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É sottosegretario in carica allo Sviluppo Economico con delega alle Comunicazioni, ma non tutti sanno che è soprattutto assessore agli Affari di Famiglia (famiglia Berlusconi, of course). Si chiama Paolo Romani, si dichiara ex giornalista, fondatore di Telelivorno e di Telelombardia, e non ha remore nel confessare pubblicamente che ha accettato di fare l' assessore all' Urbanistica del Comune di Monza perché c' era "da risolvere un problema che è una spina nel fianco della famiglia Berlusconi". Da bravo soldatino, si è applicato ed è riuscito ad imbastire un' operazione che ha già portato nelle tasche di Paolo Berlusconi, fratello del capo, 40 milioni, che stanno per salire a 90 o 100. La "spina nel fianco" della famiglia presidenziale si chiama Cascinazza, un' area di 500 mila metri quadrati agricoli nel Comune di Monza che i Berlusconi comprarono nel 1980 dalla famiglia Ramazzotti, quella dell' amaro, per 7 miliardi di lire. Il progetto era di costruirci sopra una sessantina di palazzi residenziali, una specie di Milano4. Ma tra alterne vicende il progetto non decollò mai, nonostante l' affettuoso sostegno offerto negli ultimi anni dal presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. Anche perché, situata tra il Lambro e il Lambretto, la Cascinazza ogni tanto va sott' acqua. E' vero che nel 2004 il Consiglio dei ministri approvò, in assenza del premier che si era correttamente ritirato nella sala accanto a sorbire il tè con Gianni Letta perché nessuno osasse sospettare conflitti d' interesse, la progettazione di un canale scolmatoio del costo di 168 milioni di euro. Ma la Cascinazza era diventata quasi un incubo per il premier, il cui fratello minore, come tutti sanno, non ne azzecca una. E poi perché costruire direttamente, se con gli opportuni interventi politici quei terreni si possono valorizzare clamorosamente? Così, vinte le elezioni a Monza, Romani viene spedito a fare l' assessore comunale all' Urbanistica. Ruolo nel quale si fa onore, perché organizza la vendita della Cascinazza alla Brioschi dei Cabassi, che pagano a Paolo Berlusconi 40 milioni, ma sottoscrivono una clausola che prevede una "integrazione" del prezzo al doppio o forse al triplo, nel caso di "valorizzazione" di quei terreni. L' assessore, diventato nel frattempo sottosegretario nel IV governo Berlusconi, si mette perciò di buzzo buono e presenta nei giorni scorsi una variante generale al PGT, il Piano di Governo del Territorio per valorizzare quell' appezzamento fin qui di assoluta inedificabilità. Quale migliore occasione dell' Expò del 2015? La variante Romani prevede infatti un "primo utilizzo" dell' area per l' Expò e poi un "riutilizzo dell' edificato con le seguenti destinazioni: direzionale, produttivo, residenza, edilizia residenziale convenzionata, artigianale espositivo, commerciale, intrattenimento, centro ricreativo bambini e ragazzi, centro anziani, centro per l' innovazione tecnologica nell' impresa, spazio espositivo per mostre continue, teatro, Spa e centro di medicina estetica, asilo nido, scuola materna, campo sportivo, sedi di Protezione Civile, Croce Rossa, Carabinieri, Banca d' Italia". E chi più ne ha ne metta. Il sottosegretarioassessore è un tipo immaginifico e aggiunge che lui vede svettare tra il Lambro e il Lambretto cinque magnifici grattacieli, una pista di sci coperta, perché non tutti possono andare in montagna a sciare, e una monorotaia che corre sul Canale Villoresi. Così, varata la variante, i Cabassi dovranno pagare a Paolo Berlusconi un altro pacco di milioni. E l' assessore agli Affari Familiari, a operazione compiuta, potrà dimettersi a Monza e andare a Roma a curare per il capo, dalla sua poltrona di sottosegretario alle Comunicazioni, il licenziamento di tutti quei comunisti nerovestiti (lodo Dell' Utri) che infestano la Rai.

Nota: il caso della Cascinazza di Monza è stato oggetto di una grande quantità di inteventi e documenti su eddyburg.it, soprattutto in questa stessa cartella SOS Padania (f.b.)

Il tema non sembra più ai primi posti. Forse perché la costruzione illegale e sconosciuta, dapprima, all’autorità pubblica non ha più bisogno di nascondersi ed è diventata piena normalità a cui si fa l’abitudine? O l’autorità è così occhiuta e ben armata di strumenti repressivi da non farsi più fregare? O non è l’autorità, generalmente l’amministrazione comunale a praticare essa stessa l’abuso legalizzato dal potere decisionista che fa e disfa a suo piacimento fuor d’ogni controllo pubblico e democratico? Sappiamo quale enorme potere detengano i sindaci (e i presidenti di Regione), conosciamo l’estraniamento dei Consigli. I piani regolatori vigenti e i regolamenti edilizi, cioè leggi, non contano niente. “Le amministrazioni tendono più a mutare i piani che a realizzarli”, dice l’urbanista architetto Sergio Rizzi (“Tribuna Novarese”). Non è soltanto abuso di autorità. C’è una specie di abusivismo a metà. Dovuto da una parte ai privati (proprietari, costruttori, progettisti) che, ottenuta una concessione o un’autorizzazione, soprattutto quelle relative a nuove norme insensate, la “interpretano” e la stravolgono per conseguire superfici e cubature maggiori; da un’altra dovuto all’ente pubblico che, lui per primo, ammette interpretazioni insidiose, erode man mano la norma già assurda e la trasforma nell’accettazione di una realtà avulsa dagli scopi della normativa, peraltro spesso pretestuosi.

Esemplare, a questo proposito, la legge regionale cosiddetta dei sottotetti (lombarda, poi adottata similmente in molte regioni). Ancor più liberalizzata nel comune di Milano rappresenta fino a che punto d’irregolarità può arrivare l’eccesso edilizio e urbanistico attraverso l’intesa fra privati e municipio non sottoscritta ma esplicita, a danno della città, le sue strade e le sue piazze, nonché dei cittadini, per primi gli abitanti delle case dirimpetto a quelle manipolate. Ho discusso altre volte del disastro che si compie da anni e nessuno sembra volerlo contrastare. Oggi è come la metastesi inarrestabile di un cancro. Occorre ripartire dai fatti e perfezionare la denuncia. Le costruzioni denominate «adeguamento dei sottotetti» nulla c'entrano con la realtà degli accadimenti. Il compiacente avallo municipale di modelli progettuali fallaci deriva dalle motivazioni dichiarate dai fautori della legge originaria. Dicevano di voler favorire l'edificazione nelle zone già urbanizzate invece dell'espansione nelle aree libere per risparmiare territorio: e mai come oggi è in ballo un'enorme quantità di interventi edilizi giganteschi in spazi aperti. Dicevano - e questa è davvero grossa - di voler permettere l'ampliamento dell'abitazione di famiglie residenti in spazi troppo angusti (presumo all’ultimo piano) specie se comprendenti persone disabili.

Gl'interventi, in principio più o meno coerenti al (falso) obiettivo originario di rendere abitabili spazi esistenti inabitabili per regolamento igienico edilizio, sono diventati sempre più numerosi e pesanti: tutti riguardanti il cuore ambito della città e bei palazzi dell'Otto-Novecento, tutti rivolti non a modificare il tetto con mezzi contenuti per ottenere determinate altezze medie interne, bensì decisi a rubare al cielo fior di metri cubi d'aria per mutarli in volumi edilizi, alias in superfici da diecimila euro al metro quadro. I risultati architettonici e urbanistici di un'attività che è il vero affare d'oro per l'immobiliarismo in attesa della rendite dai nuovi grandi insediamenti voluti dal Comune e progettati dagli insipienti “archistar” fanno schifo, diciamolo chiaro.

Non è più questione di sottotetti belli o brutti. Viene sconvolta la regola o la logica della cortina stradale di altezza conforme alla larghezza e le gronde allineate; viene distrutta la funzione urbanistica e la bellezza architettonica di piazze, strade e persino delle stradine nella parte di origine medievale dove certi aumenti dell’altezza non sono di meno che reati gravi. Altro che sottotetti: i palazzi presentano obbrobriosi rialzi verticali al di sopra del cornicione per ottenere, disinteressati dell'architettura sottostante, un nuovo piano. Semmai il falso sottotetto è il nuovo attico al di sopra, prezioso e non costoso raddoppio volumetrico. Come pagar uno e prender due. Altro che sottotetti: l’affare attuale, indipendente da riferimenti alla normativa se non nominalmente consiste nel sopralzo della città. Come e assai più numerosamente che nel primo dopoguerra . E qui il cerchio si chiude perché, a osservare col naso all’aria, non sembra nemmeno più necessario alcun riferimento all’esistenza di un tetto a falde dotato di sottotetto per prospettare l’”adeguamento”. Infatti vigono due altre possibilità: applicare la norma dei sottotetti, secondo le dette falsificazioni e aggiunte, anche agli edifici a copertura piana; presentare (questa è l’ultima innovazione) il progetto, senza imposture, di sopralzo di uno o due (eccetera) piani netti dell’edificio qualsiasi altezza abbia. Il Comune approverà. Il risultato si vede, l’ipotesi in prospettiva è una città, già vilipesa con le migliaia di finti sottotetti e abusivismo “d’epoca”, rialzata senza alcun progetto d’insieme che lo giustifichi, che ne mostri la necessità.

Allora l’espansione esterna coi grandi nuovi insediamenti (fortunatamente non esenti da pericoli di fallimento con buona pace dei progettisti al servizio degli speculatori) e il rialzo della città interna si tengono per aggiungere diversi milioni di metri cubi a prezzo altissimo mentre l’ipocrisia degli amministratori pubblici non si esime dal lamentare la mancanza di case ad equo prezzo per le famiglie “che non ce la fanno ad arrivare alla quarta settimana”. Si leggono sui quotidiani milanesi dichiarazioni di amministratori relative alla necessità urgente di 60.000, persino 90.000 alloggi popolari. Roba da matti, non sanno quel che dicono mentre sanno quel che stanno facendo, ossia gettare la città in mano agli immobiliaristi più esosi (comunque possa essere trionfo o fallimento ciò che li aspetta).

Intanto l’abusivismo di vecchio stampo espone in città nuovi primati. Basti un solo caso, col quale Milano conquista il vertice nella classifica della costruzione fuorilegge nel centro delle grandi città italiane. In via San Paolo n.13, quasi all’angolo di Corso Vittorio Emanuele, quindi vicino al Duomo, si vede un edificio che ricordiamo di sei piani e che ora ne esibisce otto, due piani in più, lì belli rifiniti e puliti, ma realizzati senza alcuna concessione. Lo scandalo venne alla luce a opere terminate, il Comune non si era accorto di nulla. Denuncia ovvia, poi rinvio a giudizio dei progettisti e del proprietario. Questo due anni e mezzo fa. “528 metri quadri di abuso, valori immobiliari sopra i diecimila euro al metro, fanno qualcosa di più di cinque milioni. Un record, probabilmente” (Repubblica/Milano, 18 marzo 2006). Pensate che i due piani verranno demoliti? Certamente no, vista la coerenza al programma comunale in attuazione di ammettere, direi promuovere, l’aggiunta di nuovi piani agli edifici esistenti.

Questo mostro di abusivismo classico mi ha indotto a verificare la situazione in Italia. Che è impressionante. Forse non ho posto sufficiente attenzione al nuovo accertamento (a scopi fiscali) messo in campo dall’Agenzia del Territorio (Catasto), proceduto ormai oltre la metà dei comuni. Il metodo è quello di confrontare fotografie aeree zenitali odierne con le mappe ufficiali, sicché riguarda la presenza o meno di intere costruzioni (non, dunque, casi come quello descritto). Notizie precise sono apparse a gennaio sul Sole 24 Ore (dati reperibili anche sul web). Ebbene: non risultano al Catasto 1.248.000 particelle, assimilabili a edifici. Siccome il rilevamento si riferisce a poco più della metà dei comuni, 4.238 (e nei grandi comuni, in particolare proprio Milano, il rilevo stenta molto ad avanzare), non è azzardata una stima di 2.000.000 relativi all’intero territorio nazionale, 8.103. Risulterebbe “nascosto” circa un sesto dei fabbricati legittimi. Una enormità. È evidente che per moltissimi non suonerà mai la sanatoria. “Esisteranno, semplicemente, senza che nessuno faccia nulla. Proprio come nella Valle dei Templi di Agrigento” (Il Sole-24 Ore, 21 Gennaio 2008). Eppure si sono attuati nel passato tre grandi condoni. In Italia, si sa, si costruiscono ogni anno abitazioni e altri fabbricati di ogni genere più che in ogni altro paese europeo. Sembrano non bastare, si stratificano lungo il tempo quantità incredibili di costruzioni aggiuntive fuorilegge. Intanto sopravvivono anche gli edifici abbandonati, compresi quelli industriali dismessi il cui ricupero è in gran parte fallito. “Così si consuma inesorabilmente il suolo, senza mai guadagnarne” (idem).

di Sandro Raggio A vedere i segnali era prevedibile una crisi del governo Soru; molto probabile che si verificasse sulle scelte urbanistiche. Negli ultimi vent’anni è successo spesso che dietro le dimissioni di un governo regionale vi fossero contrasti, mai spiegati, sui temi del governo del territorio. In questo caso c’è altro. Nello sfondo ci sono da mesi le questioni interne del Partito democratico: quadro fosco e mutevole, difficile da decifrare tra le righe dei vari passaggi, e rivelatore della imminenza delle elezioni. Per cui nello scontro si intrecciano varie questioni, ma il nodo dell’urbanistica resta saldamente al centro, nonostante i tentativi di minimizzarlo. Lo è stato nel corso della legislatura, con conflitti nella fase di redazione del Piano paesaggistico la cui approvazione, con quel contenuto atipico, non è stata mai accettata da una parte della maggioranza, piuttosto subita con malcelato fastidio, espresso in più occasioni sotto altre forme. Credo che al fondo vi sia un serio malinteso, prodotto della sottovalutazione di molti riguardo alle dichiarazioni d’intenti di Soru sul governo del territorio, contenute con evidenza nel programma elettorale della coalizione del centrosinistra. Basta rileggerlo quel documento, arditamente proposto agli elettori - che lo hanno accolto - e si troverebbe descritta la volontà di una rigorosa tutela dei paesaggi sardi, senza spazi per i patteggiamenti tipo quelli che hanno portato i precedenti Ptp alla invalidazione con disonore. Facile immaginare che più di uno abbia pensato che intanto i programmi contano fino a un certo punto, perché poi le cose si aggiustano. Già visto. L’obiettivo di quella parte del centrosinistra che ha condiviso il progetto, è invece rimasto fermo e la indisponibilità alle mediazioni sul programma è sembrata agli avversari insopportabile. Si potrebbe discutere fino ai dettagli per scoprire se l’atteggiamento del governo regionale sia stato troppo discontinuo, e l’idea del “piano senza difetti” inconciliabile con le necessità della politica e dei suoi equilibri. Sarebbe un esercizio inutile. Conta piuttosto evidenziare che questa fase ci ha messo finalmente tra le regioni guardate con rispetto dall’Europa sui temi ambientali. I fatti. Non è chiaro quello che è accaduto come è in tutte le crisi della politica. I contrasti sembrano riconducibili alla questione delle competenze nella approvazione del Ppr, se della Giunta o del Consiglio. Il cui ruolo è sembrato finora marginale (per via del sistema elettorale o per l’ assenza dei partiti un tempo promotori di dibattiti nel territorio?). La necessità di riconoscere al Consiglio maggiori poteri era stata decisa attribuendogli la competenza nella approvazione di un documento preliminare, impegnativo per la approvazione del Ppr. Del quale resta aperta la fase due. La redazione in corso, per le zone interne, da concludersi necessariamente prima delle elezioni (quando se no?) chiede una ovvia accelerazione. La ragionevole tesi di utilizzare, in fase transitoria, il documento d’indirizzo già approvato dal Consiglio nel 2005, è stata contrastata, per affermare il ruolo dell’Assemblea - è stato detto. Ma impossibile non vedere in ciò il segno di una scarsa volontà a completare in tempo il Ppr. Poco in sintonia con fatti recenti: l’insuccesso clamoroso del referendum ammazzacoste e soprattutto le tragedie delle alluvioni. Una prova di forza sul punto più in vetrina del programma e più caro al presidente? Forse. Una strategia palazzinara? Non esattamente. Ci sono nel Partito democratico e nella coalizione di centrosinistra che governa la Regione forze che si richiamano alle migliori tesi dell’ambientalismo, ma c’è, non lo si può negare, l’idea di regolare caso per caso le faccende nel territorio contraddicendo alla radice i principi generali. Quante volte abbiamo sentito declamare la formula: «Siamo per la tutela del territorio e del paesaggio, ma»... Ed è quel “ma” che rivela un’attitudine al compromesso, cronica e temo incorreggibile.

L'UOMO del Ponte si chiama Remo Calzona. Al dipartimento di ingegneria strutturale e geotecnica della Sapienza di Roma tutti lo conoscono. E anche a Reggio Calabria. Decine e decine di sopralluoghi tra Scilla e Cariddi e viaggi in tutto il mondo. Figura illuminata a cui prima l'Anas (1986) poi il governo (2002) hanno affidato la presidenza del comitato tecnico-scientifico per la verifica della fattibilità della grandiosa opera del Ponte sullo Stretto.

"La soluzione progettuale mi appare oggi assai costosa e per nulla immune da crisi strutturali".



Ahi, casca il Ponte?

"Bellissima domanda alla quale rispondo con Popper (ho rubato al suo pensiero il titolo del mio ultimo lavoro): La ricerca non ha fine".



L'uomo è fallibile.

"In Danimarca il ponte sullo Storebelt ha patìto il fenomeno del cosiddetto galopping. Il nastro d'asfalto si è andato deformando, tecnicamente è una deformazione ortogonale alla direzione del vento".



Su e giù, come fosse un grosso serpente.

"Esattamente così. Una deformazione, dovuta al fluido dinamico che impone di bloccare per motivi di sicurezza il passaggio di cose e persone. Ma il ponte si realizza proprio per permettere il transito ininterrotto".



Se soffia il vento a Scilla, ponte chiuso.

"Anche cento giorni all'anno".



Lei propone di ridurre l'ampiezza delle campate da 3300 a 2000 metri.

"Ci siamo accorti che la riduzione azzera quel fenomeno".



Ma nel 2002 era di diverso parere.

"Bellissima considerazione: mi viene in aiuto ancora Popper. La scienza misura i suoi passi sui propri errori".



I ponti si costruiscono ma ogni tanto cadono.

"Hai voglia se cadono! Nel secolo scorso abbiamo conosciuto il collasso provocato dalla fatica dei materiali".



Come un asinello che si stanca e stramazza al suolo.

"Carichi ripetuti sulla medesima struttura, fatica sviluppata fino al punto di insostenibilità".



Crash.

"Con la crisi del ponte di Tacoma, sopra Los Angeles, ci siamo accorti di un altro elemento destabilizzante, chiamato fletter. Sempre causato dal vento".



Il vento eccita, maledetto lui.

"Eccita".



Adesso siamo di fronte al galopping.

"Fare un ponte e spendere tanti quattrini per vederlo chiuso che senso ha?".



Ne ha parlato con la società dello Stretto di Messina?

"Pensi che l'amministratore delegato, l'ingegner Ciucci, mi ha persino diffidato a pubblicare il libro che documenta le mie nuove ragioni".



E perché?

"E che ne so! Uno gli dice che si può fare un ponte con meno della metà dei soldi e più sicuro e si sente trattato in questo modo".



Lo deve dire a Gianni Letta.

"Io scrivo e riscrivo. Soprattutto a Letta: guarda che così non va".



Ma Impregilo, la ditta costruttrice, ha il suo progetto. Chiederà penali.

"Chiamassero me: la metterei in ginocchio".



Professore: e se tra tre anni, o cinque o dieci lei scova qualche altro errore?

"Bellissima domanda: rispondo ancora con Popper. Lavoriamo sugli errori e sull'esperienza per fornire una soluzione progettuale che riduca il rischio di collasso della struttura entro limiti convenuti".



Limiti convenuti.

"Io non sono un mago".

Gli archeologi, dopo aver scavato per secoli, si sono resi conto, a ragione, che scavare è un’azione distruttiva. Dicono gli archeologi che una tomba scavata e tirata a lucido avrà una vita breve e che il giusto destino di quel sepolcro consisterebbe nel restare com’era.

Tutti, intanto, hanno visto nei giornali i muraglioni mesopotamici che, sotto la sorveglianza dei mistici del non scavo, hanno incorporato le tombe scavate a Tuvixeddu. Qua i muraglioni decidono arbitrariamente dove finisce il Parco archeologico e dove inizia un volgare giardinetto pubblico. Arbitrariamente, visto che ben oltre le colossali fioriere è giusto credere che ci siano altri sepolcri. I baluardi sono alti quasi tre metri e larghi due, un peso immane, e tagliano alcune tombe. Le immagini, almeno quelle, sono incontestabili.

Qualche giorno fa la Sovrintendente protostorica Fulvia Lo Schiavo ha sostenuto in una metafisica conferenza stampa, con una determinazione che ci ha raggelato, come quelle fioriere dal peso incalcolabile proteggano, secondo lei, le tombe. E ha argomentato che siccome lo scavo è “distruzione” allora quelle fioriere sono una difesa per i sepolcri che sono finiti sotto.

Il sillogismo, però, scricchiola.

E vediamo come sono stati “protetti” alcuni sepolcri in tempi recenti.

Dalla fine degli anni novanta sino agli anni 2000 inoltrati, in un’area del colle verso Sant’Avendrace, accanto al vecchio villino Serra – distrutto perché indegno, si vede, di essere conservato - emerse una nuova e grande parte della necropoli.

Affiorarono le innegabili 431 nuove sepolture, in parte perfino fuori da ogni vincolo. Le nuove scoperte dimostravano, alla faccia dei negazionisti, quanto l’area della necropoli fosse molto più grande di quella conosciuta.

Cosa dovevamo aspettarci? Entusiasmo, i giornali pieni di notizie, l’orgoglio cittadino per la nuova scoperta, amministratori di destra, sinistra e centro in visita alle nuove tombe. Una corsa archeologica all’oro.

Secondo i princìpi enunciati dalla protostorica Lo Schiavo le tombe andavano dunque messe al più presto al sicuro.

E avevamo immaginato – ahi, quanto ingenuamente - che il soprintendente avrebbe avviato le procedure di un nuovo vincolo. Nuove scoperte, nuovi vincoli.

Invece, nulla di tutto questo. Nel silenzio archeologico si è scavato e poi costruito un palazzone sulle tombe. I nostri archeologi, esaurito il proprio compito nello scavo, hanno ritenuto che non c’era nulla di più sicuro di una palazzata di undici piani con grande garage, sopra le sepolture. Tutta salute per i sepolcri. Nulla è più protettivo di un palazzo.

E così nel 2004, pochi anni fa, i palazzoni giallini hanno ricoperto gran parte dei ritrovamenti e reso definitivamente brutto anche quell’angolo di colle.

La Sovrintendente protostorica ha accreditato l’idea che l’archeologo sia un tecnico puro, uno scopritore che nulla ha a che fare con un’altra categoria, quella dei costruttori. Chiedere un vincolo? Battersi per una tutela? No. Questa è un’idea romantica dell’archeologia.

E per dimostrare questa teoria ci ha raccontato che sotto la Banca Nazionale del Lavoro, noi valorizziamo oggi delle terme romane. Ci ha assicurato, confermando un vero affetto archeologico per le pietre, che le terme là sotto sono “tranquille”. Chissà che brutta fine avrebbero fatto le terme se, sopra, non avessero costruito la banca.

Mentre la Soprintendente parlava della sua idea di tutela ci siamo chiesti se anche l’anfiteatro romano è valorizzato dall’attuale copertura di tavolacci. Ma non volevamo andare fuori tema.

Però questo anfiteatro non è facile da digerire e riemerge da sotto i tavoloni di continuo.

Ieri, in una bella mattinata autunnale, un signore francese dall’aspetto intelligente, si aggirava in Viale Fra’ Ignazio con in mano una fotografia dell’anfiteatro romano e chiedeva se quella cavità ricoperta di legno e tubi di ferro fosse davvero l’anfiteatro della foto. Non siamo riusciti a fornire una spiegazione coerente però lo abbiamo invitato a rivolgersi alla protostorica dottoressa Lo Schiavo. La protostorica, forse, estenderà ai tavoloni e al ferrame dell’anfiteatro la sua teoria delle fioriere protettive. Ma non convincerebbe l’ostinato viaggiatore francese come, del resto, non ha convinto noi.

Quel che resta del colle, ed è tanto, sepolcri, falchi, orchidee, si salveranno dai metri cubi e noi dovremo conservare la bellezza che Tuvixeddu riconquista da sé ogni volta che si attenta alla sua integrità. Ma una parte è perduta per sempre. E chi ha concorso a questa perdita permettendo che intorno proliferasse un’orribile poltiglia urbana, passerà alla storia della nostra città, e magari anche alla protostoria.

P.S.: forse la sconfitta recente del Sì nel referendum sulla “salvacoste” è dovuta alla mancanza, nei manifesti, del prescritto accento che il creativo della campagna referendaria ha dimenticato. E i sardi hanno risposto con un silenzioso Nò, dotato di un accento sonoro. Segno che le regole della grammatica valgono quanto la pratica e che, come tutte le regole, devono essere rispettate.

Aprile online, 25 novembre 2008

di Nuccio Iovene

L'operazione "Perseus" condotta dalla polizia di Crotone contro le cosche della ‘ndrangheta di Papanice (popolosa frazione del capoluogo) che ha portato a 24 fermi per associazione a delinquere di stampo mafioso e per numerose attività illecite (dal traffico d'armi a quello di stupefacenti, dalle estorsioni alle intimidazioni, fino alla "colletta" per assoldare un killer che avrebbe dovuto uccidere il sostituto procuratore Pierpaolo Bruni) ha messo in luce un filone, sempre più frequente in Calabria, relativo ai rapporti con la politica e la pubblica amministrazione.

In particolare dalle indagini emergerebbe l'interesse delle cosche nei confronti del progetto turistico Europaradiso, faraonico complesso proposto anni addietro dal faccendiere israeliano Appel e da realizzarsi alla foce del fiume Neto, nei pressi di Crotone, in una zona protetta, essendo Sito di Interesse Comunitario. Non a caso nelle indagini sono coinvolti sia amministratori locali del centrodestra che governava all'epoca la città sia esponenti del PD che oggi l'amministra, nonché dirigenti e collaboratori del Ministero dell'ambiente di quel periodo.

Un progetto del tutto insostenibile per dimensioni, costi e impatto sociale e ambientale utilizzato come grimaldello per una enorme speculazione immobiliare attorno alla quale costruire, attraverso il classico miraggio dei posti di lavoro, un consenso sociale e tutte le "autorizzazioni" necessarie. A garanzia dell'operazione le cosche coinvolte, tra le più sanguinarie della Calabria, nella faida che alla vigilia di Pasqua di quest'anno ha visto cadere in agguati mafiosi il boss Luca Megna e gravemente ferita la figlia di 5 anni e tre giorni dopo Giuseppe Cavallo della cosca opposta.

Tutto questo mentre non passa giorno in Calabria che non si registrino nuove intimidazioni e minacce nei confronti di amministratori locali o imprenditori o non emergano intrecci e collusioni con esponenti politici dai comuni più piccoli fino al consiglio regionale.

Liberare la Calabria, la regione dell'omicidio Fortugno e degli scandali di questi anni, dal giogo della ‘ndrangheta vuol dire innanzitutto bonificare partiti e istituzioni, con una lotta senza sconti e senza quartiere ai tentativi d' infiltrazione e una pulizia assoluta delle liste di candidati alle elezioni. Il primo banco di prova le provinciali del prossimo anno che riguarderanno proprio Crotone.

Europaradiso, fra cemento e cosche

la Repubblica online, 25 novembre 2008

di Francesca Travierso

CROTONE -Turismo o riciclaggio? L'idea di un megavillaggio da realizzare a nord della città di Crotone viene presentata il 18 febbraio 2005 nella sala consiliare del Comune di Crotone. Si chiamerà Europaradiso. Il sindaco, Pasquale Senatore, presenta alla stampa il gruppo di investitori israeliani che vorrebbero presentare il progetto. Faraonico. 7 miliardi di euro per realizzare alberghi e residence capaci di accogliere oltre 14mila turisti, tutti da realizzare lungo la costa che va da località Gabella fino alla foce del fiume Neto. In una zona incontaminata.

Il gruppo imprenditoriale fa capo a David Appel, attraverso una società finanziaria multinazionale con sede ad Amsterdam. Nel novembre 2004 a Crotone erano già nate due società incaricate di gestire la vicenda, "Europaradiso International S. p. A." ed "Europaradiso Italia s. r. l, cui amministratore unico è Gil Appel, figlio di David.

Fin da subito opinione pubblica e politica si dividono sull'investimento. Qualcuno vede in Europaradiso il definitivo rilancio turistico di una città in ginocchio; altri non si fidano e sollecitano la presentazione di un progetto che, però, tarda ad arrivare. Il Comune di Crotone si schiera apertamente per il "sì", nasce il comitato Europaradiso guidato da Roberto Salerno, si inscenano manifestazioni in piazza e durante le riunioni del Consiglio comunale. La Provincia, dopo alcuni incontri, dice "no": il progetto non esiste, dunque non è valutabile, e l'idea convince poco.

Diversi dubbi li suscita anche David Appel. L'imprenditore israeliano ha più volte avuto grane con la legge del suo paese; nel 2003 è stato accusato di voto di scambio, in una inchiesta che coinvolge anche il direttore del Ministero dell'Ambiente. L'anno dopo è stato indagato nell'"affare dell'isola greca", in cui venne coinvolto anche Ariel Sharon; un'accusa di corruzione nei confronti delle autorità greche perché autorizzassero la costruzione di un complesso turistico nell'isola di Patroclo in cambio di una consulenza per il marketing dell'operazione da tre milioni di dollari.

La Regione all'inizio tentenna, poi prende una posizione: il 5 marzo 2007, il progetto Europaradiso viene definitivamente accantonato perché "nettamente contrastante, assolutamente incoerente con le linee politiche di sviluppo del sistema turistico alberghiero" come spiega l'assessore regionale all'ambiente Nicola Adamo. E poi su quello stesso tratto di costa la Regione chiede l'istituzione di una Zps, zona di protezione speciale che tuteli caratteristiche ambientali uniche, che di fatto impedisce la realizzazione del villaggio.

Intanto il progetto Europaradiso entra nell'inchiesta "Poseidone" della Procura della Repubblica di Catanzaro, e finisce nella relazione della commissione antimafia, che il 20 febbraio del 2008 scrive "La vicenda è emblematica del grumo di interessi che si possono intrecciare tra gli appetiti delle cosche e poco trasparenti operazioni finanziarie internazionali".

E aggiunge: "Interessato all'esecuzione del progetto di Appel sarebbe un noto personaggio del crotonese, in collegamento con ambienti malavitosi locali e fondatamente sospettato di riciclare, in Italia ed all'estero, il denaro sporco per conto di una cosca mafiosa". Il personaggio in questione, secondo le indagini che hanno portato all'operazione odierna, opererebbe per conto del clan Russelli di Papanice.

Politica, cemento e 'ndrangheta: Ecco la cupola di Europaradiso

La Nuova Ecologia online, 25 novembre 2008

Politici, imprenditori e funzionari pubblici indagati per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione e perquisiti nell'inchiesta che ha portato al fermo di 24 affiliati alle cosche di Crotone. In questo contesto sono avvenuti i tentativi di infiltrazione mafiosa nel megaprogetto turistico al momento accantonato

Le mani della ’ndrangheta sul progetto di Europaradiso. È questa l’ipotesi degli investigatori che questa mattina hanno effettuato una serie di perquisizioni a Crotone e in altre città fuori dalla Calabria. Un’operazione che ha coinvolto anche politici, imprenditori e funzionari pubblici indagati nell'inchiesta che ha portato al fermo di 24 affiliati alle cosche di Crotone. Dalle indagini sono emerse pesanti interferenze delle cosche nella vita politica e amministrativa di Crotone, peraltro già denunciate da un'ex parlamentare. Le cosche sostenevano gli amministratori locali al momento del voto ricavandone vantaggi per i loro affari. In questo contesto sono avvenuti i tentativi di infiltrazione mafiosa nel progetto turistico Europaradiso, al momento accantonato.

IPOTESI DI CORRUZIONE. Nei confronti dei politici, imprenditori e funzionari pubblici indagati, che sarebbero intervenuti per influenzare l'iter burocratico di approvazione del progetto Europaradiso, vengono ipotizzati vari reati, tra cui la corruzione, per avere promesso, elargito e ricevuto somme di danaro per condizionare, ai vari livelli amministrativi, la realizzazione della struttura turistica. Oltre ai fermi gli agenti della Polizia di Stato hanno perquisito le abitazioni dell'ex direttore generale del Comune di Crotone, Francesco Antonio Sulla; del capogruppo del Pd in consiglio comunale Giuseppe Mercurio; dell'architetto del comune Gaetano Stabile; dell'agente immobiliare, Romano Rocco Enrizo; dell'ex vice sindaco, Armando Riganello (An); del presidente della Camera di commercio, Fortunato Roberto Salerno; del capo di gabinetto del Ministero dell'Ambiente, Emilio Brogi; del direttore generale del Ministero dell'Ambiente, Aldo Cosentino; e di un funzionario dell'Unione Europea, Riccardo Menghi. Le ipotesi di accusa sono a vario titolo di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione aggravata dalla modalità mafiosa. Nel maggio scorso a Francesco Sulla era stata già notificata una informazione di garanzia e successivamente l'ex direttore generale del Comune era stato sentito dal sostituto procuratore Pierpaolo Bruni.



IL COLLABORATORE DI MATTEOLI. Uno degli indagati Emilio Brogi, è attualmente capo della segreteria del Ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli. Il presunto coinvolgimento di Brogi nell'inchiesta è riferito a quando nel 2005 era nella segreteria tecnica sempre di Matteoli, allora ministro dell'Ambiente. A Brogi è stata perquisita l'abitazione in provincia di Livorno ed altre strutture di sua pertinenza. L'accusa sostiene che Brogi ed il direttore generale dello stesso Ministero, Aldo Cosentino, avrebbero trasmesso volutamente all'Unione Europea una documentazione parziale circa i vincoli a cui era sottoposta l'area sulla quale doveva sorgere la mega struttura turistica Europaradiso. Ma Emilio Brogi respinge le accuse con decisione. "Sono del tutto estraneo ai fatti che mi vengono contestati – replica – Ho fiducia nella magistratura e nelle forze dell'ordine con cui collaborerò attivamente per dimostrare la mia piena estraneità. Desidero precisare che non sono mai stato capo di gabinetto del ministero dell'Ambiente, all'epoca dei fatti oggetto di indagine ero capo della segreteria del ministro".

PRESSIONI SUI VINCOLI.Indaini e perquisizioni anche nei confronti di Salvatore Aracri e Antonio Francesco Russelli. Secondo gli investigatori le cosche di Crotone si sarebbero interessate a fare in modo che l'area dove doveva sorgere la struttura di Europaradiso non fosse sottoposta ai vincoli previsti dalle zone a protezione speciale (Zps).

Gli inquirenti ritengono inoltre che, attraverso i funzionari del ministero dell'Ambiente, sarebbe stata inviata all'Unione Europea una documentazione parziale per quanto riguarda i vincoli a cui era sottoposta l'area dove si intendeva realizzare la mega struttura turistica. Dalle indagini emergerebbe che tutte le cosche del crotonese, anche quelle storicamente in contrasto tra loro, erano fortemente interessate all'opera.

LE DENUCE DELL’EX PARLAMENTARE. Le interferenze e le infiltrazioni erano state denunciate in passato dall'ex parlamentare dei Ds, Marilina Intrieri, la quale in diverse occasioni aveva evidenziato rapporti privilegiati di alcune cosche con amministratori locali eletti con l'appoggio della criminalità organizzata.

La Intrieri aveva denunciato anche i tentativi di infiltrazione mafiosa nella realizzazione della mega struttura turistica Europaradiso. Un fermo decisivo alla realizzazione della struttura fu dato dalla Giunta Regionale in carica che bocciò il progetto, dopo una riunione e una relazione dell' allora vicepresidente dell'esecutivo, Nicola Adamo, attuale capogruppo alla Regione del partito Democratico. In una delle denunce fatte nel marzo scorso, l'ex parlamentare affermò che c'era "il tentativo costante della 'ndrangheta crotonese di farsi istituzione candidando i propri familiari nelle liste elettorali e inserendoli nel governo degli enti locali''.

IL PASSAGGIO DEI SOLDI. “Su Europaradiso abbiamo la prova del passaggio dei soldi”. Lo ha detto il procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia, Emilio Le Donne, nel corso della conferenza stampa sui fermi degli esponenti delle cosche di Crotone. "La vicenda di Europaradiso - ha aggiunto - rappresenta una fetta di questa operazione ed evidenzia il sistema corruttivo nelle pubbliche amministrazioni fino a permeare alti funzionari di ministeri". "Dalle intercettazioni - ha proseguito Le Donne - emerge la consegna di denaro e nella fattispecie una somma di quindicimila euro ed una di quattromila. Bisogna insistere su questa strada in modo da eliminare le infedeltà che ci stanno nella pubblica amministrazione". Il Procuratore di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo, ha evidenziato che "dalle intercettazioni e dalle indagini emerge come le cosche hanno tentato di mettere le mani sulla grande opera di Europaradiso".

'Ndrangheta, 24 arresti a Crotone- Indagati politici per corruzione

Il Corriere della Sera online, 25 novembre 2008

Operazione della polizia contro le cosche di Papanice: al centro dell'inchiesta il progetto "Europaradiso"

CROTONE - Tre anni di indagini, derivanti da un precedente filone d'inchiesta, sequestri di decine di armi e migliaia di munizioni, 200 uomini sul campo per un blitz scattato alle prime luci dell'alba in Calabria ed in Lombardia, 20 persone finite in manette sulle 24 destinatarie di un provvedimento di fermo emesso dalla Dda di Catanzaro. Sono i numeri dell'operazione «Perseus», condotta dalla Polizia di Stato e mirata a scompaginare le cosche operanti nel Crotonese. Più precisamente i «Papaniciari», il cartello criminale emergente che stava per prendere letteralmente in mano Crotone e la sua provincia, e la cui ascesa è stata per il momento bloccata dall'esecuzione dei provvedimenti di indiziato di delitto, emessi proprio in virtù dell'urgenza di interrompere condotte criminali in atto particolarmente pervasive.

PERQUISIZIONI - Oltre ai fermi gli agenti della Polizia di stato hanno perquisito le abitazioni dell'ex direttore generale del Comune di Crotone, Francesco Antonio Sulla; del capogruppo del Pd in consiglio comunale, Giuseppe Mercurio; dell'architetto del comune, Gaetano Stabile; dell'agente immobiliare, Romano Rocco Enrizo; dell'ex vice sindaco, Armando Riganello (An); del presidente della Camera di commercio, Fortunato Roberto Salerno; del capo di gabinetto del Ministero dell'Ambiente, Emilio Brogi; del direttore generale del Ministero dell'Ambiente, Aldo Cosentino; e di un funzionario dell'Unione Europea, Riccardo Menghi.

ASSALTO A CROTONE - I Papaniciari, nel momento in cui hanno preso a guadagnare terreno sugli storici gruppi criminali della zona, ritenuti dagli investigatori ormai in fase «calante», hanno compreso che il momento era propizio per «alzare il tiro» ed entrare nelle strutture amministrative del territorio, e nelle istituzioni anche a livello superiore, fiutando per primi, tanto per fare un esempio, il grande affare di «Europaradiso». Il mega villaggio turistico da 7 milioni di euro che doveva sorgere nella zona, e più precisamente l'ipotizzata pesante ingerenza nella fase della sua progettazione finalizzata ad ottenere più soldi possibile dall'Unione europea anche dove ciò non fosse possibile, rappresenta solo uno dei filoni dell'inchiesta, in cui gli inquirenti si sono imbattuti, ed in cui è emerso l'interesse indiscusso di tutte le famiglie del gruppo. «Il Comune di Crotone, è stato letteralmente preso d'assalto» ha riassunto efficacemente Emilio Ledonne, procuratore nazionale antimafia aggiunto, presente alla conferenza stampa che si è tenuta in Procura a Catanzaro, cui hanno partecipato anche il procuratore della Repubblica del capoluogo di regione Vincenzo Lombardo, l'aggiunto Salvatore Murone, il procuratore di Crotone Raffaele Mazzotta, i questori di Catanzaro e Crotone, il capo della Squadra mobile della città pitagorica Angelo Morabito, il capo della sezione criminalità organizzata della Mobile del capoluogo calabrese Saverio Mercurio. «Il dato giudiziario più rilevante dell'inchiesta - ha aggiunto Ledonne - è proprio quello che conferma l'esistenza di una «borghesia» mafiosa, quella zona grigia che consente alla criminalità di infiltrarsi nell'amministrazione tentando di alterarne gli equilibri, e che oggi ci viene indicata dagli elementi relativi e gravi episodi di corruzione di esponenti delle istituzioni, e di interferenza anche nello svolgimento delle ultime elezioni comunali del 2006».

LE DUE COSCHE - A tanto sarebbe giunto il cartello dei Papaniciari, decapitato da un'indagine definita «storica» dagli investigatori, «perché per la prima volta sono state coinvolte e colpite in concreto e globalmente le due espressioni della cosca in guerra tra loro per il controllo delle attività criminali sul territorio. Da una parte il gruppo facente capo a Mico Megna, boss subentrato a Luca Megna ucciso lo scorso 22 marzo; dall'altra quello capeggiato da Leo Russelli, finito in carcere lo scorso luglio, ed ora retto dal fratello del boss, Francesco Russelli». Se infatti nel precedente filone d'indagine sfociato nell'operazione «Eracles» ci si era preoccupati di individuare i vertici del cartello, con il naturale prosieguo delle investigazioni, sfociato in «Perseus», «si è fatta terra bruciata attorno ai capi - ha rimarcato Ledonne -, colpendo affiliati e uomini di fiducia». Quasi tutti soggetti incensurati, ha chiarito Morabito, oggi indagati, oltre che per associazione mafiosa, per reati fine che vanno dalla detenzione di arsenali di armi da fuoco, alle estorsioni e danneggiamenti contro imprenditori locali, al traffico di eroina, cocaina, hashish e marijuana. Soggetti identificati grazie ad un paziente lavoro di intelligence ampiamente elogiato oggi dai magistrati, che ha visto operare in stretta sinergia le Squadre mobili di Catanzaro e Crotone, con il supporto del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, sotto la guida di Sandro Dolce, sostituto procuratore antimafia di Catanzaro, e Pierpaolo Bruni, sostituto in servizio a Crotone e da tempo applicato alla Dda, con la collaborazione della Procura nazionale antimafia. Una cooperazione essenziale, questa, per conseguire risultati significativi specialmente «su un territorio in grave difficoltà - ha detto Mazzotta -, dove c'è una fortissima richiesta di legalità. In questo senso abbiamo dato un segnale importante della presenza dello Stato e della nostra efficienza - ha aggiunto -, nonostante si debba fare i conti con carenze di organico e di mezzi».

Nota: di seguito scaricabile il pdf di un altro articolo sul tema proposto dal Corsera il 26 novembre, eddyburg.it segue da tempo il caso Europaradiso, a partire dalla descrizione del progetto di Carlo Lania dal manifesto. Per gli altri basta fare un ricerca a parola chiave "europaradiso" nel motore interno (f.b.)

L’"aringa rossa", antica astuzia venatoria, sta per fare della Milano da bere dell’epoca craxian-ligrestiana la Milano da mangiare della nuova era ligrestian-morattiana, trasformando l’Expo del 2015, dedicato all’alimentazione, in una colossale operazione immobiliare. I distinti cacciatori britannici usavano le "red harrings" per distrarre i cani da caccia degli avversari, gettando in luoghi strategici della riserva aringhe affumicate. I cacciatori milanesi di cubature immobiliari, che si definiscono "developers", stanno spargendo su 8 milioni di metri quadri di aree dismesse dall’industria manifatturiera che non c’è più, una selva di grattacieli firmati da architetti di fama mondiale, i cosiddetti "archistar". Quei grattacieli, secondo l’immagine di Renzo Piano, sono per l’appunto le "aringhe rosse" che servono a distrarre l’attenzione da quel che germoglia intorno: quartieri selvaggi, simili a quelli che hanno assediato la Roma dei palazzinari. O «caricature di città» nella città, come dice l’architetto Mario Botta.

Dalla Bovisa all’ex Ansaldo, da Porta Vittoria a Porta Nuova - Garibaldi-Repubblica, dal Portello a Montecity-Santa Giulia, sono venticinque i grandi progetti, lottizzati tra i gruppi immobiliari con le immutabili regole del manuale Cencelli - tot a me, tot a te - che stanno cambiando lo skyline meneghino insieme a quelli del potere e delle ricchezze immobiliari d’Italia. Quanti sono i grattacieli che svetteranno a far ombra alla Madonnina? C’è quello nuovo della Regione a Garibaldi, monumento alla grandezza del governatore Roberto Formigoni, poi un’infinità di grattacielini "alla lombarda", una trentina di piani o poco più, tipo l’attuale Pirellone, definiti non proprio grattacieli, secondo la contabilità americana o asiatica, ma "case-torre". È nell’area della vecchia Fiera la nuova fiera dell’"aringa rossa". Si chiama CityLife, un affare da due miliardi, che prima ancora di partire è costato 523 milioni di euro, il prezzo pagato alla Fondazione Fiera per i 23 ettari (che diventano 36 con le aree limitrofe) acquistati dalla cordata immobiliar-assicurativa vincente.

I grattacieli che ridisegnano lo skyline, milioni di metri cubi edificabili, aree verdi spezzettate. Il tutto gestito dai soliti imprenditori e dagli istituti di credito. Un affare da miliardi di euro che ruota intorno all’Expo 2015 ed è destinato a fare della metropoli una nuova Londra. Senz’anima

Domenica 11 maggio 2008. È quel giorno che una nuvola di polvere oscura i palazzi novecenteschi che si affacciano nella zona dell’ex Fiera, tra viale Boezio, Piazza VI Febbraio, via Gattamelata, Largo Domodossola, piazza Giulio Cesare, via Eginardo. Un’imprecisata carica di esplosivo ha sbriciolato in pochi secondi il Padigione 20, 230 mila metri cubi di calcestruzzo, per far luogo al mitico Central Park meneghino, che certificherà il Nuovo Rinascimento di Milano. È lì che sorgeranno non uno, ma tre grattacieli. Il più alto, di 209 metri firmato dal giapponese Arata Isozaki, il secondo di 170 metri dall’irachena Zaha Hadid e il terzo di 140 metri, quello a forma di banana che ha ferito il buongusto persino del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, progettato dall’americano Daniel Libenskind. «Milano è piena di gente che ha il membro storto - ridacchia Umberto Eco - ce ne sarà uno in più e prenderà il Viagra». Intorno 140 mila metri quadri di edilizia residenziale e 100 mila di uffici, il tutto in cinque mega-blocchi di altezza variabile tra i cinque e i venti piani, protetti da un sistema di "torri di guardia del quartiere". E il Central Park? Spezzettato lì in mezzo, tra i blocchi svettanti verso il cielo.

Per non inorridire, non dovete affacciarvi oggi a una delle porte della ex Fiera, da cui non vedreste che un deprimente paesaggio lunare, o soffermarvi nel cratere vuoto di Porta Nuova, dove scaricano travi da 30 metri che dovranno sorreggere un tunnel stradale. Dovreste invece passeggiare intorno ai plastici esposti in uno show-room che i padroni di CityLife, cioè Ligresti, i Fratelli Toti della Lamaro, gli stessi immobiliaristi che spadroneggiano a Roma, insieme a Generali e Allianz hanno voluto a piazza Cordusio, cuore della Milano bancaria. O, ancora meglio, farvi mostrare il rendering, cioè le simulazioni al computer, come consigliano Luigi Offeddu e Ferruccio Sansa nel loro libro Milano da morire, dove con ironia raccontano visioni paradisiache di grattacieli scintillanti in un cielo di purissimo azzurro. Come a Milano si vede non più di dieci giorni l’anno.

Ligresti chi? Sì, proprio quel Salvatore Ligresti della Milano da bere craxiana. Si dice che a volte ritornano, ma nonostante le condanne di Tangentopoli, la prigione, l’affidamento ai servizi sociali, don Salvatore, come lo chiamano, non se ne è mai andato. Oggi controlla buona parte dei sei principali progetti immobiliari milanesi, che valgono 7 miliardi di euro: non solo CityLife, ma anche Porta Nuova-Garibaldi. E non c’è a Milano chi non corra a baciare la pantofola del finanziere pregiudicato, originario di Paternò, provincia di Catania. È cambiato soltanto l’azionista di riferimento politico (ma chi è azionista di chi?) in quell’intreccio di mediazioni opache tra mattoni e finanza, tra affari e politica, che l’ex capitale morale non ha mai dismesso e che ha rilanciato entusiasticamente con il miraggio dell’Expo.

Prima era Craxi, che si narra sia stato accompagnato proprio dall’uomo di Paternò in visita al conterraneo Enrico Cuccia, allora dominus del capitalismo italiano. Oggi è quella Milano della politica senza qualità, sospesa tra postfascismo, berlusconismo, leghismo e integralismo affaristico ciellino. Di Craxi resta Massimo Pini che, passato ad An, ricopre ruoli importanti nella galassia assicurativo-cementizia di Ligresti. Ma la costante è la famiglia La Russa di Paternò, il cui capostipite Antonino, antica autorità missina di Milano, seguì amorevolmente quasi cinquant’anni fa i primi passi del compaesano che fu scelto per sostituire a Milano gli ormai inaffidabili fiduciari Michelangelo Virgillito e Raffaele Ursini. Ignazio La Russa presidia il ligrestismo al governo, il fratello Vincenzo e il figlio Geronimo siedono nel Consiglio della ligrestiana Premafin.

Berlusconi, che quando faceva il palazzinaro non amava il concorrente nel cemento e nel cuore di Craxi, ora rischia d’imparentarsi con lui, dal momento che uno dei figli giovani è fidanzato con una nipotina Ligresti.

Le solite facce, i soliti nomi. A Milanofiori e ad Assago c’è Matteo Cabassi, quinto figlio di Giuseppe, «el sabiunatt» degli anni Settanta. È titolare di una parte dei terreni a destinazione agricola su cui sorgeranno le opere dell’Expo. Cedendoli al Comune si troverà 150 mila metri quadrati edificabili. A Porta Vittoria si sono fermati i lavori dopo l’arresto di Danilo Coppola. A Santa Giulia, sud-est di Milano, area Montedison, e a Sesto San Giovanni nell’area Falck, sta affondando un altro furbetto. È Luigi Zunino, esposto con le banche, soprattutto Intesa-San Paolo, per 2 miliardi.

Con questi chiari di luna, riuscirà l’immobiliarista piemontese a fronteggiare il debito vendendo i palazzoni residenziali di Rogoredo che fanno da sfondo alla nuova sede argentea di Sky-Tv? Forse quelli di edilizia convenzionata a 2-3 mila euro al metro quadrato. Ma quelli di lusso progettati da Norman Foster, a 7-10 mila? Chissà se arriveranno fondi del Dubai a riprenderlo per i capelli.

Ligresti, Cabassi, i furbetti, Pirelli RE, i texani di Hines, Luigi Colombo, Manfredi Catella. Vecchio e nuovo - dice l’urbanista Matteo Bolocan Goldstein - «convivono nella modernizzazione equivoca di Milano, in una dimensione opaca, con una poliarchia solipsistica che non fa sistema». Chi più chi meno, tutti lavorano con la cosidetta "leva finanziaria", che in pratica vuol dire i soldi delle banche. Sui 7 miliardi finora investiti sulla carta, sei, circa l’85 per cento sono di Intesa-San Paolo, Unicredit, Popolare di Milano, Monte dei Paschi, Antonveneta e Mediobanca, mentre la Banca d’Italia giudica corretta una quota del debito non superiore al 70 per cento rispetto al totale e un’equity del 30 per cento, cioè di investimento di tasca propria.

Sarà rispettato adesso, in piena crisi finanziaria globale, il "lodo Draghi" e, se sì, cosa capiterà dei mille e mille progetti cementizi già avviati o che stanno per partire? Chissà se la salvezza, o il disastro, verrà dal progetto dell’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli, definito dal suo ex collega Vittorio Sgarbi «coerente e leale vandalo integralista», che vuole una Milano con 700 mila abitanti in più, portandola da un milione e 300 mila a 2 milioni tondi. Come? Con più volumetrie ai palazzinari privati, aumentando gli indici di edificabilità di un terzo, da 0,65 a 1, o - precisa - «anche di più», con vincoli e regole ridotti al minimo. Una Milano da 2 milioni? «Una favola campata in aria», per Gae Aulenti. Vi immaginate le centinaia di migliaia di persone che dal 1974 hanno lasciato le cerchie cittadine per rifugiarsi nell’hinterland, che tornano come in un controesodo biblico perché Masseroli fa l’housing sociale a 2 o 3 mila euro al metro? In Consiglio comunale si battaglia sul progetto Masseroli tra carrettate di emendamenti. Se mai, bisognerebbe occuparsi del destino delle decine di migliaia di metri cubi di uffici sfitti e dei nuovi che stanno per arrivare sul mercato invece che del cemento fresco, avverte l’architetto Stefano Boeri. E non dimenticare che Milano è una «città costretta», come la definisce Bolocan, che, con Renzo Piano, retrodata agli anni Sessanta e Settanta l’era milanese più fervida di sviluppo. «Due milioni di abitanti?» si chiede perplesso anche Carlo Tognoli, che dal 1976 fu sindaco per un decennio: «Nel dopoguerra ci fu il piacere della crescita, poi ci si accorse che la crescita non poteva essere esagerata».

La Milano metropoli da due milioni, piccola Londra o New York ma senz’anima, sembra replicare l’apologo della ricottina, quello della pastorella che camminando verso il mercato aumenta via via il valore teorico della forma da vendere che trasporta in bilico sulla testa. Finché la ricottina cade e si spiaccica per terra.

Ciò che rischia di accadere per l’Expo. «Sarà sicuramente un fallimento», sentenzia Sgarbi, accusando «Suor Letizia», che lo ha licenziato da assessore mettendo al suo posto a gestire la cultura un culturista, nel senso di body builder, di essere un sindaco inadeguato, che annaspa tra le contraddizioni.

Per di più assistita da Paolo Glisenti, che egli giudica «l’elaborazione intellettuale del nulla» e che il titolare del salvadanaio Giulio Tremonti, che lo ha in uggia, farà di tutto per non favorire: «Dimenticatevi che lascerò tutto in mano alla Moratti», ha avvertito il ministro. Durante la campagna-acquisti di voti per l’Expo dei paesi minori, costata dieci milioni, sono stati regalati scuolabus nei Caraibi, borse di studio nello Yemen, in Belize e altrove, il progetto di una metrotranvia in Costa d’Avorio, una centrale del latte in Nigeria, bus dismessi a Cuba e quant’altro. Ma adesso viene il difficile. Tolti i 4,1 miliardi necessari per realizzare il sito fieristico, mancano quasi tre miliardi per le opere infrastrutturali essenziali (metropolitane, ferrovie, stazioni, raccordi, strade) e 6 miliardi per le infrastrutture "minori". Il sogno della Milano da mangiare, che rischia di infrangersi come la ricottina della pastorella, oltre a 65 mila nuovi posti di lavoro dal 2010 al 2015, vagheggia 29 milioni di visitatori, 160 mila al giorno per sei mesi, che porteranno un indotto di 44 miliardi di euro. Ma perché quasi trenta milioni di persone dovrebbero venire a Milano nell’estate 2015? Per vedere il grattacielo-banana? Per una mostra sull’alimentazione? Saragozza è stata un flop.

Pazienza. A Milano, comunque vada, nel terzo lustro del nuovo secolo potremo lasciare l’auto nel parcheggio di cinque piani scavato sotto la Basilica di Sant’Ambrogio, nel parco medievale più importante della civiltà lombarda. Un insulto cui la borghesia intellettuale di Milano non vuole rassegnarsi. E tra le aringhe rosse avremo la città dei developers, «una città che si prostituisce al miglior offerente». Parola dell’architetto inglese David Chipperfield.

La commissione Urbanistica dice sì alla delibera sulle aree Peep e avvia l´iter per la realizzazione di 7.200 alloggi, anche in verde agricolo. Da Borgo Molara a Cruillas, da Passo di Rigano a Uditore: per i costruttori e le coop edilizie si aprono le porte per la realizzazione di alloggi tutti in variante allo strumento urbanistico. Lo studio sul fabbisogno abitativo approvato dalla commissione entro quindici giorni approderà in Consiglio comunale.

La commissione Urbanistica dice sì alla delibera sulle aree Peep e avvia l´iter per la realizzazione di migliaia di alloggi, anche in verde agricolo. Da Borgo Molara a Cruillas, da Passo di Rigano a Uditore, da Pagliarelli a Partanna: per i costruttori si aprono le porte per la realizzazione di alloggi tutti in variante allo strumento urbanistico. Lo studio sul fabbisogno abitativo, propedeutico al piano di edilizia economica e popolare, approvato ieri dalla commissione, entro quindici giorni approderà in Consiglio comunale.

Il sì all´atto di Sala delle Lapidi, infatti, sbloccherà la realizzazione di settemila e duecento case, secondo la studio sul fabbisogno abitativo redatto dal professor Sergio Vizzini dieci anni fa. Tremila e duecento saranno realizzati come edilizia agevolata, da cooperative e imprese, gli altri in edilizia convenzionata a carico di Stato o Regione. La delibera, che è solo un primo passaggio, darà il via libera a uno studio per verificare se in dieci anni è cambiato il fabbisogno abitativo: se, in sostanza, 7.200 alloggi sono troppi o troppo pochi.

Subito dopo verrà stilato il piano di settore: verranno individuate, cioè, le aree Peep, quelle sulle quali costruire. La delibera parla chiaro: potranno diventare Peep solo alcune tipologie di aree. Da quelle in verde agricolo, che non sono state escluse, a quelle cosiddette «destrutturate», cioè incomplete o con abusi edilizi in prossimità delle borgate oppure ex zone industriali dismesse.

La delibera approvata dalla commissione, cancella la possibilità di costruire sulle aree destinate a servizi e non esclude il recupero degli edifici esistenti, a partire dal centro storico. Ma è nella cintura esterna della città che si concentrerà la scelta: da Borgo Molara a Cruillas, da Passo di Rigano a Uditore fino a Partanna Mondello. E costruttori e coop sono pronti a riproporre i piani costruttivi finora bocciati. «Sia chiaro però - dice il presidente della commissione Urbanistica, l´Udc Gerlando Inzerillo - le aree saranno scelte solo dopo un nuovo studio sul fabbisogno e verranno assegnate attraverso un bando pubblico».

Tra gli emendamenti che la commissione porterà in aula, c´è quello presentato dal consigliere del Pd Rosario Filoramo che prevede un protocollo d´intesa con la prefettura sia per individuare le aree che per assegnarle. Un altro ordine del giorno di peso, che diventerà un emendamento con il piano di settore, lo presenterà il capogruppo di Forza Italia, Giulio Tantillo, per rispondere all´emergenza casa: «Vorrei dare la possibilità alle cooperative di aumentare la volumetria delle costruzioni - dice - a patto che loro destinino il dieci per cento delle case al Comune. Alloggi che noi utilizzeremo per l´emergenza abitativa».

La delibera che arriverà in Consiglio comunale entro quindici giorni ha scatenato per mesi le polemiche: dalle associazioni ambientaliste, che temono l´assalto al verde agricolo sopravvissuto nella Conca d´oro, all´opposizione che non si fida di uno studio vecchio di dieci anni, fino alle cooperative che invece premevano perché l´atto fosse approvato. Da più di un anno, infatti, il Consiglio comunale respinge tutte le proposte di piani costruttivi in variante urbanistica. Le coop, che hanno già ottenuto finanziamenti per 2 mila alloggi, una volta che sarà pronto il piano di settore sono pronte a tornare alla carica. «Sempre ammesso che i criteri che sceglieranno ce lo permettano», dice Francesco Leone, referente di diverse coop che si è visto bocciare il progetto per 148 case in via Lauducina, zona Messina Marine, quello per la realizzazione di 45 villette a Borgo Molara e quello per 32 alloggi a Ciaculli.

In commissione, però, non tutti hanno votato sì alla delibera. Maurizio Pellegrino, del Pd, e Nadia Spallitta, di Un´Altra storia, si sono astenuti. Per Pellegrino «7.200 alloggi sono troppi». «Basta pensare - dice - che negli ultimi dieci anni sono state realizzate 500 case popolari. L´atto non mi convince: stiamo tornando alla cementificazione?». Per Nadia Spallitta, che ha presentato un ordine del giorno approvato sulla salvaguardia del verde agricolo, «non si conosce quale sia l´effettivo fabbisogno abitativo. La delibera Peep si fonda sul censimento del 1991 mentre ne esiste uno del 2001 che registra un decremento della popolazione di oltre 30 mila unità». Giuseppe Messina, di Legambiente. lancia un monito al Comune: «Attenti al verde agricolo».

Illustre Signor Ministro Bondi, a differenza di molti altri, non ho nessuna obiezione alla Sua decisione di avere fra i Suoi consulenti l’attuale presidente del Casinò di Campione dr. Mario Resca. Ogni ministro può circondarsi di consulenti con disparate competenze e opinioni, che possano aiutarlo a formare le proprie linee di indirizzo.

Nutro invece gravi riserve sull’ipotesi di riforma del Ministero che dovrebbe creare un nuovo "Direttore generale per la valorizzazione dei musei", peraltro responsabile anche dei parchi archeologici e dei complessi monumentali. Ecco perché.

Nella Sua dichiarazione alla VII Commissione del Senato del 4 giugno 2008, Lei dichiarò che era Sua intenzione «garantire che vengano scongiurati tagli delle attuali dotazioni, come è noto già assai limitate», esprimendo «disappunto per i tagli alla cultura operati con l’abolizione dell’Ici senza preventivo accordo del Ministero» e «l’auspicio che eventuali sacrifici vengano preventivamente concordati col Ministero».

Dichiarò inoltre che «dopo due riforme organizzative ravvicinate, i cui effetti di rivolgimento sono ancora ben lungi dall’essersi stabilizzati» era «giunto il momento di puntare sull’attuazione delle norme, più che sulla produzione di ulteriore inflazione normativa». Queste Sue e nostre speranze sono state disattese. I tagli al bilancio del Suo Ministero apportati dal decreto legge 112 e da altri provvedimenti, i più pesanti di tutta la pubblica amministrazione, ammontano nel triennio 2009-2011 a oltre un miliardo: la legge 133 anziché mitigare questi tagli li ha aumentati di altri 31 milioni. Come ha evidenziato un appello del Fai e di altre associazioni, rivolto al presidente del Consiglio, si è inoltre operato un drastico taglio al personale delle Soprintendenze, per Sua stessa dichiarazione già gravemente insufficiente: 15 per cento per la prima fascia, 10 per cento per la seconda.

Contraddicendo le Sue dichiarazioni al Parlamento, Lei ora promuove una nuova riforma dell’amministrazione, la terza in pochissimi anni. La creazione di una nuova "direzione generale per la valorizzazione dei musei" è la più importante fra le innovazioni proposte (ma non va dimenticata l’incomprensibile cancellazione dell’arte contemporanea). Il nuovo direttore generale avrà fra i suoi compiti l’autorizzazione a tutti i prestiti per mostre, la decisione su quali siano le mostre di "rilevante interesse culturale", i programmi sulle ricerche scientifiche sul patrimonio museale, e infine «i criteri per l’affidamento in comodato o in deposito di cose o beni da parte dei musei».

L’elenco di queste (e molte altre) competenze è doppiamente preoccupante. Da un lato, "ritagliare" musei, parchi archeologici e complessi monumentali fuori dal territorio di pertinenza è l’esatto opposto di tutta la tradizione italiana della tutela, anzi capovolge il senso dell’ultima riforma del ministero (2007), che alle quattro "soprintendenze ai poli museali" (Roma, Napoli, Firenze e Venezia) ha riassegnato il territorio urbano di pertinenza. La creazione dei "poli museali" per la prima volta nella storia d’Italia aveva infatti scorporato i musei dal territorio, considerandoli come entità a parte, con effetti solo negativi.

Per esempio, a Roma le grandi gallerie private (Colonna, Doria Pamphilj) ricaddero sotto competenza diversa da quella delle gallerie nazionali di identica origine fidecommissaria (Borghese, Barberini). Si spezzò allora il nesso vitale, efficace per secoli, fra la città, coi suoi palazzi e le sue chiese, e i musei, che dall’identico tessuto di committenze, mecenatismi, collezioni trassero origine e alimento. Nata dall’ossessione del modello americano coi suoi musei ovviamente del tutto staccati dal territorio (ma nelle chiese di New York non c’è Giotto, non c’è Tiziano, non c’è Caravaggio), questa ferita al modello italiano di tutela è stata appena sanata, ma la nuova direzione generale creerebbe una sorta di nuovo, unico, gigantesco polo museale.

Non meno grave è la seconda preoccupazione. Che cosa farà il nuovo direttore generale per "valorizzare" le opere dei musei? L’articolo 6 del Codice dei beni culturali (approvato dal precedente governo Berlusconi) dichiara che scopo unico della valorizzazione del patrimonio culturale è «promuovere lo sviluppo della cultura». Ma le competenze del nuovo direttore generale sembrano mirate a ben altra valorizzazione, in senso esclusivamente economico. Per esempio, nello stabilire "linee guida per l’affidamento in comodato" di opere dei musei (articolo 8 h), egli potrebbe forse, al fine di far cassa, spedire quadri e statue nei salotti (secondo l’idea lanciata dal soprintendente comunale di Roma) o negli Emirati Arabi? Come mai egli dovrà vigilare, in concorrenza anzi conflitto con gli altri direttori generali, sulle soprintendenze speciali di Roma, Venezia, Firenze e Napoli e su quelle archeologiche di Roma, Napoli e Pompei? Perché gli vengono attribuite competenze di tutela che condurranno a conflitti con altre strutture del Ministero?

Queste considerazioni, Signor Ministro, valgono a prescindere dalla persona che Lei vorrà scegliere per ricoprire un tale ufficio. Ma per un compito tanto delicato e controverso, chi sarà scelto? Contraddicendo la Sua dichiarazione al Senato in cui si era impegnato a lanciare «un bando di concorso a livello internazionale fra i massimi esperti del settore», Lei ha invece deciso di procedere per le vie brevi, interpellando prima Antonio Paolucci, poi Mario Resca. Nella sua intervista a Repubblica del 13 novembre, Paolucci ha dichiarato: «Conosco bene il profilo del nuovo direttore generale: il ministro Bondi mi ha offerto quel ruolo».

Ma quale può esser mai un profilo che si attagli a uno storico dell’arte di provatissima esperienza come Paolucci e a un manager di McDonald’s come Mario Resca? Come potrebbe, una persona con la sua formazione e la sua storia (che meritano il massimo rispetto) guidare «i programmi concernenti studi, ricerche e iniziative scientifiche» nei musei (articolo 8 g), o distinguere fra mostre «di rilevante interesse culturale o scientifico» e quelle che non lo sono (articolo 8 f)? Le dichiarazioni dello stesso dr. Resca (a Repubblica del 15 novembre) non hanno mitigato queste preoccupazioni. Anziché considerare il nostro patrimonio culturale «l’identità e l’anima stessa del nostro Paese», come nelle Sue dichiarazioni al Senato, egli lo vede come «una miniera di petrolio a costo zero», su cui è necessario «fare marketing», «generando ricavi» mediante la «circolazione delle nostre opere nel mondo»; l’esempio addotto è Abu Dhabi.

Signor Ministro: gravi ragioni istituzionali sconsigliano vivamente una nuova direzione generale secondo queste linee, chiunque vi fosse chiamato. Nella Sua relazione al Senato, Lei elogiò «la straordinaria tradizione di specializzazione tecnico-amministrativa che caratterizza le soprintendenze come un´area di sicura eccellenza nel panorama della burocrazia italiana».

Una concezione aziendalistico-manageriale che ignorasse la necessaria specificità delle competenze culturali e professionali mortificherebbe tale eccellenza, delegittimando i custodi del nostro patrimonio. Se, come credo, non è questa la Sua intenzione, la riforma proposta va a mio avviso radicalmente riconsiderata. È quello che Le ha chiesto, con voto unanime, il Consiglio Superiore dei Beni Culturali.

Mentre ancora non sono cominciati gli scavi per l’inutile – a parere non solo nostro – torre Intesa San Paolo, il movimento “Non grattiamo il cielo di Torino” ha continuato la sua azione in questi mesi arrivando a provocare la votazione in consiglio comunale di una delibera che di fatto sancisce una moratoria sui progetti di grattacieli in città. Le firme sono servite a qualcosa, e anche le piccole manifestazioni, la fatica dei presìdi che hanno tenuto viva la fiammella. Per la prima volta il consiglio comunale di Torino accoglie una delibera di iniziativa popolare su un tema così controverso. Il meccanismo procedurale per arrivare al piano di tutela del paesaggio urbano è complesso ma intanto ecco un criterio piuttosto chiaro: " in tutto il territorio comunale, fatti salvi gli interventi già autorizzati con specifici provvedimenti (leggasi Porta Susa, NdR), non dovranno essere consentite nuove edificazioni, o sopraelevazioni, che superino l'altezza di m. 100, fatti salvi i limiti più restrittivi già previsti. In un ambito più ristretto di salvaguardia paesaggistica, che si colloca nel raggio di 5 km. dalla Mole Antonelliana, e per una profondità di 2 km. dalla sponda sinistra del fiume Po, siano consentite, per nuovi interventi o sopraelevazioni, altezze massime di m. 80, sempre fatti salvi i limiti più restrittivi vigenti per ambiti sottoposti a tutela. Le quote massime di 100 m. e 80 m.sopraindicate devono intendersi comprensive pure dei "volumi tecnici" e degli impianti realizzati al servizio dell'edificio sottostante.In tutta la Zona Urbana Centrale Storica non dovranno comunque essere autorizzate sopraelevazioni di edifici a torre preesistenti. "Quando abbiamo iniziato, quasi un anno fa, la raccolta delle firme speravamo che il consiglio votasse questa moratoria prima di autorizzare la sopraelevazione delle Turin Towers adiacenti a Porta Susa. Avevamo però anche il fondato timore che un voto favorevole non arrivasse mai, visto quanti politici avevano definito passatiste e infondate le nostre preoccupazioni sull’altezza degli edifici. Ora quantomeno si riconosce che un problema di coerenza urbanistica e di tutela del paesaggio effettivamente esiste. E si mette obiettivamente in mora anche il grattacielo della Regione, il progetto affidato a Fuksas, che supera abbondantemente gli 80 metri di altezza in un’area entro 2 kilometri dal Po. Nessuno si è opposto a questa delibera di moratoria, non sappiamo se per dare un colpo al cerchio dopo il colpo alla botte ( autorizzazione torre San Paolo) o perché effettivamente si sente il bisogno di una revisione. Alla quale è il caso che i cittadini partecipino abbondantemente, prima che le porte si richiudano con l’inquadramento che il Comune presenterà tra sei mesi. A maggior ragione non ci rassegniamo alla costruzione degli inutili 40 e passa piani del progetto voluto da Salza. La contestazione si sposta dal piano urbanistico-paesaggistico a quello economico. In tutti i modi chiederemo ai vertici Intesa San Paolo di riflettere se è opportuno arrivare a dover negare crediti a imprese e a singoli per azzardare centinaia di milioni di euro nella costruzione di un monumento auto-celebrativo, con uffici che resterebbero semivuoti. A meno che l’intenzione non sia quella di fare alloggi di lusso, quelli si forse vendibili , ma il consiglio comunale ha deciso che per almeno 10 anni una trasformazione del genere (da terziario a residenziale) sarebbe bandita.

L’assessore Masseroli annuncia il Piano del governo del territorio e, trionfante, dice di avere la “ricetta” per rilanciare Milano. Tra le soluzioni proposte vi è quella di portare a 2.000.000 gli abitanti di Milano. Vorrei dare anche io il mio contributo su questa proposta, ma vorrei farlo lasciando da parte la questione degli indici urbanistici e delle speculazioni, e partendo invece da un’altra parte. Vorrei tentare di lavorare sulle cifre, aride e fredde cifre, per introdurre alcune questioni ambientali, legarle poi ai 700.000 nuovi abitanti e chiedere all’assessore di rispondere a domande che pongo come cittadino e studioso. In Internet, tra alcuni documenti pubblicati dal Comune, se ne scoprono due interessanti: la Relazione sullo stato dell’ambiente (2003) e il rapporto di Scoping della Valutazione ambientale strategica (2008). Per brevità chiamerò la prima Rsa e il secondo Vas. A Milano ci sono attualmente 1.308.981 abitanti (dato del 2005, riportato sulla Vas del 2008) che producono delle pressioni sull’ambiente. Potremmo immaginare, semplificando che 2 milioni ne producano un tot in più, con una logica lineare. Vediamo cosa accadrebbe. Stando alla Vas, a Milano 119 km2 sono occupati all’urbanizzazione, pari a 91 m2 per abitante. Se si volesse garantire questo spazio procapite anche ai futuri 700.000 abitanti occorrerebbero altri 6.369 ettari. A Milano ci sono 3988 ettari non urbanizzati (VAS, pag. 6). Fate i vostri conti.

E ancora. Utilizzando i parametri del 2004 di produzione di rifiuti (562 kg/abitante/anno, vedi Vas), 700.000 nuovi abitanti significherebbero 393.000 tonnellate/anno in più. Domanda: si sa dove smaltirli e quanto costerà?

Per quanto riguarda l’emissione di CO2, di cui tanto si parla, l’aumento previsto di abitanti potrebbe innalzare la produzione di CO2eq di 2,4 tonnellate l’anno (+53%, Rsa). Domanda: si sa come assorbirle o come non generarle?

Veniamo al consumo di energia elettrica per abitazioni. Secondo la Rsa ogni cittadino milanese consuma 1,5 Mwh/anno, quindi 700.000 nuovi abitanti innalzerebbero i consumi di oltre 1 milione di Mwh/anno. Domanda: abbiamo questa energia e le sue fonti di produzione? A quale costo?

Vediamo ora le auto. Le auto dei residenti a Milano, secondo la Rsa, sono 966.530, pari a 0,7 auto per abitante, neonati e ultraottantenni compresi. 700.000 nuovi abitanti significano 516.868 nuove auto. Poiché ognuna di loro occupa circa una decina di metri quadrati, ciò significa che se, ipotesi, si muovessero tutte insieme per Milano, avrebbero bisogno di oltre 5 milioni di metri quadrati, una cosa come oltre 450 stadi di S. Siro. Ce la si fa?

E ancora, il verde. I servizi. Ad esempio se tra questi futuri 700.000 nuovi abitanti ci fossero 200.000 ragazzi in età scolare. Poiché una classe è più o meno formata da 25 allievi in ogni grado scolastico, significa che occorrerebbero 8000 nuove classi ovvero 10000 nuovi insegnanti. Ci sono gli spazi e le risorse?

A questo punto sta al Comune dare la risposta. Ma non vorrei solo che mi si controbattesse punto per punto rassicurando che ci saranno le aule e gli insegnanti, che ci sarà il verde, che ci saranno capacità per smaltire i rifiuti, che non si produrrà un kg di CO2 in più. Insomma non mi date delle risposte di impegno per il futuro.

Le risposte che vorrei sentire sono: 1) che si abbia consapevolezza di tutto ciò e lo si comunichi ai cittadini chiaramente; 2) che chi governa e sta mettendo mano alla città così pesantemente, non si limiti a rassicurazioni e promesse, ma pianifichi prima i servizi e le soluzioni ambientali e poi dia il via libera ai cantieri per i 700.000 nuovi abitanti. Non vorrei trovarmi con nuovi palazzi, nuove strade, nuovi rifiuti, nuova CO2, nuovo Pm10 e aspettare che una futura amministrazione se ne prenderà cura.

Allora chiedo tre cose: il Comune si faccia carico della responsabilità ambientale nel sovraccaricare la città con ulteriori 700.000 abitanti e, visto che sta facendo il Piano di governo del territorio, ci dia una risposta sulla sostenibilità ambientale; infine, si impegni a garantire alla città e ai suoi abitanti prima la realizzazione dei servizi, visto che non credo bastino quelli che ci sono, e poi apra i cantieri. Questo sarebbe da fare, assessore Masseroli, visto che parlate di un piano per il futuro.

(Politecnico, Osservatorio nazionale sui consumi di suolo)

Nota: su altri aspetti della provocatoria sparata dell'assessore Masseroli (almeno si spera che non sia una vera "strategia") si veda il recente articolo di Marco Vitale sul Sacco di Milano (f.b.)

«Le racconto questa storia». Gli occhi azzurri di Clara Baracchini sorridono dietro le lenti. «Io, come molti miei colleghi storici dell'arte delle soprintendenze, passo tanto tempo andando in giro con il cappello in mano a cercare soldi. Fondazioni bancarie, enti, curie. Se potessi porterei anche la fisarmonica e la scimmietta. Ero riuscita a farmi dare 30 mila euro da una banca per un progetto di archiviazione informatica. Dovevo segnalarlo sul sito della Soprintendenza. Sa, una banca dà i soldi perché la cosa si conosca in giro. Cerco il nostro sito. Ma il sito non c'è più. Sa cos'era successo? Il sito della Direzione regionale della Toscana era chiuso. Mancavano i soldi per la manutenzione».

Quei soldi forse sono andati persi, forse no, ma la storia che racconta Clara Baracchini può fare da exergo a un viaggio negli uffici addetti alla tutela del patrimonio storico-artistico, architettonico, archivistico, bibliotecario e del paesaggio. Ora l´attenzione si concentra sulla nomina di Mario Resca a direttore generale dei Musei e della valorizzazione, la punta luccicante del Belpaese. Ma le parti in ombra restano tante. Clara Baracchini è uno dei cinque storici dell'arte che controlla le province di Pisa e Livorno. È in servizio da 35 anni, nel 2010 va in pensione e come lei altri due suoi colleghi. I due superstiti smetteranno poco dopo. Resteranno a tutelare uno dei repertori d´arte più pregiati del mondo tre funzionari, nessuno dei quali entrato con una laurea in storia dell´arte, ma assunto come coadiutore e poi parificato agli storici dell´arte dopo aver seguito un corso di formazione. Andati via anche questi tre funzionari c'è il nulla. L'ultimo concorso nazionale ha bandito 5 posti per storici dell'arte, ma nessuno in Toscana.

La macchina della tutela in Italia è in panne. Qualcuno fa i conti: fra il 2011 e il 2015 vanno in pensione tutti i funzionari assunti fra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, gli anni in cui ci furono concorsi e assunzioni. Poi i concorsi si sono diradati, fin quasi a sparire. Ora ne è stato bandito uno per 55 architetti, 30 archeologi e, appunto, 5 storici dell'arte. Ma è una goccia nel mare. Gli archeologi, per esempio, sono in tutto 340, dovrebbero essere 470. Il personale è invecchiato (la media è intorno ai 55 anni), infiacchito. E non manca chi denuncia il disegno consapevole di smantellare il sistema delle soprintendenze - la Lega lo ha scritto nel suo programma elettorale - un disegno che viaggia parallelamente alla trasformazione in senso federalista dello Stato e che potrebbe portare la tutela sotto il controllo di Regioni e Comuni (lo si è tentato per Roma, con un emendamento che sparisce e poi riappare). Ma non con un progetto organico. Bensì lasciando morire di stenti il sistema della tutela.

Su questo corpo debilitato si sono abbattuti i tagli della Finanziaria: 236 milioni di euro per il 2009, 251 per il 2010, 434 per il 2011. Che in totale fanno quasi un miliardo di euro, qualche manciata di milioni in più persino rispetto alla prima versione del decreto che aveva indotto Salvatore Settis a denunciare nel luglio scorso «il colpo mortale» inflitto a un'amministrazione già sofferente. (I dati più attendibili sono quelli elaborati dai coraggiosi redattori del sito www. patrimoniosos. it).

Un allarmato articolo ha scritto su queste pagine Eugenio Scalfari. E le cifre del disastro si rincorrono. Il 90 per cento delle spese che nel prossimo triennio sosterranno le soprintendenze archeologiche è solo manutenzione: pulizie, impianti di condizionamento, recinzioni che si rompono, bagni che perdono. Pochissimo va per i restauri, ancora meno per nuovi scavi, che ormai si avviano solo perché si fanno buchi per la metropolitana, per l'alta velocità o, più modestamente, per un parcheggio. Molte soprintendenze attingeranno a fondi speciali per ripianare debiti o per pagare bollette. Alla Soprintendenza archeologica di Napoli e Pompei queste ultime non vengono saldate da mesi e a metà ottobre è scaduto il contratto per la pulizia degli uffici. Che non è stato rinnovato.

La tutela del patrimonio si esercita studiando, proteggendo e quindi restaurando. Ma nelle soprintendenze storico-artistiche non è ancora arrivata la circolare che mette in moto le procedure per programmare annualmente e triennalmente i restauri. Un passaggio burocratico indispensabile, che di solito avviene a luglio. E che non è avvenuto.

Ma i soldi, si sente lamentare in molti uffici, sono solo uno dei problemi. Senza soldi non si fa nulla, ma anche senza uomini. E le assunzioni sono un miraggio. Il concorso per dieci posti di soprintendente archeologo è bloccato da una messe di ricorsi. Nel frattempo le poltrone restano vacanti o coperte con reggenze. Inoltre si assiste a una carambola di spostamenti come in nessun´altra amministrazione pubblica e che porterebbe al collasso qualunque istituzione. Carla Di Francesco, architetto, era fino alla primavera scorsa Direttore regionale in Lombardia. Poi è passata alla guida della Darc, la Direzione generale architettura contemporanea che nel frattempo ha acquisito anche la tutela del paesaggio ma che, se andrà avanti la riorganizzazione promossa da Bondi, sparirà. Ora Carla Di Francesco regge la direzione regionale dell'Emilia Romagna. Francesco Scoppola si è alternato in sei diversi incarichi dalla fine del 2004 a oggi: da direttore nelle Marche, dove è stato allontanato per aver osato mettere un vincolo su tutto il pregiato promontorio del Cònero, è passato al Molise e ora è in Umbria. Molti trasferimenti sono decisi per punire funzionari troppo rigorosi. Alcuni vengono attuati in maniera improvvida, scatenando ricorsi amministrativi, sospensive del Tar e reintegri. Il tourbillon sembra ora una macchina impazzita, i tempi di permanenza a dirigere un ufficio sono, in molti casi, di pochi mesi e pare trascorsa un'era geologica dai tempi di Adriano La Regina, per ventisette anni soprintendente archeologico a Roma, o di Paolo Del Poggetto, soprintendente a Urbino per vent´anni.

La Lombardia ha cambiato tre direttori regionali in una manciata di mesi e l'ultima tornata di nomine ha catapultato a Milano Mario Turetta, che non è né architetto, né archeologo né storico dell'arte, ma ex segretario di Giuliano Urbani, da lui allocato in Piemonte, trasferito a Roma da Buttiglione, rimandato a Torino da Rutelli e ora, appunto, inviato a dirigere la struttura che dovrà fornire le autorizzazioni per l'Expo del 2015. E qui si tocca uno dei tasti più dolenti: quello della tutela di territorio e paesaggio incalzati dall'incessante procedere del cemento (3 milioni e mezzo di appartamenti costruiti negli ultimi dieci anni, in piena stagnazione demografica, un trend paragonabile, se non superiore, a quello del dopoguerra). Gli insediamenti invadono i litorali e le colline, sono spesso seconde case, ma anche stabilimenti industriali e centri commerciali. Le soprintendenze, con il nuovo Codice dei Beni culturali, avrebbero l'impegnativo compito di partecipare con le Regioni alla pianificazione del territorio: ma in queste condizioni, si sente dire dappertutto, è un compito improbo per soprintendenti sul cui capo pende la spada di Damocle di un trasferimento o che sono minacciati da richieste risarcitorie contenere la forza esercitata dall'industria del mattone. Al recente congresso di Italia Nostra, a Mantova, è venuto fuori che ormai si sono molto ridotti gli annullamenti di autorizzazioni a costruire in zone vincolate, a dispetto di chi continua a raffigurare le soprintendenze come delle conventicole di "signor no". Inoltre una circolare ha ammesso il ricorso gerarchico ai vertici del ministero contro un soprintendente solo nel caso in cui questi apponga un vincolo. Non per il contrario. Come a dire: chi tutela rischia, chi ama il quieto vivere no.

Per “rilanciare” i musei e i siti archeologici lo Stato assume un manager. Di indubbia esperienza. In banche, in società finanziarie, nella moda, finanche in McDonald’s Italia. Scarsissima per non dire nulla invece l’esperienza nel settore in cui sarà il consigliere del ministro dei Beni culturali Sandro Bondi. Il quale aveva preannunciato un concorso internazionale per esperti che si è guardato bene dal bandire.

Bondi ha scelto Mario Resca, 63 anni. Il suo identikit corrisponde esattamente al ritratto che temeva l’ex ministro, ex soprintendente e attuale direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci: un manager che si è laureato alla Bocconi quando lui auspicava uno storico dell’arte o un archeologo. Perché uno così ha per sua natura un’impostazione tutta economicistica. Se ad allenare la Nazionale di calcio mettessero qualcuno che non ha mai allenato una squadra voi cosa direste? Scoppierebbe una rivoluzione? Perché per i musei la regola non vale?

Annuncia Bondi: "Resca assumerà il ruolo di consigliere del ministro per le politiche museali, al fine di avviare la sua attività per il rilancio del settore museale nazionale".

Per fornirvi un ritratto, sintetizziamo quanto lanciano le agenzie di stampa. Che lo descrivono così: candidato nel 2003 alla direzione generale della Rai, indicato nel maggio di quest'anno come possibile amministratore delegato per Alitaia, ferrarese, Resca si è laureato in economia e commercio alla Bocconi di Milano (proprio quello che paventava Paolucci). Poi è entrato subito alla Chase Manhattan Bank, nel 1974 ha iniziato a dirigere la Biondi Finanziaria (gruppo Fiat). Poi, tra vari alti incarichi dirigenziali nel nostro paese e all’estero (Lancôme Italia, società del Gruppo Rcs Corriere della Sera e del Gruppo Versace), dal 1995 al 2007 è stato

presidente e amministratore delegato di McDonald's Italia. È consigliere indipendente dell'Eni dal maggio 2002. Ma la caratteristica principale è forse l'amicizia con Silvio Berlusconi. E nell’arte? Avrebbe collaborato con Sgarbi in una galleria di una nota località turistica alpina.

“Ha sicuramente un grande curriculum ma qualcuno avrebbe ragione a dire: che c'azzecca ?" , chiede ironicamente Gianfranco Cerasoli, segretario dei beni culturali della Uil citando Di Pietro. "Sono senza parole - commenta stupefatta Manuela Ghizzoni, della commissione Cultura della Camera per il Partito Democratico - Nulla da dire sulla competenza imprenditoriale dell'uomo di McDonald's Italia. Resta da chiedere a Bondi cosa c'entrino gli hamburger con lo straordinario patrimonio culturale italiano". Appunto. Il problema non è la persona. È il suo curriculum. O meglio: la politica culturale a cui pensano Bondi, e chissà, forse Tremonti.

Perché l'amministrazione Moratti sta facendo approvare in fretta e furia un documento che prevede alloggi per la bellezza di 700mila nuovi cittadini? Il Consiglio comunale di Milano sta discutendo un documento che

in una città civile, non dovrebbe neppure discutere nella forma attuale, per mancanza di credibilità e di serietà. Il documento si intitola «Approvazione della revisione del capitolo "X Regole" del documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali» ed è una specie di succedaneo al Piano di Governo del Territorio, un documento, questo, di grande importanza intorno al quale dovrebbe aprirsi un grande dibattito perché qui si intrecciano i principali temi strategici, urbanistici, ambientali, di qualità della vita della città. Nel timore di non riuscire ad approvare, entro i termini di legge, il complesso Piano di Governo del Territorio, l'assessore all'Urbanistica ha presentato urgentemente questo documento che dovrebbe fare da ponte con il Piano. Nel frattempo questo documento cerca di portare a casa alcune cose che interessano l'assessore e chi lo ispira. Il punto centrale è semplice. L'idea portante del documento è che il ristretto territorio del Comune di Milano dovrebbe ospitare 2 milioni di persone passando così da 1.3 milioni a 2 milioni con una crescita, dunque, di 700mila persone, in un tempo relativamente breve. Per intenderci: più degli abitanti dell'area metropolitana di Brescia, un numero pari al 60% dell'intera provincia di Brescia e pari al numero di profughi del Kosovo che si riversarono sull'Albania ai tempi della fuga dal genocidio del dittatore serbo. Queste 700mila persone sono quelle che si sono insediate nel tempo nel territorio metropolitano e che dovrebbero rientrare a Milano, i pendolari. Per ospitare tutti questi profughi l'indice di edificazione aumenta per intanto del 53% passando dallo 0,65% all'l%.

La mancanza di credibilità e di serietà è tutta radicata qui. Nessuna persona assennata può mai pensare ragionevole e credibile che 700mila cittadini che hanno radicato, attraverso un processo lungo e graduale, la loro vita e le loro famiglie nell'ambito della grande area metropolitana milanese, decidano di cambiare indirizzo, di vendere (a chi?) la casa che hanno costruito nella cittadina della cinta milanese che le

ospita per comprare un appartamentino a Milano; trasferire i figli dalla serena scuola vicino al Parco Nord Milano in qualche isterica scuola cittadina; rompere il delicato equilibrio del budget familiare pazientemente costruito anno dopo anno per farlo riesplodere con i maggiori costi cittadini; abbandonare il giardinetto nel quale i bambini hanno giocato guardando il Resegone, come una volta si poteva anche a Milano, per chiudersi in un appartamentino costruito da qualche cooperativa e di dimensioni tali da non poter più ospitare la nonna che era non solo tanto cara ma anche tanto utile.

Solo Ceaucescu potrebbe realizzare un mutamento epocale di questa portata. Ma poiché, per fortuna non c'è Ceaucescu, fermiamo, per tempo, questa idea folle e dannosa. Gli argomenti che si spacciano per sostenerla non sono credibili. L'edilizia sociale e per i giovani è necessaria a Milano ma con progetti specifici, su direttive adatte, con una visione strategica e non portando un indice generale di edificazione a livello folle per una città già supercementificata. Milano deve crescere ma deve crescere attraverso le sue attività qualificate e qualificanti e non piantando a piene mani, sul suo piccolo territorio, nuovo cemento. Dire poi che questo incredibile pasticcio sia ispirato dal desiderio di migliorare la qualità della vita milanese, è una presa per i fondelli. Dire infine che il Comune di Milano trarrebbe vantaggi economici da questa improbabile trasmigrazione è erroneo. Il Comune di Milano è avvantaggiato dalla situazione odierna che vede tanta gente attiva e solerte portare a Milano il dono del suo lavoro lasciando i costi della struttura urbana a carico del Comune di residenza. Dovendo provvedere alle scuole, ai trasporti, alla sanità per altri 700mila cittadini il bilancio del Comune di Milano ne risulterebbe scardinato.

La situazione è talmente chiara e ovvia che la maggior parte delle persone responsabili scrolla le spalle e dice:tanto è una bufala, non è realizzabile. È un atteggiamento logico ma non accettabile. Infatti questa è una bufala, ma non è una bufala neutra; distoglie dai temi veri. Sarebbe bello discutere della strategia della grande Milano, con l'impostazione di "Città di Città" che è stata oggetto di tanti approfonditi studi da parte del dipartimento competente del Politecnico e che è in linea con un grande filone di studi urbanistici europei; e studiare come migliorare la mobilità e i trasporti (come a Monaco) e come far crescere il senso di una comunità allargata, anche se decentrata (come Berlino). Sarebbe bello domandarsi, con serietà e serenità, cosa fare dei grandi progetti urbanistici avviati negli anni recenti e che sono ora tutti o quasi praticamente bloccati. Sarebbe bello realizzare, per davvero, un quartiere per gli universitari e altri giovani con un progetto ad hoc specifico e concreto, con alto indice edificativo e che abbellisca la città. Sarebbe bello incrociare e discutere le linee strategiche di fondo dello sviluppo della città e delle sue attività (università, fiere, sanità, moda, cultura), con gli indirizzi urbanistici, e tenendo conto di quella Expo 2015 che, andando avanti così, rischia di diventare la catastrofe finale per Milano. Sarebbe bello dibattere come riciclare a residenziale, magari sociale, gli scheletri vuoti del terziario. Sarebbe bello tutto ciò, ma sino a che sul tavolo si buttano queste bufale, che sono bombe ad orologeria, non c'è speranza e non c'è spazio.

Poiché le cose che ho detto sono troppo evidenti, ci si deve domandare: ma perché sostengono queste cose irrealizzabili prima ancora che sbagliate? Non lo so. Posso solo raccontare ciò che, in ambienti qualificati, si dice. Intanto le 700mila persone non verranno mai; l'indice 1 però resterà e gli amici degli amici qualcosa costruiranno. E chi se ne frega se il costruito resterà vuoto. Sarà problema di chi verrà dopo. Si dice anche che l'aumento dell'indice di edificabilità permetta agli immobiliaristi in difficoltà di rivalutare i loro terreni e aggiustare così i loro bilanci. Una specie del tentativo che si fece con la rivalutazione dei calciatori e le squadre di calcio qualche anno fa. Se non è vero è verosimile. Ci si domanda anche perché l'opposizione è così soft. A prescindere dal fatto che Milano è, da anni, abituata a un'opposizione evanescente di aspiranti a semplici maggiordomi di chi comanda e a raccoglierne le briciole sotto il tavolo, quello che si dice è che le cooperative di sinistra collegate al Pd abbiano anche loro qualche interesse in materia.

Perché le istituzioni che dovrebbero, in questi casi, far sentire la loro autorevole voce (le grandi università, gli ordini professionali, gli enti culturali, le grandi associazioni ambientaliste) se ne stanno zitti? Se non ora, quando?

Autorizzerà «il prestito» delle opere d´arte per le mostre. Dichiarerà se le esposizioni «sono di rilevante interesse scientifico». Assicurerà «l´incremento delle raccolte» statali «adottando i relativi provvedimenti di acquisizione». Sono solo alcune delle frecce che il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi ha infilato nella faretra della sua nuova creatura: il "Direttore generale per i musei, le gallerie e la valorizzazione".

roma - «Così nasce un super direttore che fagocita tutto e tutti», sono le critiche raccolte tra i corridoi del Collegio romano per la figura più importante della «rivoluzione» di Bondi, come il ministro ha definito lunedì scorso la sua proposta di modifica del dicastero ereditato dalle mani di Francesco Rutelli. Ed è proprio scucendo il Dpr del 21 novembre 2007 sulla riorganizzazione del ministero (unificazione delle soprintendenze, tagli nelle direzioni generali), che Bondi ha confezionato il vestito da dirigente per il manager che prenderà in consegna opere presenti e future delle 400 luoghi della cultura - musei, gallerie, siti archeologici, ville storiche - dello Stato. E che ha intenzione di scegliere al di fuori dei ranghi ministeriali, magari tra gli economisti della cultura, forse anche all´estero, passando però per un concorso pubblico.

«Ci viene presentata come una figura di coordinamento, ma la verità è che deve poter incidere. Ed avrà i poteri per farlo. Potrà dire: quei cinque quadri di Caravaggio vanno prestati per la mostra d´Oltreoceano, e non ci sarà santo né funzionario che potrà opporsi», racconta uno dei direttori (regionali e di settore) cui martedì il ministro Bondi ha illustrato a Roma il suo progetto. Che deve ancora prendere forma prima di volare. Ma intanto il ministro ha intenzione di spingere l´acceleratore sul modello del Louvre di Parigi, che ha affittato ad Abu Dhabi, al prezzo di 700 milioni di euro, il blasonato nome e alcune opere della raccolta statale. E la formula "rent-art" sembra ora una manna per le esangui e falcidiate casse dei Beni culturali.

Il testo (61 cartelle) della modifica voluta da Bondi veleggia verso l´approvazione del consiglio dei ministri del 28 novembre. Prevede anche la scomparsa di una direzione generale che contempli nel nome l´arte contemporanea (che il ministro non ha mai nascosto di «non capire»). Ed è stato inviato ai sindacati, ricevendo l´ok, ad esempio, di Gianfranco Cerasoli, segretario della Uil Beni culturali: «Così sarà possibile la valorizzazione dei musei, visto che tra i primi dieci tra i più visitati al mondo non ci sono gli italiani. Ma il direttore generale deve affiancarsi, non sovrastare, i regionali: la vera rivoluzione sono le strutture autonome sul territorio». Ma tra i funzionari ministeriali serpeggia lo spettro Cai-Alitalia: «È come creare una bad company, con dentro i reperti non musealizzati, come i magazzini di scavo, mentre la Direzione dei musei sfrutta i pezzi pregiati degli Uffizi, della Borghese, di palazzo Ducale e dei relativi, ricchissimi depositi».

L´articolo 8, al punto 1, precisa che la Direzione dei musei «svolge le funzioni e i compiti, non attribuiti alle direzioni regionali e ai soprintendenti ... relativi alla tutela e alla valorizzazione delle raccolte». Ma un manager (come Philippe de Montebello, che a dicembre lascia il Metropolitan di New York, o come Gianfranco Imperatori, segretario di Civita) che viene da fuori per mettere a reddito il patrimonio artistico, come può garantire la tutela di una tavola duecentesca o di un fragile vaso etrusco?

Sul piano economico, gli strumenti non mancheranno al super direttore ideato da Bondi. Esprimerà «la volontà dell´amministrazione nell´ambito delle determinazioni interministeriali concernenti il pagamento di imposte mediante cessione di cose, anche di arte contemporanea, o di beni destinati alle raccolte di musei, pinacoteche e gallerie». Quadri al posto delle tasse, uno scambio che in Italia non è andato mai a pieno regime.

Dopo i tre articoli del servizio de la Repubblica, i commenti di Vittorio Gregotti e di Luca Beltrami Gadola, e le due interviste di Gae Aulenti e Renzo Piano , pubblicate nei giorni precedenti, cui si fa cenno nei testi.

Berlusconi benedice il piano-case

più vicino l’ok del Consiglio

di Stefano Rossi

Il premier riceve ad Arcore Masseroli: "Andate avanti" - Fi si adegua al documento della giunta per alzare di un terzo l’edificabilità

Silvio Berlusconi si riconcilia con l’urbanistica milanese, dopo le polemiche della primavera scorsa sui grattacieli di Citylife. Il premier ha ricevuto ad Arcore l’assessore azzurro Carlo Masseroli, dimostrandosi molto interessato ai progetti della giunta relativi all’housing sociale. Ma è stato tutto il Pgt, il Piano di governo del territorio destinato a sostituire il Piano regolatore, a ricevere l’imprimatur del premier. Promossa dunque la volontà di incrementare la popolazione residente di 700.000 unità, promosso il consistente aumento delle case da costruire. «Anche se con Berlusconi - aggiunge Masseroli - non mi sono certo messo a parlare di indici di edificabilità».

L’ok di Berlusconi riguarda dunque due aspetti importanti della Milano futura. L’housing sociale (con la Fondazione Cariplo) degli 11 complessi di nuovi appartamenti da 70 metri quadrati (in tutto 3.380) in affitto a 500 euro al mese o in vendita a 1.800 euro al metro quadrato. E lo sviluppo della città da 2 milioni di abitanti, pianificato su aree a standard con vincolo decaduto (dunque dove non si è realizzato ciò per cui era stato messo il vincolo) lungo i percorsi delle metropolitane e delle circonvallazioni, cioè in aree infrastrutturate. Per Giulio Gallera, capogruppo Fi, è il segno che «tutta la politica urbanistica milanese funziona. Incrementeremo le volumetrie per rendere accessibili case a basso prezzo al ceto medio minacciato dalla crisi. Un esperimento pilota per il Paese».

Masseroli si è presentato ad Arcore in compagnia del commissario cittadino di Forza Italia, Luigi Casero. Un colloquio cordiale: «Berlusconi ha voluto sapere tutto». In particolare sull’housing sociale, appartamenti in vendita a prezzo convenzionato o in affitto a canone moderato, in quartieri con servizi e un mix sociale di abitanti, per evitare la formazione di ghetti. Case per chi guadagna troppo per chiedere l’alloggio popolare e troppo poco per i prezzi di mercato.

Forse al premier sarà venuta in mente la casa di via San Gimignano, zona Bande Nere, dove a lungo ha abitato sua madre Rosa, testimonianza dell’espansione della borghesia milanese in periferie non popolari. Lo scorso aprile, al contrario, le sue parole sul progetto Citylife erano state abrasive: «Grattacieli storti e sbilenchi, elaborati da architetti stranieri in totale contrasto con il contesto milanese e la sua tradizione urbanistica. Spero non sia questa l’idea moderna di Milano, altrimenti la protesta dei milanesi nascerà spontanea e giusta e io mi metterò alla sua testa». Masseroli aveva replicato secco: «Il progetto è eccezionale, internazionalmente riconosciuto fra i migliori al mondo e imprescindibile per la città. Non ci saranno ripensamenti».

Ieri è stata firmata la pace, nello stesso giorno in cui in aula veniva discusso il documento di inquadramento che detta le linee guida del futuro Pgt. Gli emendamenti sono più di cento. Uno del centrodestra ritocca del 50% (e non del 30 come previsto da Masseroli) i metri cubi edificabili ma dovrebbe venire ritirato. Bocciati dallo stesso assessore, invece, gli emendamenti del Pd a sostegno dell’affitto, denuncia il capogruppo Pierfrancesco Majorino.

«L’housing sociale - ricorda Majorino - è nato anche grazie al lavoro del nostro partito, come stimolo a politiche in grado di dare la casa a chi ne ha bisogno. Mi auguro che l’esempio di Milano possa illuminare un governo debole su questo terreno, purché Masseroli abbia taciuto a Berlusconi che gli interventi di housing sociale sono molto precedenti al documento di inquadramento oggi in aula, che in materia non prevede nulla».

Cielle, i costruttori e l’ex prefetto il "chi è chi" del partito del cemento

di Rodolfo Sala

La Moratti ha delegato il business del mattone al suo assessore ciellino. Lo stesso che disse: "Ligresti è una risorsa della città" - E Ferrante, ex candidato sindaco del centrosinistra, oggi consulente dell’imprenditore siciliano: "Troppi vincoli, vanno ripensati" - Da una parte la spinta verso l’housing sociale, dall’altra gli interessi forti dei grandi proprietari delle aree edificabili: i gruppi Ligresti, Cabassi, Pirelli

Meno vincoli agli operatori, più business e oplà, il mercato immobiliare a Milano torna a tirare. Anche in presenza della fortissima crisi che coinvolge tutti i settori dell’economia reale. Non è uno slogan, ma un programma, già enunciato dagli esponenti del "partito del mattone" sempre più insofferente alle regole urbanistiche e che chiede di voltar pagina in vista dell’appuntamento del 2015. Settecentomila abitanti in più nella città dell’Expo, indice di edificabilità da portare dall’attuale 0,65 a 1, il progressivo abbandono di un’urbanistica considerata finora troppo vincolata, un addio in grande stile agli standard. Carlo Masseroli, assessore comunale alla partita, lo ha detto in modo chiaro: «Le regole e i vincoli non fanno una città migliore, Milano ha bisogno di maggiore flessibilità».

Di questo partito il forzista ciellino Masseroli è senz’altro un esponente di primo piano. Anzi, considerati i rapporti abbastanza tiepidi intrattenuti finora dal sindaco con il mondo dei costruttori (almeno fino a quando si era presentata all’assemblea di Assimpredil di quest’estate promettendo ai costruttori che l’Expo li avrebbe arricchiti), si potrebbe dire che Letizia Moratti abbia deciso di appaltare a lui e ai suoi amici tutta la partita dello sviluppo urbanistico. I grandi operatori del settore gradiscono parecchio il nuovo corso. A cominciare dal gruppo Ligresti, dominus pressoché incontrastato della Milano che verrà perché titolare di aree edificabili strategiche: Nuova Fiera, Citylife, Garibaldi-Repubblica, l’area Sud attorno al Cerba di via Ripamonti. Ma ci sono anche i Cabassi (Fiera) e il gruppo Pirelli, che dopo lo sbarco alla Bicocca si starebbe riposizionando sul mercato dell’housing sociale. E ha già una tessera onoraria del partito del mattone un imprenditore come Claudio De Albertis, leader lombardo di Assimpredil, l’associazione dei costruttori. Secondo voci insistenti che rimbalzano a Palazzo Marino, De Albertis avrebbe concordato con Masseroli le linee del documento urbanistico con cui si vogliono ritoccare all’insù le soglie di edificabilità.

Una novità che non fa scandalo neppure tra le fila dell’opposizione. Intenzionata però, con diverse gradazioni, a dare battaglia su un punto considerato irrinunciabile: va bene dare agli operatori la possibilità di costruire di più, in deroga alle vecchie norme, purché a trarne beneficio sia la parte più debole della popolazione. Basilio Rizzo lo dice così: «Occorre rilanciare l’edilizia convenzionata e il mercato degli affitti; e per raggiungere questo obiettivo occorrono più vincoli, alla faccia del rifiuto della logica dirigistica teorizzato da Masseroli». «Sarebbe utile un ripensamento dei vincoli eccessivi - aggiunge Bruno Ferrante, già prefetto e candidato sindaco del centrosinistra, oggi lavora per il gruppo Ligresti - che hanno permesso di ostacolare progetti come quello del Cerba; la città è piccola e per il suo sviluppo bisogna guardare anche al di fuori della cinta daziaria». E nel Pd c’è chi, come la consigliera Carmela Rozza, invoca «uno scambio chiaro tra il Comune e i costruttori, a cui va dato il premio delle nuove volumetrie solo se verrà utilizzato per costruire case a prezzi calmierati e in affitto; se così fosse, anche noi andremmo a far parte del partito del mattone».

Se così fosse. L’esperienza insegna che occorre andare con i piedi di piombo, che le speranze di uno sviluppo immobiliare a vantaggio di tutti non possono poggiare su basi solide. Non è stato così negli anni Ottanta, durante la stagione dell’edilizia contrattata che ha finito solo per favorire la speculazione e, spesso, il traffico delle mazzette. E neppure nel passato più recente la musica è stata questa. Lo ha ammesso, e senza tanti giri di parole, lo stesso Masseroli presentando nel giugno scorso in consiglio comunale la delibera "Ricostruire la grande Milano" (fu allora che l’assessore definì Ligresti «una grande risorsa per la città»). Il documento racconta, nero su bianco, anche la storia del fallimento registrato negli ultimi nove anni: 23.700 nuovi alloggi e 38mila residenti in più a Milano, ma di pari passo non c’è stata «una risposta adeguata al fabbisogno abitativo espresso dalla città per i redditi medio-bassi». Di più. Tra il 2000 e il 2008, con le regole vigenti, delle 147 proposte di programma integrato (ppi) presentate, per un totale di quasi sette milioni di metri quadrati, solo 84 sono diventate definitive. Altre 30 il Comune le ha ritenute inammissibili, e 21 sono state ritirate dagli operatori privati. Uno dei motivi individuati dall’assessore è la «decisione (di questi operatori) di verificare l’interesse per le nuove regole in corso di predisposizione», vale a dire l’aumento degli indici di edificabilità. E tra le proposte non realizzate ci sono i quasi due milioni di metri quadrati del piano Ticinello ? Vaiano Valle, in zona Sud. Dove domina Ligresti.

Insomma, le "nuove regole" potrebbero sbloccare progetti fermi, c’è solo da chiedersi a vantaggio di chi, dal momento che la stragrande maggioranza dei progetti approvati si riferisce alla fascia medio-alta del mercato immobiliare, e ignora quasi del tutto l’edilizia convenzionata e calmierata. Certo, c’è chi preme - lo stanno facendo insieme la Lega delle Cooperative e la Compagnia delle opere, che per questo hanno costituito la Fondazione Abitare - per il rilancio dell’housing sociale, considerandolo conveniente anche per gli operatori perché il segmento alto del mercato è saturo e per di più indebolito nei suoi valori immobiliari molto di più rispetto a quello basso. Sta di fatto che a metà dicembre, per il bando con cui il Comune mette a gara otto aree per l’housing sociale, le adesioni sono ancora ridotte al lumicino.

"È un’occasione d’oro non lasciamola ai privati"

Teresa Monestiroli

Davide Corritore, consigliere comunale del Partito Democratico, in questa battaglia sul cemento da che parte sta?

«La questione non è cemento sì o cemento no, il problema è che Milano deve riuscire a dare una casa a chi oggi non può permettersela. Su questo provvedimento urbanistico la nostra battaglia è prima di tutto quella di garantire ai cittadini la possibilità di housing sociale. Oggi a Milano il prezzo medio di un appartamento è di 4.400 euro a metro quadrato e tutti i nuovi progetti edilizi sono ben più cari. Con la crisi economica che stiamo vivendo anche la classe media inizia a far fatica a sopportare questi costi».

Quindi non dite no a priori all’aumento dell’indice di edificabilità proposto dalla giunta?

«Il problema, ripeto, è soddisfare i bisogni della città. Se per farlo ci vuole il cemento allora che cemento sia, ma con solide garanzie come quella dei servizi. Invece si parla poco di quello che c’è intorno al cemento. Non vogliamo un secondo caso Santa Giulia dove si costruisce senza pensare alle scuole, ai servizi sociali, agli ambulatori».

Per l’assessore Masseroli «i vincoli non fanno migliore una città, ci vuole più flessibilità».

«La flessibilità ha portato alla situazione attuale. Non siamo sostenitori dei piani quinquennali ma delle garanzie per la comunità. Un piano di governo del territorio deve dare anche una garanzia sulle scuole, gli spazi pubblici, i trasporti, il verde. Tutto questo non può essere affidato alla programmazione dei privati ma deve far parte di un piano pubblico di sviluppo del territorio. Invece veniamo da anni di gestione del territorio asservita alla volontà e agli interessi dei privati che hanno sempre deciso dove costruire e con quali priorità. È arrivato il momento di aprire una nuova fase».

Il nuovo documento urbanistico punta ad aumentare il numero dei cittadini di 700mila unità. La Lega è insorta, sostiene che Milano è già arrivata al collasso. Lei che cosa ne pensa?

«L’unico dato certo che abbiamo per ora è quello dell’ufficio statistico secondo il quale la popolazione nei prossimi decenni non crescerà. Mi chiedo come la giunta pensi di crescere addirittura di 700mila i residenti».

L’Expo potrebbe essere un’occasione.

«E lo è, ma il problema è che manca una strategia che indichi qual è la Milano che vogliamo in futuro. Abitata da chi? Prima di tutto bisognerebbe rispondere a questa domanda e poi costruire una strategia conseguente per invertire un ciclo che negli ultimi trent’anni ha fatto scendere la popolazione del 30 per cento. Personalmente ritengo si debba puntare sui giovani, i neolaureati, cercando di trattenerli in città, proprio in vista dell’Expo che porterà a Milano 7000 eventi nei prossimi anni».

UN AIUTO A BANCHE E IMMOBILIARISTI

di Luca Beltrami Gadola

Per attirare nuovi cittadini servirebbero 300mila posti di lavoro ben remunerati. Poco credibile, con la crisi

Per arrivare al milione e 700mila dei primi anni 70 ci vollero 34 anni, una guerra di mezzo, la ricostruzione, il boom economico, una massiccia e inarrestabile immigrazione dal Sud: tempi tanto diversi da oggi ma con una carica propulsiva formidabile. Di quel periodo però i guasti alla città li vediamo anche oggi. Pensare che nei prossimi sette anni si faccia altrettanto è inimmaginabile. Tanto ne avremmo a metterci l’animo in pace. Ma non possiamo permettercelo perché lo strumento proposto, quello in grado di produrre tanto cambiamento ? l’aumento del 53% della capacità edificatoria delle aree di Milano ? è la vera questione e ha poco a che fare con l’aumento della popolazione.

Quest’idea dei due milioni di residenti, riportando in città i pendolari, non è nuova e venne fuori sostenendo in primo luogo che l’obiettivo era migliorare la qualità della vita dei milanesi principalmente perché l’incremento di popolazione avrebbe arricchito le finanze del Comune permettendo investimenti più consistenti nei servizi alla città. Niente di meno vero, come suggeriscono gli studi del professor Gian Maria Bernareggi della Statale. Milano al contrario si arricchisce del lavoro di chi arriva da fuori città. Ma ammettiamo che questa sia una mera opinione: da dove dovrebbero venire i 700mila nuovi residenti? Radicare a Milano i pendolari? Chi è andato via o abita fuori Milano ha una casa e per tornare in città deve venderla, ma a chi? Se non gli riesce non si sposta. Oggi il mercato immobiliare dell’hinterland è drammatico. In provincia di Milano non c’è crescita di popolazione e non si generano nuovi posti di lavoro, anzi se ne perdono e la domanda di residenza è stagnante. Quindi niente pendolari come nuovi residenti, ma solo arrivi da lontano. Milano, demograficamente stabile, da sempre ha visto aumentare la sua popolazione solo per apporti esterni e se volessimo raggiungere i 700mila nuovi immigrati dovremmo affidarci all’immigrazione, un’immigrazione "ricca" come la vorrebbero i nostri amministratori. Non ci sarà, perché per attrarla servirebbero almeno 300mila nuovi posti di lavoro ben remunerati. Credibile con l’aria che tira? Da qui al 2015?

Rimangono i giovani e le giovani coppie, ma già risiedono a Milano. La domanda pregressa? Già tutti residenti. Si dice che quest’aumento dell’edificabilità darà la possibilità all’amministrazione di chiedere in cambio agli operatori appartamenti a costo contenuto in vendita o ad affitto calmierato. Ammettiamo, per ipotesi, che un terzo della nuova edificazione abbia questo destino: per aiutarne uno che non ce la fa, due dovrebbero permettersi una casa a prezzi di mercato ma di quei due non c’è traccia né oggi né a breve. Non funziona. Allora perché voler aumentare l’edificabilità? Perché si vuole dare una mano agli operatori immobiliari ed alle banche che li hanno foraggiati: l’aumento di edificabilità, anche se non realizzata, avrà per loro molti effetti benefici. Farà aumentare i valori di bilancio delle aree possedute ? rinviando mali di pancia ? o, in alternativa, consentirà loro di diluire i costi delle aree stesse e ridurne l’incidenza sul costruito e permettere minori prezzi di vendita per catturare meglio il poco mercato superstite: un bel regalo.

Quanto alle case a prezzi moderati e gli affitti abbordabili frutto di "convenzioni" con i privati lasciamo perdere, in passato troppe convenzioni furono solo carta straccia: gli esempi molti, pochi gli operatori ma sempre gli stessi.

GODONO GLI SPECULATORI

di Vittorio Gregotti

La cultura architettonica europea sostiene da sempre soluzioni agli antipodi della deregulation

A meno di ricorrere alla deportazione forzata o di mettere a disposizione dei cittadini alloggi a bassissimo costo mi sembra del tutto astratto pensare a un aumento così notevole e improvviso della popolazione del Comune. Dall’aumento della densità edilizia gli unici a godere sarebbero gli speculatori immobiliari mentre la città ne risulterebbe definitivamente disastrata. Di conseguenza, anche per quanto riguarda il 2015 trovo sarebbe consigliabile, data la crisi di denaro e di idee, limitare il proprio impegno alla risposta più stretta possibile degli impegni presi intorno al tema centrale provvedendo al miglioramento del trasporto e all’ospitalità necessaria che certo non riverserà su Milano folle incontenibili di visitatori; e provvedere magari alle necessità già oggi esistenti di alloggi a basso costo.

Sulla pagina di fronte Repubblica pubblicava un’intervista a Renzo Piano, che i successi americani hanno reso particolarmente autorevole in Italia. Le sue opinioni (sia pure espresse con prudenza) sembrano condurre a conclusioni opposte a quelle dell’assessore all’Urbanistica, abbracciando le tesi che la parte ragionevole della cultura architettonica europea sostiene da una trentina d’anni: opposizione all’ideologia della deregolazione, al consumo indiscriminato di territorio della città infinita, ricostruzione critica della città europea all’interno dei suoi limiti consolidati con una politica di utilizzazione delle aree dismesse, incentivazione del trasporto pubblico, resistenza allo svuotamento dei centri storici dalle abitazioni, mantenimento delle mescolanze sociali e della multifunzionalità compatibile, politiche ambientali non orientate a mettere solo gerani sui balconi. Si tratta di due posizioni opposte a proposito delle quali la cultura della città di Milano dovrebbe essere chiamata ad aprire (al di là dei colpi di mano delle maggioranze politiche) una discussione aperta nell’interesse collettivo. Senza mitologie e senza eccessivi compromessi, con passione, buonsenso e fiducia in un futuro meno radicalmente economicista nella costituzione dei valori da perseguire.

Molte cose assai giuste sono state aggiunte ieri da Gae Aulenti nella sua intervista: posso solo dire di essere d’accordo con lei.

10 novembre 2008

Due milioni di abitanti a Milano?

Gae Aulenti: "Ecco perché dico no"

di Maurizio Bono

"Senta, l’intervista posso cominciarla facendo io una domanda, agli amministratori di Milano? È una cosa che mi chiedo da quando ho letto che puntano a riportare la città a due milioni di abitanti: ma hanno dietro una serie studi, un’analisi di previsione, uno scenario che faccia pensare a una tendenza espansiva di Milano, con la crisi che c’è e con la disoccupazione che è facile prevedere almeno per il 2009? Perché se così non fosse, le cifre che si fanno circolare lasciano perplessi. Anzi, mi sembrano francamente campate in aria". Gae Aulenti, architetto di lungo corso che ha legato la propria carriera a celebri allestimenti di interni (dalla Gare d’O rsay a Parigi a Palazzo Grassi a Venezia) ma anche a interventi sul tessuto urbano come il piazzale della stazione Cadorna, è a dir poco critica sull’idea di riportare 700mila pendolari dall’h interland alla cerchia urbana: "Basta pensare alle ragioni per cui sono scappati, che sono i costi eccessivi delle case in città o la loro mancanza. Un prezzo che pagano dormendo troppo poco per venire tutti i giorni a lavorare a Milano. Ma sembra difficile immaginare che lasciando fare al mercato si possa indurli davvero a ritornare".

Però un buon motivo per farlo ci sarebbe, no? Meno pendolarismo, meno traffico, meno consumo del suolo...

"Certo, è tutto vero. Però con le intenzioni, da sole, non si governa. E allora bisognerebbe pianificare seriamente come riuscirci. Alzando gli indici di edificabilità, al contrario, si finirà solo per replicare la disastrosa esperienza della liberalizzazione dei sottotetti, che hanno prodotto più traffico senza risolvere nulla".

Un’idea che sembra ampiamente condivisa è evitare che l’e spansione urbanistica dilaghi ulteriormente all’esterno della metropoli.

"La condivido in pieno anch’io, sono perfettamente d’a ccordo con Renzo Piano che parla di tirare una linea verde intorno all’area urbana, e con progetti come il Metrobosco, a cui ha lavorato anche Stefano Boeri, per disegnare una cintura di campi e boschi invalicabile per i nuovi cantieri. Con le previsioni di crisi per lo meno per tutto il prossimo anno, comunque, sarebbe difficile pensare altrimenti. La realtà ben nota è che anche alcuni dei grandi progetti in corso rallentano, quando non si bloccano per mancanza di fondi come Santa Giulia". Resta il fatto che buona parte dei nuovi quartieri e grattacieli sono per uffici, mentre si calcola che servirebbero 40 o 50mila nuovi alloggi a costo sostenibile.

"Infatti sono anche favorevole all’ipotesi ventilata da Boeri l’altro giorno nell’intervista a Repubblica, di riconvertire in residenza parte degli spazi commerciali e per il terziario che di questo passo sono destinati a restare sfitti".

Anche il quel caso, non sarà comunque un problema di costo? Costruendoli, le imprese non pensavano certo a canoni sociali...

"Badi che già tenere vuoto un ufficio è un costo piuttosto alto, e se si trattasse di ridurre un danno già in atto, qualche intervento di intelligente politica sociale potrebbe rendere quella via praticabile".

Pensa al ritorno alla destinazione residenziale di tanti palazzi nobili del centro diventati uffici, o anche alle nuove costruzioni?

"Direi proprio ai tanti brutti grattacieli semivuoti che si vedono verso le periferie. Ma naturalmente bisogna anche proseguire a chiudere i tanti piccoli "buchi" nel tessuto urbano lasciati da una programmazione carente. L’importante è farlo stabilendo regole certe, durevoli e uguali per tutti. Per questo non mi convince affatto l’idea di un aumento generalizzato degli indici di edificabilità: ma perché, per donarli a chi, per farci che cosa? Prima bisognerebbe perlomeno fare un’idagine seria per stabilire quanti metri cubi servono davvero alla città. Viene davvero nostalgia dei piani Ina casa degli anni Cinquanta o, per restare a Milano, del progetto QT8".

A proposito, lei come giudica la qualità architettonica degli interventi più recenti in città?

"Ci sono molte brutture, ma Milano è anche la città della Torre Velasca, del Pirellone, della Triennale di Muzio, e poi alcuni begli edifici della Bicocca di Gregotti e di quello di Piano in via Monte Rosa".

E i nuovi grattacieli?

"Non tutti saranno belli. Ma se si parla di Citylife, lì il problema è un altro, è il quartiere che è sbagliato. Cala dall’a lto, è poco legato al tessuto circostante, rischia di essere come la vecchia Fiera: un recinto con degli edifici dentro, non un pezzo di città".

07 novembre 2008

Renzo Piano, l'appello alla città

"Smettetela di diffondere il brutto"

di Franco Manzitti

«Ah la mia vecchia e cara Milano, come è cambiata. La considero la mia città, io che sono nato a Genova, ma che professionalmente sono cresciuto qui quando avevo tra i venti e i trent´anni, prima al Politecnico e poi quando ho imparato il mestiere con un maestro come Franco Albini... ». Renzo Piano storce la bocca quando lo chiami archistar o quando cerchi di trascinarlo dentro una polemica magari su Milano, la sua vertiginosa espansione, i suoi progetti-marchio dell´Expo, di Citylife, il piano comunale di crescere fino a 2 milioni di abitanti, ma poi non si trattiene.

Non attacca direttamente gli amministratori cittadini e la politica espansionistica: «Non voglio criticare la Moratti, ma fare un discorso più in generale sulla fine della qualità diffusa che in Italia ha permesso di costruire belle città e che ora manca - dice dalla tolda del suo super-ufficio nella periferia estrema genovese di Vesima, sospeso sul mare a forza nove di questo autunno di tempeste perfette -Dove è finita a Milano quella spinta fervida degli anni Sessanta-Settanta, quella combinazione magica tra sindaci, mecenati, architetti, finanziatori, dove c´era la grande capacità di ascoltare, di inventare? Cosa è successo dopo e ora cosa sta succedendo?».

Il suo progetto per Citylife fermato, quello del parco a Ponte Lambro, ignorato a fine anni Novanta malgrado il timbro dell´Unesco, la diversa visione sull´Expo 2015 in difficile gestazione? Piano va avanti viaggiando tra un continente e l´altro, tra un progetto e l´altro, tra una polemica e l´altra, tra un sindaco Alemanno a Roma, che mette i diktat sull´Eur, e il sindaco Moratti, che innesca il boom milanese, preferendo il cemento di Ligresti. Ma la sua provocazione di archistar è ben più larga e universale e riguarda il come stanno sfigurandosi le città nel mondo, la cultura fasulla della loro espansione, gli sprofondamenti nel trash e nel brutto diffuso. «Noi europei abbiamo per fortuna la chiave culturale per salvare le città che crescono: è il recupero attraverso la stratificazione. Non si abbatte a picconate la periferia brutta per rifarla peggio e disincagliata da ogni contesto di vita, ma si integra, si costruisce sopra, salvando la storia».

Insomma, basta con il consumo scellerato di territorio?

«Anche in Australia e in America incominciano a chiedermi di compiere questa operazione, ora che hanno un paio di secoli di storia urbanistica alle spalle. Trent´anni fa intellettuali fini dell´ambientalismo come Mario Fazio ci suggerivano di recuperare i centri storici. Sfida raccolta e vinta. Oggi dobbiamo salvare le periferie. Dalle banlieue parigine, alle favelas del terzo mondo, ai nostri quartieri dormitorio sulle colline di Genova, come nei sobborghi romani».

E a Milano, con tutti questi progetti, quell´operazione culturale come si realizza, dove si stratifica?

«Bisogna smettere di costruire, di diffondere il brutto per poi chiamarlo trash. Finisce che poi il trash urbanistico passa quasi per bello, basta che ogni tanto ci si metta in mezzo quella che gli inglesi chiamano perfidamente l´aringa rossa, magari un bel grattacielo svettante sul quartiere spazzatura. Anche Milano non deve esplodere con nuovi quartieri selvaggi, ma implodere su quanto già c´è. Le periferie sono brutte, senza qualità diffusa, perché non ci hanno costruito le condizioni della vera vita vissuta, che non si crea solo con case e negozi. Ci vuole tutto il resto, a incominciare dal verde, dalle scuole, dagli impianti sportivi, dalle librerie, dai giardini».

Ciò significa che bisogna rinunciare al concetto di città diffusa e pianificare dei margini artificiali?

«Va tracciata quella linea verde oltre la quale non si deve costruire più, e si badi bene che all´interno la ricostruzione stratificata è più che possibile ovunque: fabbriche dismesse, parchi ferroviari abbandonati, zone residenziali perdute nel degrado, quartieri fatiscenti. A Sud di Milano ci sono grandi spazi appetibili, così come nella zona di Rho-Pero, penso anche a viale Forlanini ad Est, dove immaginavamo tanti anni fa il parco urbano di Ponte Lambro, proprio mentre stavamo ricostruendo Sarajevo, città martire, con lo stesso criterio promosso dall´Unesco».

Ma lei ha un´idea di dove può essere tracciata questa linea verde?

«Sono i sindaci e gli amministratori che devono stabilirlo e non vorrei gettare la croce addosso solo a loro. Si immagina che quella linea sia sovrapponibile alle tangenziali, dove ci sono. Ma quella linea non basta se non si risolve il problema del trasporto urbano. Come si fa a progettare solo posteggi dappertutto?».

Ma le macchine sono sempre di più. Dove le mettiamo?

«A Londra con l´ex sindaco Ken Livingstone abbiamo progettato quella grande torre nel centro e sa quanti posteggi sono stati previsti? 42. A New York con il sindaco Bloomberg stiamo trattando operazioni urbanistiche a Manhattan a posteggi zero. Altro che i 10mila posti macchina di Citylife. Il concetto è disincentivare l´uso dell´automobile. Se non fai altro che costruire posteggi ingigantisci il traffico e continui a proporlo nel centro delle città. Io a Parigi abito in centro e non ho la macchina, sono ultra servito dai mezzi pubblici».

Torniamo a Milano: perché lei sente questa grande delusione?

«Perché mi ricordo com´era quando, da giovane architetto, ci sono arrivato al seguito di Franco Albini, il maestro della Zero Gravity, l´architettura come leggerezza, insieme a Marco Zanuso alla scoperta di nuovi materiali, di nuove forme. Avevamo il terreno favorevole per esplorare, ascoltare, confrontare. C´era un circolo virtuoso che garantiva la qualità diffusa. Mi ricordo i dibattiti con Ermanno Olmi per progettare Ponte Lambro».

E ora che le occasioni di costruire sono addirittura imponenti: basta pensare alle possibilità di Expo 2015?

«Se lei mi chiede se sono Exposcettico o Expoentusiasta le rispondo che sono entusiasta. Sgombro il campo dall´equivoco nato qualche tempo fa, quando fui classificato sulla linea di Adriano Celentano, che era contrario. Sono prudente. Non vorrei che l´Expo diventasse una colossale operazione immobiliare e stop. Ho già un´esperienza in materia, quella delle Colombiadi, l´Expo genovese del 1992 per i 500 anni della scoperta dell´America. Lì abbiamo recuperato l´esistente e costruito un quartiere nel cuore della città, nel porto storico, che rimane un segno forte e lo abbiamo fatto con equilibrio ambientale e economico. Ricordo quello che mi raccomandava, in stretto dialetto genovese, il sindaco di allora, Fulvio Cerofolini: "Mia Piano, qui nun se straggia ninte ("Guarda Piano, che qui non si può sprecare niente"). Non abbiamo sprecato niente, abbiamo costruito su quel che c´era».

Ma alla fine non è molto più stimolante creare dal nulla, costruire a perdita d´occhio senza avere vincoli di spazi, di storia, di cultura?

«È vero il contrario. La sfida dell´architetto è proprio quella di andarsi a cercare i vincoli, i condizionamenti, gli obblighi dell´esistente. Noi italiani abbiamo più degli altri questa capacità che io considero la vera sfida da esercitare quando ci viene proposto un nuovo lavoro».

Tutto questo non può essere travolto da una cultura diversa più globale, che tiene conto dell´immigrazione, di una nuova società multietnica, già ospitata dalle città?

«Siamo sempre stati meticci e non solo a Genova e Venezia, città porto. Perché nei nostri quadri, nei nostri affreschi compaiono spesso i mori, i personaggi di colore ambientati nelle diverse epoche? Perché questa è la nostra storia».

Può sembrare anacronistico occuparsi di tutela dei beni culturali e del paesaggio mentre infuria una tempesta economica senza precedenti che diffonde incertezza, paura e sfiducia e chiede risposte urgenti ed efficaci. Eppure non si tratta d’un tema peregrino, tantomeno d’un pretesto per parlar d’altro evadendo quelli che più ci riguardano. Si tratta invece d’un tema estremamente pertinente. Viviamo giorni e mesi di decisioni radicali che da un lato tendono a mettere in atto misure di tamponamento che garantiscano nell’immediato i depositi bancari, il patrimonio di banche e di imprese, il sostegno della domanda e dei redditi più deboli. Ma dall’altro configurino nuovi assetti e nuovi equilibri nei meccanismi di produzione e di distribuzione della ricchezza. Configurino anche una società diversa da quella attuale, una maggiore trasparenza e più incisivi controlli per bilanciare il necessario rafforzarsi dei poteri rispetto ai diritti.

In questo profondo rimescolio esiste il pericolo che la cultura, cui si continua a tributare omaggio di parole, costituisca nei fatti l’anello debole e addirittura la vittima sacrificale. Cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio, sono infatti considerati come altrettanti elementi opzionali dei quali si può tranquillamente fare a meno. I tagli di spesa più cocenti sono avvenuti proprio in questi settori non soltanto per eliminare sprechi ma per recuperare risorse dirottandole verso altre destinazioni. Non si è considerato che non si tratta di spese ma di investimenti che, proprio per la loro natura, non possono essere interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi.

La totalità di questi beni, la loro salvaguardia e la loro valorizzazione, hanno tra l’altro effetti diretti sull’economia del Paese poiché sono connessi all’industria del turismo che rappresenta una delle maggiori risorse del nostro territorio. Il turismo, dal punto di vista della bilancia commerciale, equivale all’esportazione di beni e servizi, procura entrate di valuta nelle casse dell’erario, con una differenza: non escono merci e servizi dal territorio nazionale ma entrano persone e con esse ricchezza e sostegno della domanda interna. Una flessione del turismo comporta una flessione immediata della domanda e della ricchezza prodotta.

Fino a poco tempo fa l’alto livello dell’euro in termini di dollari scoraggiava il turismo internazionale verso l’Europa, ma è proprio qui che entrava in gioco la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici di ciascuno dei Paesi europei con spiccata vocazione turistica. Abbiamo assistito negli anni di più elevato tasso di cambio dell’euro al decadimento del turismo diretto verso l’Italia a vantaggio di quello canalizzato verso la Spagna, la Francia, la Grecia: stessa moneta, quindi stesse difficoltà per i portatori di un dollaro debole rispetto all’euro, ma diversa attrattiva dovuta alla migliore valorizzazione del paesaggio, del territorio, dei beni culturali che lo animano.

Ora il cambio euro-dollaro è tornato a livelli meno penalizzanti per il turismo europeo, anche se la crisi economica internazionale ha provocato una diminuzione del movimento turistico complessivo. Proprio a causa di questa flessione congiunturale la concorrenza è diventata ancor più severa ed è quindi tanto più necessario investire sulla cultura in tutte le sue articolazioni. Ma questo non avviene, anzi sta avvenendo il contrario. Ho già accennato al problema d’una mentalità che considera i consumi culturale come un fatto opzionale. Si tratta d’una mentalità economicamente distorta che va denunciata e combattuta

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La condizione in cui versano ormai da anni le nostre Sovrintendenze preposte alla tutela dei beni paesaggistici e culturali è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. Il ministro competente promette di colmare almeno i vuoti più drammatici e cerca soldi che compensino i pesanti tagli effettuati dalla Finanziaria triennale varata fin dallo scorso luglio. Li cerca ma finora non li ha trovati e dubito molto che possa riuscirvi nel prossimo futuro.

Il guaio è che, risorse finanziarie a parte, il ministro tergiversa anche a compiere alcuni adempimenti che non comportano spese ma che sarebbero necessari per chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio da almeno trent’anni in qua, disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la visibilità e la pubblica fruizione.

Questi abusi sono il frutto di inefficienza delle istituzioni di controllo, di scarsissima sensibilità nella pubblica opinione, dell’indifferenza dei «media» e, soprattutto, di una normativa che ha disperso i poteri di controllo tra tre diversi ministeri (Beni culturali, Ambiente, Lavori pubblici) e tre diversi livelli istituzionali: Stato, Regioni, Comuni.

Aggiungete a questa dispersione dei poteri di controllo e di programmazione la scarsità delle risorse e capirete le dimensioni di un disastro che ha mostrificato l’ambiente e si prepara a peggiorarlo ulteriormente con l’avvento di un federalismo che disperderà fino al limite estremo competenze e saperi.

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Il più attento conoscitore del disastro culturale e ambientale italiano è Salvatore Settis, che lotta da decenni per la tutela e la valorizzazione dell’immenso e negletto patrimonio che il Paese possiede e trascuratamente dilapida.

E’ sua la definizione dell’unicità concettuale e pratica di questa nostra ricchezza, della sua manutenzione, della sua fruizione pubblica, di ciò che potrebbe e dovrebbe essere e invece non è. La definizione è questa: Esiste un «territorio» senza paesaggio e senza ambiente? Esiste un «ambiente» senza territorio e senza paesaggio? Esiste un «paesaggio» senza territorio e senza ambiente?».

Da questo triplice interrogativo, retorico perché presuppone una risposta negativa alle tre domande, nasce l’esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo tra i vari enti istituzionali che sia depositario d’una visione generale, che viene inevitabilmente persa di vista man mano che si discende nei livelli locali, la Regione e ancora di più il Comune.

Purtroppo la situazione attuale ha già attribuito gran parte delle competenze alle Regioni consentendo ad esse di delegare ai Comuni una parte rilevante delle competenze e dei poteri propri. Le Sovrintendenze sono state in larga misura svuotate dei loro poteri di controllo e totalmente dei loro poteri di valorizzazione. La pianificazione urbanistica da tempo ha preso il sopravvento su quella paesaggistica e ambientale; a loro volta gli interessi propriamente edilizi hanno stravolto la pianificazione urbanistica; in tali condizioni anche la collusione, la corruzione e il lassismo sono stati oggettivamente incoraggiati.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il disastro ambientale, paesaggistico, urbanistico che ha deturpato il paesaggio, l’ambiente e il territorio.

Il federalismo, in mancanza d’una normativa chiara e netta che si richiami all’articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») e alla giurisprudenza costituzionale che ne è seguita, porterà inevitabilmente questo triplice scempio se l’opinione pubblica non ne farà un obiettivo prioritario del proprio impegno

Il documento d'indirizzo che sta per andare al vaglio del Consiglio comunale, dietro l'apparenza di obiettivi condivisibili come la disponibilità di alloggi per chi non può permettersi gli attuali prezzi folli, nasconde una visione vecchia e pericolosa.

Una ricetta, quella preparata dalla giunta comunale di Letizia Moratti, che, ben prima di dare una risposta al bisogno di case a buon mercato rischia di aggravare e rendere inguaribili i problemi più gravi della città: dal traffico, all'inquinamento, all'insufficienza del verde e delle infrastrutture.

Cominciamo dalla coda, ovvero dall'obiettivo di portare a 2 milioni la popolazione residente in città, con un aumento di 700mila nuovi abitanti in sei anni. Ha senso una simile prospettiva? No, non lo ha. Milano è un comune piccolo, con un consumo del suolo ben oltre la capacità di rigenerazione, parchi insufficienti e una struttura radiale che, già ora, è soffocata per la quantità di funzioni pregiate e direzionali addensate nei suoi confini. Funzioni che richiamano, ogni giorno, centinaia di migliaia di pendolari dall'hinterland, dalla regione e da un'area ancora più vasta che va da Varese a Piacenza, da Bergamo a Novara: la regione urbana milanese, la cosiddetta "città infinita", quella su cui si organizzano pregevoli convegni ma che rimane priva di una testa pensante, di sistemi di regolazione e di governo. La giunta Moratti vorrebbe trasformare un po' di quei pendolari in nuovi residenti milanesi e, a quel che si è capito, frenare la fuga delle giovani coppie verso la provincia. Ma è un proposito che si scontra, oltre che con gli angusti confini municipali, anche con la qualità, la vocazione e il profilo attuale della città.

Milano ha avuto molti più abitanti, una trentina di anni fa, quando era una città industriale e operaia. Il massimo venne raggiunto nel 1974, con quasi 1 milione 750mila residenti. Poi venne il rapido declino della residenza, coincidente con la deindustrializzazione, l'esplosione della città terziaria, l'espulsione dal centro e dal semicentro di famiglie a basso reddito e del ceto medio. Da oltre vent'anni, abbiamo intere porzioni di città dove alla residenza si sono sostituiti uffici, studi professionali, sedi direzionali. Forse si dovrebbe ripartire da lì, dal ritorno alla residenza delle parti forzosamente terziarizzate di Milano, per avviare un programma di ripopolamento.

Ma l'assessore Masseroli non ne fa cenno. Non gli interessa. Troppo complesso rimettere in discussione la destinazione d'uso di centinaia di stabili e di migliaia di appartamenti e soprattutto potenzialmente una fonte perenne di guai con la proprietà immobiliare grande e piccola. Meglio il cemento fresco, allora. La trovata è, dunque, è far salire l'indice di edificabilità da 0,65 a 1. Costruendo in verticale, con "vincoli e regole" ridotti al minimo, o eliminati del tutto, per la gioia di immobiliaristi e costruttori. E alla faccia di chi pensa che ai problemi del terzo millennio non si possa rispondere con ricette anni Sessanta, lanciando programmi edilizi da ricostruzione post bellica in una insensata gara con i Comuni della propria area urbana per "rubarsi" residenti. Così insensata da ingenerare il sospetto che tutto questo fervore per nuove case a buon mercato nasconda, in realtà, ben altro obiettivo: far cassa con gli oneri di urbanizzazione, per recuperare i soldi che il governo "amico" ha sfilato dal portafogli di Palazzo Marino.

Non ho ancora letto il nuovo saggio di Andrea Carandini su come "Vedere il tempo antico con gli occhi del 2000", ma mi sembra necessario commentare subito l'intervista all'autore di Paolo Conti apparsa pochi giorni fa sul Corriere della Sera. I riferimenti ironici agli archeologi delle Soprintendenze, "talebani" educati nelle "madrase della tutela", dediti ad un'ottusa forma di opposizione allo sviluppo del territorio con insensate richieste di scavi preventivi sono francamente fuorvianti. L'ironia è sempre simpatica, ed è per sua natura esagerata, ma non dovrebbe giungere al travisamento e a rischiare di minare la credibilità di una categoria di funzionari la cui azione in difesa del patrimonio archeologico è universalmente apprezzata.

E forse è anche vero che questi archeologi-talebani praticano la tutela con una passione quasi anacronistica in tempi di opportunismo travestito da realismo. Figuriamoci: la maggior parte di loro crede sul serio, quasi fosse una sura del Corano, che debba essere preso alla lettera l'articolo 9 della Costituzione che pone la tutela del patrimonio archeologico al di sopra di tutti gli altri valori, ivi compresi quelli economici!

Peccato però - afferma Carandini - che questi funzionari non assolvano bene a questo dovere in quanto i loro scavi di emergenza, non pubblicati, si risolvono in una perdita di dati, e quindi addirittura in una colpevole distruzione di strati archeologici.

Ma è proprio vero? In realtà è ben noto che non poche scoperte importanti sono avvenute proprio negli scavi di emergenza che rappresentano ormai quasi il 90 % dell’attività delle Soprintendenze, giacché quelli “di ricerca” hanno, ormai da tanto tempo, sempre meno risorse a disposizione. Senza dire che gran parte degli oggetti che riempiono i nostri musei sono frutto di questa stessa archeologia, preventiva o di emergenza, che consiste in quel poco fascinoso lavoro fatto di vincoli, di dispute sugli strumenti urbanistici, sui condoni edilizi, di procedimenti civili e penali. Va bene, ma perché molti degli scavi di emergenza – come giustamente afferma Carandini - restano inediti? La risposta più vera è: il ritardo o la mancanza di pubblicazioni dipende dall’esiguo numero degli archeologi delle Soprintendenze; dallo stato di precarietà dei loro collaboratori esterni; dall’insufficiente attenzione da sempre dedicata a questo problema da un Ministero strutturato su un modello burocratico-amministrativo piuttosto che tecnico-scientifico. Ma anche dal fatto che, perfino nel caso di un’opera pubblica, ricerca e scavo archeologici sono stati percepiti non come l’espressione di un valore preminente, ma come un impaccio di cui sbarazzarsi al più presto. Per cui si sostengono le spese per la loro esecuzione – anche chiamando costosi consulenti accademici a contrastare le richieste delle Soprintendenze e cercar di risparmiare -, ma una volta che l’area è, come si suol dire, “bonificata” dai resti archeologici, non c’è chi paga per la pubblicazione; tanto meno le Soprintendenze coi loro magri bilanci. E allora? “Non fate questi scavi, accontentavi delle prospezioni” sembra essere la risposta di Carandini. Mentre quella imposta dalla deontologia professionale (e dalla legge) può essere solo quella “talebana”: e allora non si può fare l’opera pubblica perché procedere alla cieca, solo vagamente intuendo da una prospezione che sotto terra c’è un monumento non servirebbe affatto ad impedirne la distruzione (e anche spendendo di più per le inevitabili sospensioni dei lavori). Per paradossale che sembri: meglio un’opera in meno che uno scavo non pubblicato.

Nessuna Soprintendenza opera per “avidità di scavo”, ma perché non se ne può fare a meno, per salvare il territorio almeno come memoria storica. Lo scopo del nostro lavoro è indagare e rendere pubblica la storia del territorio. Pubblicare uno scavo non è un inutile sfoggio di cultura, è la conclusione obbligatoria di un’attività scientifica e istituzionale che fin dal primo momento dovrebbe essere messa nel conto della programmazione delle opere, grandi e piccole, pubbliche o private.

In questi giorni il Ministero sta perfezionando il regolamento della legge sull’archeologia preventiva che prevede che si mettano in conto fin dall’inizio, almeno per le opere pubbliche, i costi della pubblicazione. Chi scrive sta istituendo, in collaborazione con l’Associazione Internazionale di Archeologia Classica, una rivista elettronica per la rapida ed economica edizione online degli scavi. Si possono studiare nuovi modelli di intervento, chiamando, ad esempio, le Università a concentrarsi sui problemi della tutela, rinunciando in parte a ricerche più gratificanti per prospettive mediatiche. La discussione su questi temi è più che mai aperta.

Tutto meno che lasciar passare l’idea che la ricerca archeologica preventiva sia un falso problema.

L'autore è Direttore Generale per i Beni Archeologici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

1985. Inverno, la metà del mese di gennaio appena passata, una coltre immensa di neve, dappertutto nel nord d’Italia. Da qualche giorno aveva smesso di nevicare. Chi ha vissuto coscientemente quel tempo non può aver dimenticato quei giorni in cui la neve cadde, copiosa ed incessante, sino a raggiungere livelli difficilmente ricordati prima di allora.

Fu quella la prima volta che andai in visita a Vione, nel comune di Basiglio, sud Milano. Erano, in effetti, anche i miei primi sopralluoghi al Basso milanese. Provai intense emozioni di fronte al nucleo rurale, rimasi sorpreso di fronte ad un’organizzazione dello spazio che percepivo perfetta, da ogni punto di vista; quella cascina, quel paesaggio mi parvero sprofondati nel tempo, immutato da secoli. Nulla poteva ricondurmi al tempo esatto e reale se non la consapevolezza di trovarmi a distanza contenuta, certo, ma sufficiente a non percepirne l’impatto devastante, da quella insensata e faraonica opera ancora in costruzione che intendeva, velleitaria replica, proporre un nuovo modello insediativo. Milano 3, appena appena percepibile con le gru ancora in movimento si intravedeva da qualche punto della vasta azienda agricola.

Il sole già alto inondava tutto quanto di calda luce, ogni scorcio della campagna all’intorno della cascina risplendeva, tra umori di gore e freschi scrosci d’acque. Vione, cinta su tre lati da un fossato, era circondata da marcite, ancora non completamente sgombere dalla neve che, abbondantissima, ricopriva gli edifici. Tra questi, attraverso i varchi lungo il perimetro, potevo scorgere montagne di neve accumulata nei cortili per lasciare liberi i percorsi di smistamento all’interno del nucleo rurale, ad opera dei contadini che lì vivevano e lavoravano. Tutta la campagna più in là era in preda al gelo. Mi tornavano alla mente le parole del Cattaneo, camminando ne ripetevo i versi come a volerli commisurare a quanto andavo osservando: “Una parte del piano, per arte ch’è tutta nostra, verdeggia anche nel verno, mentre all’intorno ogni cosa è neve e gelo” (Carlo Cattaneo, Notizie su la Lombardia. La città, a cura di G. Armani, Garzanti, Milano 1979).

Osservata dall’esterno del suo ampio perimetro, la cascina mi parve immersa in un sonno profondo. Scorsi poche persone in movimento all’interno della cascina e, raggiunto il portale a nord, lo sguardo si perse sul lunghissimo asse di attraversamento. Rimasi colpito, “che luogo straordinario”, pensai. Al gorgogliare incessante dell’acqua che si disperdeva sulle ali fumiganti di marcita si sovrapponeva il muggito caldo delle mucche; percepii che dovevano essere veramente molte.

Rimasi lì attorno per almeno tre ore, girando e rigirando lungo la strada divenuta quasi una trincea tra cumuli di neve ai lati, mentre la roggia Speziana, che mi parve larghissima, placida conduceva le sue acque.

Quando tornai per la seconda volta, di lì a qualche giorno, le marcite scintillavano di verde, senza più alcuna traccia di neve che ancora, ed abbondante, copriva ogni cosa all’intorno.

Incontrai il conduttore del fondo che mi accompagnò nella visita alla cascina e alle sue otto corti. Seppi che nelle stalle erano allevate 450 bovine tra lattifere, manze e manzette, più un certo numero di tori e cavalli. In cascina, vivevano allora 62 persone, tutte – eccetto donne e bambini – impiegate nelle attività dei campi.

Ciò che appresi durante il sopralluogo non mi lasciò affatto tranquillo. L’azienda stava avviandosi ad un cambio strutturale che si sarebbe rivelato irreversibile e che avrebbe forse rappresentato la fine di un mondo, cresciuto e rafforzatosi nel corso di sette secoli. Vione, di cui si ha traccia nel 1086 ( locus de Villiono), fu in antico una grangia cistercense e l’oratorio dedicato a San Bernardo ne è preziosa testimonianza.

Nel volgere dei due anni successivi si compì il passaggio rivelatosi senza più ritorno. Il carico di bestiame scomparve e per me, che osservavo con approccio da studioso e animo da ricercatore, fu improvviso ed incomprensibile. Ma sapevo che la Comunità europea pagava un milione e mezzo di lire per ogni capo abbattuto. Ah, l’Italia anello debole della Comunità che aveva come seconda voce di deficit il bilancio agro-alimentare, subito dopo il settore energetico…

Dunque, scomparsi i bovini, già nell’inverno del 1987 le marcite non ricevettero più la vitale acqua; anzi, in quel momento le campagne a marcita più lontane dal nucleo rurale erano già state rotte.

Sì, rotte, così si usa dire in campagna quando si abbandona la pratica, sostituita con coltura cerealicola, mais prevalentemente, ma anche riso.

Sconforto, sincero sconforto nel constatare che quell’angolo di mondo che mi aveva incantato stava scomparendo, diventava altro che non volevo osare immaginare. Milano 3, castellum della middle class milanese, come lo definiva Lodovico Meneghetti che, maestro, seguiva gli sviluppi della mia tesi di laurea, sembrava completato. Attorno e un po’ più in là altri incomprensibili insediamenti: “il Girasole” acquattato tra le risaie; l’assordante cortina edilizia del “Ripamonti Residence” incombente su Viquarterio, un tempo Vilquarterio; un certo progetto su Tolcinasco di cui avevo sentito parlare (passato di mano e quindi divenuto, con l’azienda agricola, sede del green più esclusivo d’Italia); poi, ma certo, quella miriade di piccoli e meno piccoli episodi di residenza a ville, i capannoni come funghi e le strade, nuove strade e stradoni, tutto quanto inutilmente dispersivo e distruttivo di fertile campagna.

Il sacco delle terre compiuto, aziende agricole semplicemente passate di mano, mani immobiliari. Le più abili e potenti si muovevano con precisione e rapidità; nessun tentennamento, occorreva innanzitutto far presto per siglare la compravendita a prezzo agricolo, con investimenti peraltro tutt’altro che contenuti visto l’elevato valore agronomico e le enormi superfici in gioco. Poi, dopo, a tempo debito, la contrattazione con l’ente locale per la trasformazione, dal PRG alla lottizzazione, dal paesaggio agrario al cantiere edilizio. Dalla campagna alla (presunta) città. Tutto noto, tutto regolare, tutto timbrato al posto e al momento giusto.

Dunque Vione, e la sensazione di dovervi rinunciare per sempre. Basta, è finita anche per questa cascina. Come per tante altre nel Basso milanese: Rovido, Bazzana, Bazzanella, Tolcinasco, Coriasco, Romano Paltano, Ronchetto, Ronchettino e Ronchettone, Sestogallo. La lista è lunghissima, potrei continuare elencando cascine di grande e grandissima dimensione diventate altro, fantasmi del passato che abbiano mantenuto o meno la forma, senz’anima.

Processo irreversibile, dinamiche di mercato, la terra poco più che un orizzonte per nuove costruzioni. Milano da bere e campagna da mangiare, un unico devastante processo di speculazione. Gli attori sono noti, da un lato le mani potenti degli imprenditori del mattone, dall’altro le amministrazioni impegnate a perseguire rozzamente il malinteso concetto di sviluppo, quello che non annovera tra le specificità l’agricoltura, la campagna. Contadini a Milano, figura obsoleta, in via di estinzione, largo alla valorizzazione immobiliare.

Vent’anni e poco più di lenta agonia per Vione, velocissima a guardarla dal profondo lasso temporale che ne rappresenta la storia.

La cascina da allora – primi anni Novanta – è rimasta, di fatto, senza più alcuna manutenzione, schiacciata sotto il peso dei secoli; progressivamente abbandonata dalla sua popolazione contadina e svuotata repentinamente dalla sua funzione è andata di corsa incontro al suo destino. Destino che qualcuno aveva già scritto, deciso al tavolo del mercato immobiliare. Uno, due passaggi di proprietà, mero investimento per moltiplicare il valore, miliardi di lire prima, milioni di euro poi. Anche Paolo Berlusconi si propose come acquirente, senza successo; a lui interessava più che altro la terra, Milano 4, certo.

Stalle, corti di lavoro, case dei salariati, mulino, chiesa, asse di attraversamento, depositi, porticati, la casa padronale, il fossato, le aie, il forno, le scuderie, i caselli, i portali. Ecco Vione, otto corti attorno alle quali si è organizzata nei secoli la più vasta cascina di un territorio che va ben oltre il Basso milanese, caposaldo di una delle aziende più ampie della pianura irrigua, oltre 320 ettari. Le marcite estese su 82 ha, un quarto del totale della superficie agraria.

Dice oggi un fattore, che lì ha trascorso tutta una vita, che in Europa, avete letto bene, in tutta Europa, Vione rappresentava la seconda azienda agricola per quantità e qualità del prodotto. Lui l’aveva detto, “non vendete le mucche altrimenti tutto scomparirà”, finito per sempre.

Nove secoli di storia, serve un paragone? Avete presente la Sforzesca? Ecco cosa è Vione. Prima ancora che nel centro comunale di Basiglio, l’acqua sgorgava dai rubinetti delle case di Vione. Proprietà colta e ricca, attenta a soddisfare i bisogni primari già dal primo dopoguerra. E prima ancora che in paese, le abitazioni dei salariati avevano avuto il gabinetto, piccolo, ma dentro, non più fuori, in cortile.

Poi, col passar del tempo, l’abbandono, i crolli, gli sconquassi, il degrado strutturale, la morte.

Ora le cesate circondano il luogo, il cantiere è avviato. Parco agricolo sud Milano, ebbene sì, anche questo non basta, non serve a niente. Vione è persa, il monumento è perso.

Il Parco sud, questo sconfitto, pure gioisce nell’annunciare il rinascimento di Vione, in pompa magna presentato al Circolo della Stampa lo scorso aprile. Ecco, Vione rinasce dalle sue ceneri e si appresta a divenire un esclusivo centro residenziale di gran lusso, con servizi condominiali a 5 stelle e 6.000 €/mq, con ogni comfort sia possibile immaginare per un modello abitativo per soli ricchi. Poteva mancare la SPA? Certo che no. Del resto, che cosa non potrebbe avere un nuovo, che cosa?, villaggio?, residence?, castello? borgo? che, a dispetto delle risaie e dei pioppeti circostanti, per ora salvaguardati, è presentato sul web come il luogo dove (ri)trovare l’esclusiva atmosfera di Portofino, la prestigiosa eleganza di Capri. Sicurezza garantita 24 ore su 24 con accessibilità limitatissima, la spesa consegnata direttamente a casa, i bimbi futuri da crescere in totale sicurezza, fuori dal mondo. Forse, con un parallelo forzato, come quelli dell’antica cascina che, chiusi i pesanti portoni, s’abituavano a vivere, appunto, fuori dal mondo.

Da ricordare, facendo finta ve ne sia bisogno, che il Piano di Recupero di Vione prese avvio negli anni Novanta, fu approvato dal Consiglio Comunale nel 2003 con i soli voti del centrosinistra, lista Basilium, mentre i consiglieri di opposizione – tra i quali l’attuale sindaco Marco Cirillo, giunta di centrodestra – gridavano alla cementificazione di Vione trasformata in lussuose abitazioni. Gli stessi che ora si sperticano di lodi nel presentare come rigoroso restauro conservativo la trasformazione dell’antica cascina, nuova città ideale. Anche tettoie e ricoveri aperti fanno volume.

In occasione del convegno su “Il futuro delle cascine lombarde”, 2003, Camillo Piazza, portavoce provinciale dei Verdi e Presidente provinciale degli Amici della Terra, denunciava il Piano di Recupero: "Mi auguro che chiunque vinca le elezioni amministrative non porti avanti il progetto di recupero di Vione in questo modo. Non si deve snaturare la vocazione agricola dell'antica cascina". Il lunghissimo applauso dei cittadini presenti pareva preludere alla mobilitazione per ridisegnare lo scenario, avvalorato dalle parole dell’allora Assessore regionale al Territorio e Urbanistica Alessandro Moneta, per il quale era “auspicabile che la ristrutturazione delle cascine lombarde dismesse, avvenga attraverso i programmi integrati di intervento. Le nuove funzioni devono tenere conto del patrimonio edilizio esistente, del pregio architettonico senza minimamente incidere sull'attività agricola."

Nota: di seguito scaricabile una presentazione descrittiva del complesso di Vione con belle e utili immagini molti altri articoli su temi territoriali nella cartella SOS Padania (f.b.)

Settecentocinquanta ettari edificabili nelle campagne.

E sulla capitale

si prepara a cadere una nuova ondata di cemento

di Alberto Statera

Tor Pagnotta, Bufalotta, Malafede, Magliana, Casal Boccone, Castellaccio, Murate. Un arcano spregiativo segna nei nomi i confini dell’ormai smisurato impero palazzinaro del terzo millennio, che dalle rarissime e dolci denominazioni come Romanina e Madonnetta non può sperare riscatto. Mentre i nuovi re di Roma, come li ha chiamati Milena Gabanelli in una famosa puntata di stanno finendo in quei luoghi di accerchiare la capitale con una distesa di cemento pari a un’area grande come dieci volte quella di Parigi, accumulando ricchezze immense, il nuovo sindaco post-fascista Gianni Alemanno perfeziona il sacco prossimo venturo della capitale, che va sotto il nome di "housing sociale" e che si aggiungerà a quello già in corso. Venticinquemila nuovi appartamenti, 9 milioni di metri cubi, da costruire per cominciare su altri 750 ettari di quel che resta dell’Agro romano, dopo che 60 mila sono già stati cementati. I proprietari privati cedono terreni agricoli su aree vincolate per fare edilizia convenzionata a destinazione residenziale e in cambio ottengono l’autorizzazione a costruire su altri terreni per vendere a prezzi di mercato. L’"agricoltura d’attesa", come si definisce l’enorme estensione terreni tenuti lì incolti in attesa dell’edificabilità, torna a premiare gli astuti, pazienti palazzinari. Chi poi di pezzi di Agro ne aveva pochi, insediato Alemanno in Campidoglio, è corso a comprare con i soldi in bocca, pregustando lo skyline dei nuovi insediamenti, così fitti di palazzine che non ci passerà nemmeno un autobus.

Diceva Francesco Saverio Nitti: «Roma è l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo». Cent’anni dopo nessun quartiere può dirsi europeo tra i dieci chiamati burocraticamente "centralità", sui 18 previsti, che soffocano Roma con una nuova città da 70 milioni di metri cubi, praticamente una nuova Napoli incistata sulla capitale. Né l’europeizzazione è garantita dal piano regolatore, che Alemanno si appresta a sbullonare, varato dal sindaco Walter Veltroni in articulo mortis, esattamente cento anni dopo quello di Ernesto Nathan, il massone di origine inglese che rifiutò di firmare la voce di bilancio "frattaglie per gatti". Da dove il detto romanesco "nun c’è trippa pe’ gatti".

Oggi di trippa ce ne è in abbondanza per i nuovi palazzinari, pudicamente diventati immobiliaristi, che non sono più gli zotici capomastri che nei primi anni Settanta accorrevano al salvataggio della papale "Immobiliare Roma", precettati dal cardinal Marcinkus e dal vicepresidente e amministratore delegato del Banco di Roma Ferdinando Ventriglia, il banchiere democristiano che con i suoi fidi li teneva prigionieri. Oggi sono loro a possedere banche, banchieri, finanza, giornali, giornalisti, partiti politici, ministri, arcivescovi, sindaci e architetti. Sono loro a condizionare, nella crisi dell’economia globalizzata, gli equilibri periclitanti del capitalismo nazionale.

Enrico Cuccia trafficò con la cosiddetta ala nobile del capitalismo ormai estinta, il suo successore in Mediobanca Cesare Geronzi curò soprattutto l’ala ignobile di quel capitalismo cementizio che di un pezzo preponderante dell’economia nazionale si è impossessato, partendo da Malafede e da altri agri romani dalle cupe denominazioni. Fatta salva naturalmente la Madonnetta. Vedere per credere. Ma chi, pur nato a Roma, potrebbe credere in quel che vede se imbocca oggi, poniamo, via della Bufalotta? A Nord Est della capitale, tra la Salaria e la Nomentana, entri in un budello che si snoda per chilometri e chilometri tappezzato di pizzerie, discariche di pezzi di ricambio, tombini saltati, pittoreschi cartelli pubblicitari fai-da-te, solarium, benzinai, effluvi d’incerta natura e improbabili centri estetici. Ti viene da pensare in fondo che soltanto provinciali esteti come Pier Paolo Pasolini potevano amare questa Roma. E persino che andrebbe eretto un monumento equestre a quel palazzinaro milanese che oggi siede a Palazzo Chigi e tanti anni fa edificò Milano-2 e Milano-3 ottenendo, con l’aiuto di Bettino Craxi, non solo le licenze edilizie, persino lo spostamento delle rotte aeree che col rumore avrebbero potuto disturbare i futuri residenti.

Ma non è lungo il serpentone della Bufalotta o nei centri commerciali che lo circondano, alcuni dei 28 che in pochi anni sono spuntati intorno a Roma, che trovi la misura di questa città sovrapposta alla città, grande più o meno come Padova, capace di contenere 200 mila persone. Devi inoltrarti a destra e a sinistra, verso la Nomentana e verso la Salaria, dove verdeggiava il dolce Agro romano, oggi punteggiato dagli uffici-vendite delle palazzine. È lì che comincia un singolare viaggio tra letteratura, cinema e poesia con i toponimi che le giunte comunali hanno scelto, incuranti della scissione tra i nomi e il panorama circostante. Non lontano da viale Ezra Pound impera Pietro Mezzaroma, palazzinaro sostenitore del neosindaco postfascista Gianni Alemanno, caso di convergenza con le simpatie mussoliniane del poeta del toponimo. "Mezzaroma e figli" hanno costruito palazzine larghissime da otto piani appoggiate nel nulla, tra strisce d’asfalto coperte di rifiuti e campi disseccati. Come? "Secondo Mezzaroma", dice un enorme cartello pubblicitario plastificato, in spregio a via Robert Musil. Basta spostarsi un po’ ai lati del budello - sarebbe meglio dire bordello, ci corregge un signore che si è indebitato per comprare un appartamento con terrazzo sul nulla - per aggirarsi tra via Adolfo Celi, via Gian Maria Volontè e via Mario Soldati. Alle spalle di Ikea troneggiano gli immensi parallelepipedi dall’incerto colore di Francesco Gaetano Caltagirone, detto Franco o Francuccio, il re dei re di Roma, l’uomo più liquido d’Italia, come dicono le cronache finanziarie, titolare di un patrimonio di incalcolati miliardi di euro (forse 23) che dalla Bufalotta e da altre location periferiche della capitale è approdato a Siena, Rocca Salimbeni, dove è vicepresidente del Monte dei Paschi, a piazza Unità d’Italia, Trieste, con le Generali, in laguna con Il Gazzettino, a Napoli con Il Mattino, oltre che a Roma, via del Tritone, dove la figlia Azzurra, moglie di Pierferdinando Casini, presidia Il Messaggero, primo giornale della capitale. Non è il solo a dilettarsi con i giornali. Domenico Bonifaci, quello che ha appena imprigionato l’ingresso a Roma dalla via Flaminia con lo scempio degli immensi palazzoni che lambiscono la stretta striscia d’asfalto, controlla l’altro giornale di Roma, Il Tempo, mentre i fratelli Toti sono tra gli azionisti della Rizzoli-Corriere della Sera.

I palazzoni residenziali targati Caltagirone hanno sette, otto, dieci piani, poggiati tra buche, erbacce, immondizia. Chi comprerà mai l’invenduto ora che i mutui sono cari e vengono erogati dalle banche con il contagocce? Passeggia per via Cesare Zavattini, pace all’anima dell’umorista che viveva nel verde dei Castelli Romani, una giovane signora con il pupo in carrozzina. Non abbiamo il coraggio di interrogarla, ma leggiamo nei suoi occhi la disperazione esistenziale. Un appartamento di 90 metri quadri pagato (anzi da pagare con mutuo indicizzato) 320 mila euro per scarrozzare il neonato in questa landa da pionieri del Far West, una favela che prometteva lusso con le sue terrazze a mezzo melone, con parapetti a intarsio e piscine condominiali vuote, senza collegamenti. Metrò, autobus, strade, asili, scuole, servizi? Un sogno perduto. Dov’è Roma? Dove San Pietro, il Colosseo, il Quirinale? Caltagirone è in ogni dove, ovunque ci siano ettari di Agro da edificare, ma a Bufalotta, dove vende con l’"Inter Media Group" i suoi cuboni a 4 o 5 mila euro al metro, condivide la cementificazione praticamente con l’intera genia dei nuovi palazzinari. Lui è liquido, molti altri costruiscono per farsi con le banche, come si dice, la "leva finanziaria". Scavalchi via Riccardo Bacchelli, l’autore del "Mulino del Po", e t’imbatti in via Olindo Guerrini il poeta scapigliato detto "lo Stecchetti", che poetava: «Quando schizzan le sorche innamorate/ Dalle tue fogne, o Roma».

Bufalotta non è l’unico cuore della speculazione immobiliare di Roma, che ha creato una nuova classe di padroni del capitalismo italiano, è solo uno dei luoghi dove s’incrociano gli interessi di quasi tutte le famiglie palazzinare. Oltre a Franco Caltagirone, capo di una dinastia di origine siciliana di cui fanno parte il fratello Leonardo, che ha costruito il "Parco Leonardo" vicino all’autostrada per Fiumicino, e Edoardo, ci sono i Caltagirone Bellavista, sopravvissuti ai tempi di Andreotti ("a Frà, che te serve", chiedeva Gaetano al factotum andreottiano Franco Evangelisti), impegnati in varie, discusse operazioni immobiliari. E poi Bonifaci, Scarpellini, Mezzaroma, Parnasi, Todini, Erasmo Cinque, Pulcini, Navarra e Toti. Spesso si dividono le torte, ma qualche volta si scannano. Ultimo caso: i fratelli Toti vendono un terreno a Franco Caltagirone e poi dalla giunta Veltroni, che sta per concludersi, cercano di farsi autorizzare una variante per trasformare in residenziali altre aree a Bufalotta vicine a quelle che il re palazzinaro ha pagato fior di quattrini. L’operazione salta. Claudio Toti, il fratello del capoclan Pierluigi, la prende sportivamente e dice che in fondo la sua aspirazione è di andare a fare mozzarelle in Uruguay. Caltagirone, invece, non la manda giù e, eletto Gianni Alemanno sindaco, attacca il centrosinistra che ha governato per quindici anni: «Con Veltroni - sibila - Roma è andata a picco». Ma non concede appoggio preventivo al nuovo sindaco: «Ristoranti e pizzerie con Veltroni, con Alemanno torneremo alla tessera del pane». Persino Erasmo Cinque, intimo di Gianfranco Fini, ha già avvertito Gianni Alemanno: «Il rodaggio è finito» e ha preso di petto il sindaco che ha nominato all’Acea Giancarlo Cremonesi, pur suo collega palazzinaro e antico sodale di destra. L’ala sociale postfascista costringerà i palazzinari a una stagione di digiuno con l’"housing"? Difficile, più probabile che capiti il contrario visto il tono "proprietario" con il quale i potentati del mattone si rivolgono alla nuova giunta capitolina. Alemanno dice di voler riscrivere il piano regolatore veltroniano, che l’urbanista Pietro Samperi, autore di "Mezzo secolo di politica urbanistica romana - Dalle illusioni degli anni ‘60 alle disillusioni degli anni 2000", definisce il viatico per un sacco di Roma "subdolo e strisciante". E ha già provato a mettere i piedi nel piatto, bocciando il progetto di Renzo Piano per le Torri del ministero delle Finanze da abbattere all’Eur per fare 170 mila nuovi metri cubi di Toti, Ligresti, Marchini, con 400 appartamenti di superlusso davanti alla "Nuvola", il centro congressi firmato da Fuksas. Un affronto stilistico al quartiere mussoliniano - dice il sindaco - uno stravolgimento della skyline di Piacentini.

Sorridono i Caltagirone di ogni ramo, sorridono i fratelli Toti della Lamaro con i Parnasi, i Mezzaroma, i Bonifaci. Pensano già ai profitti che metterà in moto la fine dell’attesa per l’"agricoltura d’attesa", a tutto il cemento che coprirà le ultime, dolci colline dell’Agro. Gianni è un ragazzo semplice e appassionato. Ma anche lui capirà. Capirà chi comanda a Roma. E in Italia.

Parla l’urbanista Vezio De Lucia

"I residenti calano crescono solo le case"

intervista di Francesco Erbani

«La dissipazione della campagna intorno a Roma è una delle pagine più tristi dell’urbanistica negli ultimi decenni. Fra quelle alture e quei fossi è custodita la più grande riserva archeologica del nostro pianeta e altissimi sono i pregi paesaggistici». Vezio De Lucia, urbanista, ha vasta conoscenza di come siano cresciute le città italiane negli ultimi cinquant’anni. Di come si stiano trasformando, anche in epoca di bolle immobiliari e di subprime. E di quanto sia stata anomala l’Italia a livello europeo. Ha lavorato a Napoli, il paradigma del sacco speculativo negli anni fra il Cinquanta e il Settanta. Ha studiato, fianco a fianco con Antonio Cederna, lo sviluppo di Roma "a macchia d’olio", lo sviluppo strattonato dagli interessi della Società generale immobiliare e di proprietari fondiari che si chiamavano Gerini, Vaselli, Torlonia. Al quale si è accompagnato l’abusivismo edilizio.

Sulla scorta di queste esperienze, De Lucia osserva come sta cambiando Roma. «L’idea di Gianni Alemanno di costruire circa trentamila appartamenti nell’agro romano senza rispettare alcun disegno complessivo, accentua i difetti che il piano regolatore di Rutelli e Veltroni non ha mai corretto ed anzi ha peggiorato».

Quali difetti?

«A Roma si è realizzata una condizione abitativa terribile. Gli insediamenti si disperdono, la città si sta spappolando. Si aggravano i disagi per gli spostamenti e si rende più onerosa la costruzione di un sistema di trasporto pubblico efficiente, costretto a inseguire i brandelli di città».

Ma perché la città non si espande in maniera più regolata?

«Intanto va detto che i residenti a Roma diminuiscono. Crescono solo le case. E solo le case a libero mercato. Si consuma suolo. Non si interviene dove ci sarebbe più bisogno, per esempio per rimettere in sesto le periferie, come si sta facendo largamente in Europa. Insomma, si costruisce dove vogliono i possessori delle aree: restano loro i veri regolatori della crescita di Roma e di altre città italiane».

Dunque si costruisce male?

«La gran parte dei 15 mila ettari su cui a Roma si è edificato e si sta edificando presentano densità bassissime: si spreca molto spazio. Ma la gente in questi nuovi insediamenti non ha servizi, non ha mezzi pubblici efficienti. Si stanno creando dormitori inospitali. Si perpetua il meccanismo della "macchia d’olio", si costruisce in tutte le direzioni e non si interrompe, se non in minima parte, l’anomalia per cui la gente va ad abitare nelle zone periferiche e ogni mattina va a lavorare, in macchina, nelle aree centrali e semicentrali della città, che a loro volta si svuotano di residenti. E così abbiamo strade intasate e inquinamento insopportabile».

Si accentua anche l’anomalia di Roma, e non solo di Roma, rispetto alle grandi città europee?

«In Germania, in Francia, in Inghilterra hanno conosciuto prima di noi il fenomeno della dispersione abitativa. Ma stanno cercando di porvi rimedio, con interventi che limitano, anche drasticamente, il consumo di suolo. Basti osservare la Catalogna. C’è però un’altra differenza: la diffusione degli insediamenti nel Nord Europa segue prevalentemente i tracciati dei trasporti pubblici su rotaia. Vengono prima i treni, le metropolitane e dopo le case. Da noi abbiamo sempre seguito la strada inversa».

qui in eddyburg riportato il testo integrale del servizio di Report

«Con gli scavi d'emergenza non preserviamo alcunché, né immagazziniamo conoscenze per le generazioni future. Accumuliamo solo una congerie bruta, sparsa e caotica di indizi non tradotti in cultura, che col passare del tempo sarà impossibile redimere, per cui non rimarrà che il danneggiamento alla risorsa archeologica».

Un grande archeologo che se la prende con i colleghi archeologi, «colpevoli» di scavare troppo e, a suo avviso, inutilmente. Andrea Carandini, classe 1937, insegna Archeologia classica e Storia dell'arte greca e romana all'università La Sapienza. Ed è uomo che ama (quasi un paradosso per uno studioso della sua materia) pensare al futuro e preoccuparsi dei posteri.

Nel suo ultimo saggio in uscita domani da Einaudi ( Archeologia classica - Vedere il tempo antico con gli occhi del 2000, pagine XV-2008, € 24) si ritrova intatto il coraggio di un cattedratico che sfidò «i Talebani della conservazione», secondo lui identificabili in Italia Nostra e dintorni, schierandosi ad agosto a favore della realizzazione dei famoso parcheggio del Pincio a Roma: «L'Italia, da zero a quindici metri di profondità, presenta sempre vestigia romane o alto-medioevali. Cosa facciamo? Non viviamo più per le nostre civiltà sepolte?»

Poi del parking non se ne fece nulla, ma Carandini rimane della sua idea. E viene da- sorridere pensando a un piccolo conflitto in una illustre famiglia (il professore è figlio dell`ambasciatore Nicolò, campione dell'antifascismo, e nipote di Luigi Albertini, dal 1900 al 1925 direttore del Corriere della Sera).

Andrea Carandini è fratello di Maria Antonelli Carandini, per anni instancabile presidente della sezione romana di Italia Nostra e tuttora una delle sue attivissime animatrici. Al suo posto ora siede Carlo Ripa di Meana, protagonista della vittoriosa battaglia anti-Pincio. Ma questa è tutta un’altra storia. Ora Andrea Carandini nel volume godibilissimo per i continui rinvii letterari e non archeologici elegantemente collegati a alla sua disciplina (Proust, Sàndor Màrai, Gadda, Balzac, Calvino, e sono solo alcuni) contesta la scavo-mania del colleghi. Ovvero l'ansia di sottrarre alla terra ciò che è conservato da secoli nel caso si profili una «emergenza», cioè - per esempio - la necessità di decidere se permettere o meno un'edificazione. Meglio, scrive Carandini, «sfruttare le tecniche di indagine non distruttive. Cioè le foto aeree dell'area, la magnometria, il georadar, le tecniche della valutazione anche predittiva dei depositi archeologici per arrivare a una protezione e a un utilizzo controllato delle risorse storiche del sottosuolo».

In questo modo, argomenta Carandini, si può offrire una risposta senza scavare. Perché «. Gli archivi degli scavi d'emergenza, al contrario, sono tracce di documentazione da riscavare con possibilità di far rivivere il passato straordinariamente ridotte». Il professore ironizza con le abitudini di certi suoi colleghi: «Dopo tanti scavi d'emergenza l'archeologo funzionario, convinto di aver bene operato, va tranquillo in pensione anche se la documentazione riposa magari sotto il suo letto o nascosto in un angolo introvabile di un deposito di pratiche. Pubblicare vecchi scavi e vecchie documentazioni è opera meritevole, ma chiunque abbia pratica dello scavo e della sua edizione sa che si trova fra le mani un estratto esangue di quanto molto più riccamente la matrice terrestre preservava».

Un esempio tra tutti, i contestatissimi scavi di piazza della Signoria di Firenze: «Uno dei più gravi misfatti archeologici imputabili all'amministrazione statale».

Il giudizio finale di Andrea Carandini contro la sua categoria accademica è durissimo: «Questi scavi, più che contribuire alla costruzione della memoria, fanno parte essi stessi di un problema che contribuiscono ad aggravare. La sua distruzione». Perché gli scavi d'emergenza «più che mitigare perdite d'informazione sono protagonisti attivi di quelle stesse perdite, similmente alle distruzioni operate da sterri dovuti a un'edilizia incontrollata o all`usura lenta e nascosta del tempo». E ancora: «Gli innumerevoli scavi d'emergenza - nessuno sa calcolare quanti sono - sono dovuti ad avidità di conoscenze approssimative, al volersi mettere il cuore in pace rispetto alle maligne forze della vita e a prassi burocratiche consolidate e mai più ripensate». Carandini non abbassa la guardia nemmeno contro i «Talebani della conservazione» che lui ~ individua in funzionari statali formati in «madrasse della tutela» i quali «a tutto della vita si oppongono, in sterile e costosa resistenza, e che hanno l`unico scopo di vincolare l`intero Paese, come se separare dalla vita implicasse anche conservare». E poi (riecco la polemica «familiare») ci sono «associazioni benemerite e vecchiotte» (come non pensare a un identikit di «Italia Nostra») e «la sinistra radicale acriticamente venerata». Tutto carburante che può rinvigorire, secondo l'analisi di Carandini, il movimento di destra «favorevole alla deregulation che vorrebbe sbaraccare la tutela impoverendola e abbandonare il Paese a un`anarchia liberistica». Quindi attenzione, avverte il professore, all'universo in cui «lo sviluppo della vita appare sempre nemico della conservazione e dove il libero mercato è ritenuto comunque un satana: sono qui all'opera antiamericanismo, anticapitalismo, statalismo, avversione per una democrazia partecipata». Potrebbero essere loro i più forti alleati di un distacco tra Paese reale e universo chiuso della tutela, aprendo il varco ideale per la deregulation totale. I Talebani della conservazione, sorride Andrea Carandini, sono avvisati.

Postilla

E oplà, con l'ennesima capriola il principe del lupercale, Andrea Carandini, è atterrato dritto dritto nei territori dei sostenitori di una tutela "ammorbidita", più consona (asservita?) alle ragioni della moderna, progredita società capitalista, filoamericana e antistatalista. Per uno che era partito come apostolo di un'archeologia marxista dura e pura (v. Anatomia della scimmia , correva l'anno 1979), allievo di Bianchi Bandinelli, se non proprio fra i più apprezzati dal maestro, sicuramente fra i più rumorosi, che ha predicato a schiere di studenti l'osservanza senza compromessi di una archeologia del "coccio", la dedizione assoluta alla cultura materiale nel culto maniacale del più infimo frustulo di reperto (v. Archeologia e cultura materiale , 1979 e Settefinestre , 1985) si è trattato di un bel tragitto, ma si sa, solo gli stupidi non cambiano mai opinione e di questi tempi così flessibili e veloci, una giravolta in più è solo sintomo di capacità di adattamento allo Zeitgeist. Quanto poi ai contenuti del brusco cambio di rotta, sembrano in verità alquanto confusi oltre che del tutto ignari delle più elementari nozioni di legislazione e normativa in materia dei beni culturali. Oltre all'articolo 9 della Costituzione (ma forse è quello cui si allude con l'elegante perifrasi "prassi burocratiche"), a Carandini sfugge in toto il Codice dei Beni Culturali e il secolare dibattito che ha portato all'elaborazione normativa più avanzata forse di tutto il mondo occidentale: uno dei nostri pochissimi vanti moderni di civiltà, universalmente riconosciuto. L'archeologia preventiva non è quindi conseguenza ed esercizio di queste norme, ma "tigna" di funzionari frustrati, adepti della sinistra radicale, asserviti ai pericolosi guerriglieri di Italia Nostra. Cosa poi, nello specifico, egli intenda con l'affermazione "offrire una risposta senza scavare" è difficile cogliere, quando enumera una serie di tecniche, ben note e usate dagli archeologi da decenni (complicato, però, a nostro avviso, il ricorso alla foto area in ambito urbano...) e che costituiscono, come ben sa qualsiasi matricola di corsi umanistici, strumenti per il monitoraggio, che aiutano a scavare, ma non risolvono il problema del che fare una volta individuata l'evidenza archeologica. Insomma di fronte alle ruspe delle tante autostrade, tangenziali, porti turistici, linee di alta velocità in costruzione, par di capire che sarebbe meglio esimersi da azioni troppo "conservative" e lasciar riposare i reperti in qualche discarica, perchè, come afferma il professore, ex consulente a contratto TAV: "gli archivi sottoterra sono potenzialmente vivi, resuscitabili". Se la logica di tutto l'assunto appare un po' claudicante, non così lo spirito da vecchio tribunus plebis: il climax finale in un crescendo di furor demagogico sviluppista tutto rimescola alla vecchia maniera, sempre mediaticamente spendibile, affratellando tutela e anticapitalismo, conservazione e antiamericanismo e, touch of class di sublime non-sense, "avversione alla democrazia partecipata" (sic!). Certo per chi negli ultimi anni ci ha sottoposto a rivelazioni quasi quotidiane su straordinarie scoperte archeologiche (dai templi quirinalizi alla grotta di Romolo e Remo) - pur se regolarmente smentite dall'insieme del mondo scientifico - addentrarsi nei territori infidi e poco sfavillanti dei problemi connessi alla salvaguardia del nostro patrimonio nazionale è esercizio faticoso, ma necessario però a chi si dedica ad una difesa coerente e convintamente appassionata del libero mercato. Anche quello librario... (m.p.g.)

«Così l'Italia ha massacrato Palladio» è il titolo senza sconti dell'inchiesta realizzata da Edek Osser per The Art Newspaper e per Il giornale dell'Arte in occasione delle celebrazioni in corso per i 500 anni dalla nascita dell'architetto più global della storia. La tesi dell'inchiesta è che il contesto in cui sorgono parte delle 4.270 ville sulle quali ha competenza l'Istituto regionale delle Ville venete, delle quali una trentina sono state progettate da Palladio, sia stato stravolto negli ultimi decenni e sia a tutt'oggi sottoposto a improprie trasformazioni del territorio. Le ville sono soffocate da industrie, svincoli stradali, capannoni, cave e attività al limite del lecito. Duemila di queste ville non sono vincolate e, in assenza di piani paesistici, «restano in un cono d'ombra», scrive Osser. Le opere del Palladio sono criticamente incomprensibili al di fuori del contesto naturale nel quale l'architetto le ha realizzate. Ne sono convinti Mario Botta, che in un recente convegno ha definito Palladio «un contraltare degli attuali archistar che costruiscono con indifferenza al contesto» e ne è convinto anche Vittorio Sgarbi che nel recente libro «Palladio. La luce della ragione» parla di «opere chiaramente distinte dalla natura e dal paesaggio eppure ad essi legate da un rapporto indissolubile».

L'accusa di distruzione del contesto è sostenuta da varie testimonianze. Il geografo Francesco Vallerini parla di «disastro urbanistico che ha annullato il paesaggio». Lionello Puppi, storico dell'architettura, afferma che «villa Zeno a Cessalto è a rischio estremo, disabitata e chiusa e che la barchessa palladiana di Villafranca padovana non esiste nemmeno più: il colonnato cade a pezzi». Il problema, commenta Guido Beltramini, che con Howard Burns della Normale di Pisa è il curatore della mostra sui 500 anni dall'architetto vicentino (Palazzo Barbaran da Porto di Vicenza) è «che il paesaggio costruito intorno è stato consumato dallo sviluppo industriale». Davanti alla Malcontenta c'è un guardrail; villa Onesti Magrin a Grisignano è strozzata dalle strade; intorno a villa Valmarana dei Nani (affrescata da Tiepolo) e a Villa Chiericati sono sorti capannoni che alterano il contesto ben più delle villette di Monticchiello denunciate, tempo fa, da Asor Rosa. La fabbrica della Mira Lanza incombe da tempo minacciosa sulla villa di Mira mentre strutture industriali danneggiano il cono ottico di Villa Pesaro a Este (Collegio Manfredini) dell'altro grande maestro Baldassarre Longhena. Italia Nostra denuncia anche l'impatto della nuova autostrada A31 della Valdastico e altri l'impatto dell'ampliamento della caserma Dal Molin definito da Puppi, con una certa enfasi catastrofista, «cataclisma territoriale». Insomma, un brutto biglietto da visita sul quale è difficile intervenire.

Le ville sono quasi tutte private, nelle mani di grandi famiglie (Valmarana, Foscari, Dalle Ore, Innocenti, Piovene...); e sono anche ben conservate. Ma sui contesti doveva, o dovrebbero, intervenire i comuni con i piani urbanistici. «Di tutte le ville in pericolo c'è quella di Cerato, per la quale è intervenuta anche la procura e la barchessa di villa Trissino di Meledo», afferma il presidente della Ville Venete Nadia Qualarsa. L'istituto ha concesso mutui per oltre 125 milioni di euro a favore di 1.750 ville. «Dal 2000 al 2008 siamo intervenuti su 9 ville tra le 24 protette dall'Unesco per un totale di 4,5 milioni di euro». Insomma, lo sforzo sugli immobili è stato fatto dai proprietari e da chi li sostiene. Ma il territorio circostante non è stato tutelato. Chiude Beltramini: «Qualche provincia ha iniziato a chiederci consulenze per la salvaguardia del contesto, ma prima degli anni Settanta la cultura del restauro considerava solo gli edifici e non l'insieme. Ora il ministro Bondi, all'inaugurazione della mostra su Palladio, ha dichiarato che si finanzieranno anche progetti di tutela del paesaggio ». Ma salvo che si vogliano operare demolizioni, stando all'inchiesta siamo ormai fuori tempo massimo.

«Mio padre aveva ragione. Io ho sbagliato. Voleva liberarmi dalla prigione dell'industria, che sfratta usando la scienza, per restituirmi alla libertà della natura, che trattiene rigenerando la bellezza. Lui aveva visto che il mondo rurale, assieme alla terra, avrebbe perso il potere. Io non ho capito che, nel deserto, comanda il vuoto. La mia vita è la risposta alla tragedia ignorata della Sardegna e dell´Italia». Gavino Ledda, a 70 anni, rinnega "Padre padrone". Nella casa di Siligo, dove è tornato, sta riscrivendo il suo capolavoro. Dopo 35 anni vuole denunciare la violenza opposta a quella che, costringendolo a diventare un bambino pastore, recise il suo destino di scolaro: i genitori ridotti ormai a «spingere nel mercato dello studio», cacciando i figli da campagne e paesi. «Eravamo padri e padroni - dice - ora siamo sterili e servi. Meglio essere proprietà di un padre che di una banca, o di un podestà». È la sintesi del dramma che, nell'arco di una generazione, erige oggi l'isola a specchio di un Paese orfano. «I campi - dice a Baddhevrùstana - sono la metafora dell'enigma chiamato libertà. Dobbiamo ammettere l´incapacità di chiarirlo: e riconoscere che, per non mettere a tutti una valigia in mano, si deve avere una cultura propria da trasmettere».Da sette giorni, per guardare il divorzio italiano dall'agricoltura, dalla natura e dai suoi borghi, vago in Sardegna assieme a pastori, casari, contadini e genti delle Barbagie. In nessun altro luogo, sospeso tra coste brulicanti e montagne inselvatichite, la rinuncia della nazione a se stessa è tanto impressionante. L´ultima crisi del mondo, come l´alluvione annunciata a Capoterra, travolge chi è rimasto a produrre cibo, o a mettere ordine nei campi, sui pascoli e tra i boschi. Migliaia di sopravvissuti sono scossi da uno stupore: prendere atto di essere stati abbandonati.«La mancanza di un grande progetto civile nazionale - dice lo storico Manlio Brigaglia - riproduce la catastrofe antropologica del dopoguerra. L'ufficio sostituisce lo stabilimento. Lo spaesamento sociale, culla di una rivolta possibile, è però peggiore: perché politica e sindacato, inconsapevoli, hanno rinunciato ad affrontarlo». Gli effetti di tale distrazione, motore degli abbandoni, sono una serie di primati devastanti. In Sardegna c'è il luogo più avvelenato d'Italia, Portovesme, e il più intatto, Budelli. Quartu Sant'Elena ha la più alta concentrazione demografica, 602 abitanti per chilometro, e Gerrei la più bassa, 14. L'età media dei contadini è di 62 anni. Non c'è più di un figlio per donna. Attorno al Gennargentu le femmine hanno in media 52 anni. Su 377 Comuni, 164 sono prossimi all'estinzione. Olbia, in trent'anni, passerà invece da 3 mila a 100 mila residenti. Villasimius, in agosto, schizza già da 20 a 110 mila. In estate le persone che vivono sull'isola oscillano da 1,6 a 20 milioni. Arzachena è il Comune più ricco d'Italia, Desulo il più povero. Cagliari, su 9 mila ettari, ospita 190 mila persone. Orgosolo, su 22 mila ettari, 3 mila. L'86% dei sardi vive ormai a non più di 30 chilometri dalla costa, solo il 5% nei villaggi più antichi dell'interno. In due città, Cagliari e Sassari, si è spostato un terzo di tutti gli abitanti. Sull'isola ci sono 800 mila abitazioni: 8 mila vuote solo nel capoluogo, mentre nei paesi il 47% sono abbandonate. In dieci anni la superficie coltivata si è dimezzata, i pascoli incolti sono quintuplicati, mentre 90 milioni di metri cubi di cemento hanno coperto i 1600 chilometri di litorale. Settemila aziende agricole sono all'asta,180 mila contadini pagano i mutui solo grazie ai contributi Ue e sono schiacciati da 800 milioni di euro di debiti.Belano in compenso quasi 4 milioni di ovini: 300 mila quintali di pecorino romano prodotto per il sempre più precario mercato Usa. Il cortocircuito, economico e sociale, tocca qui il suo apice storico. Esprime però, nella sospensione di un'isola a rischio liquidazione, il carattere nuovo dell'Italia all'asta. E rivela infine il suo esito: 300 mila poveri, un sardo ogni cinque. «La costa produce cemento - dice l'antropologo Bachisio Bandinu - l'interno formaggio. Le due materie prime sarde, mare e latte, sono nelle mani di un pugno di persone, in maggioranza del continente, o straniere. Alla gente non resta nulla. La Sardegna, come il resto della nazione, si rende conto dell'errore. Ha trasformato la natura in industria, turistica o alimentare, ignorando la lezione dei petrolchimici. Il guaio è che, nonostante il fallimento di quel modello, lo Stato continua ad alimentare la catastrofe: con la complicità dell'Europa».Il tentativo di reagire, da alcuni mesi, lacera l'opinione pubblica. La Sardegna è l'unica regione italiana ad aver approvato un piano paesaggistico coerente con il codice dei beni culturali.La sola ad aver vietato nuove costruzioni a meno di due chilometri dalle rive. La rivolta, scatenata dal partito di costruttori e speculatori, ha avuto un finale inatteso: il referendum contro la conservazione dell'ambiente, i primi di ottobre, si è schiantato sul 20% di votanti. «Non è purtroppo - dice il leader degli ambientalisti, Stefano Deliperi - un addio al cemento. Certifica però vergogna e nostalgia: l'appello di genti che, ovunque, si sentono sempre più impotenti. Inutili».Il paesaggio in sé, del resto, è un certificato di incertezza. Spiagge, campagne, colline e monti non trasmettono un carattere, né rivelano un'attitudine. Loculi di calcestruzzo, ammassati, si alternano a scollegate distese selvagge. Per metà si coltiva, per metà si abbandona. In parte si tutela, in parte si sfrutta. Una scissione consumata, ma non compiuta. «È un territorio indeciso - dice l'archeologo Giovanni Lilliu - che esprime un'insicurezza, la sfiducia in se stesso. Penso alla mia isola e vedo l'Italia: luoghi dal destino imprevedibile, che nessuno ama più. Ho 94 anni: se l'improvvisazione non si arresta, temo di essere in tempo per assistere a un collasso». I sintomi sono evidenti. La piana tra Uta e Decimoputzu è invasa da migliaia di metri quadrati di serre pericolanti. Scheletri di plastica, o di vetro, con le piante secche ancora all'interno. Centinaia di fallimenti, innescati da contributi illegali. Vani scioperi della fame. Un banchetto, per il credito.«Per ventimila euro - dice Riccardo Piras, di Altragricoltura - battono all'asta terreni che valgono 2 milioni. Un infermiere in pensione, per conto di un'immobiliare milanese - ne ha comprati 32. Prima ci hanno fatto investire, poi fallire. Il verde agricolo perduto, in un anno, diventa edificabile. Politici, banchieri e costruttori, il potere sardo e italiano, si stanno spartendo le campagne». Esemplare, pochi giorni fa, il ciclone tropicale a Capoterra. Fino al 1990 qui si coltivavano carciofi e pomodori. Tre ore di diluvio hanno sommerso una distesa di case brutte, abusive e senza piano. Sugli alvei di fiumi e canali hanno costruito asili, scuole, negozi, cimiteri, strade. «La soglia della sostenibilità - dice Fanny Cao, presidente regionale di Italia Nostra - è stata superata. Confondere lo sviluppo con il cemento non distribuisce ricchezza. Brucia risorse: e semina cadaveri».Una lista terribile di orrori, per l'isola più bella e completa del Mediterraneo. Il Campidano, granaio di Roma, è abbandonato ad un'orticoltura intensiva avvelenata e fallimentare. Portovesme soffoca in una nube tossica. A Porto Torres le scorie restano sepolte nei terreni. Liquami e concimi chimici devastano gli stagni di Arborea. Nel Sulcis, liberato dalle miniere, i fiori sono ancora impregnati di metalli. Pula, la costa del Sud, Villasimius, la costa Rei, Olbia e la Gallura, la Nurra attorno ad Alghero, sono sepolte di hotel e seconde case. Uno squallore: design seriale camuffato da architettura d'autore. Altri milioni di metri cubi di edifici giacciono nei progetti: le onde, invisibili, si gonfiano oltre i centri commerciali. Si salvano solo le valli delle Barbagie. «Perché ormai sono vuote come agnelle arrostite - dice Bachisio Porru, portavoce dei piccoli Comuni - e i politici non sanno nemmeno dove siano. In 60 paesi l'età media è di 48 anni, il ricambio generazionale impossibile. È il destino che sta travolgendo tutto il Meridione, gli Appennini, l'arco alpino. Lo Stato ha tolto l'occupazione, quindi i servizi: quattro italiani su cinque costretti a lasciare le loro immense case nei villaggi. Sono gli stessi che oggi, in città, non riescono a pagare il mutuo dei miniappartamenti. Chiamano globalizzazione quello che nel secondo Novecento battezzavano progresso. Ma i sardi sanno che il cambiamento si risolve in un affare da agenzia immobiliare: chiudere paesi per aprire periferie».Attorno a Nuoro la Sardegna chiusa per paura, e l'Italia che sceglie di trasformarsi in un'isola governata dalla preoccupazione, si impongono con ferma meraviglia. I quartieri della città sono un mosaico di borghi serrati, come se qualcuno li avesse raccolti al tramonto e innestati qui entro l'alba. Molte vecchie, nere e rotonde come bacche di ginepro, siedono sugli usci di condomini incompiuti, in mattoni rossi, come fossero al focolare. I costumi restano abiti: trasportano nei villaggi vicini, di cui non resta che un'indecifrabile traccia, oppure nei paesi che si consumano in un isolamento accanito. Queste stesse donne, che mantengono i figli con pensioncine antiche, si incontrano anche in altri luoghi. Si muovono come fantasmi, calme e indifferenti, e trasformano la regione in una sconfinata, silenziosa corsia di ospedale. «I loro nipoti - dice lo scrittore Giorgio Todde - sono camerieri, o commessi. Non si fidano del turismo, che vedono rapace, ma non credono più nella civiltà rurale, che sanno spietata. Aspettano, come tutti, di vedere se davvero la bellezza può tramutarsi in oro, senza poi sparire».Orune, Lula, Olzai, Teti, Osidda, Oliena, Desulo, centinaia di altri borghi remoti e sacri, restano intanto cavi come ghiande. Non sono più contadini, non ancora altro. I bar offrono sandwich con speck e fontina, o "vero formaggio svizzero fatto in Olanda".I caci affumicati e ingrassati con l'olio, che per secoli hanno annegato i pastori con un sogno, sono irraggiungibili, come una nuvola oltre il Supramonte. Di bello, di valentemente banditesco, restano i cartelli stradali sfondati a pallettoni. Ricordano un destino: una nazione incerta tra Orgosolo e Porto Cervo, esposta al rischio di essere felice perché non si conosce, eternamente.«Sembriamo in effetti la Sardegna - dice a Ollolai Efisio Arbau, portavoce del movimento dei pastori - ma non siamo più capaci di fare i sardi. È chiaro che non possiamo più consegnare 300 mila quintali di latte a 3 industriali, che confezionano un sottoprodotto per gli hamburger made in Usa. Qualità significa però avere una capacità artigianale, credere nella natura, in una identità. Non i piccoli con un carattere, ma i grandi privi di espressione, iniziano a morire. Unendoci, reinvestendo nella nostra dimensione, possiamo sottrarci ai "prenditori" che svendono il Paese a pochi: per incompetenza, o per corruzione». Come sempre, nella "domo de casu" barbaricina, o nello stabilimento di Andrea Pinna a Thiesi, si discute del prezzo del latte di pecora.A Cagliari Giorgio Piras e Luca Saba, leader sindacali, sfornano studi e appelli alla Regione. A Seneghe Francesco Cubeddu lotta per la quotazione della carne di Bue Rosso. Fulvio Tocco, nel Medio Campidano, tratta il costo del porcetto. Battista Cualbu, a Campu Calvaggiu, poco fuori La Corte, si commuove contando quattrocento pecore in linea e pensando al padre: scendeva a piedi da Fonni, per la transumanza nella Nurra, e per mesi dormiva nei cespugli. Potrebbe sembrare tutto immutabile, o reale come le aste - truffa dei terreni contadini a Villasor: una civiltà che affonda nei debiti, tra l'ex Mussolinia e Reggio Emilia, in balìa dell'assistenza e in ostaggio del mercato. «Invece siamo in crisi - dice a Fordongianus Giuseppe Cugusi detto Cuccara, professione pastore, vocazione casaro - solo perché abbiamo dimenticato chi siamo, rinunciato alla storia. Non crediamo più nelle pecore e raddoppiamo le stalle. Non crediamo più nel latte e quadruplichiamo le mungitrici. Non crediamo più nel Fiore Sardo e ci umiliamo con il pecorino romano. Non crediamo più nella terra e investiamo in sementi e concimi. Non crediamo più nemmeno nel mare, e lo sostituiamo con l´idromassaggio. I sardi non credono più nella Sardegna come gli italiani con credono più nell'Italia: perché rinunciano a se stessi e imitano, come patetici replicanti cinesi. Per andare avanti dobbiamo tornare indietro: animali al pascolo, forme preziose stagionate dietro l'ovile, vendita diretta, on-line come un tempo alle fiere. Gavoi che sfila a cavallo, Rimini che sega gli ombrelloni: il massimo della modernità, contro gli strozzini che producono conti. Ma soprattutto contro una politica vecchia, che non vede la profondità di un cambiamento». Francesco Pigliaru, economista originario di Orune, conferma che non è una resa alla nostalgia.«La qualità dell'ambiente - dice - diventa sviluppo perché chi investe su quel valore acquista ormai solo natura. Per averla, paga di più: ma se non c'è, non spende. Il riflesso, per i prodotti agricoli, è il medesimo. Mondo rurale, civiltà paesana e turismo della bellezza, sono davanti al bivio della tutela integrale: o bruciano l'ultima materia prima rimasta all'Italia, o si impegnano per ricostruire un equilibrio infranto, cuore della competitività economica». Cemento, Turixeddu, pecorino romano, serre e "Unione Sarda", contro sabbia, Busachi, Fiore sardo, grano e "l'Unità". «Due Sardegne - dice l´antropologo Giulio Angioni - ma pure due Paesi opposti, un´idea di Europa: una sfida estrema, in primavera, tra ritorno al feudalesimo e riscoperta della democrazia». È già, rapidamente, buio. Gavino Ledda, ancora pastore, continua ad aspettare una donna. Cammina nell'arboreto che ha piantato con i soldi dei suoi libri. Una collina di cotogni, corbezzoli, mirti, ginepri, olivi, sugheri, lecci, erbe. I compaesani adesso hanno capito. Suo padre aveva ragione: ma lui, alla terra da cui era fuggito, lascia infine un giardino. Una profezia, cesti di frutti, come eredità.

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