C’è una notizia, che in questi lenti e caldi giorni di metà estate sgomita per trovare il suo spazio e che è riuscita a sconfinare dall’indifferenza e dall’abitudine delle scarne cronache locali fino alla prestigiosa vetrina offertale dal Corriere della Sera. Il quotidiano di via Solferino, infatti, il 17 luglio scorso ha informato i suoi lettori dell’apertura del “campo da golf più a sud d’Italia”. Nella Sicilia bedda, naturalmente, e precisamente a Sciacca, in provincia di Agrigento.
L’articolista, nella mezza pagina a disposizione, ha esaurientemente illustrato una “struttura da favola” che è l’”oggetto del desiderio del magnate inglese sir Rocco Forte”, anche se: “Di fronte ai continui intoppi e persino un’inchiesta della magistratura Rocco Forte ha più volte minacciato di rinunciare a questa struttura da favola che si estende su 230 ettari e in cui sono stati investiti 125 milioni, con finanziamenti anche pubblici. Ma ora sembra tutto dimenticato”.
Già. Dimenticato. Noi partiamo proprio da qui, da dove gli altri hanno dimenticato.
Perché noi non abbiamo dimenticato che la notizia, la vera notizia che spazio non trova (…) è che il 4 dicembre del 2007 al tribunale di Sciacca si è aperto il processo – tutt’oggi in corso – che vede imputati per reati ambientali l’a.d. della Sir Rocco Forte Hotel, Moreno Occhiolini, e il progettista Domenico Baudille.
La notizia, è che il condannato per mafia Salvatore Cuffaro da Raffadali, che per uno degli strani casi della vita è stato anche il presidente della Regione Siciliana e che adesso fa il senatore della Repubblica, due anni fa ha varato con la sua Giunta un decreto in tutta fretta, al fine di consentire la costruzione di un maxialbergo con 40 suites e 500 posti letto, tre campi da golf, un centro benessere e un centro congressi più, sparse, villette varie: sì, proprio il lussuoso Resort Verdura di Sciacca di proprietà di Sir Rocco Forte.
La notizia, è che il progetto caro a Cuffaro, al forzista Dore Misuraca, all’ex presidente del Parlamento dell’Isola nonché attuale Sottosegretario Gianfranco Miccichè e ad altri berluscones più o meno occulti, è stato fermo un anno a causa delle denunce del vicepresidente siciliano di Legambiente Angelo Dimarca, spalleggiato dal responsabile del Cai Gianni Mento, che hanno fatto saltar fuori che il meraviglioso golf Resort di Sciacca che stava realizzando la holding Sir Rocco Forte è fuorilegge (!): niente permessi, niente Via (Valutazione impatto ambientale) e nemmeno Valutazione d’incidenza, obbligatoria per i siti d’interesse comunitario, e, manco a dirlo, il territorio in questione è un Sic (Sito d’interesse comunitario).
Per questo nell’estate del 2006 si era bloccato tutto. Soldi, cantieri, lavori. Con la Procura della Repubblica che cominciava a mettere il naso nella faccenda e i sigilli al cantiere.
E per questo la Regione Siciliana l’estate successiva si è inventata una leggina che rendeva legali le buche a pochi metri dal mare palesemente illegali: un ignobile colpo di spugna su centinaia di ettari di terra stravolti e con la vegetazione alla foce del fiume Verdura distrutta. Una volontà politica di andare avanti, a qualunque costo.
La notizia, è che questa intricata vicenda era iniziata cinque anni addietro, quando il plenipotenziario di Berlusconi in terra di Sicilia, l’allora viceministro del dicastero dell’Economia Gianfranco Micciché, presentò, assieme all’amministratore delegato di Sviluppo Italia (società a totale partecipazione del ministero dell’Economia…) il programma per lo sviluppo turistico nel Mezzogiorno. Una torta da 770 milioni di euro da dividere fra Puglia, Calabria e Sicilia. Alla Sicilia toccò una fetta da 236 milioni per due investimenti previsti: uno, guarda caso, è proprio quello del Resort di Sciacca in appalto al gruppo Sir Rocco Forte, che alla fine sarebbe risultato il più grande investimento disposto da Sviluppo Italia nel Mezzogiorno.
La notizia, è che i terreni del business, quando il business è stato deciso, sono stati venduti (buoni quattrini, 4 milioni e 400mila euro) al gruppo Sir Rocco Forte dalla famiglia Merra: Roberto, già componente del consiglio di amministrazione della vini Corvo, il fratello Giuseppe, la figlia Alessandra e l’altra figlia, Elena, moglie di Gianfranco Miccichè…
Insomma una roba di famiglia per l’allora vice Ministro del dicastero da cui dipende Sviluppo Italia e da cui sono venuti fuori milioni di euro di finanziamento – oltre quelli scuciti dalla Regione Siciliana – per il progetto in questione. La notizia, che purtroppo rischia di non far più notizia – nemmeno per il Corriere della Sera – è che la legalità in questo Paese continua a essere un optional.
Il commento di Giuseppe Palermo
Credo che per trovare in Sicilia qualcosa di simile allo scandalo dei campi da golf bisogni tornare indietro di qualche decina d’anni, ai tempi dell’Ente Minerario Siciliano o delle raffinerie piazzate a colpi di tangenti. Ed è interessante notare come i primi a cogliere le potenzialità del nuovo affare siano stati i mafiosi. Risale al gennaio 2001 una memorabile intercettazione ambientale del boss di Brancaccio Guttadauro (lo stesso che ha inguaiato Cuffaro), dalla quale apprendiamo di un suo progetto di campo da impiantare fra l’aeroporto Falcone-Borsellino e il mare, per darlo in gestione a suoi parenti americani (“così nessuno potrà dire nulla”, cfr. E. Bellavia-S. Palazzolo, Voglia di mafia, Roma 2004, p. 159). Dopo di che, secondo il costume invalso, non sono stati i progetti ad adeguarsi alle leggi, ma queste ad adeguarsi, come un guanto, ai progetti. Prima della legge ultima ricordata da Gervasi (29.10.08, n° 11: “Interventi in favore dello svolgimento dell’attività sportiva connessa all’esercizio del golf”), che, modificando la l. reg. 12.6.76, n° 78, autorizza i campi entro i 150 metri dal mare, vanno ricordati svariati decreti attuativi della l. 488/92 per il settore turistico, i quali a partire dal bando 2003 hanno riservato agli “alberghi a 4 e 5 stelle con annesso campo da golf” un trattamento di favore. Questo incentivo finanziario a sua volta si somma, se ho ben interpretato, all’altro derivante dall’indicatore costituito, nelle stesse tabelle regionali, dall’estensione dell’impianto: in altri termini, più l’impianto è esteso, maggiore è il contributo pubblico. E siccome i campi da golf estesi lo sono per definizione, è chiaro che è stata tutta una pacchia, non solo per i grossi industriali del turismo, i proprietari delle aree ed i costruttori ma, a scendere, per i mediatori e gli addetti al movimento terra (questi ultimi com’è noto spessissimo legati alla mafia). L’ultimo sfegatato sostenitore del golf è stato, qualche mese fa, l’allora assessore al Turismo Bufardeci. “Vogliamo che la Sicilia diventi la sede naturale per il golf", ha detto, annunciando investimenti per "svariati milioni di euro dai fondi europei" (“I love Sicilia”, mag. 2009).
In questo scenario, così, i green hanno fatto e fanno incetta del grosso dei contributi pubblici, mentre gli imprenditori del turismo sostenibile, o semplicemente “normale”, restano a bocca asciutta. Inutile dire che la gran parte di questi insediamenti ricade non su aree coltivate, ma su terreni incolti, spesso lungo le rive del mare o di laghi, e che ciò si è risolto o sta per risolversi in un’atroce distruzione di alcuni degli ultimi lembi di territorio siciliano ancora in condizioni di naturalità. E tutto ciò in una regione povera d’acqua, e che lo sarà sempre di più.
Meriterebbe fare un elenco delle decine di progetti sorti come funghi in tutta l’Isola, spesso fallimentari e manifestamente speculativi, o, addirittura, già falliti: come quello sul fiume San Leonardo, comune di Carlentini, del quale resta in piedi l’orrendo scheletro di calcestruzzo del residence (già, perché va da sé che nessun campo è concepibile senza le annesse strutture ricettive, cioè senza cemento).
Non meno interessante infine sarebbe incolonnare i nomi degli sponsor, dei mediatori e degli investitori (nomi spesso ricorrenti e intrecciati fra loro). Circa il progetto di cui parla Gervasi, p. es., può essere utile sapere che mediatore per l’acquisto del terreno con il magnate alberghiero Rocco Forte sarebbe stato l’italo-canadese Joseph Zappia: lo stesso Zappia poi arrestato a Roma perché ritenuto referente della famiglia che aveva tentato d’infiltrarsi nella gara per l’appalto del ponte sullo Stretto e del quale poche settimane fa sono stati confiscati i beni. Lo Zappia si sarebbe recato più volte in provincia di Agrigento, oltre che per l’affare del golf, per seguire da vicino la vendita di centinaia di ettari di vigneto all’industriale Zonin (F. Castaldo, Centonove, 23 apr. 2005, p. 17; Id.-E. Deaglio, Diario, 11 mar. 2005, pp. 17-18, poi in Antimafia 2000, 44, 2005, p. 22).
Comunicazione di servizio per Sandro Bondi, ministro dei Beni culturali: il più bel bagno dei musei italiani è quello del Mart di Rovereto. Marmo nero e crema di sapone fucsia. Neanche quello del Louvre è tanto elegante. Così, forse potrà passare l'informazione a Mario Resca, il suo super consulente, l'uomo che diventerà centrale nel nuovo ministero riformato. Uno che a ogni riunione non fa che protestare per lo stato delle toilette di quei musei che visita e rivisita con l'obiettivo di rilanciarne l'immagine. In un anno di lavoro, molti viaggi, da New York a Berlino. Ma, a parte l'hit parade dei wc (a Napoli ha raccontato ad allibiti studiosi di aver preferito il cesso di un bar a quello dell'Archeologico) e la disdicevole mancanza di uniformi per i custodi, zero idee. E nemmeno si è vista la promessa capacità di attrarre il mondo imprenditoriale verso le disastrate finanze della cultura pubblica. Eppure, Resca è stato promosso: lo aspetta la poltrona di capo della neo direzione generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale.
L'ennesima operazione mancata del dicastero firmato Bondi. Alla vigilia della rivoluzione. Quella della mega riforma prevista per i primi di agosto che sembrava essere l'asso nella manica del soffice ministro. Un progetto partito malissimo fin dalla presentazione alla commissione Cultura della Camera: maggioranza spaccata, dimissioni di Fabio Granata, relatore del Popolo della libertà (ex An), in disaccordo con lo smantellamento di una struttura che, in fondo, ha retto fin dagli anni Trenta. Peccato. Per Bondi doveva rappresentare il segno del suo passaggio nella storia della cultura italiana. L'imprinting sulla polverosa macchina del palazzo del Collegio romano.
E il sigillo di un anno vissuto alla guida di un ministero infernale, cenerentola fra i ministeri per l'Italia del fare, un tempio per l'intellighenzia gauche non solo caviar. Un pachiderma che governa sui nuraghe e sul cinema d'autore, sulla Biennale di Venezia e sulla dinastia Orfei, sugli artisti di strada e sugli affreschi del Quattrocento. Ovvero 3500 musei di Stato,100 mila tra monumenti e chiese, 2000 siti archeologici, più tutto il mondo dello spettacolo: 250 mila lavoratori e 6000 imprese, a occhio e croce. In questo impero, Bondi è entrato con le fanfare annunciandosi come il profeta del "recupero della bellezza" e perfino come il primo fra i ministri capace di essere un ponte tra la cultura della sinistra e l'efficenza imprenditoriale della destra. Da un certo punto di vista, ce l'ha fatta. In una coreografia mai vista prima, sono scesi in piazza contro di lui attori, registi, autori, cantanti, intellettuali e saltimbanchi. Di destra come di sinistra, da Luca Barbareschi a Citto Maselli, tutti uniti nel chiedere la sua testa. Un miracolo politico, per carità. Un vero disastro gestionale.
Incudine (di gomma, però) tra due martelli (d'acciaio) il povero Bondi ne ha di dolori. Da una parte, Renato Brunetta, ministro della Pubblica amministrazione, lo insegue per abbattere i costi del personale. Dall'altra, Giulio Tremonti, ministro dell'Economia, gli falcidia i fondi. Bondi che fa? Deplora e rassicura. Promette e si dispiace. Sventola ipotesi di dimissioni che non dà mai. Intanto, tra crisi economica, stanziamenti per il terremoto d'Abruzzo, i soldi sono diventati davvero pochi. Il Fus, fondo unico per lo spettacolo, istituito negli anni Ottanta, da allora si è ridotto a un terzo e per il 2009 al solo 0,1 del Pil: in tutto 398 milioni contro i 471 del 2008. Il finanziamento ordinario per la manutenzione del patrimonio, già insufficiente si è ridotto del 30-40 per cento. Al punto che se il tetto di una chiesa fa acqua, nessuno potrà sostituire le tegole. Per non parlare del blocco delle assunzioni e dello stop ai concorsi voluto da Brunetta in un organico già carente di restauratori e di ispettori ministeriali.
Qualcuno dirà: che c'entra Bondi? Giusto. Infatti lui cerca di entrarci il meno possibile. "È troppo devoto a Silvio per alzare la voce e creare dei problemi alla Lega che se ne sbatte della cultura, vista come roba romana e di sinistra" sussurra un Bondi boy. La verità è che il ministro non sa o non vuole prendere posizione. E tanto meno presentare un piano alternativo. "La legge per il cinema è del 1965. Quella per la musica del 1967. Una normativa vecchia di quarant'anni. Invece di riformare, l'unica risposta è tagliare. A questo sistema spettacolo servono 700 milioni di euro " sostiene Alberto Francesconi, presidente dell'Agis. " Invece ce ne sono meno di 400. Forse sarebbe il caso di sapere quale sistema spettacolo immagina il governo. Quattro sole fondazioni liriche? Un pugno di film l'anno? La fine della danza e dei circhi? Che qualcuno abbia il coraggio di scegliere su cosa puntare. Oppure cercare altri finanziamenti come ha fatto Jack Lang in Francia. Si è inventato la tassa sulle tv per sostenere la cultura raccogliendo 560 milioni di euro l'anno".
Ma per il found raising non c'era il mago Resca, lo sdoganatore del Mac Donald d'Italia, il manager che il Cavaliere doveva pur sistemare da qualche parte, e che ora è uno degli uomini forti del ministero? Uno di quegli uomini che rassicurano e blindano l'ondivago Bondi, come anche Gaetano Blandini, direttore del Cinema e Salvo Nastasi, l'enfant prodige della direzione Spettacolo dal vivo, commissario del Teatro San Carlo di Napoli. Uomini forti, dicevamo. Sicuramente poco loquaci. Visto che nessuno di questi gli ha suggerito che non è bene per un ministro promettere quello che non può mantenere. Bondi non sarebbe dovuto andare alla presentazione dei David di Donatello al Quirinale garantendo un reintegro al Fus prendendosi anche i complimenti di Giorgio Napolitano. Né avrebbe dovuto mandare il suo sottosegretario Francesco Giro a spargere cose analoghe alle Giornate del teatro. Tantomeno tagliare il nastro della Biennale arte con lo sguardo nostalgico di chi già pregusta il ritorno al coordinamento del partito. "Mesi fa, in una riunione con gli enti lirici il ministro arrivò a dire che se le risorse non fossero state sufficienti sicuramente avrebbe restituito il mandato" racconta Walter Vergnano, sovrintendente del teatro Regio di Torino."Allo stato attuale non abbiamo nemmeno i quattrini per pagare gli stipendi, e non mi sembra che tiri aria di dimissioni".
L'insostenibile leggerezza del ministro, più ancora della scure di Hannibal Tremonti, irrita a tal punto gli animi da scatenare una guerra tra poveri. Gli enti lirici piangono ma i cineasti rispondono che sono proprio loro a mangiare quasi metà del Fus.
Chiuso nella sua stanza, Bondi si guarda bene dal convocare tutti e trovare una soluzione decorosa. Sogna, invece, via dell'Umiltà, sede romana del Pdl di cui è uno dei tre coordinatori con Denis Verdini e Ignazio La Russa (anche se la sua nomina era stata solo formale). "Sandro, si sente la tua mancanza", a un certo punto lo aveva galvanizzato Berlusconi. Così per dire, come fa spesso il Cavaliere. Ma il ministro ci aveva creduto, tanto da essere lì lì per lasciare il dicastero, prima di capire che era stata una boutade e che Verdini avrebbe alzato le barricate. Invece ad alzare le barricate è ora il mondo della cultura che pretende cose impossibili per lui: non poesie ma riforme, non il "recupero della bellezza" ma quello dei soldi, non l'abilità comunicativa di un Resca ma un dicastero all'altezza del patrimonio più grande del mondo. Quello che un tempo vantava fior fiore di sovrintendenti come Andrea Emiliani, ora in pensione, Antonio Paolucci, scritturato al volo dal Vaticano o Nicola Spinosa, artefice del rilancio internazionale di Capodimonte, pre-pensionato di prestigio a causa della riforma, e ancora in attesa di conoscere il nome del suo successore, il quale commenta: "Se di fronte ai tagli non si ha la forza di difendersi e rafforzare la macchina del ministero, la battaglia è perduta".
A dir la verità, almeno una volta Bondi i muscoli li ha mostrati. Alleandosi con la sovrintendente Federica Galloni che ha posto dei vincoli su un pezzo di agro romano laddove il Piano regolatore di Veltroni prevedeva un milione di metri cubi da edificare. Un siluro per il Pd. Ma anche una bella grana per il sindaco Gianni Alemanno che, travolto dai forti malumori dei potenti costruttori, ha scongiurato Bondi di tornare sui suoi passi. Ma il ministro, per una volta, sembra di ferro. Per forza: la tattica è pura politica. In vista delle elezioni regionali 2010, l'obiettivo è portare l'attenzione, la premura, e gli interessi dei poteri forti della capitale nell'orbita berlusconiana. Certo così di far cosa gradita al Cavaliere. In fondo, Silvio è quel che gli interessa di più. Molto più del Fus, del patrimonio, degli Stati Generali della cultura, dei cineasti che urlano, degli enti lirici che boccheggiano, delle orchestrali a spasso, e persino del "recupero della bellezza".
il Corriere del Veneto
Sul Ptrc si abbattono 18 mila osservazioni
«Non lo fermeranno»
È probabile che l’obiettivo, magari non dichiarato ma percettibile, fosse quello di tenere inchiodato il Piano per chissà quanto tempo. E non un piano qualunque, bensì il leggendario Ptrc (Piano territoriale regionale di coordinamento), che, nelle intenzioni dell’amministrazione Galan, dovrebbe dare la rotta allo sviluppo del Terzo Veneto. Quasi 18 mila osservazioni, una massa impressionante, si è abbattuta da tutto il Veneto sul Ptrc, esposto al pubblico giudizio dopo l’adozione avvenuta nel febbraio scorso. La gran parte di queste (quasi 15 mila) sono frutto di un lavoro organizzato e fanno capo alla Rete dei Comitati, che mette insieme 118 tra associazioni e raggruppamenti spontanei di cittadini. Nel mirino dei critici ci sono, soprattutto, gli agglomerati nevralgici individuati dal Piano per il Veneto di domani: da «Veneto City», futura capitale commercial-direzionale che dovrebbe sorgere nell’entroterra veneziano all’intersezione tra l’autostrada A4 e il Passante di Mestre, alla cittadella aeroportuale del «Marco Polo».
Ebbene, nonostante la mole di lavoro sia innegabilmente enorme, la giunta regionale terrà fede al suo proposito: «Nella seduta del 4 agosto, l’ultima prima delle ferie - ha ribadito da palazzo Balbi l’assessore all’Urbanistica, Renzo Marangon - noi licenzieremo la bozza del Ptrc e la invieremo al consiglio regionale per l’approvazione definitiva». Questo consiglio o il prossimo, visto che la scadenza della legislatura non è lontanissima.
E le osservazioni? «Avranno risposta assicura l’architetto Romeo Toffano, dirigente regionale della panificazione territoriale - anche se non una per una. Le abbiamo ordinate per gruppi secondo le diverse tipologie (un centinaio, ndr) e per gruppi forniremo un responso. Tra l’altro, posso dire che più di qualche rilievo, per quanto riguarda la struttura tecnica, può essere accolto». Ma non quei rilievi, sia chiaro, che intaccherebbero le scelte fondamentali del Piano.
Marangon ribadisce: «Tutte le osservazioni meritano rispetto e considerazione. Ma non devono essere un ostacolo sul cammino del Ptrc: la politica deve decidere e noi decideremo nei tempi previsti».
il Gazzettino
Piano di coordinamento,
superlavoro per rispondere a 15mila osservazioni
Si faranno gli straordinari, a Palazzo Balbi, e si lavorerà pure il sabato per rispondere alle 15mila osservazioni al Ptcr, il Piano territoriale regionale di coordinamento adottato dal consiglio lo scorso inverno. Una valanga di richieste di modifica - delle 15mila presente ben 14.500 provengono da associazioni e comitati - che rischiava di bloccare lo strumento di pianificazione, ma che l’assessore Renzo Marangon ha deciso di far valutare in tempi stretti. Nella giunta del 4 agosto, l’ultima prima della pausa estiva, Marangon è deciso a portare tutto il blocco di osservazioni con relative controdeduzioni, così da spedire il Piano all’esame del consiglio regionale per l’approvazione finale. “Si tratta per lo più – precisa l’assessore – di osservazioni riconducibili a un centinaio di tematiche, alcune di tipo generale, altre riferite a situazioni locali. Sono comunque osservazioni puntuali, frutto di un lavoro di lettura ed analisi del Ptrc, che meritano quindi rispetto e attenzione, molte delle quali potranno essere accolte dalla giunta». Delle circa 15 mila osservazioni pervenute entro il 10 luglio, 300 sono state avanzate da enti locali e associazioni di categoria, le altre da cittadini. «Se qualcuno pensa che questo gran numero possa rappresentare un ostacolo alla corretta istruttoria del procedimento, si sbaglia – sottolinea Marangon - Il Piano è una risorsa per tutti. E devo ribadire che la giunta regionale ha avuto il grande merito di coniugare in un unico piano la tutela del territorio con lo sviluppo della società». Presentata anche la pubblicazione–cofanetto dove sono riportati tutti gli atti e i documenti, anche su base multimediale, relativi alla storia del Ptrc, dalla Carta di Asiago sino alla sua adozione in consiglio regionale.
“Verba volant, scripta manent”...è vero. Ma ci sono parole che pesano come macigni e che un minimo senso del pudore dovrebbe relegare nell’ambito del pensiero non espresso.
E’ stata un’esperienza istruttiva, nonché traumatica, assistere alla presentazione del PTRC in una riunione del PDL a Mirano. L’incontro era aperto, ma il pubblico presente (quasi) tutto evidentemente schierato, tanto che, dopo un inizio diplomatico, confortati dagli applausi sperticati di (quasi) tutti gli astanti, i relatori si sono lasciati andare a briglia sciolta in dichiarazioni a dir poco sguaiate. Increduli, abbiamo annotato alcune frasi che riportiamo fedelmente, nell’intento di far comprendere fino in fondo – se ce ne fosse la necessità – da quali galantuomini siamo governati.
L’Arch. Sandro Baldan presenta - si fa per dire - il Piano, facendo scorrere slide a raffica. Inserisce la parola “sostenibile” ogni tre/quattro frasi, attenendosi alla media registrata durante gli incontri pubblici che presentino “qualsiasi cosa”. Nel descrivere la Rete Ecologica regionale ci tiene comunque a precisare, rivolgendosi agli amministratori locali presenti, che:
“…nel caso in cui i Sindaci rilevino che i corridoi ecologici rientranti nel territori dei rispettivi comuni intralcino qualche intervento già programmato, possono segnalarlo con apposite osservazioni, e sicuramente ci saranno margini per opportune variazioni.”
Dalla Tor ci tiene subito a precisare che il PTRC non lo ha letto (…ma allora cosa ci sta a fare?).
Ma una cosa è certa:
“Il Miranese e la Rivera del Brenta sono il perno dell’Europa, area sulla quale disegnare lo sviluppo del futuro.” In questo contesto “…il passante diventa l’opportunità per interconnettersi su tutta la realtà infrastrutturale circostante.”
Certo si era ben compreso che lo scenario era questo, ma sentirselo dire in modo così diretto fa un certo effetto…Anche il consigliere Moreno Teso non intende entrare nel merito del Piano, perché a lui interessano solo due obiettivi:
“Questo PTRC serve principalmente a fare in modo che il PTCP, con tutti i suoi vincoli al territorio, non venga licenziato, in quanto non coerente ad un Piano sovra-ordinato.” Inoltre “…l’attuale PTRC annulla tutti i vincoli del precedente Piano votato dalla sinistra, e ci adopereremo per modificare anche altri vincoli imposti dalle leggi dello Stato.
"Le aree SIC e ZPS sono una porcata, opera di qualche funzionario deficiente volato a Bruxelles a tirare quattro righe su una carta.”
Conclude il potentissimo assessore Chisso, delegato alle infrastrutture e agli interventi strategici, al quale va la Palma d’oro dell’eleganza e della competenza.
“ Solo a sentire la parola Piano mi viene il prurito! Come rimpiango il grande Veneto di una volta, costruito dai nostri bravi vecchi Sindaci del “butta sù”, quando bastava andare dal primo cittadino e dire “Sior Sindaco, gavaria bisogno de un altro cappanon, de una stansa in più par la nonna…”
“Butta sù, caro, butta sù!”.
Per questo la filosofia di fondo del PTRC è: tutto è permesso fuorchè quello che è vietato. E speriamo che le osservazioni che perverranno ci aiutino a ridurre ulteriormente il numero degli articoli presenti nelle norme tecniche.”
Certo permane qualche piccolo ostacolo dettato dall’Europa…
“A causa di quelle maledette aree SIC ci ritroviamo con ¾ del Veneto vincolato… per far copulare quattro Fraticelli minori ci tocca spostare le opere pubbliche…roba da matti. Ma se non riusciremo a ridurre la quantità di territorio vincolato dalle SIC faremo comunque in modo di concentrarle verso la montagna!”
Infine una piccola lezione di economia:
“Ormai chi si fida più a mettere i soldi in banca. L’unica possibilità di uscire dalla crisi è puntare sull’immobiliare, ed è per questo che è necessario agire sul territorio per attrarre il più possibile gli investitori di questo settore”.
Lo shock al quale eravamo sottoposti ci ha permesso di registrare solo in parte il repertorio di orrori al quale abbiamo assistito. Ma ce n’è abbastanza per aprire una rubrica da intitolare “Sentiti con le nostre orecchie”, che varrebbe la pena di tenere aggiornata.
Del resto c’erano tutte le premesse, fin da quando nella primavera scorsa, nei primi incontri di presentazione del PTRC, l’Architetto Romeo Toffano, parlando del “nuovo paesaggio” disegnato dal Piano, ci erudiva sul fatto che le strade servono anche per ammirare il bel paesaggio veneto, e coniò quella perla di aforisma, degna di un novello Oscar Wilde:
“Le strade sono la mediazione tra natura e cultura”
Laboratorio Mirano Condivisa
I NUMERI. A Fiesso, il minore tra i Comuni veneziani, un progetto del valore di 200 milioni di euro Interventi edilizi per 230 mila metri cubi su una superficie in riva al Naviglio del Brenta
FIESSO D’ARTICO. La Città della moda si prepara a salire in passerella: saprà sfilare in modo elegante, o inciamperà dopo i primi passi? C’è chi è pronto a immortalare l’ingloriosa caduta, e chi non vede l’ora di spellarsi le mani per un progetto che, nell’intento di chi lo sostiene, servirà a rilanciare nel mondo l’immagine della Riviera del Brenta e del distretto della calzatura. Un progetto i cui numeri svelano, prima di tutto, i contorni di una grande operazione immobiliare, dal valore complessivo stimato in oltre 200 milioni di euro, con interventi per circa 230 mila metri cubi su un’area di quasi 52 mila metri quadrati, con edifici che potranno raggiungere un’altezza di 18 metri, a ridosso del Naviglio del Brenta. In attesa che la ditta costruttrice, la Cervet di Mirano, presenti il progetto definitivo, atteso per la fine di gennaio, è possibile ricostruire la storia di un intervento che cambierà la faccia della Riviera del Brenta. Un progetto urgente, necessario? «Oddio, queste sono parole grosse», dice il presidente dell’Acrib, Giuseppe Baiardo, «però il progetto lo abbiamo visto, e ci piace».
La genesi. Di Città della moda si fa un gran parlare verso la fine degli anni Novanta, periodo che segna un punto di svolta nella produzione della calzatura. Sul mercato si affaccia la Cina, che abbatte il costo della manodopera. I calzaturifici si trovano di fronte ad un bivio: o delocalizzare, come fa (in Romania) il vicino distretto della scarpa di Bussolengo, nel Veronese; o imboccare la strada dell’alta qualità, come fa il distretto della Riviera. Per questo l’Acrib comincia a immaginare un polo ad alta tecnologia a servizio degli operatori. La Città della moda nasce quindi da un’idea dell’Acrib, nel 1996, e nel 2000 è perfino citata negli accordi sindacali. Per capirne lo spirito: «Sarà necessario un concorso di idee internazionale che coinvolga i maggiori urbanisti per pianificare l’intero progetto». L’Acrib lancia l’idea e poi, anche per alcune acredini interne, resta a guardare, a vedere che succede. Sono anni di grande mutazione e nessuno potrà dire come andrà a finire: oggi sono resistite poche grandi firme (Caovilla, Ballin, Shy e alcune altre) mentre la gran parte delle aziende produce conto terzi, per le più prestigiose firme del Fashion Sistem: un settore che (dati 2006) vale oltre 1750 milioni di euro di fatturato, il 15% dell’intero sistema calzaturiero italiano. In una stagione di incertezza, dopo le sollecitazioni dell’Acrib, il progetto comincia a decollare solo quando si muovono i Comuni, che mettono le mani nei Piani regolatori. In un primo momento l’area destinata alla Città della moda è pensata in due parti vicine: A Stra (progetto mai decollato) una nuova zona artigianale per raggruppare tutte le fabbrichette della zona, e a Fiesso la parte direzionale e di ricerca.
Forza Ds. A Fiesso l’idea diventa realtà con il sindaco Vladimiro Agostini (Pci-Pds-Ds-Pd, oggi presidente dell’azienda di servizi Veritas, ex Acm) l’uomo politico più importante del paese, sindaco per tre mandati. E’ lui a individuare una zona di circa 118 mila metri quadrati a Nord del Naviglio del Brenta, lungo via Piove. Chi è il proprietario? Il suo principale avversario politico, l’ex candidato sindaco del centrodestra e all’epoca capogruppo d’opposizione di Forza Italia, Paolo Semenzato, con i suoi fratelli. L’area, con decisione (all’unanimità il 15 novembre 2001) del consiglio comunale si trasforma da agricola ad edificabile, aumentando in maniera esponenziale il suo valore di mercato. Non è dato sapere i termini del contratto preliminare siglato, in ultima battuta il 16 ottobre 2006, dai fratelli Semenzato e la Cervec (la società che ha guidato fin qui l’operazione immobiliare, di cui è socio di maggioranza Francesco Fracasso, amministratore anche della società costruttrice Cervet) davanti al notaio Lucia Tiraolosi di Mestre, anche perché il contratto preliminare non è ancora stato perfezionato. Diverse sono le variabili che possono entrare in una simile comprevendita, ma basti dire che il valore di un metro quadro di terreno agricolo, da queste parti vale, al massimo, 25-30 euro al metro quadrato, anche se per qualche tecnico interpellato è già un valore sovrastimato, soprattutto in casi di grandi appezzamenti. Un terreno edificabile, invece, può essere valutato fino a 200 euro a metro cubo urbanistico edificabile. E’ un calcolo complesso, che abbiamo affidato ad alcuni tecnici esterni. Restando cauti possiamo comunque dire che il valore del terreno è stato quanto meno decuplicato (da 3 milioni a 30 milioni di euro). In tempi di “caste”, a voler pensar male, gli argomenti non mancano: a Roma lo chiamerebbero inciucio. E’ pur vero che Fiesso, con 6,3 chilometri quadrati di estensione, è il più piccolo comune del veneziano, ma era quella, lungo il Naviglio, la sola area a disposizione? «Sì», dice l’attuale sindaco di Fiesso Daniela Contin, che all’epoca era consigliere comunale: «Era la migliore. Che l’area fosse di Semenzato è solo un caso». L’esponente di Fi, prof universitario che si occupa di ecologia, dopo quel mandato ha lasciato la politica. Nel novembre 2003 la variante è stata approvata dalla Regione.
Lo strano caso del Piruea. Vuol dire: Piano integrato di riqualificazione urbanistica edilizia e ambientale. E’ un accordo tra Comune e privati che solitamente prevede che, a fronte di un aumento di cubatura, il Comune ottenga un riconosciuto vantaggio pubblico. I tecnici di alcuni comuni ai quali abbiamo mostrato la documentazione, a vedere il Piruea di Fiesso sono sbiancati in volto, perché a Fiesso, la grammatica urbanistica, dicono, è stata usata in modo creativo. Il Piruea è uno strumento che solitamente viene usato nei centri delle città, o in zone degradate. Solo che in via Piove non c’è nulla da riqualificare: solo zolle di terra. Lo ammette anche il sindaco Contin, che serviva fare presto, e che l’utilizzo del Piruea, presentato il 23 febbraio del 2005 dalla Cervet di Mirano e votato all’unanimità dal consiglio comunale solo cinque giorni dopo, era un escamotage per accelerare i tempi di realizzazione. «Dovevamo e dobbiamo fare presto - dice la Contin - perché la Riviera ha bisogno di questo progetto, io ci credo». Il concorso di idee finisce in soffitta e la Cervet procede in proprio alla progettazione. Immagina la Città della moda stesa su 109.683 metri quadrati, con gli edifici che lambiscono il Naviglio. Il vantaggio per il Comune qual è? La costruzione di un grande museo della moda, su una superficie di 2.000 metri quadrati, per un valore di 3 milioni e 100 mila euro. Un museo il cui futuro è ancora tutto da scrivere.
Fiumi e Monti. E’ il Sovrintendente ai Beni architettonici del Veneto, Guglielo Monti, a conficcare nel terreno alcuni paletti. «Trovo completamente aberrante - spiega al sindaco in una riunionedel 23 giugno del 2005 - l’idea di costruire un centro nuovo sulla riva di un fiume importante come il Naviglio trasformando una vasta area rivierasca in un parcheggio con gli edifici». E’ c’è una riflessione che fa Monti, che in molti a Fiesso hanno fatto: «Se la Riviera deve il suo prestigio alle ville, alla sua storia, non si capisce perché non si possa utilizzare le ville e la storia. Soprattutto per operazioni di immagine». Stupefatto per il clima di bonomia che circonda il progetto, Monti sbotta: «La Riviera vuole continuare a fare un intervento dietro l’altro per rovinare la propria immagine». Per non dire, sempre sul piano ambientale, della battaglia aperta con la Provincia sulla necessità o meno di procedere con la valutazione di impatto ambientale che, a conti fatti, limando i testi dei documenti, non è stata realizzata. In ogni caso Monti impone un limite di 150 metri dalla riva del Naviglio e questa imposizione obbliga la Cervet a ricalibrare il progetto su un’area più piccola.
Consonante sbagliata. Del vincolo di Monti ha dovuto tenere conto anche il Comune, (con un passaggio in consiglio comunale il 14 marzo del 2006). Nella stessa delibera il Comune decide, dando risposta anche alle sollecitazioni del costruttore, di introdurre all’interno della Città della moda la possibilità di realizzare negozi su un’area di 10 mila metri quadrati. Venticinque negozi di moda che saranno anche la prima parte del progetto ad essere costruita. «Tale modifica si è resa necessaria - spiega il documento del parlamentino votato all’unanimità - per offrire agli operatori interessati una dotazione di minima di attività commerciali destinate alla vendita di prodotti». E’ così l’area oggetto dell’intervento viene riclassificata da «F» a «D». E’ questo il documento che, sostanzialmente, chiude l’iter sulla carta della Città della moda. Il 20 giugno 2006 la Regione approva il Piruea, e a metà ottobre dello stesso anno il Comune di Fiesso rilascia il permesso di costruire. Poche settimane fa è stata recintata l’area oggetto dell’intervento. In questo anno la Cervet ha lavorato ad un progetto, che chi ha già visto definisce ad alta tecnologia, di cui svelerà i dettagli solo tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio. Ma quali sono gli attori di questa partita immobiliare, e cosa diventerà davvero la Città della moda?
(1-continua)
Qualche immagine della Riviera del Brenta, raccolta a casaccio su google e inserita qui sotto. Non abbiamo altri commenti se non questa frase di Wogang Goethe, citata da Antonio Cederna nel suo articolo I gangster dell'Appia (Il Mondo, 1953):“Questi uomini lavoravano per l'eternità; tutto essi hanno preveduto tranne la demenza dei devastatori, cui tutto ha dovuto cedere”
MILANO — «Assatanati di cemento. E non solo», dice, lapidario, Andrea Zanzotto. Qui non si tratta di poesia, l'arte della sua lunga vita, ma di speculazione senza limiti e della nobile battaglia per fermarla, prima che il paesaggio del suo Veneto venga completamente divorato dall'edilizia. E perfino dalla viticultura selvaggia. «Hanno spostato anche le colline — spiega — per avere la terra esposta al sole. In nome del prosecco». «Ricordo le vecchie serre di vetro dove crescevano fiori e ortaggi — continua Zanzotto —. Ebbene, il sindaco di Paese, nei pressi di Treviso, mi ha telefonato per dirmi che ha visto spuntare alcune serre simili a castelli di cemento...».
Il poeta ottantaseienne continua a raccontare la casistica dolorosa della modernità senza controllo. «Finché avrò fiato la combatterò», afferma. Ma Zanzotto non è solo. In Veneto, come sta succedendo in Toscana (si pensi alla diatriba sulla cementificazione di Monticchiello val d'Orcia), sono sorti alcuni comitati in difesa dell'ambiente, che raccolgono via via numerose adesioni. Sicché, il poeta trevigiano leader carismatico di questa crociata, è il promotore di un incontro tosco-veneto, che si terrà il prossimo 14 dicembre nelle sale del castello di Collalto a Susegana (Treviso). L'obiettivo è duplice: riunire i comitati locali in un Coordinamento chiamato «Paesaggi veneti sos»; e confrontarsi con l'esperienza dei toscani, guidati da Alberto Asor Rosa, che, con una serie di proteste, sono riusciti ad ottenere risultati significativi. La loro battaglia, certo, non è ancora vinta, ma autorevoli interventi delle istituzioni dimostrano che vale la pena di lottare.
A Susegana, dunque, con Andrea Zanzotto ci saranno Asor Rosa e Nino Criscenti, altro uomo di punta della Rete toscana. Dal Veneto, invece, sono attesi, i docenti universitari Francesco Vallerani e Giorgio Conti, il verde Gianfranco Bettin, alcuni esponenti del Fai e Pier Alvise Serego Alighieri, in rappresentanza di «SalValpolicella», associazione impegnata difendere un'area paesaggistica e agricola dal rischio di trasformarsi in una sorta di periferia-dormitorio di Verona. Non potranno essere presenti al meeting Mario Rigoni Stern ed Ermanno Olmi, ma si sono schierati con il poeta. Zanzotto non si perde d'animo. Lui, che esordì nel 1951 con il suo primo libro di versi
Dietro il paesaggio, è un ambientalista di lungo corso. «Nel dopoguerra — ricorda — quando bisognava ricostruire si scatenò un fervore edilizio tanto forte quanto casuale. Fu allora che il cancro della speculazione si annidò. Poi, si espanse. E ora? Bisogna fermarsi, altrimenti non resterà più nulla». Al suo paese, Zanzotto si è esposto pubblicamente contro la costruzione del palazzetto dello sport. «Con questo edificio si distrugge l'ultimo prato di Pieve di Soligo », disse sfidando i politici locali. Volevano erodere il Brolo del monastero di San Giacomo di Veglia, a Vittorio Veneto, e il poeta è andato a parlare con la madre superiora. «Il progetto ora è bloccato — dice — ma fino a quando? L'amministrazione comunale è dalla parte dei costruttori».
«Con zerte teste che ghe n’è in giro…». A dispetto dell’amara sottolineatura con cui accoglie l’ospite, a 85 anni di inossidabile età, Andrea Zanzotto, uno dei massimi poeti viventi, non è affatto disponibile ad arruolare pure la sua nello stuolo di teste che, in giro per il Bel Paese, sacrificano il paesaggio allo sviluppo. Perciò si è messo di traverso, deciso a salvare l’ultimo angolo verde della sua Pieve di Soligo, dove è nato e dove ha sempre voluto vivere.
Facendone un luogo-simbolo del Veneto stravolto da un’edilizia onnivora, così come sta combattendo in Toscana Alberto Asor Rosa a difesa di Monticchiello. «Mi spiacerebbe vedere il poeta trasformarsi o trasformato in un personaggio di Cervantes», tenta di ironizzare Glauco Zuan, segretario della sezione comunale della Lega; e viene da pensare quanto poco «zerte teste» capiscano di don Chisciotte, e meno ancora dei poeti.
Non sanno, «zerte teste», che il legame di Zanzotto con la terra è profondo e da sempre («se penso che il mio primo libro di versi, nel 1951, l’ho intitolato Dietro il paesaggio…»). E che dunque, oggi come mezzo secolo fa, non riesce ad accettare l’idea di voler costruire un palazzetto dello sport sull’ultimo fazzoletto di verde riuscito fin qui a resistere al cemento: «Io non ho niente contro lo sport, anche se non mi emoziona più come una volta, adesso che ha perso la sua innocenza; guardi cosa si fa in nome del "dio balòn"… Quello che contesto è che sia stato scelto l’ultimo pezzetto di verde ben visibile, lungo una strada che si chiama via Mira proprio per lo spettacolo che si vede dall’alto». E invita a salire, per rendersi conto, sulla collina di San Gallo che domina il quartiere del Piave: «Da lì si vede netta la macchia lebbrosa che si sta dilatando nella pianura».
Non è un’infezione locale: quella lebbra sta corrodendo nell’intera regione i paesaggi immortalati nelle quinte pittoriche di Giorgione, di Tintoretto, di Tiziano. «La marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto ricco di arte e di memorie è arrivata ad alterare la consistenza stessa della terra che ci sta sotto i piedi», denuncia Zanzotto. E descrive lo spessore di questo legame che ha retto per secoli prima di venire eroso dalla logica illogica dello sviluppo a tutti i costi: «In noi c’era una riconoscenza diretta per la terra salvatrice, che non serviva solo a darci sostentamento ma aveva in sé anche i connotati di un rifugio; la sentivamo davvero come "mater tellus", verso di lei avevamo un attaccamento furibondo». Un rapporto quasi inscritto nel Dna della persona: «Ho sempre avuto una forte sensibilità per la natura; fin da bambino, se scappavo di casa dopo aver combinato qualche marachella, andavo a rifugiarmi in un boschetto». A non molta distanza da qui nello spazio, molto più distante nel tempo, monsignor Giovanni Della Casa aveva scelto proprio un bosco per scrivere il suo Galateo.
Era un sentimento condiviso: «Quel paesaggio della mia infanzia era ben coltivato, i contadini ci lavoravano lasciando intatto il fiorire della terra. Poi, un po’ alla volta, si è cominciato a sfruttarla il più possibile, e dagli anni Ottanta stiamo assistendo a un autentico degrado di fronte al quale non possiamo non indignarci: bisogna fermare lo scempio che vede ogni area verde rimasta come area da edificare. Una volta esistevano i campi di sterminio, oggi siamo allo sterminio dei campi».
Nessuna crociata di retroguardia per nostalgia di un piccolo mondo antico, assicura Zanzotto: «Il cambiamento è un moto necessario, ma bisogna vedere con che velocità, come e quando si muove». E invita a imparare dalla natura quale sia l’autentico modello di sviluppo: «Guardate le piante, ciascuna di esse ha il suo criterio per crescere, e a un certo punto si ferma. Oggi invece prevale una formula che sottintende che tutto ciò che accade dovrebbe comunque accadere. Ma così si va contro anche a quel senso estetico del costruire che era connaturato al Veneto di una volta, e che aveva creato le condizioni ideali per i grandi capolavori artistici di questa terra».
Il suo è un appello forte: «Salviamo un prato in ogni paese». E ha cominciato lui per primo, a difesa del verde residuo di Pieve di Soligo («il Palasport lo facciano, ma da un’altra parte»): con una passione così forte che lo stesso governatore del Veneto Giancarlo Galan si è schierato dalla sua parte. Basterà per far cambiare scelta al Comune? «Pararìa», risponde Zanzotto nella dolcezza del dialetto. Sembrerebbe… Il condizionale è di rigore, stando a quanto sostiene il sindaco Giustino Moro, a capo di una civica di centrodestra: «Quell’area è destinata a opere di interesse pubblico per il gioco e lo sport fin dal 1988. Certo, noi non pretendiamo di avere la verità in tasca: mi sono già impegnato pubblicamente perché il Palasport sia di maggior qualità nell’espressione architettonica e nel rapporto con il contesto ambientale». Ma è il posto a essere sbagliato, ribadisce Zanzotto; e a questo punto il pallino torna alla Regione: se vuole tradurre in pratica le parole del suo presidente, deve chiedere la revoca della variante urbanistica che ha sdoganato il progetto.
«Io continuo la mia battaglia per salvare quel piccolo pezzo di terreno, oltretutto di golena antica», assicura Zanzotto; e parla del fiume che ha dato il nome al suo paese, il Soligo, «che qui gira, serpeggia, più in giù scava veri e propri canyon». Lo fa con la stessa intatta passione, con l’identica fresca melodia che animava i suoi versi di un tempo: «Io ti distinguo, cuna delle mie genti», scriveva nel 1960 dei Colli Euganei, «i colli in cui si tacquero / le torbide età prime». «Cuna», la culla. «Bisogna capire che salvare il paesaggio della propria terra è salvarne l’anima e quella di chi l’abita», conclude.
Sulla via del ritorno, scendendo verso la Manhattan di capannoni del quartiere del Piave, capita di passare per una sorta di Scilla e Cariddi della modernità. Sulla sinistra un cartello avverte «vendesi terreno edificabile a uso industriale». Sulla destra, un altro segnala «Grande Guerra-l’ultima battaglia», suggerendo una visita all’antica linea del fronte tra il Piave e il Grappa. E viene da chiedersi chi abbia fatto più guasti al paesaggio, se i cannoni di ieri o i capannoni di oggi.
Per fortuna, lì vicino, una voce indomita si ostina a non cedere alla rassegnazione. E a chiedere di aiutarla a far sì che la poesia non abbia cantato invano.
Temo che pochi avvertano la gravità di quel che sta avvenendo nel Parco dei Colli Euganei.
Mentre sembra che in tutto il territorio veneto si voglia finalmente, dopo i tanti disastri compiuti, porsi il problema di una maggior protezione ambientale e per questo si invocano nuovi strumenti di pianificazione (come ad esempio i PATI e il Piano Paesistico), nella parte più pregiata della nostra provincia, l’area dei Colli Euganei, è in atto un inesorabile smantellamento di quello strumento di pianificazione che già esiste da anni, il Piano Ambientale, e che è senza dubbio uno strumento serio e adeguato (al di là di ovvi eventuali aggiustamenti).
Purtroppo la debole difesa che di questo Piano hanno fatto (quando lo hanno fatto!) le forze della sinistra e, bisogna pur dirlo, le stesse forze ambientaliste, ha lasciato ampio spazio alla sua subdola, insistente demonizzazione da parte di chi, per cultura ma anche per interessi, è insofferente a ogni regola di pianificazione (quelle regole solitamente bollate in termini dispregiativi come “vincoli”). Così da subito, cioè da poco dopo la sua adozione nel ’94, lo si è lasciato mortificare e svilire per quanto riguarda le tante indicazioni finalizzate ad avviare qualificanti progetti urbanistico-ambientali (“progetti”, non “vincoli”), ma lo si è anche lasciato aggirare e boicottare su fondamentali normative di protezione (come quelle per i “paesaggi agrari”). Addirittura lo stesso Parco ha “tradito” spirito e lettera delle norme che proteggono i contesti delle emergenze architettoniche, cioè le aree simbolo di un paesaggio storico come quello dei Colli. E non è che a questo vero e proprio misfatto si stiano ribellando in tanti.
Ora siamo a una svolta cruciale: con una discutibilissima modifica alla legge istitutiva la gestione del Parco è stata affidata ai soli Sindaci. La modifica è di 15 mesi fa, ma solo in questi giorni il nuovo Consiglio ha iniziato l’attività.
Almeno un fatto, tra i tanti che meriterebbero un approfondimento, deve essere chiaro (al di là delle nomine di Presidente e assessori al solito rigorosamente lottizzate): che per la maggioranza degli attuali sindaci (di questi 12 su 15 sono di centrodestra) il Piano Ambientale è un ostacolo da rimuovere: “un capestro che mortifica la vitalità e le possibilità di sviluppo dell’area”. I Comuni devono essere liberi di gestire il loro destino urbanistico. Con l’esperienza del passato e con l’occhio attento a quel che sta succedendo - sviluppi residenziali sovradimensionati, apertura alle seconde case, pioggia di annessi rustici - c’è poco da star tranquilli.
Non dovrebbe esserci su questi temi, prima che sia troppo tardi, una maggiore mobilitazione del mondo politico e degli ambienti culturali “progressisti” padovani?
Personalmente questa esigenza, dall’interno del debole fronte delle associazioni ambientaliste e ora anche da componente del nuovo Consiglio dell’Ente, la avverto fortissima. E spero che finalmente coinvolga molti altri.
L'immagine è tratta dal sito www.berann.com
MESTRE. «Entro il 2007 si concluderanno i lavori del Passante». Un eccesso di entusiasmo fa anticipare a Berlusconi i tempi di chiusura dei cantieri, previsti - correggerà il tiro Galan - per il 2 maggio 2008, tra 758 giorni. L’annuncio arriva al termine del Cipe che ha detto sì a un complicato sistema di aumenti dei pedaggi che consente all’Anas di contrarre mutui per 636 milioni di euro.
Alle 12.36 da Roma rimbalza attraverso le agenzie l’annuncio di Silvio Berlusconi. «Entro il 2007 il Passante sarà finito». Il presidente del Consiglio si lascia andare all’entusiasmo al termine del Comitato interministeriale di programmazione economica che ieri ha detto sì all’introduzione di isopedaggio e isoricavo nelle convenzioni tra Anas e società autostradali, per la gestione del Passante.
Garantiti i fondi.L’atto garantisce da oggi la copertura finanziaria ai mutui per 636 milioni che Anas deve contrarre con le banche (la gara è in corso) per finanziare la bretella, spiega il commissario Vernizzi. E non appena ci sarà la firma sul decreto interministeriale dei ministri Lunardi e Tremonti, scatterà il complesso meccanismo di aumenti che porterà in tre anni a equiparare il costo del pedaggio del Passante con quello di autostrada Venezia-Padova, tangenziale e A4 per Trieste, con incrementi alle barriere di Villabona, Mogliano e Quarto d’Altino.
La delibera. La delibera del Cipe autorizza l’inserimento negli atti aggiuntivi alle convenzioni con le concessionarie di autostradel «interferenti» col Passante di Mestre delle clausole legate ai pedaggi, «al fine di mantenere inalterata l’invarianza dei ricavi, rispetto alle stime di traffico (...) - si legge - nonchè garantire nel tempo il flusso di risorse necessarie per la realizzazione del Passante».
Galan contro De Piccoli. Tocca al governatore Giancarlo Galan rivedere le stime del premier. Negli uffici di Veneto Strade, rompe un gigantesco uovo di Pasqua che contiene il tracciato del Passante e l’ultimo dato del countdown, ovvero meno 758 giorni. La grande opera sarà pronta per il 2 maggio 2008. Un anno dopo il pronostico di Berlusconi. «Ero talmente sicuro dell’approvazione al Cipe che ho ordinato da tempo questo uovo, così grande non si fa mica in mezz’ora», dice Galan, dedicandolo a Cesare De Piccoli, il segretario veneto dei Ds che aveva lanciato l’allarme sulla mancata copertura dei fondi del Passante. «Ringrazio per l’attivismo De Piccoli, colui che sconfigge tutti, compresi i 5 saggi, per difendere Venezia. Ha scoperto una finta polemica. Perché per il Passante i soldi ci sono, non c’era alcun dubbio. Oggi il Passante ha ricevuto il condono tombale, non c’è più alcun se o ma. Capisco che si è sotto elezioni, ma questo continuo creare angoscia e porre dubbi è un metodo miserando; per ottenere due righe sul giornale non si può dire che il Passante si ferma».
Un sì al cardiopalma. Galan non nasconde la tensione della mattinata. La seduta del Cipe convocata alle 11 rischiava di saltare per assenza del numero legale. «C’è voluta una lunga insistenza da parte mia assieme a Miracco (il suo portavoce, ndr), Ghedini e Vernizzi - racconta - mentre Chisso è volato a Roma. Avevo da Berlusconi e Letta l’assicurazione che ci sarebbe stata la riunione. Alle 11.15 è arrivato Berlusconi, che è il miglior ministro che il Veneto abbia mai avuto: ha aspettato con Letta che ci fosse il numero legale». Per il via agli aumenti dei pedaggi, manca ora solo la firma di Tremonti al decreto interministeriale già sottoscritto da Lunardi. A una diversa interpretazione delle norme tra i due ministeri, la Regione inputa l’incertezza delle ultime settimane: il dicastero delle Infrastrutture riteneva che le modifiche alle tariffe non avessero bisogno dell’avallo del Cipe. Il ministero di Tremonti invece ha insistito per l’ok del comitato. «Problemi comunque non ce ne sono mai stati - afferma il commissario del Passante, Silvano Vernizzi - perché il 30 aprile 2004 è stato sottoscritto il contratto col contraente generale per oltre 500 milioni di euro. Andava solo introdotto il principio dell’isopedaggio nelle convenzioni tra Anas e tre società autostradali. Situazione unica in Italia, per questo si è modificata la delibera Cipe del 1996». Galan aggiunge: «Qualcuno ha speculato, in Italia le opere di project financing si fanno solo con la copertura finanziaria». Da Roma, l’assessore ai Trasporti Chisso replica a De Piccoli: «Il Cipe non ha introdotto deroghe in materia di tariffe. Tutto qui, il resto è solo propaganda». Il deputato ds Andrea Martella chiede però lumi sui ritardi: «Finalmente si è capito che era necessario passare per il Cipe, peccato che si sia perso del tempo visto che l’accordo tra le concessionarie e l’Anas era già stato siglato un anno fa. Ora Vernizzi deve chiudere in fretta con i Comuni di Mirano e Martellago». Il progetto definitivo della variante sarà pronto tra una settimana, assicura il commissario.
Nota: per capire meglio il contesto immediato - non solo e non tanto trasportistico - in cui si colloca il Passante, si veda su Eddyburg l'articolo a proposito della "Colata di cemento ai lati della bretella" in cui uno studio evidenzia come siano pronti a partire nei vari comuni dell'area progetti edilizi per commercio, servizi, attività produttive, il tutto "trainato" dalle nuove infrastrutture, il tutto in assenza di un quadro di coordinamento sovracomunale (f.b.)
Un Comune cresciuto di 300 mila abitanti, fino a 1,6 milioni, senza ulteriore consumo di suolo. Non più tre, non più cinque, ma ben dieci linee di metropolitana. Un sistema di otto Raggi verdi ciclopedonali per raggiungere l'anello dei parchi periurbani. Venticinque diverse aree in trasformazione, tra spazi residuali, ex fabbriche, ex caserme, ex stazioni ferroviarie. Concentrazione di tribù creative e giovanili tra Porta Genova e i Navigli. Il ritorno dell'attività agricola dentro ai confini comunali, visione adattata al XXI secolo di un romanticismo alla Carlo Porta, quando nei salotti si parlava dei bachi da seta oltre che degli austriaci da cacciare. Un libro dei sogni per Milano?
Detto così, non è difficile far dell'ironia: la città oggi è dinamica, benestante, colta ma inquinata, trafficata, insalubre, punitiva per giovani e poveri, sempre meno ospitale verso gli stranieri e gestita da una giunta Moratti politicamente poco compatta e claudicante tra i ritardi e i black out informativi sull'Expo 2015, la presunta panacea di tutti i mali. No, gli esempi anzidetti non riguardano la città di oggi. Riguardano la Milano del 2030. Sono alcune delle linee strategiche contenute nel nuovo Pgt, il Piano di governo del territorio. Uno strumento urbanistico lungamente atteso (era dal 1980, 29 anni fa, che la città non varava un Piano regolatore, e a dirla tutta quello era una "variante generale" al Piano del 1953) e non ancora noto all'opinione pubblica. Perché ne parliamo su "L'espresso"? Per tre motivi: perché Milano interessa tutti noi, essendo il principale collante tra l'Italia e l'Europa (nel dubbio attaccarsi alle Alpi, raccomandava Ugo La Malfa), con una massa critica economica, creativa e di ricerca tuttora senza pari nel Paese; perché la giunta Moratti, dopo il primo confronto, si appresta a lanciare (previo dibattito consiliare e un'auspicata discussione pubblica) un documento d'indirizzo che individua le linee di sviluppo di Milano nei prossimi vent'anni; perché, infine, abbiamo avuto modo di conoscere la parte progettuale del Pgt, il cosiddetto documento di piano, prima della presentazione ufficiale.
Anche se di questo si è iniziato a discutere in un paio d'occasioni: a giugno all'Urban Center, su Milano e Parigi a confronto, e ai primi di luglio in un incontro che ha visto insieme, in spirito dialogante, la Fondazione per la sussidiarietà e la Fondazione Italianieuropei, l'assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli, l'onorevole Maurizio Lupi per il governo e il democratico Carlo Cerami per l'opposizione. Il documento di piano è stato realizzato, su input dell'assessorato, da un gruppo di professionisti giovani e di esperienza internazionale, lo studio Metrogramma (architetti Andrea Boschetti e Alberto Francini) in coordinamento con l'Ufficio del Piano del Comune.
CRESCITA SOTTO CONTROLLO
Di quale Milano parliamo? Della città amministrativa: oggi 1,3 milioni di abitanti. Non ancora della città metropolitana, o Grande Milano, che a seconda degli studi comprende da 3,5 a 6 milioni di persone. La Milano di oggi è una città di pendolari e city users, in cui ogni mattina entrano 650 mila automobili. Ha una densità di oltre 7 mila abitanti al chilometro quadrato, tre volte e mezzo quella di Roma (ma la metà di Barcellona). Ospita 180 mila stranieri residenti (30 mila i soli filippini), ma nello scorso decennio ben 230 mila abitanti se ne sono andati nell'hinterland o altrove, la gran parte giovani e persone nel pieno dell'età produttiva.
Nel Pgt si conferma l'indirizzo della città attrattiva, che vuole riprendere a crescere dopo il calo demografico iniziato nel 1975, che è uno dei punti fermi della linea Moratti-Masseroli. Crescere, sì, ma come? Cementificare (come recita la vulgata d'opposizione) o densificare (come vuole il galateo dell'urbanistica internazionale)? Boschetti e Metrogramma ragionano su un'ipotesi di crescita consistente (seppure inferiore alla recente sparata dell'assessore Masseroli sui 700 mila abitanti in più grazie agli accresciuti indici di edificabilità): oggi i milanesi sono 1,3 milioni; l'obietivo è portarli a 1,6 in vent'anni. Alzando gli indici di edificabilità, ma senza ulteriore consumo di suolo: il consumo è oggi al 73 per cento del territorio; si vuole addidittura scendere, al 65. Può sembrare un paradosso: come si fa a ridurre il consumo di suolo se gli abitanti crescono? Vediamo.
SOTTO UN'ATTENTA REGIA
Il Pgt parla di riqualificazione. È come se la città fosse stata concettualmente divisa in una mappa di pieni e di vuoti, e si sia analizzato come dare nuovo senso ai vuoti (spazi residuali, aree in dismissione: industriali, ferroviarie, militari) senza costruire, allargandosi in orizzontale, come si è fatto finora. È chiaro che gli appetiti dei privati (a Milano i protagonisti sono noti e potenti: da Hines a Ligresti, da Cabassi alle Coop) spingono verso la deregulation.
Il Pgt è anche una camera di compensazione. Dà spazio ai privati, che hanno il capitale, ancorché risicato, ma mantiene una regia. Costruire non sarà solo, come vuole certa demagogia "di sinistra" o " di quartiere", l'arrembaggio del cemento, alias grattacieli e centri commerciali, argomento debole in tempi di perdurante recessione. L'intento è di riprogrammare Milano, come si esprime Boschetti, secondo una "dorsale continua e permeabile di città pubblica". In parole semplici, a Milano urge promuovere e riqualificare spazi civici, piazze, zone pedonali, parchi, boulevard alberati, piste ciclabili.
25 AREE STRATEGICHE
La Milano verso il 2030 si dovrebbe organizzare per aree di trasformazione urbana (la piantina è a pag. 57). Sono circa 25 aree, collegate da sei o sette cosiddetti epicentri che ne diffondano gli effetti in forma di servizi ai cittadini. La rinascita dello spazio pubblico in senso reticolare è un modello tipicamente europeo di questi anni: si pensi a Londra, Berlino, Barcellona, Lione, Rotterdam. L'esatto contrario, si può dire, del modello Dubai (che forse ispira alcuni dei grandi operatori immobiliari), basato su landmark architettonici, edifici simbolo di valenza promozionale. Di queste aree strategiche alcune sono già in trasformazione oggi ( Bovisa, Farini, Lambrate, Rogoredo) altre sono zone di sviluppo futuro, come l'Expo al confine con Rho, o San Siro, o le stazioni di Cadorna e Porta Genova.
Aree di trasformazione saranno le vecchie caserme (un solo esempio: nella caserma di via Mascheroni si trasferirà l'Accademia di Brera), ma anche il carcere di San Vittore. E chissà se traslocherà il Palazzo di Giustizia. Questo modello organizzato per reti di servizi potrebbe seguire anche vocazioni specifiche. Ricerca e università alla Bovisa; sport e spettacolo a San Siro; università a Città Studi-Lambrate; creatività giovanile a Porta Genova-Navigli.
Contemporaneamente il Piano ragiona in piccolo, sulla scala locale. Con i cosiddetti Nil, Nuclei di identità locale. C'è una mappa che mostra Milano come un tessuto maculato: 88 macchie, 88 quartieri da promuovere, arricchire di funzioni in una logica di prossimità. Perché si sa: c'è la città veloce, degli assi di attraversamento, e la città lenta, di piazze, quartieri storici, zone pedonali, dove ancora - è l'umanesimo italiano - ci si parla, ci si conosce, ci si aiuta.
COME MUOVERSI
Tema drammatico, per i milanesi. Oggi, oltre all'Ecopass (da migliorare), il Comune ha implementato gli ecobus e le tre linee di metrò, 75 chilometri attualmente, con indici di utilizzo crescenti (buona prova della gestione Moratti). Ma la nuova metropolitana M5 è a inizio cantiere, la M4 ai nastri di partenza ma solo in parte finanziata, la M6 persa nelle nebbie dell'Expo (cattiva prova). Lo scoop del Pgt è di quelli davvero onirici, in un Paese dal debito pubblico stellare: prevede sino a dieci linee di metrò in totale, le nuove in prevalenza radiali o tangenziali rispetto al centro. La seconda novità è la previsione di una rete ferroviaria circolare, una sorta di Circle line il cui tratto a ovest andrebbe chiuso con una metrotramvia, e una decina di nuove stazioni urbane. La terza, due nuovi assi attrezzati a sviluppo est-ovest: uno settentrionale, l'Interquartiere, dall'Expo all'ospedale San Raffaele; e uno meridionale, la Ronda del parco, da San Cristoforo a Santa Giulia-Rogoredo, tangente al Parco Sud.
FRA RAGGI E ANELLI VERDI
Se c'è una questione, diversamente da certi interventi di real estate pesante (vedi City Life), dove c'è maggior consenso tra maggioranza e opposizione, è il tema del verde. Sinistra e ambientalisti da tempo lanciano l'allarme sulle mire cementizie intorno al Parco Sud. Ma sull'idea di un Anello verde (i parchi periurbani) o sugli otto Raggi verdi, proposti da diversi soggetti, tra cui gli urbanisti del Politecnico e professionisti come Andreas Kipar o Stefano Boeri, il consenso è diffuso.
I Raggi verdi sono percorsi prevalentemente alberati per pedoni e ciclisti che dalla cerchia dei Bastioni si irradiano sino ai parchi di cintura. In tutto, il Pgt ipotizza sino a 250 chilometri di piste ciclabili, oggi un sogno, domani chissà. Nei quadranti sud e ovest il sistema dei parchi attende solo di essere sviluppato e collegato, altrove sarà lotta dura con proprietari e speculatori. Il Pgt, come peraltro lo schema individuato dal comitato di architetti dell'Expo, da Slow Food, dalle associazioni ambientaliste e agricole, vuole favorire il ritorno dell'attività agroalimentare nel Sud Milano. Il Comune e la Provincia, a prescindere dall'assai reclamizzata iniziativa a favore del verde di Claudio Abbado, hanno già iniziato a piantare decine di migliaia di alberi.
15 GRANDI PROGETTI PUBBLICI
Il Pgt è uno strumento nato da una legge regionale, la 12/2005 della Regione Lombardia. Ovviamente non contiene alcuna indicazione su chi debba costruire cosa. Tuttavia si ipotizzano 15 grandi progetti di interesse pubblico, indipendentemente dalle risorse finanziarie disponibili. Ne anticipiamo alcuni: la Passeggiata urbana dei Bastioni; la Circle line del ferro (citata sopra); il West park dell'intrattenimento tra Boscoincittà, Cave, Trenno e San Siro; il Filo rosso dei parchi periurbani, 72 chilometri ciclabili a sviluppo circolare collegati con i Raggi verdi. Oggi, anche soltanto un paio di queste idee ci sembrano, come si diceva, da libro dei sogni. Ma di qui al 2030, avendo a disposizione uno strumento forte, non ideologico, il più possibile condiviso tra diverse aree politiche, perché impedirci di sperare? La città di Ambrogio, con sette università e 180 mila studenti, è un laboratorio di idee assai vivace. Fatica a diventare politica e a tradursi in opere, è vero. Ma una Milano più europea può tornare a ispirare la parte moderna e viva dell'Italia.
La "terza via" della Cgil. Perché "tra la minaccia di un fermo dell’edilizia e il superamento dei vincoli ambientali, c’è un’altra soluzione". La indica Claudio Di Berardino, il segretario della camera del Lavoro di Roma e del Lazio, prendendo una posizione diversa sia da quella dei costruttori ("si rischia il blocco degli investimenti privati"), sia da quella a oltranza degli ambientalisti.
Con i nuovi proposti dalla sovrintendenza non temete anche voi un fermo nelle costruzioni?
"No, perché non si può approfittare della crisi per proporre uno stravolgimento delle regole o dei vincoli ambientali. Non può passare l’idea che lo sviluppo di Roma coincida solo con nuove urbanizzazioni: bisogna invece parlare di investimenti produttivi, di rilancio del turismo, dei servizi, di economia e di qualità del lavoro".
Ma i costruttori sostengono che l’edilizia muove il 25 per cento dell'economia romana.
"È vero. Edilizia, però, non è solo nuove urbanizzazioni. Ripeto esiste una 'terza via'".
Quale?
"Dare inizio ad un nuovo ciclo (in genere i cicli edilizi durano dai 10 ai 15 anni) fatto di piani di recupero, di riqualificazione della città iniziando dalle periferie, come il completamento degli interventi dei così detti articoli 11, e di contratti di quartiere".
Qualifichiamo quello è già urbanizzato e non pensiamo solo a nuove urbanizzazioni?
"Esatto. Come ad esempio la costruzione di nuovi alloggi di edilizia sociale. In una proposta che abbiamo avanzato, con le attuali norme del Piano regolatore si possono costruire subito 7.000 alloggi di edilizia sociale, le ex case popolari".
Anche senza i 5.400 ettari fra l'Ardeatina e la Laurentina?
"In quella zona era edilizia privata e agevolata: ovvero l’impresa costruisce, poi applica canoni particolari. Ma non sono case popolari come quelle che vengono costruiti dal Comune su finanziamenti regionali o statali. E questi alloggi sono previsti su tutta Roma: questi 7.000 alloggi si possono costruire al di là dei vincoli".
Quindi siete perché i vincoli rimangano?
"Diciamo che il Prg e i vincoli sono parte delle regole, che servono a fare in modo che ci sia uno sviluppo armonico e sostenibile ".
Tifate per la sovrintendenza?
"Per le regole. La sovrintendenza è un’istituzione, se il vincolo è giusto va messo. E il tavolo interistituzionale dovrebbe servire per progettare lo sviluppo della città e attuare le norme".
Regole che non impedirebbero il lavoro dei costruttori?
"No, possiamo aprire un ciclo di recupero e di riqualificazione, mettere in sicurezza il patrimonio edilizio, costruito nel dopoguerra in cemento armato, che quindi ha subito un deterioramento. Pensiamo alle infrastrutture che non devono più rincorrere l’espansione edilizia ".
E per gli alloggi popolari?
"Sono state individuate aree intorno alle stazioni ferroviarie, c’è il recupero di scuole abbandonate e delle caserme dismesse. E facciamo ripartire i cantieri pubblici: con l’attuale crisi l’economia romana non gira se non si riparte dal pubblico. Va rimessa al centro la linea strategia della qualità urbana e del lavoro.
La soprintendente di Roma mette i vincoli su un pezzo di agro romano, dove il Piano regolatore prevede oltre un milione di metri cubi di nuova edificazione. Il ministro Bondi la sostiene, Pdl e Pd di Regione, Provincia e Comune la attaccano e si schierano con i costruttori
La soprintendenza ai beni architettonici del comune di Roma sta tentando di mettere i vincoli a una porzione di agro romano e scatena le reazioni dell’amministrazione capitolina [Pdl], della Provincia di Roma [centrosinistra] e della Regione Lazio [centrosinistra]. Si costituisce così un fronte trasversale a sostegno dei costruttori romani che rivendicano i diritti acquisiti con il Piano regolatore targato Veltroni, che lì prevede oltre un milione di metri cubi di nuove edificazioni. E’ questa, in estrema sintesi, la vicenda generata dal recente provvedimento della soprintendente Federica Galloni, che ha apposto la tutela su 2.700 ettari di campagna romana nella zona fra via Laurentina e via Ardeatina, su terreni di proprietà dei due fratelli Caltagirone, Francesco Gaetano e Leonardo, e del gruppo di Paolo Santarelli, potentissimi costruttori della capitale. L’azione della soprintendente era partita già lo scorso anno, con la presentazione di 120 osservazioni al Prg della capitale, evidentemente ignorate. Da qui la recente apposizione dei vincoli su terreni di pregio ricadenti nelle zone Cecchignola, Tor Pagnotta, Castel di Leva, Falcognana, Santa Fumia e Solforata, ex borgate già ampiamente massacrate dalla speculazione edilizia e dalle previsioni del Piano regolatore di Veltroni. La soprintendente è sostenuta dal ministro dei beni culturali Sandro Bondi, coordinatore nazionale del Pdl, al quale il sindaco Gianni Alemanno a un certo punto ha fatto appello anche in nome della comune appartenenza politica. Invece, il ministro Bondi per ora tiene e concede solo un tavolo di concertazione con le istituzioni competenti, cioè comune e Regione. E c’è già chi parla di uno “sgarbo” ad Alemanno ben meditato all’interno del Pdl, per creare problemi al sindaco e alla sua area politica con i “grandi elettori romani” in vista delle elezioni regionali nel 2010.
Chi invece non tiene proprio e sembra essere sull’orlo di una crisi di nervi è il Pd, nelle autorevoli figure del capogruppo in comune Umberto Marroni, del presidente della Provincia Nicola Zingaretti e del vice presidente della Regione Esterino Montino. Manco fossero in campagna elettorale. O invece sì. Evidentemente sono in corso le grandi manovre per il congresso del partito a ottobre e per le prossime regionali: tentano di portare in dote i poteri forti romani, i “palazzinari”. Gli stessi corteggiati da Alemanno. Così facendo il Pd continua a confondere le idee a una parte consistente del suo elettorato, non a caso in costante erosione, che vede il centrosinistra insieme al centrodestra a raccogliere “il grido dei costruttori” e degli “interessi locali”, tralasciando ogni attenzione per gli interessi generali, per una qualità di vita che precipita e per un territorio massacrato dal cemento. Dalla loro parte c’è il sindaco Alemanno, che si candida come interlocutore più credibile per i palazzinari: dice che il Piano regolatore di Veltroni non gli è mai piaciuto, ma che non accetta di perdere gli investimenti e i posti di lavoro che i costruttori promettono per quelle aree. Intanto, una parte del centrosinistra cerca di nobilitare la battaglia contro i vincoli sostenendo che in quel pezzo di agro romano sono previste case “popolari”.
Centrodestra e centrosinistra insieme parlano della necessità di rilanciare lo sviluppo e fronteggiare la crisi con le consuete colate di cemento. Sarà così anche il Piano casa che la Regione si appresta ad approvare? Solo le associazioni ambientaliste, Wwf, Legambiente e Italia nostra innanzitutto, difendono il vincolo della soprintendenza e parlano di ignoranza delle leggi da parte dei vari amministratori quando lamentano l’ingerenza del ministero dei beni culturali che esercita il potere di tutela sull’agro romano: il fatto che nessun ministro prima se ne sia fatto carico non vuol dire che non si possa fare. Dal resto della sinistra un silenzio assordante.
La prima parte del piano di governo del territorio che l’assessore Carlo Masseroli ha presentato in giunta è un progetto che non può essere liquidato con le solite quattro parole: ci risiamo con la cementificazione. Non si può nemmeno prendere le distanze e passare oltre. Prima di esaminarne i contenuti vale la pena di fare due considerazioni. La prima: la congiuntura attuale di bassissima domanda di mercato se da un lato rende inattuale uno degli obiettivi del piano – l’edilizia a basso costo – dall’altro rende lo scenario degli operatori meno aggressivo, con tutto vantaggio di una riflessione più pacata e minori spinte sull’amministrazione.
La seconda considerazione è forse di maggior peso politico. È chiaro che il Pgt dell’assessore Masseroli, almeno nelle intenzioni, disegna uno scenario urbano all’interno del quale si vogliono definire aree con funzioni precise, si vuol proporre un riequilibrio di parti della città, si vogliono dotare i quartieri dei servizi dei quali hanno bisogno, in particolare del verde, si cerca di utilizzare aree dismesse – prevalentemente demaniali – il tutto con forte privilegio dell’interesse pubblico.
Insomma, un impegno che sembra guardare al rapporto pubblico-privato in maniera assai diversa da quella che è stata la prassi degli ultimi anni: meno disponibile verso gli interessi del blocco edilizio. Velleità? In questo momento un’apertura di credito è indispensabile, poi si vedrà.
Se queste sono le premesse, il conflitto di principio col piano casa in approvazione in Regione appare insanabile. Il piano casa non guarda in faccia a nessuno, non ha cultura, non si pone grandi problemi, è un’operazione fortemente connotata Lega, chi vuole e ha i soldi allarghi, alzi e ampli senza riguardo alle destinazioni d’uso: densificare la città come capita capita e accentuarne certamente gli squilibri. Ecco la vera sostanza del dibattito all’interno della maggioranza. La vena populista della Lega le fa dire di no all’edificazione sulle piste di allenamento dell’Ippodromo ma solo per dimostrare che sta dalla parte del popolo e non dei signori, poi però vuole la mano libera nel devastare la città.
Questa è la coalizione che governa Milano, questa è la gente che tiene in piedi il governo Berlusconi qui e a Roma: l’alleato fedele. Quanto al Pgt di Masseroli, di cose da dire ce ne sono molte. Abbiamo accennato alla connessione tra sviluppo dell’edilizia e realizzazione di case a basso costo; se l’edilizia nel suo insieme, quella privata sostenuta da acquirenti solvibili, non riprende, restiamo al palo e ci restiamo su due versanti: da un lato non ci saranno oneri di urbanizzazione per dar corpo a quelle parti del Pgt che dipendono dalla mano pubblica (verde, infrastrutture viabilistiche, spazi pubblici, arredo urbano), dall’altra non si darà risposta alla domanda di fascia bassa che ha bisogno di case a prezzo contenuto, prezzo al di sotto dei valori di mercato. Ma è da qui che si mette in moto il volano della ripresa e la mobilità del mercato immobiliare. Abbiamo bisogno di un consistente investimento pubblico in edilizia economica: non è una novità per nessuno che gli anni migliori per il mercato immobiliare milanese abbiano coinciso con quelli dell’investimento in edilizia pubblica. Quanto alla qualità della nuova Milano indicate dall’assessore nel suo documento – La città sicura di sé, la città vivibile, la città efficiente – il discorso non si può esaurire in poche battute.
Finalmente si parla di città sicura di sé senza evocare ronde, caserme di carabinieri e ciarpame destro-leghista, ci si confronta forse troppo in alto pensando alle case a basso costo di Madrid o al verde di Copenaghen o alla capillarità del trasporto pubblico londinese: per una volta in un documento pubblico non si sente parlare delle "eccellenze" milanesi ma si tratta di un ambizioso progetto. Finalmente siamo in grado di confrontarci con qualcosa di definito e chi si oppone potrà farlo con critiche puntuali là dove il progetto sembra più debole: la distribuzione delle aree di intervento, alcune scelte di destinazione d’uso francamente discutibili o molto controverse e la mancanza totale di ipotesi di coordinamento sovracomunale, tanto per cominciare.
Quel mondo solido tra affari e politica
di Edmondo Berselli
Fino a qualche mese fa l’emergenza erano i rifiuti a Napoli; poi c’è stato il caso vistoso della sanità in Abruzzo; infine l’annosa vicenda fiorentina di un recupero urbanistico, legato all’area della Fondiaria e al costruttore Ligresti, che ha messo in seria difficoltà l’amministrazione comunale di Firenze.
In una parola: in un’Italia fatta di città, il problema si chiama cemento. Perché il cemento è il punto di incrocio fra procedure amministrative locali, politica sul territorio e affari. Non è un caso che le esperienze migliori di organizzazione urbanistica risalgano ormai agli anni Settanta, sotto la spinta progettuale di critici come Antonio Cederna, ma grazie anche alla capacità propositiva di architetti come Pier Luigi Cervellati e Leonardo Benevolo, ispirati da un’idea di città legata al senso della comunità più che all’interesse privato.
A quell’epoca, sotto il profilo economico e politico, l’aspetto critico principale era la rendita, a cui si connettevano possibilità speculative impressionanti; e le amministrazioni progressiste, con i progetti legati alla cultura del recupero e della riqualificazione urbana, rappresentavano un argine, non soltanto ideologico bensì materiale ed effettivo, alla progressiva espansione cementificatrice delle città.
Non è facile da stabilire che cosa sia cambiato dall’epoca in cui i centri storici costituivano il fiore all’occhiello delle giunte più illuminate (non soltanto di sinistra, perché la pianificazione bresciana di Benevolo avviene sotto una giunta democristiana), insieme con la tutela ambientale delle aree immediatamente extraurbane, come la collina bolognese. Ma in primo luogo c’è da riconoscere che l’edilizia è la principale forma di imprenditoria che entra immediatamente a contatto con le amministrazioni territoriali: non l’unica, perché anche sanità, energia, smaltimento dei rifiuti, servizi di welfare locale, sistema dei trasporti incrociano necessariamente la politica; ma senz’altro il settore in cui le potenzialità di profitto in seguito a una decisione politica possono mutare in modo esponenziale. Tutto questo vale in misura assai minore per l’imprenditoria industriale o dei servizi, che al massimo offre qualche chance di sostegno politico ed elettorale attraverso contributi e favori, ma è estranea alla stratosferiche possibilità di rendita offerte dal variare delle coalizioni d’interessi fra politica e settore delle costruzioni.
Si intuisce senza difficoltà, infatti, che un nuovo piano regolatore, con le inevitabili varianti contrattate con le corporazioni economiche, può spostare volumi ingenti di risorse e di ricchezza, e che quindi il ruolo del ceto politico risulta decisivo nell’orientare futuri flussi di profitto. Accade qualcosa di simile in tutte le opere infrastrutturali (strade, ponti, edifici pubblici, tratti ferroviari, metropolitane), ma con gli interventi nel tessuto urbano gli incrementi di valore possono risultare colossali.
Non è una condizione inedita, ma oggi c’è da considerare la fame di suolo e di volumetrie suscitata dalle trasformazioni metropolitane. C’è da mettere insieme un quadro che contempla la metamorfosi demografica, che moltiplica i nuclei famigliari, il proliferare delle strutture di servizio, l’abbandono di stabilimenti industriali storici. Tutto questo vale sia per i centri minori sia per le grandi città. A Trento, il recupero di alcuni insediamenti industriali dismessi ha portato l’amministrazione comunale a progettare, in modo quasi visionario, la città del prossimo secolo; a Modena il recupero della Manifattura Tabacchi amplierà significativamente l’offerta di appartamenti e uffici nel centro storico, con effetti ancora imprecisati sul mercato. Nell’area metropolitana di Milano, si pensi alle "quote di città" spostate dalle operazioni sulla Bicocca e la Fiera, anche in relazione all’Expo del 2015. A Torino, è risultata di buona qualità l’opera di riconversione urbana determinata dai finanziamenti per le Olimpiadi invernali. A Roma, il piano regolatore di Veltroni è apparso come un progetto contrattuale fra l’establishment politico e l’élite dei "palazzinari", destinato a stabilizzare per decenni l’equilibrio fra la politica e il sistema degli affari capitolino (poi le cose sono andate diversamente, ma l’idea su cui si era mosso Giuseppe Campos Venuti era decifrabile: un compromesso con le richieste dei costruttori, che consentiva buoni volumi di affari limitando ragionevolmente le cubature).
Tuttavia c’è un altro aspetto da considerare. Perché se è vero che gli animal spirits dell’economia guardano con strenua attenzione alle possibilità di reddito offerte dall’intervento urbanistico, sul fronte opposto è la politica a guardare con interesse analogo alle opportunità offerte dal cemento. Il fatto è che non esiste nella tradizione amministrativa italiana la concezione secondo cui il volume di spesa degli enti pubblici va verificato a ogni bilancio e tarato sulle future esigenze effettive. Si tende piuttosto a considerare ogni capitolo di spesa come un dato da aggiornare in via progressiva: e nel momento in cui le risorse vengono ridimensionate dal governo centrale, le amministrazioni territoriali si trovano nella necessità di aumentare i propri introiti. Molte di esse lo hanno fatto incrementando la tassazione, contando sulla sopportazione dei cittadini; altre hanno valorizzato il patrimonio pubblico mettendolo sul mercato, o gestendolo in combinazione con i privati. Ma la tecnica prevalente consiste ormai da tempo, senz’altro prima dei problemi determinati dall’abolizione dell’Ici, nel variare quei parametri urbanistici, come le destinazioni d’uso, che possono modificare in modo rilevante il valore di immobili e terreni.
Tutto questo ha una sua razionalità economica, e talora anche motivazioni tutt’altro che ignobili (ad esempio, il comune "vende" cubature ai privati in cambio di edifici pubblici, scuole, asili), ma si scontra innanzitutto con una preveggente azione sull’ambiente, perché se prevale il bruto interesse economico, tutto il resto rischia di passare inevitabilmente in secondo piano. In secondo luogo il rapporto, o finanche la coalizione, con settori economici identificabili tende a stratificare un insieme di scambi e concessioni che fa riferimento ai partiti, alle maggioranze, ma via via anche alle correnti e ai circuiti di potere afferenti alle singole personalità politiche. Talora questo gioco di alleanze interessate giunge a provocare serie distorsioni nel mercato, a cominciare dalla trasparenza e correttezza degli appalti; può determinare quindi effetti negativi sui costi delle opere progettate, e interconnessioni opache fra responsabili tecnico-politici e imprese (o rappresentanze delle imprese).
Infine è tutto da vedere, e meriterebbe approfondimenti da parte degli economisti, se la "città infinita", che si espande senza limiti oltre le periferie, è un soggetto economico in equilibrio o è fonte di costi che graveranno in modo insostenibile nel lungo periodo, per i servizi che implicano, i trasporti, le opere di urbanizzazione. Cioè se quella che Cervellati ha chiamato ironicamente "Villettopoli" è occasione di profitto o alla lunga un aggravio di spesa: insomma se l’economia del cemento, all’ultima riga del bilancio, non rappresenti una perdita per tutta la comunità.
La civiltà dell’abuso
di Carlo Petrini
Attorno al cemento si scontrano due visioni del mondo. Da un lato l’economia dei grandi numeri, ancora dominante, della crescita a tutti i costi, del costruire come elemento di potere, motore di finanze e di presunto progresso. Dall’altro la piccola economia del conservare, avere memoria e migliorare l’esistente, del considerare l’ambiente come risorsa e non come intralcio, della crescita umana piuttosto che quella del prodotto interno lordo.
Sono due visioni antitetiche che hanno nello stile del costruire, come ogni forma di civiltà, la loro espressione più immediata e d’impatto, quella che si tramanderà. Se in Italia negli ultimi 15 anni abbiamo coperto di cemento una superficie equivalente a quella di Lazio e Abruzzo messi insieme, nel mondo non si è certo stati da meno: in altre regioni d’Europa si è forse viaggiato a ritmo leggermente (solo leggermente) ridotto, ma quello che sta avvenendo nelle zone a forte sviluppo, come Cina, India, Brasile, Messico o certi posti dell’Africa, in alcuni casi ha dell’orribile.
Orribile non è solo l’ingordigia di chi si arricchisce senza scrupoli, e nemmeno soltanto il fatto che si distruggano immense porzioni di natura o intere zone rurali; orribili sono pure gli ambienti che si vanno a creare, quello che si edifica: megalopoli senza senso e senza nulla di bello, spesso nemmeno degnamente abitabile.
Eppure il cemento continua ad avere appeal: la sua capacità di generare denaro a costi che non si vedono (ambientali, energetici, in termini di qualità della vita per chi ci lavora e per chi poi ci vivrà in mezzo) rimane inossidabile, tant’è vero che la ricetta che molti propongono per uscire dalla crisi è quella di costruire ancora di più. Le recenti polemiche sui progetti di trasformazione di Milano in ottica Expo 2015 rappresentano forse il terreno di scontro e l’esempio più lampante. Pensare a come sia diventata più brutta negli ultimi 50 anni quella città e a come potrebbe ancora peggiorare fa tristezza. Intanto il Governo sottrae risorse alle detrazioni per intervenire sulle case secondo parametri ecologici (pannelli solari, caldaie a bassa condensazione, finestre a norma con vetri isolanti, cappotto esterno o isolamento interno ecologici, ecc), per destinare il risparmiato alle "opere", grandi e piccole che siano.
Opere che non prevedono di ristrutturare, ma di occupare terre agricole e parchi; non rendere più piacevole l’esistente, ma fare colate di nuovo cemento, non importa dove e con che caratteristiche. È tipico della società dei consumi: produrre cose nuove per poi buttarle, illudere di soddisfare bisogni mentre non si fa altro che disattenderli, perché il sistema ha un disperato bisogno di autogenerarsi. Non siamo noi che abbiamo bisogno di ciò che produce il sistema consumistico, ma è il sistema che ha "bisogno" dei nostri bisogni: c’è dunque da sospettare che scientemente questi non saranno mai soddisfatti.
Lo spreco è il motore. Come lo sono le montagne di rifiuti di ogni tipo o di cibo ancora edibile buttato via (4.000 tonnelate al giorno nella sola Italia, fa sempre bene ricordarlo), lo è anche lo spreco di verde, di terreni agricoli, della ruralità, di spazi urbani a misura d’uomo, del bello.
Non si costruisce più per tramandare ai posteri qualcosa. Il cemento ha una deperibilità maggiore rispetto ad altri materiali, è il simbolo di una civiltà che inserisce i geni di una fine programmata in quasi tutto quello che produce: che sia un palazzone di periferia, l’imballo di un prodotto da supermercato o un seme Ogm che dà un raccolto sterile da cui non si possono trarre altri semi. L’Italia è piena di edifici fatiscenti costruiti negli anni ‘60 e ´70, certi addirittura negli anni ´80, alcuni già disabitati, impraticabili, che penzolano scrostati e pericolosi, terribili. Tutti noi li vediamo, ovunque. Abbiamo continuamente sotto gli occhi la dimostrazione di com’è assurdo continuare a edificare qualcosa che nel giro di qualche decennio non servirà più: quegli obbrobri dovrebbero servirci adesso come il senno di poi.
Oggi, imparando dagli errori commessi in passato, avremmo l’opportunità di ripensare le città in maniera sostenibile, di ricostruire il rapporto tra città e campagna affinché sia produttivo e mutuamente vantaggioso per chi abita questi ambienti. Ci sono i modi per farlo e sono anche economicamente vantaggiosi. Non è soltanto una questione estetica o ecologica: bisogna cambiare modo di fare economia. Bisogna ripensare il costruire, perché oggi, per come si realizza, è sempre più sinonimo di distruggere.
Il sistema del mattone
di Filippo Ceccarelli
Si scherzava nei corridoi di Montecitorio alla metà degli anni Settanta a proposito di un’ormai dimenticata assessore ai Lavori Pubblici della regione Lazio, una donnina apparentemente inoffensiva e naturalmente democristiana: «Ha un figlio solo: Cemento Armato». A pensarci bene quella remota, stralunatissima maternità, così come il battesimo che quell’incarnazione cementifera comportava in un mondo intriso di cinismo e di sacralità, dicono meglio di tante analisi i singolari rapporti decisamente mitologici che da tanto tempo intercorrono tra l’edilizia e il potere. Perché governare, in Italia, assai più che asfaltare, è stato tirare su costruzioni su costruzioni. E se ancora oggi è un po’ così, se sindaci e governanti continuano a guadagnare e a perdersi dietro l’edificazione di case, ponti, centri commerciali e stadi per aggiornati circenses converrà riconoscere il prima possibile la suprema ambivalenza del mattone politico, il suo essere al tempo stesso una benedizione e una sciagura.
Dopo tutto, per limitarsi al secondo dopoguerra, certe cose andavano realizzate per il semplice fatto che ce n’era bisogno. Ma le motivazioni di fondo, specie quando sono limpide, sembrano determinare anche i metodi. Il piano Ina-Casa, per esempio, energicamente varato dal giovane Fanfani a partire dal 1948 per dare un’abitazione dignitosa e riscattabile ai lavoratori e al tempo stesso provvedere alla mancanza di occupazione. Ebbene, fu quello uno dei più grandi successi della Ricostruzione: due milioni di vani, 355 mila alloggi resi disponibili in poco più di dieci anni, senza scandali, senza ruberie e senza nemmeno troppi sacrifici (all’inizio si parlò di impegnare le tredicesime).
L’allora ministro del Lavoro riuscì prodigiosamente a combinare San Francesco e Lord Beveridge, come dire l’ispirazione cristiana a favore dei poveri con il keynesismo. De Gasperi, che pure sulle prime era un po’ scettico, si lasciò trascinare. «Intesi il piano casa - proclamò Fanfani qualche anno dopo in Parlamento (rispondendo alle interruzioni di Giorgio Amendola) - come un vincolo rinnovato di solidarietà, un invito ai senza tetto a riconciliarsi con la società che li attende operosi, controllori e attori della sua vita e del suo progresso». Sono parole che oggi suonano inesorabilmente retoriche. Eppure, se questo accade è anche perché dall’Ina-casa in poi il laterizio, il foratino, quindi il blocchetto e pure il tondino del consenso hanno contribuito non solo alle distorsioni dello sviluppo economico, ma anche a quelle del comando politico e dell’autorità istituzionale in un intreccio di mancati controlli, orrori e disastri del territorio, speculazioni, bustarelle e così via, fino a Tangentopoli e oltre. Si pensi alle tante disumane "coree" e "muraglie cinesi" cresciute selvaggiamente ai margini delle metropoli del Nord, al "sacco di Roma" («Capitale corrotta, nazione infetta», secondo uno storico titolo dell’Espresso) e a quello insanguinato da Cosa Nostra a Palermo. Si pensi alle tante coste meravigliose deturpate dalle casupole abusive, agli scempi di Punta Perotti sul lungomare di Bari, all’interminabile ricostruzione del Belice e alle follie di quella dell’Irpinia. Si pensi alla frana di Agrigento, all’opera dei Quattro Cavalieri dell’apocalisse di Catania e ai rischi che tuttora corrono, per aver costruito sul vuoto, migliaia di condomini napoletani.
Si apre con un crollo in effetti il capolavoro di Rosi, Le mani sulla città (1963), dove Rod Steiger interpreta la figura di uno spregiudicatissimo costruttore e politico napoletano, Nottola, colto nel delicato passaggio tra il potere di Lauro e quello democristiano di matrice e derivazione gavianea. Ed ecco che dodici anni dopo, tra i capi d’accusa che Pier Paolo Pasolini imputava al partito democristiano, c’era appunto «la distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia». Ma non dovette servire a molto, quel processo mai celebrato, se dopo appena un quinquennio Franco Evangelisti, e cioè l’aiutante di campo di Andreotti, condensò il suo rapporto con il principe dei palazzinari romani, Gaetano Caltagirone, nel celebre interrogativo che quest’ultimo candidamente gli rivolgeva: «A Fra´ che te serve?». A veder bene erano i primi bagliori di un tramonto. Il cemento del potere cominciava a cercarsi scenari più ampi. Non solo case, ma nuove città. Così nasce in ambito craxiano il progetto di "Mito", new town da insediare tra Milano e Torino; e lo stesso Bettino vagheggia "Mediterranea", di qua e di là del Ponte sullo stretto. Fino a quando non arriva Berlusconi, il demiurgo di EdilNord che addirittura se la prese a male quando nella P2 gli assegnarono il ruolo di apprendista muratore. Ma come, apprendista al fondatore di Milano 2 e 3? Adesso che è tornato a Palazzo Chigi il Cavaliere ha ricacciato fuori il progetto "Cantiere Italia" e, ribattezzatolo "Cento Città", di nuovo prevede la costruzione di centri satelliti per anziani e giovani coppie. I sopralluoghi aerei sono attesi a marzo.
Il Corriere della Sera, ed. Milano, 7 luglio 2009
Via libera al piano del territorio Pdl-Lega: salvo l’ippodromo
di Andrea Senesi
Venticinque aree per costruire la Milano dei prossimi de cenni. Venticinque, meno una: all'Ippodromo il cemento non arriverà.
Via libera all’accordo sul Piano di governo del territorio, il documento quadro che disegnerà l’urbanistica di Milano dei prossimi decenni. Dopo mesi di infinite trattative, ieri la Lega ha pronunciato il sì definitivo. Il Pgt arriverà in giunta oggi, come chiesto dal sindaco Letizia Moratti e dall’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli. Secondo il documento generale saranno 25 le aree di trasformazione, ciascuna con tanto d’indice volumetrico. «Non è un documento chiuso», assicura Palazzo Marino.
Venticinque aree per costruire la Milano dei prossimi decenni, la metropoli dal la ritrovata grandeurcapace di richiamare dentro i suoi confini i giovani e il ceto medio. Venticinque, meno una: l'ippodromo. Sulle piste dove da decenni galoppano e trottano i cavalli il cemento non arriverà.
«Il percorso è avviato. Entro settembre contiamo di portare la delibera in Consiglio per la prima approvazione », spiega l’assessore.
L’ippodromo, dunque. Con le parole del capogruppo lumbard Matteo Salvini e dello stesso Masseroli che confermano: «Sulle due piste non si costruirà nemmeno un metro cubo». Il che, sottolinea l’assessore, non vuol dire per forza di cose che entrambe le piste rimarranno al loro posto. Il trotto, per dire, potrebbe anche essere trasferito altrove, magari, come si dice, fuori Mila no. Ma su quell’area non potrà nascere niente più che un parco.
Rimane il documento generale. Con le 25 aree di trasformazione, ciascuna con tanto d’indice volumetrico. «Non è un documento chiuso. Saranno gli accordi di programma che di volta in volta, area per area, confermeranno o modificheranno le volumetrie indicate».
«È solo l’inizio di un percorso. Oggi abbiamo salvato un milione di metri quadrati dall'avanzare del cemento», sottolinea Salvini che si godela vittoria, mentre tutti gli altri capigruppo della maggioranza di Palazzo Marino brindano comunque all’accordo raggiunto. «Un documento di un’importanza epocale», dice Giulio Gallera del Pdl. Che racconta di una proposta spuntata tra le pieghe del futuro Pgt e immediatamente condivisa da tutti: «Realizzare un nuovo Qt8. Un nuovo quartiere dove tutti i grandi architetti di fama mondiale daranno ilproprio contributo». «Si passa da una cultura dirigista, quella che animava il vecchio piano regolatore del 1980, a una visione liberale e moderna di governo del territorio », esulta anche l’Udc Pasquale Salvatore. «L’ottica di ragionamento deve rima nere quella della grande area metropolitana», osserva il repubblicano Franco De Angelis.
Di tutt’altro umore l’opposizione. Ammette il capo gruppodel Pd Pierfrancesco Majorino: «Siamo molto preoccupati ». «Anche perché la nascita di questo Pgt è stata gestita come una trattativa puramente privata. I contorni dell’accordo poi confermano tutte le ambiguità sul tema del verde e delle aree pubbliche». In conclusione: «Se l’idea è quella della cementificazione selvaggia, noi siamo pronti a un'opposizione durissima».
La Repubblica ed. Milano, 8 luglio 2009
La città del futuro apre i cantieri
di Alessia Gallione
Nasce la Milano del 2030. Quella che dovrà trasformare 31 aree – dalle ex stazioni alle caserme, dall´Ippodromo all´Ortomercato – in tutto undici chilometri quadrati su cui si potranno costruire undici milioni di metri cubi, equivalenti a circa mille condomini. «Zone oggi degradate – dice l´assessore all´Urbanistica Carlo Masseroli – che recupereremo senza consumare suolo». Con l´obiettivo di realizzare case a prezzi bassi come a Madrid o quartieri con servizi a 5 minuti di distanza come a New York.
Dagli scali ferroviari abbandonati alle caserme dismesse, dalla zona attorno a San Siro a quella che sorgerà attorno ai padiglioni di Expo. In tutto 11 chilometri quadrati di superficie su cui si potrà costruire fino a 11 milioni di metri cubi, equivalenti a circa mille nuovi condomini di medie dimensioni (35 appartamenti ciascuno), che potranno aggiungersi ai 640mila esistenti. Con una visione generale del futuro della città, però, che l´assessore all´Urbanistica Carlo Masseroli, definisce «rivoluzionaria». Perché, nelle intenzioni di Palazzo Marino, nei prossimi vent´anni Milano dovrà arrivare ad avere il 35 per cento delle case a basso costo come a Madrid, dovrà raddoppiare la quantità di verde attrezzato puntando al modello di Copenhagen, somigliare sempre più a New York per i quartieri con servizi raggiungibili a piedi in cinque minuti o a Berlino per gli spostamenti con i mezzi pubblici. «La nostra sfida - sintetizza ancora Masseroli - è realizzare una "Milano per scelta", in cui chiunque potrà trovare quello di cui ha bisogno per abitare, divertirsi, studiare, lavorare».
Gli obiettivi internazionali sono ambiziosi. Così come le promesse del Comune. E il percorso è appena iniziato. Dopo quasi due anni di lavoro, discussioni, incontri e scontri politici, la prima parte del Piano di governo del territorio, che sostituirà il vecchio Piano regolatore, è stato approvato dalla giunta. Diventerà "legge", però, non prima di luglio del prossimo anno. Ma l´impostazione c´è. Ed è quella che avuto il via libera della maggioranza, dopo l´ultimo confronto con la Lega che ha chiesto garanzie sull´Ippodromo: sulla zona San Siro si potrà costruire, ma non sulle piste di allenamento. In tutto, i nuovi edifici che potranno sorgere equivalgono a circa mille condomini: 11 milioni di metri cubi contro i circa 250 milioni che già oggi esistono in città. «È il 4 per cento in più», spiega Masseroli. Che dice: «Questo piano non parte dalle quantità o dalle destinazioni d´uso, come in passato. Ma dall´interesse pubblico, dall´idea di città che vogliamo creare. A partire dalla prima di cinque regole d´oro che ci siamo dati: non consumeremo suolo e salvaguarderemo il Parco agricolo Sud. Non c´è nessun rischio di cementificazione perché le aree che verranno trasformate oggi sono degradate, insicure, spazi su cui non si può accedere».
In totale le zone (compresi i cosiddetti piani di cintura) che cambieranno volto sono 31. Non in tutti, però, si potrà costruire la stessa quantità di palazzi: il piano, infatti, si basa su un principio che permette di spostare le volumetrie acquisite dai privati da quartieri da riqualificare a verde ad altri, in cui sarà più spiccata la vocazione abitativa. Palazzo Marino ha già delineato dieci macro-aree con possibili destinazioni. «Ma sono solo indicazioni - precisa Masseroli - tutto potrà cambiare a seconda delle esigenze della città». E così potrà nascere un distretto con la vocazione della ricerca e della tecnologia in Bovisa, dell´università a Lambrate, della pratica sportiva a Forlanini, dell´attività amministrativa con la Cittadella della Giustizia di Porto di Mare; e poi uno spazio che guardi al design e alla creatività tra l´ex stazione di Porta Genova e quella di San Cristoforo; il commercio e l´artigianato che, come in un enorme centro commerciale diffuso, potranno cambiare le arcate della stazione in via Aporti e Sammartini. San Siro e la piazza d´armi della caserma Santa Barbara sono immaginati come una cittadella dello sport e dello spettacolo. E poi l´Ortomercato: qui dovrà sorgere la Città del gusto e della Salute legata a Expo. Ma da sempre, questa fetta di Milano fa gola a molti appetiti immobiliari. Non solo: in ballo rimane il trasferimento dei mercati generali. E, dopo i danni per il nubifragio di ieri, il leghista Davide Boni attacca: «Credo che ormai non sia più rimandabile la chiusura dell´Ortomercato e il necessario spostamento di una struttura ormai fatiscente».
"Che rischio affidare il futuro agli appetiti dei costruttori"
intervista di Maurizio Bono a Massimiliano Fuksas
Fantastico: una camera a gas di 14 chilometri, e a pagamento. Non sanno che quelle trappole nessuno le fa più?
La trasformazione urbana non è compito di cooperative e imprese, gli indirizzi devono essere pubblici
Massimiliano Fuksas, il papà della nuova Fiera di Rho Pero, è appena tornato di ottimo umore dal cantiere della sua "Nuvola", il nuovo Centro congressi di Roma all´Eur che sarà finito tra un paio d´anni: «Tutto secondo i piani, è conclusa la parte sotterranea con la grande sale da novemila persone e stiamo innalzando il primo pilastro della teca che conterrà la nuvola vera e propria, il contenitore translucido che ha dentro la sala congressi. Ma parliamo pure di Milano, che a differenza di voi milanesi che ne parlate sempre male, io trovo una città interessante. Certo, un po´ complicata da vivere... ».
Come vede il Piano di governo del territorio milanese presentato ieri? Undici milioni di metri quadrati di aree da trasformare, 31 aree identificate su cui edificare mille nuovi condomini.
«Mi pare molto, per una città di un milione e 300mila abitanti scarsi. E soprattutto mi colpisce che riguardi solo il territorio comunale. Io ho sempre pensato che Milano debba prima di tutto integrare il proprio hinterland e la provincia, per far massa critica, piuttosto che individuare al suo interno nuove aree su cui costruire».
Ma che male c´è a far nuove case recuperando aree dismesse?
«Nessun male in sé, però francamente mi pare che pensare di incontrare tanta domanda sia un po´ irrealistico, sapendo che intanto sta venendo su un´altra intera nuova città, coi grandi progetti in corso a Milano. E tutta di uffici, mentre nell´ultimo paio d´anni, con la crisi, gli uffici non li vuole più nessuno».
Il Piano di governo del territorio però guarda molto avanti, fino al 2030. Si spera ben oltre la crisi.
«Si spera. Ma oltre a sperare, bisognerebbe muoversi in modo diverso per uscirne. Per carità, io i vecchi piani regolatori rigidi li ho sempre odiati, che si superino è un successo. Conosco i giovani architetti di Metrogramma che hanno fatto lo studio preliminare del Pgt, uno ha anche lavorato con me. Ma la loro è un´idea, poi bisogna come la si trasforma in progetto, con quali strumenti e piani attuativi. Di sicuro non si può pensare di rifare le città solo con le cooperative e le imprese di costruzioni. Da questa logica lottizzatoria è difficile far nascere una cultura del vivere collettivo, perché a loro interessano le volumetrie. Vuol sapere come stanno facendo a Parigi? »
Ce lo dica...
«Non voglio fare il trombettiere di Sarkozy, ma lì il primo passo per collegare città, periferie e l´intera Île de France è stato mettere in cantiere 158 chilometri di metropolitana, a un costo per lo Stato di 38 miliardi di euro. Poi, intorno alle 38 stazioni create hanno lasciato mano libera per costruire, ponendo come condizione l´alta qualità architettonica e paesaggistica dei progetti».
Gli amministratori locali però risorse simili non le hanno. E a quanto pare per fare i metrò Milano fatica ad averli anche dal governo di Roma.
«Dove trovi i soldi? Beh, in un paese normale li trovi facendo pagare le tasse. È lo Stato, bellezza. Se invece di abolire l´Ici fai pagare il giusto, o magari anche un po´ di più come in Francia, le risorse si possono investire, anche in funzione anticrisi. Per poi naturalmente recuperarli vendendo i diritti edificatori, come accade dappertutto. Ma la differenza è che l´intervento pubblico orienta le scelte. Invece la via imboccata dal Pgt non mi sembra poi così inedita: deregulation e poi, con il meccanismo a venire delle perequazioni, possibilità di molti scambi con poche garanzie di effettivi controlli».
Nel campo delle infrastrutture per i trasporti, il Pgt prevede anche un grande tunnel di 14 chilometri che attraversa Milano da Rho a Linate: come trova l´idea?
«Assolutamente fantastica: una bella camera a gas di 14 chilometri, e per di più anche a pagamento... No, seriamente, sono anni che nelle grandi città non si progettano tunnel, inghiottono migliaia di automobili e la necessità di farle uscire da quella trappola produce disastri urbani in forma di rampe e viadotti. Ma perché non si concentrano su metropolitane pulite come ormai fanno anche in Asia? E per i progetti bislacchi i soldi dove li trovano? Speriamo nella crisi edilizia... ».
Il Corriere della Sera ed. Milano, 8 luglio 2009
Il Comune: cambieremo 12 quartieri Via libera per costruire mille case
di Andrea Senesi
Come mille palazzoni da 35 appartamenti. Undici milioni di metri cubi spalmati su 25 aree «di trasformazione urbana» (più altre cinque in altrettanti parchi di cintura, dove però non arriverà neanche un centimetro di cemento e si lavorerà solo sul verde). Il Piano di governo del territorio, il documento quadro destinato a mandare in pensione dopo trent’anni il vecchio piano regolatore, da ieri è nero su bianco. La giunta ha dato ufficialmente il via libera, dopo l’accordo sancito lunedì all’interno della maggioranza servito di fatto a stralciare l’ippodromo dall’elenco delle aree edificabili.
Altri numeri. Le nuove volumetrie che con il nuovo documento urbanistico si realizzeranno nel corso dei prossimi decenni sono in totale il quattro per cento di quanto edificato fino ad oggi all’in terno dei confini comunali. Altro esempio. Partiamo dalla superficie: undici chilometri quadrati su cui costruire. L’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli, assicura che, decimale in più decimale in meno, la media degli indici di edificabilità (metri cubi per metro quadrato) sulle 25 aree non supererà quota uno. Si torna così al dato di partenza, quello che fotografa in undici milioni di metri cubi la quantità di cemento destinata ad abbattersi sulla città. Spulciando nei dettagli del piano si scopre che in via Stephenson, zona abbandonata dietro Quarto Oggiaro, l’indice di densità è fissato addirittura a tre. Facile immaginare allora che lì arriveranno grattacieli e palazzoni. Strategici saranno soprattutto due ambiti d’intervento: le stazioni ferroviarie dismesse e le caserme rimaste vuote con la fine del servizio di leva e con l’esercito affidato ai soli professionisti. «Nessuna colata di cemento — assicura però Masseroli —. Le nuove case nasceranno assieme al verde in aree oggi completamente abbandonate a incuria e degrado». Non si consumerà nuovo suolo, in somma. Dice Maurizio Cadeo (Arredo urbano) che conl’arrivo del Pgt si allargheranno anche tre aree verdi: piazza Vetra (si uniranno i due spezzoni ora divisi), il parco di Trenno e quello delle Cave. Nei piani del Comune ciascuna macrozona (una dozzina, in totale) avrà tanto di personale «vocazione». Sport e spettacolo, per dire, nella nuova zona di San Siro, che nel frattempo avrà inglobato anche la piazza d’armidella caserma Santa Barbara; la cittadella della ricerca in torno alla Bovisa, quella del la giustizia con il trasferimento di carcere e Palazzo di Giustizia in zona Rogoredo-Porto di Mare. Lungo via Sam martini e via Ferrante AportiPalazzo Marino vorrebbe poi veder nascere il futuro polo commerciale della città, con l’arrivo di negozi e botteghe artigiane. Ma vincoli e destinazioni d’uso, fa capire lo stesso assessore, sono concetti ormai da archeologia urbanistica: «Noi non diremo mai che cosa dove nascere in questo o in quel luogo. Noi poniamo soltanto le cornici e fissiamo le regole per un governo del territorio che parta davvero dall'interesse pubblico. Ma secondo la nostra filosofia la cultura dei vincoli del vecchio piano regolatore è definitivamente morta».
C’è il tema della perequazione, poi. Il sistema, cioè, che introduce la possibilità di trasferire o addirittura scambiare i diritti volumetrici dei singoli operatori. E c’è l’housing sociale, infine. Con l’obbligo di destinare agli al loggi a basso costo almeno il 35% delle nuove residenze costruite. «Il rischio è quello di un uso barbaro delle aree pubbliche e di una guerra al verde» attacca il pd Pierfrancesco Majorino. Replica di Masseroli: «Vogliamo offrire a tutti l’opportunità di vivere o di tornare a vivere a Mila no. E lo faremo aumentando la qualità della vita». E il milione e ottocentomila abitanti? «Non c’è un obiettivo legato alla quantità. Conta solo la qualità».
Nota: anche se non si tratta di documenti aggiornatissimi, si può comunque far riferimento anche ai volumi "Milano verso il suo futuro" scaricabili dalle pagine PgT del Comune (f.b.)
Il Consiglio di Stato resuscita «l´ecomostro» di Monticchiello, così definito per primo da Alberto Asor Rosa nell´estate del 2006, il nuovo insediamento abitativo a ridosso delle mura del borgo medievale che diventò l´emblema di una vasta campagna contro la cementificazione della Toscana. La sesta sezione del Consiglio di Stato ha infatti annullato i provvedimenti dell´allora ministro Francesco Rutelli che, tra il gennaio e il settembre 2007, imposero il vincolo indiretto all´area intorno alla rocca di Monticchiello e bloccarono la realizzazione delle ultime tre villette non ancora costruite (18 appartamenti, meno di un quinto dell´intero insediamento). Da oggi, volendo, gli imprenditori di Iniziative Toscane potrebbero riaprire il cantiere per completare il villaggio. Così come era stato progettato in origine. Così come non piace proprio alla rete degli ambientalisti.
Il progetto di costruire sotto Monticchiello viene da lontano, è previsto da vecchi piani regolatori, giunge a conclusione il 10 agosto 2006 quando il Comune di Pienza, decorso il termine entro il quale la soprintendenza può annullare la pratica, rilascia il permesso a costruire. Le ruspe si mettono subito al lavoro. Asor Rosa, che ha una casa in zona, solleva il caso su Repubblica il 24 agosto 2006. «Il cemento assale la Valdorcia» scrive, dando il via a una vasta mobilitazione per tutelare una delle zone più belle d´Italia, parco e patrimonio universale dell´umanità secondo l´Unesco. Entra in campo il ministro Rutelli, che a gennaio cala il suo asso. Ai costruttori comunica l´avvio di un procedimento amministrativo ai sensi del decreto legislativo 42 del 2004 per imporre il vincolo indiretto nell´area costruttiva a tutela della cinta muraria di Monticchiello con torri, porte e rocca. Stop agli edifici ancora da costruire e via a uno studio affidato a un´équipe di architetti paesaggistici per mitigare l´impatto delle opere già edificate.
Ma i costruttori, assistiti dall´avvocato Giuseppe Morbidelli, ricorrono al Tar. Perdono il primo round. Fanno appello. E la spuntano. Oggi, infatti, il Consiglio di Stato annulla il vincolo indiretto imposto dal ministero sostenendo, tra le altre cose, che la procedura non ha ricevuto un adeguato approfondimento tecnico, che il vincolo indiretto non è ammissibile per mancanza di un completo vincolo diretto della rocca da proteggere, che il diritto acquisito dai costruttori non è stato precisamente compensato con la possibilità di costruire altrove. In teoria il ministero potrebbe riproporre il vincolo, ma solo al termine di una lunga e approfondita istruttoria e al costo di un grosso risarcimento dei danni. Certo è, invece, che da oggi Iniziative Toscane può tornare a muovere le ruspe. Amareggiato Asor Rosa. «Non discuto le sentenze» dice. «La ferita è già evidente, degli interventi di mitigazione previsti da Rutelli non c´è traccia, sono stati una presa in giro. Adesso confido in una iniziativa degli enti locali, in particolare del Comune di Pienza, perché si trovi una qualche forma di risarcimento per l´impresa in modo da evitare il completamento dell´ecomostro».
Informazioni e documenti sulla Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio sono disponibili qui
Questo documento è la trascrizione di una lunga conversazione, promossa dal nostro Giornale, nel salotto di casa Crespi.
Protagonisti sono i due personaggi probabilmente più noti a quella (piccola) parte della popolazione italiana che presta attenzione alle vicende e al futuro del patrimonio artistico del Paese, senza limitarne il significato alla sola funzione di richiamo turistico o, peggio, al solo valore intrinseco di mercato.
Giulia Maria Crespi, discendente della famiglia milanese di industriali tessili, già proprietari del «Corriere della Sera», è la fondatrice nel 1975 del Fai, Fondo Ambiente Italiano, l’organizzazione senza fini di lucro che non solo annovera tra le sue proprietà sceltissime località naturalistiche e dimore storiche alle quali assicura un’esemplare conservazione e l’apertura al pubblico, ma catalizza il sostegno di 80mila aderenti, sul modello del National Trust inglese. Questo rende il Fai un’associazione molto qualificata a rappresentare una parte significativa dell’opinione pubblica, quella cosciente dell’eccezionale importanza del patrimonio artistico in un Paese come il nostro.
Salvatore Settis, archeologo, direttore della Scuola Normale di Pisa, editorialista di «la Repubblica », dopo la scomparsa di Federico Zeri è senz’altro il principale e più vigoroso tutore pubblico del nostro delicatissimo patrimonio, per proteggerlo dalla trascuratezza ma, ancor peggio, dagli usi impropri e dannosi e dagli abusi ai quali è facilmente soggetto da parte di quanti non riescono ad avere una visione diversa da quella del rendimento quantitativo.
Abbiamo promosso questo incontro per avere la vostra opinione sulla situazione attuale, i rischi, i problemi. Opinioni che peraltro sono già state espresse più volte da Giulia Maria Crespi in ogni suo discorso pubblico e da Salvatore Settis nei suoi fondamentali articoli. Quello che ci interessa è proprio il confronto delle vostre autorevolissime opinioni, fare con voi il punto della situazione.
C: Aveva ragione Bob Kennedy, che nel 1967 fece il celebre discorso in cui disse che il Pil (Prodotto interno lordo) così come abitualmente calcolato è del tutto sbagliato perché non tiene conto di infinite cose. Per esempio dello stress, dello squallore delle periferie, dell’ignoranza diffusa. Per esempio, del non pensare alla bellezza, o allo smog. Tutto questo dovrebbe rientrare nel calcolo del Pil di un Paese. Tutto ciò mi pare perfettamente congruente con la situazione della finanza e dell’economia internazionale, la cui idea distorta di sviluppo e di globalizzazione temo ci porterà verso la catastrofe. Penso anche che dopo questo dramma, ci sarà una sorta di purificazione e l’umanità ritroverà se stessa.
S: Con riferimento specifico alla situazione italiana, ma tenendo presente il quadro globale, dobbiamo mettere insieme due aspetti: uno è evidenziato sempre di più dalle ricerche mediche, l’importanza delle patologie da disagio ambientale. Il riferimento non è soltanto all’inquinamento dell’acqua o dell’aria, ma al disagio che coglie il cittadino, che vede il suo mondo trasformarsi, che è obbligato ad abitare in periferie squallide, che vede il paesaggio intorno a lui via via devastato: il paesaggio che amava, in cui si identificava. Da tutto questo nascono delle patologie che sono psicologiche, ma anche psicofisiche. Un altro aspetto (e continuo intenzionalmente a citare ricerche non di storici dell’arte o di «tutelatori» di professione) riguarda le ricerche degli economisti. Un numero sempre maggiore di economisti (cito per tutti il premio Nobel Amartya Sen) hanno via via elaborato nuove teorie sullo sviluppo economico, in particolare le teorie cosiddette della «crescita endogena », che vuol dire la crescita che una popolazione è in grado di portare avanti dal proprio interno, non perché stimolata da grandi imprese multinazionali, ma perché riesce a svilupparsi autonomamente. Questo è importantissimo, ad esempio, per i Paesi dell’Africa. Le teorie della crescita endogena vanno prendendo piede e includono fra i maggiori fattori di produttività l’identità culturale. Quindi, la distruzione dell’identità culturale diminuisce la produttività, e la riaffermazione dell’identità culturale accresce la produttività. Appare dunque del tutto evidente quanto, anche da altri punti di vista extradisciplinari (medico, economico ecc.), la cura del paesaggio, dell’ambiente, del patrimonio storico-artistico e dell’identità culturale siano dei fattori essenziali. Questo i nostri padri, i nostri nonni, gli italiani di 200 anni fa l’avevano già capito, anche senza aver elaborato questa teoria. L’idea della tutela dell’ambiente e del paesaggio è nata in Italia. Ma oggi il nostro Paese sta dimenticando tutto questo, o rischia di dimenticarlo. Come mai il luogo in cui è nata l’idea della tutela contiene oggi delle forze distruttive per questa stessa idea?
Osserviamo le reazioni seguite al terremoto in Abruzzo e le ipotesi emerse sulla ricostruzione: il pericolo che è stato paventato in questa circostanza è proprio quello della perdita d’identità. Ci piacerebbe che da questa conversazione emergesse la risposta alla domanda: «Che cosa sta cambiando o è cambiato in questi ultimi anni per cui dovremmo, forse, cambiare il nostro atteggiamento, le convinzioni nelle quali avevamo creduto negli ultimi 10, 20, 50 anni?»
C: Una persona, prima di qualunque altro sentimento, deve avere la pancia piena. Poi, deve ricercare le ragioni di quanto avviene di sbagliato, e per me la ragione prima è l’avvento del materialismo. Questo materialismo si è diffuso alla fine del Medioevo, e da Cartesio l’uomo è sempre più sprofondato nella materia allontanandosi dalla spiritualità. Quanti grandi artisti lavoravano per pochissimo, o addirittura non venivano pagati? Eppure lavoravano. Beato Angelico dipingeva in ginocchio. Lei immagina un artista moderno che dipinge in ginocchio?
S:Vorrei proporre una riflessione di carattere più storico. Se giriamo nelle zone meglio conservate delle nostre campagne, o anche in certe città piccole o grandi, credo che tutti abbiamo notato come, fino a un certo momento, diciamo per intenderci l’inizio del Novecento, gli italiani, ricchi e poveri, dal contadino al principe, non sbagliassero. Non si vede un oggetto brutto. Da quel certo momento in poi si è persa questa cultura comune. C’era un legante che univa i ricchi e i poveri, anche quelli con la pancia non tanto piena. Il contadino che faceva un fienile, lo faceva in un modo per cui si inseriva nel paesaggio meravigliosamente bene.
L’articolo integrale è disponibile nell’edizione stampata de Il Giornale dell’Arte
Dopo dodici anni di collaborazione Italia Nostra dice basta e restituisce il Parco delle Cave al Comune: «Non è più possibile lavorare senza l´appoggio dell´amministrazione». Con una lettera indirizzata al sindaco Letizia Moratti, l´associazione spiega che «sono venute meno le condizioni minime per la cura e lo sviluppo del parco». Un rapporto chiuso per l´assessore al Verde, Maurizio Cadeo, che dice: «Guardiamo avanti». Ma Pd e Verdi accusano: «Un pasticcio creato dal Comune. Il sindaco intervenga».
«Credo che al Parco delle cave si sia rotto un equilibrio: quello tra la domanda di fruizione del verde e un livello accettabile di qualità ambientale. Purtroppo a Milano la pressione dei fruitori del verde è diventata intollerabile perché gli spazi sono troppo ridotti». Parola di urbanista: Giuseppe Boatti, docente al Politecnico.
Ci sono delle responsabilità?
«Sta emergendo un modello di sviluppo urbano a macchia d´olio: la città che si espande in ogni direzione. Ed è la Milano che stanno immaginando a Palazzo Marino».
Macchia d´olio?
«Se si versa dell´olio sulla carta assorbente, non lascia spazi liberi. Sta già succedendo nell´area attorno a Rho-Pero, dove la penetrazione del verde anche in spazi scarsamente urbanizzati subisce attacchi feroci. Altro esempio negativo, San Siro».
E cioè?
«Parliamo di una porzione di Milano, che comprende anche una parte del Parco Sud, in cui l´inedificato - prati, per intenderci - arriva dentro il cuore della città. Questo è l´antidoto per combattere la macchia d´olio. Purtroppo però si sta facendo esattamente il contrario».
Con il trasferimento delle attività legate all´Ippodromo?
«L´ipotesi non è quella di distruggere l´Ippodromo, ma il suo retroterra, come le piste di allenamento. Il risultato è che non si percepiscono più né l´ippodromo né le piste come se fossero aree a verde a disposizione di tutta la città. Questi spazi devono invece diventare di uso prevalentemente collettivo, ma in modo che non si distrugga la loro funzione primaria».
Altri esempi che lei considera negativi?
«La zona del Parco Sud a fianco della Milano-Genova, interessata da progetti di edificazione: vale la pena ricordare che si tratta di una zona di penetrazione agricola, anche se non profonda come San Siro. Lo stesso discorso vale per il sistema degli scali dismessi. Non basta usare dei tenui raggi verdi per interrompere l´espansione a macchia d´olio di cui parlavo. C´è bisogno piuttosto di quadranti verdi che, entrando nella città, riducano il conflitto tra naturalità e fruizione del verde stesso».
In parole povere?
«Se lo spazio verde è consistente la convivenza tra le due esigenze ci può essere. Ma se mi limito a fare dei giardinetti, il verde lo uccido».
Lei critica il Comune, però il sindaco dice che farà piantare 500mila nuovi alberi...
«Un annuncio che sa di puro marketing».
E perché?
«Questo è un modo per mettere in contrapposizione il numero delle piante esistenti in città e la vastità delle aree. Non posso certo dire di aver fatto una politica del verde solo perché ho piantato migliaia di alberi. Sono due cose altrettanto importanti: la differenza è che piantumare adesso o tra cinque anni non cambia molto la situazione, mentre costituisce un danno irreparabile distruggere un grande cuneo di penetrazione del verde. Il problema vero sta a monte».
E qual è?
«Milano ha lanciato l´idea sbagliata della densificazione, un´idea insensata se solo ragionassimo in termini di area vasta. Se ci fosse l´area metropolitana, sarebbe indifferente costruire a Milano o a Rozzano, perché la penetrazione del verde verrebbe comunque garantita. Invece è già in atto una lotta feroce tra Milano e qualche Comune di cintura per portare su di sé quote sempre più importanti di sviluppo urbanistico, che dovrebbe riguardare l´intera area metropolitana: è l´esatto contrario di quello che stanno facendo nelle metropoli europee, da Parigi a Francoforte».
L’Unione sarda
Piano casa sardo, la Regione è pronta
di Enrico Pilia
La certezza del diritto. Di una "carta" urbanistica sulla quale fare riferimento. Senza intese dalle maglie apparentemente strette: il nuovo Piano paesaggistico che sta nascendo non sarà neanche lontano parente di quello figlio della maggioranza di centrosinistra. «Lo demoliamo, cancelleremo questa vergogna», dice il presidente della Regione Ugo Cappellacci, «la riscrittura del Ppr è vicina alla fine, inseriremo le modifiche all'interno di un progetto di legge che conterrà il Piano casa regionale». Tre mesi dopo lo sbarco in viale Trento, Cappellacci si tuffa nella pianificazione del paesaggio e annuncia: «Porterò entro la prima metà di luglio in Consiglio il provvedimento della Giunta, faremo chiarezza per i cittadini e per li amministratori, costretti fino a oggi a combattere contro una serie di norme complesse e ingiuste».
Ieri, nel corso dell'ultima conferenza regionale sulla pianificazione del territorio, il governatore, l'assessore all'Urbanistica Gabriele Asunis e il direttore dell'assessorato, Marco Melis, hanno ripercorso le tappe del lavoro di ascolto di questi ultimi due mesi, fra un incontro con gli amministratori locali e un tavolo tecnico, per arrivare al nuovo Ppr e al Piano casa, in linea con le strategie del Governo nazionale sul tema della riqualificazione edilizia.
IL PROGETTO Un disegno di legge, quindi, pronto nelle prossime settimane dove ci sarà spazio non solo per i provvedimenti sull'edilizia residenziale, ma anche per le imprese e per gli alberghi. «Dopo un ulteriore confronto con la maggioranza, presenteremo il nostro Piano casa - ha spiegato Cappellacci - siamo convinti che occorra un salto in avanti per lo sviluppo in alcuni settori strategici come il turismo, che attualmente ha un'incidenza solo dell'8 per cento sul Pil regionale».
Ci sarà un importante capitolo legato agli alberghi, all'interno del Piano casa: sarà prevista la possibilità di riqualificare le strutture alberghiere con volumetrie "tecniche" (realizzazione di centri congressi e centri benessere), mentre è ancora all'esame la possibilità di concedere un aumento delle cubature, soprattutto per quanto riguarda gli alberghi nella fascia dei 300 metri dal mare. Ci sarà, per le imprese turistiche, la possibilità di accesso al credito attraverso «strumenti finanziari agevolati, per questo abbiamo avuto già dei contatti con la Banca europea degli investimenti», ha detto il presidente Cappellacci.
CASE E IMPRESE Il Piano casa regionale accoglierà, come è ovvio, i principi-guida di quello nazionale, con le premialità di cubatura per chi ristruttura secondo le norme che regolano il rispetto dell'ambiente e il risparmio di energia. Uno dei nodi ancora da sciogliere riguarda l'edilizia nella fascia sottoposta a tutela assoluta, quella vicina al mare: la Giunta sembra orientata a concedere la possibilità di rimodulare le case vicino al mare, senza "premi" di cubatura, mentre resta l'incentivo ad abbattere e ricostruire oltre i 300 metri, con cubature in più fino al 35 per cento.
Per le imprese sarde ci sarà la possibilità di ampliare e modificare gli stabilimenti, capannoni e impianti seguendo la traccia nazionale del risparmio energetico e della bioedilizia. Infine, il Piano casa conterrà anche norme che modificheranno il Piano paesaggistico regionale sui beni identitari, sulle norme transitorie e sull'applicazione dei Piani urbanistici comunali in vigore alla data di approvazione della legge sulle coste.
L’altravoce.net
Ppr, Piano Casa e Piano Alberghi
Cappellacci e il tris di mattoni
di Marco Murgia
Incassa e rilancia, Ugo Cappellacci. Spenta la candelina sui suoi primi cento giorni alla guida della Sardegna, il presidente della Regione si gode la ciliegina. Soddisfa la bulimia di cemento annunciata a più riprese durante la campagna elettorale e divide la torta con i rappresentanti istituzionali e delle associazioni presenti alla conferenza regionale del paesaggio. Incassa il sì più o meno convinto di tutti e rilancia: Piano casa e Piano alberghi, pronti e cucinati entro la metà di luglio. Tutto con il contentino per gli ambientalisti: «Non è volontà della Giunta mettere da parte quelli che sono i principi ispiratori del ppr», scandisce l'assessore all'Urbanistica Gabriele Asuni.
Un successo, dal punto di vista di viale Trento, questa mattinata al palazzo congressi della Fiera di Cagliari: è l'appuntamento conclusivo delle nove conferenze territoriali messe in campo dalla squadra Cappellacci. Unica azione concreta in cento e passa giorni di governo, a testimonianza dell'ossessione del mattone del nuovo corso di centrodestra. Senza uno straccio di opposizione - parlerà in serata solo Chicco Porcu, consigliere regionale del Pd, per sottolineare che «è evidente che si prepara un nuovo assalto speculativo alle coste sarde» - il gioco è facile facile.
Basta accontentare tutti. Costruttori, albergatori, imprenditori, amministratori in difficoltà con le norme troppo tecniche del piano Soru, e chi più ne ha più ne metta. Gli ambientalisti un po' meno, alla Fiera con il presidente di Legambiente Sardegna. Vincenzo Tiana chiede in sostanza due cose. Che non siano cancellati i principi del ppr vigente: accontentato, almeno nelle dichiarazioni; che al posto del Piano casa ci sia un piano di sviluppo sostenibile che non interessi solo l'edilizia «ma generi posti di lavoro per la gestione di beni paesaggistici sempre più fragili». Ma da quell'orecchio non ci si sente, anzi. Non solo il Piano casa sarà varato entro luglio, ma conterrà anche «le prime modifiche al ppr».
L'annuncio è di Cappellacci, e il rilancio è da brividi. C'è quello per la casa: 11 articoli già in bozza per un piano «che darà grandi possibilità e riguarderà anche gli edifici pubblici, entro metà luglio, dopo un confronto interno alla maggioranza di governo». E c'è quello per gli alberghi, indispensabile per rilanciare il turismo e «consentire alle strutture di recuperare il ritardo finora accumulato», attraverso strumenti urbanistici e «finanziari di largo favore». Centri benessere e turismo congressuale in prima fila, naturalmente: come diceva il premier Berlusconi durante le sue visite nell'isola per la campagna elettorale. Vengono confermate le premialità sulle cubature per chi decide di demolire e spostare la propria abitazione dai 300 metri dalla linea della battigia verso l'interno.
Edilizia senza paesaggio: per quello, il Piano conterrà le norme che andranno a modificare, nell'applicazione, il Piano paesaggistico regionale, in particolare sui beni identitari sulle norme transitorie e sull'applicazione dei Piani urbanistici comunali vigenti alla data di approvazione della Legge salvacoste. Per gli alberghi il presidente della Regione parla di una riqualificazione dell'offerta più che di un aumento dei posti letto: incremento che comunque «non viene escluso». Con l'aggiunta alle concessioni demaniali sulle spiagge, metri quadri in più a seconda del numero delle stanze, gli albergatori possono ben stare tranquilli. Occhio di riguardo anche per il patrimonio produttivo delle imprese sarde: ci sarà la possibilità di ampliare e modificare gli stabilimenti, i capannoni e gli impianti seguendo il principio del risparmio energetico e della bioedilizia.
A fare due più due, il risultato sembra cucito addosso al villaggio turistico-immobiliare di Costa Turchese: guarda caso, robetta che interessa alla famiglia del Cavaliere. La replica di Cappellacci lascia più di un portone aperto: «È nostro interesse garantire a qualunque cittadino regole chiare nel rispetto del nostro territorio. Dopo di che non importa se l'imprenditore si chiama Soru, Cappellacci, Berlusconi o Prodi». Così le cose, il premier non si fa sfuggire l'occasione. L'ostacolo, a questo punto, è solo Paolo Murgia: un pastore che da oltre trenta anni porta nei terreni individuati il suo gregge e tiene testa alle offerte di Edilizia Alta Italia, società del gruppo Fininvest. Battaglia a colpi di carta bollata e soldi, molti, messi sul tavolo: «Su questa terra ho l'usucapione, e non la cedo», racconta a Franco Bechis su “Italia oggi” di ieri: e qualcuno già lo indica come l'unico lin grado di opporsi a Berlusconi. Il Pd, in vista del congresso autunnale e delle beghe interne, ci faccia un pensiero.
VERONA — «Siamo troppo piccoli per essere grandi e troppo grandi per essere piccoli». Con questa riflessione, difficilmente contestabile, Rino Mario Gambari, consigliere delegato dell'autostrada Serenissima e soprattutto maggior azionista con oltre il 23%, lancia un messaggio per certi versi sorprendente: «Se davvero i soci pubblici decideranno di dismettere, il nostro gruppo di privati è interessato a comprare».
Sono tempi lontanissimi dal 2004, quando l'industriale bresciano, con una spettacolare se il termine è passabile - operazione finanziata da Mediobanca e Abn Amro acquistò il 20,3% della Brescia-Padova, valutando un miliardo l'intera società. Oggi, in tempi di recessione e di credito difficile, sembra azzardato immaginare altri grandi acquisti per una concessionaria autostradale che ha salutato da tempo il progetto di quotazione in Borsa, che ha un po' di problemi con le controllate (vedi Infracom) e che fa grande fatica a distribuire dividendi ai soci (l'Anas non vuole).
Ma tant'è. Gambari intende passare il guado, «perché la Serenissima ha la prospettiva concreta di aumentare il proprio valore nel tempo a condizione che, ovviamente, la concessione sia estesa davvero al 2026 e che si prosegua nel migliorare l'efficienza della società, sul fronte dei costi e della struttura organizzativa».
Il lombardo non desiste, quindi, dalla volontà di puntare finalmente al controllo o almeno a un ruolo da vero azionista di riferimento, magari in compagnia dei suoi attuali soci: la veronese Cis di Bruno Tosoni (che a sua volta ha trovato nel fondo F2i di Gamberale un alleato importante), la Abm Merchant di Alberto Rigotti, infine Guglielmo Tabacchi e figlio. Tutti presenti a vario titolo nelle società veicolo riconducibili al bresciano: nella compagine della Brescia-Padova risultano Re.consult Infrastrutture (20,3%) e Cif (3,13%), per un totale del 23,43%.
La questione è tornata di attualità per due motivi. Innanzi tutto, per le esternazioni recenti del presidente della Serenissima, Attilio Schneck. Stufo di oneri per più di un milione al l'anno che zavorrano l'intera gestione finanziaria della Provinciadi Vicenza, il leghista di Thiene ha detto chiaro e tondo che vuole vendere. Primo obiettivo, liberarsi di quel 3,86% acquistato per oltre 30 milioni nel 2005 per ordine di Manuela Dal Lago, che lo ha preceduto in entrambe le poltrone di presidente (Brescia-Padova e Provincia di Vicenza). Ma chissà, la dieta potrebbe essere anche più severa: la quota attuale è dell'8,86%, ben di più di tutti gli altri enti pubblici che al massimo superano di qualche decimale il 5%. Schneck si è spinto oltre: per vendere al miglior prezzo ed eludere il lungo e macchinoso iter del diritto di prelazione tra soci, gli enti azionisti potrebbero creare un veicolo societario verso cui far confluire le proprie partecipazioni. Quali altri soggetti potrebbero seguire il presidente? Da una vita si parla dell'intenzione a vendere del Comune di Milano (4,75%), ma stanno alla finestra anche altri enti e Camere di commercio, tutti assai interessati a far cassa.
L'altro fronte è dato dall'aumento di capitale. Se l'Ue archivierà finalmente la procedura d'infrazione contro il governo italiano sulla concessionelunga alla Serenissima, quest'ultima riformuleràsubito il piano finanziario per la realizzazione delle opere. Piano che dovrà contare anche su un rafforzamento patrimoniale della società, con un aumento di capitale che, nella versione precedente ora da aggiornare, era stato stimato in 150 milioni. L'operazione - inaccessibile agli azionisti pubblici - sarà una seconda chiave d'accesso per i privati.
In tutto questo, ricorre come formula magica l'eterna questione della concessione. Dallasocietà si fa professione di ottimismo, ma in queste settimane il cambio della guardia nella Commissione europea comporta un ulteriore ritardo nella decisione. Da Verona si spera nell'archiviazione del procedimento a Bruxelles a metà settembre.
Intanto, si dà corpo finalmente alla holding che separerà laconcessionaria dalle altre attività e partecipazioni del gruppo. Il 6 luglio è convocato un cda che dovrà provvedere alla costituzione del boarddella nuova società. Sarà l'organismo che dovrà gestire, in prima battuta, l'uscita dalle altre società auto stradali (Venezia-Padova, Cisa, Autobrennero, Autovie Venete solo per citare i soggetti principali). Sempre che si riesca a vendere bene. Gambari ha un'idea precisa: «Se le necessità di cassa ci spingeranno a farlo, lo faremo. Ma se non ne avremo bisogno, potremmo aspetta re un momento più favorevole per le valutazioni. Senza fretta».
In Italia, che è il paese con il più cospicuo patrimonio artistico dell’Occidente, «il restauro è un lavoro che possono fare tutti, e che persino tutti possono dirigere, fatto salvo il principio di pagarlo il meno possibile: il che, ovviamente, lo priva di qualsiasi vero contenuto scientifico»: la drastica sentenza è di Bruno Zanardi, che insegna Tecnologie per la conservazione e il restauro all´Università di Urbino.
Il restauro è un settore fra i più delicati nel delicatissimo mondo dei beni culturali. Ma il blocco delle principali scuole di formazione (di cui ha parlato ieri su Repubblica Cinzia Dal Maso) rischia di far disperdere un patrimonio di saperi e di competenze pratiche di cui l’Italia può - oppure poteva, secondo alcuni - vantare meriti indiscussi. Lo stallo delle scuole dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro (Iscr) e dell’Opificio delle pietre dure aggrava il disordine, nonostante ieri il ministero, in una nota, abbia ascritto a sé e a questo governo il merito di aver avviato una nuova disciplina per il settore: in Italia si diventa restauratori nei modi più diversi, con poca pratica di laboratorio, con poche norme di riferimento e si affidano incarichi, anche molto importanti, a ditte che hanno più competenze edili che artistiche.
Il pericolo, segnala Antonio Forcellino, fra i migliori restauratori italiani (dal Mosè di Michelangelo alla facciata del Duomo di Siena e all’altare Piccolomini nello stesso Duomo), è che sparisca la "bottega", il luogo in cui «si condividono e si imparano quella serie di gesti veloci fatti con il batuffolo bagnato che tolgono lo sporco e che a un certo punto bisogna interrompere perché si è arrivati al colore». Questa tradizione, insiste Forcellino, è messa in pericolo «da una trasmissione fredda del sapere, prevalentemente teorica, accademica, impostata più dagli storici dell’arte che non dai restauratori veri e propri».
L’intero settore è in crisi. La stessa in cui si dibatte tutta la tutela in Italia. Le ultime assunzioni all´Iscr risalgono al 2000 e ormai il più giovane restauratore dell´Istituto ha oltre quarant´anni. Diminuiscono gli stanziamenti e molta parte dell´attività eccellente che vi si svolge è concentrata all´estero. Anche il prestigioso Opificio delle pietre dure versa in cattive acque. «Fino a qualche anno fa i restauratori dell´Opificio erano 160, ora superano di poco i 100», racconta Giorgio Bonsanti, direttore dal 1988 al 2000.
Secondo Forcellino, la crisi del restauro e della formazione dei restauratori in Italia inizia negli anni Ottanta, quando si moltiplicano i luoghi che realizzano corsi. «Chiunque vuole apre una sua scuola: è la deregulation assoluta», insiste Bonsanti. Negli anni Novanta si impara a diventare restauratori anche all’Università, dove però è prevalente la parte teorica. Inoltre, dice ancora Bonsanti, che ora insegna Storia del restauro, «i professori ordinari o comunque strutturati sono pochi, la gran parte sono docenti a contratto».
Il punto più critico è il modo in cui vengono assegnati gli incarichi: i restauri, se superano l’importo di 45 mila euro, devono essere affidati con una gara, per vincere la quale conta di più offrire il massimo ribasso che non la massima competenza. Spiega Carlo Giantomassi, che ha restaurato gli affreschi della Basilica di Assisi e della Cappella degli Scrovegni a Padova: «Ormai tutto è in mano alle imprese edili. Per carità, ce ne sono anche di ottime. Ma non è richiesto che a dirigere il lavoro sia un restauratore. Molte di loro fanno indifferentemente un tratto di autostrada e il restauro di una pieve romanica. Per ottenere la certificazione necessaria a una gara, la cosiddetta S.o.a., è più importante il numero delle betoniere, anziché un curriculum da restauratore». Come Giantomassi, anche Forcellino non partecipa più a gare pubbliche: nessuno di loro sarebbe in grado di vincerle. Giantomassi è in procinto di smettere, Forcellino ha dovuto mandare a casa due preziosi collaboratori.
Le soprintendenze hanno sempre meno soldi per i restauri. Dominano il campo i restauri sponsorizzati da aziende private, molti dei quali benemeriti. Ma le aziende vogliono un ritorno d’immagine, cercano i capolavori. Così può capitare che una singola opera venga restaurata anche più volte e anche quando non ce n’è necessità effettiva. Ma per Zanardi - che ha lavorato alla Colonna Traiana e alle sculture di Benedetto Antelami a Parma - il problema sta proprio nello statuto del restauro. «I restauratori italiani sono stati i migliori del mondo grazie a Cesare Brandi, che osò l’inosabile, cioè far entrare dentro una griglia teorica una materia fino a quel momento di natura pratica. Restaurare significa non intervenire sull’aspetto creativo, ma adottare tecniche che, in seguito, possano essere rimosse senza danneggiare l’opera. L’obiettivo è solo la conservazione dell’oggetto». Da Brandi in poi si è iniziato a viaggiare in discesa, aggiunge Zanardi. E si è cominciati a precipitare, insiste il professore, quando si accantonò il progetto che Giovanni Urbani, direttore per molti anni dell’Iscr, mise a punto nei primi anni Sessanta e che prevedeva «la conservazione programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente», un grande piano preventivo di salvaguardia dei beni culturali. Che, per esempio, avrebbe potuto funzionare nelle zone sismiche, consolidando e facendo quella manutenzione in grado di impedire i disastri dell’Irpinia o dell'Abruzzo.
Meraviglia sarda sotto minaccia: è il Times di Londra che titola così un servizio di Richard Owen sul caso Tuvixeddu, dopo l’iniziativa di denuncia lanciata dal presidente della Provincia Graziano Milia il 17 giugno a Bruxelles, davanti ai giornalisti di tutta Europa. Ripercorsa rapidamente la storia antica e recente del sito archeologico, il Times riferisce della presa di posizione annunciata dal vicepresidente dell’organo consultivo del parlamento europeo Michel Dellebarre, pronto a portare la vicenda di Cagliari all’attenzione della massima assise continentale. L’autorevole quotidiano londinese - che un anno fa aveva parlato di «immondezza» sulla necropoli punico-romana - fa poi riferimento alle numerose denunce di Italia Nostra, che per bocca di Maria Paola Morittu prevede «modifiche consistenti a un paesaggio antico che ha già sofferto molto». Mentre Dellebarre - come riporta il cronista inglese - taglia corto affermando: «Non capisco come qualcuno possa pensare di danneggiare un patrimonio di questo valore». Se il presidente Ugo Cappellacci avverte che sarebbe «un atto criminale distruggre Tuvixeddu» resta aperta, come spiega il Times, la partita fra chi sostiene, come Nuova Iniziative Coimpresa, che sul colle è stato scoperto tutto fin dal 2000 e chi, come l’Avvocatura dello Stato, parla di oltre mille tombe venute alla luce negli anni successivi all’accordo di programma che ha dato il via all’edificazione.
Modena è parte di un sistema policentrico di comunità locali, che con lo sviluppo industriale e l’urbanesimo ha vissuto processi di sviluppo urbano di intensità molto forte.
A partire dagli anni ’60 le politiche territoriali hanno ricercato con determinazione il consolidamento e la valorizzazione dell’originaria rete di centri urbani, maggiori e minori, allo scopo di distribuire sul territorio le funzioni di livello urbano e prevenire l’ulteriore congestione della città di Modena.
Queste finalità di sviluppo equilibrato hanno orientato sia la pianificazione del territorio, sia politiche specificamente concepite e attuate. Il Consorzio intercomunale per le aree produttive, costituito a metà degli anni ’70 e sempre attivo, ha attuato il decentramento di circa sessanta industrie da Modena verso quattro insediamenti esterni, appositamente allestiti allo scopo di riequilibrare l’offerta di posti di lavoro, e con essa la distribuzione della popolazione sul territorio.
Nel medesimo periodo il Comune di Modena è stato un protagonista dello sviluppo e dell’attuazione di politiche urbane orientate a una salda visione dell’interesse pubblico. Ricordiamo per esempio che il suo piano regolatore del 1964 anticipò di quattro anni l’istituzione degli standard urbanistici, quello del 1975 sperimentò per la prima volta la disciplina particolareggiata del centro storico, quello del 1989 fu pioniere dell’integrazione della tutela dell’ambiente nella pianificazione urbanistica, e dell’articolazione in piano strutturale e piano operativo. E ricordiamo pure che i dimensionamenti dei piani regolatori da trent’anni sono sempre stati contenuti nel fabbisogno fisiologico di una popolazione costante, e che ancora oggi oltre due terzi delle nuove edificazioni residenziali e produttive sono realizzate su terreno concesso o ceduto dal Comune in attuazione del PEEP o del PIP.
L’attuale assessore all’urbanistica è fermamente determinato ad essere anche lui un pioniere, ma di una concezione del governo del territorio diametralmente opposta.
In un suo documento personale di una ventina di pagine - “Modena futura”, in circolazione da più di un anno ma mai discusso in alcuna sede pubblica, propugna per la città di Modena un aumento di ventimila abitanti nei prossimi dodici anni (oggi sono 180.000). L’intento è, sostiene, di riportarvi gli abitanti che nel tempo si sono trasferiti nei comuni all’intorno. Ma prevede anche il raddoppio della popolazione straniera, dall’attuale 10% al 20%. E senza alcun imbarazzo programma un aumento di cinquantamila abitanti sul lungo termine (quello che, contando di essere nuovamente nominato assessore dopo le elezioni, intende prendere a riferimento per il nuovo piano strutturale comunale). Valutazioni sui sistemi infrastrutturali, sulla mobilità urbana, sull’ambiente, sull’offerta di occupazione, sugli effetti per l’ambiente, sugli enormi investimenti necessari, sui colossali problemi già sperimentati con la crescita tumultuosa degli anni ’60 e ’70? Zero.
Nel frattempo al “Laboratorio della città”, che l’amministrazione comunale ha costituito coinvolgendo insegnanti di cinque o sei Facoltà di Architettura, ha prodotto delle proposte. Una di queste, sviluppata dal gruppo di Marco Romano, dell’Università di Genova, è stata presentata pubblicamente alla metà di dicembre, in quella che, secondo il comunicato stampa, “sarà l'occasione per gettare le basi del futuro Piano regolatore (PSC)”.
Prevede la saturazione con edilizia residenziale di tutto il territorio compreso fra il margine urbano e l’autostrada del Sole, più o meno cinquecento ettari, ampiamente sufficienti per cinquantamila abitanti e più. Appunto.
Chimere? Esercitazioni?
Sembra di no, sembra che qualcuno ci creda, e investa i suoi soldi.
Al recente convegno di Italia Nostra (20 febbraio 2009 n.d.r.) in cui è stato presentato il video “ Lo sguardo sulla città” un intervento ha richiamato l’attenzione sulle notizie, che circolano da molti mesi fra gli addetti ai lavori, di ingenti acquisti di terreni agricoli a prezzi che agricoli non sono (50, 60, anche 100 euro al metro quadrato) effettuati al perimetro della città da imprese di costruzione e immobiliari.
L’assessore ha minacciato querele (chissà mai perché) ma non risulta che abbia proceduto a verifiche. Eppure il Comune ha libero accesso al Catasto, e può consultare agevolmente i trasferimenti di proprietà di terreni, anche se non le cessioni di società.
Se le cose stanno così, se c’è effettivamente chi investe soldi buoni in terreni non edificabili (si parla di oltre un milione di metri quadrati), allora c’è davvero da preoccuparsi. Povera Modena.
Sembrava un canard quello dei 700.000 cittadini milanesi da sommare agli attuali 1.300.000 per toccare il favoloso tetto dei due milioni. La notizia era vera, era l’assessore «allo sviluppo del territorio», Masseroli, a parere falso. Insorse sul Corriere il presidente del Fai, Giulia Maria Crespi, preoccupata se non indignata. L’assessore rispose smentendo se stesso e sbagliando i numeri. Alla domanda «con quanti residenti effettivi» la città, disse che a Milano «dormono» (cioè risiedono) 1.700.000 persone! Così sarebbero solo 300.000 le unità di popolazione necessarie per raggiungere l’obiettivo. Ma prima il nostro si riferiva, giustamente, a 1.300.000 e i conti tornavano non solo con i 700.000 abitanti auspicati ma anche con i settanta milioni di metri cubi di edifici necessari.
A ogni modo Masseroli, come la craxiana nave, va avanti. Sappiamo che non è l’assurda quantità di nuovi cittadini a interessare l’amministrazione comunale, i proprietari fondiari e gli immobiliaristi. Sono i metri cubi di costruzione, del tutto indifferente il loro utilizzo. Abitazioni? Uffici? Atelier di moda? Nulla? Di sicuro prevarranno i volumi vuoti, almeno per lungo tempo, come è successo in una serie di edifici realizzati indipendentemente da una domanda reale. Inoltre funziona l’enorme riciclaggio di denaro mafioso. A Milano – se ne scrive, se ne legge – è soprattutto la ‘ndrangheta a operare legalmente o no in diversi mercati, dall’edilizia ai negozi, dalle pizzerie all’ortomercato, dal racket dei rifiuti all’usura... Che le costruzioni restino vuote non importa. La rendita continua a riprodursi comunque nei passaggi di proprietà, i valori fondiari crescono tendendo all’infinito, non s’è vista alcuna visibile diminuzione di prezzi durante la crisi, anche se rallentano un po’ le compravendite (quanto alla diminuzione sperata degli affitti, chiedere ai giovani lavoratori e studenti ormai trattati a posto letto, non a monolocale o alloggetto, la stessa procedura subita dagli immigrati meridionali negli anni Cinquanta).
L’assessore va avanti. Ecco il preludio al Piano di governo del territorio, i giornali pubblicano l’elenco e l’ubicazione di venticinque zone/aree/punti/complessi edilizi su cui si deve costruire. Cos’è un piano senza pianificazione? Proprio questo, un buon esempio. Interessano solo i metri quadri e i metri cubi. Difatti leggiamo sui quotidiani: nove milioni di metri quadrati di aree da trasformare. Dagli scali ferroviari ai verdi ippodromi di san Siro, dal Porto di Mare vicino a Rogoredo alla Cascina Merlata prossima al Cimitero maggiore, dai diversi «piazzali» alle stazioni… (postilla: la Stazione Centrale è già stata massacrata per essere commercializzata, vedere per credere). Poi la «valorizzazione» di edifici storici enormi come il Palazzo di Giustizia (Piacentini), il carcere di San Vittore, caserme… Le superfici utilizzabili, in base all’indice di 1 mq/1mq (masseroliano aumento recente da 0, 65/1, ossia + 54%) diventerebbero cubature di circa trenta milioni di mc. Tutto si tiene: quegli incredibili settanta milioni di metri cubi per la crescita fino a due milioni di abitanti trovano il presupposto nel Pgt con le sue venticinque occasioni per costruire a più non posso, non per un qualche obiettivo urbanistico quindi sociale (pianificare città e territorio in base ai bisogni sociali attuali e razionalmente prevedibili), ma come rete di offerte che le imprese faranno. L’affare in euro sarà talmente grosso da non essere quantificabile e il Comune incasserà la sua parte almeno in oneri di urbanizzazione. Fa già testo l’«avviso per l’individuazione di un partner per la valorizzazione e lo sviluppo delle aree» relative al progetto Ferrovia Nord dalla stazione di Cadorna a Bovisa (leggiamo che l’immobiliare Hines ha dichiarato la propria disponibilità). E la taciuta Expo? Quale altra colossale speculazione, una volta smontati gli impianti, sulle aree dei Cabassi e dei Ligresti liberate «per contratto» dal vincolo agricolo?
Lo schema generale del Pgt dovrebbe approdare in Consiglio comunale in autunno.
Come si muove l’opposizione? Come d’uso ora: senza uno straccio di pensiero radicalmente alternativo, senza modelli «di sinistra», per così dire (ma la sinistra non c’è più, e il centrosinistra è diventato centrismo). Il procedimento urbanistico-edilizio generale milanese da anni verificato nei fatti, cominciato con il quartiere della Bicocca voluto da Tronchetti Provera e accettato dall’amministrazione comunale (sindaco Albertini), è quello degli immobiliaristi che propongono il dove, il quando, il quanto, il prezzo e l’amministrazione che si accoda: non sappiamo di effettivi disaccordi nella politica circa contrattazione o negoziazione, che, parolacce (e realtà) straordinariamente espressive, sono entrate (esse stesse o dei sinonimi), oltre che nel corrente linguaggio, in tutti e quattro progetti di nuova legislazione urbanistica presentati in parlamento.
A Milano “la nave va” e nemmeno una barchetta le taglia la strada. E altrove?
Milano, 6 maggio 2009