Il Corriere della Sera ed. MIlano
Dibattito sui cento borghi nel parco Sud
di Maurizio Giannattasio
Il sasso è stato lanciato. Le reazioni sono state immediate. Cento borghi intorno alle cascine del Parco Sud. La proposta dell’architetto Paolo Caputo. Dice no Legambiente. Senza se e senza ma. Dice no anche la Coldiretti, ma con una differenza. «Siamo pronti a sederci intorno a un tavolo. «Siccome il nostro approccio alle cose non è mai ideologico spiega in comunicato Coldiretti Lombardia - diciamo che vogliamo sederci attorno al tavolo per capire e discutere perché abbiamo più di una osservazione da fare e qualche preoccupazione da manifestare. Stiamo parlando di Milano e Parco Sud. Ogni nuovo insediamento residenziale consuma altro terreno agricolo. Tra l'altro abbiamo visto che fine hanno fatto borghi che erano agricoli, come Niguarda o Lambrate».
Una linea di pensiero ripresa in maniera più radicale dal presidente di Legambiente, Damiano Di Simine: «Così non si salvano le aziende agricole, così si ammazzano. Se si pensa di costruire intorno alle cascine insediamenti di 500-600 residenti, le aziende agricole verranno irrimediabilmente chiuse, perché nessuno vuole vivere vicino a un allevamento bovino o suino. Per queste cose c’è bisogno di suolo e di spazio». E c’è un altro motivo che spinge Legambiente a dire no. «Questo è l’esatto contrario di quanto prevede il nuovo piano del governo del territorio: perché va a creare insediamenti dove mancano servizi e infrastrutture. Le persone che andranno ad abitare nei borghi dovranno per forza muoversi in auto». Conclude Coldiretti: «Non portiamo via altra terra all’agricoltura, ma garantiamo quella che c'è e recuperiamone altra allo sviluppo agricolo ».
la Repubblica, ed Milano, 7 ottobre 2009
Cascina Romagnina, pericolo ruspe per l’ultima trincea dell’antica Isola
di Ilaria Carra
IL PROPRIETARIO che in quella cascina, con la sua famiglia, ci ha trascorso una vita intera non sarà solo quando, stamattina, scatterà l’ora X: quella del funerale all’ultima costruzione storica del quartiere Isola che sparirà per lasciare il passo a una strada. Oggi si procederà all’esproprio dell’ area su cui sorge la cascina Colombara, oggi Romagnina, in via De Castillia 30 dalla metà del ‘ 700 e dagli anni ‘ 70 adibita in parte, assieme ad altri tre capannoni, a discoteca. E ad accogliere forza pubblica, avvocati e ruspe ci sarà anche un muro umano, a difesa di quel pezzo di storia in un quartiere-cantiere che sta subendo una profonda trasformazione, urbanistica e sociale.
Residenti, ma anche l’associazione ChiamaMilano, il Prc e l’Arcigay, dato che da anni il locale, il Nuova idea,è anche un noto ritrovo gay: un presidio pacifico a difesa di quei tremila metri quadri da asfaltare per collegare meglio viale Zara a via Gioia, come impone la "pubblica utilità" dell’ accordo di programma per i grattacieli in costruzione del progetto Porta Nuova, di cui fa parte anche il Pirellone bis, che all’Isola porteranno nuovi abitanti. Ma che per poter sorgere hanno già sacrificato altri punti di riferimento del quartiere: la Stecca degli artigiani e i giardini di via Confalonieri, oggi terreno di gru e ruspe; le centinaia di alberi del Bosco di Gioia, buttati giù per farci il nuovo palazzo della Regione; la fabbrica di pettini Heimane poi le Scuderie Del Nero, diventate un campo di bocce, e la Fondazione Catella.
Oggi tocca, invece, all’ultima roccaforte, la cascina Romagnina, registrata nel catasto teresiano del 1757, sopravvissuta ai bombardamenti della guerra e simbolo di un quartiere rurale prima che industriale, con le successive Breda e Pirelli. E la sua stessa riconversione in Officine Cesare Villa per la lavorazione del ferro battuto dal 1878, poi trasformata in sala da ballo, il Kursaal, oggi Nuova Idea. Un edificio non vincolato dalla Belle arti, che ne riconoscono però il notevole pregio storico, passato di mano tra famiglie importanti tra cui anche i Visconti Borromeo. Già a fine settembre il Comune, che ha in carico l’ area che cederà poi alla Società di sviluppo Garibaldi-Repubblica (che fa capo ad Hines e Ligresti), si era presentato per espropriare. Il proprietario, però, si oppose e non volle firmare: «A differenza degli altri che hanno trovato un accordo- denuncia Augusto Villa che con quella cascina perderà anche un pezzo della sua vita - non mi hanno mai proposto un’area equivalente dove ricreare quello che mi portano via qui. E l’offerta che mi hanno fatto, di circa 5 milioni, è solo un quinto del suo vero valore».
Ma c’è dell’altro. Su questa vicenda pende un contenzioso giuridico: venerdì è attesa l’ordinanza cautelare del consiglio di Stato che potrebbe sospendere l’esproprio. La proprietà, l’immobiliare Romagnina, ha difatti impugnato non solo il ritardo nella comunicazione dell’esproprio, giunta a metà luglio, ma anche l’illegittimità del Pii del progetto di Garibaldi- Repubblica, Isola e Varesine, che se accolta dal Tar potrebbe obbligare a un ritocco degli standard qualitativi dell’intero progetto Porta Nuova.
La sospensione, invece, se concessa bloccherebbe le ruspe, in attesa almeno della sentenza nel merito del Tar del 18 novembre. E non sono in pochi a credere che eseguire l’esproprio prima di quella data non sia proprio un caso: «Si vuole forzare la mano - dice l’avvocato della proprietà, Matteo Salvi - nel timore di un esito positivo da parte del consiglio di Stato». Se la sospensione arriverà, la pubblica amministrazione potrebbe essere obbligata a risarcire. «Ma per salvare la cascina dalle ruspe - dice Augusto Villa - potrebbe essere troppo tardi».
la Repubblica ed. Milano, 8 ottobre 2009
Cascina, demolizione rinviata "Ora si attenda la sentenza"
di Ilaria Carra
Dal presidio si è lanciato un appello: prima di demolirla, Palazzo Marino aspetti almeno fino a domani, con il Consiglio di Stato che con un´ordinanza potrebbe sospendere l´abbattimento. In via De Castillia ieri mattina il Comune ha espropriato la cascina Romagnina, ultimo edificio storico dell´Isola, su cui sorgerà una strada per il progetto Porta Nuova. Ad attendere i vigili una cinquantina tra residenti, Arcigay, ChiamaMilano e vari consiglieri d´opposizione e di zona. Nessuna ruspa, però. E di qui la richiesta: «L´assessore Masseroli garantisca che la Cascina Romagnina non sarà demolita prima della pronuncia del Consiglio di Stato» chiede il Prc in Regione con Luciano Muhlbauer. «È paradossale - denuncia Massimo Gatti di un´Altra provincia-Prc-Pdci - che il sindaco dichiari di voler valorizzare il sistema delle cascine per l´Expo e poi ne permetta l´abbattimento». Per il passaggio di chiavi dei tremila metri quadri, in parti adibiti alla discoteca Nuova idea, primo locale gay in città, ci sono volute dieci ore: le misure degli immobili del Comune erano tutte sballate e, in più, sul tetto è stato trovato amianto. «il Comune ha assicurato che non interverrà - dice Matteo Salvi, legale della proprietà - fino a che non avrà l´autorizzazione».
Nota: i dettagli della proposta di Paolo Caputo per i "borghi", con qualche doveroso commento, nel primo articolo della serie del Corriere (f.b.)
Anche il capo dello Stato, dopo la tragedia annunciata di Messina, è intervenuto con parole molto nette: prima di realizzare opere faraoniche bisogna mettere in sicurezza il territorio. E tutti hanno pensato al Ponte sullo Stretto di Messina, l’opera simbolo del governo Berlusconi che costa 6,3 miliardi di euro. Nemmeno le esortazioni di Guido Bertolaso, capo della Protezione civile, hanno indotto una seria riflessione nel governo, quando ha detto che per rendere sicuro il nostro territorio e mettere un freno al dissesto idrogeologico servono 25 miliardi di euro e che bisogna smettere di costruire in modo abusivo parti di territorio e città. Niente da fare, non servono i morti e non servono gli autorevoli interventi: il governo Berlusconi tira dritto sul progetto del Ponte sullo Stretto e non ritira il famoso Piano casa di cementificazione selvaggia, dell’urbanistica “fai da te”.
Tanto, è il ritornello ricorrente, Ponte, Piano casa, dissesto idrogeologico e tragedia di Messina sono cose diverse, che non c’entrano, e il ripeterlo in modo ossessivo è la miglior prova della “relazione”. Il governo ha ammesso di non avere i 25 miliardi necessari (come una manovra finanziaria) e che quindi il Ponte sullo Stretto può andare avanti perché in fondo costa “solo” 6,3 miliardi, che per il 60% verranno da fondi privati. Proprio in questi giorni è scaduto il mandato del commissario straordinario Pietro Ciucci, “l’uomo del Ponte “ che è anche amministratore delegato della Società Stretto di Messina e presidente di Anas, che aveva il compito di presentare il nuovo piano finanziario evitando le forche caudine del Cipe.
Secondo le prime indiscrezioni uscite dai giornali, il progetto preliminare costa 6,3 miliardi di euro, sono prenotati 1,3 miliardi da Fintecna (ma erogati di anno in anno secondo le disponibilità della Finanziaria, come ha voluto il ministro Tremonti); il 40% dovrebbe provenire da risorse pubbliche e il 60% da capitale privato da ricercare sul mercato. è la solita favola che abbiamo contestato e vissuto con la Tav e le concessioni autostradali: che i privati siano disposti a rischiare capitale proprio per grandi opere. Niente di più falso, e l’alta velocità ferroviaria, come in tutto il resto d’Europa, è stata pagata interamente con soldi pubblici e anche nel caso delle autostrade si è intervenuto con proroghe delle concessioni (per incassi sicuri) e con garanzie pubbliche di subentro alla scadenza delle concessioni.
Una Grande Milano dai cento borghi. Dove? Intorno alle cascine del Parco Sud. Con nuclei di 500-600 abitanti. Paolo Caputo, architetto, conosce bene la città. Ha vinto il concorso per la realizzazione del villaggio Expo a Cascina Merlata, si è aggiudicato la gara per il Pirellone bis assieme a Pei, Cobb, Freed e Partners, ha fatto la sua parte realizzando una serie di strutture a Santa Giulia prima dei problemi finanziari di Zunino. E sa bene che andare a toccare il Parco Sud è come andare a toccare i fili dell’alta tensione. «Ma questo sarebbe l’unico modo per tutelare veramente il parco».
Come?
«Partiamo dall’inizio. E cioè da Expo».
Expo?
«Sì, Expo e il suo tema legato all’agricoltura di prossimità».
Che può fare Expo per la trasformazione urbanistica di Milano?
«Rafforzare un modello insediativo metropolitano che da una parte si oppone alla città infinita di Milano Nord e dall’altra alla contrapposizione storica tra città e campagna di Milano Sud. La chiamerei la Metropoli Giardino».
Cos’è la Metropoli Giardino?
«Una città fatta più di vuoti che di pieni, di intervalli tra il costruito e il non costruito, i campi».
In pratica?
«In pratica, bisogna ridisegnare il bordo della città nei confronti della campagna come è previsto dal nuovo piano del governo del territorio».
Come?
«Con la valorizzazione delle cascine che caratterizzano il sud di Milano e sono al centro del progetto Expo. Si può pensare a realizzare dei veri e propri borghi intorno alle centinaia di cascine sparse sul territorio».
Quanto grandi?
«Cinquecento o seicento abitanti. In modo da raggiungere quella dimensione critica che giustifica la creazione di servizi per le persone a partire dagli asili nido».
E i terreni agricoli?
«Con la realizzazione dei bordi e dei borghi si definisce finalmente il parco vero e prop rio e non un rimasuglio di territorio agricolo».
Tutto bene se non si trattasse del Parco Sud. Un «non costruito» che secondo lo stesso Comune dovrebbe rimanere «non costruito».
«Nel momento in cui si consolida un sistema come quello dei borghi e della Metropoli Giardino e si arriva alla definizione di un parco a tutti gli effetti, abbiamo la garanzia che il verde verrà tutelato. Apparentemente si va ad erodere del territorio, in realtà si costruisce una quota parte contenuta e con questa quota parte si va a tutelare la parte più cospicua del territorio ».
Altra contestazione. Ricreare un borgo non è antistorico?
«Sarebbe antistorico se i borghi venissero considerati un’antitesi alla città come è stato nell’Ottocento e poi alla fine degli anni ’50 con la costruzione di quartieri autonomi rispetto alla città ».
Invece?
«Costruire borghi oggi vuol dire realizzare reti di collegamento che costituiscono il sistema metropolitano. Per cui a borghi solo residenziali si devono affiancare nuclei che si appoggino a eccellenze sanitarie, universitarie, di ricerca. Penso al Cerba».
Temi scottanti. Al centro del braccio di ferro tra Comune e Provincia...
«Se si individuano i contenuti, verranno a mancare i motivi dell’incomprensione. Il vero tema è lavorare tutti su un modello insediativo che se è chiaro è in grado di mettere tutti d’accordo».
postilla
A ben vedere è del tutto logico e coerente: l’architetto armato delle migliori intenzioni vuole “riqualificare” il territorio, e lo fa coi propri strumenti di lettura e proposta: il territorio è tale soprattutto nella sua versione antropizzata, e l’uomo moderno mica abita in un buco nel suolo, ma per esempio dentro a un bel “borgo”. Peccato che questi borghi siano, esattamente e storicamente, quanto poi ha cancellato e cancella il territorio agricolo della greenbelt metropolitana. Qui non siamo, che so, nella Capitanata foggiana degli anni ’20, dove l’ingegnere milanese Cesare Chiodi progettava piccoli borghi rurali, new towns agricole tascabili, a contenere l’esodo di manodopera dalle campagne, nel quadro della bonifica integrale fascista. Siamo invece nel regno dei Ligresti & Co. per i quali l’agricoltura si esprime al massimo in una bella bancarella in centro storico, dove una comparsa in abiti rustici porge caciotte a peso d’oro all’elegante moglie dell’evasore che può comprarsele. Tutto il resto, è retorica per gonzi: diciamocelo, il fango e il letame fanno un po’ schifo a tutti! Se sono queste le premesse dell’Expo, e pare siano proprio e quasi solo queste, stiamo proprio freschi, con buona pace delle migliori intenzioni progettuali, che sono proprio mal poste in assenza di strategie metropolitane. Almeno, di strategie diverse da quelle della neo installata Provincia di centrodestra che contesta la Milano da due milioni di Cielle, ma solo per proporre di “spalmare” cubature democraticamente sui comuni di cintura. Magari travestendole proprio da borghi, magari con qualche impavido amministratore/trebbiatore pronto a tagliare il nastro … pardon: il fieno (f.b.)
Ma quanto lavora questo Mario Resca. Vabbè, è un supermanager e tiene vicino a sé il ritratto di Super Silvio, però mettere d’accordo la premiata ditta Raffaello, Michelangelo, Caravaggio & C. con gli ex zuccherifici, le aree fabbricabili da dismettere e magari le virtù energetiche del sorgo non dev’essere semplicissimo. Lui però dal Collegio Romano, o dal San Michele, zompa come niente al Municipio di Voghera dove “alza la voce” per convincere il sindaco ad accogliere in quel territorio agricolo un’altra centrale elettrica, la “sua”.
Ma non era stato reclutato per valorizzare il patrimonio artistico italiano con un contratto privato, con ogni probabilità sontuoso, almeno per i Beni Culturali (dove il direttore di un grande Museo non arriva a 1.800 euro al mese)? In effetti sì. Senonché al multiforme Resca (ex Mc Donald’s, ex Casinò di Campione) la Finbieticola – erede di Italiana Zuccheri da lui presieduta – dev’essere rimasta nel cuore oltre che nella dichiarazione dei redditi. Al punto da non poterla lasciare. Con qualche conflitto di interesse. Ad esempio, come la mette se contro la Centrale da lui perorata – coi fondi dell’ex zuccherificio – vengono invocati vincoli paesaggistici? Come la mette col suo coinquilino direttore generale che decide, appunto, di quei vincoli? Più in generale: è legittimo che un supermanager di Stato detenga in un sol colpo incarichi pubblici strategici e incarichi privati con interessi così corposi? E’ legittimo che vada da un sindaco a convincerlo della bontà della “sua” Centrale? In questo Paese succede di tutto, però un qualche paletto, magari, ancora c’è. O forse il nostro è il solito “complotto della sinistra”? Il solito subdolo “accerchiamento”?
MILANO - Una "Serenissima" in salsa padana. Un´autostrada d´acqua da Milano a Venezia attraverso il Po. Ma c´è chi già lo chiama il ponte sullo Stretto del Nord imposto dalla Lega. C´era infatti anche il leader del Carroccio Umberto Bossi, ieri, col governatore lombardo Roberto Formigoni a Truccazzano, comune ad Est di Milano, per il sopralluogo al progetto per riportare il più grande fiume d´Italia al 1954. Quando era in gran parte navigabile. Prima che i continui prelievi dalle cave di materiali da costruzione ne abbassassero il livello anche di cinque metri. Un sogno incompiuto che dura da oltre cent´anni. E che ora risorge grazie all´Expo di Milano del 2015. Ma gli agricoltori temono che il canale da Milano e Cremona fino alle foci del Mincio lascerà i campi a secco.
| Unico tratto realizzato a Pizzighettone (foto F. Bottini) |
Il costo dell´opera, 2,4 miliardi di euro, è faraonico. L´unione Europea finora ha stanziato solo 80 milioni, ma la Lega ci tiene. Il vice ministro alle Infrastrutture Roberto Castelli ammette: «Non esiste ancora nemmeno il progetto preliminare». Formigoni dice che «dobbiamo vedere accuratamente la fattibilità», ma il Senatùr insiste: «Unire Milano a Venezia ha una valenza economica. Vogliamo riportare le aziende lombarde sul mare». Scettici sulla reale utilità la Coldiretti, il Pd e i Verdi. Il progetto preliminare dovrebbe essere pronto nel 2010. L´opera nel 2015.
In realtà se ne parla dal 1902, quando il primo progetto fu presentato alla commissione per la Navigazione. Nel 1918 arriva il progetto Majocchi e Villa. Nel 1921 è la volta di un piano regolatore per le grandi vie d´acqua dell´Italia settentrionale. Nel 1926 il progetto viene presentato al ministero dei Lavori Pubblici e nel 1939 a Ferrara. Nel 1941 viene istituito il consorzio del canale navigabile Milano-Cremona. Nel ‘55 la conferenza europea dei ministri dei Trasporti definisce l´idea d´interesse generale. Il patrimonio dell´azienda portuale di Milano passa al Consorzio e, nel 1960, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi pone la prima pietra del tratto di 15 chilometri tra Cremona e Pizzighettone, l´unico realmente costruito.
Solo tra il 1989 e il 1992 si riparla della costruzione del tratto tra Pizzighettone e l´area milanese. Ma nel 1994 il consorzio del canale è soppresso come ente inutile malgrado l´Ue avesse ratificato il progetto. Il piano che permetterebbe di eliminare dalle strade lombarde 4mila Tir al giorno, però, risorge nel 1998 e viene inserito nei progetti di sviluppo europei: il Consorzio fa una nuova proposta, poi di nuovo più nulla.
Chi leggesse oggi il piano regolatore per Firenze del 1962 rimarrebbe colpito dalla straordinaria distanza fra il dibattito in corso sul piano strutturale fiorentino adottato nel 2007 e la cultura e la qualità politica di quei tempi. Erano gli anni della prima sperimentazione del centrosinistra che vedeva in Firenze un laboratorio di eccezione, data la figura del suo protagonista – il sindaco La Pira, democristiano eterodosso, cristiano profondamente - e la statura del coprotagonista, Edoardo Detti, uno dei padri dell’urbanistica italiana, prestato alla politica nel tentativo di dare alla città uno strumento non solo in grado di regolarne lo sviluppo, ma anche di svolgere un ruolo guida nel rinnovamento del paese. Un piano esemplare, perciò, quello del 1962 e allo stesso tempo uno dei più evidenti fallimenti dell’urbanistica riformista.
Le cause per cui il piano Detti quasi subito venne accantonato e nel corso del tempo stravolto da innumerevoli varianti sono tante, fra cui la brusca frenata dell’economia nell’anno successivo; ma il principale motivo (d’altronde visto lucidamente da Detti) fu l’ostilità dei comuni della cintura rossa nei confronti dell’amministrazione di Firenze e il loro interesse a non coordinarsi con il capoluogo in un piano intercomunale, tentato in varie riprese ma senza un vero e proprio appoggio da parte degli amministratori locali. Il piano regolatore fiorentino prevedeva, infatti, che la città si sviluppasse attraverso piani attuativi di mano pubblica, avvalendosi delle possibilità di esproprio offerte dalla legge 167 dello stesso anno. I comuni limitrofi, fra cui spiccano Sesto Fiorentino, Campi Bisenzio e Scandicci, adottano invece politiche urbanistiche permissive che consentono di sviluppare interi plessi urbani mediante licenze singole o piani privati di lottizzazione con scarsissime tutele dell’interesse pubblico (il decreto sugli standard obbligatori arriverà solo nel’68). Il risultato è che in breve tempo, già a partire dal ’63, si blocca la crescita demografica di Firenze e il ‘mancato sviluppo’ fiorentino si trasferisce nei comuni limitrofi che in pochi anni raddoppiano o triplicano la loro popolazione.
In uno scenario radicalmente diverso rispetto a quello previsto, la strategia pubblica del piano del ‘62 viene abbandonata e anche Firenze procederà per licenze singole e lottizzazioni private; le scelte infrastrutturali rimangono sulla carta; il trasferimento dell’aeroporto da Peretola, ferocemente avversato per opposti motivi dalle classi dirigenti fiorentine e pratesi, è accantonato sine die (se ne sta riparlando in modo del tutto estemporaneo ai nostri giorni); il decentramento del terziario nel nuovo polo direzionale e dell’università nella localizzazione di Castello è contraddetto dalle effettive trasformazioni della città che vedono gli uffici e le attività commerciali diffondersi nella periferia. Il quartiere di Sorgane, anch’esso approvato nel ’62 e costruito nella parte opposta alla direttrice nord-ovest, rappresenta il segno concreto di un’urbanistica che sta andando in senso contrario rispetto al piano. L’alluvione del 1966 ne segnerà il colpo di grazia.
Negli anni ’70 Firenze si adegua, almeno formalmente, alla normativa sugli standard con il ‘piano dei servizi’. Negli stessi anni le due grandi opzioni del piano Detti, il centro direzionale e la nuova università – ora trasferita a Sesto - sono oggetto di concorsi che paradossalmente ne prefigurano la fine, almeno nelle forme e nell’idee originarie. Ma la vera svolta si ha nei primi anni ’80 - sindaco Elio Gabbuggiani alla guida di un’amministrazione di sinistra - quando la dirigenza locale del Pci convince la società Fondiaria, allora controllata da un gruppo di azionisti fiorentini, a comprare i terreni compresi fra viale XI agosto e la pista di Peretola – per un totale di circa 190 ettari - l’ultima area inedificata nella piana inclusa nel comune.
Siamo nella stagione dei ‘progetti urbani’, la Milano craxiana fa da capofila, la strada della modernità sembra svilupparsi negli accordi fra privati e amministrazioni pubbliche, teorizzati come ‘urbanistica contrattata’. L’obiettivo iniziale, condivisibile da un punto di vista strategico, è di favorire una modernizzazione dell’economia fiorentina, una diversificazione strutturale rispetto allo sfruttamento banale della rendita medicea; di creare, perciò, nuovi legami produttivi anche con l’area metropolitana, secondo le idee di un acuto economista come Giacomo Becattini. Firenze quindi non solo bazar di scarpe, borse, souvenir e pizza a taglio, ma luogo di ricerca e innovazione tecnologica. L’idea, che ha come promotore Thomas Maldonado, prevede peraltro una quantità spropositata di metri cubi che viene ridotta prima a 3 milioni e poi ulteriormente ridimensionata negli anni ’90. Molto più rapido è l’abbandono del progetto di modernizzazione di Firenze, ammesso che non si trattasse solo di un ‘ballon d’essai’ del proponente.
D’ora in poi le vicende che legano l’area di Castello ai progetti della società Fondiaria saranno la cartina di tornasole dell’urbanistica fiorentina, il filo attorno al quale si dipaneranno vicende più o meno nobili, fra cui la più recente è il tentativo da parte del Comune di introdurre in extremis la previsione di un nuovo stadio, in parziale omaggio ai desideri dei fratelli Della Valle, patron della Fiorentina calcio. Il peccato originale, il fatto cioè che l’urbanizzazione dell’area sia stata inizialmente contrattata fra politici e privati, peserà come un macigno sui piani regolatori successivi – il progetto preliminare di Campos Venuti presentato nel 1985 e messo in crisi dallo stop imposto da Occhetto all’approvazione del piano particolareggiato e della relativa convenzione per Castello e il successivo piano regolatore di Marcello Vittorini adottato nel 1992.
Cambia nel 1990 il sindaco (da Bogiankino a Morales), cambia l’assessore all’urbanistica, ma rimane il leit motiv di piani che cercano di rimettere insieme i cocci di una crescita che – contrariamente a quanto prevedeva il piano del ’62 – si è sviluppata a macchia d’olio, senza un disegno unitario, accompagnata da infinite varianti che rendono ormai anche materialmente illeggibile il PRG vigente. La missione principale del piano è comunque permettere la realizzazione di due grandi progetti urbani. Quello dell’area di Castello e quello legato al riuso dell’area della FIAT a Novoli; molto minore come superficie impegnata, ma molto più facilmente sfruttabile in termini di appetibilità e fattibilità.
Approvato il piano Vittorini, se ne rende quasi immediatamente necessaria la rielaborazione a seguito della riforma urbanistica o – se si preferisce – di ‘governo del territorio’ – introdotta dalla LR 5/95. Siamo dunque nella storia recente, perché a tredici anni di distanza, nel luglio 2007 è stato adottato il piano strutturale che, tuttavia, l’amministrazione uscente non è riuscita ad approvare per dissidi interni alla maggioranza. Nel frattempo nell’area di Castello è in costruzione il gigantesco complesso della scuola sottoufficiali dei carabinieri (contestato per il mancato rispetto della normativa antisismica), mentre è ancora in corso il balletto delle destinazioni che sembravano essere consolidate nella previsione delle sedi operative di Regione e Provincia, di un grande plesso scolastico, sempre della Provincia, oltre le case, gli uffici, gli esercizi commerciali e ricettivi, per un volume totale di 1.400.000 mc. e un parco, la cui funzione fondamentale è di mitigare gli impatti nocivi del limitrofo aeroporto.
La storia si ripete: nell’unica area strategica ancora inedificata di Firenze nell’arco di 25 anni sono state proposte, adottate o approvate le più svariate funzioni: il polo scientifico, il ‘village’ per 12.000 abitanti, il grande centro commerciale, il polo espositivo, il centro direzionale di Regione e Provincia, mentre l’unica realizzazione - la scuola sottufficiali rappresenta quanto di peggio possa immaginarsi da un punto di vista urbanistico: un gigantesco tappo di 200.000 mc., destinato a interrompere l’unico corridoio paesaggistico ed ecologico rimasto fra l’arco collinare settentrionale e la piana. L’aleatorietà e la variabilità delle destinazioni significano il rovesciamento totale dell’impostazione pubblicistica del piano del ’62: ora sono le convenienze private, variabili a seconda degli andamenti del mercato immobiliare, a stabilire le scelte di piano e non l’interesse dei cittadini. Il tutto aggravato dalla totale mancanza di coordinamento fra opzioni infrastrutturali e destinazioni urbanistiche; le prime – il caso più clamoroso è la tramvia – progettate in un’ottica settoriale, le seconde prospettate senza tenere conto né del sistema dei trasporti attuale, né dei programmi della sua implementazione, peraltro incerti e per quanto riguarda tempi e risorse finanziarie.
Le vicende dell’area di Castello, quindi come specchio di un governo del territorio in cui le uniche vere invarianti strutturali sono i ‘diritti edificatori acquisiti’, mentre tutto il resto è oggetto di una continua contrattazione. In questa linea, che è difficile definire come ‘governance’, si colloca il piano strutturale adottato, che cerca di istituzionalizzare ciò che finora si svolge in modo contorto nelle maglie dei vecchi piani regolatori.
Il nuovo piano è un documento di cattiva retorica nella relazione generale, pleonastico e superficiale nella formulazione del statuto del territorio e delle relative ‘invarianti strutturali’, evasivo e generico nelle norme tecniche di attuazione che suonano come un manifesto politico in cui il Comune impegna se stesso su azioni rispetto alle quali non ha competenze, non ha risorse finanziarie e che spesso ricadono o dovrebbero ricadere fuori dai confini comunali. Ma la vera missione del piano strutturale è da una parte permettere la conclusione di una serie di operazioni in corso o sul piede di partenza e dall’altra rimandare ogni ulteriore scelta al futuro regolamento urbanistico, dove le decisioni si esplicheranno con un complicato gioco di progetti e di scambi all’interno del territorio comunale. Scambi e progetti che saranno decisi e autorizzati mediante avvisi o bandi promossi e sollecitati dai privati. In pratica, ogni trasformazione in ambito urbano sarà possibile, dati gli obiettivi quanto mai generici del piano strutturale, con l’arbitraggio del Comune. Si tratta di un’anticipazione - ottenuta con una interpretazione riduttiva e capziosa della legge toscana di governo del territorio - della deregulation urbanistica prevista nella legge delega contenuta nel cosiddetto ‘piano casa’. Deregulation, d’altra parte già sperimentata con la legge 12/2005 della Lombardia e in corso di applicazione a Milano in numerose aree dove, in modo del tutto palese prima viene contratta la rendita fondiaria spettante ai proprietari e, di conseguenza, viene stabilito quanto e cosa si deve costruire.
Riassumendo: ciò che più colpisce osservando l’itinerario dell’urbanistica fiorentina dal 1962 ai nostri giorni è il suo andamento regressivo. Dall’interesse pubblico e dei cittadini a quello privato degli immobiliaristi; da un piano concepito innanzitutto come grande operazione culturale, a un piano pensato come strumento burocratico di distribuzione della rendita fondiaria, di cui solo qualche briciola è destinata alla città. Da un comportamento di rigorosa moralità, alle innumerevoli inchieste aperte dalla magistratura sulla gestione urbanistica. Da un’idea alta di Firenze e del suo ruolo nel mondo, ad un insieme di dichiarazioni di intenti tanto generiche e vuote quanto poco credibili. In sostanza, la politica da impegno civile e disinteressato è diventata mero strumento di conservazione del potere; in questo senso è anti-politica, per il significato che a questa parola davano La Pira e Detti.
“Ho già parlato con Ciucci, amministratore delegato di Stretto di Messina spa, e mi ha detto che tutto è a posto. La società e Impregilo hanno già trovato gli accordi. Il Ponte si farà”. Così ha parlato il Ministro Altero Matteoli di fronte all’ennesima tragedia annunciata che ha cancellato decine di vite a Messina. Mentre il governatore, Raffaele Lombardo, fautore del Ponte, piange lacrime di coccodrillo: “bisogna smetterla di intaccare la natura”.
L’uomo nominato dal precedente Governo Berlusconi, ad della società Sdm, nata per realizzare l’opera più discussa mai messa in cantiere con un preventivo di investimento in project financing di 6 miliardi di euro, si chiama Pietro Ciucci. Manager con stipendio da superenalotto: 900.000 euro l’anno. Riconfermato dal Governo Prodi e nominato presidente della più grande azienda dello Stato, l’Anas, azionista di maggioranza della Sdm. Senza contare che l’Anas ha anche funzioni di controllo sulle pubbliche concessionarie. Privatizzate proprio da lui, quando era direttore finanziario dell'Iri con Prodi. La staffetta prosegue, il testimone è sempre lo stesso: Ciucci. L’attuale Governo lo riconferma all’Anas e lo nomina anche commissario straordinario della Sdm per superare le difficoltà finanziarie e procedurali e rilanciare il Ponte.
Ciucci, come commissario straordinario, verifica quello che lui stesso fa: un personaggio, dunque, capace di incarnare il mistero della santissima trinità riuscendo a sedere, contemporaneamente, in due, tre consigli di amministrazione dando vita ad un conflitto di interessi sovrumano. C’è da chiedersi: con quali soldi verrà realizzato il Ponte visto che di nuovi finanziamenti non c’è neppure l’ombra e il miliardo e mezzo di euro che avrebbe dovuto mettere la Fintecna è stato, dapprima, assegnato ad altro dal Governo Prodi, poi utilizzato dal Governo Berlusconi per compensare l’abolizione dell’Ici? Semmai si farà, verrà adottato il cosiddetto ‘modello Tav’: prestiti erogati dalle banche, garantiti dallo Stato. Uguale: debiti che condizioneranno il futuro delle giovani generazioni, mentre i profitti saranno privati. Intanto Eurolink (associazione di imprese che oltre alla capofila Impregilo comprende la giapponese Ishikawajima, la spagnola Sacyr e altre imprese italiane) vincitrice della gara per la realizzazione del Ponte, per il non rispetto dei termini contrattuali ha già collezionato con la Sdm un contenzioso, che, a colpi di 3milioni di euro al mese, è schizzato a 100 milioni. Le organizzazioni criminali intanto festeggiano.
Il Ponte, come rivelano diverse inchieste in corso, fra cui quella sul riciclaggio di capitali di presunta provenienza mafiosa del cosiddetto “tesoro” di Vito Cincimino, per dirla con Niki Vendola: “più che unire due coste unirà due cosche”.
Ma quanti soldi ha mangiato finora la Sdm? La sede, 3600 metri quadrati su quattro piani, attico, seminterrato e giardino nella centralissima via Po della capitale, è costata, in questi anni, 75 mila euro al mese di affitto incassato dalla srl Fosso del Ciuccio, immobiliare della Cisl. Ma nulla è cambiato per Ciucci nonostante molti parlamentari del centro sinistra lo ritenessero responsabile di aver presentato un piano di project financing ‘taroccato’ per far credere che il Ponte si sarebbe realizzato con i soldi di Fintecna, delle Ferrovie e dell’Anas e un piccolo contributo dei privati. Mentre, secondo questi parlamentari, si trattasse di un piano che giustificava l’opera sulla base di dati gonfiati, e i costi (e i prezzi) della società lievitassero a causa delle spese di propaganda e pubblicità, passate in due anni da 110.000 euro a 1.480.000 euro. E a causa degli aumenti degli emolumenti e dei gettoni di presenza agli amministratori, stabiliti in 526.000 euro nel 2002 e arrivati a 1.616.000 euro nel 2006.
Neppure il Governo Prodi è riuscito a eliminare questa ‘scatola vuota’ macina soldi e ha premiato Ciucci con la presidenza dell’Anas. Viene da domandarsi: lo scioglimento della società Stretto di Messina spa non era nel programma dell’Ulivo? La risposta è sì. Anche se il Ministro Di Pietro assieme al ministro Mastella e al centro destra votò contro l’emendamento proposto dalla sua maggioranza facendo andare in minoranza il Governo al Senato, durante la discussione dei 47 articoli del decreto fiscale collegato alla manovra finanziaria. La motivazione fu: chiudere la società comporterebbe una penale di centinaia di milioni di euro da pagare a Eurolink, perchè Ciucci nel 2006, poco prima della vittoria di Prodi, aveva firmato il contratto di 3,9 miliardi di euro con il general contractor Eurolink (impresa capofila Impregilo). Ma in caso di fallimento della società, la penale non l’avrebbe dovuta pagare la Stretto di Messina spa attingendo dal suo capitale sociale? In quel caso però il capitale non sarebbe bastato e Impregilo ne sarebbe uscita con le ossa rotte.
L’emendamento istituiva una fantomatica società per svolgere attività “proprie dei Ministeri competenti e delle Regioni, un nuovo carrozzone per coltivare clientele e spreco di soldi” si difese allora Di Pietro proponendo di far confluire Stretto di Messina spa nell’Anas. Ovvero di mettere Stretto di Messina e il contrato di Impregilo in una cassaforte, visto che l’Anas vanta un capitale di oltre 400 milioni di euro. Alla vigilia delle elezioni del 2008 che sarebbero state vinte da Berlusconi, per cui il Ponte era la priorità, Ciucci esegue l’ordine di Di Pietro e avvia lo smantellamento della società: sito online del Ponte scomparso, sedi di Villa San Giovanni e Messina chiuse, computer mobili venduti, personale dimezzato e nei 3600 metri quadri della sede romana viene trasferito l’ispettorato di vigilanza sulle concessionarie autostradali dell’Anas. E Stretto di Messina spostata a Piazza Cinquecento, proprio sopra alla galleria centrale della stazione Termini. Zona meno prestigiosa, sede più piccola ma più costosa al metro quadro, di proprietà della società Grandi Stazioni di cui è azionista Sintonia del gruppo Benetton che controlla Atlantia, cioè autostrade per l’Italia, che attraverso Igli detiene un terzo di Impregilo, impresa capofila dell’Eurolink che ha vinto la gara per il Ponte. Come dire: in attesa che la storia senza fine della società Sdm veda la luce, una quota dell’affitto va a finire a casa Benetton.
Oggi si ha una sola certezza: Ciucci, uno dei tanti manager pubblici della società post moderna, frutto del sistema partitocratico trasversale basato sulla cooptazione politica (requisito necessario: eseguire la volontà dei premier che si succedono) continua a guadagnare 900.000 euro l’anno, cioè 75.000 euro al mese. Un emolumento che va misurato con le parole affidate il 14 agosto scorso da Prodi a Il Messaggero: “la mia affermazione che vent’anni fa la differenza di remunerazione tra il direttore e gli operai di una stessa azienda era da 1 a 40, creò scandalo. Oggi, dopo un iniziale sdegno, nel momento più acuto della crisi, nessuno si stupisce del fatto che questa differenza sia in molti casi da 1 a 400. Tutto è stato dimenticato”. Forse anche da lui. Che da Premier ha nominato Moretti amministratore delegato di Ferrovie dello Stato spa a 1 milione di euro l’anno e Ciucci Presidente dell’Anas a 900.000 euro, conflitto di interessi compreso.
La scure dello spoils system di Guido Podestà s´abbatte sulla Pedemontana e sul suo presidente e amministratore delegato, Fabio Terragni. Il manager, che aveva condotto il progetto della Bergamo-Malpensa fuori dalle secche di vincoli e proteste di comitati, cade all´indomani della presentazione del primo bilancio sociale della società e alla vigilia del via libera del Cipe sull´opera. Paga, Terragni, la casacca di «uomo di Penati» ma la sua è una caduta annunciata da fine agosto, da quando cioè l´attuale presidente della Provincia aveva dato i primi colpi di forbice ai vertici delle società partecipate. Una mossa forte esercitata alla prima occasione utile, con cui il neopresidente provinciale potrebbe rafforzarsi nella partita delle nomine rispetto a Regione e Comune.
Non sembra un caso, maligna più di un osservatore della vicenda, che il cambio della guardia arrivi proprio durante il viaggio di Roberto Formigoni in California. È stato tutto il cda di Pedemontana a decadere, a causa delle dimissioni di quattro dei sette consiglieri: a quelle di Leonardo Carioni, presidente leghista della Provincia di Como, e di Luca Urzì, consigliere in quota Serravalle, si sono aggiunte quelle di Maurizio Pagani e Ferruccio Rocco, uomini del socio di minoranza Intesa Infrastrutture attraverso le controllate Biis ed Equiter. Una mossa, raccontano i dietro le quinte, che sarebbe stata chiesta da Podestà a Corrado Passera, l´amministratore delegato di Intesa San Paolo. Nelle cinque righe di comunicato che annunciano l´azzeramento dei vertici non viene menzionato alcun interim: Pedemontana ad oggi è ferma, la corsa alla successione ha tempi strettissimi - l´ultimo atto di Terragni è stata la convocazione dell´assemblea dei soci per la nomina del nuovo cda il 19 ottobre in prima convocazione, e il 21 in seconda - e nomi probabilmente già blindati. Così non fosse, l´inizio dei lavori della nuova autostrada, affidati a un consorzio con Impregilo in testa e previsti tra gennaio e marzo 2010, rischierebbe un robusto ritardo.
Preoccupazioni che animano opposizione e ambientalisti. «Mi auguro - sottolinea Matteo Mauri, capogruppo Pd in Provincia - che questa scelta non rallenti un progetto già in fase avanzata. Ringraziamo Terragni che è riuscito a portare la società ad un passo dalla realizzazione di questa opera, sviluppando un dialogo con il territorio che non ha eguali». Critico il responsabile trasporti di Legambiente Lombardia, Dario Balotta: «Il nuovo cda non deve azzerare le compensazioni ambientali già definite dalla passata gestione. Altrimenti si rischia di fare una strada inutile e dannosa per l´ambiente»
COMO — Alla fine il sindaco ha alzato bandiera bianca. Travolto dall’ondata di protesta dei comaschi, con un’inchiesta della magistratura appena avviata, scaricato da Bossi e messo con le spalle al muro anche dai consiglieri della maggioranza, ieri mattina Stefano Bruni (Pdl) ha chiesto aiuto al presidente della Regione Formigoni, poi a mezzogiorno è uscito dal suo fortino e ha annunciato: «Abbatteremo completamente il muro».
Un sospiro di sollievo per i comaschi che nel giro di qualche giorno avevano visto spuntare sul lungolago una barriera di cemento armato alta due metri e che una volta completata sarebbe stata lunga 120, coprendo del tutto la vista del Lario. Un’improvvisa e misteriosa variante al sistema di paratie, in costruzione da due anni, che dovrebbe proteggere la città dalle esondazioni.
Nessuno fino a oggi ha fornito spiegazioni sul perché di quello scempio. Ancora ieri Bruni, subito dopo aver annunciato che il progetto sarà cambiato e saranno installate solo paratie mobili e trasparenti, si è rifiutato di parlare, spalleggiando l’assessore alle Grandi opere Fulvio Caradonna che alla domanda «perché il progetto è stato cambiato? », ha risposto: «Non è vero niente e non sono tenuto a rispondere».
A volerci vedere chiaro nel mistero (alimentato dal silenzio dei due) adesso è anche la Regione che, dopo aver dato il suo appoggio al sindaco per la modifica del progetto (finanziato con 15 milioni di euro della legge Valtellina ma anche con il contributo del Pirellone), ha garantito che accerterà di chi siano le responsabilità e poi chiederà «come sempre » il risarcimento del danno.
Il perché di quella variante, spuntata all’improvviso in pieno agosto, resta un mistero anche dal punto di vista tecnico, come spiega l’ingegner Franco Panzeri, già amministratore comunale, che nel 2003 aveva fatto parte della commissione incaricata di valutare i progetti presentati da quattro imprese.
Così come resta inspiegabile perché il sindaco abbia difeso strenuamente l’ecomostro, annunciando poi qualche modifica dopo il crescendo di proteste dei cittadini. Giovedì era arrivato a dire genericamente che il muro sarebbe stato abbassato. Poi, domenica, cinquecento persone sono scese in piazza e i malumori nei consiglieri di maggioranza sono diventati un ultimatum al sindaco: «O il muro si abbatte o tu vai a casa». È stata una vittoria della gente, che si è sentita tradita dal primo cittadino (rieletto nel 2007 con il 60% dei voti) e che non riesce a capire che cosa abbia spinto Bruni a resistere sino alla fine, asserragliato con il suo assessore e con tutte le forze politiche contro. Lo stesso Formigoni ha ammesso che il muro va abbattuto. Da oggi il suo assessore al territorio Davide Boni (Lega) sarà a Como per valutare con il Comune strategie e costi della modifica del progetto che comunque anche nella versione ufficiale — da molti contestata all’epoca — prevedeva un certo impatto ambientale con un muro alto 90 centimetri interrotto da due paratie mobili. Adesso la barriera scomparirà del tutto e i cittadini si sentono doppiamente presi in giro: perché non si è adottata subito questa soluzione? Per lunedì 5 ottobre è fissata una riunione straordinaria del consiglio comunale e c’è da scommettere che anche questa volta i comaschi faranno sentire la loro voce.
Il corriere della Sera ed. Milano, 28 settembre 2009
“No al Muro di Como, non è Berlino”
di Anna Campaniello
COMO — Soli contro tutti. Il sindaco Stefano Bruni e l'assessore alle Grandi opere, Fulvio Caradonna, sono rimasti isolati sul caso del muro costruito sul lungolago. Ieri oltre cinquecento persone sono scese in piazza per chiederne l'abbattimento e in poche ore sono state raccolte duemila firme. La Lega Nord, con il leader Umberto Bossi, si è schierata ufficialmente contro il progetto e il malcontento è ormai palese anche tra gli stessi esponenti del Pdl, che sarebbero pronti a far cadere la giunta. Convocata con poche ore di preavviso, la manifestazione per dire «No» al muro ha radunato sul lungolago esponenti delle forze politiche dell'opposizione, ambientalisti e sindacalisti, ma soprattutto centinaia di cittadini comaschi «senza bandiera», decisi solo a difendere il capoluogo da quello che è già stato ribattezzato un «ecomostro».
«Per il bene della città Bruni va a cà» — si leggeva sulle magliette di alcuni manifestanti. Qualcuno, invece, si è presentato con il piccone per dimostrare la volontà di abbattere il muro. Tra rulli di tamburi e cori da stadio, gli organizzatori hanno srotolato uno striscione con la scritta «Buttiamo giù il muro e questa giunta di incapaci». Tra i presenti anche due consiglieri comunali di maggioranza, Stefano Molinari e Pasquale Buono: «Questa barriera deve essere eliminata — hanno detto —. Chiediamo che si torni al progetto originale e che non sia impedita la vista del lago». La Lega Nord si è schierata apertamente contro il progetto. «Ne ho parlato con Umberto Bossi — ha detto il presidente della Provincia, Leonardo Carioni — e mi ha chiesto di stampare manifesti con lo slogan 'No al muro. Como non è Berlino'. Il sindaco Bruni sta sbagliando. Non entro nel merito del progetto, ma davanti a una simile sollevazione popolare è giusto ascoltare i cittadini». Schierati al gran completo gli esponenti dell'opposizione. «Abbiamo toccato davvero il fondo — ha attaccato il segretario provinciale del Pd, Luca Corvi —. Questa giunta abbia la dignità di dimettersi prima di far affondare completamente la città». «Il sindaco non fa dietrofront perché ha paura dei possibili danni economici e delle richieste di risarcimento — ha aggiunto il capogruppo Pd in consiglio comunale, Luca Gaffuri —. Stefano Bruni deve dimettersi, il muro deve essere abbattuto».
Al termine della manifestazione, un gruppo di giovani ha organizzato un presidio sotto l'abitazione del sindaco: una ventina di persone sono entrate nel cortile e per alcuni minuti hanno gridato e fischiato chiedendo le «dimissioni immediate». Sul cantiere delle paratie ieri si è svolto anche un sopralluogo della Sovrintendenza. Oggi giorno cruciale per il futuro della giunta. I consiglieri del Pdl hanno convocato un incontro dal quale potrebbe arrivare un ultimatum al sindaco: giù il muro o tutti a casa.
da la Repubblica, 28 settembre 2009
Como, battaglia sul muro della discordia "Abbattetelo, nasconde la vista del lago"
di Enrico Bonerandi
COMO - Quasi non si riesce a camminare per la folla domenicale sul lungolago di Como, ma gli occhi non sono puntati sulle acque o sui monti all´orizzonte: l´attrazione ormai sono gli oblò, che ogni trenta metri si affacciano nella palizzata sul cantiere, e la gente ci lascia su volentieri un ricordo, un pensiero scritto su foglietti appiccicati con lo scotch, anche solo un vaffanc. Rivolto probabilmente al sindaco pdl di Como, Stefano Bruni, che sta facendo costruire a tradimento dei suoi concittadini una muraglia che nasconderà dalla strada la vista del lago. Perché? «Per difendere Como dalla esondazioni», si giustifica lui. «Per sperperare i soldi della ricostruzione valtellinese», gli rispondono i nemici del progetto. Cioè, più o meno, tutti. Pure Umberto Bossi, che ieri si è fatto vivo per bocca del suo federale comasco e avrebbe già trovato lo slogan: «Como non è Berlino».
Ieri c´è stata la prima manifestazione pubblica anti-muro, organizzata dal Pd, e in pochi minuti i giardini a lago si sono riempiti di gente. Di destra e di sinistra. Di Como e di ogni parte del mondo, visto che le fortune del Lario - anche per merito di George Clooney - sono al massimo e richiamano migliaia di turisti. Qualcuno riesuma la canzone dei Pink Floyd, «Another brick in the wall». Dicono gli organizzatori: «Avevano promesso paratie mobili a scomparsa e invece a scomparire è il lago. Ci ritroviamo con la città murata». Non è una battuta: è proprio così. Ma tale è la forza della protesta che sta attraversando trasversalmente partiti e istituzioni, che forse lo scempio sarà evitato. In quel caso, a crollare insieme al muro potrebbe essere il sindaco e la sua giunta. Il giornale comasco La Provincia sta già raccogliendo firme e trionfano su internet i siti dedicati. Dall´estero pare siano in arrivo reporter e telecamere.
La storia inizia tanti anni fa, quando vengono stanziati fondi sostanziosi per la ricostruzione, dopo l´alluvione dell´87 nella vicina (ma non tanto) Valtellina. I 17 milioni di euro assegnati al Comasco attendono solo di essere spesi, finchè il Comune decide di usare quei finanziamenti per mettere in sicurezza il lago, che ogni 4-5 anni esonda e copre la piazza Cavour con qualche centimetro d´acqua. In realtà, manovrando le chiuse di Olginate, i tecnici ormai governano tranquillamente il livello del Lario, e il progetto comasco è più che altro destinato a risistemare in bellezza il lungolago con i soldi dello Stato e della Regione. Iniziano i lavori, si alza la palizzata, tutti tranquilli e contenti finchè un pensionato Sherlock Holmes che si chiama - suo nome vero - Innocente Proverbio ficca il naso nel cantiere e scopre che in silenzio il sindaco ha introdotto «la Variante». Illegalmente, a quanto pare, tanto che la Procura ha aperto un fascicolo. E cioè: sul lungo lago ci saranno non le promesse paratie a scomparsa, ma un vero e proprio muro che nasconderà la sponda alla vista di chi si troverà sulla strada, in piazza Cavour o nelle vicinanze. Come mai? Non c´è ancora stata una vera risposta: di certo il muro costa meno delle paratie. Più solido. Più affidabile. L´unico neo - diciamo così - è che nasconde il lago.
Il sindaco Bruni si erge come San Sebastiano trafitto: «Ma che mi importa se dalla strada gli automobilisti non vedono il lago? Lo vedrà chi passeggia e quel tratto sarà abbellito con le fioriere». In pratica, il progetto farà elevare la passeggiata di circa un metro e mezzo sul fondo stradale. A questo punto, però, dalla città non si vedranno le acque e dal lago non si vedrà la città. Black-out, che non è il massimo per una zona turistica di fama mondiale. Sulla palizzata che nasconde caterpillar e gru una mano straniera ha lasciato scritto: «Troppa bellezza per passare avanti».
Cancellato. Trasformato in tante villette a schiera come ne è pieno l’entroterra del XIII Municipio. Ci troviamo in Via Antifonte di Ramnunte, nella zona Nuova Palocco, di fronte alla scuola elementare Palocco ’84. All’angolo con Vicolo Canale della Lingua, uno splendido casale si erge solitario a ricordo della vocazione agricola del XIII Municipio. Ma quanti ne esistono in tutto il nostro territorio ? Almeno 53, da una prima stima. Infatti la Carta dell’Agro Romano, che dovrebbe tutelare le presenza storiche, archeologiche e paesistiche presenti appunto nell’Agro Romano, non li censisce tutti (come il caso del Casale del Porro, all’Infernetto, nei cui pressi non solo è presente un acquedotto romano, ma esiste numeroso materiale archeologico in superficie). Scompare la storia del territorio, scompaiono gli spazi verdi ex-agricoli, ma soprattutto scompaiono gli spazi pubblici. Di recente, il 6 agosto, il Consiglio della Regione Lazio ha approvato il Piano Casa con 36 voti a favore e 9 contrari, consentendo (inizialmente) ai proprietari di ristrutturare i casali oppure di trasformarli in piccole abitazioni da affittare a prezzo concordato, consentendo così un cambio di destinazione d’uso. Addirittura si è parlato di aprire sul posto asili nido. Si utilizzano, in questo modo, strutture oggi abbandonate, come stalle e vecchi magazzini, per farne, grazie alle loro cubature, alberghi, ristoranti, discoteche e finti agri-turismo, distruggendo l’unico elemento conservativo della campagna così com’era fino a 50 anni fa. Per fortuna, sempre il 6 Agosto, è stato votato l’emendamento all’articolo 2 della proposta di Legge Regionale che tutela i casali storici dell’Agro Romano e del territorio laziale. Potrebbe sembrare apparentemente una conquista e sulla carta effettivamente lo è. Ma se un casale come quello di Nuova Palocco (censito nel foglio 30S della Carta dell’Agro al numero 63) è comunque destinato a sparire, cosa ne sarà degli altri? E soprattutto cosa ne sarà di questi potenziali spazi pubblici a servizio dei quartieri dell’entroterra ostiense, nati come una città diffusa che hanno consumato ormai quasi tutto il territorio con le loro villette tutte uguali? Niente strade, piazze e giardini. Adesso neanche più gli spazi verdi agricoli.
Il suolo, su cui si sviluppa una città, è patrimonio della collettività anche se di proprietà di un singolo. E’ necessario dunque recuperare la memoria storica, ma soprattutto dare risposte alle nuove richieste di spazi pubblici che non possono tradursi in un aumento artificioso di ‘consumo di merci’. La politica deve ridurre il peso della rendita immobiliare che è in stretto rapporto con la rendita finanziaria e dunque con la speculazione, che non è imprenditoria.
L’azione che Italia Nostra sta portando avanti a sostegno della battaglia della Sovrintendenza Archeologica per la difesa e tutela dell’Agro romano ci auguriamo che non sia limitata solo ad alcuni municipi, ma estesa anche a tutti gli altri, compreso il XIII Municipio che ha conservato, meglio di altri, il patrimonio paesaggistico e storico di quella parte dell’Agro conosciuta come Marittima e che presto vedrà una delle cementificazioni più pesanti di Roma. Il Litorale infatti ha ricevuto premi di cubatura nel nuovo piano casa fino al 60% e il rischio fondato che si attui la visione fascista di espandere Roma “sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno” diventerà una promessa mantenuta.
L’autrice è Vice presidente del Comitato civico entroterra XIII
«Ci hanno mandato la variante, perché era un atto dovuto, ma non era vincolante il nostro parere. In ogni caso lo avevamo espresso e in Comune c’è una lettera nostra che riassume quello che pensiamo». Non vorrebbe dire altro l’ingegner Carlo Terragni, uno dei tre progettisti delle paratie e del nuovo lungolago, assieme al collega Ugo Majone (che si è occupato delle parte idraulica) e all’architetto Renato Conti. Anzi, non vorrebbe nemmeno uscire sul giornale, rimandando la conversazione ai prossimi giorni, dopo che si sarà incontrato con i due coprogettisti e avranno deciso che linea tenere. Per ora, ribadisce, «non parliamo con nessuno».
È comprensibile che dei professionisti ci pensino due volte, o anche tre, prima di esprimersi su un problema che rischia di mandare a soqquadro gli equilibri politici, oltre che paesaggistici, della città. Ma sarebbe decisamente poco serio da parte de «La Provincia» non chiedere un chiarimento a chi - l’ingegner Terragni, appunto - all’inizio degli scavi sul lungolago, quando in un sondaggio otto lettori su dieci si schierano contro le paratie, rassicurò tutti. «Risolveranno tanti problemi e non deturperanno certo il paesaggio - affermò -: non mi sarei mai permesso di progettare qualcosa che andasse a rovinare la città che tanto amo». «Molti tra coloro che sollevano obiezioni non sono esperti in materia - aggiunse -, quindi non si tratta di valutazioni attendibili».
Dopo che, ironia della sorte, un pensionato a spasso con il cane ha notato per primo il muro che nasconde il lago e, segnalandolo a «La Provincia», ha sollevato un problema paesaggistico riconosciuto "a denti stretti" anche dal sindaco, non è possibile non sollecitare una risposta da parte da chi a suo tempo aveva garantito che il nuovo «lungolago avrà una veste splendida». Perciò riportiamo subito le poche, ma significative frasi, con cui l’ingegner Terragni ha risposto alla sollecitazione, pur chiedendo che rimanessero riservate. Converrà, il medesimo, che è uno dei classici casi in cui prevale l’interesse pubblico. È giusto che i cittadini comaschi sappiano che «abbiamo presentato un progetto e questo progetto è stato disatteso completamente», come dice Terragni. Che gli stessi progettisti non sono stati «mai interpellati» in corso d’opera, se non per un problema secondario relativo alle fondazioni («Ma non solleviamolo adesso - si raccomanda l’ingegnere - sennò aumentiamo ancora i pasticci»). Che quello parzialmente realizzato «è un altro progetto», rispetto all’originale, e quindi «è difficile giudicarlo» per chi, evidentemente, non vi si riconosce più. «La finalità è garantita - osserva sconsolato Terragni - ma sono cambiate tante altre cose». Intende dire che il muro al centro delle polemiche non è l’unico "dettaglio" modificato? «L’aspetto più significativo - replica Terragni - è l’arretramento delle paratie su piazza Cavour». Com’è possibile che siano intervenuti tutti questi cambiamenti senza che nessuno abbia posto delle obiezioni? «Il grosso problema è a Palazzo Cernezzi», dice l’ingegnere. Certo, a questo punto, sotto il muro che oscura il lago, rischia di rimanere schiacciata la Giunta... «Non mi riferisco tanto alla Giunta - precisa - bensì a questi tecnici che credono di potersi sostituire agli architetti».
In attesa che i tre progettisti si consultino e forniscano più approfondite argomentazioni, vale la pena riportare lo stralcio di una lettera scritta da Majone prima dell’avvio del cantiere: «Le opere mobili sono meno impattanti rispetto alle arginature fisse, consentendo di non sottrarre alla vista di chi si trova in città o a navigare sul lago, scorci paesaggistici di straordinaria bellezza». Invece è stata stravolta la filosofia dell’intervento e oggi, anche uscendo in barca sul primo bacino, si vedono «pannelli inguardabili», che fanno dire all’ingegner Terragni: «Mi hanno fregato».
La Tav è il futuro mezzo di trasporto europeo, collegherà le città italiane e, aprendosi liberamente al mercato, offrirà servizi frequenti a tariffe differenziate, come già succede con gli aerei. Sarà perciò accessibile a tutti, e, mentre scompariranno i “lenti” scomodi intercity, prenderà vigore ed efficienza il servizio regionale-metropolitano-locale, con grandi benefici ambientali e sociali.
Tutto questo rappresenta, per Firenze, un’occasione storica. La prima dai tempi della Capitale. Ma purtroppo è stato adottato (e appaltato) un insensato progetto di sottoattraversamento urbano con stazione sotterranea in zona Macelli, che esporrebbe la città, in fase di costruzione, a cantieri annosi e devastanti (oltretutto costosissimi), poi, in fase di esercizio, ai pericoli di incidenti. Con la prospettiva certa di essere trafitta anche dalle “frecce” Roma-Milano che non fermeranno (la tragedia di Viareggio purtroppo insegna) saranno messe a repentaglio zone densamente popolate, aggredite dai fattori inquinanti provocati dai sempre più numerosi passaggi (polveri, vibrazioni, rumori..). La proposta alternativa che cerca di “frenare” la Tav con un passaggio promiscuo in superficie è anch’essa nociva e impattante. Si può dire in sintesi che le soluzioni di attraversamento urbano non inquadrano le prospettive, non solo dell’accesso logistico, ma dello sviluppo urbanistico ed economico, ma soprattutto di qualità della vita, che, con la Tav, si aprono alla città.
L’unica soluzione che salva Firenze dai cantieri e dai pericoli, ma che velocizza la Tav e che apre le prospettive appena dette, è il cosiddetto Passante Nord (da Rovezzano a Castello), illustrato nel sito www.firenzesicambia.com, che ha già raccolto centinaia di adesioni “eccellenti”.
Il nuovo Sindaco Matteo Renzi si trova in posizione ideale per ripensare Firenze, dovendo anche redigerne il Piano Strutturale. Lui stesso ha definito il passaggio Tav “la madre di tutte le battaglie”.
Mi auguro perciò che possa vincere la battaglia, in nome dei benefici ambientali ed economici, senza aprire cantieri in città, adottando la soluzione che garantisce meno disagi, tempi più corti di esecuzione e prestazioni migliori.
Lasciatemi fare un po' di storia, a cominciare dall’86 quando, inaugurata la Linea Direttissima Roma-Firenze, che uscendo dal tunnel “San Donato” (11 km, realizzato nel 1970) entra da sud nel nodo fiorentino a Rovezzano, la soluzione che sembrò più economica fu quella di fissare la stazione in superficie a Campo di Marte e proseguire sottoterra, ma girare direttamente verso Bologna. Soluzione poi scartata poiché la tratta appenninica fu spostata reincludendo l'importante snodo ferroviario di Castello, a nord di Firenze, da cui la linea Tav definitiva oggi parte. La riapparizione di Castello, baricentrico nell'area metropolitana, coincidente con l'areoporto, collegatissimo via ferro a Santa Maria Novella, mi aveva convinto a riesaminare tutto il percorso e riprendere l’idea che il prof. Detti aveva inserito, con grande lungimiranza (Tav e aeroporto non esistevano) nel suo Piano Regolatore del 1962, in cui era presente l’ipotesi di un passante a nord e della trasformazione del “laccio” ferroviario, cioè della rete di binari interna alla città. Tali opportunità erano così espresse: “ Dal punto di vista urbanistico i vantaggi sono ancora più rilevanti: la sistemazione delle aree ferroviarie aderisce al programma di ristrutturazione della città e anzi lo provoca e lo favorisce….”. Tuttavia, rispetto al 1962 (le proiezioni demografiche prevedevano un incremento da 450 a 700mila abitanti) la città si è invece progressivamente svuotata di residenti. Non è quindi più necessario creare “quantità”, come Detti era costretto a fare, trovando gli spazi nelle aree ferroviarie, ma c’è l’opportunità oggi di lanciare una politica urbanistica di qualità, ricucendo le aree pregiate del laccio ferroviario liberato dai passaggi attraverso la città: in altre parole creare “la spina dorsale per il nuovo piano della città, innervata da varie stazioni e da treni corti, frequenti e silenziosi, "domestici", rivalutando case ed esercizi lungo i dieci chilometri della ferrovia interna da Rovezzano a Castello”. Questesono parole mie…che ricordano una regola inglese per cui “il treno dove passa impoverisce, dove ferma arricchisce” e che lanciano l’idea di un gran progetto di “rigenerazione urbana” tipo Valencia o Barcellona.
Con il Passante Nord (tunnel di 9,5km a doppia canna in linea diritta e veloce sotto le colline) la Tav avrà la sua stazione a Castello (può essere la stazione di Foster prevista ai Macelli, magari raddoppiata con la nuova aerostazione) ed il forte collegamento con Santa Maria Novella creerà sinergia fra città storica e metropolitana, ferrovie locali, aeroporto e autostrade. Distanti quattro minuti di navetta interna a servizio continuo gratuito panoramica... e welcome coffee, SMN, per i fiorentini del centro ed i turisti, e Castello, per gli utenti dell’area metropolitana e del resto della Toscana, diventano quindi i due terminal di un'unica macrostruttura urbana funzionante a sistema!
Ma attenzione a Santa Maria Novella! E’ un bene prezioso, poche altre città possono disporre di una “testa” di arrivo inclusa nel raggio pedonale del centro, sarebbe come se la Stazione Termini fosse a trecento metri dal Colosseo o da San Pietro… Bisogna dunque agire per mantenerla viva a tutti i costi. I tour operator potrebbero creare treni speciali granturismo per le capitali d'Europa che entrerebbero nelle linee Tav a Castello; potrebbe anche diventare il terminal cittadino dell'aeroporto (vorrei poter dire: del sistema aeroportuale toscano Pisa-Firenze). Con il check-in in stazione si ammortizzano i tempi del volo…. Ecco come dovrebbe essere intesa la vera "centralità di Santa Maria Novella", in nome della quale, invece, si è proceduto, negli ultimi 15 anni (15anni!) a farne crescere il figlio illegittimo ai Macelli, che, al pari della soluzione a Campo di Marte, sciocca e sbrigativa, causerebbe un degrado nerissimo per SMN, tagliata fuori dal turismo e dai visitatori in genere. Par di leggere un manuale di "inner city decay": vuoto funzionale, aumento dei problemi sociali e di ordine pubblico (ci sono già ora) con l'ingresso trionfale e inarrestabile dellaspeculazione, alla fine.
Il dibattito che riscalda ogni giorno le cronache fiorentine sulla posizione della stazione ha la vista corta: penso che sia più importante per il cittadino sapere come si parte e si arriva in città, piuttosto che dove. In altre parole: quanto tempo ci vuole a raggiungere la stazione con mezzi pubblici sicuri e affidabili dai vari luoghi della città centrale e da quella metropolitana? E viceversa. La stessa considerazione vale per l'areoporto....
La soluzione del Passante Nord è concepita per dare le migliori risposte alla domanda.
Nota: l'autore dell'articolo è progettista del passante nord per il nodo TAV di Firenze. Sul medesimo tema si veda qui anche l’intervento di Alberto Ziparo (f.b.)
L´impero milanese di Salvatore Ligresti è un gigantesco Monòpoli fatto di grattacieli e stalle, ospedali avveniristici e cascine, con due spade di Damocle sul capo: un nuovo Piano di governo del territorio che rischia di far saltare le speculazioni dell´ingegnere e (soprattutto, dicono i maligni) una situazione finanziaria personale che si è un po´ deteriorata negli ultimi tempi. Costringendo l´uomo che ha costruito le sue fortune grazie ai buoni rapporti con la politica a rompere l´apparente pace sociale del mattone meneghino, chiedendo il commissariamento di Palazzo Marino pur di sbloccare i suoi progetti.
I numeri parlano da soli: Sinergia, la cassaforte dell’imprenditore siciliano, ha chiuso i conti del 2008 in rosso per 24 milioni. Di più: lo scorso 20 aprile non è riuscita a trovare i soldi per rimborsare un prestito da 31 milioni, avviando un negoziato con gli istituti di credito per rinegoziare un’esposizione debitoria preoccupante, visto che il prossimo novembre scadrà un altro finanziamento da 108 milioni. Dove trovare i soldi? In tempi di vacche grasse per un uomo come Ligresti, snodo chiave del salotto buono, azionista di Mediobanca, Generali, Rcs e Alitalia, sarebbe stata una passeggiata. Ma oggi, con la Borsa in crisi - sulla quota di Premafin in portafoglio a Sinergia grava una perdita teorica di 30 milioni - e il mattone in stallo, persino per lui la strada è in salita. E nemmeno i progetti fermi da anni come quelli oggetto della querelle con il Comune possono rimanere dimenticati nel cassetto.
La scommessa immobiliare su Milano, in effetti, è la partita decisiva per il futuro dell’imprenditore di Paternò che dopo i guai di Tangentopoli e le incursioni finanziarie a Piazzetta Cuccia e dintorni di inizio millennio è tornato negli ultimi anni a coltivare l’antica passione per il mondo delle costruzioni. Un’offensiva giocata su più tavoli. I grandi progetti, dove ha calato l’asso di Impregilo e i soldi di Fondiaria-Sai, ma anche le speculazioni sui terreni in periferia - in particolare a margine delle zone verdi di Trenno, Forlanini e Parco Sud - dove si è mosso attraverso Sinergia e la galassia di controllate della Imco (Immobiliare Costruzioni).
Oggi la ragnatela di Ligresti in città è fittissima. Ci sono la sua mano e i suoi soldi nelle opere che diventeranno il simbolo di Milano come Citylife, il quartiere Isola-Garibaldi, l’ampliamento dell’Istituto europeo di oncologia e la costruzione del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica. Lavori da decine di milioni. Ma è solo la punta dell’iceberg. Il vero affare per il portafoglio di famiglia, mercato e Palazzo Marino permettendo, dovrebbe essere la valorizzazione delle decine di cascine, campi, fienili, stalle e fontanili comprati con un lavoro certosino e con grande discrezione negli ultimi anni. Parcelle rurali ed edifici a volte diroccati, acquistati in qualche caso per due lire ma destinati a trasformarsi, in caso di adeguate riconversioni edilizie, in miniere d’oro: proprietà come cascina Campazzo nel parco del Ticinello, difesa a spada tratta dalla Lega dopo che Ligresti ha cercato di sfrattarne gli inquilini, cascina Ambrosiana nel Parco Sud, i prati della Bellaria e del Belgioioso al margine del verde di Trenno, le stalle della Canavese e della cascina Casanova al Forlanini.
La passione per l’agricoltura c’entra poco. Basta pensare che il 25 febbraio 2009 è stato approvato a livello di segreteria tecnica l’accordo di programma per la costruzione del Cerba su 620mila metri quadri di terreni in zona Ripamonti di proprietà di Sinergia e Imco. Un progetto da 900 milioni su un’area costata poco meno di 10 milioni. Oppure che nell’ambito dell’Expo si starebbe valutando un piano di aiuti per la trasformazione di aziende agricole metropolitane in strutture alberghiere di accoglienza. Manna - se tutto andrà in porto - per i conti un po’ traballanti dell’impero Ligresti, il cui rientro nel mattone è stato fino ad oggi un po’ ad ostacoli sia per la crisi (Citylife fatica a far quadrare i finanziamenti malgrado gli aiutini di Palazzo Marino) che per qualche vicenda giudiziaria come i recenti sequestri in via De Castillia.
I tempi però stringono. Le scadenze delle rate sui debiti non conoscono i tempi lunghi della congiuntura e delle concessioni edilizie. La Imco, dopo un 2007 d’oro, ha chiuso il 2008 in rosso per 13 milioni con un’esposizione bancaria cresciuta da 212 a 305 milioni. E l’idea di Letizia Moratti e dell’assessore Carlo Masseroli di rivedere il Piano di governo del territorio in termini che rischiano di penalizzare le speculazioni di Ligresti ha fatto saltare i fragili equilibri che sovrintendono allo sviluppo immobiliare della città. E lui - che pure negli anni aveva accumulato in sordina oltre 40 contenziosi giudiziari con il Comune senza finire in prima pagina sui giornali - ha deciso di forzare la mano. Quasi come se ci fosse in gioco la sopravvivenza del suo impero di famiglia.
La Magliana è un luogo di Roma singolare. Di abbastanza recente formazione urbana (più o meno una palude fino al 1960) è diventata il terreno in cui si sono accumulati nel tempo tentativi, plurali e dissimili tra loro, di costruzione di un forte immaginario. Prima come luogo di forte radicamento e protagonismo sociale, capace di sconfiggere la forza di chi aveva autorizzato e costruito case sotto il livello del fiume. Un luogo che una volta che queste case, strappate alla rendita, venivano in massa occupate e fatte proprie da chi quella lotta aveva condotto, si è voluto subito quale “ghetto” per antonomasia. Una location metropolitana. Per ogni delitto sempre più efferato e la messa in scena di mostri urbani descritti nelle cronache cittadine. Dal “canaro”, ai protagonisti della banda di quel romanzo criminale che, per oltre vent’anni avrebbe partecipato, come braccio armato, al dispiegarsi di quella ragnatela di episodi locali capaci di intrecciare e renderli oscuri gli avvenimenti più dolorosi della politica del nostro paese.
La storia è sembrata continuare, con un altro capitolo all’alba di qualche giorno fa. Le forze di polizia, al comando addirittura di un generale, (come sottolineano tutte le cronache) sono state impegnate nello sgombero di una scuola occupata da alcuni anni abitata da precari, migranti, sfrattati, giovani. Più o meno “terroristi” per la stampa di proprietà dei costruttori cittadini. In realtà parte di quel mondo che non può varcare la soglia dei 240 mila appartamenti tenuti sfitti a Roma; quel mondo per cui non esiste nessun alloggio popolare perché non se ne costruisce; quel mondo che è costretto a vagare in una città senza case (popolari) e fatta di case che, senza città, sono cresciute quale informe melassa edilizia, una accanto all’altra.
Decidendo di trasformare, mostrando i muscoli, un’emergenza sociale in problema di ordine pubblico, cosa di meglio che la Magliana. Un ghetto che più ghetto non si può. Dove saldare il ricordo di tensioni antiche, costruite su inesistenti paure, con le nuove che si vorrebbero addossare, fino a farli diventare portatori, ai movimenti di lotta per la casa.
Non era stata “buona la prima”, tuttavia. Non ci si era riusciti, infatti, cacciando chi occupandolo ci viveva, anche qui con un’operazione spettacolare, oltre cinquecento persone dall’ospedale abbandonato Regina Elena perché, non solo si era scoperto che si trattava nella maggior parte di donne e bambini che lì avevano, ottenuta dallo stesso Comune, la loro residenza ufficiale, ma soprattutto perché subito era stato evidente a tutti che la residenza che Alemanno aveva pensato per loro era un lager come manufatto architettonico; un campo di concentramento per come viene gestito; un inferno per chi, lì è, ora, deportato e costretto a vivere e a coabitare.
Non è casuale che tutto questo non sia avvenuto con la città chiusa per ferie, ma si sia aspettato il rientro per varare il primo atto “politico” di Alemanno. Come se si fossero aspettati “i più” per farglielo vedere. Alemanno non ha, con gli sgomberi, sparato ad alzo zero contro i movimenti di lotta per la casa. Ha fatto anche questo certo. Ha inteso prendere realmente possesso della città, dopo un anno di surplace in cui l’aveva assediata. Come tutti i nuovi padroni lo ha fatto ridisegnando le mappe della sua proprietà.
Avendo letto Moby Dick Alemanno sa che le mappe devono mentire sempre, affinché i veri luoghi non vengano mai trovati. Alemanno deve iniziare, cancellando i molti spazi liberati alla rendita, a tenere alta l’emergenza, trasformarla in ordine pubblico. Solo così potrà assicurare, al pacchetto di mischia dei medi e piccoli costruttori che hanno contribuito a costruirlo come Sindaco, di candidarsi a risolvere l’emergenza abitativa da loro stessi provocata. Semplice il loro ragionamento. Le case –per il Sindaco- costano troppo perché a Roma il costo delle aree (nelle mani dei grandi costruttori) fa salire il prezzo finale di vendita sul mercato di oltre il 40% del prezzo di costruzione. Dateci aree agricole e vedrete- dicono al Sindaco i suoi partners di cemento- e faremo case anche per l’affitto. Loro chiamano aree a “saldo” quel vasto territorio chiamato in realtà “agro romano”. In quelle aree, si dicono disposti a realizzare sì case in affitto, ma quale quota edilizia di un pacchetto residenziale assai più consistente. Come hanno sempre fatto: drenando finanziamenti per l’edilizia residenziale pubblica (sovvenzionata e convenzionata) e ritagliandosi i soliti convenienti spazi di manovra con queste nuove case da vendere (molte) e da affittare (poche) quale compenso per il disturbo.
A questo servono le truppe e i generali dislocati sull’argine del Tevere, schierate contro una ciclofficina e una scuola abbandonata fatta diventare casa: alla costruzione dell’immaginario. A dire basta con l’abitazione collettiva, con il luogo dell’abitare eguale, al sottrarsi al mercato e al capestro dell’indebitamento senza fine su cui loro hanno vissuto lucrando e su cui vorrebbero continuare a farlo. Un no esplosivo. Non scritto, ma reso ancora più evidente dalle nubi di polvere sollevate dallo sferragliare dei mezzi e dal battere sugli scudi degli uomini in tenuta antisommossa. Attaccare un luogo occupato, cercando di “finirlo” poi dalle pagine dei giornali compiacenti, vuol dire smontare, mattone dopo mattone, e definitivamente sotterrare nelle sue stesse macerie, l’idea stessa di una città dove pensare all’abitare prima del costruire e ribadire, come evidente, esattamente l’opposto: il costruire sempre e ovunque prima ancora di considerare l’abitare.
Questo dice la nuova cartografia urbana voluta dal sindaco. Per questo la facciata michelangiolesca dei musei capitolini è stata scalata dai movimenti. Ma la resistenza, l’occupazione del tetto affacciato sulla piazza del Campidoglio, il possedere la città dall’alto del desiderio, ha fatto esplodere, anche, la solitudine dei movimenti di lotta per la casa. In un attimo tutto è sembrato disperdersi.
Eppure era quella la strada giusta, nessuno deve sentirsi solo nel difendere e rivendicare i propri diritti. Non possiamo pensare di costruire spazi di conflitto, che siano separati e disposti secondo graduatorie di merito, la lotta per la casa non può essere vincente se non si lega a quella per una mobilità sostenibile, o a quella per la difesa delle aree agricole, all’abitare.
La mappa di Alemanno ha funzionato: disegnando quei corpi, che vivevano sulla sommità dell’edificio michelangiolesco, all’interno della rete della “marginalità sociale”. Ecco allora circondare Marc’Aurelio con il lunapark: dal carro attrezzi, ai vigili che contavano i turni degli scalatori, al pallone anticadute, alla richiesta di staccare o, almeno ridurre, qualche manifesto; a volte turisti e sposi avessero mai alzato gli occhi al cielo…
Il tetto dei musei capitolini era diventato un altro luogo vero; più delle tende montate ai fori. Non un “presidio degli antagonisti”, ma un modo di spendere la propria vita capace di alludere alle tante vite sottratte a chi la casa non ce l’ha. Solo a quelli?
Perché i“climbers for housing” non sono riusciti a trasformarsi in “ climbers for freedom”? A parlare ai tanti ai quali, pur vivendo in una casa, si impedisce di abitare la città. A riuscire a opporsi al fatto che le mappe di Alemanno si trasformino in altrettanti spazi dove non sarà più possibile “pensare” a un altro modo di vivere la nostra vita. Per questo atto dopo atto, vediamo dispiegarsi l’odio che a seconda dei casi, colpisce con contenuti omofobi (e coltelli) la comunità gay; negare il grande square di piazza Vittorio alle celebrazioni della fine del ramadan alla comunità che lì vive, costruire “ teoremi “ su presunti racket all’interno delle occupazioni delle comunità resistenti.
Vogliono farci vivere, creando continue emergenze, all’interno di nuove mappe dove, ogni luogo venga annullato all’interno di un territorio destinato a produrre rendita attraverso la rendita. Una “vice vita” costruita sull’appropriazione di quel che è comune a tutti e di cui, proprio la rendita, si impossessa. A partire dalla distruzione delle risorse e attaccando la capacità di relazione che, in ogni bene, caratterizza la propria identità.
Sta ora ai movimenti romani ridisegnare nuove mappe, partendo dalla convinzione che solo costruendo un grande progetto comune, che veda protagonisti tutti nel disegnare una città che non sia più luogo dell’esclusione, sarà possibile sconfiggere la solitudine. Un “insieme” che non sia la sommatoria di esperienze cresciute separatamente, ma la costruzione paziente di una cultura dell’abitare che garantisca non solo un tetto a chi non ce l’ha, ma restituisca a tutti la dignità di abitanti della città. Se al contrario si rafforzeranno comunità identitarie impegnate in singole rivendicazioni, la solitudine e la perdita di ogni diritto saranno inevitabili.
FIRENZE — A sorpresa, nel giorno del suo onomastico, il sindaco di Firenze annuncia che entro un mese chiuderà al traffico la piazza del Duomo. Decisione coraggiosa, quella di Matteo Renzi, non solo perché nessun amministratore si era spinto così in avanti per bloccare uno degli snodi del traffico più atipici e terribili della città e del mondo, ma perché con il provvedimento si cancella il contestatissimo tragitto della linea 2 della tramvia che avrebbe dovuto sfiorare duomo e battistero e oscurare il campanile di Giotto.
Un progetto, quello del tram, che per anni ha diviso la città, provocato polemiche, accuse, fazioni trasversali, referendum e petizioni e ha scosso la passata maggioranza. Contro al progetto si erano espressi l’ex ministro Antonio Paolucci e il regista Franco Zeffirelli, il critico d’arte Vittorio Sgarbi e la sovrintendente al polo museale Cristina Acidini. E gran parte della campagna elettorale era stata incentrata sul sì o il no alla tramvia.
«È un gesto di riconciliazione civica — dice in consiglio comunale Renzi — un modo per mettere fine ai partiti del no e del sì. Ed è un provvedimento che va nella direzione della bellezza per recuperare una piazza, valorizzare le sue opere d’arte».
Dove passerà il tram? Palazzo Vecchio e società costruttrice hanno già un piano alternativo con due possibilità: una deviazione verso piazza San Marco a est della cattedrale, e un’altra a ovest in direzione di Piazza della Repubblica.
Si va avanti, insomma. «Perché il progetto del tram non è stato cancellato — spiega Renzi —. Si farà con un tragitto alternativo che presenteremo in consiglio». Poi il sindaco promette: «Non ci saranno mai più disastri nei lavori come quelli accaduti alla linea 1 con ritardi a oggi di un anno e mezzo. Le linee 2 e 3 saranno completate presto e bene e il comune avrà il controllo totale sull’opera. Allo stesso tempo piazza del Duomo da spartitraffico più elegante del mondo, come l’ha definita ironicamente Alberto Arbasino, diventerà la piazza più elegante del mondo ». Alla fine, anche dall’opposizione i pareri sono favorevoli. Esulta persino il fiorentino Paolo Bonaiuti, portavoce di Berlusconi, che parla di grande vittoria di Firenze. E sottolinea: «Quando anni fa iniziai a parlarne io tutta la sinistra era scandalizzata». Mentre il consigliere del Pdl, Giovanni Donzelli, rileva che «il sindaco dice tante belle cose, ma si dimentica di raccontarci come mettere in pratica i progetti». I problemi saranno non solo di carattere urbanistico. Renzi dovrà affrontare le lobby di tassisti, albergatori, ristoratori e risolvere qualche problema logistico della curia, che nella piazza ha sede.
E soprattutto il nuovo sindaco di Firenze dovrà affrontare la fronda del partito ancora fedele all’ex sindaco Leonardo Domenici che quel progetto sostenne fortissimamente. Matteo Renzi, intanto, incassa un primo sì dalla sovrintendente, l’autorevole e ascoltatissima Cristina Acidini. «Da storica dell’arte non posso che applaudire all’iniziativa che viene incontro a nostre segnalazioni. Come cittadina e grande utilizzatrice di mezzi pubblici, prima di esprimere un giudizio, valuterò il progetto alternativo ».
La tutela degli interessi paesaggistici resta affidata, per ora, alla magistratura amministrativa che continua ad emanare sentenze che confermano la validità giuridica e tecnica delle disposizioni del piano paesaggistico approvato dal precedente governo di centrosinistra sardo, rigettando uno dopo l'altro i ricorsi presentati da più parti. Circa 150 ricorsi al giudice amministrativo, almeno cento quelli straordinari al Presidente della Repubblica. Approvato nel 2006, il piano paesaggistico - che salvaguarda le coste sarde e ne disciplina rigorosamente le trasformazioni compatibili con la tutela ambientale al fine di lasciare alle generazioni future interi territori incontaminati tentando di spostare gli interessi turistici verso l'interno per valorizzare i numerosi centri storici e le aree agricole sarde - è di fronte a due paradossi.
Il primo,che nonostante la dichiarata avversità, la nuova amministrazione regionale è costretta a difendere attraverso i suoi legali le scelte del piano Soru, che vorrebbe - se potesse - cancellare con un colpo di spugna. Il secondo, che nel gioco degli interessi «antagonisti» alla tutela dell'ambiente una buona percentuale di ricorsi sono stati presentati dai comuni che dovrebbero avere più di altri a cuore la tutela del territorio e non solo dai privati lesi nei loro interessi proprietari. Il TAR Sardegna (sentenza n.979/2009) ha rigettato il ricorso del Comune di Arzachena e il Consiglio di Stato (sentenza n. 5459/2009) ha definitivamente rigettato il ricorso dal Comune di Villasimius. A questi ricorsi potrebbero aggiungersi anche quelli soccombenti del comune di Cagliari e di molti altri comuni della costa sarda. Il difficilissimo lavoro di integrazione tra conoscenza dei luoghi, elementi cartografici e norme giuridiche di disciplina dei beni paesaggistici da tutelare ha resistito ancora una volta all'attacco degli enti locali che - in nome di una equivoca sussidiarietà - rivendicano l'autonomia delle scelte sul proprio territorio, dimenticando che non esistono salo gli interessi locali ma anche e soprattutto quelli regionali e nazionali da salvaguardare in nome della protezione del paesaggio sardo, che resta ancora - tra i pochi - espressione dell'identità ambientale insulare da tramandare alle generazioni future.
Che poi gli interessi «locali» siano, in realtà, rappresentati da interessi economici provenienti dal «continente» ovvero dalle numerose imprese edilizie nazionali che vedono nelle terre costiere sarde occasione di speculazione cui le amministrazioni locali prestano ascolto, barattando il futuro dei sardi con il consumo quotidiano del territorio, è cosa fin troppo nota per essere ancora una volta denunciata. La miopia di alcune amministrazioni locali, attraversate ormai dai «flussi» degli interessi che nulla hanno a che fare con la Sardegna, mostra ancora una volta come la tutela del paesaggio non possa che essere materia statale cui la Regione dà attuazione attraverso le regole del Codice del paesaggio del 2004.
La tutela dell'ambiente è in contrasto - si sa - con la cultura del consenso ed è per questo che non può essere invocata la sussidiarietà poiché essa cela l'egoismo territoriale e non la solidarietà nazionale. Non potendo modificare le norme paesaggistiche ipso facto, poiché oggi la tutela paesaggistica va esercitata d'intesa con l'amministrazione dei Beni culturali, e questo richiede tempi lunghi ed incerti risultati, la Regione di centro destra sta provando ora con il piano casa, ovvero con quel provvedimento legislativo contrattato da tutte le regioni nei suoi contenuti con il Governo nell'intesa del maggio 2009 che, «per rilanciare l'economia», prevede alcune premialità edilizie (del 20% per gli aumenti di volumetria e del 35% per la demolizione e ricostruzione). E dove pensa il governo Cappellacci di localizzare questi incrementi di volumetria? Essenzialmente sulle coste sarde oggetto di vincoli paesaggistici, riavviando anche alcuni progetti di lottizzazioni che il piano paesaggistico aveva provvidenzialmente dichiarato decaduti. Legge che se approvata con questi contenuti è sospetta di palese incostituzionalità.
La nuova amministrazione fiorentina sta segnando alcune importanti discontinuità, nonostante il medesimo colore politico della precedente, in special modo per le strategie di politica urbanistica e ambientale. Si rivedranno, infatti, il Piano strutturale - bocciato alla vigilia delle elezioni - e molte scelte che hanno configurato un vero e proprio "scandalo urbanistico" per la giunta Dominici, il cui ufficio è terminato male, tra inchieste e dimissioni.
Tra le operazioni più discusse l'attraversamento Tav della città, per cui era stato approvato e messo in esecuzione un progetto di megatunnel da 7,5 km che sarebbe passato sotto il patrimonio storico-artistico e residenziale della città e anche sotto alcuni dei principali corpi idrici di alimentazione dell'Arno. La prospettiva di cantieri che avrebbero tagliato in due per un decennio il centro della città erano già state paventate da diversi osservatori, tra cui il gruppo di lavoro dell'Università locale che ha studiato l'impatto di galleria e nuova stazione. Gli analisti avevano ripetutamente sottolineato come si fosse proceduto all'appalto, assegnato nel 2008 a un consorzio di imprese guidate da cooperative (per poco meno di 800 milioni di euro, a fronte di una stima reale del costo totale dell'opera pari a circa 2,2 miliardi), senza una credibile valutazione di impatto.
Le analisi e le indagini effettuate dal gruppo di lavoro hanno evidenziato l'inesistenza delle necessarie garanzie ambientali e «la possibilità - anzi la forte probabilità - che nel sottosuolo del centro fiorentino si riproducano, amplificati, fenomeni di crolli, dissesti, degrado idrogeologico generalizzato, già registratisi per la Tav nel Mugello», come sottolineava Teresa Crespellani, docente di geotecnica ad Ingegneria; con l'aggravante di un contesto decisamente urbano, densamente abitato e contrassegnato da un patrimonio storico-artistico di valenza mondiale. Tali preoccupazioni sono oggi sostanzialmente condivise dall'Osservatorio Ambientale sul progetto - organismo tecnico-istituzionale il cui parere è decisivo - fin qui forse troppo attento alle intenzionalità della governance toscana e fiorentina e troppo poco alle conseguenze e agli impatti del progetto. L'Osservatorio sembra finalmente aver mutato atteggiamento, sia per una più evidente presenza di rischi, leggibili dal progetto esecutivo, sia per le richieste di un maggior rigore valutativo avanzate dalla nuova amministrazione comunale. Infatti il sindaco ha incontrato direttamente la presidenza delle Ferrovie e ha chiesto e ottenuto un sostanziale blocco e una revisione del progetto, con precise garanzie ambientali, in assenza delle quali lo stesso andrebbe decisamente riformulato.
L'ultima novità è costituita dalla condivisione della posizione appena citata da parte del gruppo di decisori che fin qui avevano giocato il ruolo di "ultras" del sottoattraversamento: la giunta regionale e, soprattutto, l'Assessore al territorio e trasporti, Conti. In poche settimane si dovrebbero prospettare soluzioni alternative. Per questo si terrà conto che l'alta velocità - qualsiasi sia il tipo di attraversamento della città - per diversi anni userà la linea esistente, con la stazione di Campo di Marte quale fermata provvisoria. Alcuni tecnici, vicini al nuovo sindaco, assumerebbero - pure con alcune correzioni - tale tracciato, rendendo definitiva la scelta di Campo di Marte quale stazione Tav con una galleria di attraversamento di alcuni chilometri più breve rispetto al progetto attuale e quindi meno impattante.
Diversa è la soluzione proposta, invece, dal gruppo di lavoro "Università-Esperti", che ha verificato l'impatto ambientale del sottoattraversamento e, insieme a cittadini, associazioni e comitati, sta aiutando i decisori a rivedere drasticamente il progetto. Tiene conto che campo di Marte non è soluzione urbanisticamente ottimale: a parte il periodo provvisorio di cantiere, va quindi scelta un'altra stazione quale fermata definitiva. È inutile impegnare il sottosuolo con tunnel più brevi, che riproporrebbero - sia pure in misura ridotta - molti dei problemi presenti nel sottoattraversamento. Conviene stare completamente in superficie, realizzando i due binari aggiuntivi nello spazio disponibile di pertinenza ferroviaria, comprese le limitatissime opere di compatibilizzazione della linea con il patrimonio insediativo. Questa soluzione costa poco, circa 1/8 del tunnel: con una variante di progetto e quindi di contratto si possono realizzare la linea e le opere di inserimento, ristrutturare la nuova stazione principale e quella di emergenza e, in aggiunta, riqualificare e ampliare un tratto di rete ferroviaria metropolitana. Tutto senza incrementi né perdite rispetto all'ammontare del contratto di appalto già stipulato.
«Vuole farmi saltare il Piano di governo del territorio». Dopo il siluro targato Ligresti, l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli è sceso in un granitico silenzio stampa. Ma ai politici che incrociano le sue confidenze ripete che sì, è il Pgt il vero obiettivo dell’offensiva dell’immobiliarista.
È lì che il quadro disegnato a Palazzo Marino, con le nuove regole destinate a dettare il futuro dell’urbanistica da qui al 2030, rischia di saltare per l’atto di guerra di un imprenditore che, si sa, ha un filo diretto con Silvio Berlusconi. Ed è lì, sul Piano di governo del territorio (Pgt), che passerà necessariamente l’opera di mediazione che i vertici del Pdl, a partire dal presidente della Provincia Guido Podestà, dovranno trovare tra Letizia Moratti e il re del mattone.
Il caso esemplare potrebbe essere proprio uno dei tre progetti per cui è partita la richiesta di commissariamento ad acta del Comune. Il più contestato dai cittadini e anche quello su cui il gruppo Ligresti ha ricevuto lo stop più forte dall’amministrazione. Il fronte è stato aperto tra via Natta e via Trenno, vicino al borgo storico di Lampugnano, dove sarebbero dovuti sorgere tre edifici alti fino a 50 metri. Un intervento che Masseroli avrebbero voluto rendere meno invasivo spalmando parte delle volumetrie sui terreni vicini. Lo stesso principio che, in futuro e in modo più strutturato, potrebbe essere applicato a tutta la città con il Pgt con quello che in termini tecnici si chiama "perequazione": è la novità più rilevante, una sorta di Borsa in cui non si scambiano azioni, ma diritti a costruire metri cubi a seconda delle direttive decise dalla regia pubblica. In alcune aree - soprattutto quelle lungo le linee della metropolitana - si potrà costruire di più. In altre si dovranno creare parchi e servizi e, se un imprenditore possiede uno di questi spazi, potrà cederlo al Comune spostando i propri diritti volumetrici altrove.
Perché è questa la vera posta in gioco: i diritti volumetrici. Da una parte c’è il gruppo di Salvatore Ligresti che a Milano di terreni e progetti da realizzare ne ha maturati un bel po’ e adesso teme che possano venire ridimensionati. Dall’altra ci sono Letizia Moratti e Carlo Masseroli che, dicono i più stretti collaboratori, rimangono decisi ad approvare le nuove regole. È tra queste due posizioni apparentemente inconciliabili che si tenta un accordo che possa far uscire tutti dalla vicenda salvando la faccia. Senza creare scontri istituzionali tra due enti - Comune e Provincia - dello stesso colore politico. Una mediazione da cercare all’interno del Piano, partendo magari da una rassicurazione sui diritti acquisiti da Ligresti. Fino a trovare quell’equilibrio tra interessi pubblici e privati che, da sempre, è la base dichiarata del nuovo documento.
Le preoccupazioni di don Salvatore continuano a rimanere concentrate in particolare sul Parco Sud, che il Comune vorrebbe tutelare. In questa zona il gruppo possiede enormi superfici dove non potranno sorgere nuovi edifici: in cambio i proprietari potranno costruire in altre zone, trasferendovi un indice dello 0,2. Poco o tanto? La quantità è più bassa dello 0,65 che oggi viene applicato in città e che dovrebbe essere mantenuto come media anche in futuro. Fatta salva, naturalmente, la possibilità di salire ulteriormente dove sarà consentito. Tutto "virtuale", però, come in un gigantesco Monopoli, senza la garanzia di costruire dove si desidera. Una rivoluzione per Ligresti che, come altri bei nomi della finanza, è stato costretto nei mesi scorsi a rinegoziare la propria esposizione con le banche: Sinergia, la cassaforte dell’imprenditore, non è riuscita a onorare alla scadenza del 20 aprile un prestito da 31 milioni rimborsando una prima tranche di 12 milioni e rinviando «il rifinanziamento o il rimborso del resto» a un secondo momento. Una strada non facile, però, visto che il 9 novembre la società dovrà trovare altri 108,5 milioni per chiudere un altro prestito.
CAGLIARI.La legge salvacoste elaborata a novembre del 2004 dall’amministrazione Soru è «di particolare rigore, ma trova piena giustificazione nell’esigenza di salvaguardare un paesaggio di incomparabile bellezza, che ha già subìto attentati a causa della propensione italica ad un’e dificazione indiscriminata». Lo scrivono i giudici del Consiglio di Stato che il 7 luglio scorso hanno bocciato definitivamente il progetto della società ‘Cala Giunco srl’. E’ un duro colpo quello inferto al costruttore-editore Sergio Zuncheddu.
A sottoscriverlo è stata la sesta sezione di palazzo Spada, presidente Giovanni Ruoppolo, relatore Rosanna De Nictolis. Sergio Zuncheddu, è da anni impegnato in una battaglia legale con le associazioni ecologiste e poi anche con Regione e Comune di Villasimius per realizzare un villaggio turistico sulle sponde dello stagno di Notteri. Nel respingere totalmente il ricorso in secondo grado presentato dagli avvocati Massimo Massa, Marcello Molè e Marcello Vignolo contro la sentenza emessa dal Tar Sardegna il 12 novembre 2008 i giudici romani entrano come non mai nel merito della questione ambientale, con valutazioni destinate a complicare l’elaborazione della legge sul piano casa, cui lavorano in questi giorni consiglieri regionali e tecnici del centrodestra. Scrivono fra l’altro i magistrati: «Nella valutazione comparativa di contrapposti interessi, quello generale alla salvaguardia del paesaggio anche a tutela delle generazioni future, e quello individuale e impreditoriale allo sviluppo degli insediamenti turistici, trova piena legittimità costituzionale la previsione regionale, estesa anche alle lottizzazioni in corso». In quest’a ffondo di portata storica, che manifesta una sensibilità inedita per i beni ambientali e paesaggistici, i giudici amministrativi non fanno altro che ispirarsi al Codice del Paesaggio, una legge dello Stato che il Piano paesaggistico regionale sardo ha ripreso per la prima volta in Italia provocando pesantissime reazioni da parte dei costruttori e delle amministrazioni comunali votate al cemento. C’è fra l’altro un passaggio della sentenza che sembra calare una pietra tombale sui dubbi più volte espressi dai legali delle imprese, convinti che nei mesi trascorsi fra l’adozione del Ppr e la sua approvazione le misure di salvaguardia delle coste stabilite con la legge 3 novembre del 1952 non fossero più efficaci. Il Consiglio di Stato dà invece ragione all’amministrazione Soru: le misure erano valide anche in Sardegna e nell’attesa che i piani urbanistici comunali venissero allineati alle norme del Ppr esisteva comunque una legge di rango superiore, il Codice Urbani, che fermava i progetti edificatori. E’ qui che la sentenza del Consiglio di Stato sembra voler mettere una zeppa nel cammino del piano casa: i giudici confermano la pronuncia della Corte Costituzionale del 10 febbraio 2006 con la quale è stata affermata la competenza della Sardegna, in base allo statuto speciale, a legiferare in materia di paesaggio. Con il limite dell’articolo 3, dove si fa riferimento alle norme statali di «riforma economico-sociale». Ma su quelle - affermano - prevale la potestà legislativa dello Stato e il piano casa è inquadrabile fra i provvedimenti di riforma economico-sociale. In pillole: il piano casa della Sardegna dovrà attenersi scrupolosamente alle disposizioni del Codice del Paesaggio e di conseguenza a quelle del Ppr varato da Soru, che ne sono una rigorosa conseguenza.
Se qualcuno sperava in un imminente far west edilizio e in un rapido ritorno a su connottu urbanistico dovrà dunque rassegnarsi: non è un caso che nella sentenza per Cala Giunco il Consiglio di Stato faccia riferimento al paesaggio e non al semplice impatto edificatorio sull’area di Villasimius. E’ il Codice Urbani che ha introdotto nella legge italiana il concetto di paesaggio come valore generale da difendere e ora sono i magistrati amministrativi, solitamente avvinghiati ai formalismi, a dire chiaro che la tutela del paesaggio prevale sugli interessi privati. Un principio rimasto inapplicato nel caso di Tuvixeddu ma oggi destinato a entrare in conflitto con le politiche di rilancio dell’e dilizia enunciate dal governo Berlusconi, senza che poi l’orientamento si sia tradotto in una legge-quadro.
Certo la sentenza farà discutere, mentre sul progetto Cala Giunco cala il sipario della giustizia amministrativa. Confermata la sentenza del Tar che aveva respinto i 2 ricorsi presentati dalla società di Zuncheddu, sullo stagno di Notteri non si potrà mettere in piedi neppure un mattone. Ed è una vittoria per il Gruppo di Intervento giuridico e gli Amici della Terra, protagonisti di una battaglia legale in difesa dell’ambiente di Villasimius che va avanti da più di dodici anni. Il progetto della società Cala Giunco prevedeva la realizzazione di edifici residenziali per 140 mila metri cubi in zona F, frontemare e vicinissimo alla zona umida popolata dai fenicotteri rosa. Ma fin dai primi passi amministrativi l’iniziativa del costruttore di Burcei si è scontrata coi ricorsi a raffica di Stefano Deliperi e dei legali che collaborano con l’associazione ecologista. Il 27/6/06 la sovrintendenza ai beni paesaggistici aveva negato l’autorizzazione a realizzare gli immobili malgrado il piano fosse stato ridimensionato nel corso degli anni. Con l’entrata in vigore della legge regionale ‘salvacoste’ le possibilità di edificare si erano ulteriormente ristrette. Da qui la sequenza di ricorsi, compreso uno contro il comune di Villasimius che aveva la colpa di essersi attenuto alle nuove norme regionali e alle successive direttive.
Nei vari passaggi della vicenda sembrava che la società di Zuncheddu qualcosa potesse costruire: il comune di Villasimius aveva infatti autorizzato una volumetria ridotta del 33,36%, partendo dal presupposto che alcune opere di urbanizzazione fossero state avviate. Il ‘niet’ finale - confermato dal Consiglio di Stato - era arrivato dalla direzione generale della pianificazione urbanistica territoriale, che con una nota del 28 dicembre 2006 aveva segnalato al comune di Villasimius un errore commesso nella stima della capacità insediativa residua nelle zone F costiere: dal calcolo dell’area andavano scorporati isole e scogli. Con la rettifica del calcolo alla società Cala Giunco non è rimasto nulla da costruire: la nota numero 1885 del 2-2-2007 firmata dall’a mministrazione comunale stabilisce infatti che «non potrà essere comunque rilasciata alcuna concessione edilizia nè effettuato alcun intervento». E ora il Consiglio di Stato aggiunge che le norme di tutela possono essere applicate anche se le opere di urbanizzazione sono state avviate - come in effetti era, in base ai documenti prodotti in giudizio d’appello - ma non si è verificata una «modifica irreversibile dei luoghi». Di questi presupposti - scrivono i giudici - ne basta uno per giustificare la chiusura definitiva del cantiere. Anche in secondo grado i giudici hanno respinto tutti i motivi di ricorso avanzati dai legali di Zuncheddu, cui si sono opposti per la Regione l’avvocato Giampiero Contu, per Villasimius Roberto Candio e per il ministero l’avvocato dello stato Fabio Tortora.
(15 settembre 2009)
A Roma la scuola «8 marzo» - da tempo abbandonata - era occupata dai senza casa. Ho avuto la fortuna di conoscerne qualcuno. Ho ancora impresso il ricordo di due bellissime bambine che la madre teneva ordinate e sorridenti pur in quelle condizioni difficili. Dopo lo sfratto subito ad Ostia quella soluzione promiscua e difficile sembrava loro un sogno. Quasi come le case vere che abitano i pitbull della carta stampata che dalle colonne dei due quotidiani Il Messaggero e Il Tempo si accaniscono da giorni contro «l'illegalità delle occupazioni nella città».
Sono questi due giornali che hanno creato ad arte il clima per gli sgomberi. In loro soccorso è puntualmente arrivato il sindaco Alemanno. Basta con le occupazioni e con l'illegalità è la parola d'ordine. Quindici giorni fa sono stati sgomberati cinquecento senza tetto che abitavano l'ex ospedale oncologico della capitale. Un luogo fino a ieri di dolore dava un tetto a gente civile. Avrebbero dovuto essere premiati, sono stati invece sgomberati con la forza. Anche l'edificio pubblico di via Salaria, altra pacifica occupazione a nord della città, è stato chiuso con la forza.
Ma visti i due proprietari dei due giornali, viene voglia di alimentare la campagna contro l'illegalità anche da queste colonne. Francesco Gaetano Caltagirone e Domenico Bonifaci sono infatti tra i principali protagonisti delle vicende dell'urbanistica romana che più di qualche ombra ha proiettato in questi anni.
Solo case private
Le forze dell'ordine potrebbero, con identica solerzia dimostrata in questi giorni, sequestrare all'alba le carte presso il comune di Roma e la regione Lazio per vedere per quale motivo pur essendo vigente una legge che obbliga a destinare almeno il 40% delle abitazioni da costruire ad edilizia pubblica, in questi anni siano state costruite solo case private. È obbligo costituzionale rimuovere le cause delle disuguaglianze sociali. Il diritto alla casa per primo. Perché, dunque, questa civile esigenza non è stata adempiuta?
Il problema vero, a Roma come in tutta Italia, è che mancano case per famiglie a basso reddito. E questa gigantesca sfida non si risolve con le forze dell'ordine. Si risolve finanziando l'edilizia pubblica, come si fa in tutti i paesi dell'Europa occidentale. Si risolve utilizzando al meglio l'immenso patrimonio pubblico che in questi anni è stato svenduto (svenduto) a pochi immobiliaristi privati che hanno fatto immense fortune.
La Regione cambia le regole
In questi stessi giorni la regione Lazio e il comune di Roma hanno deciso di rendere edificabili 150 (centocinquanta) ettari di agro romano per realizzarvi il nuovo stadio della Roma. Il piano regolatore di Roma è in vigore da soli due mesi essendo stato sottoposto al vaglio del Consiglio di Stato. La Regione è l'istituzione che deve vigilare sul rispetto di quel piano che ha valore di legge. Invece di farlo si mette a cambiare le regole. Non è questa una palese fattispecie di illegalità?
Per uno strano strabismo, sia Il Messaggero che Il Tempo non hanno chiesto ai carabinieri di andare negli uffici di via del Giorgione e sequestrare le carte per verificare quali siano gli interessi pubblici che hanno portato a questa decisione e se non ci fossero altre zone nel Prg su cui realizzare il nuovo stadio. Al contrario hanno entusiasticamente accolto la notizia. E si capisce: verranno costruiti oltre 300.000 metri cubi di edifici: un'area che valeva al massimo 30 milioni di euro ne vale oggi oltre 150! È illegale soltanto occupare edifici pubblici abbandonati o c'è anche qualche altro capitolo da aprire?
Ma oltre ad una vergognosa insensibilità sociale, i veri motivi di tanto accanimento sono anche altri. Nella scuola della Magliana l'occupazione ha fin qui impedito che si realizzasse un'assurda speculazione. Attraverso la società Sviluppo Italia (altro «gioiello» di rigore), infatti, si voleva mettere le mani sull'edificio, crearvi un grande parcheggio e una funivia per portare le persone all'Eur, manco fossimo a Cortina. 12 milioni di euro buttati al vento senza risolvere alcun problema del difficile quartiere.
Perché fanno paura
Il secondo motivo è che la Regione Lazio ha approvato una legge sul «piano casa» che, pur con molti gravi errori, sceglie almeno la strada pubblicistica e tenta di finanziare l'edilizia sociale. Il terzo motivo è che in queste settimane si stanno raccogliendo le firme su una proposta di legge «sul diritto all'abitare», promossa da comitati di cittadini, sindacati di categoria e movimenti di lotta per la casa.
La rabbia dei due giornali nasconde la preoccupazione che si sia incrinato nell'opinione pubblica e nella città l'acritica accettazione della favola che i problemi urbani li risolvono gli speculatori.
Ci sono ormai troppe persone che affermano che le città sono beni comuni e devono essere guidate dalla mano pubblica. È questo che fa paura.
Comune di Milano nel mirino Ligresti chiede il commissario
di Alessia Gallione
MILANO - È una dichiarazione di guerra quella lanciata da Salvatore Ligresti a Milano. E la partita, ancora una volta, è l´urbanistica. Tre società (due controllate, Imco spa e Altair spa; una terza riconducibile, Zero società di gestione del risparmio) legate al gruppo del costruttore hanno presentato alla Provincia una richiesta di commissariamento ad acta del Comune per sbloccare altrettanti progetti edilizi, che risalgono agli anni Ottanta. Tre piani che prevedono soprattutto nuove case, ma che rappresentano soltanto una parte del risiko del mattone pronto a essere giocato nei prossimi anni. Perché la battaglia sembra più grande di quelle aree. E perché quello che, ufficialmente, può essere letto come un atto amministrativo, ha il sapore di uno scontro di poteri. Presentato ora: alla vigilia dell´approvazione da parte della giunta di Letizia Moratti del Piano di governo del territorio, il nuovo libro-mastro della città che manderà in pensione il vecchio piano regolatore e che rivoluzionerà non solo 31 grandi aree di Milano che coprono più di 12 milioni di metri quadrati, ma anche il sistema di regole dell´urbanistica. Regole che, ha sempre sostenuto l´assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli, dovranno partire dall´interesse pubblico.
Il progetto più contestato dai comitati cittadini è quello di via Natta, una zona vicina al polmone verde dell´ippodromo e dello stadio di San Siro, al centro di una direttrice che conduce ai padiglioni di Expo. Qui dovrebbero nascere due palazzi troppo alti per il contesto. E qui, il Comune ha chiesto che le volumetrie non venissero concentrate in un solo luogo, ma distribuite anche nelle vicinanze. Diritti edificatori vengono reclamati anche a Bruzzano, a Nord del capoluogo, e in via Macconago, a due passi dal parco agricolo Sud e da un altro intervento strategico come il Cerba, il Centro europeo per la ricerca biomedica avanzata di Umberto Veronesi. Tre disegni su cui Palazzo Marino avrebbe continuato a trattare. Eppure qualcosa deve essere cambiato per spingere il gruppo Ligresti a pretendere adesso che un commissario sblocchi la situazione.
Ufficialmente il gruppo Ligresti non commenta, preferendo attendere che la procedura faccia il proprio corso. Tecnicamente nel documento spedito alla Provincia si fa riferimento all´articolo 14 della legge 12, approvata dalla Regione nel 2005 sul governo del territorio. Con questa norma ogni costruttore, di fronte all´inerzia del Comune su un piano attuativo o su una variante, sentendosi in qualche modo danneggiato può chiedere a un altro ente (Regione o Provincia) la nomina di un commissario ad acta per risolvere la pratica. Ma la risposta che arriverà (entro 30 giorni) non sarà solo tecnica. Sarà politica e racconterà molto della Milano del 2030.
Così il "partito del mattone" mette all´angolo la Moratti
di Rodolfo Sala
MILANO - Sono mesi che l´ingegner Ligresti bussa al portone di Arcore. Aveva provato prima con il sindaco Letizia Moratti, il direttore generale di Palazzo Marino, l´assessore al Territorio. La richiesta è sempre quella: sbloccare progetti urbanistici ai quali sono interessate tre società del suo gruppo, progetti fermi dagli anni Ottanta. La Moratti è stata irremovibile: non si può, non si deve, per costruire su quelle aree di proprietà di Ligresti bisogna prima fare un «progetto strutturale», perché le ragioni del vecchio blocco ai diritti edificatori rimangono tutte. «È una questione di principio», si è intestardito il sindaco, a conferma ulteriore delle voci sempre frequenti che danno in caduta libera i suoi rapporti con Ligresti, tessera numero uno del partito del mattone a Milano.
Si è messa di traverso lei, non tanto l´assessore al Territorio Carlo Masseroli, esponente della lobby ciellina che nel mattone vede soprattutto la possibilità di espandersi, e non solo a Milano, nel business dell´housing sociale: case in affitto per giovani coppie e studenti, da tirar su - è il caso della torre di legno che sorgerà nel 2011 alla Bicocca, da 280 a 450 euro la locazione mensile - in una città dove si pensa solo a costruire per poi vendere. E grazie, particolare non trascurabile, ai buoni uffici del Comune, che a quel progetto denominato «Social main street» ha contribuito cedendo gratis le aree alle cooperative edilizia della Cdo, ma anche a quelle della centrale rossa.
È un business che a Ligresti non interessa, nella richiesta avanzata dal suo gruppo alla Provincia (commissariare l´urbanistica milanese in nome del diritto negato a costruire) l´obiettivo vero, prima ancora dei concorrenti effettivi e anche solo potenziali, è Letizia Moratti. È lei l´ostacolo da rimuovere, è per questo che l´ingegnere si è rivolto direttamente a Berlusconi, forte dei vecchi legami politico-imprenditoriali consolidatisi tra i due nel corso degli ultimi vent´anni. Tra l´altro, il recente ridimensionamento dell´Expo (si costruisce molto meno rispetto al progetto originario) ha messo in allarme il partito milanese del mattone. È un ridimensionamento che il sindaco ha salutato con grande favore, e che Ligresti - uno dei dominus delle aree su cui sorgerà l´Esposizione del 2015 - non deve certo aver accolto bene.
Il Cavaliere - come fa sempre - ha ascoltato, preso nota, promesso di interessarsi alla vicenda: nella capitale del berlusconismo don Salvatore non è uno qualunque. Il passo successivo è stato un contatto diretto con la Moratti, da lui investita nel ruolo di sindaco quando lei faceva il ministro dell´Istruzione nel suo penultimo governo. Ma neppure il pressing del premier ha dato uno straccio di risultato. Un problema in più per l´uomo di Arcore, già parecchio insoddisfatto di come il suo ex ministro sta gestendo il Comune di Milano: dall´Ecopass (la tassa d´ingresso sugli automobilisti) alla pulizia della città, tanto per stare a due argomenti sui quali Berlusconi non ha mancato d´intervenire, più di una volta e in modo molto critico. Ci sono anche problemi grossi tra il sindaco e il suo ex collega Tremonti, culminati in liti furibonde sulla vicenda Alitalia e sui finanziamenti per l´Expo. E poi ci sono certi sondaggi che il Cavaliere negli ultimi mesi si è messo a compulsare in modo frenetico: Letizia cala in modo vistoso nel gradimento dei milanesi, e alla corte di re Silvio si moltiplicano i rumors che non danno più così certa la sua ricandidatura nel 2011, quando scadrà il primo mandato.
La guerra dichiarata da Ligresti alla Moratti, la pratica di commissariamento dell´urbanistica milanese già consegnata al nuovo presidente della Provincia Guido Podestà (lui sì in ottimi rapporti con l´ingegnere) e soprattutto il grande fastidio del premier ridanno fiato a quelle voci, e contribuiscono a indebolire ulteriormente l´immagine del sindaco. Tra i due vasi di ferro impersonati da Berlusconi e Ligresti, lei appare sempre più come un vaso di coccio. A forte rischio di sgretolamento. Di questa debolezza il costruttore vuole approfittare: non foss´altro, come insinua il consigliere di opposizione Basilio Rizzo, che per ottenere il via libera alle ruspe non già nelle tre aree bloccate, ma altrove e per il futuro. «Come quegli allenatori - dice Rizzo - che parlano male degli arbitri a prescindere, sperando di essere aiutati nella partita successiva».
Tanto tuonò che piovve: dopo le ripetute scampanellate di Giorgio Napolitano e le incursioni polemiche di Ernesto Galli della Loggia e di altri storici, sembra proprio che la mongolfiera delle celebrazioni per il l5oesimo anniversario dell'Unità d'Italia (2011) stia finalmente per mollare gli ormeggi e sollevarsi da terra. Mercoledì prossimo, i6 settembre, si riunisce il Comitato dei garanti presieduto da Carlo Azeglio Ciampi per discutere le proposte di Sandro Bondi, cui il presidente del consiglio ha affidato il timone. Il testo del documento è pronto e già circola tra gli addetti ai lavori. Il ministro dei Beni culturali parte da una domanda di fondo: «Che cosa è l'Italia per noi?». «Credo che ilnostro governo si risponde Bondi ha sempre pensato alle molte Italie, perché la caratteristica principale del nostro paese è di avere storie diverse.
E sono queste storie che hanno prodotto il patrimonio culturale di cui l'Italia è oggi orgogliosa» Le proposte del ministro hanno dunque di mira un obiettivo essenziale: «Valorizzare l'Italia delle città, dare valore alle differenze in chiave federale, e questo nel rigoroso rispetto dell'unità e dell'autorità dello Stato nazionale, che solo può dare al nostro Paese un ruolo in Europa e nel mondo e garantire l'eguale tutela dei cittadini e la valorizzazione della cittadinanza». Commemorare l'unità esaltando la diversità: l'ossimoro tradisce la preoccupazione di non riacutizzare i mali di pancia antistatalisti della Lega, ma anche lo sforzo di rassicurare il Capo dello Stato, che ha più volte auspicato «progetti di carattere prevalentemente culturale, pedagogico e comunicativo, diretti a rappresentare e rafforzare la nostra identità nazionale», con la conseguente bocciatura della «celebrazione edilizia» messa in cantiere dal precedente governo di centro-sinistra. Tutto bene, dunque? Vediamo.
Tra le iniziative di carattere culturale proposte dal ministero, al primo posto troviamo i convegni dedicati alla «valorizzazione delle molte anime del Risorgimento... che non furono soltanto quella monarchica quella democratico-liberale... ma anche quella federalista (Cattaneo, Gioberti)». Gioberti? Qui non si sa se per fretta, superficialità o eccesso di zelo filo-Carroccio l'estensore del documento ha mescolato il diavolo con l'acqua santa, perché non si può mettere in uno stesso calderone il federalismo del laico Cattaneo, che guardava alla Svizzera e all'Europa futura, col neoguelfismo del pur benemerito Gioberti, che teneva l'occhio fisso ai domini pontifici e all'Italia degli staterelli preunitari. Si prevedono poi letture sui padri della patria, una grande mostra delle regioni, un approfondimento sul Mezzogiorno, un recupero dei luoghi della memoria tra cui la casa di Garibaldi a Caprera, un'antologia degli statuti comunali, concorsi nelle scuole su episodi, figure e luoghi rappresentativi dell'unificazione nazionale, cori scolastici con musiche operistiche («Va' pensiero»?) legate all'epopea del Risorgimento.
Ma le proposte più singolari riguardano la nascita di un centro per lo studio delle catastrofi naturali all'Aquila (definita ombelico d'Italia), del quale francamente è difficile cogliere il nesso con il centocinquantenario dell'unità, una «banca dati delle lapidi commemorative» e annessa «caccia alla lapide» da parte delle scolaresche e soprattutto un «censimento dei dizionari dialettali», che negli intenti dei funzionari ministeriali «fotograferebbe la variegata realtà linguistica del dopo Unità e risponderebbe anche ad una esigenza avvertita». Avvertita da chi? Provate a indovinare... A parte il fatto che per censire i dizionari dialettali basta consultare online la biblioteca nazionale di Firenze, non sarebbe più urgente e importante ricostruire gli sforzi fatti e i risultati ottenuti in questo secolo e mezzo per alfabetizzare gli italiani e unificare il paese sul piano linguistico?
E come si può ignorare, nel quadro delle celebrazioni, un fenomeno come le migrazioni interne, che hanno portato al Nord soltanto negli ultimi dieci anni ben sette-centomila meridionali (per lo più diplomati e laureati)? È legittimo il timore che, per compiacere un partito della coalizione a forte vocazione regionalistica, si mettano in risalto più le cose che ci dividono che non quelle che ci uniscono. Dopotutto, se l'Italia ha conquistato un suo posto di rilievo tra le nazioni più progredite del mondo lo deve agli uomini e alle donne (settentrionali e meridionali) che hanno fatto il Risorgimento, costruito lo Stato unitario, che hanno combattuto e sono morti nelle guerre di indipendenza, nelle due guerre mondiali, nella resistenza, e poi a tutti quelli che, dal 1945 in poi, sono stati artefici della rinascita democratica e della ricostruzione economica. Vogliamo ricordare degnamente tutti questi eroi grandi e piccoli, o ci accontentiamo di dare la caccia alle lapidi? Nel suo promemoria, il ministro Bondi precisa saggiamente che «tutte le iniziative saranno sottoposte al Comitato dei garanti affinché possa esprimere la propria valutazione». Valutate, signori garanti, valutate bene.
Domani a Roma ci sarà la notte bianca. Notizia di per sé trascurabile, se non fosse che l'avvenimento provochi nel sindaco Alemanno un moto di acuta irritazione. Non foss'altro perché, abolire quella che nel passato era stata la fastosa vetrina di chi l'aveva preceduto, era stato il primo provvedimento del suo mandato. E dunque il fatto che, nonostante i suoi proclami, in alcuni Municipi si perseveri in questa per lui malsana attività, incrina sensibilmente la sua alquanto traballante autorevolezza.
Che il sindaco non sia contento, dipende poi anche dalla sottolineatura politica che le iniziative di sabato notte contengono.
Tutte rivolte a contrastare l'atmosfera incattivita che si è diffusa in città, con le aggressioni agli stranieri, alle donne, agli omosessuali e più in generale con l'affiorare di squadracce di farabutti che si sentono autorizzati a spargere lacrime e sangue in ogni angolo di città. «Più cultura meno paura» è il titolo della notte bianca del X Municipio, quello di Cinecittà, che poi è la più estesa e articolata negli eventi e negli spettacoli. Tra i quali, non casualmente, è previsto nel suggestivo spazio delle Officine Marconi un white party di Muccassassina, organizzato dal Circolo di cultura omosessuale «Mario Mieli».
Il senso originario
Offrire un'occasione per vivere le piazze tutti insieme, tra un sorriso e un applauso, in fondo, è il senso originario di questa manifestazione, che nel passato, con il suo gigantismo tutto concentrato nella città storica, era stato progressivamente disperso. Non più costringere le periferie a raggiungere gli eventi in centro, ma organizzare gli eventi nelle periferie stesse, permettendo così una partecipazione più autentica e coinvolgente: una riappropriazione sociale di spazi e luoghi consueti, per una volta accesi e splendenti, un antidoto alle diffidenze e ai rancori che animano (e turbano) i sentimenti popolari. E a Roma proprio di tutto ciò c'è bisogno. Di una nuova politica culturale che dia un impulso coraggioso, uno slancio generoso nei quartieri di bordo, proprio laddove è necessario ricreare coesione sociale, senso di appartenenza, il conforto insomma di sentirsi comunità: che poi non è altro che riattivare la relazione sociale.
E una delle (tante) cose che la sinistra non capisce più è che la politica è proprio (soprattutto) relazione sociale: quel misurarsi concretamente con le pulsioni che agitano le persone. Soprattutto quando tali sentimenti appaiono difformi, se non opposti, al proprio sentire. Ci si ritrae, un po' infastiditi e spesso anche avviliti, se il confronto con il senso comune prevalente rimanda ostilità e rifiuto verso il proprio modo di essere e di pensare. Se ne capiscono anche le ragioni, politiche e culturali. Ma, ugualmente, di fronte a chi dice che la sinistra fa schifo, che il sindacato è inutile e che insomma è meglio vivere di ronde e veline piuttosto che pagare le tasse e mischiarsi con romeni e senegalesi, il riflesso è quello di offesa estraneità e la conseguenza è quella di uscire di scena. Consolandosi con qualche improperio contro Berlusconi e Bossi che hanno narcotizzato le coscienze e monopolizzato il consenso.
A che serve questa tiepida lezioncina? A confermare uno dei tanti vizi che a sinistra sembrano ineliminabili, e cioè che basta raccontarsela in una qualche forma analitica per spegnere le proprie dolorose inquietudini? Ma no, non è così, non è soltanto così. È anche per provare a superare questa crescente catatonia politica, che ci ha un po' contagiato tutti. Del resto, ritrovarsi a sinistra isolati e minoritari, nel passato ha avuto perfino risvolti tragici: è insomma successo tante volte e tante volte succederà ancora.
E quindi chiedersi cosa fare, come fare e soprattutto perché fare, continua ad avere un senso e molte ragioni.
Tra i vari luoghi comuni che ci diciamo, più per malinconia che per disappunto, è che la destra ha vinto prima sul terreno culturale e poi sul versante politico. Aggiungendo subito dopo che l'uso spregiudicato della televisione commerciale è stato lo strumento principale attraverso cui si è consumata la storica sconfitta dell'egemonia culturale della sinistra e determinata una progressiva passivizzazione sociale. Vero. Ma ciò che non si coglie (non si vuol cogliere) è che il successo di tale formula ha a che fare più con l'irruzione dei nuovi linguaggi culturali, con lo sviluppo tecnologico dei mezzi di comunicazione, che non con un destino avverso e malvagio. E la formuletta struttura/sovrastruttura (che oggi potremmo sintetizzare economia/cultura) non è più così scientificamente certa, e aiuta solo in parte a spiegare cosa sia successo lungo il transito da un secolo all'altro; un passaggio gestito da un capitale sempre meno manifatturiero e sempre più rarefatto, e forse proprio per questo attrezzato, oltreché abile, a comporre intorno a sé modelli sociali e contenuti simbolici.
È passato quasi un secolo da Benjamin (e mezzo secolo da Wharol) e stiamo ancora qui a stupirci se l'immaginario diffuso oggi si nutre in prevalenza di sottoprodotti culturali, se non di peggio. È stato inevitabile che la produzione artistica e culturale venisse riprodotta sempre più impoverita e sterilizzata, e poi veicolata da mezzi di comunicazione più immediati e più accessibili, che nel frattempo qualcuno s'era incaricato di accumulare. Fino a comporre un indistinto e promiscuo tessuto mediatico, dove tutto diventava uguale a tutto e tutto si teneva intorno a una regressiva ordinarietà. Disperdendo la qualità, indebolendo l'impatto: e pertanto formando un modello culturale modesto e soprattutto neutrale, che nel tempo è precipitato nella rinuncia a tutto ciò che alzava i toni, impegnava l'intelligenza, graffiava le coscienze, contrastava la stabilità emotiva, svelava l'inganno dell'auto-consolazione.
Al cuore della coscienza sociale
Ora, si può continuare ad agire la politica culturale rivendicando il proprio angoletto nel sottoportico della Rai, difendendo le postazioni ai vertici delle istituzioni culturali, rifugiandoci dietro la nobile produzione repertoriale e antologica, osando sempre meno sperimentazioni e innovazioni, chiedendo più finanziamenti per cinema, teatro, danza, ecc. E d'accordo, facciamolo pure. Ma l'impressione è che se non si torna a discutere, a ragionare, ad accapigliarsi perfino, nel cuore vivo della coscienza sociale, tra le persone in carne e ossa, non solo miglioreremmo solo di poco lo stato delle cose esistenti, ma non riusciremmo più ad afferrare quegli esili fili che ancora ci tengono legati ai cambiamenti sociali.
La sinistra non produce più immaginario. Appare stanca e anche un po' sgradevole. Ma certo se rinuncia a esprimersi dove farlo è più difficile, nelle piazze e per le vie, se non ha più la voglia e la forza di mettere su un palco e parlare con il linguaggio dell'espressività artistica, magari valorizzando quelle tante esperienze e soggettività che si agitano purtroppo invano nei territori e nelle metropoli, diventa francamente difficile sperare in una sua rinnovata capacità di attrazione politica e seduzione culturale.
Nel loro piccolo, le notti bianche dei Municipi romani non sono solo forme resistenziali o, peggio, retaggi nostalgici, ma contengono soprattutto un desiderio politico. Che speriamo venga raccolto. Arrivederci a domani.