo principio ci insegna che quando si interviene su un luogo particolarmente delicato e prezioso come il Parco del Pincio bisogna tenere presente non soltanto le condizioni tecniche del progetto, ma anche gli impatti presenti e futuri che questo intervento produrrà nel contesto circostante. Facciamo un esempio: quando si costruì 30 anni fa il parcheggio del Galoppatoio fu garantito ai romani che tale opera non avrebbe intaccato in maniera significativa quel lato incantevole di Villa Borghese e indubbiamente ogni sforzo fu fatto in questo senso dai costruttori di allora.

Andate oggi a vedere come è ridotto il lato del Galoppatoio investito dall'intervento: una landa desolata in cui la presenza sotterranea del parcheggio è fin troppo manifesta non solo attraverso le prese d'aria ma anche dall'emersione dal sottosuolo della massa di calcestruzzo.

Trasliamo questa immagine su un contesto molto più delicato e prezioso come quello del Pincio: chi ci garantisce che fra 5, 10 o 20 anni assestamenti strutturali, carenze di manutenzione, cambi di destinazione d´uso non turbino in maniera irreversibile quel contesto? Neppure gli attuali accorgimenti tecnici annullano, nelle previsioni, gli "affioramenti" del parcheggio quali prese d´aria, griglie di emergenza e gallerie di accesso. Il Pincio è prima di tutto un giardino storico, un parco urbano e, come tale, è tutelato dalla Carta dei Giardini Storici (del 15 dicembre 1982) in cui si raccomanda che "ogni modificazione dell´ambiente fisico che possa essere dannosa per l´equilibrio ecologico deve essere proscritta". Al di là di sentimenti profondi di "sacralità" di molti luoghi romani che ci spingerebbero a desiderare che sotto la terrazza del Pincio ci sia l'antico tufo di quella collina e non un vero e proprio "palazzo" sotterraneo di 7 piani in calcestruzzo, nulla ci assicura che questa ingombrante presenza non riemerga nel tempo in tutta la sua estraneità ad un contesto ambientale come quello di un parco storico. In più, nel definire l'equilibrio del buonsenso e della precauzione, c'è la non indispensabilità dell'opera pubblica progettata: i 700 posti auto pertinenziali possono essere utili per diminuire il numero delle auto parcheggiate nel Tridente, ma la loro realizzazione non risulta risolutiva per la mobilità di questa zona di Roma, obbiettivo che può essere perseguito con soluzioni alternative forse ancora più efficaci come l'ampliamento del parcheggio del Galoppatoio di cui parlavamo prima.

Se correre rischi per un'opera pubblica indispensabile può essere comprensibile, non può certamente esserlo per qualcosa che indispensabile non è, in mancanza di uno studio organico sulla mobilità romana.

Quindi la scelta politica dovrebbe a nostro avviso andare sicuramente verso l'abbandono del progetto del Pincio e l'ampliamento del parcheggio già esistente al Galoppatoio, ottenendo tra l'altro una equivalente o addirittura maggiore redditività economica secondo quanto risulta dai primi approfondimenti dei nostri uffici tecnici. Tuttavia per perseguire questo obbiettivo politico dopo le scelte già compiute dall'amministrazione che ci ha preceduto è necessario un cambiamento forte sul versante delle autorizzazioni previste dall'iter amministrativo.

Dopo che il ministro dei Beni Culturali ha espresso le nostre stesse preoccupazioni, si ripropone la possibilità di una riconsiderazione da parte delle sovrintendenze dei pareri vincolanti che sono stati espressi non solo dal punto di vista archeologico ma soprattutto da quello ambientale e monumentale. Sono queste autorità, nella loro autonomia che ci devono dire se esistono condizioni sufficienti per revocare l'appalto senza incorrere nell'illecito amministrativo. Mentre i nostri uffici stanno completando tutte le istruttorie per valutare ogni aspetto di questa complessa questione, è necessario che ci sia un'attenta considerazione da parte di chi è chiamato più di ogni altro a tutelare il nostro patrimonio ambientale, monumentale ed archeologico.

Postilla

Molte delle considerazioni del sindaco di Roma sono sottoscrivibili e del resto già enunciate in altri interventi sul tema presenti in eddyburg in questa sezione ed è apprezzabile anche il tono generale non ideologico, ma improntato ad affermazioni di buon senso.

Un sorriso strappa però quel richiamo finale indirizzato agli organi preposti alla tutela ad una "attenta considerazione": quell'esortazione ad una "riconsiderazione da parte delle sovrintendenze dei pareri vincolanti", pare stridere con il concetto di autonomia citato en passant poco oltre e lascia un vago retro gusto di condizionamento che i molti milioni in ballo per la penale (annullati in presenza di vincoli Mibac), chiariscono, ma, in linea di principio, non giustificano. (m.p.g.)

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