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la Repubblica, 9 settembre 2009

Expo 2015, il mondo in una mega-serra

di Alessia Gallione e Giuseppina Piano

MILANO - Un’Expo ridimensionata causa crisi e fondi in bilico. Un’Expo a cemento (quasi) zero. Dove l’area espositiva sarà un’isola circondata da canali e laghetti artificiali. Dove i classici padiglioni spariscono per diventare grandi serre di vetro. Dentro marchingegni per ricreare il clima del deserto o della tundra, delle piantagioni tropicali di caffè. Fuori, un gigantesco orto globale dove i Paesi espositori letteralmente coltiveranno il loro cibo. Il simbolo? Un boulevard di un chilometro e mezzo che attraverserà i campi e le serre, rappresentando una chilometrica tavola virtuale a cui sedersi. Così l’Esposizione universale dedicata all’alimentazione che Milano ospiterà nel 2015 alle porte della città, accanto alla nuova Fiera aperta a Rho-Pero nel 2005, cambia completamente volto.

Il cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi, proprio ieri, ha voluto lanciare il suo monito: «Mi pare che il tema dell’Expo, il rapporto di accoglienza che Milano è chiamata a realizzare con chi arriverà, sia finora rimasto sempre piuttosto secondario rispetto a tanti altri problemi». È passato un anno e mezzo da quando la città del sindaco Letizia Moratti vinse l’Expo del 2015. Un anno e mezzo di liti nel centrodestra sulla gestione di appalti e opere. Adesso la ripartenza con la presentazione, ieri, del masterplan generale per l’area espositiva, firmato da una cinquina internazionale di archistar: il milanese Stefano Boeri, l’inglese Richard Burdett, lo svizzero Jacques Herzog, lo spagnolo Joan Busquets, l’americano William McDonough. Con il guru di Slow food Carlo Petrini a "ispirare" la visione. Il risultato è un progetto ecosostenibile, dove non si costruirà quasi nulla se non padiglioni in vetro. E dove si esporrà negli orti. Il tema dell’alimentazione sarà declinato attraverso le colture reali trapiantate alle porte di Milano. Un’Expo senza monumenti. E dove alla fine dei sei mesi di esposizione tutto sarà smontato per far posto a un nuovo quartiere, solo l’orto globale è candidato a sopravvivere.

Il progetto con cui Milano si era candidata prevedeva una torre-simbolo di 200 metri d’altezza, padiglioni classici per quasi 400mila metri quadrati di superficie. Tutto sparito. Una scelta dettata anche dalla crisi economica e dall’incertezza assoluta che regna sui fondi previsti: i tre miliardi di investimenti in opere e collegamenti stradali potrebbero ridursi a metà. L’area espositiva costerà sicuramente meno rispetto al preventivo di 1,3 miliardi. Quanto esattamente? «Di costi non abbiamo ancora parlato», dice il sindaco Letizia Moratti. Preferendo insistere su «un sogno, il mio sogno, che diventa realtà» con un progetto urbanistico che guarda al contenuto e non al contenitore. Assicura, il sindaco che «il progetto è piaciuto molto al presidente del Consiglio Berlusconi. Ci ha dato anche dei consigli». Lucio Stanca, parlamentare del Pdl e qui a capo della società che gestirà l’Expo, dice che sì, questo è un progetto «moderno, leggero, più sobrio anche perché è concepito in un momento di crisi». Ma ripete: «Nessun ridimensionamento: mi spiace per i gufi ma i fondi previsti ci sono tutti». Nel centrosinistra, però, la storia la ricordano diversamente. «Un progetto al ribasso, fortemente ridimensionato», è il riassunto del segretario milanese del Pd Ezio Casati.

Il Corriere della Sera, 9 settembre 2009

Un’isola con gli orti del pianeta Ecco l’Expo (senza grattacieli)

diElisabetta Soglio

MILANO — Parigi ha avuto la Tour Eiffel, Milano avrà il suo bioparco. Un «orto botanico planetario» realizzato su un’isola artificiale, dove i visitatori di Expo 2015 potranno percorrere un giro virtuale fra i sapori del mondo, gli ambienti climatici, l’organizzazione agricola dei diversi Paesi. In una sala di Palazzo Reale, troppo calda e troppo piccola per tutti i presenti, è stato ieri svelato il «mistero » del masterplan di Expo 2015. Gli architetti Stefano Boeri, Jacques Herzog, Ricky Burdett, Joan Busquets, William McDonough hanno unito esperienza, sensibilità e visioni per definire una filosofia apprezzata anche dal premier Silvio Berlusconi, a cui il masterplan era stato mostrato in anteprima il giorno prima.

Si parte dal tema con cui Milano ha conquistato Expo: «Nutrire il pianeta, Energia per la vita ». Ed è il tema stesso a diventare la sede espositiva, il cosiddetto sito, nel senso che invece di realizzazioni monumentali si è scelto di proporre un’esposizione «radicalmente rivoluzionaria » che mette insieme tutte le forme di produzione del mondo, tutti i prodotti delle varie terre «e che consente di entrare anche nel tema degli squilibri nutrizionali», come sottolinea Boeri.

Bisogna così immaginare una grande area, quasi un milione di metri quadrati, circondata quasi totalmente da acqua e strutturata sul modello delle città romane, con cardo e decumano a dare il ritmo. In mezzo, un lunghissimo viale su cui si muoveranno i visitatori e che avrà al centro un grande tavolo per guardare e gustare i prodotti del mondo. Nessuno stand nel senso tradizionale del termine, ma tanti lotti di terreno coperti da strutture leggere, tende e simili, sotto le quali ogni paese sperimenterà il proprio orto e le proprie colture. Lungo il perimetro del sito si alterneranno invece grandi serre bioclimatiche che riprodurranno i cinque climi del pianeta. Alle due estremità, poi, avremo una Arena teatrale e una Collina realizzata con il terreno ricavato dagli scavi di cantiere. Infine, nei padiglioni tematici verranno affrontate le questioni aperte sul tema dell’alimentazione.

Sarà un’Expo ridimensionata nei costi (un miliardo di euro circa) e nelle volumetrie: ma non un evento in tono minore. «Il sito — assicura l’ad della società di gestione, Lucio Stanca — sarà molto attrattivo e invoglierà i visitatori a venire a vivere una grande emozione. Inoltre, lasceremo in eredità ai milanesi e a tutti quanti vorranno goderne un’area di grande valore ». Il sindaco-commissario Letizia Moratti parla di «un sogno diventato realtà condivisa» e di un’Expo «innovativa perché per la prima volta si privilegia il contenuto anziché il contenitore e si offre una elaborazione legata a ciò che non si può toccare e diventa esperienza». Il governatore Roberto Formigoni spiega che «vedere non è più abbastanza e vogliamo che le persone vengano per partecipare. E in questo crediamo di aver cominciato ad individuare la nuova forma per gli Expo del futuro, grazie ai temi come l’accoglienza e la sostenibilità». Così il presidente della Provincia, Guido Podestà che considera «straordinaria la suggestione trovata dagli architetti perché ci hanno regalato qualcosa di altamente immateriale». Carlo Sangalli, presidente della Camera di Commercio che insieme alle istituzioni è nella società, condivide la soddisfazione ma ricorda che non tutti i problemi sono risolti: «Oltre alle vie di acqua e di terra serve una via d’aria che consenta all’esposizione di volare alto. Servono collegamenti aeroportuali, e l’occasione Malpensa non va sprecata, e servono infrastrutture veloci». Ma questa è un’altra storia.

Passeggiando per le strade dell'Isola verso l'ora di pranzo, quando i negozi sono chiusi e la gente è impegnata in un pranzo fugace per affrontare l'ennesimo, caldo e snervante pomeriggio di estate milanese qualsiasi, le serrande colorate sono la prima cosa che salta agli occhi. E i colori sono disposti con cura, costruiscono visionari scenari metropolitani; ma questi colori sono soprattutto testimonianza di un'altra città. Sono i ricami di un tessuto urbano vivo e pulsante. Le saracinesche volute da Isola Art Center sono una risposta allo sgombero e alla demolizione della Stecca degli Artigiani. Mentre nei salotti del potere si disegnano le nuove piantine del quartiere, mentre i parchi spariscono e i cantieri si moltiplicano, mentre si sta di fatto rinunciando all'idea stessa del coinvolgimento dei cittadini nei processi politici che portano a decisioni così importanti, una parte dell'Isola non ci sta. Queste persone cercano oggi una soluzione alternativa al diktat edilizio del progetto Porta Nuova che all'Isola ha portato alla sostituzione di un parco pubblico con costruzioni residenziali, centri commerciali e grattacieli. Ci sono anche spazi verdi nel nuovo progetto, ma si tratta di strisce di terra; questo nuovo verde crescerà infatti sopra i parcheggi sotterranei, senza sufficiente profondità perché le piante possano mettere le radici, diventando poco più che una distesa di erbetta decorativa.

Sono tante le voci che lo definiscono un progetto discutibile. E così sono spuntate le saracinesche colorate. Ai margini dei cantieri dei colossi Hines e Ligresti, responsabili e proprietari di gran parte delle planimetrie del progetto comunale, è cresciuta l'alternativa. All'avanguardia.

Un sarcastico bosco orizzontale sale sul ferro arrugginito di un elettricista, un bozzetto di un parco possibile per il quartiere rende meno monotona la vetrina di un alimentari, un chiosco di giornali che denuncia l'abbellimento strategico voluto da Manfredi Catella e dalla Moratti se ne sta da solo in mezzo a una piazza. La realtà è che sono moltissimi gli artisti coinvolti in questo progetto di rilancio anche estetico dell'Isola che nasce direttamente dal basso, in questo tentativo popolare di riappropriarsi con i mezzi dell'arte di una certa idea di bellezza possibile e condivisibile da tutti, per cercare di far sì che una buona volta siano gli abitanti a prendere le decisioni, i cittadini a scegliere il loro futuro e il loro cemento. E così, mentre dall'alto tentano di convincere il pubblico con l'estetica americana anni ottanta del grattacielo altissimo e portatore dei valori di progresso e felicità irraggiungibili dalla maggioranza, il quartiere si riappropria di un futuro realmente possibile dove la condivisione delle esperienze costituisca la base per costruire un quartiere di tutti e un laboratorio di nuove proposte sociali.

Sono queste le persone che all'Isola criticano e mettono in discussione le verità del mainstream e che si lasciano quindi provocare dall'instancabile fruscio lussemburghese della voce di Bert Theis e dall'energia di tutti gli artisti e attivisti di Isola Art Center, convinti che, nonostante tutto, la parola fine sia ancora da scrivere. L'idea del Centro per l'Arte e il Quartiere, al quale lavorano anche il Comitato I Mille e i genitori delle scuole Confalonieri, è quella di chiedere alla maggior parte dei commercianti di partecipare attivamente donando i propri spazi privati all'attività di protesta, con lo scopo di impedire la cementificazione e la privatizzazione dei giardini fra via de Castilla e via Confalonieri, storico polmone verde dell'Isola, e che ora è parte del massiccio progetto privato Porta Nuova .

Mariette Schiltz, artista e compagna di Bert Theis si rammarica della poca attenzione che i giornali dedicano alla loro campagna contro la speculazione edilizia all'Isola: «Da quando hanno scelto Stefano Boeri come architetto del progetto ci siamo ritrovati quasi tutti contro, compresa la maggioranza del centrosinistra. Come mai?» E Bert interviene con un'ipotesi: «Personaggi milanesi del mondo della cultura di sinistra o ex di sinistra, come nel caso di Boeri, sono troppo importanti per essere criticati. Boeri ad esempio non è solo un architetto, ha tutta una sua rete di contatti, è direttore di una rivista di architettura, ha tanti amici, è quasi intoccabile.» Mentre Mariette parla arriva la notizia che il Tar ha bloccato le varianti che erano state fatte nel 2005 al progetto Garibaldi- Repubblica, anche nell'area dove c'erano i giardini dell'Isola e oggi ci sono i cantieri, e quindi adesso: «devono diminuire le costruzioni e aumentare il verde - dice Mariette - sono nei pasticci, devono fermare i lavori, che si basano sulle varianti bloccate, questo dimostra che le cose non si fanno così, speriamo...».

Esiste anche una parte del mondo culturale milanese, tra cui la Naba (Nuova accademia di belle arti di Milano), tante associazioni della rete Incontemporanea che sostengono i progetti artistici e collettivi di Isola Art Center. Il sostegno internazionale invece viene da istituzioni come Platform Garanti di Istanbul o i musei di Ginevra, di Lussemburgo e di Eindhoven. Isola Art Center quando parla dei suoi tentativi parla anche degli uomini, degli abitanti dell'Isola perché solo coinvolgendo le persone si può cercare di creare un'alternativa al potere in mano ai pochi che stanno di fatto decidendo il futuro di un intero quartiere. «Ogni progetto artistico deve essere legato ad un progetto sociale, altrimenti l'arte rimane solo quella del museo, è chic ma non incide; la gente deve sentirsi parte di una comunità, deve coltivare le relazioni umane e sentirsi in grado di incidere nelle decisioni.» E tra i cittadini c'è Xabier Iriondo che vive all'Isola da sempre, ha un negozio di strumenti musicali in piazzale Segrino e ospita le iniziative di Isola Art Center. Xabier è preoccupato di quello che sta succedendo: «L'idea di ridimensionare completamente il quartiere e di portarlo a diventare un luogo di passaggio e di fruizione di nuovi servizi, come li chiamano, è sbagliato. Questo non è un quartiere di grandi boulevards, è pieno di sensi unici e strade strette. Quello che vogliono fare è l'esatto opposto di quello che ha bisogno l'Isola. Un traffico su ruote imponente senza avere parcheggi è follia pura. Stanno ribaltando l'impianto urbanistico, in nome di interessi privati. Non si può accettare. «È quindi fondamentale fare politica, occuparsi della polis in un modo diverso dalle istituzioni» dice Bert Theis. Xabier è d'accordo e aggiunge che partecipa perché si sente minacciato dal progetto anche nelle sue vesti di commerciante. «Bisogna mettersi realmente in gioco e lottare contro i poteri forti. La soluzione può arrivare solo dal basso.».

L'Osterialnove è un bellissimo ristorante in via Thaon di Revel, il suo proprietario, Alfredo Galimberti si dice contrario al progetto: «Sono dei progetti assurdi, dice Alfredo, che io da ex architetto non avrei mai realizzato. Invece che fare solo palazzi residenziali, io farei grandissimi parchi. Così ci guadagnano solo i ricchi, le multinazionali e non la gente normale». Ci sono poi due signori cileni, Leonardo Luque e Mariana Huidobro, che hanno una libreria in via Pollaiuolo, Puerto de Libros. Leonardo è al fianco di Bert, tutte e due non sono nati qui ma entrambi si sentono a disagio per la situazione delicata del quartiere: «I problemi sono infiniti. Il primo problema è un problema morale, etico. C'è una forma di resistenza ma esiste anche una certa ignoranza che impedisce analisi giuste della situazione. I cambiamenti si presentano sempre con una veste fantastica ma poi Quello che si deve fare è informare, lottare e recuperare una dimensione collettiva». Mariana è ancora più arrabbiata :«Noi vorremmo fare cose che sono troppo difficili da fare. La gente è chiusa. Il problema non è solo dell'Isola e di Milano. È un problema più grande. Quello che noi dobbiamo fare è aprire le porte ai cambiamenti, ma bisogna trovarsi, discutere e lottare».

Tra via Borsieri, Porro Lambertenghi e piazzale Segrino ci si imbatte in altre opere d'arte e in altri commercianti stufi della situazione, che hanno donato le loro serrande agli artisti. La ditta di Giuliano Vecchiato in via Borsieri ha ospitato l'opera forse più rappresentativa, realizzata da OsservatorioinOpera, che ironizza sul progetto di Boeri, il bosco verticale, e si stupisce del successo che ha avuto sui suoi clienti: «La gente si ferma, mi chiede. Voglio che rimanga così perché può essere uno spunto di riflessione».

Anche Michele Carulli, macellaio al mercato comunale è in linea con la protesta. È un uomo sorridente Michele e, dietro il suo bancone di vetro che riflette la sua immagine mentre taglia una bistecca di manzo, si rammarica del cambiamento che subisce il quartiere. «Io faccio il macellaio, ma mi interesso di problemi sociali, non parlo solo di donne e di calcio, per me è normale. Ho paura del cemento ma soprattutto mi chiedo: Chi può accedere a quel tipo di immobile? Chi ? Pochissimi». Michele poi finisce di tagliare la carne, la intinge in un intingolo di rosmarino e olio, la incarta e ce la offre: «Alla griglia è buonissima.». Semplicemente buona, ci fidiamo.

Il progetto di riqualificazione delle cascine verrà presentato con il masterplan di Expo l´8 settembre. Un piano di massima preparato dal Comune e dal Politecnico che prevede il rilancio dell´agricoltura di prossimità all´interno del Parco Sud, ma anche l´ipotesi di trasformare le cascine abbandonate e degradate che non si possono salvare in strutture per il turismo e in spazi per il terzo settore. E per rilanciare l´agricoltura cittadina nasce anche un comitato di cui fanno parte, oltre al Politecnico, Coldiretti, Sloow Food, Esterni, Vita e il consorzio Sir.

Cascine Expo: potrebbe chiamarsi così il progetto di riqualificazione delle cascine di Milano e dell´hinterland che verrà presentato l´8 settembre insieme al masterplan dell´esposizione universale 2015. Un progetto di massima, messo a punto dal Comune insieme al Politecnico, che rivede completamente il sistema dei casolari, in parte funzionanti in parte abbandonate, che risiede soprattutto all´interno del Parco Sud. E sostenuto dal neonato comitato che riunisce, oltre all´università, anche la Coldiretti, Slow Food, Esterni, l´associazione Vita e il consorzio Sir, istituitosi prima dell´estate per promuovere il progetto e cercare l´adesione di chi attualmente opera nelle cascine.

«La riqualificazione delle cascine di Milano e dell´hinterland potrebbe essere una delle eredità che l´Expo lascia alla città dopo il 2015 - spiega l´assessore all´Urbanistica Carlo Masseroli - L´Esposizione può essere un´opportunità importante per ricucire una grossa ferita della nostra città mettendo insieme tradizione e innovazione». Da mesi Masseroli lavora insieme ai colleghi di giunta Giovanni Terzi, responsabile dell´Agricoltura, e Gianni Verga, del Demanio, a un piano di rilancio di uno dei beni più nascosti del territorio, procedendo prima con una mappatura dell´esistente poi con incontri con chi già opera sul territorio. Un´indagine che sta iniziando a delineare il futuro delle cascine. Il progetto punta soprattutto sul rilancio dell´agricoltura di prossimità, ma prevede, là dove non si possono salvare gli antichi edifici, anche la trasformazione delle strutture degradate e abbandonate in bed & breakfast e agriturismi, oltre a spazi per il terzo settore che potrebbero essere dati in concessione al volontariato.

Contrario alla realizzazione di strutture per il turismo Maurizio Baruffi, capogruppo dei Verdi a Palazzo Marino. «La sfida è il rilancio dell´agricoltura, rendendola economicamente appetibile, magari anche per un giovane - commenta il consigliere - Il Comune dovrebbe fare uno sforzo per sostenere chi vuole investire in questo settore, non certo puntare sull´aumento delle volumetrie. Quindi ben vengano progetti di ristrutturazione, ma non se l´idea è quella di utilizzare parte dei terreni verdi per nuove edificazioni o strutture ricettive e alberghiere».

I «miglioramenti»: meno fabbriche e nuovi parchi «puliti e ben gestiti», palazzi a basso impatto ambientale e l’Ecopass, «prima vera misura antitraffico ». I «peggioramenti»: quartieri popolari abbandonati e degradati e «la mancanza di un progetto urbanistico e politico per la città». Sono Legambiente, Italia Nostra e Fondo per l’ambiente italiano (Fai) a leggere i cambiamenti di Milano negli ultimi vent’anni.

Obiettivo dell’indagine: capire dove sta andando la città che in due decenni ha perso 400 mila abitanti e che qualcuno, nel 2015, immagina in piena espansione. Il futuro, allora. Legambiente fissa un obiettivo: «Bisogna immaginare una Milano che passi da 65 auto, come oggi, a 30 auto in media ogni cento abitanti»

Nella colonna dei «miglioramenti »: vent’anni fa c’erano le industrie, che avvelenavano l’aria e la terra, e oggi non ci sono più. Nella colonna dei «peggioramenti »: esisteva un tessuto agricolo, a Sud della città, che ormai è stato dimenticato. Tema: guardare Milano in prospettiva storica. Limite temporale: gli ultimi vent’anni. Cosa va peggio e cosa meglio. Trasformazioni positive e negative.

Può sembrare un gioco, perché i cambiamenti di una metropoli seguono strade complesse. Ma è anche un’occasione per un dibattito. Per rivendicare i progressi. E allo stesso tempo indicare il degrado. Urbanistica, ambiente, qualità della vita. Con un occhio al futuro.

Si può partire da un esempio: «Vent’anni fa andavamo in parco Sempione a strappare le erbacce », ricorda Luca Carra, presidente milanese di Italia Nostra. «Oggi invece i parchi sono di solito puliti e ben gestiti, sono stati creati il parco Nord e quello delle Groane. L’attenzione per il verde è di gran lunga aumentata». Lì, all’origine di questo cambiamento, si scopre però anche una strada senza uscita: «Quei parchi — continua Carra — sono frutto di una progettualità che non esiste più. Il passante è un altro esempio di come ci fosse un’idea di governare Milano come grande area metropolitana. Un obiettivo che si è perso». E che, pensando al futuro, secondo Italia Nostra andrebbe recuperato.

In mezzo, in questi vent’anni, qualcuno rimprovera il passaggio da un’idea di Grande Milano a quella di una città-condominio. Tendenza che (ovviamente) non riguarda soltanto un’amministrazione, «ma è una trasformazione molto più ampia e generalizzata ». E, comunque, mette sul banco degli imputati la politica.

Ecco il punto comune: la mancanza di un progetto. Andrea Poggio, vice direttore nazionale di Legambiente, indica un cambiamento epocale, e cioè il passaggio «dai riscaldamenti a olio combustibile al metano: un progresso — spiega — che ha migliorato in proporzioni enormi la qualità dell’aria. In generale, la qualità dell’abitare a Milano è uno dei grandi momenti di progresso nella storia recente». Allo stesso tempo, mentre l’edilizia faceva passi avanti, «Milano ha via via abbandonato e lasciato degradare il grande polmone agricolo a Sud del Comune. Era una delle grandi ricchezze lombarde ».

La storia recente si può leggere anche attraverso piccoli segni. Elementi che diventano però emblematici: «Il cantiere in Sant’Ambrogio — spiega Marco Magnifico, direttore generale e culturale del Fondo per l’ambiente italiano — è deleterio soprattutto per il messaggio che manda. Con l’Ecopass si è avviata una grande stagione in cui i cittadini hanno preso coscienza del problema inquinamento, con quel parcheggio ricevono invece un messaggio opposto. Manca coerenza, linearità e coraggio nelle scelte».

La città del futuro, almeno dal punto urbanistico, si intravede già. Da Garibaldi, a CityLife: è una città che va verso l’alto. «Ma Milano cosa ha a che fare con i grattacieli? — chiede il direttore del Fai — La nostra tradizione culturale e architettonica è di città bassa, rappresentativa di un’eleganza austera, aperta, riservata, accogliente. Non si possono scimmiottare Hong Kong o Dubai, architetture completamente avulse dalla nostra storia. È un assurdo segno di provincialismo».

In una parola, secondo il Fai, la città ha perso il suo «stile». È un punto critico, pensando al futuro. E chiedendo un impegno alla politica. Ecco le priorità, in prospettiva. Legambiente: «Immaginare una città che passi da 65 auto, come oggi, a 30 auto in media ogni cento abitanti». Italia Nostra: «Recuperare lo spirito di progettare Milano su larga scala, in un tutt’uno con l’area metropolitana». Il Fai: «Puntare a un progresso che sia in linea con le nostre radici».

Molte sono state le “città ideali” di derivazione platonica pensate, disegnate o dipinte fra ‘400 e ‘500. Basti pensare alle tre tavole, tutte urbinati, la più bella delle quali esposta in Palazzo Ducale, volta a volta attribuita a Laurana, a Francesco di Giorgio, o all’Alberti (con un pensiero a Piero). Poche invece quelle realizzate, fra cui spicca la gonzaghesca città-Stato di Sabbioneta (Mantova), assieme allo stesso “palazzo in forma di città” di Urbino, a Palmanova, a Pienza (Siena) “firmata” dal Rossellino, alla Ferrara rinascimentale, alla piazza di Vigevano.

Patrimonio conservato. Come lo sono, per lo più, migliaia di centri storici murati di origine remota. Non più offesi direttamente dagli anni del fascismo o del dopoguerra. Appena fuori le mura però, li stringe d’assedio un’edilizia brutta e volgare (legale o abusiva che sia) che sconcia il paesaggio circostante. Vogliamo vivere anche di turismo culturale e ci diamo la zappa sui piedi distruggendone le premesse, la “materia prima”. Un Paese di cretini.

Appena fuori le mura della metafisica, intatta Sabbioneta si vuole ora ampliare una fabbrica per la lavorazione del legno che, secondo gli abitanti, inquina pesantemente l’aria oltre che la vista della mirabile “città ideale”. Prima favorevole, ora perplessa la giunta Pdl. Contrario un comitato di cittadini che, denunciando i pericoli del doppio inquinamento, suggerisce saggiamente di spostare tutto in un’altra area della stessa società. Se fossimo in un Paese davvero “europeo”, il governo regionale avrebbe già orientato l’ampliamento in modo da rispettare Sabbioneta “patrimonio dell’Umanità” Unesco da appena un anno. Non si può essere un po’ meno ciechi?

Le ultime ordinazioni sono state spedite di recente negli Emirati Arabi e in Brasile: 48 ve­livoli M-346 prodotti da Alenia Aermacchi e una commessa di elicotteri AgustaWestland. «Abbiamo piccole e grandi imprese all’avanguardia che destano l’interesse dei più grandi compratori internazionali», osserva il governatore Roberto Formigoni. Queste imprese, ora, chiedono alla Regione un cambio di passo: il riconoscimento normativo di distretto tecnologico aerospaziale. Un progetto sostenuto dal Pirellone. Il presidente Roberto Formigoni ha incontrato il ministro alle Attività produttive, Claudio Scajola, e sollecitato il governo. Obiettivo: mettere in «rete» imprese, centri di ricerca, Politecnico e università di Castellanza e dell’Insubria, investire su figure specializzate negli atenei ed «evitare la dispersione» dei fondi pubblici. Un distretto Milano-Varese con al centro Malpensa: nel 2010 partiranno i corsi del nuovo polo per la formazione dedicato al settore aeronautico, tra i Terminal 1 e 2. Così Formigoni: «La sfida del domani si vince su innovazione e formazione. Malpensa rinascerà anche come hub della conoscenza».

Il sistema aerospaziale lombardo conta 130 imprese, oltre 12 mila addetti e 180 brevetti depositati negli ultimi anni. Il 2008 s’è chiuso con un aumento del fatturato complessivo del 25 per cento rispetto al triennio precedente e l’export copre il 35 per cento del commercio internazionale di settore. La crisi c’è, ma qui si sente meno che altrove. Il Pirellone punta sull’industria aerospaziale e sulle nuove reti di traffico leggero (elicotteri). Ha stretto accordi con Paesi stranieri, firmato progetti di collaborazione e stanziato di recente un bando da 20 milioni di euro. Il distretto, per dirla con Formigoni, «è un valore aggiunto, che può affiancare il coordinamento con Campania, Lazio e Piemonte e ci consente di usare anche i fondi dell’Ue».

Il nodo è Malpensa. L’aeroporto, scaricato da Alitalia, fa volare 18 milioni di passeggeri l’anno ed è base della nuova Lufthansa Italia. «Oltre alla lotta dura per riportare l’aeroporto oltre gli splendori d’un tempo, e ce la faremo, diamo vita al polo della formazione e sfruttiamo la presenza nell’area di imprese aeronautiche e aerospaziali », sottolinea il governatore. Non solo: il distretto dovrà far decollare anche «i mezzi di trasporto di domani». Come l’elicottero supertecnologico, il convertiplano Agusta che vola come un aereo ma si alza e atterra in verticale. «Utilizzeremo sempre di più l’elicottero», anticipa Formigoni: «Può rispondere alle esigenze di trasporto velocissimo, da punto a punto, e alle richieste di uomini d’affari, viaggiatori d’alto livello».

Problema: gli eliporti non ci sono. Vanno costruiti. La Regione si sta confrontando con i produttori sulla mappa delle localizzazioni. Avrà una elisuperficie il tetto del Pirellone bis e si sta discutendo di una struttura sulla Stazione Centrale. Il numero uno di Agusta, Giuseppe Orsi, indica poi il centro congressi al Portello, l’area Fiera-Expo, le stazioni dell’Alta velocità: «Si può agevolare la mobilità del Paese con costi modesti, supportati dai privati. L’elicottero sarà sempre più un mezzo di trasporto comune, non solo di élite». In quindici minuti copre la distanza da Linate a Malpensa. «E costa meno di un taxi».

La voragine è lì, nascosta da montagne di terra: un cratere largo cento metri, lungo novanta e profondo quindici da cui emergono i camion che risalgono i tornanti come in una cava. Ti accorgi così che, al centro dei 255mila metri dove un tempo sorgevano i padiglioni della Fiera, sta nascendo quello che diventerà il grattacielo più alto d´Italia. Non hanno mai smesso di lavorare, gli operai che stanno costruendo Citylife: ora sono una cinquantina ma il numero salirà mano a mano che il progetto prenderà corpo. Anche nella settimana di Ferragosto, con il termometro di piazza Giulio Cesare che, alle tre del pomeriggio, segna 37 gradi. I rumori delle ruspe arrivano attutiti anche nel silenzio di via Spinola, una distesa di finestre sbarrate. Il quartiere che teme le ombre delle tre torri e che ha cercato di fermare il piano con proteste e ricorsi è ancora in vacanza. Eppure, oltre le palizzate alte otto metri che circondano il cantiere, il gigante progettato da Isozaki si sta preparando alla scalata: nel 2013 dominerà Milano da quota 222 metri. Dopo le demolizioni sono cominciati gli scavi preparatori e adesso tutto è pronto per la prima gettata di cemento.

Per vedere il cantiere di Citylife bisogna salire in alto. Ma anche così è impossibile scorgerlo fino in fondo, il cratere del grattacielo. Troppo profondo, troppo lontano e nascosto dalle montagne di terra di riporto. Da qui sorgerà la prima torre, quella più alta e che ha bisogno di un maggior tempo per venire su. Secondo il programma sarà terminata nel 2013. Gli scavi stanno preparando l´area anche per l´arrivo della fermata "Tre Torri" della metropolitana 5, al centro dei grattacieli, e di una "piazza" commerciale sotterranea. Lì accanto, sotto l´enorme gru che si erge al centro dell´area, spuntano, minuscoli, i caschi colorati degli operai e le ruspe rosse. Anche loro stanno lavorando sotto il livello del suolo, alle fondamenta dei primi edifici che verranno consegnati tra la fine del 2011 e l´inizio del 2012. In una distesa color sabbia, le uniche macchie grigie di cemento sono il segno concreto che lì stanno cominciando a prendere realmente forma le residenze disegnate da Zaha Hadid: sette palazzi che saliranno fino a 12 piani e che si affacceranno su via Senofonte. È da queste "case d´autore" che è partito non solo il piano di Citylife, ma anche la campagna vendite che vanta già prenotazioni per 60 milioni di euro.

La tabella di marcia è serrata. E anche in via Spinola sono visibili i segni dell´avanzamento dei lavori. Qui, sotto le finestre dell´hotel che fino a poco tempo fa doveva soltanto aspettare il ritmo cadenzato delle Fiere per riempirsi, è già stato scavato un altro buco. È l´inizio di un altro pezzo di cantiere che, presto, inizierà a crescere in altezza. Su questo lato Daniel Libeskind ha firmato il progetto di 380 appartamenti che verranno completati nel 2012: in media costeranno 8.500 euro al metro quadro con punte fino a 12mila per gli attici e saranno messi in vendita a partire da settembre.

E mentre gli operai hanno già iniziato a costruire sul lato più vicino a piazza Giulio Cesare, ci sono altre macerie da raccogliere. Basta percorrere il recinto del cantiere lungo viale Berengario e arrivare fino alla Porta Eginardo: ai confini di Citylife in questi giorni c´è un movimento intenso. Altri operai stanno infatti abbattendo le ultime palazzine destinate a scomparire per fare spazio al futuro Centro congressi della Fiera: con potenti getti d´acqua si cerca di non sollevare nuvole di polvere. Sembra una danza: la gru che sventra pareti e avanza all´interno di scheletri di ferro, i camion che si avvicinano in retromarcia per raccogliere i detriti e portarli lontano, uscendo da viale Duilio. Sotto gli occhi dei rari passanti che si fermano a guardare lo strano spettacolo d´agosto.

E’ un incanto la costiera amalfitana. Il clima assolato e colorato, intenso e denso. Natura e cultura travolgono bruscamente la quotidianità di chi viene da fuori. Uno spettacolo diffuso di colori, in una cura minuta di spazi, giardini, piccole case e alberghi di tradizione. L’atmosfera è rarefatta, ma sempre inclusiva. Ospitalità e disponibilità, nel culto del mare e del sole. C’è sempre una soluzione possibile, per tutto. Limoni, maioliche colorate, calce bianca sulle case con i tetti bombati, vigneti, terrazze e speroni sul mare. Il continuo camminare, lo scendere e salire nei piccoli centri, nei vicoli, nelle piazzette, con gli odori di natura e di cucina che si fondono dappertutto, veri e propri aperitivi “low cost” che stuzzicano di continuo l’appetito.

Ravello vigila dall’alto, al centro di questo panorama unico. Uno straordinario ambiente, in un clima temperato dall’aria fresca sotto le cime dei Lattari posti a cornice della Costiera. Ravello si affaccia da due lati, da una parte sulla gola che condivide con Scala fino al mare di Atrani, dall’altra sulla costiera di Maiori e Minori, in un blu totalizzante. Dalla piazza principale si arriva con un piccolo tunnel sul fianco che si affaccia sulla costiera verso Maiori, dove c’è una strada panoramica con un muretto basso e grigio a dorso d’asino. E’ via Giovanni Boccaccio e ci sono frotte di turisti da tutto il mondo. Si fanno le foto con quello sfondo unico alle spalle. Anche se sono le 12,30, nell’assolatissimo e caldo ferragosto. Il clima, l’atmosfera sono intensi. Tutti parlano sottovoce. Anche le poche macchine autorizzate sembrano procedere in punta di gomme. Nel soffuso brusìo di sottofondo, all’improvviso una frase si percepisce netta: “Not the station!” E’ una coppia di giovani inglesi, in un gruppetto di coetanei che si fanno le foto. Il ragazzo implora un amico di non includere nella foto ricordo qualcosa che sta lì sotto, nello sfondo. Basta avvicinarsi al muretto per capire cos’è che il turista non vuole nella foto: un enorme blocco di cemento bianco, sproporzionato rispetto alle costruzioni di contorno. Sembra la stazione ferroviaria di un treno che non c’è. E’ l’Auditorium di Ravello.

Tornano alla memoria le polemiche di 5-6 anni fa contro un’opera voluta dall’allora sindaco margheritino Secondo Amalfitano, con il sostegno militante del sociologo De Masi e di tutto il solito, indistinto panorama politico, da Brunetta a Realacci, da Bertinotti a Bassolino, con Augias, Cacciari e Cassano nelle retrovie. E tutti i partiti schierati a favore, senza eccezioni di rilievo. Come anche le associazioni ambientaliste: a partire dalla Legambiente, apertamente favorevole, con il Wwf silenziosamente complice. Era il periodo della critica diffusa all’ambientalismo del no, in piena subalternità alle ragioni del fare, del costruire. Tutti dentro un’armata potente, trasversale, francamente sproporzionata contro poche voci contrarie, uniche schierate accanto all’urbanista Vezio De Lucia: Italia Nostra, Vittorio Emiliani, Eddyburg, sito cult degli urbanisti. Quattro, essenziali, le obiezioni dei dissidenti: innanzitutto, l’opera era in contrasto con il piano urbanistico territoriale e mancava la preliminare variante del Consiglio regionale; eppoi, il prevedibile choc paesaggistico che sarebbe stato prodotto dall’impatto dell’Auditorium su quel contesto unico al mondo; inoltre, la stessa Regione Campania considerava Ravello turisticamente “satura” e quindi da non “sviluppare” ulteriormente. Infine, ma non ultima, l’esigenza di destinare le ingenti risorse economiche a situazioni campane assai più arretrate e quindi più meritevoli di attenzione, proprio sul tema della riqualificazione culturale (Scampìa? Bagnoli? L’agro nocerino?).

Il tema posto dai proponenti e dai loro sostenitori si fondava invece tutto sul potenziamento del turismo a Ravello, con la musica colta in grado di attrarre turisti anche fuori stagione. Si sono susseguiti ricorsi al Tar (che ha dato ragione a Italia Nostra) e al Consiglio di Stato (che ha invece giudicato irregolare il ricorso di Italia Nostra). E così l’armata della politica senza distinzione ha vinto, l’Auditorium è quasi completato. E il problema ora è chi lo deve gestire, se il Comune di Ravello o la Fondazione Ravello presieduta da De Masi, con Realacci e Brunetta ancor oggi assieme nel board di indirizzo strategico. L’ex sindaco Amalfitano, nel frattempo sostituito alla guida del Comune di Ravello, è passato al Pdl e collabora a Roma con il ministro della funzione pubblica Brunetta.

Ora l’opera c’è e fa impressione: non si capisce proprio che c’entra in quello straordinario contesto paesaggistico. Continua a non cogliersene il senso.

Per chi vuole invogliare frotte di turisti ad ascoltare musica tutto l’anno a Ravello resta il problema di come semplificarne i collegamenti, visto che d’estate è tutto molto complicato mentre d’inverno sono richieste addirittura le catene per passare il Valico di Chiunzi sui monti Lattari, per arrivare dall’autostrada che attraversa l’agro sarnese-nocerino. Ma c’è già una proposta, grottesca e agghiacciante, che si affaccia periodicamente: collegare direttamente la Costiera Amalfitana all’autostrada mediante un tunnel sotto i Lattari. La solita risposta, “per valorizzare il cemento ci vuole necessariamente altro cemento”, come è capitato proprio nell’agro sarnese-nocerino un tempo terra di coltivazioni e di produzioni ricchissime e oggi letteralmente coperto da cementificazioni e urbanizzazioni senza qualità.

Qui l'appello dei 165 intellettuali che difesero l'illeggittimo e devastante progetto, con tutte le firme. E qui una intera cartella di eddyburg dedicata all'evento e alla polemica.

PALAIA. Le mura esterne hanno un colore indistinto, alcune sono scrostate o cadenti; i tetti in più punti mostrano cedimenti. Lo scenario è vuoto, nel corridoio selciato che attraversa il borgo di Villa Saletta. Una cittadella inanimata in realtà, che si staglia in alto sulla collina lungo la strada palaiese. Risale al mille il suo primo nucleo, fatto costruire dal vescovo di Lucca Guido. Cresciuta nel medioevo (insieme alla tenuta), più tardi parte delle costruzioni borgo nacque per volontà dei Medici, che ne furono proprietari nel milleseicento. Poi la cittadella passò ai Riccardi e da questi alla famiglia Niccolai Gamba Castelli. Il resto è storia recente, che ha visto la villa e la tenuta passare da una società inglese (già proprietaria di una catena di alberghi) a un’altra, che ha diviso il patrimonio in tre società: Fattoria Villa Saletta, Frantoio Villa Saletta, Hotel Borgo Villa Saletta. Un progetto che inizia sette anni fa e che traghetterà (per il 2011) il borgo millenario verso scenari internazionali: lo riporterà a nuova vita, spiega l’amministratore delegato delle tre società, il 43enne newyorkese Douglas Platt, conservandone la struttura ma lanciandola nel mondo del super lusso. L’investimento previsto è di oltre duecento milioni di euro. E le aspettative di nuova occupazione sono stimate in cinquecento posti di lavoro: 250 diretti (come camerieri, inservienti, cuochi, receptionist nell’albergo) e 250 indiretti, soprattutto nell’ambito del catering. L’imperativo: conoscere la lingua inglese.

Ma se quello che si prospetta come epilogo per il borgo di Villa Saletta è improntato nelle migliori direzioni, dalla fine degli anni Novanta il complesso millenario ha vissuto nel bel mezzo di un’altalena di progetti mancati e iter autorizzativi del Comune mai giunti concretamente in porto. «La proprietà precedente a quella attuale - spiegano il sindaco di Palaia Alberto Falchi e l’ingegner Borsacchi dell’ufficio tecnico comunale - aveva presentato un progetto per fare della villa un complesso turistico ricettivo con centro benessere, campi da golf. Ma i pareri favorevoli all’iter autorizzativo che il Comune aveva emesso sono rimasti lettera morta. Quella società non ha mai chiesto concessioni». E il borgo è rimasto lì, in decadenza.

Come spesso accade, la svolta è frutto del caso. Un giorno di sette anni fa Douglas Platt, manager del settore immobiliare nato e cresciuto nella Grande Mela, passa da Villa Saletta con la moglie Barbara Bertini, origini pontaegolesi ma residente a Firenze, dove la coppia si era stabilita e vive tuttora (in attesa di trasferirsi a Venzano di Volterra, dove i Platt, insieme ad altri soci, hanno acquistato l’ex monastero agostiniano nel quale gli australiani Lindsay Megarrity e Donald Leevers avevano realizzato un agriturismo e un giardino delle essenze fra i più famosi al mondo).

Rimangono stregati dal fascino del borgo e Platt prende subito contatti con la proprietà. Forte di quattro trust di imprese britanniche disposte a investire, conclude in breve tempo l’affare, e Villa Saletta, con i suoi 600 ettari di tenuta (di cui venti coltivati a vite e con un’oliveta di 2.500 piante) e le sue 25 case coloniche, passa di mano.

Dal 2000 comincia la gestazione del maxi progetto, che ora, afferma il manager, è in dirittura d’arrivo. Sono in corso le consultazioni con la Sovrintendenza e presto verranno presentate le richieste di concessioni edilizie. Intanto è stato ristrutturato un palazzo, dove hanno sede gli uffici, e da pochi giorni è partito il restauro di una parte di tetti.

«Dopo tanti anni il progetto sta partendo - dice infatti Platt -. Il borgo sarà convertito in un hotel a cinque stelle, del calibro di Danieli a Venezia o di quelli della catena Four Seasons. Avrà 130 camere di sessanta metri quadrati ciascuna, e 26 suites, cinque ristoranti, pizzeria, pub, bar, centro benessere e spazi per conferenze. Tutti i locali e le strutture avranno accessori di alta tecnologia. Nel 2008 inizieranno i lavori. Sarà l’albergo più bello di tutta la Toscana e tra i più belli d’Europa. Solo per l’albergo abbiamo un budget di cento milioni di euro, mentre l’investimento complessivo supera i duecento».

Cibo e prodotti naturali saranno il filo rosso del complesso turistico ricettivo, pensato per una clientela high level (di alto livello), soprattutto britannica e americana. Al suo interno nascerà una cooking school, scuola di cucina che utilizzerà i prodotti dei campi della tenuta; una wine academy, accademia del vino che farà perno su quelli prodotti nel vigneto di casa e anche i trattamenti del centro benessere avranno come base ingredienti naturali.

Sarà bene che gli abitanti della zona comincino a studiare l’inglese: l’intenzione della proprietà, spiega Platt, è di assumere soprattutto persone del posto per l’albergo e le altre attività che saranno inaugurate a gennaio 2011.

Un altro caso recente in Tuscany, a Castelfafi.

L'idea è di quelle capaci di far venire l'acquolina in bocca a tutti, un vero e proprio bocconcino bipartisan. «Un'occasione unica, che non bisogna lasciarsi sfuggire», la definisce ad esempio l'ex sindaco di Crotone, oggi consigliere di An alla regione Calabria Pasquale Senatore, per il quale «dai tempi dell'industrializzazione degli anni Venti non si era mai vista nella zona, e credo nel resto del Mezzogiorno, un investimento di queste dimensioni». Una convinzione sostenuta, dall'altra sponda politica, da Dorina Bianchi, responsabile per il Terzo settore della Margherita, per la quale invece il progetto «conferma ancora una volta l'impegno del centrosinistra calabrese a favore dello sviluppo e del lavoro». L'idea in questione si chiama «Europaradiso», cittadella del turismo e del tempo libero da realizzare su 1.200 ettari di terreno a nord di Crotone, quasi tutti considerati vero e proprio paradiso naturale dall'Unione europea e per questo classificati come Sito di interesse comunitario e protetti da un apposito decreto presidenziale. La cittadella dovrebbe essere costruita dalla multinazionale israeliana Madpit group di proprietà di David Appel, un imprenditore finito nei guai in patria con l'accusa, poi decaduta, di aver corrotto il premier Ariel Sharon quando era ministro degli Esteri e suo figlio Ghilad.

A Crotone il progetto prevede la costruzione, a 300 metri dalla costa del mare e non distante dalla foce del fiume Neto di alberghi di lusso per un totale di 10 mila posti letto, campi da golf, una metropolitana leggera per i collegamenti con la città e l'aeroporto, uno stadio da 12 mila posti («dove potrebbe giocare la squadra del Crotone») una multisala cinematografica e un villaggio di divertimenti (si sarebbero già detti interessati la Warner Bross e la Disney). Più che un sogno, l'impresa ha tutta l'aria di una megaspeculazione edilizia del valore di 5 miliardi di euro, in cambio della quale vengono promessi dai 4 ai 15 mila posti di lavoro (inizialmente erano molti di più) e garantita la gioia di migliaia di turisti al giorno, trasportati in Calabria da 50-60 aerei in arrivo quotidianamente allo scalo Sant'Anna di Isola Capo Rizzuto. Un progetto, quello di Europaradiso, che non dispiacerebbe al presidente della regione Agazio Loiero, ma che fa tremare le associazioni ambientaliste che ne hanno chiesto la sospensione al ministero dell'Ambiente. «L'impatto ambientale di una simile cittadella turistica è devastante per la biodiversità e per i già delicati equilibri dell'ecosistema della Foce del Neto», denunciano Italia nostra, Enpa, Lipu, Wwf, Altura, Cnp, Aiig. «Considerato lo stato di degrado della costa ionica calabrese, una simile opera contribuirebbe unicamente alla cementificazione indiscriminata di uno degli ultimi tratti ancora integri».

A sponsorizzare l'idea della cittadella del turismo è soprattutto l'ex sindaco della città Pasquale Senatore, oggi consigliere regionale di An. Un tipo tosto, Senatore. Il 13 giugno scorso per protestare contro il presidente del consiglio regionale, ha fatto come Nikita Krusciov: si è sfilato una scarpa dal piede e ha cominciato a sbatterla contro lo scranno. Con la stessa veemenza durante le ultime elezioni regionali Senatore ha sbandierato i vantaggi che deriverebbero dalla costruzione di Europaradiso insieme alle migliaia di presunti posti di lavoro, riuscendo così a farsi eleggere. Ma alla base del progetto - e vera garanzia di successo - ci sarebbe un'idea definita rivoluzionaria dagli ideatori di Europaradiso: offrire alle decine di migliaia di turisti in arrivo volo, soggiorno e prima colazione gratuiti, in modo da permettergli di spendere tutti i soldi nei servizi offerti dalla cittadella: ristoranti, campi da golf, beauty farm, visite guidate e quant'altro.

Una vera e propria pacchia - si fa per dire - per un possibile bacino d'utenza valutato in milioni di turisti provenienti ogni anno non solo dall'Europa ma anche da Nord Africa e Medio oriente. «In Europa non c'è un posto che può risolvere il problema del tempo libero», ha spiegato David Appel, che durante la presentazione a Crotone del progetto ha avuto la possibilità di spiegare la sua filosofia imprenditoriale: «Le settimane lavorative sono scese da sette giorni a cinque, e forse scenderanno a quattro. L'idea è quella di dare la possibilità alle persone di arrivare qui e di soggiornare quasi gratis, in modo che spendano i loro soldi nelle attrezzature del villaggio».

Ciò di cui Appel sembra non tenere conto in alcun modo, è il fatto che Europaradiso rischierebbe di distruggere in maniera irreparabile una delle are protette più importanti della Calabria. L'oasi di protezione della Foce del Neto fa infatti parte delle zone sottoposte a vincoli particolari con cui vengono protette aree ritenute particolarmente pregiate dal punto ambientale o archeologico. «Aree in cui oggi vivono specie animali protette dalla Comunità europea, verrebbero ricoperte di cemento - denuciano le associazioni ambientaliste - Non capiamo proprio come sia possibile chiudere gli occhi davanti a uno scempio simile».

La simulazione grafica del progetto è tratta da il manifesto

Tra le molte mistificazioni della campagna elettorale, una si ripropone con particolare insistenza. E’ contenuta nello slogan della destra a proposito delle politiche di governo del territorio che avrebbero bloccato lo sviluppo economico della Sardegna. L’argomento, molto capzioso, sottintende l’equivoco alla base degli assalti al paesaggio - soprattutto costiero - che si sono ripetuti in questo mezzo secolo, con danni irreversibili e con scarsi tornaconti per le comunità locali. Turismo è fare case - è il messaggio di Berlusconi molto chiaro a riguardo -; l’obiettivo è insieme quello di saldare tutte le attese, pure quelle in contrasto, come se non ci fosse nessuna differenza tra palazzinari e pizzaioli. Occorre replicare alla cattiva informazione con dati inequivocabili a proposito della crescita della Sardegna in un momento di grave crisi economica.

Non mi soffermo sul successo che l’isola riscuote proprio per le sue scelte di tutela rigorosa dei luoghi, cosa che la premierà in futuro anche perché i turisti si sono fatti esigenti e disdegneranno - già evitano se possono - le falsificazioni dei villaggi vacanze. Ma sono i numeri qui ed ora che incoraggiano e smentiscono alla radice la descrizione dell’isola castigata dalle scelte del Piano paesaggistico. Quelli del 2007 che indicano una crescita degli occupati, pure in quadro drammatico soprattutto per il Sud del Paese; e per stare ai flussi turistici della stagione trascorsa occorre rilevare che, a fronte di un preoccupante calo in molte regioni, la Sardegna segna un incremento significativo di arrivi e presenze. Cresce soprattutto il numero di viaggiatori interessati a paesaggi naturali e culture e tradizioni locali, sempre più distanti, si prevede, dal modello alimentato dal consumo delle risorse ambientali e dal ciclo edilizio che Berlusconi vorrebbe perpetuare. Ma è un altro dato che emerge di recente a smentire la destra: a proposito del blocco dei cantieri che sarebbe provocato dai provvedimenti di questa legislatura.

Dovrebbe fare riflettere - l’indizio è di non poco conto - la crisi del comparto dell’edilizia ad Arzachena cioè in quelle zone a più intensa propensione al rischio d’impresa, per via dei valori sbalorditivi dei volumi edificati da quelle parti. La notizia clamorosa («La Nuova Sardegna» del 24 scorso) è in contraddizione con le affermazioni della destra («Soru ha impedito alla Sardegna di crescere»). Perché se su quattrocento concessioni edilizie in uscita, cento non sono state ritirate vorrà dire qualcosa. Vuol dire che la domanda di case è in calo (e Soru non c’entra proprio nulla), è in calo almeno quanto basta perché alcuni operatori decidano di non investire. Tant’è che il Comune ha pensato, molto saggiamente, di interrogarsi sul modello di sviluppo («si deve creare una mentalità differente rispetto al passato»), usando gli stessi argomenti posti alla base del del Piano paesaggistico che appunto scommette su un nuovo modo di governare il territorio basato soprattutto sulla conservazione delle risorse, sulla qualità degli interventi, sul recupero del patrimonio edilizio esistente. Segno che la propaganda non sempre funziona?

L’intervento introduttivo alla tavola rotonda conclusiva del Simposio scientifico internazionale “Roma, la città eterna in mutamento”, Università di Karlsruhe 18-20 aprile 2008

1. I processi di riconversione urbana avviati intorno agli anni ’80 al fine di ridurre la disoccupazione derivante dalla chiusura o crisi delle industrie, e portati a compimento in questi ultimi anni in termini di turismo, cultura e creatività, sono stati un prodotto di complesse strategie di marketing della città, finalizzate ad attrarre visitatori-consumatori, investimenti e flussi finanziari. In Italia i primi esempi di questa riconversione li abbiamo in città tradizionalmente industriali, Torino, Genova, Milano. Soprattutto le prime due oggi rappresentano complessivamente un esempio significativo di trasformazione e un modello di riferimento per altre città italiane, proprio perché sono riuscite a coniugare la riqualificazione urbana con il patrimonio architettonico e le imprese culturali (Bovone, Mazzette, Rovati 2005). Roma, invece, richiede un ragionamento a sé perché non ha vissuto i passaggi dal fordismo al post-fordismo e perché è una ‘classica’ città amministrativa a chiara vocazione turistica.

È in questo contesto che le città storiche italiane stanno assolvendo ad un importante ruolo attrattivo in termini di attività creative, di nuove popolazioni, di consumatori/visitatori. La bellezza (soprattutto quella ereditata dal passato) è diventata uno dei i fattori principali di questa rinnovata centralità. In altri termini, il passato non solo non è più ingombrante e residuale come lo è stato nella modernità (città industriale) ma è diventato una risorsa immediatamente spendibile in termini materiali e simbolici, in quanto elemento che rende unico e riconoscibile il paesaggio urbano.

E se la bellezza concorre al successo urbano in quanto elemento fondamentale di attrazione urbana, la città nel suo complesso è diventata una macchina multimediale che si organizza per produrre eventi e per diventare essa stessa evento (Sgroi 1997; 2001). In questa direzione si sono mosse gran parte delle città italiane, qualunque sia la dimensione e a seconda del patrimonio architettonico e culturale di cui ognuna dispone. Direzione che si alimenta di una forte competizione che tra le grandi città è finalizzata a diventare sede di importanti appuntamenti e che può trasformarsi in ‘lotta senza esclusione di colpi’ - si pensi per ultimo a ciò che Milano ha fatto per aggiudicarsi l’Expo del 2015 -, perché esporre l’immagine della città allo sguardo del mondo, significa riportare alla città concreti risultati in termini di pubblicità, di investimenti finanziari, di rivitalizzazione urbana (in poco tempo si realizzano grandi opere urbanistiche e architettoniche), di riscoperta dell’efficienza e delle capacità organizzative. Mentre la competizione tra le medie e piccole città si esprime inventando mostre e iniziative culturali locali di vario genere, per lo più collocate in palazzi di pregio riconvertiti a questo fine. L’elemento accomunante è che la bellezza come bene culturale è ormai considerata in tutti gli insediamenti urbani (ricchi e poveri, grandi e piccoli) una risorsa economica spendibile.

Ma il successo di questa formula finora è stato possibile soprattutto in quelle città dove si sono verificate almeno alcune delle seguenti condizioni: a) rigenerazione del vecchio ambiente costruito; b) miglioramento infrastrutturale; c) costruzioni di installazioni ‘simbolo’; d) cambiamento della cosiddetta landmark strategy; e) creazione di eventi sempre più nuovi; f) investimenti nel marketing territoriale e locale (place marketing), ovvero tutte quelle attività di comunicazione interne alla città e proiettate verso l’esterno. Investimenti e flussi finanziari possibili solo con un elevato grado di collaborazione tra amministrazioni pubbliche e imprese private (strategie di governance).

Alla luce di ciò, soprattutto le città storiche sono diventate la sede ‘naturale’ di attrazione per un pubblico vasto e composito, dove musei, opere di risanamento e opere costruite ex-novo, luoghi tradizionali di cultura (università, teatri e sale concerti) e nuovi luoghi di produzione culturale si mescolano ai luoghi di consumo e del divertimento, per diventare ‘la cartolina’ da esibire e vendere (Ingersoll 2004). In relazione a tutto ciò, negli ultimi anni si è diffuso un fenomeno di ‘dilatazione’ del centro, nel senso che aree sorte nella prima metà del Novecento, a ridosso dei centri e che fino a pochi anni fa erano considerate semi-periferie, tendono oggi a rappresentarsi come centro storico: un esempio significativo a Roma sono le aree attorno alle mura aureliane.

E se l’urbanistica continua ad essere assente da questi processi, l’architettura è ridiventata il collante principale di questa rivitalizzazione e costituisce il marchio (Amendola 1997) che può rendere unico il luogo e gli avvenimenti che vi si organizzano. Così, le singole opere architettoniche diventano esse stesse ragione di rivitalizzazione e di attrazione. Un esempio per tutti è la Biosfera di Renzo Piano a Genova.

2. Questo complesso processo di attrazione e competizione si accompagna al fatto che i paesi a sviluppo avanzato sono diventati paesi dal punto di vista sociale e territoriale estremamente mobili, e una delle cause principali della mobilità è il consumo, materiale e immateriale.

I due tipi di consumo non sono separabili, anzi, l’uno non può esserci senza l’altro perché il consumatore è diventato un soggetto sociale estremamente abile che, quanto più esplica grandi capacità di accesso e di selezione - è, per così dire, un soggetto blasé nel senso simmeliano del termine - tanto più accede alle risorse urbane.

In questo gioco di attrazione e di competizione gran parte delle città italiane, seppure non abbiano le caratteristiche delle città globali (Sassen 1991), hanno adottato politiche e strategie di rivitalizzazione urbana (urban regenaration), utilizzando come motore principale il nesso produzione culturale, servizi, consumo. Al centro di questo nesso va ricompreso il patrimonio architettonico, l’arte, il saper fare delle culture locali, il variegato sistema dei servizi tradizionali ed avanzati e, in modo particolare, il consumo di beni materiali e immateriali, a partire dal consumo di territorio. Grazie a tutto ciò, le città sono riuscite a produrre trasformazioni specificamente in tre tipi di aree: a) quelle centrali e con patrimonio storico-architettonico, più o meno ricco a seconda della lunga durata della singola città; b) quelle semiperiferiche e dismesse dove vi erano gli insediamenti industriali; c) i vasti territori di congiunzione tra un insediamento urbano e l’altro. E se nei primi due casi vi è stata una riconversione funzionale ed estetica che ha avuto un’immediata ricaduta economica e ha rinviato un’immagine di successo urbano (Sgroi 2001), nel terzo caso vi è stata la proliferazione di un insieme composito di periferie e che Koolhaas ha definito città generica, ovvero la città senza storia (2006). Questa apparente dualità tra centro e periferie ha a che fare direttamente con questioni controverse come ‘segni identitari’, ‘passato/presente’, ‘appartenenza territoriale’ e così via.

Vorrei però sottolineare il fatto che solo le città che hanno adottato e saputo applicare le politiche di rigenerazione hanno mantenuto il loro potere di monopolio e di ‘esclusività’ (target) e hanno trasformato in beni economici quell’insieme di caratteri che appartengono al passato e alla storia locale urbana - come esigenza rinnovata del cosiddetto ‘postmodernismo’ – e che si basa su quella che Urry ha definito “disease of nostalgia” (1990). Il tutto mescolato con tutte quelle attività che appartengono al tempo da dedicare allo svago e al consumo seguendo quelle note dinamiche, che coniugano i termini divertimento e intrattenimento (entertainment) con un insieme di attività ad essi complementari racchiusi in quattro sistemi di consumo: lo shopping, il mangiare, le attività educative nel loro significato più tradizionale e la cultura (Hannigan 1998). Dinamiche che non riguardano più soltanto le città più avanzate - come Roma e Milano -, ma che hanno contagiato tutti i territori.

Il binomio turismo/consumo lo si ritrova ormai ovunque, seppure con livelli differenziati di successo, ma tutti i territori (urbani ed extra-urbani) hanno adottato strategie attrattive simili, modificandosi nelle funzioni e nella forma giacché hanno assunto il consumo e lo svago come funzioni primarie, mentre le altre funzioni, soprattutto quelle abitative e quelle produttive nel senso materiale del termine, hanno subito un processo di periferizzazione o un valore di nicchia, a seconda dei casi.

3. Quali sono stati gli effetti più eclatanti di questi cambiamenti?

Innanzitutto, la città si è trasformata da luogo da vivere a luogo da consumare prevalentemente in senso turistico, trasformazione che ha accentuato i processi di spopolamento delle aree centrali, o città storiche, proprio perché le esigenze del mercato urbano sono nei fatti incompatibili con quelle di chi vi abita stabilmente. All’interno di questa trasformazione si possono individuare i segni di gentrificazione all’italiana e di folklorizzazione del centro (Mela 1996; Strassoldo 2003) che si affermeranno pienamente a partire dagli anni ’80 e ’90, al di fuori di qualunque programmazione urbanistica. Gentrificazione e folklorizzazione che in Italia fanno perno sulla bellezza, qui intesa nel senso estetico del termine.

In secondo luogo, il fatto che nella nostra epoca l’individuo da homo politicus sia via via diventato homo consumens (Bauman 2007), significa che i nuovi nomadi, i visitatori/consumatori, si sono appropriati della città pur essendo per definizione estranei ad essa, nel senso che il loro senso di appartenenza al luogo è provvisorio, così come è provvisorio il loro stare nel luogo. Questo determina una sorta di dissesto sociale e culturale i cui effetti sono ancora sottovalutati e poco studiati, non ultimo perché è difficile calcolare i costi della perdita dell’anima sociale di una città, o di parti di essa. In questo quadro, la bellezza è una merce al pari di qualunque altro prodotto, e perciò suscettibile di obsolescenza.

In terzo luogo, si è andato estendendo il consumo del suolo in senso urbano. Mi riferisco al fenomeno dello sprawl che riguarda il consumo del territorio e che rinvia sia al fatto che i mutamenti funzionali degli insediamenti non rispondono più a un’immagine di città compatta ed articolata per ambiti specializzati e rispondenti a un ordine razional-funzionalista, sia al fatto che lo sprawl è causa ed effetto della crescita della mobilità privata e individuale. Ossia, non si sarebbe potuto creare sprawl se non fosse stato portato a compimento il duplice processo di acquisizione della mobilità come una delle funzioni centrali e di dilatazione sociale del consumo tout court. Nel caso italiano lo sprawl è anche il prodotto di una mai dichiarata forma di deregulation, ovvero, le regole del mutamento sono state in buona misura dettate dalle forze economiche e dai nuovi protagonisti sociali di questi spazi urbani (Salzano 2006).

In quarto luogo, si è stabilito un difficile rapporto tra consumo e cittadinanza, perché acquisire come prevalenti le regole del consumo, significa avere come interlocutori individui che hanno una forte capacità di rappresentanza degli interessi di cui sono direttamente o indirettamente portatori; mentre, adottare gli strumenti di governo pubblico significa avere come interlocutori i cittadini, portatori di diritti e di doveri che prescindono dalle loro capacità individuali economiche e di rappresentanza politica.

4. In riferimento a questo processo generale Roma si colloca in modo originale, anzitutto, perché non ha dovuto subire la crisi cosiddetta post-fordista e perché i primi segni di folklorizzazione della bellezza vi sono già intorno alla seconda metà degli anni ’70 con la rapida affermazione di quella che venne definita ‘politica dell’effimero’, inaugurata a Roma dall’allora assessore Nicolini nel tentativo di ‘far incontrare’ i giovani delle borgate con le bellezze del centro e utilizzando il divertimento come medium culturale al fine di rendere il centro una zona sicura; inoltre, perché le ragioni dell’attrazione e del consumo sono legate alla sua storia certamente unica nel mondo (e non solo perché è capitale di due Stati); infine, perché l’architettura contemporanea ha un ruolo attrattivo - se si vuole - marginale perché le architetture del passato continuano ad essere la ragione centrale di attrazione: l’esempio della teca di Richard Meier per l’ARA PACIS, è significativo, giacché, nonostante tutte le polemiche che ha sollevato quel tipo di opera, i visitatori vi si recano per vedere il contenuto (l’Ara Pacis), più che il contenitore seppur ideato da un architetto-star.

Nonostante ci siano profonde differenze tra Roma e le altre città italiane, gli effetti sono abbastanza simili in termini di cambiamento delle funzioni, di spopolamento della città storica, di mobilità ed estensione urbana, di consumo, a partire da quello del suolo. Il PRG recentemente approvato non solo non coglie questi nodi critici, ma sembra volerne accrescere le criticità (in merito rinvio al ricco dibattito presente nel sito di Edoardo Salzano eddyburg.it) (De Lucia 2003; AA:VV. 2007). Il che significa che mobilità, spopolamento e sprawl diventeranno per Roma fattore emergenziale e non di governo ordinario, ma su questo entrerò nel merito nella tavola rotonda.

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La sera di domenica 2 ottobre parecchie migliaia di persone si sono affollate alla Marina di Siracusa davanti al Tir giallo di Prodi per sentire dalla sua voce qual è il programma dell’Unione, ovvero anche – l’impressione era palpabile – per manifestare la propria protesta verso quanto sta accadendo in questi giorni.

Prodi ha detto cose in gran parte note, lo ha fatto con chiarezza e da questo punto di vista la manifestazione è riuscita. In me ed altri amici è rimasta però una forte delusione riguardo a quel che è stato detto, o non detto, su due questioni centrali per la Sicilia.

La prima è la mafia. Il professore ne ha parlato di sfuggita, a proposito degli ostacoli che l’illegalità diffusa nel Sud costituirebbe… per gli investitori cinesi. In una città fino ad ieri immune dal flagello e che proprio adesso sta cadendo nelle mani del racket, dove quasi ogni notte brucia un negozio o un’automobile, m’è parso davvero poco. Al diavolo i cinesi. Mi sarei atteso piuttosto una presa d’atto della strategia della mafia “sommersa” (le analisi ormai non mancano) e la proposizione di una serie d’interventi rigorosi “a monte”, per esempio in materia di controllo sul riciclaggio dei capitali, di appalti e subappalti, di confisca dei beni. Come ci hanno insegnato Falcone e La Torre – i quali hanno pagato con la vita proprio per questo – la pista da seguire è quella dei soldi, ed è qui che la mafia dev’essere combattuta. A Siracusa specialmente, poi, era il caso di denunciare l’inerzia colpevole dell’attuale commissione antimafia, presieduta da un senatore di Forza Italia nostro concittadino.

Il secondo motivo di delusione riguarda il turismo. Su questo tema, ormai cruciale, Prodi non ha saputo far altro che lamentare la mancanza d’infrastrutture e di coordinamento fra le regioni. In positivo però, il suo modello dichiarato sono state la Tunisia e Malta e le infrastrutture auspicate villaggi turistici e ahimè – proprio così! – campi da golf. Ritengo che simili cadute (almeno dal mio punto di vista) possano essere fatte risalire per una parte a mancanza d’informazione – rimediabile – e per il resto invece all’influenza di un’ideologia “sviluppista”, di cui evidentemente Prodi è in qualche modo partecipe, e che, all’interno del centrosinistra bisognerebbe contrastare con forza.

Mancanza d’informazione. Non è vero, come ha detto Prodi alla folla, che il centrodestra “non ha fatto niente” per il Mezzogiorno. Qualcosa ha fatto e fra le poche, perniciose, misure adottate ci sono quelle promosse dall’attuale ministro per la “coesione territoriale” Miccichè, con le quali sono stati creati giganteschi “poli turistici” (villaggi e campi da golf) in Sicilia, in Basilicata e altrove. Vediamo qualche esempio.

A Sciacca un complesso di 500 posti letto con due green, a ridosso di un sito comunitario, 58% di contributi pubblici, imprenditore inglese (il mediatore dell’affare è stato indicato nel noto Zappia, quello arrestato per le infiltrazioni mafiose nell’affare del Ponte di Messina), su terreni in parte proprietà della moglie e del suocero di Miccichè.

A Regalbuto (Enna) lo stesso Miccichè ha autorizzato la costruzione di un parco tematico con annessi campi da golf e alberghi per 2600 posti letto, sempre all’interno di un sito comunitario. Il parco è grande all’incirca cinque volte la Disneyland di Parigi ed è, a detta degli esperti in materia, destinato a sicuro fallimento sebbene coperto con fondi pubblici al 53% (o forse proprio per questo). La legge 488 per altro (fondi nazionali, tabelle di competenza regionale), nel bando 2003 ora in via di attuazione, ha privilegiato in Sicilia proprio le strutture dotate di campi da golf, e queste adesso spuntano come funghi un po’ dovunque, monopolizzando i sussidî (la presenza dei campi, infatti, fa scattare altri indicatori delle tabelle, legati all’estensione dei progetti). Per i mafiosi festa grande: la legge, strutturalmente, pare fatta su misura per loro (puro movimento terra e speculazione sulle aree, con le spese pagate). Non sono illazioni, sono loro stessi a farcelo sapere illustrando le loro iniziative: si vedano per esempio le straordinarie intercettazioni ambientali del boss di Brancaccio Guttadauro.

Altri poli turistici sono stati proposti pochi giorni fa, in un disegno di legge regionale, addirittura all’interno dei parchi dell’Etna, delle Madonie e dei Nebrodi, con vivo allarme dei naturalisti.

E proprio nella città in cui Prodi ha parlato, Siracusa, è stato costruito, con un contributo di sette milioni della legge 488 ed eludendo le norme sulla VIA, un villaggio Alpitour di oltre 1500 posti letto, della cui superfluità anche economica la città si sta pian piano accorgendo. Altre iniziative consimili, promosse dalla locale amministrazione di centrodestra, sono state fermate dopo dure polemiche, la cui è eco qui è ancora viva.

Non è vero perciò, in via di fatto, che il centrodestra non abbia realizzato niente. Magari.

Quanto alla parte propositiva del discorso di Prodi sul turismo, non mi pare che, per com’è stata presentata, essa si discosti granché nella sostanza dal modello ora malamente seguito. Né conta molto se si riuscirà ad evitare, di quest’ultimo, le forzature clientelari e localistiche. Nemmeno su ciò per altro c’è da giurare: l’incredibile Disneyland di Regalbuto è appoggiata coralmente anche dai sindaci e dal deputato locale del centrosinistra!

Senza dilungarmi (nel sito del resto sono già apparsi, sul tema, alcuni contributi pertinenti, per esempio quelli di Carla Ravaioli e Giorgio Todde), accenno in modo sommario ai requisiti che dovrebbero caratterizzare il nuovo modello, da contrapporre a quello affaristico-speculativo ora invalso. Dovrebbe essere sostenibile (trovate pure un’altra espressione se questa vi pare consunta), endogeno e diffuso. La sostenibilità bene intesa esclude di per sé quasi tutte le iniziative promosse dalle lobbies e in parte accettate dallo stesso Prodi: dai villaggi spalmati su quanto resta delle nostre coste per finire con i campi da golf, un insulto e un crimine in una terra povera d’acqua. Essere endogeno significa promuovere le iniziative locali, arrestando la colonizzazione delle multinazionali del turismo e il drenaggio delle risorse. Essere diffuso vuol dire tener conto, senza superarle, delle capacità di carico, ambientale e sociale, delle singole aree, e delle loro vocazioni.

Prodi – per cui malgrado tutto voterò alle primarie – porta a modello la Tunisia (che non è più, è vero, quella degli anni ‘60) [1] e Malta, la cui politica turistica si segnala per un’indubbia dinamicità “levantina”, ma che di certo sostenibile non si può definire. Ci sarebbe molto da precisare al riguardo, a cominciare dall’opportunità di accostamenti con paesi in via di sviluppo, la concorrenza con i quali, per tanti motivi, ci vedrà sempre perdenti.

Mi limito a chiedere qui: e se invece il modello a cui guardare, fondato sulla non esauribilità della crescita e delle risorse e sulla loro “monopolizzazione” virtuosa, fosse da cercare molto più vicino, per esempio nella Sardegna di Soru?

[1] Qui su eddyburg, si vedano le riflessioni e le impressioni, di prima mano, dedicate al turismo in Tunisia da Maria Pia Guermandi.

A questo punto, potrebbe diventare una rubrica nella rubrica: «Sardinians», ovvero «impressioni e preoccupazioni estive dei molti innamorati di un'isola unica». Ogni anno, infatti, succede la stessa cosa. Arrivo, deciso a non occuparmi dell'argomento. Poi accade qualcosa, e mi ritrovo le mani sulla tastiera.

So cosa vi aspettate: un commento sulla compagnia di giro a Porto Cervo, che quest'anno ha aggiunto personaggi e trame. C'è — lo sapete — l'ex-banchiere Giampiero Fiorani, diventato intimo di Lele Mora, che vuole una trasmissione TV per «difendere i consumatori dalle banche». Ottima idea. Poi chiediamo a Costantino Vitagliano di celebrare in diretta la prima messa in latino, affidiamo la Domenica Sportiva a Luciano Moggi e andiamo tutti all'estero.

Scherzi a parte: non sono queste, le cose che mettono in ansia i sardi e i sardofili d'Italia. I Costacei che affiorano intorno al Billionaire sono come le meduse: conseguenze inevitabili di un nuovo clima (sociale, morale), ed è sbagliato dargli troppa importanza. Il dramma di quest'isola è un altro: la troppa bellezza della terra e del mare, contro cui non esistono difese. Non è un complimento: è un guaio. Mai vista la Sardegna così affollata, a luglio. Ho trovato la Pelosa di Stintino assediata, Isola Rossa assaltata, Rena Bianca (Santa Teresa) travolta. Cala Battistoni (ora, più banalmente, Baia Sardinia) è un alveare. Mi scrive Lamberto Oldrizzi ( oldrizzi@interfree.it): «Sono tornato da una vacanza a Capo Coda Cavallo.

Sono rimasto colpito da quello che sembra un progressivo suicidio turistico e ambientale. La famosa Cinta, Cala Brandinchi, Lu Impostu, l'Isuledda: tutte colonizzate da migliaia di turisti».

Il lettore ha ragione, ma dimentica una cosa: è un turista anche lui, come lo sono io. La Sardegna sta pagando un amore esagerato, ma spiegabile: non c'è nulla di simile, nel Mediterraneo, e la gente se n'è accorta. Scrivo da Rena Majore, in Gallura: trent'anni fa c'erano duecento case ordinate, oggi ce ne sono duemila, stile volonteroso-approssimativo.

È così dovunque, e l'assalto sarebbe già alla battigia, se non fosse per il «decreto salva-coste». «Da Palau a Orosei fin giù a Costa Rei — continua Olbrizzi — distese di villette costruite/ vendute sulle pendici delle colline o nascoste nel verde; gru e cantieri per centinaia di abitazioni; cartelloni che annunciano nuovi villaggi e residenze estive». Un'altra lettrice, Roberta Nanni ( rbnanni@yahoo.com), scrive da Costa Paradiso, su al nord: «Rocce rosse con forme e tonalità stupefacenti, immerse nel verde, affacciate sul mare più azzurro del mondo. Finora s'era costruito con un minimo di criterio; adesso ogni giorno un cantiere fa saltare rocce e vegetazione per creare alveari di cubicoli uno sull'altro. Che faccio, cerco una ruspa davanti alla quale sdraiarmi?».

Potrebbe essere un'idea. Già che c'è, Roberta, chieda al ruspista o al geometra: perché — tutti insieme — stiamo distruggendo (anche) la Sardegna? Le diranno: perché è un luogo arioso, profumato e bellissimo. Chi viene, ritorna. Chi non è ancora arrivato, arriverà. Alla domanda, ovviamente, segue l'offerta. Volete voli, navi, pizzerie, supermercati, locali, microappartamenti? Eccoli: basta pagare.

È la Legge Naturale del Turismo, quella contro cui il povero Soru sta lottando invano. La LNT prevede infatti che i bei posti vengano scoperti da pochi (1), si sviluppino grazie all'arrivo di alcuni (2), vengano lodati da molti (3) e siano soffocati dalla calata di moltissimi (4). A quel punto i ricchi si barricano, i pochi scappano, e il gioco ricomincia.

Il problema è che i bei posti stanno esaurendosi. Un'altra Sardegna, per esempio, non c'è.

L´Egitto vuole salvare i suoi tesori dal turismo di massa, anche a costo di vietare l´accesso ai siti più visitati. «Dobbiamo dimezzare il numero dei visitatori. Dagli attuali 8-10 milioni all´anno bisogna arrivare a 4-5 milioni», annuncia dal Cairo Zahi Hawass, l´archeologo a capo del Consiglio supremo per le antichità egiziane. Tremila anni di storia vacillano infatti sotto al peso di 10 milioni di turisti. Se necessario, dice Hawass, non si deve esitare a sbarrare i siti più fragili e imporre biglietti-capestro all´intera area di Luxor, come già avviene per l´interno delle piramidi di Giza, le tombe del faraone Tutankhamon e della regina Nefertari.

Drastiche le misure annunciate da Hawass per il futuro. Presto la maggioranza delle tombe di Luxor e dintorni potranno essere chiuse per salvarle dagli effetti del turismo mordi e fuggi: «Centinaia di visitatori ogni giorno, il fiato, il sudore, per non parlare di chi tocca tutto o usa il flash sfuggendo alla sorveglianza. Tutto questo sta facendo sparire le pitture, la cui brillantezza e definizione si perdono a vista d´occhio». La soluzione secondo Hawass - ma non si conosce ancora il parere del ministro del turismo - è puntare ad avere in Egitto la metà dei visitatori, ma disposti a pagare di più. Tutti gli altri, ha annunciato l´archeologo egiziano, potranno godere delle meraviglie del regno dei faraoni tramite una ricostruzione virtuale. Pitture a grandezza naturale e un sistema di videoriproduzione laser restituiranno fra breve l´atmosfera della tomba di Tutankhamon. Successivamente il progetto sarà esteso alle sepolture di Nefertari e Seti I.

Il patrimonio archeologico della Valle del Nilo pone al Cairo seri problemi di conservazione. Tanto che Hawass un paio di settimane fa aveva lanciato il primo allarme. «Fino a oggi il 18 per cento del nostro patrimonio archeologico è andato perso a causa della mancanza di restauri», ha dichiarato al quotidiano al Masry al Yom. «Ci siamo sempre concentrati sull´avvio di nuove campagne di scavo e sugli annunci sensazionali delle scoperte. Lasciando al proprio destino i monumenti già famosi».

Resta da vedere se le misure auspicate da Hawass verranno accettate da tutto il governo: il turismo in Egitto è la prima industria del paese, una fonte di reddito di 5 miliardi di euro, alimentata proprio dai pacchetti a basso costo e dai numerosi voli charter.

Qualche perplessità in realtà viene sollevata anche dagli esperti. Le idee di Hawass non convincono ad esempio Maria Casini, responsabile della sezione archeologica del Centro culturale italiano al Cairo. «Non credo che aumentare i prezzi dei biglietti sia la soluzione giusta. Tra l´altro il paese già si avvale del contributo di moltissimi restauratori stranieri, fra i migliori al mondo. Anche gli italiani sono presenti con decine di progetti».

Intanto, per rimediare alla sovrappopolazione delle aree di Luxor, Karnak, della Valle dei Re e di quella delle Regine, dal 2 dicembre verranno trasferite 3200 famiglie acquartierate fra i monumenti, in quella che i giornali egiziani hanno definito «la più grande migrazione organizzata dalla costruzione della Grande Diga». Gli abitanti che ora vivono tra centinaia di sepolture dell´età faraonica, saranno trasferiti a una decina di chilometri di distanza, nel villaggio di Qurna al Gadida, la "nuova Qurna".

Dalla stampa e dalla televisione si è appreso che nei primi giorni di dicembre il Ministero per lo Sviluppo economico ha sottoscritto l’accordo di programma quadro tra tutti i soggetti interessati pubblici e privati per la realizzazione del parco di divertimenti più grande d’Europa, che sorgerà su un’area di circa 300 ettari nel comune di Regalbuto (provincia di Enna) intorno al lago Pozzillo. Si tratta di un piccolo comune di circa 8000 abitante, ricadente in una delle aree più depresse della regione, a 59 chilometri da Catania e a 128 da Palermo. E di un investimento di circa 600 milioni di euro, di cui 100 dello Stato, 25 della Regione e la restante parte a carico del privato: la Società Atlantica Investimenti di Basilea. In questi giorni sta per esser firmato anche il “contratto di localizzazione”.

L’iniziativa, che è documentata su un apposito sito (www.parcotematico.com) è in marcia da alcuni anni e prevede la realizzazione di due alberghi da 2.600 posti letto, un campo da golf a 27 buche, ristoranti, discoteche, parcheggi, un centro di produzione televisiva, un eliporto, canali, porti, il rifacimento di paesaggi esotici e di pezzi di città italiane e americane.

Fra le attrazioni del parco un Etna di cemento attraversata da un treno, gondole che si muoveranno verso una finta piazza S. Marco, il Colosseo, il Campidoglio, la Torre di Pisa, piazza della Signoria, il circuito di Monza, il Palazzo dei Normanni di Palermo, il corso principale di Taormina, le Piramidi, la torre Eiffel, una città del far West, un angolo della Louisiana e un villaggio svizzero.

Il progetto gode di un consenso politico trasversale, che va dagli amministratori locali, a quelli regionali, a importanti esponenti nazionali di Forza Italia e dei DS. Soltanto gli ambientalisti hanno manifestato notevoli perplessità.

Secondo i proponenti, per rendere remunerativo un tale investimento ci vorranno 1.600.000 visitatori l’anno. Una cifra ragguardevole, e forse velleitaria, se si pensa che il parco dovrebbe essere realizzato in un’area interna della Sicilia non facilmente raggiungibile. Al di là di tutto ci si domanda se lo sviluppo di un territorio anche a fini turistici debba proporre per forza questa accozzaglia di volgarità. Da questo punto di vista non riusciamo proprio ad accorgerci della differenza tra il passato governo di centro destra e quello attuale di centro sinistra.

A propositol del parco tematico dell'Etna, su Mall anche questo articolo di Attilio Bolzoni da la Repubblica; altre notizie e particolari del progetto a questa pagina dedicata del sito parksmania

Sul modo assolutamente acritico del ministro per lo sviluppo di intendere il termine che etichetta il suo ministero avevamo già avuto altre testimonianze; quindi il finanziamento statale concesso a questo nuovo tassello del degrado del territorio in nome della “crescita” non ci meraviglia più di tanto. Benché al peggio non c’è mai fine, non vorremmo però che a Bersani si aggiungesse Rutelli, visti gli indubbi meriti culturali di un’iniziativa che mette insieme Colosseo e gondole, Torre di Pisa ed Etna, piazza della Signoria e piramidi…

Piccoli bradisismi sulla costa calabra: a destare preoccupazione, però, non sono i movimenti tellurici propriamente detti, ma piccoli movimenti sotterranei che lasciano presagire un'altra ondata di sventure per il già tartassato territorio calabrese.

Stavolta, sul banco degli imputati c'è Europaradiso, mega villaggio turistico che avrebbe dovuto sorgere sulla costa crotonese e a cui, l'anno scorso, la Regione aveva detto un no che sembrava definitivo.

La vicenda era già salita agli onori della cronaca nazionale: nel 2003, David Appel, imprenditore israeliano, aveva proposto al comune di Crotone, all'epoca guidato dal centrodestra, un progetto ambizioso, che avrebbe potuto portare alla realizzazione di 120.000 posti letto e di circa 15.000 posti di lavoro. Una manna dal cielo in una regione in cui la disoccupazione dichiarata è ai massimi livelli e che cerca faticosamente di imboccare la strada dello sviluppo turistico.

Sulla strada del magnate, la cui storia personale era quantomeno poco chiara, c'era un ostacolo che, forse, in anni passati non avrebbe destato troppa preoccupazione: gran parte del territorio della Provincia di Crotone, infatti, è stata dichiarata Zona a Protezione Speciale (ZPS), in particolar modo tutta l'area della foce del Neto, proprio lì dove Europaradiso avrebbe dovuto sorgere.

Il progetto, però, riesce a fare proseliti molto in fretta, e un folto gruppo di sostenitori, costituitosi presto in comitato, propone alla Regione la modifica della perimetrazione delle ZPS per poter avviare il progetto. Un progetto che prevede parchi tematici, alberghi, multisala, campi da golf, centri commerciali: il tutto adagiato su 140 ettari lungo la costa crotonese.

Ma per fortuna, a riprova che non tutto va male in Calabria, la Regione non modifica i perimetri delle ZPS; addirittura, in una inconsueta botta di buon senso, si asserisce che il progetto si dimostra « non coerente con le linee di indirizzo per lo sviluppo dell'industria turistico-alberghiera» e che « la presentazione di “Europaradiso” ha illustrato un progetto di un numero di posti letto pari ad oltre un terzo dell'intero patrimonio ricettivo regionale…Tale ipotesi progettuale, pertanto, non persegue la necessità di garantire l'alta qualità e la sostenibilità turistica dell'area interessata, favorendo, di converso, fenomeni di sovraffollamento» (delibera della Giunta Regionale del 5 marzo 2007).

Un no secco, dunque, che per una volta non viene motivato con cavilli o con scuse di altro genere ma attacca frontalmente il progetto, dicendo, chiaro e tondo, che non va bene. Avevamo tirato un sospiro di sollievo, pensando che ci sarebbe potuti dedicare alla contestazione di altre speculazioni e di altri disastri, quand'ecco che arrivano le elezioni e con le elezioni la prospettiva che quei politici che ieri dicevano di no vengano sostituiti domani da altri pronti a dire di si.

A complicare ulteriormente le cose, un comitato pro Europaradiso che continua combattivamente a lavorare perchè il progetto non venga abbandonato: in fondo, non tutti sono disposti a dire un secco no alla promessa di 15000 posti di lavoro.

Arriviamo così all'oggi, alla conferenza stampa tenuta solo qualche giorno fa da David Appel per dire che lui al progetto – e all'affare - non ha affatto rinunciato; non si spiega Appel come mai tante resistenze, quando « sono stato contattato da altre nazioni, ad esempio dalla Francia, dalla Spagna: volevano che realizzassi lì quello che invece ho pensato per Crotone, che rimane il posto in assoluto più adatto».

Leggiamo qualche altro passaggio della conferenza stampa dell'imprenditore. Europaradiso « è un fuoco dentro me, che mi spinge ad andare avanti e a realizzare questo progetto, quello che amo di più. Con me i più grandi imprenditori del mondo credono nella realizzazione di Europaradiso qui a Crotone». Se qualcuno gli ricorda che la relazione della Commissione Parlamentare Antimafia non è stata tenerissima nei suoi confronti, lui risponde che non capisce come « un progetto importante che darà posti di lavoro, aiutando la Calabria, possa essere avversato da alcune persone che hanno tanta cattiveria e cercano solo di far del male, questa gente è irresponsabile e non sa i danni che sta facendo». Infine, a proposito di Francesco Forgione, presidente della Commissione, dice « non capisco come il suo partito (Rifondazione Comunista, ndr) non decida di buttarlo fuori. Non è possibile che una persona che non mi conosce scriva quelle cose su di me. A noi non interessa la politica, vi dico solo che sono venuto qui a realizzare un business importante, sono venuto non solo per fare del bene alla Calabria, ma anche ovviamente per fare soldi». Viva la sincerità.

Alcuni interrogativi sono d'obbligo. Il primo di questi, almeno in una regione come la Calabria, è come mai di fronte a tante imprese taglieggiate dalla 'ndrangheta che vanno via o che chiudono i battenti, sembri così scandaloso parlare del pericolo di possibili infiltrazioni mafiose. O se è un caso che un imprenditore indagato per un'analoga operazione in Grecia e per casi di corruzione in Israele – denunciati tra l'altro dal quotidiano nazionale Haaretz – abbia deciso di venire a fare del bene proprio a Crotone, in un'area dove la strada più importante, la statale 106, è soprannominata la “strada della morte” per la sua pericolosità, dove l'impresa più nota è arrivare con il treno e dove l'aeroporto stenta a decollare.

Ma soprattutto, sarà un caso che la conferenza stampa si sia tenuta una decina di giorni prima della campagna elettorale? Domanda retorica: almeno su questo non ci possono essere accuse di disfattismo. Pasquale Senatore, ex-sindaco di Crotone, colui che diede il là ad Europaradiso, ha già detto che se la destra vince le elezioni farà di tutto per riaprire la questione: più o meno quello che Berlusconi va dicendo a proposito del Ponte sullo Stretto di Messina.

Le incognite sono troppe per poter prevedere come andrà a finire. Pur se tra luci e ombre, la Regione, almeno per il momento, è riuscita a respingere l'attacco e difficilmente ritratterà le proprie scelte. C'è, per fortuna, anche un rinnovato impegno dello Stato contro la 'ndrangheta, che, se proseguito con la stessa sistematicità degli ultimi tempi, potrebbe dare presto buoni risultati. E poi ci sono le elezioni, che dovranno ridisegnare gli equilibri di potere su scala nazionale e locale e stabilire chi dovrà pronunciarsi una volta per tutte sull'operazione.

La preoccupazione più grande, però, resta l'idea sbagliata che la gente comune, quella perbene, ha di sviluppo e di crescita. Ancora una volta essa coincide con quella del mattone e con un modello, il divertimentificio, che va bene, forse, per zone che non hanno nulla ma non certo per aree di valore paesaggistico come la costa ionica calabrese.

Quand'anche Europaradiso fosse un progetto chiaro, limpido, al sicuro dalle infiltrazioni mafiose e dalle speculazioni, sarebbe davvero questo il modello più valido per risollevare le sorti di terre in crisi? Oggi è Crotone, domani sarà qualche altro posto, con o senza 'ndrangheta, ma il problema sarà sempre lo stesso: quello di un'idea sostenibile di sviluppo e di crescita, capace di portare lavoro e benessere, sociale ed economico, senza compromettere per sempre un patrimonio che dovremo tramandare ai nostri figli. Un'idea che, più semplicemente, consideri il territorio non merce ma bene comune.

Tutte le citazioni della conferenza stampa sono state tratte dall'articolo di Massimiliano Franco, "Il magnate punta sul Comune", pubblicato su Calabria Ora il 4 aprile 2008.

Le immagini, riportate anche in un pdf scaricabile, sono tratte dal sito ufficiale del progetto, www.europaradiso.com e da quello del comitato www.comitatoeuroparadiso.com.

Su eddyburg altri due articoli su Europaradiso, qui e qui.

Meno male che c’è Roberto Formigoni, testè nominato «governatore della Lombardia a vita» dall’amico Silvio. Senza di lui, nessuno avrebbe potuto sospettare che le mafie stessero tentando di mettere le mani sui 15 miliardi di euro che stanno per piovere su Milano per la baracconata di Expo 2015. Invece, vigile come una talpa in letargo, il pio governatore ha ricevuto «segnali da più parti di tentativi molto preoccupanti di infiltrazioni mafiose nei cantieri». Probabilmente, scartando il pesce, dev’essergli capitato un foglio di giornale con uno delle migliaia di articoli usciti negli ultimi due-tre anni sugli allarmi lanciati da magistrati, analisti, forze dell’ordine. Così, vivamente «preoccupato», ha varato in men che non si dica un «Comitato per la legalità» per la «prevenzione al crimine organizzato». Sfumate le candidature dell’eroico Vittorio Mangano, prematuramente mancato all’affetto dei suoi cari, e di Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, molto devoti anche loro, si è optato alla fine per due ex giudici di chiara fama, Giuseppe Grechi e Salvatore Boemi.

Per non lasciarli soli, i due saranno affiancati da due carabinieri provenienti dal Ros e dal Sisde: il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno. In qualità, si presume, di esperti in materia: si tratta infatti degli stessi Mori e De Donno che nel 1992, subito dopo Capaci e poi anche dopo via d’Amelio, avviarono una trattativa con Vito Ciancimino e i capi di Cosa Nostra, Riina e Provenzano, che avevano appena assassinato Falcone, Borsellino e gli uomini delle scorte: la trattativa del «papello», consegnato da Riina a Ciancimino e da questo a Mori, almeno secondo le ultime rivelazioni del figlio del sindaco mafioso di Palermo. Mori, poi, è stato imputato per la mancata perquisizione del covo di Riina nel gennaio ’93 (assoluzione, ma con pesanti addebiti sul piano disciplinare) e lo è tuttora per favoreggiamento aggravato alla mafia con l’accusa di non aver arrestato Provenzano già nel 1995, quando l’ex mafioso Luigi Ilardo ne segnalò la presenza in un casolare di Mezzojuso al colonnello Michele Riccio.

Ora Mori aiuterà Formigoni a «monitorare, vigilare, studiare le procedure di controllo sugli appalti e dare consulenza alle imprese» perché stiano alla larga dalla mafia. Noi ovviamente non crediamo a una sola delle accuse che pendono sul suo capo, certamente frutto di «teoremi giudiziari» e «giustizia spettacolo», come direbbero Berlusconi e Vendola. Ma una domanda a Formigoni vorremmo porla lo stesso: non le pare che l’uomo che dimenticò di perquisire il covo di Riina, che si scordò di denunciare alla magistratura le richieste estorsive della mafia allo Stato nel famigerato papello, che pensò di combattere la mafia delle stragi trattando con chi le aveva appena realizzate e che è accusato di essersi lasciato sfuggire Provenzano, come sentinella antimafia sia un po’ sbadato?

Riguarda la Sardegna il bel servizio su L'Espresso in edicola (n.31/2009). L'inchiesta “ Sommersi dal cemento” dedica due intere pagine all'isola, segno che è avvertito il pericolo grazie al programma della Regione governata da Cappellacci. Nell'articolo di Maurizio Porcu c'è un riferimento a Costa Turchese, cioè al programma -anni Ottanta- di sviluppo edilizio a Capo Ceraso in Comune di Olbia, promosso dalla famiglia Berlusconi.

Colpisce il resoconto della vicenda svolto con l'aiuto del senatore PD Gianpiero Scanu, sindaco del capoluogo gallurese fino ai primi anni Novanta. Ed è il suo ragionamento che suscita qualche preoccupazione specie quando ricorda di avere ridimensionato il progetto dell' impresario pronto a scendere in politica.

Non è la prima volta che si certifica il “successo” nel confronto tra comuni e imprese edilizie costrette a ridimensionare le velleità palazzinare. Riconosce Scanu che la proposta dei Berlusconi era “eccessivamente impattante”; così due milioni e mezzo di metri cubi diventarono -oplà - 450mila.

In verità la prima avance di Berlusconi misurava un milione e mezzo di metri cubi (2mila posti barca, 3mila case), e si trattava del solito giochetto delle imprese di sparare numeri spropositati nel prologo. Come in tutte le trattative si partiva da 100 per accomodarsi su 20. L' epilogo sempre lo stesso. Con ossequiosa disponibilità l'impresa raccoglieva le obiezioni del Comune che a sua volta faceva il figurone di avere impedito il disastro. Più l'impresa azzardava all'inizio, più appariva la fierezza del negoziatore. Tutti ricordano in Sardegna la vicenda del Masterplan di Costa Smeralda. Debuttava con una richiesta di una decina di milioni di metri cubi via via ridimensionati negli anni. Fine alla soluzione accolta da Tom Barrack per aggiustamenti dell'esistente. Poche decine di migliaia di metri cubi per servizi, per non rompere l'equilibrio raggiunto si diceva nello staff del nuovo proprietario.

Insomma, se la prima proposta per Costa Turchese/ Olbia2 (ah, l'amore per le città nuove!) sembrava a me e ad altri amici una volgare assurda provocazione, la mediazione era comunque una roba da matti: 450mila metri cubi in riva al mare - forse un tantino più sopra - sarebbero stati una botta letale in un'area con quei caratteri. Una ventina di ettari di superfici coperte con estese urbanizzazioni strazierebbero quella speciale situazione ambientale in modo irrimediabile. Non se ne fece nulla - per fortuna. La pensata per favorire questa e altre iniziative - l'accordo di programma nella legge urbanistica- era zoppicante sul piano tecnico-giuridico più di quanto sospettassero i suoi fautori.

Poi il Ppr del 2006 ha cancellato, come è noto, ogni previsione in quell'area e in aree simili. Zero volume come doveva essere, sulla base di valutazioni svolte nell'interesse collettivo.

E' per questo che non si capisce la conclusione dell'ex sindaco. “ Evitando l'ombra della speculazione -dice- siamo arrivati ai 450mila metri cubi dell'attuale progetto... non in contrasto con il territorio circostante e con la promessa della realizzazione di un parco faunistico a spese dell'imprenditore”. Ma che vuol dire “attuale” ? Ma quale buon “attuale” progetto? Il progetto per Costa Turchese - sia chiaro - non è “attuale” neanche un pò, e servirebbe una variante molto temeraria al Ppr per resuscitarlo. Con effetto domino assicurato. Basti pensare al valore simbolico che si attribuisce a quel disegno per prevedere le conseguenze.

Vorrei allora che si dicesse a chiare lettere, in questa delicata fase, che le previsioni del Ppr non sono in discussione, almeno per chi sta da questa parte e guarda con preoccupazione ai paesi che si chiudono per alimentare ignobili periferie costiere. Non ho dubbi che il senatore Scanu - persona stimabile- sia oggi di questo avviso (e credo pure che all'epoca del suo sindacato non disponesse di adeguate valutazioni tecniche). Serve piuttosto, in questo clima, evitare i fraintendimenti. La destra è pronta a cavalcare ogni incertezza nei giudizi a sinistra, cosa che potrebbe alimentare la voglia di procedure ipersemplificate (già ben presenti del progetto di legge presentato nei giorni scorsi dalla giunta regionale sarda d'accordo con Berlusconi). Penso agli articoli 13 e 14 del cosiddetto piano casa di Cappellacci: nel caso li avessero pensati per aprire la strada a casi come Costa Turchese. Perchè credo che possiamo aspettarci di tutto.

Il progetto di Renzo Piano non si tocca. E non solo, dice Giorgio Oldrini, «per la sua qualità indiscussa e il valore internazionale». Ma anche perché, avverte, «è il frutto di un lavoro durato due anni e chiunque pensi di farne un altro deve sapere che vorrebbe dire ricominciare da capo: non credo che convenga a nessuno». Un progetto vitale, insomma, per il futuro di Sesto San Giovanni. Ed è per questo che sindaco e assessori hanno incontrato i nuovi amministratori di Risanamento. È il primo contatto dopo il crac del gruppo immobiliare, per capire quale sarà il destino delle ex Falck e di quel milione e mezzo di metri quadrati che Luigi Zunino (il socio di controllo che si è fatto da parte lasciando tutte le cariche e il cda) aveva affidato alla creatività di Piano. Oldrini adesso torna a sperare: «Ci hanno ribadito che entro il 1° settembre verrà presentato il nuovo piano industriale e che il progetto che contemplerà sarà quello di Piano». Anche se tutto rimane legato a molte incognite finanziarie.

Per colmare i vuoti delle Falck e dell’ex Marelli, ma anche la frattura con Milano, l’architetto ha disegnato una città trasparente, con case "sospese" a dodici metri d’altezza per lasciare spazio a verde, istituti universitari, incubatori di impresa, laboratori di ricerca e una parte fondamentale riservata alle energie rinnovabili. Oldrini ci crede: «Questo progetto può essere un’occasione di rilancio per tutta l’Italia». Ma comporterebbe anche un investimento non indifferente. Ancora da sciogliere, poi, il nodo dell’accordo con Fs, proprietaria di un’area confinante e della stazione che il Comune vuole sia rinnovata.

Quello con il nuovo presidente di Risanamento spa, Vincenzo Mariconda - avvocato e docente della Cattolica - e Salvatore Mancuso, un banchiere che agisce in qualità di consulente per Intesa San Paolo, per il Comune «è stato il primo incontro. Continueremo a vederci per seguire l’evolversi della situazione». I nuovi vertici avrebbero fatto intendere che si dovrà lavorare tutto il mese per presentare il piano di rilancio entro il primo settembre: una data, questa, garantita al Tribunale fallimentare che ha concesso altro tempo prima di mandare il gruppo in liquidazione, come avevano chiesto i pm che stanno indagando sui possibili risvolti penali del crac. Ciò potrebbe far tornare in discussione non tanto il progetto Piano, quanto quello finanziario che prevedeva l’affidamento delle aree Falck a un fondo immobiliare costituito dalle banche creditrici e di cui anche il Comune di Sesto avrebbe avuto una quota "simbolica" inferiore all’1%. Due dei più importanti istituti avrebbero visioni opposte: Intesa spinge per il fondo, Unicredit frena. Ma la nomina del nuovo cda e il nuovo piano industriale potrebbero rimescolare le carte.

Il Governo Berlusconi vuole realizzare il Ponte sullo Stretto, nomina commissario straordinario Pietro Ciucci, ma poi frena sulle risorse per finanziarlo. Intanto la rete No Ponte riparte e si prepara a manifestare a Messina l’8 di agosto contro il progetto e per la difesa del territorio.

Si potrebbero riassumere così le ultime novità sul progetto Ponte sullo Stretto.

Inserito “naturalmente” dal Governo nell’Allegato Infrastrutture al DPEF 2010-2012 tra le priorità, in realtà un emendamento al Decreto Legge Anticrisi approvato dal Parlamento a fine luglio tira fortemente il freno sulle risorse finanziarie da assegnare al progetto. L’emendamento precisa che le risorse - pari ad 1,3 miliardi prenotate per l’opera - saranno date annualmente “compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica” e deliberate dal CIPE: quindi niente assegnazione immediata ed in blocco delle risorse alla società Stretto di Messina da parte del Cipe come era stato annunciato più volte. E’ stato il Ministro Tremonti a volere questa misura cautelativa che ha scatenato le reazioni dell’MPA di Lombardo, che non ha partecipato al voto anche a causa dello scippo sistematico dei fondi FAS al sud.

Nello stesso articolo viene anche nominato Pietro Ciucci, commissario straordinario per il Ponte, incarico che aggiunge al ruolo di Amministratore Delegato della società Stretto di Messina e di Presidente-Direttore dell’ANAS, che per l’82% è l’azionista principale dello società Stretto di Messina. Tutto il potere nelle mani di un solo commissario per superare le difficoltà finanziarie e procedurali del progetto, che se da un lato sono la solita scorciatoia per evitare le procedure ordinarie (già semplificate dalla legge obiettivo) dall’altro indicano le grandi difficoltà in cui è immerso il progetto.

Il commissario Ciucci dice la norma “dovrà rimuovere tutti gli ostacoli frapposti al riavvio delle attività anche mediante l’adeguamento dei contratti stipulati con il contraente generale” e la conseguente approvazione delle eventuali modifiche del piano economico-finanziario. I costi sono dunque destinati a lievitare anche se adesso non è ancora noto di quanto. E che vi siano difficoltà finanziarie ne è la riprova anche la dichiarazione di Mario Ciaccia, AD e Direttore Generale di Biis Banca Intesa San Paolo, che ha dichiarato di essere pronti a fare la loro parte nel progetto di Ponte sullo Stretto.

Il Commissario Straordinario avrà 60 giorni di tempo per svolgere il suo mandato e quindi a fine settembre dovrà riferire al Cipe ed al Ministro delle Infrastrutture e Trasporti: ma è davvero inaccettabile che sia un solo uomo a decidere del piano economico e finanziario di un progetto che costa sei miliardi di euro solo alla fase preliminare.

Dopo il tremendo terremoto in Abruzzo, per una attimo anche il progetto del Ponte sullo stretto di Messina era sembrato tornare in discussione perché troppo vistosa la sproporzione tra costruire un’opera di dubbia utilità ed un’area ad elevato rischio sismico che se vivesse un nuovo e grave terremoto – hanno detto i tecnici – vedrebbe crollare a Messina la metà della case con un carico di morte e sofferenza devastante ed insostenibile.

Anche l’economista Alberto Quadro Curzio, preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’università Cattolica di Milano, aveva scritto un pezzo sul Corriere della Sera in cui proponeva che per recuperare risorse da destinare alla ricostruzione in Abruzzo fosse opportuna “la revisione di alcune priorità del governo tra cui il Ponte sullo Stretto” che essendo in progettazione da almeno 4 decenni non era certo una urgenza nazionale.

Ma quasi di nascosto, venerdì 17 aprile, il progetto ha fatto un balzo in avanti: la Società Stretto di Messina ha firmato l’accordo con Eurolink spa per la realizzazione dell’opera, alla presenza del ministro per le infrastrutture Matteoli. Soddisfatto Massimo Ponzellini, AD di Impregilo, impresa capofila di Eurolink con il 45% di azioni, che con questa commessa si porta a casa tra i 4,5 ed i 5 miliardi di lavori.

L’accordo stima il costo dell’opera in 6,3 miliardi di euro ( 200 milioni in più rispetto al 2006) e viene tre anni dopo la firma del contratto con Impregilo, sottoscritto a pochi giorni dalle elezioni politiche da Pietro Ciucci, AD della Stretto di Messina (poi diventato anche presidente di ANAS). Contratto poi congelato dalla decisione del Governo Prodi di sospendere l’iter di realizzazione del ponte sospeso, come scritto del programma dell’Unione.

Inutilmente Verdi e Rifondazione Comunista hanno chiesto ripetutamente che venisse anche sciolta la società Stretto di Messina ma l’opposizione del Ministro Di Pietro ( che agitava il fantasma di una maxipenale) e dell’Italia dei Lavori non hanno consentito di ottenere questo risultato.

In sede europea hanno riaperto il fascicolo sul progetto del Ponte di Messina perché la procedura d’infrazione aperta con l’ipotesi di violazioni ambientali era stata poi sospesa a causa della decisione del governo Prodi di fermare il progetto. Ma le questioni ambientali non sono mai state risolte ed ora la Commissione Europea vuole vederci chiaro ed entro fine settembre si dovrà pronunciare.

Un primo passo era stato deciso dal Governo Berlusconi il 6 marzo 2009 dal CIPE con la prenotazione di 1,3 miliardi alla società Stretto di Messina Spa, ma il piano economico e finanziario dovrà essere rifatto e secondo la nuova norma del DL Anticrisi le risorse verranno assegnate annualmente sulla base delle effettive disponibilità di risorse. Va poi ricordato che il Ponte non rientra tra i progetti TEN finanziati con risorse europee.

Nessuno ha ancora risposto alle pesanti obiezioni tecniche del prof. Remo Calzona, ex coordinatore scientifico della Società Stretto di Messina sulle reali condizioni sismologichedell’area secondo cui il progetto attuale, ha totalmente e colpevolmente trascurato la presenza di faglie attive che interessano pesantemente l’area, specie dalla parte calabrese. “Misteriosamente in questa rappresentazione (……) sono scomparse le faglie sotto le pile, portando a pensare che queste potessero cadere in zone non interessate da faglie. La realtà delle sezioni, fatta nell’ambito degli studi per il progetto di massima, contraddice questa tesi e pone una nuova argomentazione ostativa alla realizzazione del ponte a campata unica proposta dalla Società SdM nel 2002” scrive nel suo libro “La ricerca non ha fine. Il Ponte sullo Stretto di Messina” (ed. DEI Tipografia del Genio Civile).

Un’accusa pesante e documentata, che già esperti, geologi ed ambientalisti avevano segnalato durante la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale, ma che viene bellamente trascurata, come se niente il governo Berlusconi avesse imparato dalla dura lezione del terremoto in Abruzzo.

Anche per queste ragioni, la rete No Ponte (www.retenoponte.it) con l’adesione delle associazioni ambientaliste WWF, Italia Nostra e Legambiente, di sindacati, centri sociali e comitati si sono dati appuntamento a Messina per l’8 agosto “Contro il Ponte e per la tutela dei territori”, per rimettere in marcia una grande battaglia popolare.

Il Ponte di Messina va avanti, Impregilo incassa, ma i cittadini e le cittadine fanno sentire di nuovo la loro voce, come già hanno fatto tante altre volte in passato, perché insieme possiamo fermarlo di nuovo.

I pozzi erano previsti nel Parco del Curone, decisive le proteste ambientaliste Archiviato il progetto di sfruttamento della società australiana "Po Valley"

MONZA - La Brianza non sarà il nuovo Texas. Addio carotaggi esplorativi, addio pozzi petroliferi. L´oro nero resta nella "pancia" del Parco del Curone, a Montevecchia, borgo arroccato sulle colline lecchesi che nasconderebbe un tesoro. Po Valley, la società australiana che aveva chiesto di perforare il sottosuolo, ha fatto un passo indietro, pur restando convinta che gli idrocarburi ci siano. Titolare di una concessione governativa in joint venture al 50 per cento con Edison, giovedì sera ha alzato bandiera bianca, rinunciando alla possibilità di cercare prove della presenza di petrolio in un´area di 30 chilometri quadrati, 14 i comuni coinvolti. La maggior parte tutelati dal Parco, nato nel 1983 per mettere al riparo da speculazioni un territorio di 2.350 ettari.

Gli australiani erano pronti a scommettere 20 milioni di euro sulla zona, sicuri che sarebbe stata in grado di fornire 75 milioni di barili. Ieri mattina la conferma ufficiale dell´abbandono, subito ratificato dal Ministero per lo Sviluppo Economico che ha annullato l´iter avviato lo scorso aprile. "Abbandoniamo il campo, ma siamo convinti che a Montevecchia e dintorni siano custoditi importanti giacimenti di greggio", sottolinea Michael Masterman, amministratore delegato di Po Valley. Pratica archiviata, almeno per ora.

Decisive le barricate alzate dalle comunità locali, pronte a difendere la loro terra a tutti i costi. Determinante il rischio che la protesta nata dal basso - e che in meno di tre settimane ha raccolto 30 mila firme contro le esplorazioni - potesse bloccare all´ultimo minuto la valutazione di impatto ambientale necessaria per scavare. A guidare il fronte dei contrari Alberto Saccardi, docente di statistica della Bocconi e i sindaci della zona, che hanno costituito il comitato "No al pozzo", ottenendo il supporto di studiosi di mezzo mondo, dalle università di Istanbul fino a quella di Philadelphia. Tra loro anche Esseghair Skawder, professore di economia della New York University, che ha esultato alla notizia dello scampato pericolo.

Per gli esperti schierati in difesa del territorio, il problema non era solo quello dell´impatto ambientale. Sul piatto della bilancia pesavano soprattutto considerazioni di carattere economico-sociale. "Questo lembo di Brianza ha fatto della qualità della vita la propria cifra distintiva - spiega Skawder - . Il benessere locale si basa su prodotti "Igp" e capacità di attirare turisti. Un modello in continua espansione. I pozzi petroliferi avrebbero mutato il dna dell´area trasformandola in un´anonima periferia suburbana, destinata all´abbandono dopo vent´anni di sfruttamento". Dissente Masterman: "Il problema dell´approvvigionamento energetico a basso impatto, perché così sarebbe stato, è un nodo cruciale per il futuro dell´Italia. In Brianza si è persa un´occasione".

Il piano di Po Valley prevedeva l´apertura di due pozzi esplorativi entro i prossimi 14 mesi e nel 2011 la coltivazione vera e propria, così si dice in gergo riferendosi all´estrazione dell´oro nero. Contro le trivelle, le istituzioni locali. "Abbiamo conservato intatto il territorio per le generazioni future", festeggia Daniele Nava, presidente della Provincia di Lecco. Alza il calice anche Marco Panzeri, sindaco di Rovagnate, uno dei comuni epicentro delle ricerche: "Siamo contenti ma non abbassiamo la guardia".

PALAU. «Sono in Sardegna da 50 anni e l’amo un po’ come se fosse la mia terra. Ne ho vissuto tutti i passaggi. Quel che sarebbe importante è mantenere per le future generazioni un patrimonio che altri vogliono distruggere». É la premessa di Giulia Maria Crespi, presidente del Fai, nella sua casa di Palau prima di una lunga chiacchierata che verte attorno ai problemi di un’isola che ha adottato e che l’ha adottata.

Signora Crespi, non ha mai nascosto di apprezzare la politica ambientale di Soru.

«Trovo che Soru avesse fatto delle norme che proteggevano l’isola dalle mire dei palazzinari. La verità è che chi vuole speculare in Sardegna sono i continentali. Sulla pelle di chi ci abita».

- I sardi stanno cedendo alle lusinghe dei cementificatori?

«Mi sembra che il territorio sia in mano agli speculatori, guardate cosa vogliono fare in Costa Smeralda, Ma non mi pare che ci siano troppi proprietari sardi. Certo l’isola è molto poco aiutata. Ad esempio: un mio vicino agricoltore in primavera ha visto andare in malora i suoi campi perchè mancava l’acqua. Eppure il Liscia è pieno, ma mi dicono che non è stata prevista l’irrigazione per le coltivazioni sulle riva del fiume, come altrove. Eppure ci sono i rondò con l’ erbetta inaffiata e le ville con le piscine piene».

Soru cercò di cambiare le regole: Cappellacci le sembra altrettanto riguardoso delle esigenze ambientali?

«Le regole davano fastidio a molti. Col progetto della nuova Giunta aumentano le volumetrie sino al 20%, anche in sopralevazione; +30% con la riqualificazione dell’immobile; entro i 300 metri dal mare si può costruire il 10% in più. Si può avere il 30% in più per abbattimento e ricostruzione, il 40% per abbattimento entro i 300 metri con trasferimento di cubatura in lotti compatibili previe delibere comunali e cessione dell’area. E dove mettiamo l’autocertificazione dei costruttori? Basta la firma di un professionista qualunque».

- Se Soru difendeva l’isola, perchè l’hanno bocciato?

«Non sono una politica per dirlo. Forse ci sono stati errori nella comunicazione. Il fatto è che la gente pensa solo all’immediato e non pensa al domani. Ma il domani arriva. Quando sarà troppo tardi ci si renderà conto dei disastri compiuti. L’errore che si fa è pensare che a quest’isola occorra il turismo di massa. Ma non porterebbe soldi per davvero».

- E cosa serve, allora?

«Un turismo di qualità, un turismo disciplinato, rispetto per i piani paesistici».

Che suggerimento darebbe a chi sta per approvare il Piano casa sardo?

«Di fare un passo indietro. Di ripensare. Di non avallare l’ autocertificazione. Di aiutare piuttosto l’agricoltura, la zootecnia; di favorire e aiutare i prodotti tipici locali, l’artigianato, di promozionarli».

Lei che in Sardegna è di casa, può dirci se e come l’ha vista cambiare?

«Certo che l’ho vista cambiare. Terribilmente in peggio. Ho visto troppe costruzioni, brutture di ogni tipo. La conseguenza è che anche il turismo negli ultimi anni non va poi così bene. La Sardegna ha un patrimonio di siti antichi non valorizzati, anche quelli nuragici e prenuragici. Tutto questo non fa molto bene. La ripresa in grande stile della piaga degli incendi contribuisce a peggiorare le cose: un incendiario io lo metterei in cella per anni, ci sono stati morti e danni enormi ma tutti se ne infischiano. La proposta dell’ergastolo? Lo sostengo da anni. Perché questi fenomeni prima non si verificavano?»

Che interessi ci sono dietro questi fatti?

«Ci sono in mezzo un po’ di vendette, un po’ di speculazioni e un po’ di “divertimento”. Ci vorrebbero delle leggi speciali, con una notevole rivalutazione del ruolo della Forestale. I ritardi nell’arrivo degli aerei e elicotteri da cosa dipendono? Le disfunzioni nell’ apparato di intervento sono state tantissime».

- Signora Crespi, sta facendo un quadro poco rassicurante. La Sardegna ha parte del territorio intatto, si può ancora salvare?

«La Sardegna è talmente bella, talmente straordinaria, che in molti punti si può ancora salvare. Ma occorre cancellare la mentalità per cui io vendo mio figlio per fare cassa. È una delle regioni che ha recepito nella maniera peggiore il Piano casa nazionale, perchè? Stanno svendendo la Sardegna facendo credere che in questo modo si incentiva la ripresa. Aver dato alle regioni la possibilità di darsi ciascuna le sue regole è come dividere l’Italia in pillole, per dirla con Einaudi. Una cosa triste, L’Italia è una sola, con bellissime specificità. Occorrono regole unitarie: piani paesistici, piani regolatori, puc».

Il mattone come unica soluzione alla crisi?

«Certo qualche soldo in più entrerà. Ma a che prezzo? No, non c’è solo il mattone. Non ci si occupa delle campagne, si potrebbe puntare sulle primizie e non viene fatto. Invece si combinano un sacco di stupidaggini, costruendo nelle zone fluviali, deviando le acque, così da provocare disastri come le alluvioni di qualche mese fa».

Si rende conto che parlare di ambiente non è molto di moda. C’è la crisi...

«Infatti un’ambientalista come me è considerata una specie di cretina. Ma di questi cretini al mondo ce ne sono sempre di più. E vedremo cosa succederà se si permette la distruzione. La distruzione significa che una cosa è distrutta e basta. Ma i cementificatori saranno felici. E’ come un padre che rende la figlia puttana per fare soldi. Vabbene che le puttane ultimamente sono piuttosto in voga... Come dire: piacciono».

Berlusconi e la crisi?

«Preferisco non parlare di politica».

Un bene il G8 spostato all’Aquila? Lei se lo sarebbe ritrovato a domicilio.

«A Palau sono arrabbiati per questo. Probabilmente è un’occasione persa. A La Maddalena sono stati spesi dei soldi per dei lavori, spero che ora non distruggano anche l’arcipelago con la scusa di rilanciare l’ economia. Ma le economie sono tante, c’è ad esempio quella dei pescatori che sono sempre meno, hanno sempre meno pesce, e devono fare i conti con l’inquinamento».

A proposito di inquinamento, la chimica sarda rischia di chiudere.

«Se parliamo di Porto Torres, ci sarebbe da rilevare che la chimica ha distrutto una zona stupenda da sfruttare per il turismo. Però c’è il problema dei tanti disoccupati. Occorre programmare una riconversione, riportare la gente nelle campagne. Invece chi lavora nei campi è considerato di seconda categoria. E’ un lavoro duro che ha una resa limitata. Ma qui in Sardegna ci sono prodotti straordinari, primizie, prosciutti, formaggi, ricotte, miele. Non rendono come un condominio. Ma attenzione, molte case cominciano a essere vuote. Guardiamo cosa succede in Spagna, in che stato si è ridotta con tutti i suoi vani sfitti. Ma i palazzinari, loro sì, possono sorridere».

Vuol dire che l’isola rischia di fare lo stesso?

«Dipende da chi Cappellacci vuole accontentare. Io mi limito a osservare. Il Piano proposto mi spaventa molto. Occorre tornare alle vie legali. Invece cosa si fa? Si educa il cittadino all’immoralità. Chi segue la prassi regolare è un imbecille. Ma la società è anche piena di gente onesta. Qui ne conosco tanta ed è per questo che l’amo questo posto. Come se nelle mie vene scorresse quel sangue sardo che invece non ho».

Il Tempo

Arte che rende. Bel Paese fabbrica di ricchezza

Chi se lo ricorda un capo del governo al Collegio Romano, austera sede del ministero più povero d'Italia?

Berlusconi ha spezzato l'incantesimo e ieri ha riempito come mai il Salone del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali per tenere a battesimo la rivoluzione firmata dal mite e deciso ministro Bondi e dal lesto supermanager Mario Resca, re Mida di McDonald chiamato otto mesi fa a raddrizzare le sorti grame del dicastero che potrebbe essere la gallina dalle uova d'oro del Bel Paese.

Per lui al Collegio Romano è stata creata la Direzione Generale per la valorizzazione del patrimonio culturale. Da dopodomani pienamente in vigore. Dunque, il premier al Collegio Romano.

Entra con mezz'ora di ritardo, mentre in platea lo aspettano archeologi e volti tv, direttori di musei e di archivi (da Marzullo a Strinati, da Alessandro Nicosia allo storico Aldo G. Ricci).

«Ho tardato perché Bondi mi ha portato a vedere la biblioteca del ministero. Lo invidio, al confronto io lavoro in un retrobottega», attacca frizzante Berlusconi.

È l'avvio di un incontro fitto di annunci, un'antologia di interventi su spettacolo e archeologia, su istituti di restauro e scuole, su televisione e cinema. Tutto sotto il comun denominatore «cultura». E sotto la filosofia: le risorse vanno impiegate razionalmente, su progetti qualificanti, non disperse con contributi a pioggia.

Con preciso obiettivo, uscire dall'assistenzialismo, perché la «cultura, che non è né di destra né di sinistra, come è successo da Bottai a Gramsci, ma solo cultura, meno dipende dallo Stato e più è libera», dice Bondi, seduto alla destra del premier, mentre alla sinistra c'è Resca.

Allora come finisce la storia del Fus, il Fondo Unico per lo spettacolo del quale da mesi si aspetta il reintegro?

«Lo incrementeremo con il prossimo decreto legge - promette Berlusconi - La Scala e gli altri teatri non possono chiudere. Se Tremonti dice no non lo fa perché è un mostro, glielo impone la realtà dei conti».

E però «andremo a un reintegro verso i 60 milioni di euro. L'anno prossimo cercheremo di spostare qui qualche risparmio sulla spesa».

Bondi allarga il ragionamento: «Non è solo necessario aumentare gli stanziamenti, ma lasciare il campo all'iniziativa privata. La defiscalizzazione può essere uno strumento».

Ma è tutto il sistema Bel Paese che ha bisogno di emulsionarsi.

«Serve un drizzone dalla politica, l'Italia deve promuovere di più il patrimonio artistico, non può continuare a spendere in questo settore un ventesimo di quanto spende la Spagna. Quando confronto il numero dei visitatori dei musei in Francia o in Inghilterra con quelli italiani mi cadono le braccia», si sfoga il Cavaliere.

Che fare? «Pubblicità in tv e manifestazioni, come l'Expo del 2015», la sua ricetta.

«Quando ho visitato il Colosseo con il presidente cinese Hu Jintao, mi ha confermato che la nostra civiltà non ha pari al mondo».

E qui il premier rilancia i progetti del Ponte sullo Stretto e della Tav, «così i turisti potranno velocemente sostarsi da Firenze a Roma, da Roma a Napoli e più a Sud».

Basta poi con «gli introiti dei musei all'erario, vadano ai direttori, avranno una spinta a promuovere la loro struttura». Resca, tempestato di polemiche appena nominato, dice di essere ancora più motivato dopo la ricognizione nei musei stranieri e italiani. E sciorina cifre e strategie.

«La domanda turistica legata ai beni culturali è passata in 10 anni dal 18 al 35 per cento ed è qui che bisogna mirare, perché un euro investito in cultura si moltiplica per sei nell'indotto. Bisogna capire e comunicare le esigenze del visitatore-cliente. E serve un'alleanza tra pubblico e privato».

Insomma, la tattica dell'efficienza e del sorriso. Ma intanto il rilancio dei musei conterà su 40 milioni di euro e dieci milioni andranno agli istituti di restauro: «eccellenze italiane», dice il ministro.

Soldi in arrivo da Arcus, la spa in condominio col ministero delle Infrastrutture che gestisce per la cultura il 3 per cento delle spese per Grandi Opere. Berlusconi sollecita anche l'apertura serale dei musei. Ribattono il sindacato: «Le facevamo dal 2001. Ma Urbani le bloccò. Seguito da Buttiglione, Rutelli e Bondi».

APCOM

Berlusconi: Per musei faremo una vera rivoluzione.

"Quando vedo il numero dei visitatori dei musei di Londra e Parigi e li confronto con quelli di Roma e Milano mi cadono le braccia". Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa al fianco del ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, ribadisce il suo sconforto per la mancata valorizzazione del patrimonio artistico italiano e dice: "Così non si può più andare avanti, serve una vera e propria rivoluzione, un 'drizzone'". Per Berlusconi dunque "è ora di cambiare" ed introdurre "una nuova mentalità" nella gestione del patrimonio artistico e in particolare dei musei: "Devono stare aperti fino a sera e anche il sabato e la domenica, devono essere accoglienti e offrire tutte le facilities", e poi affaccia la possibilità di un cambio radicale anche nell'incasso dei biglietti: "Oggi gli incassi vanno tutti all'erario e quindi i direttori dei musei non hanno una spinta a promuovere la loro struttura". Un compito che il premier è sicuro possa essere svolto con successo da Mario Resca: "Ha girato il mondo, ha visto tutti i musei più importanti, senza pretendere una retribuzione dallo Stato, ed è tornato con la convinzione che serva un'inversione di rotta a 180 gradi".

Anche per intercettare l'aumento del flusso turistico mondiale atteso nei prossimi anni: "Noi attiriamo una quota risibile" rispetto alle potenzialità, lamenta Berlusconi. E questo anche perchè "spendiamo un ventesimo di quello che la Spagna spende in promozione".

Nel mondo, osserva il premier, "c'è grande curiosità per l'Italia", ma poi serve che scatti lo stesso meccanismo che "fa allungare la mano di una massaia sullo scaffale di un supermercato per prendere un certo prodotto invece di un altro".

E dunque "la curiosità va supportata con la pubblicità: sulle televisioni ma anche con le manifestazioni", per esempio sfruttando "l'Expo di Milano del 2015". Infine Berlusconi ha avuto parole di elogio per Bondi, "ho grande stima per lui e la sua onestà intellettuale", ma anche di invidia bonaria: "Gli ho espresso il mio compiacimento, la mia ammirazione e invidia per la biblioteca del Collegio Romano che mi ha fatto visitare: al confronto io lavoro in un retrobottega. E lo pagano pure... è una situazione di ingiustizia totale".

Postilla

Simile caleidoscopio di sciocchezze e banalità alla rinfusa, non meriterebbe che un no comment sdegnato. Ma il fatto che tali affermazioni provengano dalle più alte autorità governative e siano state pronunciate nella sede ufficiale del Ministero, le connota, purtroppo, di un peso politico quasi drammatico.

Le parole di Berlusconi e Bondi sanciscono in via definitiva il passaggio del nostro patrimonio allo status di merce, “la gallina dalle uova d’oro” bisognosa di null’altro che di “pubblicità” affinchè il “visitatore-cliente” allunghi la mano, come la massaia, per afferrarla sullo scaffale dell’offerta turistica.

In questo contesto “filosofico”, di desolante povertà, anche dal punto di vista dell’innovazione manageriale, appare la sequenza delle ricette sfoderate per fare la “rivoluzione”: Berlusconi, ringalluzzito dalle rassicurazioni di Hu Jintao che gli ha “confermato” (lui, il premier cinese a quello italiano) la primazia del nostro patrimonio, ingiunge l’apertura serale dei musei (sperimentata dal 2001 e annullata per mancanza di fondi), mentre Bondi, da parte sua, per stornare da sé ogni sospetto di richiesta nei confronti di Tremonti, fa appello all’iniziativa privata e rispolvera la defiscalizzazione, che in tempi di evasione fiscale arrembante appare concetto quasi metafisico.

Solo un passaggio merita adesione, laddove il ministro afferma che “la cultura non è né di destra, né di sinistra, ma o è cultura o non lo è”.

Appunto, questa di sicuro non lo è. (m.p.g.)

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