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Al Presidente del Parlamento Europeo - “Petizione contro la legge della Regione Sardegna denominata”: Disposizioni straordinarie per il sostegno dell’economia mediante il rilancio del settore edilizio e per la promozione di interventi e programmi di valenza strategica per lo sviluppo”.

Premesso che con la legge 9 gennaio 2006, n. 14 avente per oggetto: “ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sul paesaggio, fatta a Firenze il 20 ottobre 2000” l’Italia ha assunto precisi impegni internazionali per l’attuazione di politiche di tutela dei beni paesaggistici insistenti sul proprio territorio e che con decreto legislativo 22 gennaio n. 42 e successive modifiche ed integrazioni denominato “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, si è inteso applicare su tutto il territorio nazionale una disciplina uniforme ed innovativa in materia di tutela del paesaggio in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione.

La Regione Sardegna in attuazione delle disposizioni contenute nella norma in premessa ha approvato in data 7 settembre 2006 (DPGR n.82), il Piano Paesaggistico Regionale attraverso le procedure previste dalla L.R. 25 novembre 2004 n.8 e così come espressamente previsto cal Codice Urbani ha sottoscritto specifica intesa con il Ministero del Beni Culturali attestante la piena conformità con la disciplina di cui all’articolo 143 del citato Codice dei beni culturali e paesaggistici.

A seguito dell’accordo Stato-Regioni del 1 aprile 2009 in materia di Piano Casa, la Regione Sardegna ha approvato in data 16 ottobre 2009 un provvedimento denominato: “disposizioni straordinarie per il sostegno dell’economia mediante il rilancio del settore edilizio e per la promozione di interventi e programmi di valenza strategica per lo sviluppo” nel quale si dispone in maniera del tutto arbitraria la soppressione delle norme di salvaguardia del Piano Paesaggistico in vigore con un processo e “de-pianificazione” in deroga che prevede aumenti volumetrici generalizzati dal 20 fino al 40 per cento dei volumi esistenti anche in aree sottoposte a regime di tutela integrale o differenziata in base all’articolo 142 del Codice (aree tutelate per legge), nonché in aree sottoposte a vincolo idrogeologico.

Poiché come affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 51 del 2006 è il legislatore statale a conservare il potere di vincolare la potestà legislativa primaria della Regione speciale attraverso l’emanazione di leggi qualificabili come riforme economico-sociali” e che a fronte della vigenza del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio che informa le norme della disciplina paesaggistica della Sardegna, non risultano operanti altri indirizzi del legislatore statale che autorizzino disposizioni in deroga a quelle espressamente in vigore.

Evidenziato che per specifica disposizione del Codice e per le finalità in esso contenute le previsioni dei piani paesaggistici non sono derogabili da parte di piano, programmi e progetti nazionali e regionali di sviluppo economico” (comma 3 articolo 145 Decreto legislativo 26 marzo 2008 n. 63), e che per svariati ulteriori motivi la legge della Regione Sardegna appare in contrasto con le disposizioni del legislatore che attua un principio costituzionale di tutela del paesaggio in armonia con la Convenzione europea.

Considerato che l’eventuale applicazione sul territorio della Sardegna di dette norme regionali comporterebbe una grave ed irreversibile attività di depauperamento e devastazione del patrimonio paesaggistico tutelato dal Piano attraverso la liberalizzazione di svariate lottizzazioni in fascia costiera per volumi valutabili in circa 6 milioni di metri cubi e che le stesse norme regionali appaiono del tutto in contrasto sia con le norme statali che con quelle regionali di attuazione del Codice del Beni culturali e del Paesaggio.

Considerato che il Piano Paesaggistico adottata dalla Regione Sardegna ha avuto il pregio, riconosciuto da importanti organismi competenti, di arrestare la cementificazione delle coste e del paesaggio costiero della nostra regione e di promuovere, attraverso la costituzione di tutti i centri storici delle quali beni paesaggistici, una concreta politica di valorizzazione del patrimonio identitario, culturale ed architettonico dei nostri centri urbani.

Si chiede un pronunciamento del Parlamento europeo in ordine alle alle evidenti violazioni delle norme comunitarie e agli impegni assunti dall’Italia rispetto alla Comunità Europea in tema di tutela dell’ambiente e del paesaggio, contenute nella legge della Regione Sardegna denominata: ”:Disposizioni straordinarie per il sostegno dell’economia mediante il rilancio del settore edilizio e per la promozione di interventi e programmi di valenza strategica per lo sviluppo”,anche per la mancata individuazione, con legge dello Stato, di principi fondamentali in questo ambito.

Si chiede, altresì, l’intervento dei competenti Comitati di esperti già costituiti ai sensi dell’articolo 17 dello Statuto del Consiglio d’Europa incaricati dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del controllo dell’applicazione della Convenzione Europea del Paesaggio.

L’articolo 5 della stessa Convenzione Europea impegna gli Stati membri a riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione delle diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità; poiché la Convenzione chiede agli Stati aderenti di stabilire e attuare politiche paesaggistiche volte alla salvaguardia, alla gestione e alla pianificazione dei paesaggi tramite l’adozione delle misure specifiche di cui all’articolo 6 e dunque di integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle politiche che possono avere un’incidenza diretta o indiretta sul paesaggio la presente petizione sottoscritta anche a nome e per conto di innumerevoli cittadini della Sardegna chiede una espressione degli organi del Parlamento Europeo sulle politiche del territorio che si avviano in Sardegna a causa di tali norme.

f.to: Gianvalerio Sanna – Renato Soru

Bilancio coi buchi e finanza tossica

Un viaggio in più puntate nella bolla milanese che deve ancora scoppiare: dal bilancio del Comune, ai derivati e al contesto di nuova bolla finanziaria che incombe a livello internazionale, per passare poi ai grandi progetti edilizi in crisi, agli intrecci finanza-mattone e alle bolle prossime e venture del cemento e degli aeroporti.

Milano, inverno 2010/2011: vaste aree della città, da Porta Garibaldi fino alla Fiera e alle aree periferiche, sono cantieri lasciati a metà e abbandonati al completo degrado. Il Comune, dopo la seconda ondata dello scoppio della bolla finanziaria e immobiliare, è rimasto praticamente senza fondi, ma in compenso ha debiti per centinaia di milioni di euro in seguito alla ennesima virata in negativo dei derivati di Albertini. Le banche della città, dopo decine di scambi “azioni a fronte del debito” per svariati miliardi con immobiliari fallimentari sono sprofondate in una voragine di passivi e sono quasi tutte chiuse. Dopo i nuovi tagli apportati dalla Gelmini-bis gli studenti vanno a scuola in classi di 100 alunni ciascuna per due ore al giorno nei soli mesi estivi (non ci sono fondi né per gli insegnanti né per il riscaldamento invernale). Nell’hinterland milanese non c’è ormai più una fabbrica aperta, ma politici e giornali riassicurano: anche questa volta il peggio della crisi è ormai passato. Per la città intanto si aggirano centinaia di camice verdi volontarie: la Lega le ha messe a disposizione dei propri colleghi di governo per proteggere i punti nevralgici del potere politico ed economico dalla rabbia dei cittadini diventati tutti, in base a un decreto padano, dei clandestini. Il sindaco da parte sua ribadisce che l’Expo 2015 si farà e stanzia gli ultimi 100.000 euro in contanti disponibili nelle casse comunali per un maxiconvegno intitolato: “Expo 2015: quali nuove scuse inventarci per produrre la prossima bolla?”… Fantascienza? Sì, ma non poi così irreale come potrebbe sembrare a prima vista. Gli ultimi sviluppi milanesi, e non solo quelli, vanno in una direzione che potrebbe avere esiti non poi così differenti da quelli dipinti sopra.

Cominciamo dal bilancio del comune e dalla bolla finanziaria che in alcuni punti è sull’orlo dello scoppio, in altri viene nuovamente gonfiata. Bilancio: da mesi alcune delle maggiori voci di entrata di Palazzo Marino, e più segnatamente gli oneri di urbanizzazione e gli introiti sulla pubblicità, stanno registrando forti cali, ai quali vanno ad aggiungersi gli effetti sulle casse del Comune della cancellazione della voce di entrata dell’Ici sulla prima casa, voluta dal governo Berlusconi. A luglio è stata messa a punto una prima manovra per tagliare circa 30 milioni dal bilancio comunale 2010. Ma in questi giorni sono arrivate notizie pesanti come macigni per il bilancio da approvare prima della fine di quest’anno. L’Ue ha comminato all’Italia una pesante multa, diventata definitiva, per le agevolazioni fiscali concesse alle ex aziende municipalizzate nei primi tre anni successivi alla loro privatizzazione. Ora le ex municipalizzate dovranno restituire le somme così accumulate in violazione delle normative europee. In particolare la A2A, società controllata dai Comuni di Milano e Brescia, dovrà restituire ben 200 milioni di euro e di conseguenza non sarà in grado di versare alle due municipalità i dividendi previsti. Il Comune di Milano dovrà pertanto tagliare dal bilancio gli 80 milioni di dividendi A2A previsti, una cifra enorme. E a ciò va aggiunto che quasi sicuramente il Comune non otterrà dividendi, a differenza degli anni passati, nemmeno dalla Sea, società di gestione aeroportuale gravemente colpita nei suoi conti dalla crisi di Malpensa. A queste cifre già da capogiro vanno poi ad aggiungersi i 18 milioni di buco della società comunale Zincar, gestita allegramente in assenza di controlli adeguati da parte di Palazzo Marino. Ma non è tutto, alcuni giorni fa è arrivata un’altra notizia pesantissima. Il governo centrale chiede al Comune di Milano di effettuare 380 milioni di tagli al bilancio nel triennio 2009-2011 per rispettare il patto di stabilità nazionale, una cifra enorme, tanto più se sommata agli altri buchi di bilancio. Il tutto si tradurrà inevitabilmente in drastici tagli ai servizi e agli investimenti: dopo anni di privatizzazioni e finanza allegra volute da loro e dai loro amici capitalisti, è un po’ come se gli amministratori ci stessero cantando in coro uno slogan popolare, ma di significato opposto, degli anni ‘70, “pagherete caro, pagherete tutto”. E stiamo già pagando cara anche l’Expo, nonostante finora non sia stato fatto nulla di nulla, a parte le operazioni di immagine, per l’evento previsto per il 2015. L’amministratore delegato di Expo 2015 S.p.A., Lucio Stanca (circa 450.000 euro/anno tra stipendio e bonus), a fine 2009 ha annunciato che la società avrà già un passivo di 11,6 milioni di euro e ha chiesto a Comune e Podestà di rimpinguarne subito le casse con 7,2 milioni di euro. Il secondo nicchia, il primo si dimostra subito disponibile. Dall’opposizione qualcuno fa osservare che magari Stanca potrebbe anche spiegare come sono stati spesi quei milioni. Ma è una domanda retorica: è noto a tutti che le lotte intestine per accaparrarsi poltrone costano sempre care ai cittadini. Che anche questa volta pagheranno caro, pagheranno tutto.

Al quadro generale vanno poi aggiunti i derivati del Comune e della Regione (si vedano in merito i nostri articoli Derivati e bilancio: le mani della finanza creativa su Milano e L’allegra Milano della bolla), riguardo ai quali non vi sono da registrare recenti novità, anche se le indagini della magistratura proseguono, ma che continuano a pendere su Milano e la regione come una pesantissima spada di Damocle fatta di centinaia di milioni di finanza tossica. A proposito di derivati va osservato che a livello internazionale si sta sempre più chiaramente profilando la formazione di una nuova bolla finanziaria, che va ad accavallarsi con quella precedente, ancora per la massima parte non smaltita. Milano, in quanto principale centro finanziario italiano, ne è pienamente coinvolta. All’argomento hanno dedicato una serie di articoli i quotidiani La Stampa e il Corriere della Sera. Nell’articolo pubblicato il 5 ottobre dalla Stampa, gli autori Luca Fornovo e Gianluca Paolucci rilevano che nel solo scorso mese di luglio le cartolarizzazioni a livello globale sono state di 49 miliardi di euro, contro i 54 miliardi del luglio 2008 (poco prima del crac Lehman) e i 51 miliardi del 2007 (alla vigilia della crisi dei subprime). Stanno riprendendo anche le emissioni dei tossicissimi Abs (asset backed securities, titoli garantiti da prestiti), come testimoniato dalle recenti emissioni miliardarie di Volkswagen, Tesco e Lloyds. Rincara la dose Federico Fubini sul Corriere della Sera: “già quadruplicato fra il 2003 e il 2008, il valore nominale dei derivati esistenti ha continuato a crescere dalla seconda metà del 2008 alla prima metà del 2009. I più diffusi, quelli sui tassi d’interesse, sono passati da un valore nominale di 403 mila miliardi nella seconda metà del 2008 a 414 mila miliardi alla fine di giugno del 2009. I “cds” [credit default swap] sono la sola classe di derivati in calo sul 2009, ma a un valore nominale di 31.223 miliardi di dollari (circa la metà del prodotto lordo della Terra). A metà 2009 l’ammontare totale dichiarato del nominale su derivati esistenti era a 445.312 mila miliardi di dollari, più o meno nove volte più del Pil del mondo (dopo essere sceso appena solo nella seconda metà del 2008). A copertura dai rischi sul petrolio, sui tassi o sulle valute, i derivati Otc vengono usati dal 94% delle imprese dell’indice Fortune 500, le più grandi del mondo in tutti i settori”. Gli Otc (over the counter) sono titoli “creati e venduti bilateralmente fra privati senza passare per una Borsa e i suoi strumenti di regolamento e compensazione delle transazioni”. Per questo nessuno in realtà sa quanti siano i derivati Otc in circolazione. E in fatto di cartolarizzazioni le banche italiane non rimangono indietro: nell’ultimo anno e fino a oggi hanno cartolarizzato poco meno di 100 miliardi di euro di mutui e altri crediti, con Unicredit (oltre 27 miliardi) e Intesa Sanpaolo (oltre 24 miliardi) in prima fila. Gli autori dell’articolo della Stampa così spiegano le caratteristiche che hanno oggi queste operazioni: “Prima i titoli emessi venivano venduti ad investitori istituzionali, che a loro volta li rimpacchettavano e li rivendevano in altre forme, all’infinito, con i risultati che abbiamo visto. Adesso è la banca stessa che li riacquista, per darli in garanzia alla Bce a fronte di nuova liquidità. [...] Nel momento in cui la Bce interrompesse il meccanismo, o questi titoli vanno sul mercato, agli investitori istituzionali, oppure ci sarà una nuova crisi di liquidità”. Oltretutto, “nessun può impedire che gli investitori istituzionali ‘reimpacchettino’ all’infinito quei mutui fino a ricreare i meccanismi che hanno portato alla moltiplicazione di liquidità non sostenuta dai depositi che ha messo in ginocchio la finanza”. Qualcuno osserva che i titoli emessi ora hanno un “rating elevato”, ma va sottolineato che da una parte anche in passato era così e che nulla è stato cambiato nei meccanismi, dimostratisi inefficaci, del rating e che dall’altra, come nota Elio Lannutti, dell’associazione dei consumatori Adusbef, “con la crisi che c’è parlare di prestiti di buona qualità appare un paradosso”. Ma arrivano a dare cedole anche dell’8%: l’importante è incassare ora senza curarsi della bolla che scoppierà, la stessa filosofia che ha portato alla crisi attuale.

Che l’attuale apparente “ripresina” sia pericolosamente gonfiata lo testimonia anche quanto constata ancora il Corriere della Sera: “continuano a crescere le insolvenze sui prestiti immobiliari, su quelli alle imprese e ai consumatori Usa, ma Jp Morgan ha appena dichiarato un utile netto sul trimestre di 3,6 miliardi di dollari: sette volte e mezzo più di un anno fa”. L’euforia attuale per quella che erroneamente viene interpretata come un’inversione di tendenza, viene smentita, oltre che da quanto abbiamo riferito sopra, anche da altri dati inquietanti: “giovedì scorso nella trimestrale di Citi sono spuntati otto miliardi di perdite sul credito. Venerdì Bank of America ha aggiunto 11 miliardi di cuscinetto contro svalutazioni future”. E secondo il Fondo Monetario Internazionale “il processo di riconoscimento delle perdite sul credito e sui titoli cartolarizzati non è ancora neanche a metà: secondo il Fondo le svalutazioni già effettuate dagli istituti sono di 1.300 miliardi di dollari, ma quelle da portare alla luce arriverebbero a 1.500″ e in due anni di crisi gli Usa hanno coperto appena il 60% del percorso, mentre l’Europa è messa addirittura molto peggio, con solo il 40%. Anche a livello italiano ci sono segnali preoccupanti. Come segnala La Stampa il 17 ottobre: “mercoledì scorso [14 ottobre] due emissioni del gruppo bancario Unicredit sono state messe ’sotto osservazione’ da parte di Moody’s, mentre erano già state declassate in maggio da Standard & Poor’s”. Se finora le cartolarizzazioni italiane hanno tenuto, ci sono però oggi segnali di un preoccupante rapido deterioramento. Per esempio, per una emissione da 1,68 miliardi di euro dell’ex Banca di Roma su immobili principalmente di Milano e Roma il tasso di default (insolvenza) è passato dallo 0,62% del gennaio 2008 al 2,74% di fine anno, per salire al 3,20% nel primo trimestre di quest’anno e al 3,4% a luglio. A fronte di questo rapido crescere del tasso d’insolvenza c’è un’altrettanto preoccupante riduzione del fondo di garanzia, che serve a coprire i mancati pagamenti, calato a 12,2 milioni rispetto ai 37,2 del suo target. Per tornare alla bolla globale, invece, va registrato il caso della Cina, la cui ripresa artificialmente gonfiata è in larga parte alla base dei piccoli segni di miglioramento, o piuttosto di freno della caduta, registrati negli ultimissimi mesi dall’economia globale. Il Sole 24 Ore del 16 ottobre richiama l’attenzione sul fatto che nei primi nove mesi dell’anno le banche cinesi hanno messo in circolazione la cifra astronomica di 1.270 miliardi di dollari, “finiti in larga parte sui listini azionari e sul mercato immobiliare gonfiandone le quotazioni”. Il settore immobiliare assorbe ormai il 20% degli investimenti interni del paese e le vendite di case nei primi nove mesi hanno fatto registrare un balzo enorme del 73,4%, con un aumento dei prezzi dell’11% su base annua. Tutti sintomi identici a quelli che hanno portato al recente e non ancora esaurito scoppio della bolla globale.

C’è un altro aspetto particolarmente preoccupante, quello delle crisi di aziende insolvibili, che vengono risolte mediante complessi piani che hanno come esito quello di uno scambio dei debiti con una partecipazione azionaria da parte delle banche creditrici (lo abbiamo già visto nel caso Risanamento in L’allegra Milano della bolla) o l’emissione di maxiprestiti obbligazionari per coprire i debiti in scadenza (cioè apertura di nuovi debiti per coprire vecchi debiti in presenza di una situazione di insolvenza!). In entrambi i casi si ha un ulteriore e ingente invischiamento diretto delle grandi banche in situazioni sull’orlo del crack, con il conseguente aumento del rischio complessivo per il sistema finanziario. Vale la pena di citare a tale proposito il caso di Telco, la società “cassaforte” che controlla il 24,5% di Telecom Italia e che entro tre mesi dovrà restituire 2,6 miliardi di euro di debiti. Ad aprile Telco ha chiuso i conti con 1,66 miliardi di euro di perdita (anche in conseguenza della svalutazione della partecipazione in Telecom Italia) ed è stata costretta a coprirla abbattendo il capitale nonché azzerando le riserve patrimoniali, con la conseguenza che non dispone di risorse per rimborsare i 2,6 miliardi di euro di debiti. Per risolvere la situazione le strade (alternative al fallimento) sono due: o un costoso aumento di capitale, o l’emissione di un maxibond. Secondo il Corriere della Sera si starebbe optando per la seconda soluzione. Gli azionisti di Telco coinvolti nella più che complessa situazione sono due banche, Intesa e Mediobanca, un’assicuratrice, Generali, e due grandi aziende, Benetton e la spagnola Telefonica.

C’è poi un altro maxibond di cui è il caso di parlare, quello da 1 miliardo di dollari fatto sequestrare dalla magistratura milanese. Era stato emesso da una società inglese costituita appena il giorno prima dell’emissione stessa e dal capitale dichiarato di 50 miliardi di sterline, di cui però solo due versate (non due miliardi, ma due [2] sterline!). Una banca vera e “primaria” come il Credit Suisse lo aveva trasmesso a un’altra banca altrettanto vera, la Banca Mediolanum, e, come scrive il Corriere della Sera: “sarebbe potuto essere usato come robusta garanzia per ottenere dalle banche ingenti finanziamenti, o come sponda per negoziare altre operazioni”. Un altro sintomo di come la finanza tossica sia ancora viva e vegeta e trovi facili canali nel circuito bancario. E un episodio inquietante che va ad aggiungersi a quello misterioso del sequestro di obbligazioni per 131 miliardi di dollari (forse false, ma la vicenda non è ancora stata chiarita ed è oggetto di svariate teorie cospirazioniste) sequestrati a giugno a Chiasso a due giapponesi e a quello altrettanto misterioso del sequestro di bond americani per 180 miliardi di dollari sequestrato in agosto a Malpensa a due filippini, cifre in grado di provocare un terremoto nella finanza globale (si veda il relativo articolo del Corriere della Sera).

CityLife e la crisi del binomio finanza-mattone; Valutazioni sospette; I problemi finanziari di Pedemontana e quelli di Pirelli Re; I grattacieli portano sfiga

Un viaggio in più puntate nella bolla milanese che deve ancora scoppiare: dal bilancio del Comune, ai derivati e al contesto di nuova bolla finanziaria che incombe a livello internazionale, per passare poi ai grandi progetti edilizi in crisi, agli intrecci finanza-mattone e alle bolle prossime e venture del cemento e degli aeroporti.

DAL FLOP…

Doveva essere “il sogno nel cielo di Milano”, anche se a chi non è un cultore dell’architettura bollaiola faceva piuttosto pensare a un incubo avvolto dallo smog della città. Ma la Torre delle Arti, 24 piani di cemento per 96 metri di altezza, affiancati da due edifici più bassi, non si farà. Secondo i progetti originari doveva essere terminata entro il 2010 in via Principe Eugenio, una residenza di extralusso alla cui realizzazione avrebbero dovuto contribuire anche noti artisti, ma da dieci mesi il cantiere era fermo. E’ scoppiata la bolla e per il fondo immobiliare australiano Babcock & Brown, attualmente in amministrazione controllata (e “con rapporti molto stretti con il gruppo assicurativo Generali”, scrive Repubblica), i 70 milioni di euro di investimento sono evidentemente ormai senza prospettiva di rendita adeguata. Al posto dei 20.000 mq per 140 appartamenti di lusso che si intendeva vendere a 10.000 euro al mq per ora rimane solo un enorme buco. Si tratta del primo rilevante progetto immobiliare milanese che dà completamente forfait dopo lo scoppio della bolla ed è una pessima notizia per gli speculatori immobiliari, perché potrebbe essere un primo caso seguito da altri e ben peggiori naufragi. E i sintomi di uno stato di profonda malattia del settore sono davvero tanti e preoccupanti.

…AL CRACK?

Solo alcuni giorni dopo questo annuncio il Tribunale di Milano rimandava la decisione su un eventuale dichiarazione di fallimento per la Risanamento di Luigi Zunino (probabilmente verrà presa verso metà novembre). La fragilità dell’operazione di salvataggio prevista dalle banche (si veda per i dettagli L’allegra Milano della bolla) è testimoniata tra le altre cose da un nuovo sviluppo e più precisamente dal fatto che prima dell’ultima udienza queste ultime abbiano dovuto aggiungere al loro piano una nuova linea di credito di 76 milioni per i problemi dell’immobiliare milanese con l’Agenzia delle entrate. I pm hanno inoltre contestato che una quota non indifferente del valore dell’operazione di salvataggio delle banche andrebbe a finire in commissioni, parcelle, oneri vari, e non nelle casse della Risanamento. Da parte loro i legali delle banche vanno all’attacco con argomenti che paiono minacciosi: il fallimento della società costituirebbe il “dissesto più grave dopo Parmalat, con conseguenze gravissime in termini di costo sociale e sul comportamento delle istituzioni finanziarie chiamate a risolvere numerose le crisi di impresa”. Non hanno tutti i torti e lo testimonia indirettamente il fatto che nel giro di una sola settimana nuove nubi si sono addensate su Risanamento e Zunino. La Stampa il 24 ottobre rileva che il fisco ha contestato alla società una serie di irregolarità contabili per 12 milioni, e che se le banche italiane creditrici spingono per il piano, meno entusiaste sembrerebbero quelle estere (che vantano crediti per oltre 170 milioni di euro), mentre Pirelli Re ha fatto partire un decreto ingiuntivo nei confronti di Risanamento per 2 milioni di euro di credito mai onorato. Sulle pagine del Corriere Economia il giornalista Jacopo Tondelli formula alcune osservazioni su quello che è uno dei pilastri del piano di salvataggio delle banche, cioè la vendita delle aree Falck di Sesto San Giovanni, sulle quali era prevista la realizzazione di un progetto da 5 miliardi di euro: “per passare dalla carta al cantiere, bisogna poter contare su cinque miliardi in cinque anni. ‘Cifre,’, secondo protagonisti del mercato immobiliare milanese, ‘che oggi risultano fantascientifiche e che erano sostenibili sia in termini di investimenti che in termini di prezzi offerti al mercato solo quando il mattone era ai massimi’”.

Il rischio è che l’operazione si dilati di anni. Come se non bastasse, negli ultimi giorni sulla testa di Risanamento è caduto il mattone dell’arresto di Giuseppe Grossi (si veda in merito il nostro articolo Casei Gerola: la speculazione al posto della produzione) nell’ambito di un’inchiesta partita con le indagini sulle fatture gonfiate per la bonifica del quartiere di Santa Giulia. Risulta sotto inchiesta anche lo stesso Luigi Zunino per una (finora presunta) appropriazione indebita di 1 milione di euro della società. Indagine che preoccupa in modo particolare le banche creditrici perché potrebbe incidere sulla decisione dei giudici in merito all’eventuale fallimento. Per loro ora, scrive la Stampa, “la parola d’ordine è quella di allontanare il più possibile la figura di Zunino da Risanamento. Operazione non facilissima anche perché [...] il piano di ristrutturazione prevede che Zunino resti azionista con una quota anche superiore al 20%. Quota che solo in un secondo tempo potrebbe passare in altre mani grazie alla liquidazione delle tre holding dell’immobiliarista”. Ci si mette poi anche Il Sole 24 Ore, che pubblica prima un articolo (“Quell’asse tra Panama e il Lussemburgo”) sul sistema di società personali di Zunino e della moglie e con perno tra Panama e il Lussemburgo, “scomparse” quando la capogruppo dell’immobiliarista, la società off-shore Domus Fin, nel 2006 è diventata una società di diritto italiano con il nome di Zunino Investimenti Italia, e poi un impietoso, ma davvero ottimo, articolo di Marco Alfieri (“I sogni infranti della old new town”) sul progetto fallimentare di Santa Giulia, anch’esso un pilastro del piano di salvataggi delle banche, un articolo che vi consigliamo caldamente di leggere per avere un’immagine concreta delle cause e, soprattutto, delle conseguenze della bolla immobiliare milanese.

IL NODO CITYLIFE

Alle sempre più evidenti difficoltà di CityLife, uno dei maggiori progetti edilizi di Milano, avevamo già accennato di recente. Visti gli ultimi sviluppi nel settore immobiliare vale la pena di ripercorrere in poche righe la storia di questo progetto, con particolare riferimento alle origini delle attuali difficoltà. La gara per la realizzazione del progetto sull’area dell’ex Fiera di Milano è stata vinta nel 2004 da una cordata formata da Generali, Ras (ora Allianz), Immobiliare Lombarda (Ligresti) e Gruppo Lamaro. A fronte della vendita dell’area alla cordata che ha preso il nome di CityLife, la Fiera Milano SpA preventivava di ottenere 200-250 milioni di euro. Alla fine si è giunti a un prezzo che quasi tutti gli osservatori hanno giudicato gonfiatissimo, 530 milioni di euro. Rispetto al progetto originario è però stata successivamente approvata una variante che ha ampiamente aumentato il valore dell’operazione CityLife: l’indice di edificabilità di zona è stato portato dallo 0,65 mq/mq vigente in tutta la città a 1,15 mq/mq. Sulla superficie utile di 366.000 mq si riverseranno circa 900.000 metri cubi tra residenziale extralusso e commerciale, con tre grattacieli alti fino a 204 metri. La data prevista per il completamento è quella fatidica del 2014-2015 (per materiali sulla storia del progetto CityLife si vedano le ricche e aggiornate rassegne stampa dell’Associazione Vivi e progetta un’altra Milano e del Comitato Residentifiera). E’ da tempo che il progetto CityLife evidenzia criticità. Nel giugno del 2007 la Banca d’Italia aveva contattato i maggiori gruppi bancari italiani cercando di riportarli all’ordine: i finanziamenti immobiliari non avrebbero dovuto superare il 70% del valore del rispettivo progetto. CityLife ha sempre viaggiato sull’80%, Garibaldi-Repubblica sul 75%-85%. Ma l’avvertimento della Banca d’Italia era solo una moral suasion priva di vincoli obbligatori: i risultati li si vedono oggi. E non a caso il Sole 24 Ore nello stesso anno scriveva che “lo sviluppo immobiliare di Milano riproduce il bancocentrismo dell’industria italiana” e in un altro articolo notava che “le iniziative in corso rischiano di arrivare sul mercato in tempi ravvicinati e di creare eccesso di offerta”.

Nello stesso 2007 ci sono state le dimissioni di Ugo Debernardi da presidente di CityLife, in merito alle quali il Sole 24 Ore scriveva: “Il motivo? Diversità di vedute con Salvatore Ligresti: la sensazione è che CityLife abbia costi enormi dai quali bisognerà rientrare in fase di vendita”. Prosegue il giornale: “Ora, secondo indiscrezioni, il progetto originario si starebbe rilevando più costoso del previsto [...], lo stesso Salvatore Ligresti avrebbe rilevato che spese troppo elevate potrebbero essere un boomerang. In particolare, l’innalzamento del costo per metro quadrato potrebbe rendere difficile la successiva vendita sul mercato. [...] Il progetto iniziale non è modificabile. Infatti proprio in virtù del piano architettonico presentato, il raggruppamento CityLife aveva battuto Pirelli e Risanamento con un’offerta di 523 milioni di euro economicamente più elevata dell’8% rispetto ai contendenti”. Riassumendo: già più di due anni fa erano in molti a rilevare che si trattava di un’operazione con una leva finanziaria enorme, altamente rischiosa e vulnerabile di fronte all’andamento della finanza globale. I nodi ora stanno venendo al pettine. Ne scrive nei dettagli Vittorio Malagutti su L’Espresso del 22 ottobre, giungendo a dire che CityLife “rischia di essere ridimensionato se non addirittura di naufragare”. Come abbiamo già riferito, i costi del progetto sono lievitati dai 1,7 miliardi iniziali a 2,1 miliardi. L’unica che mostrerebbe qualche disponibilità a mettere mano al portafoglio per coprire la differenza è Generali. Non così Allianz, e tantomeno Ligresti e la Lamaro della famiglia Toti. Secondo L’Espresso questi ultimi due sarebbero addirittura pronti a vendere le quote, ma non riuscirebbero a trovare compratori.

Le banche finanziatrici sarebbero altrettanto renitenti, a cominciare dai tedeschi di EuroHypo, già pieni di problemi a casa loro, fino a Intesa Sanpaolo e Unicredit, già altamente esposte al potenziale crack di Zunino. L’Espresso cita a tale proposito un verbale del consiglio di amministrazione di Generali Properties: “Dal giugno 2008 le banche finanziatrici hanno sospeso l’erogazione del finanziamento (a CityLife, ndr) e non si sono rese disponibili a finanziare l’importo finanziato pur a fronte delle modifiche intervenute sul progetto” e ipotizza un compromesso, “le banche sarebbero pronte a sbloccare i finanziamenti rilevando anche la quota dei tedeschi in uscita. Il fabbisogno finanziario, però, dovrà essere rivisto al ribasso e quindi è facile prevedere che CityLife verrà ridimensionata”. Ma c’è ancora dell’altro. Nonostante i responsabili del progetto si mostrino ottimisti, a fine settembre di quest’anno erano stati stipulati compromessi solo per 45 sulle 300 residenze già messe in vendita, su un totale di oltre mille che verranno realizzate, senza contare che poi bisognerà vendere anche il commerciale e il terziario. E più si tarda, più bisogna pagare interessi sugli enormi prestiti contratti, senza coprirli con gli introiti delle vendite. Abbiamo quindi molti dei sintomi che hanno preceduto il precipitare della situazione di Risanamento: problemi di finanziamento, costosissimi ritardi, sempre maggiore esposizione delle banche creditrici alla bolla immobiliare.

I GRATTACAPI DI DON SALVATORE E I FONDI POCO TRASPARENTI

Come abbiamo già scritto in precedenza (Cemento sul piede di guerra), l’impero immobiliare e finanziario di Salvatore Ligresti dà preoccupanti segni di scricchiolio. Tra debiti non rimborsati alla scadenza, società come Sinergia (la “cassaforte” del gruppo) e Imco con perdite in aumento e debiti in rapida ascesa, i problemi sono davvero molti. Insomma, come scrive Milano Finanza, “una situazione reddituale che a partire dal 2008 si è andata appannando”. E così il peso massimo del gruppo Ligresti, cioè la FonSai, ha deciso la cessione di immobili situati a Milano, Torino e Firenze per un valore di perizia di 523 milioni di euro e un valore di libro di 340 milioni, mediante il loro conferimento a un fondo immobiliare che verrà costituito appositamente, il Fondo Rho. Tramite un complesso giro di finanziamenti bancari, accollamenti di debiti, conferimenti immobiliari e altro ancora, il gruppo Ligresti dovrebbe trarre risorse liquide per 339 milioni di euro, di cui 215 milioni di rivenienti dal debito bancario e 123 milioni dal collocamento delle quote. Nulla cambia nella sostanza, ma l’alchimia finanziaria produce “liquidità” e, lo notiamo ancora una volta, le banche rimangono esposte. Abbiamo citato a proposito degli immobili del gruppo Ligresti il termine “valore di perizia“. Si tratta di un termine alquanto imbarazzante in questo momento, soprattutto se riferito ai fondi immobiliari (cioè fondi aperti ai piccoli investitori o chiusi e riservati agli investitori istituzionali, che permettono di investire indirettamente in immobili gestiti da apposite società come se fossero normali prodotti finanziari). La Consob, l’organo che tutela tra le altre cose la trasparenza del mercato mobiliare italiano, ha adottato recentemente un position paper in cui richiama l’attenzione su numerosi aspetti preoccupanti dei rapporti tra fondi e periti che effettuano le valutazioni. Scrive il Sole 24 Ore del 17 ottobre: “a partire da giugno 2008 vi è stata una progressiva flessione dei principali indicatori [del valore degli immobili]. Flessione, spiegano in Consob, che invece non si ritrova nei rendiconti al 31 dicembre 2008 dei fondi immobiliari italiani, i cui valori sono rimasti in linea con il 2007. [...] Una rigidità nell’adeguarsi al mercato quanto meno strana. Eppure i gestori sanno bene ciò che sta avvenendo nel mondo del mattone (Risanamento insegna)”.

Inoltre la Consob ha constatato che addirittura l’81% delle perizie vengono effettuate da due sole società, la CB Richard Ellis e la Reag. Tali società, che oltre ad agire come periti forniscono anche consulenze per la compravendita, traggono i loro guadagni non tanto dalle attività di perizia, quanto essenzialmente dalle percentuali sui valori di compravendita suggeriti. La Consob rileva che vi è un potenziale conflitto di interessi nell’esercizio contemporaneo delle due attività. Milano Finanza del 13 ottobre scrive poi che la Consob “lamenta che le metodologie adottate [dalle società di valutazione] non consentono di ricostruire il processo speculativo: le scelte non sono argomentate, il tasso di attualizzazione non indica le componenti di rischio e i prezzi di riferimento non sono noti” e osserva che deve essere evitato, “come accaduto, di indicare per esempio immobili vuoti per pieni”! Per riassumere: vi è una pressoché totale mancanza di controlli effettivi sui valori di perizia degli immobili con la conseguente loro scarsa credibilità, un altro elemento che potrebbe ulteriormente alimentare la nuova bolla in corso. Non è un caso che, come riferisce Milano Finanza del 17 ottobre, nonostante l’attuale situazione di grave crisi i fondi immobiliari chiusi abbiano registrato a fine settembre forti rialzi che li hanno riportati agli “stessi livelli dell’estate 2008 prima che si verificasse il fallimento di Lehman Brothers”.

PROBLEMI FINANZIARI ANCHE PER LA PEDEMONTANA

Aria di problemi anche per la Pedemontana, la megautostrada lombarda i cui costi stimati sono già lievitati da 3 a oltre 4 miliardi di euro (l’opera rientra nell’elenco delle opere connesse a Expo 2015) e il cui progetto di realizzazione è gestito dalla società Pedemontana Lombarda, controllata al 68% dalla Provincia di Milano tramite la società Serravalle e per il 26% da Intesa Sanpaolo tramite la Biis. Dopo l’arrivo di Guido Podestà alla guida della Provincia di Milano i vertici di Pedemontana sono stati azzerati, l’ad delegato Fabio Terragni, uomo di Filippo Penati, è stato rimosso dal proprio incarico, e sono stati nominati nuovi vertici più vicini alla destra. Ma i problemi ai quali accennavamo non sono questi e sono in realtà molto più preoccupanti. E’ stata infatti effettuata recentemente, prima da Deloitte&Touche e poi da Kpmg, un’analisi del piano economico-finanziario per la realizzazione dell’autostrada che dovrebbe partire tra pochi mesi, nel marzo 2010, e sono emerse “alcune criticità”. Citiamo a proposito il Sole 24 Ore del 18 ottobre: “Il piano a oggi non sarebbe bancabile, ovvero le banche non lo finanzierebbero. Tra i punti critici principali: la valutazione dei rischi di costruzione, che non terrebbe conto del fatto che i costi di realizzazione potrebbero essere maggiori del previsto (si parla di un miliardo in più); i rischi legati al nuovo sistema di riscossione pedaggi introdotto (senza barriere, dunque con potenziali mancati incassi sul pedaggio che richiederebbero di prevedere nel piano tassi di non riscosso maggiori di quelli programmati); le garanzie sul valore di subentro, ovvero l’entità dell’indennizzo che il concessionario riceverebbe qualora, a scadenza della concessione, non avesse ammortizzato tutti i lavori. [...] E’ difficile che le complesse alchimie del piano possano essere risolte a breve per far approdare la convenzione di Pedemontana al Cipe”.

Nel frattempo ci dovrebbe essere un aumento dell’esposizione delle banche al progetto: Serravalle cederà il 30% del capitale di Pedemontana Lombarda e tra i candidati in lizza vi sarebbero Unicredit, Bpm, Bnp Paribas e Santander. Le criticità di Pedemontana, quindi, assomigliano in parte a quelli di CityLife: problemi di finanziamento, insufficiente messa in conto dei rischi, banche sempre più esposte a questi ultimi. Colpisce in particolare il fatto che Intesa Sanpaolo sia esposta in prima linea a quasi tutte le situazioni di rischio che abbiamo affrontato in questo viaggio nella nuova bolla, e cioè Risanamento, CityLife e Pedemontana.

QUALCHE ALTRA CILIEGINA SULLA TORTA

Va rilevata anche la posizione della Pirelli e in particolare del suo ramo immobiliare, rappresentato da Pirelli Re che, lo ricordiamo, si ritrovava a fine 2008 con 195 milioni di perdita in bilancio e le cui azioni hanno subito un tracollo dopo lo scoppio della bolla (o meglio, della prima fase dello scoppio della bolla), si veda a proposito “La parabola di Pirelli Re”, pubblicato da Repubblica il 20 aprile scorso. Il primo semestre 2009 non ha migliorato le cose: si è chiuso con una perdita di oltre 42 milioni, ricavi in calo, indebitamento netto di 430 milioni di euro. Per porre rimedio alla situazione è stato effettuato un aumento di capitale di 400 milioni ed è stato siglato un accordo con un pool di banche (tra cui Unicredit e Intesa Sanpaolo) per una ristrutturazione delle linee di credito da svariate centinaia di milioni che ha fornito ossigeno (la situazione era [è] davvero preoccupante, tanto che il 31 luglio scorso il Corriere della Sera scriveva: “È chiaro che il braccio immobiliare della Bicocca, oggi che il trading e la rotazione del portafoglio real estate sono pressoché bloccati, non ha la cassa per coprire tutte le scadenze [di rimborso dei prestiti]“). Inoltre Intesa Sanpaolo (sempre lei!) è già entrata come socio al 5% e aumenterà la sua quota al 10%. Intanto a Milano è stata siglata una delle maggiori operazioni immobiliari dell’anno. Il Maciachini Center (86.000 mq, ma è un progetto che va ancora portato a termine nel suo complesso) è stato acquistato da Generali Immobiliare per 300 milioni di euro, una delle maggiori operazioni del settore in Europa e la maggiore in Italia in questo 2009.

Generali, lo ricordiamo, è già esposta a CityLife. A livello nazionale c’è da rilevare la moratoria sui mutui annunciata dalle banche italiane. Una mossa strombazzata dai media come una testimonianza della responsabilità sociale degli istituti finanziari italiani. Per chi conosce bene le banche si tratta di una spiegazione poco credibile. I veri motivi li spiega con chiarezza Luca Fornovo sulla Stampa del 22 ottobre: la moratoria è uno strumento che può essere di grande aiuto alle banche perché evita loro di dovere mettere a bilancio prestiti non rimborsati e di creare maggiori accantonamenti per le relative sofferenze. Non a caso proprio in questi giorni l’Associazione bancaria italiana “ha annunciato che per effetto della recessione continua a peggiorare la qualità del credito. A fine agosto le sofferenze lorde delle banche italiane hanno raggiunto quasi 52 miliardi di euro, oltre 12 miliardi in più rispetto a novembre 2008, quando avevano raggiunto il valore più basso degli ultimi anni”. Secondo altri esperti citati da Fornovo, quest’anno i conti economici delle banche saranno inoltre gravati da 8 miliardi di utili in meno a causa dei maggiori accantonamenti. “Secondo stime prudenti degli esperti”, scrive Fornovo, “il beneficio della moratoria dei mutui potrebbe tradursi per le banche in minori accantonamenti per 150-200 milioni. C’è poi un terzo piccione da prendere [con la singola fava della moratoria]. La moratoria potrebbe servire anche a limitare i pignoramenti delle case ed evitare una caduta del mercato immobiliare in Italia come è avvenuto negli Stati Uniti, dove c’è stato un vero e proprio crollo, dopo il boom delle confische di immobili”. La moratoria non è quindi un gesto filantropico, quanto piuttosto una mossa studiata dalle banche per mettere una pezza alla loro difficile situazione, ed è anche un segno di quanto ancora si temano gli effetti dello scoppio della bolla.

E PER FINIRE…

Dopo avere parlato tanto di mattone e finanza, chiudiamo con una piccola nota di storia dell’architettura: i grattacieli, per dirla un po’ volgarmente, portano sfiga. Lo ha rilevato, seppure con uno stile elegantemente britannico, il Financial Times, constatando che durante gli ultimi cento anni nei periodi immediatamente precedenti alle crisi economiche vi è sempre e regolarmente stato un boom dei grattacieli. Mentre tra gli anni venti e gli anni trenta la torre della Chrysler e l’Empire State Building lottavano per diventare l’edificio più alto del mondo, intorno a loro l’economia crollava. Il World Trade Center è stato completato quando nel mondo iniziava il pesante periodo della stagflazione. In Malaysia, le due enormi Petronas Towers sono state terminate nel 1997, quando si è verificato il crollo dei mercati asiatici. Negli ultimi anni a Londra è stata pianificata la costruzione di decine di grandi torri e, puntuale, è spuntata la crisi. Non osiamo immaginarci, aggiungiamo noi, cosa si debba attendere Milano con i suoi folli progetti di grattacieli di ogni forma, dalla fallica nuova sede della Regione di Formigoni, fino al beffardo Bosco verticale di Garibaldi-Repubblica e all’inedita banana di CityLife. C’è comunque una consolazione, scrive il Financial Times. I periodi successivi alle crisi hanno sempre visto un abbandono degli eccessi della “oligarchitettura” e il ritorno a stili molto più sobri: la crisi degli anni trenta ha portato all’emergere del modernismo, mentre quella della fine degli anni ottanta ha posto fine agli eccessi del postmodernismo. Speriamo quindi che anche il bancointeso-ligrestismo milanese sia ormai prossimo al tramonto.



La “pace ligrestiana”, il Pgt e il Parco Sud; Il diktat di Formigoni, gli altri progetti faraonici; Aeroporti impazziti; Contro Milano; La bufala del social housing

LA “PACE LIGRESTIANA”, IL PGT E IL PARCO SUD

Nelle prime due puntate del nostro speciale sulla “bolla che deve ancora scoppiare” abbiamo passato in rassegna i casi più clamorosi della crisi finanziaria e immobiliare che incombe su Milano, e non solo. In quest’ultima puntata passiamo invece in rassegna una serie di sviluppi meno eclatanti, ma altrettanto indicatori della tesa frenesia che continua a contraddistinguere l’urbanistica milanese e lombarda. Lo facciamo cominciando dall’intreccio Ligresti-Piano di governo del territorio (Pgt)-Parco Sud. La notizia più recente è quella della raggiunta “pace” tra Salvatore Ligresti e Palazzo Marino, con il ritiro da parte del primo della richiesta alla Provincia di commissariare il Comune di Milano (si veda “Il cemento sul piede di guerra“). L’accordo è arrivato nella più totale mancanza di trasparenza dopo una serie di riunioni private, anche presso l’abitazione del sindaco, che hanno coinvolto tra gli altri, oltre alle società del gruppo Ligresti, la Moratti, l’assessore Masseroli e perfino Manfredi Catella del gruppo Hines (non si capisce cosa c’entri quest’ultimo nella storia della richiesta di commissariamento: sta sì realizzando insieme a Ligresti il megaprogetto Garibaldi-Repubblica, ma non è assolutamente coinvolto nella questione che avrebbe dovuto essere oggetto dei colloqui, evidentemente si è negoziato anche su altro). L’opinione più diffusa nei media è che si sia raggiunto qualche accordo riguardo alla vera posta in gioco, i diritti edificatori delle vaste aree del Parco Sud di proprietà di Ligresti e il ruolo della Provincia nell’urbanistica milanese.

Come scriveva il Corriere della Sera del 6 ottobre, Podestà “ha osservato che il Pgt non tiene conto dei Piani di Cintura, cioè dello strumento urbanistico che dipende interamente dalla Provincia e che riguarda i criteri e le regole sulla possibilità di edificazione nella zona del Parco Sud” e ha chiesto che i Piani di cintura vengano integrati nel Pgt, sollevando inoltre questioni riguardo alla filosofia generale del Piano e in particolare sulla perequazione (cioè la possibilità di utilizzare altrove i diritti edificatori di cui non si può godere sui terreni di propria proprietà, in base a specifici indici di edificabilità). L’assessore provinciale all’urbanistica, Fabio Altitonante, ha detto che il lavoro sui Piani di cintura comincerà subito, ma richiederà almeno 16 mesi, specificando che si tratta di un territorio che riguarda il 40-50% delle volumetrie del piano regolatore (circa 18 milioni di metri cubi). Il Pgt invece, secondo i piani del Comune, dovrebbe essere approvato al massimo a gennaio. I Piani di cintura urbani riguardano nello specifico aree al confine tra la metropoli e otto comuni dell’hinterland comprese nel Parco Sud o in altri polmoni verdi come il Bosco in Città, il Parco delle Abbazie, i Navigli, il Parco Est Idroscalo, Lambro-Monluè, per una superficie di 4.800 ettari, più del 10% del totale del Parco Sud. Secondo la Repubblica del 6 ottobre, a Podestà “non piacerebbe un’impostazione del Pgt che accentrerebbe a Milano le nuove costruzioni – e le relative volumetrie – trascurando le possibilità di espansione dell’hinterland”. A quanto abbiamo riferito sopra si aggiungono altri due recenti sviluppi. Il 6 ottobre il consiglio comunale di Milano ha approvato la variante urbanistica per la costruzione del megacentro di cura e ricerca Cerba all’interno del Parco Sud, su un’area di proprietà di Ligresti, mentre qualche giorno dopo ha deciso che non si costruirà nella zona dell’ippodromo di San Siro, dove era previsto un megaprogetto di edilizia di lusso. Roberto Losito, immobiliarista e finanziere consulente della Snai, che ha un diritto di opzione sull’acquisto delle aree, si dice non stupito dalla decisione e formula un velenoso commento: “Immagino che se fosse uscita sul mercato, l’offerta qualitativa di San Siro avrebbe creato grossi problemi alla concorrenza”, cioè, si intuisce, ad altri grandi progetti come CityLife o Garibaldi-Repubblica che vedono Ligresti in prima fila, per esempio.

CHE LA GUERRA COMINCI

Un quadro complessivo di grandi manovre e grandi tensioni, e addirittura grandi veleni, dovuti al fatto che si stanno adottando (con un’assoluta mancanza di trasparenza) decisioni che orienteranno l’urbanistica milanese, e quindi il business del mattone, per svariati anni. La posta in gioco del Piano di governo del territorio è molto alta, soprattutto in questo momento di crisi: 14 miliardi di euro. Lo scrive sul Sole 24 Ore del 16 ottobre Marco Alfieri. Il Pgt infatti definisce “15 grandi progetti di interesse pubblico e 31 ambiti di trasformazione” che vanno da Cascina Merlata, Stephenson ed Expo, a Bovisa/Farini, all’area Porta Genova/San Cristoforo e molto altro ancora, per “ben 42 milioni di metri quadrati interessati su un tessuto urbano consolidato attuale di 134. [...] La rivoluzione costerà la bellezza di 14,3 miliardi. E’ questa la vera incognita. Non basta infatti estendere il meccanismo della perequazione negoziale che, in teoria, consentirà a palazzo Marino di acquisire a costi nulli 2,6 milioni di metri quadrati di suoli strumentali alle dotazioni della città pubblica riconoscendo ai privati proprietari diritti edificatori sfruttabili altrove in città. Non basta il gettito derivante dai mega oneri di urbanizzazione che, sull’intero Pgt, dovrebbero aggirarsi sui 3 miliardi di euro [...]. Il disavanzo resta comunque superiore agli 8 miliardi” e quindi andranno trovate altre formule. Come “il project financing, i trasferimenti pubblici a fondo perduto, le cartolarizzazioni, il ricorso ai Boc, alla Cassa depositi e prestiti o alla Bei (Banca Europea per gli Investimenti). Altrimenti sarà difficile resistere alle pressioni dei grandi costruttori (e ai soldi delle banche). Anche perché le volumetrie più appetibili del Pgt riguardano soprattutto aree come gli scali ferroviari dismessi e le caserme. Terreni di demanio pubblico non ‘catturabili’ con la perequazione”. C’è in più l’incognita politica, “perché è evidente – abbozza una fonte – che se s’incentiva a costruire in città vietando al contempo di edificare nel Parco Sud, che peraltro è intercomunale, chi governa l’urbanistica dell’hinterland si vedrà giocoforza svuotato di competenze e cantieri…”. Insomma, è stata fatta la pace, ora può cominciare la guerra. E c’è subito chi tenta di avviare la guerra con idee apparentemente balzane, ma dalle finalità ben chiare. L’architetto Paolo Caputo (ha lavorato per la realizzazione del villaggio Expo a Cascina Merlata, del Pirellone bis e per Santa Giulia…) ha lanciato la proposta di cementificare il Parco Sud creando intorno alle cascine “nuclei per 500-600 abitanti”. Oltre al fatto che difficilmente si troverà chi vuole andare a vivere in posti isolati a fianco di maleodoranti allevamenti di vacche e maiali, è chiaro che un tale progetto richiederebbe in breve tempo la costruzione di strade, infrastrutture… cioè sarebbe una testa di ponte verso una totale cementificazione del Parco Sud.

IL DIKTAT DI FORMIGONI, GLI ALTRI PROGETTI FARAONICI

Su quella che sembrava a essere destinata a diventare la “madre di tutte le bolle”, e cioè l’Expo 2015, non si registra ancora alcuna novità concreta, a un anno e mezzo dell’assegnazione dell’evento a Milano e a sei mesi dalla nomina del berlusconiano di ferro Lucio Stanca che, secondo quanto promesso, avrebbe dovuto dare il via immediato all’organizzazione pratica dell’evento. Intanto però è stata messa in atto l’ennesima mossa per porre un’ipoteca politica sulla sua gestione. Con un colpo di mano il governatore lombardo Roberto Formigoni e la Lega Nord, nella persona dell’assessore regionale all’urbanistica Davide Boni, hanno assegnato alla giunta regionale il potere di decidere in totale autonomia la necessità o meno di effettuare una valutazione dell’impatto ambientale per le opere essenziali per l’Expo 2015. In pratica, come spiega il verde Carlo Monguzzi, “Formigoni potrà decidere in autonomia se un’autostrada, una centrale o un insediamento industriale saranno compatibili con l’ambiente e la salute dei cittadini”, aggirando le regole urbanistiche e per la salvaguardia dell’ambiente. E’ prevista addirittura l’autocertificazione da parte dei costruttori. E, lo si noti bene, questi poteri vengono assegnati alla giunta e non al consiglio regionale. Quindi le decisioni non saranno nemmeno oggetto di una discussione pubblica e verranno prese senza la minima trasparenza: è questo evidentemente il concetto di democrazia che hanno Comunione e Liberazione e i suoi alleati leghisti. La finalità, oltre alla concentrazione del potere decisionale nelle loro mani, è quella di consentire ai loro amici capitalisti e speculatori di agire rapidamente e senza regole.

Formigoni e la Lega Nord sono in prima fila nel promuovere altri due progetti faraonici che possono giovare unicamente agli speculatori e ai costruttori. Il primo è quello dell’Autostrada dell’acqua, di cui riferisce Repubblica del 6 ottobre. Si tratterebbe di rendere navigabile il Po fino all’Adriatico, un’idea che all’apparenza sembrerebbe allettante, perché suscita immagini di acque naturali, di verde e di trasporti “puliti”. La realtà è esattamente opposta. Innanzitutto il costo di realizzazione sarebbe astronomico, 2,4 miliardi di euro (che come è regola aumenterebbero di molto in corso d’opera) destinati a finire in mano ai cementificatori e ai baroni dell’energia. Eh sì, perché per dare vita all’Autostrada dell’acqua bisognerebbe creare lungo il corso del Po cinque dighe di altezza compresa tra i 2 e i 5 metri, e questo già non suona molto ecologico. Poi il costo dell’opera verrebbe ripagato in parte dalla creazione di quattro centrali idroelettriche lungo il corso del fiume (l’altro vero motivo del progetto). Infine i materiali da costruzione verrebbero prelevati da cave lungo il Po, con il conseguente abbassamento del livello del fiume. Citiamo ancora Carlo Monguzzi: “Il Po era già navigabile prima che rubassero l’acqua ai campi per le centrali elettriche. Questo piano è peggio del ponte sullo Stretto di Messina”. L’altro progetto faraonico, che non a caso ha un costo preventivato identico, di 2,4 miliardi di euro, è fortemente voluto dall’assessore ciellino all’urbanistica milanese Carlo Masseroli. Si tratta del maxitunnel sotterraneo che dovrebbe collegare Linate con l’autostrada dei laghi. Il Comune ha dato il via libera, entro tre mesi ci dovrebbe essere la gara d’appalto per la prima tratta e nel 2010 quella per la seconda e ultima tratta. I lavori verranno realizzati dalla società Torno (già in difficoltà finanziarie e responsabile in larga parte degli enormi ritardi nella realizzazione dell’ultima tratta della linea 3 della metropolitana) con il probabile finanziamento di Intesa Sanpaolo e Unicredit. Per percorrere l’intero tunnel bisognerà pagare oltre 10 euro, un costo che evidentemente non spingerà a utilizzarlo da un capo all’altro della città disintasando così le tangenziali, ma ne farà un tunnel per il business di fascia medio-alta destinato a riversare in centro altro traffico automobilistico.

C’è infine il capitolo dei parcheggi voluti a suo tempo dalla giunta di Gabriele Albertini, che da anni hanno ridotto Milano a un gruviera, ma in compenso hanno rimpinzato le tasche dei costruttori. Dopo 5 anni dal varo del progetto, e innumerevoli proteste e polemiche, il Comune ha fatto marcia indietro sul parcheggio della Darsena, uno dei capitoli più folli dell’impresa parcheggi. L’area, ridotta da lungo tempo a una discarica a cielo aperto a causa dei lavori per il parcheggio, sarà oggetto di interventi di ripristino. Il progetto non è stato definitivamente annullato (potrebbe essere ripreso dopo il 2015), ma intanto è stato cancellato il contratto con la ditta che aveva vinto la gara d’appalto e aveva realizzato parte dei lavori, la Darsena SpA. Ora probabilmente partirà una guerra dei ricorsi che potrebbe costare cara al Comune (la Darsena SpA afferma di avere già investito 14 milioni di euro, oltre a lamentare di essere costretta a licenziare 40 operai) e che in più potrebbe bloccare per lungo tempo i lavori di ripristino. Albertini, invece di pagare i danni arrecati alla città con questo e altri progetti, nonché per i fallimentari derivati, ha addirittura il coraggio di non escludere una sua ricandidatura a sindaco. Nel frattempo sono stati cancellati i progetti relativi ad altri due parcheggi, ma in compenso è stato confermato quello di piazza S. Ambrogio e ne sono stati approvati di nuovi, come quello che andrà a deturpare una delle zone più storiche e verdi del centro storico di Milano, in via Marina, e quello di via Canaletto a Città Studi. Ed è stato approvato il progetto della criticatissima “Gronda Nord” (ora si chiamerà Zara-Expo), una specie di autostrada urbana da 105 milioni di euro contro la quale si erano pronunciati praticamente tutti, dai comitati locali agli urbanisti, fatta eccezione per il Comune. L’unica novità è che si farà la valutazione di impatto ambientale.

AEROPORTI IMPAZZITI

Accanto alla bolla immobiliare sempre più incombente e ai vari megaprogetti miliardari c’è da registrare l’ulteriore peggioramento del caos nel sistema aeroportuale lombardo e italiano, che ha già causato danni enormi alla Lombardia (si veda in merito “Sulle ali del caos“). E’ tornato alla ribalta l’aeroporto bresciano di Montichiari (il D’Annunzio), che rischia di aggiungere una nuova tessera al caos generato dalla concorrenza reciproca tra Malpensa, Linate e Orio al Serio. Attualmente Montichiari è nelle mani della società che gestisce l’aeroporto Catullo di Verona (a sua volta controllata dalla Provincia di Trento…) e nella primavera scorsa a Brescia si è costituita una cordata costituita da Comune, Provincia, Camera di Commercio e Associazione Industriali locali per rilevarne il controllo, con un’operazione dal costo complessivo di circa 80 milioni di euro (lo scalo bresciano, va notato, è in passivo di 4-5 milioni di euro all’anno), il tutto all’insegna dello slogan “fare di Montichiari il volano dello sviluppo territoriale”. All’inizio di ottobre l’accordo, voluto tra l’altro fortemente da Umberto Bossi, sembrava ormai imminente. Poi sono arrivati i primi intoppi. A Verona si è cominciato a parlare del fatto che la cessione di quote ai bresciani sarebbe stata una svendita, nonché del rischio che si formasse un polo lombardo (Orio, Malpensa e Linate) a svantaggio della città veneta e via dicendo, sulle ali delle eterne lotte intestine tra le lobby di destra. Il 24 ottobre si arriva alla rottura delle trattative, in mezzo a penosi scambi di accuse non solo tra le due opposte fazioni, quella bresciana e quella veronese, ma addirittura al loro interno. Salta subito all’occhio che l’idea di “brescianizzare” Montichiari non è il frutto di una strategia di largo respiro per mettere ordine nel caotico sistema aeroportuale del Nord Italia, ma solo una misera guerra di campanile da combattersi subito, senza idee per il futuro.

Che la situazione del sistema dei trasporti aerei sia in Italia del tutto fuori controllo lo testimonia la nuova Alitalia, su cui pesano debiti per circa 450 milioni di euro, che ha registrato una calo delle attività pari al 30% e ha ridotto di oltre 7.000 unità i propri dipendenti. Negli ultimi anni in Italia, grazie anche alle situazioni di monopolio, sono stati investiti 2,5 euro a passeggero a fronte di una media europea di 12 euro, e il sistema sta collassando. La Adr dei Benetton che gestisce lo scalo romano di Fiumicino ha 1,6 miliardi di debiti, la Sea risente dei problemi enormi di Malpensa. Dei 47 aeroporti italiani, per fare solo un esempio della mancanza di programmazione, appena 5 sono raggiungibili con il treno. Tutto questo non impedisce di programmare altro caos. Nella sola Sicilia, Enna ha in previsione un mega-aeroporto internazionale, ambizioni analoghe hanno anche Agrigento, Messina e Comiso. In Campania è guerra aperta tra Caserta e Salerno per il ruolo di secondo aeroporto campano nel momento in cui lo scalo napoletano di Capodichino è saturo. Nel Lazio la lotta a tutto campo è tra Viterbo e Frosinone, che puntano entrambe a conquistarsi i voli della Ryanair che dovrà traslocare da Ciampino. In Toscana è in corso da anni un conflitto aperto tra gli aeroporti di Firenze e Pisa. In Lombardia, come se non bastasse la caotica situazione che coinvolge Malpensa, Orio, Linate, Montichiari e la contigua Verona, si aggiungono le ambizioni di Mantova, che vuole riattivare la pista di cui è dotata.

Intanto la romana Adr e la lombarda Sea aumenteranno le tariffe aeroportuali applicate ai passeggeri per rimpinguare le proprie casse sempre più vuote. A fronte dell’aumento dei prezzi hanno promesso al premier Silvio Berlusconi di effettuare investimenti di 5 miliardi entro il 2011 e di altri 10 entro il 2040 (cioè più di trenta anni!). Ma si tratta solo di promesse, come spiega il Corriere della Sera: “a giugno di due anni fa il Cipe aveva fatto discendere l’eventuale aumento tariffario dalla stipula di contratti tra i gestori e l’Enac (Ente aviazione civile): insomma, prima gli impegni scritti dei gestori, dopo i rincari”. Ma siccome la stipula dei contratti “sta procedendo a rilento”, si è passati a un altro principio: prima gli aumenti poi eventualmente si penserà ai contratti. Il decreto con cui sono stati approvati gli aumenti tariffari è tra l’altro in contraddizione con la direttiva europea che impone la mediazione di un’Agenzia imparziale per gli adeguamenti tariffari concertati tra i gestori e i vettori. Vale a dire che, esattamente come nel caso della milanese A2A citato nella prima puntata di questo nostro speciale, le società aeroportuali ora incassano, ma con il forte rischio che tra anni l’Italia sia costretta da Bruxelles a pagare multe enormi il cui peso ricadrà sui contribuenti. A Malpensa intanto si pianificano 2 miliardi di nuovi investimenti entro il 2020, in assenza di strategie valide coordinate a livello lombardo che evitino il caos attuale. Entro il 2010 dovrebbe essere realizzato un nuovo terminal uno, insieme agli alberghi di fronte all’aeroporto; entro il 2015 dovrebbe essere pronto un nuovo terminal low-cost, la cargo-city e la terza pista, mentre entro il 2010 dovrebbero essere realizzati un nuovo terminal e un nuovo polo logistico. Con ogni probabilità, visto quanto esposto sopra, si tratterà delle ennesime cattedrali nel deserto. E infine un’amenità targata Formigoni. Su decisione della Regione, gli aeroporti milanesi verranno dotati di detector speciali che riveleranno la temperatura dei passeggeri al fine di contrastare la diffusione del virus H1N1, per un costo totale di 100.000 euro. Briciole rispetto alle cifre citate sopra, ma “briciole” davvero buttate al vento. Installare tali apparecchi avrebbe forse avuto senso nella primavera scorsa, quando in Italia il virus non era ancora molto diffuso. Ora è diffuso tanto in Italia quanto nel resto del mondo e la misura (che tra l’altro non si sa con precisione quando verrà realizzata) non ha alcuna razionalità. Senza poi contare il fatto che non viene detto cosa ne sarà dei poveri passeggeri con la febbre. Una buffonata che la dice lunga sull’inettitudine di chi ci governa.

CONTRO MILANO

Il Comune di Milano ha varato il suo secondo fondo immobiliare, proprio come ha fatto Ligresti con alcune sue proprietà. Nel fondo confluiranno 67 immobili comunali per un valore stimato (ma per le stime degli immobili dei fondi immobiliari si veda la Puntata 2 di questo speciale sulla bolla) di 100 milioni e Palazzo Marino dice che potrebbe ricavarne 15-20 milioni di euro di plusvalenza con i quali conta di coprire in parte la mancata corresponsione dei dividendi da parte dell’A2A. Si tratta di (ipotetici) introiti che in realtà l’attuale normativa vieta ai comuni di utilizzare per investimenti ma, spiegano i funzionari, Tremonti starebbe rivedendo tali norme. Un’operazione fatta nel momento peggiore, quando le quotazioni degli immobili sono al ribasso, e che in più costituisce l’ennesimo travaso dal pubblico al privato. C’è però un altro particolare. Tra gli immobili che verranno inseriti nel fondo per essere “valorizzati” ci sono luoghi storici della Milano democratica come il Circolo Arci Bellezza nei pressi della Bocconi, il centro anarchico Ponte della Ghisolfa in viale Monza, il centro sociale Torchiera in piazzale Cimitero Maggiore e il centro sociale Cox di via Conchetta, dove tra l’altro è conservato il preziosissimo archivio di Primo Moroni, la sede della Cgil di via Giambellino e il palazzo di Via Bagutta 12 che ospita alcune associazioni. Un vero e proprio attacco alla tradizione alternativa e democratica di Milano (descritta tra l’altro con minuzia dallo stesso Moroni, si veda il nostro “Dalle bande di quartiere ai centri sociali“) all’insegna della politica bancarottiera del Comune di Milano e della speculazione immobiliare. Intanto stanno per partire le aste del primo fondo immobiliare del Comune, creato nel 2007 per un “valore stimato” di 255 milioni e sempre gestito da Bnp Paribas. Verranno venduti immobili ex popolari come quello di via Cesariano 11 e la Casa di via Morigi, occupata da decenni e che ospita numerose associazioni nonché attività culturali.

(per motivi tecnici di capacità dell'editor, purtroppo gli ultimi paragrafi di questo lungo articolo non possono essere resi disponibili in lettura a correre: si allega di seguito il pdf integrale scaricabile)

1. Roma nella crisi dell’urbanistica

La crisi dell’urbanistica italiana ha avuto dagli anni ’90 molte risposte. In assenza della legge quadro nazionale le regioni hanno tentato ciascuna per proprio conto di innovare la legislazione e i comuni hanno continuato a pianificare sulla base di quelle leggi. Le due maggiori città italiane, Roma e Milano, hanno invece avuto l’ambizione di sperimentare modelli che si ritenevano estendibili all’intero territorio nazionale. Milano lo ha fatto nel modo conosciuto, e cioè cancellando esplicitamente l’urbanistica e sostituendola con una serie di progetti urbani ritagliati sulle grandi proprietà immobiliari mediante processi basati sulla discrezionalità. Più complesso il caso romano, dove si è avuta l’ambizione di tracciare una strada equidistante dallo schema derogatorio milanese e della pianificazione pubblica tradizionale.

Per delineare il nuovo modello, Roma aveva la necessità di sottoporre a critica i contenuti delle due polarità opposte e definire conseguentemente il nuovo percorso dell’urbanistica. La critica risultava abbastanza agevole nel caso milanese, dove non era difficile evidenziare le opacità insite nella contrattazione continua, condotta senza regole valide universalmente. Più difficile risultava la stessa operazione nei confronti dell’urbanistica tradizionale dove insieme a tanti casi criticabili si potevano trovare casi di buone pratiche pianificatorie[1].

Nei casi di difficoltà, come noto, il ricorso all’ideologia è provvidenziale. E in tal senso la complessa vicenda della pianificazione comunale viene dipinta con considerazioni di comodo, appiattita sotto giudizi di “estremismo”, di “rigidità e staticità”, di “subordinazione alla proprietà fondiaria”. Ad esempio: “Volendo essere schematici ma concreti, credo che per l’urbanistica italiana ci siano soltanto tre strade da percorrere. La prima è la più vecchia e nota, quella che abbiamo finora percorso e che oggi, però, non sembra avere sbocchi. E’ la strada scelta dai custodi delle regole del passato, secondo i quali l’unico piano possibile è quello rigido….. Questa è la strada di un piano che non è un piano, ma un’astrazione ideologica. La seconda via è, in fondo, uguale e contraria alla precedente; è la soluzione del rifiuto ideologico delle regole….La terza via d’uscita per l’urbanistica italiana è, invece, caratterizzata dalla coraggiosa serietà del riformismo: ed è quella scelta per il piano di Roma[2].

Il caso romano va dunque analizzato proprio per questa sua ambizione. La sua affermazione avrebbe infatti rappresentato un fatto nuovo nel panorama nazionale. E le condizioni per una sua affermazione c’erano tutte. In primo luogo per i protagonisti politici dell’operazione che sono stati in ordine di tempo il sindaco Francesco Rutelli, in carica tra il 1993 e il 2000 e Walter Veltroni, in carica fino al 2008, quando, a causa dell’anticipato scioglimento del Parlamento, decise di candidare nuovamente il suo predecessore alla carica di primo cittadino, consegnando così alla destra la guida della città. Alla carica di sindaco si sono succeduti per quindici anni due dei principali artefici del “rinnovamento” del fronte progressista, il primo leader della Margherita e il secondo primo segretario del Partito democratico costituitosi nel 2008. Era dunque inevitabile che anche sul terreno delle città e del territorio si giocasse una partita più complessa e i due protagonisti del centrosinistra abbiano utilizzato il governo della città per stabilire rapporti con il sistema di potere e di interessi che gravita intorno al mondo dell’edilizia.

La seconda condizione derivava dal clima di attesa che circondava l’azione del governo di centro sinistra (1996-2001) inizialmente presieduto da Romano Prodi per approvare una nuova legge per il governo del territorio[3].

La terza condizione era relativa al fatto che furono i vertici stessi dell’Istituto nazionale di urbanistica ad assumere la guida dell’urbanistica romana. Il nuovo corso urbanistico romano ha infatti avuto come indiscusso protagonista il suo presidente onorario, Giuseppe Campos Venuti, che fino alla fine ne ha difeso l’impostazione culturale ed anche l’attuale presidente nazionale, Federico Oliva, ne è stato uno dei protagonisti

L’ultima condizione per la riuscita del tentativo era quella di essere sostenuti da un convinto consenso mediatico. Operazione agevole a Roma, per il fatto che i principali quotidiani della capitale sono di proprietà di attori economici con grandi interessi nel mondo dell’edilizia e proprietari di vasti compendi immobiliari[4]. Intorno al piano di Roma era stato insomma costruito un ambizioso tentativo di inaugurare un nuovo corso dell’urbanistica italiana.

2. Il Piano delle certezze e la nascita dei diritti edificatori e della compensazione

Questo insieme di motivazioni, di per se sufficienti a fornire una quadro molto favorevole, erano ulteriormente sostenute dalle caratteristiche della città agli inizi degli anni ’90, quando cioè inizia il corso della nuova amministrazione guidata da Francesco Rutelli. Nel 1993 siamo nel pieno del ciclone tangentopoli che aveva azzerato il personale politico del centrosinistra e anche parte del mondo imprenditoriale dell’edilizia. Il mondo delle costruzioni era sostanzialmente fermo e ci sarebbe stato tutto il tempo per voltare pagina e inaugurare la stagione di una nuova urbanistica come del resto era stato delineato all’interno del suo programma elettorale.

Vennero invece avviati due distinti provvedimenti in aperta contraddizione con le posizioni premiate dal risultato elettorale. Il primo fu il sostanziale svuotamento di una delle principali conquiste del movimento riformatore romano, e cioè la Variante di salvaguardia che aveva tagliato circa quaranta milioni di metri cubi di previsioni edificatorie, attraverso la redazione del Piano delle certezze. Nelle premesse teoriche di questo provvedimento non si riesce a trovare alcun motivo convincente che avrebbe reso indispensabile la revisione del piano precedente. Non c’era allora -come non esiste a tutt’oggi- nessun provvedimento della magistratura che avesse censurato la facoltà pubblica di cancellare espansioni in ambiti giudicati preziosi dal punto di vista ambientale. La redazione della Variante delle certezze non era dunque un provvedimento imposto dall’adempimento a sentenze della magistratura.

Nella relazione di piano vengono esplicitate due questioni. La prima afferma che uno dei suoi limiti era quello di non aver ancora concluso –insieme alla coeva Variante per il verde e i servizi- il proprio iter legislativo. Argomentazione singolare, poichè il comune di Roma aveva tutte le possibilità di sollecitare la Regione Lazio ad approvare i due strumenti, ma decise di scegliere la strada della redazione di un nuovo strumento[5].

La seconda questione affrontata nella relazione del piano delle Certezze è invece relativa al fatto che esso “non aveva interamente chiarito i rapporti tra pubblico e privato”. Ed è questa la questione cruciale. Siamo nel pieno della grande offensiva ideologica neoliberista che teorizza il declino della funzione pubblica e il passaggio di prerogative e poteri al privato. La variante di salvaguardia era dunque fuori moda. Si voleva dunque superare il rigore pubblicistico contenuto in quel provvedimento e non a caso proprio all’interno del piano delle certezze nacque la compensazione urbanistica: una parte delle previsioni edificatorie cancellate dalla variante di salvaguardia vennero recuperate, lasciando all’operatore privato la scelta di individuare un nuovo ambito urbano su cui poter realizzare le previsioni edificatorie cancellate dallo strumento di salvaguardia[6]. Per la prima volta nel panorama nazionale si afferma che la tutela paesistica non ha la facoltà giuridica di cancellare preesistenti destinazioni urbanistiche, né che attraverso i processi urbanistici si possa estendere la salvaguardia su aree precedentemente destinate all’edificazione. Nasce il concetto di “diritto edificatorio” che avrebbe accompagnato tutto il percorso dell’urbanistica romana.

Contro questa gravissima posizione che per la prima volta stabiliva l’intangibilità della rendita fondiaria, ci furono prese di posizione di grande autorevolezza scientifica che demolivano alla radice i cosiddetti diritti edificatori[7]. Anche questi suggerimenti, ovviamente, non furono tenuti in considerazione. Interessava evidentemente di più dare segnali di discontinuità con una consolidata cultura urbana progressista.

3. Il pianificar facendo e il trionfo dell’accordo di programma

Parallelamente alla Variante delle certezze fu avviata una vasta sperimentazione dei cosiddetti programmi urbanistici complessi codificati appena pochi anni prima dal Ministero dei Lavori pubblici, e cioè proprio di quegli strumenti basati sulla discrezionalità urbanistica che provengono dal filone culturale dell’urbanistica milanese. Quando nacquero i programmi complessi, oltre allo scontato consenso di coloro che ne sottolinearono il salto culturale, e cioè la sostituzione della logica del piano con quella del progetto urbano, ci fu anche chi ne accolse favorevolmente la valenza sperimentale. Di fronte alla crisi dell’urbanistica, si disse, una risposta possibile era anche nel pragmatismo e nel recupero della cultura del progetto.

Il limite dell’urbanistica romana è stato quello di non aver compreso il pericolo del loro uso sistematico e di averne fatto addirittura il simbolo del nuovo. Con questo secondo segmento di azione pianificatoria si afferma infatti il “pianificar facendo”. “Appare evidente il senso del pianificar facendo. Lo slogan esplicita in metodo dialettico di costruzione del piano: dal generale al particolare e dal particolare al generale. Definiti uno schema generale di riferimento………è stato possibile avviare progetti urbanistici considerati strategici…….In questo contesto appare evidente il ruolo giocato dalle cosiddette procedure innovative: dai programmi di riqualificazione e di recupero alla individuazione del progetto urbano[8].

Emerge in modo evidente la contraddizione: mentre si affermava di voler cercare un altro percorso rispetto a quello milanese, si usano gli stessi istituti derogatori. Roma rende anzi sistematico l’uso della contrattazione urbanistica. Quello che Milano sperimenta in un limitato numero di aree, Roma lo applica sulla scala dell’intera città. Roma applica insomma il modello restauratore disegnato dalla legge Lupi, e cioè la proposta di variazione della legge del 1942, pensata da uno dei protagonisti dell’urbanistica milanese e fondata proprio sul concetto di continua contrattazione tra amministrazioni pubbliche e proprietà fondiaria[9].

La capitale istituisce addirittura un assessorato ad hoc, unico comune italiano in cui oltre ad un assessorato alla pianificazione si crea un assessorato alla deroga[10]. La giunta municipale romana con l’acquiescenza della Regione Lazio ha approvato negli ultimi dieci anni oltre cento accordi di programma in variante agli strumenti urbanistici vigenti (Prg 1962-65 e successive varianti) ed anche dello stesso piano in costruzione. Il piano regolatore non esiste più, con l’accordo di programma si può edificare dappertutto, su aree destinate a verde, a servizi pubblici o all’agricoltura.

Ma oltre al tema del rapporto tra piano e progetto, l’uso dei nuovi strumenti di intervento ha avuto una ben più grave conseguenza. I programmi complessi vengono infatti approvati non più attraverso la procedura di evidenza pubblica prevista dalla legislazione urbanistica nazionale, ma attraverso l’uso dell’accordo di programma, previsto dall’articolo 49 del Decreto legislativo 267/2000 con cui viene cancellato il processo di trasparenza democratica. La decisione sulla validazione delle varianti urbanistiche appartiene, come noto, ai consigli comunali dove esiste almeno dal punto di vista formale il controllo istituzionale e la partecipazione. L’accordo di programma viene invece approvato dalla giunta comunale e soltanto “ratificato” –pena la decadenza- dai consigli comunali. Si salta insomma un passaggio democratico e partecipativo fondamentale per l’esercizio delle prerogative democratiche delle amministrazioni locali.

4. Il capovolgimento della gerarchia legislativa: l’urbanistica prevale sulla pianificazione paesistica

Era prevedibile che alcune proposte di deroga urbanistica si sarebbero venute a trovare in aperta contraddizione con quanto previsto dalla pianificazione paesistica o dagli altri strumenti della tutela del territorio. E quando il rischio del blocco dei programmi di recupero urbano si è fatta più concreta, sono arrivate nuove norme legislative.

Nelle leggi 2 e 18 del 2004, la Regione Lazio ha stabilito che “…gli accordi di programma aventi ad oggetto programmi di recupero urbano di cui all’articolo 11 del dl 5 ottobre 93, n. 398 ed altri interventi di edilizia residenziale pubblica finanziati dalla Regione possano comportare variazioni ai Piani territoriali paesistici vigenti.”. Il comma successivo precisa poi che “gli accordi di programma aventi ad oggetto piani o programmi di intervento finalizzati all’acquisizione pubblica di aree ricadenti in aree naturali protette o con rilevante valore paesaggistico possono comportare variazioni a Ptp vigenti”. Per favorire la nuova urbanistica romana, la Regione Lazio capovolge un principio legislativo fondamentale: la gerarchia delle fonti che vede la pianificazione urbana subordinata a quella paesistica, viene capovolta. E’ la tutela ambientale ad essere subordinata ai progetti urbanistici.

L’urbanistica romana del primo dopoguerra è stata nella storia della disciplina un punto di riferimento per l’intero paese. Sono numerosi i piani regolatori redatti sull’esempio metodologico del piano del 1965. Anche in questo caso Roma diviene il modello di riferimento per tutta la nazione: sono innumerevoli le città che hanno seguito l’esempio dell’utilizzazione dell’accordo di programma come strumento per governare il territorio. E proprio in questi giorni, le intercettazioni telefoniche condotte dalla magistratura relative alla vicenda del piano strutturale fiorentino hanno finalmente mostrato all’intera nazione quali siano i meccanismi insiti nell’urbanistica contrattata[11].

5. Il carattere flessibile delle norme tecniche di attuazione

La sostituzione della pianificazione urbanistica con la discrezionalità insita nell’uso dell’accordo di programma ha comportato inevitabilmente un elevato grado di flessibilità dell’impianto normativo del piano. Il numero gigantesco degli articoli delle norme tecniche e della loro faticosa stesura, richiederebbe ampio spazio per un’analisi sistematica e non mancheranno occasioni maggiormente adatte[12]. In questa sede è sufficiente riportare le tre più vistose lacune dell’impianto normativo nei confronti dei tre principali ambiti in cui il piano urbanistico ha suddiviso Roma: la città storica; la città della trasformazione; l’agro romano.

Per la città storica la principale censura riguarda la sostanziale assenza di una vera tutela del patrimonio insediativo classificato “storico”. Se infatti occorre dare atto al nuovo prg di aver ampliato notevolmente gli oggetti da sottoporre a tutela storica fino a ricomprendervi alcuni recenti quartieri di edilizia pubblica, è altrettanto vero che la normativa di riferimento contiene formulazioni che contraddicono le stesse ragioni della tutela.

Due recenti esempi hanno svelato esplicitamente la vicenda: il compendio dell’ex Ministero delle Finanze all’Eur e l’edificio utilizzato quale museo del cinema a pochi passi dalla storica Porta Portese. In entrambi i casi la destinazione del nuovo piano era univoca: siamo all’interna nella città storica, dove la norma afferma che “gli interventi edilizi e urbanistici, nonché le iniziative di promozione sociale ed economica sono finalizzate alla conservazione e valorizzazione delle qualità esistenti, nel rispetto delle peculiarità di ciascuna delle componenti insediative”. Per entrambi questi immobili è stata invece ammessa la demolizione e ricostruzione sulla base di una possibilità offerta da altri articoli delle stesse norme tecniche. Una serie di rinvii, eccezioni e possibilità di deroga hanno reso infatti possibile ciò che apparentemente veniva rigorosamente vietato[13].

Analogo è il caso degli interventi di trasformazione urbanistica ammessi nelle aree periferiche. Lo strumento fondamentale individuato per la riqualificazione di queste aree, infatti, è il Print, programma integrato di intervento e la normativa di riferimento fissa in prima istanza i parametri urbanistici da rispettare. Subito dopo, però, lascia ampio spazio alla contrattazione. Si prevede anche il raddoppio delle volumetrie inizialmente definite attraverso le procedure di concertazione tra pubblico e privato. E’ del tutto evidente che nessuno è in grado di misurare in modo certo e univoco il dimensionamento del piano regolatore. Il numero dei Print previsti dal prg supera infatti il numero di 150: il dimensionamento di 70 milioni di metri cubi contenuto negli elaborati di piano è dunque soltanto un’approssimazione di larga massima, poiché tiene conto delle possibilità incrementali consentite dalle norme di piano.

Infine le aree agricole, l’ambito urbano che nelle dichiarazioni ufficiali appare come il fiore all’occhiello del nuovo piano. A leggere la normativa di riferimento si resta invece colpiti dal numero e dalla portata delle possibilità derogatorie che vengono create per aggirare il vincolo di destinazione agricola. Alcuni esempi. Tra gli usi consentiti nelle zone agricole sono previsti (art. 69): “ricettività all’aria aperta; attività ricreativo-culturale e sportiva a cielo aperto; discariche inerti; reti tecnologiche private; impianti di produzione di energia elettrica; attività estrattive e altre attività connesse, complementari e compatibili con l’uso agricolo”.

In buona sostanza se da un lato si afferma che l’agro romano è tutelato come categoria, dall’altro si consente la realizzazione di cava o di produzione di energia. Ad esempio, è molto attuale la produzione locaòe di energia solare e molti comuni italiani stanno favorendo la realizzazione di aree di produzione. La loro estensione supera di spesso le decine di ettari: occupano dunque molto spazio che sottraggono all’uso e al paesaggio agricolo. Il piano regolatore di Roma permette invece che si possono fare in zona agricola[14].

E’ un processo sostanzialmente analogo a quello lucidamente descritto sulle pagine di Contesti da Paolo Baldeschi riguardo ai contenuti del piano strutturale fiorentino. Nel sottolineare la vacuità, o per meglio dire il carattere di vero e proprio diversivo rispetto allo specifico disciplinare, di alcune affermazioni contenute nella normativa tecnica di piano, afferma:”Il Ps porta questa filosofia alle estreme conseguenze, presentandosi come un atto meramente politico, senza averne né competenze né poteri rispetto agli obiettivi proposti….Rimandando tutti gli aspetti urbanistici di governo del territorio al Ru e rendendo pleonastico lo statuto del territorio, l’amministrazione si lascia le mani libere sulle decisioni che saranno assunte nello strumento operativo.“[15]. La normativa del piano di Roma cade nello stesso paradigma. La flessibilità lascia infatti ampi margini di operatività nella fase della gestione urbanistica.

6. L’idea di città e il modello spaziale del nuovo piano

Il piano regolatore del 1965, come noto, delineava una fisionomia della città imperniata sulla realizzazione della “nuovacittà pubblica” nella periferia est della città. La realizzazione del Sistema direzionale orientale era infatti la chiave del rinnovamento urbano da raggiungere in primo luogo con lo spostamento delle attività ministeriali dal centro storico della città. Con il nuovo piano regolatore lo Sdo è stato cancellato. Vengono confermati i due comprensori terminali (Pietralata a nord e Torre Spaccata a est), ma l’idea strutturante viene sostituita con 18 ambiti destinati alla funzione di “centralità”. Il nuovo piano affida dunque le speranze di definizione della struttura urbana del terzo millennio a quasi due decine di poli sparsi a raggiera nel territorio romano senza alcun legame tra di essi.

Il primo gruppo delle centralità appartiene a quelle già esistenti alla data di redazione del nuovo piano: si tratta del secondo polo universitario di Tor Vergata ad est di Roma e quello della terza università di Ostiense a sud, già realizzati e funzionanti da molti anni prima della stessa elaborazione. Ad esse si aggiungono i due citati comprensori terminali dello Sdo. Le tre principali centralità, Eur Castellaccio (sud) e Acilia Madonnetta (ovest) e Anagnina Romanina (est) sono invece vecchie destinazioni a servizi pubblici del precedente piano: si passa con disinvoltura dal regime pubblico a quello privato confermando le cubature precedentemente destinate alla realizzazione di attrezzature pubbliche. In questa stessa categoria si colloca anche la centralità di Saxa Rubra (nord) nata a ridosso del centro di produzione Rai.

Due altre centralità sono state individuate su aree pubbliche Ponte Mammolo (est) e Santa Maria della Pietà (nord), ma mentre la prima è caratterizzata da una serie di vincoli morfologici e infrastrutturali tali da caratterizzarla come nodo di scambio della mobilità, la seconda è caratterizzata da un quadro storico-ambientale straordinario che non consente alcuna trasformazione. La Storta e Cesano (nord) e Massimina (ovest) sono riconducibili ad esclusivi obiettivi di valorizzazione di aree precedentemente destinate ad uso agricolo.

Cinque ulteriori centralità individuate sono infine eredità del “pianificar facendo”, sono cioè aree la cui trasformazione è stata decisa attraverso l’uso dell’accordo di programma: Alitalia-Magliana e Fiera di Roma (ovest); Bufalotta a nord; Polo tecnologico e Ponte di Nona-Lunghezza a est. Tre di esse sono caratterizzate dalla realizzazione dei numerosi centri dell’iperconsumo nati a Roma in poco tempo. In poco più di dieci anni, infatti, grazie alla disinvoltura dell’urbanistica romana, indotta anche nei comuni limitrofi sono stati costruiti 28 giganteschi centri commerciali diffusi in ogni quadrante urbano che si vanno ad aggiungere ai 4 di più modeste dimensioni preesistenti[16]. Calcoli prudenti parlano della chiusura in breve tempo di oltre tremila attività commerciali di vicinato: con il pianificar facendo è stata decretata la desertificazione della periferia romana.

E’ soprattutto nel caso del comprensorio della Bufalotta che si misura il fallimento della visione liberista del nuovo piano regolatore. Il contenuto della centralità era assicurato dalla articolazione funzionale del nuovo insediamento. Erano previste residenza per poco più di un terzo dei previsti 3 milioni di metri cubi (circa 12.000 nuovi abitanti), un altro terzo era dedicato alla realizzazione di terziario (la centralità, appunto). La restante parte era destinata alla funzione commerciale ed è stata la prima ad essere realizzata. Esaurita anche la costruzione delle residenze, era finalmente arrivato il momento di delineare il volto della centralità.

Ma i proprietari del comprensorio fanno infatti sapere al comune di Roma che conseguentemente alla crisi del comparto terziario non è dunque in grado di realizzare la prevista quota di uffici, e cioè la centralità. La giunta comunale non oppone alcuna resistenza, non cerca cioè di mantenere fede al programma sottoscritto richiamando il consorzio al rispetto della convenzione stipulata. Nel novembre 2008 vota una deliberazione che accetta di mutare le restanti volumetrie da terziarie a residenziali. Con il fallimento del progetto urbano della Bufalotta cade la convinzione principale su cui si è basata l’urbanistica romana, e cioè di affidare il destino della città al “mercato”. Una convinzione su cui è stato costruito il piano regolatore e su cui si è investito moltissimo in termini di immagine. A partire dal 2002, infatti, il comune di Roma è stato entusiasta attore nella fiera della speculazione immobiliare internazionale che si svolge annualmente a Cannes, il Mipin, Marché international des professionels de l’immobilier. Nel 2007, pochi mesi prima che iniziasse il crollo dell’economia di carta creata anche dagli stessi geniali devolopers registi del Mipin, Roma insieme alla regione Lazio aveva organizzato un padiglione di 800 metri quadrati in cui mettere la città in vendita.

E se la Bufalotta è un fallimento, l’intervento pubblico dimostra invece la capacità di essere ancora il motore delle trasformazioni. Le uniche vere centralità realizzate nell’ultimo ventennio a Roma sono infatti proprio due grandi progetti pubblici: le due università di Tor Vergata e di Ostiense che, pur nella diversità, rappresentano esempi concreti di come le amministrazioni pubbliche possono influire sul destino urbano.

7. La “nuova” urbanistica e il sacco urbanistico di Roma

Il 13 e 14 aprile 2008 il centrodestra vince con ampio margine le elezioni politiche anticipate causate dalla caduta del secondo governo presieduto da Romano Prodi. Candidato premier dello schieramento di centrosinistra era Walter Veltroni. Il 4 maggio la trasmissione televisiva Report manda in onda un servizio sull’urbanistica romana, I re di Roma, firmato da Paolo Mondani che rende finalmente evidenti le contraddizioni dell’urbanistica romana[17].

Nel ballottaggio delle elezioni amministrative svoltosi l’11 giugno 2008 il candidato della destra, Giovanni Alemanno diventa sindaco di Roma con il 53,7% dei votanti. Lo sfidante dello schieramento contrapposto, Francesco Rutelli, si ferma al 46,3%. Dopo quindici anni di ininterrotto governo di centrosinistra, Roma volta pagina.

Nei lunghi anni di governo urbano, la sinistra ha costruito una sconfitta culturale senza appello. Le speranze che avevano accompagnato le ambizioni della nuova urbanistica romana si sono dissolte progressivamente. Nel merito, in primo luogo. Il pianificar facendo ha fallito la sua sfida. Centralità, cura del ferro e tutela dell’agro erano gli obiettivi che si prefiggeva di raggiungere. Del fallimento delle centralità abbiamo già parlato.

Sulla “cura del ferro”, e cioè il legame tra le trasformazioni urbane e il sistema di trasporto pubblico si è di recente soffermato Walter Tocci, vicesindaco della città nel periodo di Francesco Rutelli e ideatore del potenziamento della rete di trasporto pubblico. Il giudizio espresso è senza appello: la cura del ferro è stata abbandonata[18].

Ed anche la salvaguardia delle aree agricole si sta dimostrando una chimera. Oggi a Roma vivono circa 2 milioni e seicento mila abitanti, eppure già nel 2002, il comune di Roma aveva misurato l’estensione dell’urbanizzato in 46 mila ettari poco meno di quanto previsto nel precedente piano, pensato per un popolazione due volte più grande. Segno evidente che l’urbanizzazione è sfuggita da ogni controllo, con la conseguente cancellazione di preziose aree destinate all’agricoltura e all’equilibrio naturale. Ma, per paradossale che possa sembrare, è oggi che si corre il rischio concreto della cancellazione della campagna romana. Il paradosso sta nel fatto che nonostante siano circa due decenni che Roma si sta spopolando, il nuovo piano regolatore prevede l’urbanizzazione di ulteriori 15 mila ettari, così da arrivare a cancellare oltre il cinquanta per cento della campagna romana. Quindici anni di nuova urbanistica hanno lasciato 70 e oltre milioni di metri cubi di cemento: il nuovo sacco urbanistico[19].

Ma il fallimento del disegno egemonico dell’urbanistica romana è rintracciabile anche nel quadro nazionale. La possibilità di veder approvata in tempi brevi una moderna legge quadro per il governo del territorio si è dimostrata vana. Nei cinque anni della prima esperienza governativa nazionale e nei due anni del secondo governo Prodi, il centrosinistra non ha avuto la convinzione di arrivare a quell’importante risultato. Eppure il 70 % dei comuni era amministrato dal centrosinistra e anche l’Anci, associazione dei comuni italiani era diretta dal sindaco di Firenze. Se non si è arrivati all’approvazione del provvedimento è perché si è preferita l’urbanistica contrattata. Oggi in discussione alla Camera dei deputati c’è la legge Lupi e una parte della stessa opposizione si è dichiarata pubblicamente a favore della sua approvazione.

L’Istituto nazionale di urbanistica vive dal canto suo un momento di evidente involuzione. Se occorre dare atto che ultimamente ha corretto i positivi giudizi espressi sulla legge Lupi, è al tempo stesso evidente il suo progressivo spostamento su una visione mercatistica della città, dimostrata dall’impegno profuso negli annuali appuntamenti “Urbanpromo”, dedicati al “marketing urbano e territoriale”, pallide emulazioni della più robusta fiera della speculazione di Cannes[20].

Solo un segmento dei quattro iniziali che hanno consentito il delinearsi dell’urbanistica romana ha conseguito in questi anni un trionfo: la proprietà immobiliare. I due quotidiani romani, Il Messaggero e Il Tempo, hanno potenziato le testate, capitalizzando evidentemente le immense plusvalenze conseguite con il pianificar facendo. In particolare Il Messaggero ha giocato una partita aperta durante le elezioni amministrative, schierandosi contro l’urbanistica del centrosinistra. Un paradosso apparentemente, se si pensa che in questi anni la proprietà fondiaria non ha trovato ostacoli a concretizzare ogni suo progetto. Ma inevitabile conseguenza della visione economicista che si è affermata: se la città è ridotta a mero fattore economico, è comprensibile che anche i suoi protagonisti principale, la proprietà fondiaria, cerchi in ogni modo di incrementare i suoi affari a prescindere dagli schieramenti in campo.

La parabola della nuova urbanistica romana sta nella sproporzione tra le ambizioni iniziali e i suoi esiti. Aver cancellato le regole in nome di una flessibilità senza scopo si è dimostrato un errore gravissimo. Le radici della sconfitta romana sono dunque culturali. Ed è soltanto con una coraggiosa opera di revisione critica delle sue posizioni sulla città che lo schieramento progressista potrà superare la sconfitta del 2008.

[1] La più significativa delle esperienze recenti è senza dubbio quella di Napoli negli anni 1993-97. Oltre alle numerose pubblicazioni del comune di Napoli, va segnalato il bel volume di Gabriella Corona, I ragazzi del piano. Donzelli editori, 2007.

[2] Giuseppe Campos Venuti, Il piano per Roma e le prospettive dell’urbanistica italiana, in Urbanistica n. 116-2000. Alcune altre citazioni: “E dal comune di Roma, che dopo 40 anni ha elaborato un nuovo piano regolatore, viene la risposta forse più significativa alla deregulation e alla passività, all’antipiano e all’estremismo”, Giuseppe Campos Venuti, Adottare il piano per Roma, Comune di Roma, 2002; “Mi sembra che l’amministrazione e i suoi consulenti rifiutino il vecchio modello del piano rigido e statico”, Giuseppe Campos Venuti, Urbanistica in evoluzione, in Capitolium, dossier Verso il nuovo piano regolatore, 1999; “Introduzione di meccanismo compensativi e la perequazione urbanistica, che superino l’impasse quasi ventennale dei meccanismi di apposizione dei vincoli preordinati all’esproprio e la subordinazione della progettazione urbanistica alla struttura della proprietà fondiaria”, Domenico Cecchini, relazione al Piano delle Certezze, Roma, 1997.

[3] Durante il 1998 la competente commissione della Camera dei Deputati aveva iniziato la discussione su un testo organico redatto principalmente da Guido Alberghetti, ex parlamentare e responsabile dell’urbanistica del Pds. Inerzie e divisioni all’interno della stessa maggioranza non consentirono l’approvazione della legge, ma furono numerosi gli interventi del gruppo degli urbanisti incaricati in cui affermavano che i contenuti del nuovo piano romano erano un’anticipazione di quelli della legge nazionale.

[4]Il più diffuso quotidiano locale, Il Messaggero, è di proprietà di Francesco Gaetano Caltagirone, titolare, tra l’altro, di una grande società di produzione di cemento e proprietario di molte aree ed edifici. Il quotidiano locale di destra, Il Tempo, è anch’esso di proprietà di un soggetto con rilevanti interessi immobiliari, Domenico Bonifaci. Nel consiglio di amministrazione del gruppo Rcs-Corriere della Sera, infine, siede Pier Luigi Toti, importante e autorevole costruttore romano.

[5]La variante di Salvaguardia fu adottata con delibera n. 279 del Consiglio comunale di Roma il 23-24 luglio 1991. Le controdeduzioni furono approvate il 21 febbraio 1995. L’approvazione da parte della regione Lazio si ebbe con deliberazione di Giunta regionale n. 596 del 17.5.2002. La variante delle Certezze fu adottata dal Consiglio comunale in data 29 maggio 1997. Il 9 novembre 2000 fu approvata la deliberazione di precisazione delle compensazioni ivi contenute. L’approvazione regionale si ebbe con dgr n. 856 del 10. 9. 2004. Va anche sottolineato che nei quindici anni di gestione urbanistica non sono stati difesi neppure i vincoli sulle aree pubbliche, poiché alla metà degli anni 2000 in alcune aree sottoposte a piano attuativo essi vennero di nuovo a scadenza. Da allora iniziò nuovamente lo stillicidio di richieste di edificazione sulle aree a vincolo scaduto. Molte sono state compromesse con il rilascio di permessi di costruzione, ma a differenza di quanto avvenne negli anni ’90 nessuno ha pensato di lanciare il minimo allarme all’opinione pubblica.

[6]Infine il piano delle certezze introduce con una prima applicazione l’istituto della compensazione edificatoria….Già oggi con il piano delle certezze esso trova applicazione rispetto alle aree edificabili che vengono cancellate sulla base di criteri urbanistici e non sulla base di vincoli cogenti di inedificabilità”. E’ invece noto che la lottizzazione di Tormarancia, la cui edificazione fu cancellata sulla base dell’apposizione di un vincolo paesaggistico, insieme ad altri casi, furono ugualmente inserite all’interno dei comprensori da compensare.

[7] Vincenzo Cerulli Irelli, Edoardo Salzano. Relazione introduttiva al convegno di Italia Nostra sui diritti edificatori. Roma, 10. 1. 2003. Sulla rilevanza giuridica delle nuove formulazioni vedi Luca De Lucia, La perequazione nel disegno di legge sui Principi in materia di governo del territorio” in La controriforma urbanistica. Alinea editrice 2005.

[8]Verso il nuovo piano regolatore. Le città di Roma. Comune di Roma, Dipartimento politiche del territorio. Roma, novembre 1999.

[9] Sulla legge Lupi si veda: La controriforma urbanistica, a cura di M.C.Gibelli, Alinea editrice 2005. Dall’inizio di questo anno (2009) la legge Lupi ha iniziato di nuovo ad essere discussa all’interno della competente commissione della Camera dei Deputati e, data l’assenza di una convinta opposizione, il provvedimento rischia di essere approvato.

[10] Dal 1999 al 2008 a Roma è esistito l’assessorato ai “Grandi eventi” che diretto ininterrottamente dall’assessore Claudio Minelli è stato l’ispiratore di decine di deroghe approvate mentre si redigeva il piano urbanistico.

[11] Le intercettazioni ambientali fanno infatti comprendere appieno il nuovo meccanismo. La costruzione della variante che intendeva trasformare nello stadio di calcio della Fiorentina e nelle strutture commerciali correlate la destinazione a parco pubblico preesistente, viene infatti decisa da incontri ristretti svoltisi in vari ristoranti della città dal sindaco Leonardo Domenici, dal proprietario dell’area, Salvatore Ligresti, e dal proprietario della squadra di calcio, Diego Della Valle. La città era all’oscuro di tutto.

[12] In questa sede è forse utile limitarsi a riportare le date delle numerose stesure formalizzate della normativa. Prima adozione di Gm. nel settembre 2000. Versione provvisoria del 19 aprile 2002. Stesura approvata dalla Gm. il 18. 6. 2002. Versione variata approvata dalla Gm. il 3. 12. 2002. Stesura adottata dal consiglio comunale il 19-20. 3. 2003. Stesura approvata in sede di controdeduzioni approvata il 5 dicembre 2005. Ad ogni stesura si introducevano notevoli mutamenti.

[13] La citazione riportata nel testo è tratta dall’articolo 20, Città storica, Definizione, obiettivi e componenti., comma 2 delle NTA. Al comma 5 del successivo articolo 21 si afferma ad esempio: “Nelle aree libere non gravate di vincolo di pertinenza a favore di edifici circostanti sono ammesse la nuova edificazione su singoli lotti liberi o parzialmente edificati interposti tra lotti edificati dello stesso isolato, e risultanti da demolizioni totali o parziali di preesistenti edifici”.

[14] Vezio De Lucia, Il nuovo Prg di Roma e la dissipazione della campagna romana. In Meridiana 4-2005. I dati sul consumo di suolo a Roma sono contenuti in Paolo Berdini, La cancellazione della campagna romana. In No Sprawl, Alinea editrice, 2006.

[15] Paolo Baldeschi, Il piano strutturale di Firenze, estrema torsione della politica toscana di governo del territorio. In Contesti, supplemento n. 2-2007.

[16] Nel quadrante nord sono stati realizzati i centri di Torresina; Bufalotta-Porta di Roma nord; Fiano-Capena; Sant’Oreste. Questi ultimi due sono ubicati in area metropolitana. Nel quadrante est sono stati realizzati i centri di Casal Bertone; Collatina; Casilina; Palmiro Togliatti; Cinecittà (preesistente); Lunghezza-Porta di Roma est; La Rustica (preesistente); Polo tecnologico; Tor Vergata; Romanina; Anagnina; Osteria del curato; Valmontone; Ciampino-J-F. Kennedy. Nel quadrante sud sono stati realizzati i centri di Navigatori; Granai di Nerva (preesistente); Euroma2; Laurentino 38; Tor Pagnotta 1; Tor Pagnotta 2; Mezzocammino; Castel Romano. Navigatori, Laurentino 38 e Mezzocammino sono in corso di completamento. Nel quadrante ovest sono stati realizzati i centri di Selva Candida; Aurelia; Pescaccio (preesistente); Portuense; Ponte Galeria-Commercity; Fiumicino-Da Vinci; Fiumicino-Leonardo.

[17] Uno dei meriti della puntata di Report sta nel fatto di aver infranto il muro del silenzio durato nei quindici anni di amministrazioni di centrosinistra. Nonostante in quegli anni non fossero mancati conflitti o studi, il controllo del sistema mediatico non aveva lasciato spazio alla città reale. Alcuni esempi. Il 14 novembre 2002 si svolge un corteo organizzato da numerosi comitati di periferia fino al Campidoglio. Sempre nel 2002 esce Lezioni di piano, per un altro piano regolatore di Roma, volume curato dal consigliere comunale alla partecipazione, Nunzio D’Erme. Nel 2006 esce Modello romano, l’ambigua modernità, Odradek editore, in cui viene evidenziata l’inconsistenza del modello romano. Non si contano invece le vertenze aperte da moltissimi comitati di cittadini che dal centro storico alla periferia hanno chiesto invano una inversione di tendenza dell’urbanistica romana.

[18] Italo Insolera, Domitilla Morandi, Walter Tocci, Avanti c’è posto. Donzelli editore 2008.

[19] Paolo Berdini, La città in vendita, centri storici e mercato senza regole. Donzelli editore 2008.

[20]Urbanpromo nel 2008 era giunta alla sua quinta edizione. Sulle vicende dell’Inu va segnalato il recente volume di Franco Girardi, Storia dell’Inu. Settant’anni di urbanistica italiana. 1930-2000. Ediesse, 2008.

A caccia di germani reali sui confini del Boscoincittà. Se di questi tempi vi capita di passeggiare o andare in bicicletta lungo i sentieri del polmone verde che si estende oltre il Gallaratese e cascina Melghera vi conviene prestare molta attenzione: pochi metri più in là potrebbe esserci una doppietta in agguato. E’ quello che è successo, sabato scorso, a un abituale frequentatore del Bosco a spasso con il figlio: a qualche passo di distanza si è ritrovato un gruppetto di cacciatori armati e pronti a sparare.

Brividi nella schiena, ma sia chiaro: è tutto legale. L’attività venatoria nell’area agricola compresa tra il parco e le case di Trenno è consentita. Ma ancora una volta si ripropone l’anomalia dei cacciatori scatenati nei campi adiacenti il Boscoincittà e il tema dei rischi per la sicurezza dei cittadini.

Non c’è da sorprendersi, del resto, se i confini del Bosco (escluso dalla caccia in quanto parco urbano) rappresentano uno spazio ambito. Appostarsi in vicinanza di una zona protetta dove si rifugia la selvaggina è per i cacciatori una scelta del tutto naturale. Quello che naturale non è, invece, è che si possa sparare in una campagna a pochi passi da dove giocano i bambini, e comunque non distante dalle case.

Forse anche per questo sulla scrivania dell’assessore al Verde, Maurizio Cadeo, sono arrivate alcune segnalazioni. E an­che il verde Enrico Fedrighini presenterà un’interrogazione in consiglio comunale: «Chiederò a Cadeo — annuncia — di promuovere presso il suo omologo assessore provinciale l’inserimento dell’area del Boscoincittà e zone agricole confinanti nell’elenco delle Oasi di Protezione della Provincia, dove è vietata qualunque forma di caccia per consentirne il transito e il ripopolamento della fauna».

Anche l’assessore Cadeo intende vederci chiaro. «E’ vero che la legge lo consente — premette — ma mi sembra disdicevole sparare a pochi metri dal parco urbano. Sentirò i colleghi di Provincia e Regione per capire come si può intervenire ».

Le decisioni sul futuro di Milano? Si prendono a casa del sindaco Letizia Moratti (che poi è anche la casa del petroliere Gianmarco Moratti, suo marito). In un paese normale sarebbe da non crederci. Ma siamo in Italia, paese in cui il presidente del Consiglio riunisce la corte nella reggia di Arcore e prende decisioni a Palazzo Grazioli, magari nel lettone di Putin. Un paese in cui il Parlamento è considerato un ente inutile e le istituzioni (dalla magistratura alla Corte costituzionale, fino alla presidenza della Repubblica) sono svillaneggiate e offese. Che sarà mai, allora, una mancanza di rispetto al Consiglio comunale, alla Giunta, a Palazzo Marino? Il potere è roba personale, da manovrare a casa (anche perché a Palazzo Marino potrebbe esserci nascosta qualche microspia: è già successo). Dunque, per risolvere la faida che si è aperta dentro il centrodestra milanese sugli affari urbanistici e immobiliari, riunione a casa Moratti, venerdì 16 ottobre. Presenti, oltre alla padrona di casa (Pdl-area Moratti), l’assessore all’urbanistica Carlo Masseroli (Pdl-area Cl), il presidente della Provincia Guido Podestà (Pdl-area laica) e Ignazio La Russa (Pdl-area ex An).

Che ci fa La Russa a casa Moratti? Che un ministro della Repubblica – e ministro della Difesa, non della Semplificazione dei Bruscolini – trovi il tempo e la voglia di partecipare alle riunioni di Donna Mestizia, la dice lunga sull’importanza degli affari trattati in quegli incontri. E della necessità per La Russa di essere presente di persona. Perché? I maligni hanno una spiegazione maliziosa: che ha a che fare con il rapporto che lega indissolubilmente tre generazioni di La Russa a un costruttore, immobiliarista e finanziere particolarmente attivo sulla piazza di Milano: Salvatore Ligresti da Paternò. Il padre di Ignazio, il patriarca Antonino La Russa (anch’egli di Paternò), è anche padre finanziario di don Salvatore, avendo pilotato nelle sue mani le eredità del vecchio ras Michelangelo Virgillito (da Paternò) e del suo discepolo Raffaele Ursini. Il figlio d’Ignazio, Geronimo, siede nei board delle società ligrestiane, a cominciare dalla holding Premafin in cui è entrato a 25 anni.

Sì, Salvatore Ligresti: un nome che è anche l’ordine del giorno segreto della riunione a casa Moratti di venerdì 16 ottobre. Don Salvatore si era accorto, qualche settimana fa, che tre sue pratiche urbanistiche, ferme da quasi tre decenni, erano diventate di colpo urgenti: aveva allora chiesto a Podestà nientemeno che di commissariare il Comune. Era seguito un braccio di ferro tra Podestà e La Russa da una parte, Moratti e Masseroli dall’altra. Ora la situazione si è sbloccata e nessuno vuole più commissariare nessuno. Quale soluzione è stata trovata? Quale papello è stato discusso? Quale trattativa è stata conclusa? Quale scambio è stato pattuito (a spese della città)? Non lo sappiamo: è un segreto chiuso nelle mura di casa Moratti. Sappiamo però che il futuro urbanistico di Milano non sarà più tutto nelle mani del sindaco e del suo assessore (che sta distillando il nuovo Piano di governo del territorio): al tavolo delle decisioni – e degli affari – ora si sono accomodati ufficialmente anche La Russa e Podestà (che da qui in poi ha mano libera per i suoi Piani di cintura, relativi ad aree preziose attorno a Milano, tra le quali il Parco sud). Buone notizie in arrivo per Ligresti, statene certi.

Nell’ottica degli ideatori – un gruppo della Confindustria, probabilmente legati alla unica realtà sportiva “industriale” del Veneto, cioè Benetton, e del distretto degli attrezzi sportivi della marca trevigiana, assieme ad immobiliaristi vari, il cui snodo sembra essere la facoltà di economia di Cà Foscari dove insegnano Gianfranco Mossetto (Economia dei beni e delle attività culturali, nonché presidente di Est Capital, un fondo di investimenti immobiliari promotore del nuovo palazzo del cinema e proprietario di grandi alberghi al Lido) e Federico Fantini (direttore del master in Strategie per il business dello sport, incaricato di redigere il concept plan delle olimpiadi veneziane) – l’intento è semplice ed evidente; lo ha esplicitato bene il presidente dei giovani industriali di Padova, Jacopo Silva: “Costruire la metropoli del Nordest”, da uno, due milioni di abitanti. Ancora più chiaro l’ex doge Gianni de Michelis che afferma che le Olimpiadi sono l’occasione per “profonde trasformazioni infrastrutturali e istituzionali (…) modificare profondamente la mappa dell’intero Veneto (…) con soglia demografica di due milioni di abitanti”. Che è poi quello che teorizza il nuovo Piano regionale di coordinamento territoriale: una “densificazione” edilizia lungo i trentadue chilometri del nuovo Passante autostradale (nato per fluidificare il traffico di attraversamento, si scopre ora un condensatore di cemento) cominciando con Veneto City e finendo con il Quadrante di Tessera moltiplicato per due , come ha già chiesto il gran patron della Save, Marchi. In mezzo tutto quello che serve: termocombustori, metropolitane di superficie e di profondità, outlet, alberghi, ospedali, fiere e università… e, ovviamente, attrezzature sportive, in un delirio di proposte da capogiro.

Ma non c’era la crisi? E non una crisi qualsiasi – ci ha spiegato Tremonti - ma derivata proprio dalla sopravalutazione finanziaria degli investimenti immobiliari; vale a dire da una esposizione bancaria troppo generosa nei confronti degli immobiliaristi che sono diventati insolventi. Scandali e fallimenti non si contano più anche in Italia. Così come crescono i cantieri fermi, i capannoni sfitti o invenduti, le abitazioni che non hanno acquirenti perché a prezzi “fuori mercato”.

E chi se ne frega - dicono i nostri interlocutori sostenitori della crescita urbana e dello sviluppo economico “locale” – , affari loro se qualcuno gli fa ancora credito, facciano pure le varie agenzie di intermediazione tra proprietari di aree e banche: Pirelli Re, Condotte, Mantovani, Impregilo. Noi amministratori “federalisti” non ci occupiamo di compatibilità macroeconomiche, noi vogliamo lavoro (di costruzione), oneri di urbanizzazione e servizi (attraverso le compensazioni urbanistiche), residenze, e quant’altro serve a fare le città più grandi e ricche.

Del resto, nella competizione globale tra aree geografiche, le amministrazioni pubbliche più stimate e più votate sono quelle che riescono ad attrarre maggiori investimenti immobiliari. Il modello da emulare – a dispetto di tutti i “post” moderni, fordisti, industriali… succedutisi - è sempre quello dell’Expo universale di Parigi con la sua torre Eiffel, tant’è che per le Olimpiadi del 2012 il sindaco di Londra Boris Johnson ne vuole costruire una di 120 metri. Sono sicuro cha anche a Venezia non mancherà un “archistar” che ci regalerà il progetto di un altro ponte.

Ma siamo proprio sicuri che questi siano anche i desideri e gli interessi autentici degli abitanti?

A giudicare dal tasso di natività dei cittadini autoctoni del Veneto non sembra che vi sia un trend di crescita demografica tale da giustificare una offerta residenziale pari a quella solo già prevista dagli strumenti urbanistici esistenti (vedi le ricerche di Legambiente di Padova e le osservazioni presentate al Ptrc). Chi sono i milioni di nuovi abitanti che industriali e amministratori locali auspicano possano venire ad insediarsi? Chi abiterà i nuovi ventimila alloggi del nuovo quartiere olimpico, quando se ne andranno gli atleti? Famiglie in lista di attesa di alloggi popolari, studenti fuori sede, immigrati senza alloggio, comunità di sinti e rom? Non credo proprio, nessuno di questi rientra nei parametri di solvibilità previsti dai project financing.

Avanzo un tema di discussione per le facoltà di urbanistica (tanto non ce ne sono più), di sociologia (non ce ne sono mai state) e di economia, soprattutto: la grande metropoli non è un modello da prediligere, è piuttosto un inferno da evitare. Di “megalopoli” ce ne sono una doppia dozzina nel mondo che presto (quando si faranno le olimpiadi a Venezia) saranno abitate da 2,4 miliardi di persone in bidonville ( The Challenge of Slums, Report on Human Settlements, rapporto Onu – Habitat, 2003). Chi pensa alla Pianura Padana come una Los Angeles (come ha avuto modo di dire Giancarlo Galan) ha visto troppi telefilm e non ha visitato né i suoi ghetti, i suoi slums, i suoi barrios, né le sue gate-comunity per ricchi, quartieri blindati, artificiali, sorvegliati e chiusi.

Molto meglio entrare in un altro ordine di idee – questo sì sarebbe davvero innovativo, coraggioso e moderno. Quello adottato dalla Giunta di Cassinetta di Lugagnano, comune nel Parco agricolo sud di Milano, che ha dato vita ad uno strumento urbanistico a consumo zero di suolo. Molti altri comuni lo stanno seguendo, ne è sorto un movimento che si chiama “Stop al consumo di territorio”. Un po’ quello che stanno facendo altre municipalità (questa volta il movimento è partito dal Galles a Mchynlleth) in materia di energia: si chiamano Transition Town e puntano a città con “zero emissioni di carbonio”. Altre reti di amministrazioni virtuose hanno già raggiunto i “rifiuti zero”; riciclano tutto e basterebbe andare a Vedelago per imparare come si può fare. Sono questi gli action plans che a noi piacciono. E ce ne sarebbe tanto bisogno soprattutto in Padania, dove la persistenza di polveri sottili inalabili hanno raggiunto livelli patologici e pericolosi per la salute. La Uniove europea ha ritenuto insufficiente il pseudo-piano di risanamento dell’atmosfera predisposto dalla Regione. Se non si fa qual’cosa subito Venezia 2020 si contenderà il primato con Pechino 2008 a proposito di Olimpiadi più inquinate.

Ma è proprio per questo – ci spiegano i nostri amministratori pubblici – che abbiamo bisogno delle Olimpiadi, perché costituiscono una “occasione” per avere delle opere pubbliche di sicura utilità che altrimenti non verrebbero mai finanziate: la bonifica di Porto Marghera, lo stadio per il calcio, una piscina olimpica, la stazione per l’altra velocità, qualcos’altro ancora. Un po’ come Milano Expo 2015 che lascerà in eredità alla città un grande parco botanico e la nuova caserma Dal Molin a Vicenza che realizzerà una nuova tangenziale. Ammettendo per un attimo che sia dignitoso accettare la logica della compensazione, altrimenti detto ricatto (modifica degli strumenti urbanistici in cambio di qualche intervento di pubblica utilità), siamo sicuri di aver ben valutato la dimensione dell’evento Olimpiadi, il suo impatto, in una città che rischia il dramma anche per i concerti rock dei Pink Floid o della Heineken? Siamo sicuri che Venezia abbia bisogno di qualche milione di visitatore in più, in maglietta e scarpe da ginnastica, nell’intervallo di una gara e l’altra, nell’arco di 15 giorni? Non avevamo detto che il problema principale di Venezia era quello di qualificare, diluire, decelerare le visite in città? Non avevamo detto che Venezia non può essere trattata come una “location meravigliosa” (secondo le parole di Marco Bolich della K-Events) buona per qualsiasi evento?

Leggo che un nuovo decreto legge è stato approvato (all’unanimità) in Senato a favore della realizzazione di nuove strutture sportive gestite direttamente dalle società “a sostegno della candidatura dell’Italia a manifestazioni sportive di rilievo europeo o internazionale”, cioè dei campionati europei di calcio del 2016. Roma e Lazio, rispettivamente famiglie Sensi e Lotito, ad esempio, hanno già presentato due progetti: uno occuperà una superficie da edificare di 130 ettari per 650.000 metri cubi di nuovi complessi edilizi e 800.000 di centri commerciali. L’altro, lo “Stadio delle aquile”, occuperà un’area di 600 ettari e realizzerà volumetrie di 2 milioni di metri cubi. Ecco, sono queste le strutture con cui Venezia dovrebbe competere. Poi ci sarebbero tutti gli altri impianti per ogni sport olimpico da spalmare in giro per il Veneto.

Mestre, Padova e Treviso appaiono decisamente fuori scala per realizzare strutture di dimensioni colossali che poi, in gran parte, rimarrebbero cattedrali nel deserto, di difficile e costosa gestione, come insegnano le pur più modeste olimpiadi invernali di Torino o l’esperienza di Atene.

Le cose sono così note e risapute, da far venire il dubbio che anche i promotori lo sappiano. Le probabilità di “vincere” la candidatura del Coni, prima, e del Comitato olimpico internazionale, poi, sono pressoché nulle. Questioni geopolitiche (vedi l’ultimo scontro stellare per le Olimpiadi del 2016 tra Obama e Lula, tra Chicaco e Rio de Janeiro) sovraintendono questo tipo di scelte. Le manie di grandezza di governatori e podestà di provincia contano zero. La vera natura della proposta sembra allora essere un’altra: un’offensiva mediatica ben congeniata per sdoganare i progetti lungo il Passante e sul Water Front lagunare, forzare gli strumenti urbanistici, semplificare le procedure, consegnare aree a qualsiasi investitore si faccia avanti. Il tutto in nome dello sport, nello spirito olimpico di pace e di cooperazione tra i popoli e in vista delle elezioni regionali. In assenza di panem, meglio abbondare in promesse di giochi circenses.

Le mani sulla città

Pietro Jozzelli

Domenici tace, Biagi tace, Matulli si dice incredulo ("pensavo che gli articoli di stampa su Formigli fossero un accanimento terapeutico"). Non c’è traccia, nei vecchi amministratori, di una riflessione, un’osservazione autocritica, un affiorare di dubbi come se l’ipotesi di accusa sostenuta dalla Procura non chiamasse anche loro a mettersi davanti allo specchio per chiedersi quali controlli non abbiano funzionato, come sia stato possibile che accadesse, perché nessuno ha mai visto nulla.

E il Pd: perché ha sempre difeso ad oltranza, anche davanti alle accuse e alle rivelazioni, quei suoi consiglieri? Non un distinguo o una presa di distanza, negandosi persino un’ovvia cautela politica e credendo di liquidare la questione col dire che era tutta una mossa politica.

Che faranno oggi quei consiglieri comunali che davanti alla proposta di dimissioni da capogruppo avanzata da Formigli la respinsero gridando "quello che ha fatto lui lo abbiamo fatto tutti noi"?

"Le mani sulla città" è il nome dato dalla Procura all’inchiesta conclusasi con 7 arresti (sei ai domiciliari) e 24 persone sotto indagine (funzionari del comune, politici, dirigenti della Quadra - tra cui l’ex presidente dell’ordine degli architetti -, costruttori). Le accuse contestate, a vario titolo, sono pesantissime: associazione a delinquere, corruzione, abuso d’ufficio, truffa aggravata, falso ideologico. Una società privata, la Quadra, avrebbe imposto nel tempo un monopolio nell’edilizia grazie alla complicità di dipendenti dell’ufficio tecnico del Comune e ai buoni uffici di due esponenti del Pd in consiglio comunale. "Quadra - dicono i magistrati - costituiva un concreto monopolio. Andare dalla società Quadra significava ottenere i permessi che si volevano". I due dipendenti dell’edilizia privata avrebbero garantito appoggio alle pratiche di Quadra; i due consiglieri, Formigli e il suo successore alla presidenza della commissione urbanistica, Barbaro, si sarebbero attivati su varianti al piano regolatore o su deroghe a regolamenti comunali influenzando delibere consiliari e atti di commissione. Secondo la Procura, Quadra avrebbe avuto corsie preferenziali per ottenere autorizzazioni comunali per sé e a favore di ditte amiche: da qui il coinvolgimento dei costruttori (alcuni già indagati nell’inchiesta di Campi). Ciliegina finale, i geometri comunali avrebbero fatto investimenti in Ucraina con i guadagni illeciti.

Dice il procuratore capo Quattrocchi: "A parte la corruzione, che è il titolo giuridico, siamo davanti ad una corrosione del rispetto dell’etica pubblica e della civitas, un rispetto che deve funzionare per tutti come orientamento nella vita della comunità". Etica pubblica e senso della civitas dovrebbero essere valori tipici di chi si impegna in politica, anche se, normalmente o si hanno o non si hanno. Nei corridoi della politica, si sa, avvengono tante cose ed è un elemento di civiltà giuridica non fare mai di tutte le erbe un fascio ed individuare sempre, in ogni fattispecie di reato, la responsabilità personale. Ma sentire il procuratore parlare di monopolio, di corrosione dell’etica comunitaria spinge a chiedersi perché, davanti ad una ramificazione così estesa di quella che l’accusa chiama associazione a delinquere, nessuno si sia mai accorto di nulla. Come è stato possibile che mai, malgrado le denunce delle opposizioni e le rivelazioni di stampa, né un controllore politico né uno amministrativo abbiano mai prestato attenzione a quello che accadeva nell’edilizia fiorentina? Immaginiamo la reazione di un cittadino qualsiasi, alle prese con una normale richiesta all’edilizia privata, nel leggere che i funzionari dell’ufficio agivano su dettatura di una società che poteva fare e disporre praticamente ciò che voleva.

Il neo segretario del Pd, Bersani, ha ripetuto ieri a Prato che uno degli obiettivi prioritari del suo partito è quello di "abbattere il muro tra la politica e lo stato reale delle cose". Se le accuse della Procura fiorentina risulteranno provate, si vede quanto quell’obiettivo sia attualissimo anche in questa città dove troppo a lungo si è pensato di essere immuni dalle sconcezze di politici e imprenditori.

Bufera sull’ufficio urbanistica arrestati funzionari e imprenditori

Franca Selvatici

«Presso l’ufficio urbanistica del Comune di Firenze gli interessi pubblici venivano sottomessi a quelli privati, in totale spregio rispetto all’obiettivo di una corretta e legittima gestione della cosa pubblica, e in particolare del territorio e dell’assetto urbanistico di una città come Firenze». Lo scrive il gip Rosario Lupo nella misura cautelare per associazione a delinquere e corruzione che ieri ha mandato in carcere il geometra dell’edilizia privata Giovanni Benedetti e agli arresti domiciliari il suo ex collega, ora in congedo, Bruno Ciolli e l’ex capogruppo del Pd in consiglio comunale Alberto Formigli, cofondatore della Quadra progetti e di essa socio occulto (per l’accusa). Agli arresti domiciliari per gli stessi reati sono andati i due amministratori della Quadra, l’ex presidente dell’Ordine degli architetti Riccardo Bartoloni e il geometra Alberto Vinattieri, dipendente part time del Comune. Arresti «solo» per corruzione per due imprenditori, Francesco Bini e Paolo Perugi, del gruppo Bini Costruzioni, accusati di aver ottenuto corsie preferenziali per le loro pratiche corrompendo Ciolli e Benedetti, che provvedevano a reinvestire il denaro in Ucraina.

Secondo il procuratore Giuseppe Quattrocchi e i sostituti Giuseppina Mione e Leopoldo De Gregorio, che hanno riempito di elogi come capita raramente gli investigatori della polizia stradale e municipale, della associazione a delinquere faceva parte anche Anton Giulio Barbaro, fisico, Pd, già presidente della commissione urbanistica. Il gip è d’accordo ma ha respinto la richiesta di arresto perché Barbaro è tornato al suo lavoro all’Arpat e ha lasciato l’attività politica. Tuttavia anche lui aveva, secondo le accuse, un ruolo preciso nella associazione a delinquere.

«Siamo di fronte alla corrosione dell’etica pubblica», ha detto il procuratore: «Quadra agiva in posizione di monopolio. Rivolgersi alla Quadra significava ottenere i permessi che si volevano». La società poteva contare su due capisaldi in Comune. In sede amministrativa c’erano i due geometri stabilmente a disposizione. Le telecamere nascoste hanno ripreso Bartoloni seduto alla postazione del geometra Benedetti. Vinattieri è stato ripreso il 23 febbraio 2008 mentre falsificava una tavola. In generale Bartoloni e Vinattieri potevano contare - secondo le accuse per almeno 22 pratiche edilizie - «sulla totale omissione della attività di verifica e di controllo da parte di Ciolli e Benedetti». I quali, per la procura, ne traevano vantaggi, come l’appartamento comprato dalla figlia di Ciolli nel complesso Dalmazia, progettato da Quadra, con circa 100 mila euro di sconto. In sede politica, invece, erano Formigli, socio occulto Quadra e capogruppo Pd, e Barbaro a garantire il buon risultato delle decisioni sui progetti Quadra che dovevano passare in consiglio comunale, come la assurda variante di via del Podestà (area agricola intoccabile ora sede di 19 terratetto) o come quella del Ferrale, dove un’area destinata ad accogliere una riserva naturale è diventata un centro di rottamazione. Ancora più inquietante la disinvoltura con cui, nell’edificio costruito dalla società Le Quinte in via di Scandicci, destinato agli affitti per i bisognosi, non sono state abbattute le barriere architettoniche, né usato il prescritto materiale di bioedilizia, né rispettate le norme antincendio nei garage.

La procura ha trasmesso gli atti alla Corte dei Conti. I cittadini che per anni hanno visto nascere edifici nei cortili, hanno perduto aria e sole e ricevuto dal Comune scarne risposte spesso supponenti, avevano finito per sospettare che la Quadra fosse più uguale degli altri. L’inchiesta dà loro ragione.

"Corroso il rispetto dell’etica pubblica"

Maurizio Bologni

I comitati dei cittadini si rivolgevano alla III commissione urbanistica di Palazzo Vecchio su sospetti abusi e speculazioni edilizi. Confidavano di trovare attenzione in un baluardo di legalità, in un soggetto istituzionale super partes. Ma il presidente della commissione, Antongiulio Barbaro, si faceva dettare le risposte da dare ai cittadini da Riccardo Bartoloni, socio e direttore tecnico della Quadra, ovvero proprio dalla controparte di cui i cittadini contestavano opere e interventi. Così i magistrati nella loro ordinanza. E anche in questa «pratica» di Barbaro il procuratore Giuseppe Quattrocchi ravvisa quella «corrosione del rispetto dell’etica pubblica, della civitas», che il magistrato ha sottolineato ieri durante la conferenza stampa e che spiega la contestazione anche del reato di associazione per delinquere a sei indagati tra cui Barbaro e Bartoloni.

«Barbaro - segnala, dunque, il gip Rosario Lupo in più di un passaggio della sua ordinanza - faceva propria la posizione della società Quadra progetti srl allorquando era chiamato, nel suo ruolo istituzionale, a fornire risposte formali e a valutare le problematiche che taluni comitati di cittadini avevano sottoposto all’attenzione della commissione: in particolare, il Barbaro si faceva predisporre dal Bartoloni il testo delle note scritte che la commissione consiliare avrebbe fornito in risposta alle suddette sollecitazioni dei comitati cittadini». Succede, ad esempio, quando il comitato dell’ex panificio militare di via Mariti lamenta le speculazioni edilizie nelle aree ex Lavazza, viale Corsica 27, ex Coop di via Carlo del Prete, Quadra Key residence in via di Novoli/via Bardazzi, nella ristrutturazione di via del Ponte di Mezzo 27 e nella realizzazione dell’edificio di piazza Della Piccola, tutti affari della Quadra. E’ il sequestro dell’hardware del computer di Bartoloni che svela ai magistrati come Barbaro sia venuto meno ad un «ruolo istituzionale» che impone «autonomia e indipendenza di giudizio». Avviene sistematicamente. Succede tra la primavera e l’estate 2006, quando più di una volta Barbaro gira a Bartoloni atti e osservazioni provenienti dal comitato e dalla rappresentante Nicla Gelli, per riceverne successivamente puntuali risposte di cui ringrazia il direttore tecnico della Quadra. Con una mail del 23 maggio Barbaro - oltre a informare Bartoloni che il consiglio comunale aveva «approvato la delibera di adozione della variante di Prg per il centro di rottamazione al Ferrale. Ti farò avere la mozione del consiglio e del quartiere 4 collegate alla delibera» - si fregia del fatto che «in commissione III abbiamo stoppato una mozione sul panificio militare» e chiede l’opinione di Bartoloni aggiungendo: «Ci lavoriamo col geom. Formigli: mi dai una mano o mi devo fidare del geometra?». Subisce la reprimenda dei magistrati anche Bruno Ciolli, che aveva chiesto e ottenuto un congedo straordinario retribuito dal lavoro tra il 27 dicembre 2007 e il 2 gennaio 2008 per gravi motivi familiari (avrebbe dovuto assistere l’anziana madre) ed era invece volato in vacanza a New York (lo testimonierebbero anche delle foto). Truffa, il reato contestato per questo specifico fatto. Robetta in confronto al resto.

«Sono politiche keynesiane alla rovescia. In precedenza si prendeva la ricchezza prodotta per redistribuirla, oggi si danno soldi a chi è già ricco. Sono costi che pagheremo per diversi decenni». A parlare è Ivan Cicconi, uno dei maggiori esperti di infrastrutture e lavori pubblici, commentando l'annuncio del governo della prima pietra del Ponte sullo Stretto. «La varianti come quella di Cannitello sono ad hoc per il Ponte, si tratta di opere funzionali al progetto». Cicconi ha denunciato già molti anni fa le storture dell'Alta velocità. Profitti privati, costi per tutta la collettività, cantieri lumaca. Oggi ravvisa nel Ponte lo stesso modello. Il keynesimo alla rovescia, Robin Hood al contrario: la ricchezza sociale che finisce nella tasche dei soliti noti: i grandi contractors, con Impregilo sempre in testa.

Esattamente quanto sostenuto nel libro "Ponte sullo Stretto e mucche da mungere": è «l'economia basata sulle partnership tra pubblico e privato che mungono attività senza rischio. Al primo soggetto spettano i costi, al secondo i benefici. È l'economia delle infrastrutture inutili, addirittura non volute ed imposte al territorio. È l'economia dei disastri e delle guerre».

Diventa dunque sterile disquisire di particolari tecnici, problemi ingegneristici, balle mediatiche o bluff elettorali. La "mucca da mungere" è un modello che esiste di per sé, è il cuore del problema. Il Ponte non è realizzabile? Un'ottima occasione per nuovi studi e revisioni di progetto. Le opere collaterali vanno fatte prima? Intanto si muove la solita economia para-mafiosa fatta di movimento terra, sub-appalti, cantieri eterni, lavoratori ricattati ed umiliati. L'esperienza dell'A3 ci racconta di continue revisioni dei conti, infiltrati mafiosi in pianta stabile, operai coinvolti loro malgrado in scene da Far West oppure morti in incidenti sul lavoro che non meritano neppure poche righe in cronaca.

Già nel maggio 2003 terrelibere.org scriveva: «Attenzione. Quando leggete Ponte, non pensate al manufatto da modellino, agli esempi virtuali dei computer. Meno che mai alla fattibilità, all'utilità effettiva dell'Opera. (...) Quando si dice Ponte si pensa a: cantieri, studi di fattibilità, commesse, ingegneri, parcelle, movimento terra, tangenti sugli appalti, pizzo sul movimento terra, ricorsi, avvocati, parcelle, interventi ulteriori, subappalti». A distanza di pochi anni, la facile profezia si avvera in un paese senza memoria.

Lo schema proposto per il Ponte, infatti, è identico a quello del Tav. Si tratta di un "metodo" datato 1991, durante l'ultimo nefasto governo Andreotti. Spiega ancora Cicconi, questa volta in una intervista del 2002: «Il sistema fu inventato dal fantasioso ministro Paolo Cirino Pomicino. Si crea una società dalla costola delle ferrovie, il Tav, che assegna i lavori alle solite grandi imprese. Il secondo passo è il project-financing, che consente di attivare finanziamenti privati. Che sono i prestiti per Tav spa, garantiti dallo Stato». Sostituendo al Tav la "Stretto di Messina" il risultato non cambia.

A proposito del Tav, d'altronde, c'è una storia illuminante. Negli anni '96-'97, il conflitto tra i piccoli imprenditori e i grandi che lavorano per i cantieri dell'Alta velocità era al culmine. L'associazione delle imprese medio-piccole produsse un "documento bomba" dove si diceva che, rifacendo quei contratti, e pur pagando le penali, lo Stato avrebbe comunque risparmiato circa 5 mila miliardi di vecchie lire. Dopo lunghissima riflessione, arriviamo al 2000: il ministro Bersani annulla i contratti. Il governo successivo li ha ripristinati. Tali e quali. Qual è il movente di questo modo di operare? Intanto reperire fondi che non ci sono e poter avviare i cantieri promessi. Secondo: spostare su una società privata un rilevante deficit pubblico che all'Unione Europea non risulterà e ci consentirà di non sforare sugli impegni comunitari.

Per quanto riguarda la data di consegna dei lavori, il ministro Matteoli ha indicato che nel tempo record di sei anni Sicilia e Calabria saranno collegate. Perché non ci crede nessuno? «Il general contractor tende a far durare i lavori più a lungo possibile e a farli costare di più», dice ancora Cicconi. «Perché questo è il suo interesse d'impresa e senza rischio di gestione viene meno la volontà di ridurre tempi e costi».

* www.terrelibere.org(ha collaborato Claudio Metallo)

FIRENZE — È qui la festa. Con i figuranti del calcio storico, i famigli del gonfalone, i centenari fiorentini e i neonati cingalesi, i palloncini colorati, il pulmino d’epoca, le chiarine del Maggio. E l’immancabile rullo dei tamburi al momento topico: click. Sono le 10 e 18 minuti del mattino quando il sindaco Matteo Renzi chiude la catena di via de Martelli e sogna di entrare nella storia di Firenze.

Click. Da ieri mattina la superstorica Piazza del Duomo è diventata un’isola pedonale. Chiusa agli autobus, ai pullman turistici e, ovviamente, alle auto. Anche quelle con il permesso degli handicappati. In un primo momento sembrava che persino le carrozzelle degli invalidi non avrebbero potuto più percorrere l’ultimo pezzo di via de Cerretani, via del Proconsolo, tutto il periplo di piazza Duomo e la via de Martelli. Ma sarebbe stato ridicolo, oltre che un paradosso, dopo che si era deciso di dare il via libera alle biciclette.

Click. Matteo Renzi ha voluto vicino Giuseppe Alberti e Isabella Melosi, duecento anni in due, quando ha tirato su il catenaccio per sigillare l’unica via ottocentesca della città. I neonati di colore sonnecchiavano beati nelle braccia di mamme e papà, mentre una folla degna dello scoppio del carro storico pasquale aveva preso d’assalto piazza Duomo fin dal primo mattino e non l’avrebbe più abbandonata, tirando in lungo persino per l’ora del pranzo.

Sono vent’anni che si discuteva attorno al traffico di piazza Duomo, ventidue linee di autobus per oltre 2 mila e cento mezzi che ogni giorno facevano vibrare le pietre di Giotto e sussultare la cattedrale di Santa Maria del Fiore. Vent’anni che studiosi e sindaci cercavano di capire come e quando cambiare la viabilità di questo pezzo di città che è il cuore nevralgico, oggi come nell’antica Fiorenza.

Matteo Renzi ha deciso e fatto tutto in un mese. Anche se adesso il più giovane sindaco che Firenze abbia mai avuto giura che è da quando è stato eletto (nel giugno scorso) che lavora in silenzio a questo progetto, simulando le variazioni del traffico cittadino con sofisticati computer. Eppure la pedonalizzazione di piazza Duomo non c’è nei cento punti che il sindaco democratico aveva garantito di realizzare nei primi cento giorni.

Scadono oggi i primi cento giorni del governo di Renzi. Oggi che sarà il primo banco di prova di questa rivoluzione. Il sindaco mette le mani avanti: «Fisiologico che ci sarà un sacco di casino. Almeno per un paio di settimane tutta Firenze dovrà abituarsi a questo grande cambiamento». Per adesso Matteo Renzi può accontentarsi di questa follo fiorentina che è in piazza ed è tutta con lui, tra applausi, strette di mano e richieste di autografi nemmeno fosse una rock star.

Filippo Bonaccorsi sorride soddisfatto. È il nuovo presidente dell’Atf, l'azienda dei mezzi pubblici della città, ed ha anche lui la faccia da ragazzino: «È tutto meraviglioso. Avremo la corsia preferenziale più lunga di Firenze, due chilometri, e si potrà andare da un capo all’altro della città in un batter baleno». Ha dovuto spostare ventidue linee in un mese, Bonaccorsi, una fatica che deve aver registrato anche la sua bilancia, smagrito come reduce da un digiuno. Ma adesso è il momento di festeggiare. Poco importa se ci sono ancora molte cose da fare, a cominciare dal togliere tutti i paletti con le catene di via del Proconsolo, ma soprattutto sistemare la via dei tram, quella che avrebbe dovuto attraversare piazza Duomo in alternativa alla pedonalizzazione.

«Matteo sei grande», anche Giuliano Borzelli, presidente dell’Antica compagnia del Paiolo, si unisce al coro della folla. E aggiunge: «Io questa piazza me la ricordo disastrata nel 1944, durante la guerra, e nel 1966, per l'alluvione. Ora è meravigliosa ». È qui la festa. Per tutta la giornata i monumenti di Firenze rimarranno aperti gratis e con visite guidate e gratuito sarà anche il concerto nella cattedrale del coro del Maggio Musicale Fiorentino, diretto dal maestro Seiji Ozawa. Con la benedizione del vescovo, monsignor Giuseppe Betori.

I nuovi grattacieli privi di parcheggio

La pedonalizzazione di piazza del Duomo a Firenze, che bandisce a ogni mezzo di trasporto tre ettari e mezzo di arte e cultura, trova quasi unanimi consensi nel mondo della cultura architettonica.

Ma se la creazione di zone pedonali è ormai largamente condivisa, un tema controverso sono le misure adottate nelle strade (come restringimenti) e nelle nuove architetture per disincentivare l’uso dell’auto in città. Su quest’ultimo punto siamo di fronte persino ad un rovesciamento: anziché costruire parcheggi nel ventre dei nuovi edifici per far scomparire le auto dalla strada, non costruirne alcuno per fare in modo che nessuno si muova in auto.

Questa è la strada adottata, ad esempio, per la Shard of Glass, il grattacielo a piramide di 70 piani alto 306 metri che Renzo Piano sta costruendo nel centro di Londra. Livingstone, sindaco di una città che nei prossimi 15 anni potrebbe avere 750.000 abitanti in più, vuole «provare che si può densificare una città senza nuove auto». E Piano ha sviluppato questa tesi: la torre potrà ospitare ogni giorno sino a 10mila persone, ma avrà solo 60 parcheggi per i portatori di handicap e i servizi. Perché sarà un monumento al cittadino che usa i mezzi pubblici. Che nell’area della stazione di London Bridge sono numerosi.

L’urbanista Leonardo Benevolo pensa che questa «sia la soluzione da perseguire. I posti auto non devono essere realizzati per forza in corrispondenza degli edifici, ma in relazione alle funzioni urbane». E fa l’esempio di Manhattan, dove ha vissuto: «L’80% dei 4 milioni di residenti non ha auto. Il 20% la tiene nel New Jersey». Più cauto l’architetto Mario Botta, che sposa la scelta di Firenze, ma avanza qualche distinguo sui palazzi senza parcheggi. «Dipende dal tipo di città e di mobilità. Zurigo fa la guerra alle auto, ma ha un ottimo servizio pubblico e parcheggi, sebbene costosi. Forse anche a Londra si può adottare questo sistema, ma non credo sia estendibile ovunque: se si impedisce di raggiungere un territorio urbano non è corretto».

Expo 2015 ha un masterplan concettuale. Il consenso politico è unanime: una buona notizia, dopo mesi di baruffe sulla guida della società di gestione. E a soli sei mesi dalla presentazione al Bie del masterplan esecutivo. Un’altra buona notizia è la sobrietà del nuovo site layout, pur se concettuale. Più di un anno e mezzo è passato dalla vittoria e molte cose sono cambiate, in Italia e nel mondo. Ridimensionare il dossier di candidatura, disegnare un sito in linea con il tema dell’Esposizione era indispensabile. Così è stato: dunque, si può ben dire che l’indisponibilità a ogni modifica non derivava dal timore della revoca dell’assegnazione, ma da una banale sordità politica.

Transeat. Veniamo a oggi. Il nuovo masterplan abbandona la monumentalità. Promuove l’esperienza diretta dei visitatori. Immagina un grande parco botanico da lasciare in eredità a Milano. Enuncia impegni per la sostenibilità. Dispensa leggerezza a piene mani. Contiene anche qualche sana furbizia, dovuta alla ristrettezza delle risorse. La via d’acqua tra la Darsena e l’Expo riappare in forma di canali navigabili interni al sito. La monumentale via di terra di 22 chilometri, tra Milano e l’Expo, è ridotta a itinerario turistico, tra il Palazzo di giustizia e il Castello Sforzesco, passando per piazza Duomo.C’è qualche dimenticanza (che fine fanno i raggi verdi e la "cintura verde" del dossier di candidatura?) E qualche strizzata d’occhio alla storia: i due assi ortogonali che dividono l’area assurgono a "cardo e decumano", la piazza posta al loro incrocio diventa un "foro centrale". Ci sono anche idee meno che abbozzate, come il "tavolo planetario" lungo l’asse principale, o le grandi serre bioclimatiche perimetrali, elevate a principale attrattiva per i visitatori (e si tratta di ben 29 milioni di persone, uno su quattro dall’estero).

Questo l’Expo concettuale, che diventerà reale a tappe forzate: masterplan esecutivo in aprile, concorsi da concludere entro l’autunno del 2011, poi inizierà la preparazione del sito. Come evolveranno le idee della consulta nelle mani della società di gestione? Per evitare che l’attivismo meneghino distribuisca biciclette in assenza di piste ciclabili, proviamo a elencare alcuni temi degni di attenzione.

[Il risultato finale]

Ora l’area è coperta, non ce ne vogliano i progettisti, da una distesa di tende: quale trasformazione verrà indotta dalle opere oggetto di concorso e dai padiglioni nazionali che dovranno ospitare (per ben sei mesi) coltivazioni esemplari di ogni Paese?

[Il post-Expo]

Tramontato il referendum, l’unica indicazione viene dalla Consulta degli architetti: «Expo creerà le condizioni per un nuovo pezzo di città che crescerà attorno ad una grande area aperta, verde e produttiva». Tradotto con malizia: il parco centrale, più o meno esteso, sarà il fulcro di nuovi quartieri residenziali. Del resto, la diatriba sull’acquisto delle aree lascia intendere che la direzione è quella, al di là delle enunciazioni di principio.

[La sostenibilità dell’evento]

La fitodepurazione nei canali è un’idea suggestiva, ma non è certo questa la partita decisiva. Nulla si dice sui temi dell’energia. O sull’accessibilità: eppure, dopo il via libera a infrastrutture di rilievo regionale, ma poco significative per l’Expo (Pedemontana, Tem, Brebemi), mancano le risorse per le opere davvero necessarie, come le linee 4 e 5 del metrò e il collegamento ferroviario Malpensa-Centrale. La stessa ipotesi di costruire strutture riciclabili va meglio precisata: perché non decidere fin d’ora di ricavare dai padiglioni e dagli impianti moduli di case, ospedali e scuole da destinare ai paesi in via di sviluppo?

[Il recupero delle cascine]

Se l’obiettivo principale è riqualificare gli edifici e recuperare spazi per l’ospitalità, prima bisognerebbe indirizzarsi agli oltre 300 mila metri quadrati di terziario inutilizzato. Per le cascine metropolitane, il tema fondamentale è quello di aggiornare le funzioni produttive; anche per questo, stupisce l’assenza di richiami al Parco agricolo Sud Milano, paglione en plein air già pronto per Expo 2015.

[Il rapporto con la città]

Ultimo tema, ormai dimenticato. La Regione tiene le fila della partecipazione (gli Stati generali) e delle scelte infrastrutturali (il Tavolo Lombardia). Il Comune sta per varare il nuovo Piano di governo del territorio, con un percorso parallelo e autonomo. Partite riferite allo stesso tema, ma irrimediabilmente divise: il masterplan di Expo finisce così per rifugiarsi all’interno dell’area "di competenza". Ci dicevano che l’Esposizione non sarebbe stata solo un evento e non si sarebbe ridotta alla trasformazione di un’area libera di 1,7 milioni di metri quadrati. Al contrario, si trattava di una straordinaria occasione per ripensare a fondo la nostra città e il suo futuro. Dobbiamo ancora esserne convinti?

Difficile dire chi ha vinto e chi ha perso, nella guerra lampo tra Salvatore Ligresti e il Comune di Milano, guerra che tanto imbarazzo ha creato al sindaco Letizia Moratti e che è riuscita a frantumare in poche settimane l´utopia da campagna elettorale della magica armonia tra Palazzo Marino e la Provincia di Milano, oggi finalmente governati da una maggioranza monocromatica.

Difficile dire se è stato Ligresti, a cedere, o non piuttosto il Comune. Difficile perché la trattativa tra l´amministrazione comunale (pubblica) e il più potente esponente del business immobiliare (privato) a Milano è avvenuta tutta nelle segrete stanze. Di Palazzo Marino e, quel che è peggio, di casa Moratti. Più facile immaginare che l´oggetto del negoziato non siano state solo le due pratiche immobiliari di via Natta e via Macconago, tutto sommato modeste. La vera posta in palio, quella che ha spinto Ligresti a inviare il suo avviso a Palazzo Marino è, come hanno capito anche i bambini, il Piano di governo del territorio. E allora, in attesa di atti pubblici, di carte e numeri su metri quadri e volumetrie, è lecito avanzare qualche domanda, alla quale un´amministrazione trasparente avrebbe il dovere di dare risposte nette.

La rinuncia alla richiesta di commissariamento del Comune da parte di Ligresti è avvenuta in cambio di una contropartita? Nel caso, la contropartita riguarda le altre proprietà ligrestiane interessate dal Pgt? E, in particolare, quelle nel Parco Sud? O, se corrispondono al vero le indiscrezioni secondo cui il progetto Citylife (di cui Ligresti è grande azionista) non navigherebbe in acque finanziariamente tranquille, l´imprenditore siciliano ha incassato qualche rassicurazione sul futuro del quartiere? («Ho chiesto personalmente alle banche di lavorare per dare risposte positive per lo sviluppo della città», ha detto il sindaco il 21 ottobre scorso). Ha qualcosa a che vedere con ciò lo stop (benedetto) alla costruzione di un nuovo quartiere a cinque stelle sulle piste dell´ippodromo di San Siro, potenziale concorrente di Citylife sul mercato delle residenze di lusso?

Domande maliziose? Forse. Necessarie, quando le trattative sono opache e le decisioni sul futuro della città si prendono tra i velluti del salotto di casa Moratti, anziché nelle sedi istituzionali a ciò preposte, insieme ai leader dei partiti di maggioranza, magari pure amici di famiglia del re del mattone. Il Pgt è un rivoluzionario progetto di ridisegno della città che, per quello che si è visto fin qui, contiene alcuni principi condivisibili e tante buone intenzioni. Merita, nella sua applicazione (che è il passaggio più delicato), fermezza nella tutela dell´interesse pubblico e massima trasparenza.

Giovedì 15 ottobre il ponte sullo Stretto di Messina è piombato nella vita degli italiani. Il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, ha annunciato che a Natale partiranno i lavori per spostare la ferrovia che arriva al porto di Villa San Giovanni. La costruzione del ponte, costo stimato 6,3 miliardi di euro, sarà finita in sette anni. Per il ministro i dibattiti sul progetto definitivo che manca, sugli interessi mafiosi per gli appalti, sull'utilità di un'opera che mai si ripagherà sono finiti: il ponte si farà.

Nel fronte dei contrari tanta sicurezza è stata letta come una mossa politica: il governo è alla ricerca di un colpo a effetto e l'apertura in diretta televisiva del cantiere per un'opera accessoria si riduce a mera propaganda. I reali motivi dell'accelerazione di Matteoli, però, sono probabilmente diversi. Le più recenti cifre sul traffico, infatti, dicono che il passaggio sullo Stretto sta diventando sempre meno cruciale nelle rotte per la Sicilia. Da quando il progetto preliminare è stato varato, infatti, l'isola ha vissuto un boom di voli low cost e di navi cargo che saltano lo Stretto, collegando direttamente Palermo con Napoli, Livorno, Genova. E questo, per Matteoli, è un grosso problema.

Il piano finanziario prevede infatti che una fetta consistente dei soldi necessari, circa 3,8 miliardi, venga presa a prestito in banca e restituita nel tempo con i pedaggi incassati da chi userà il ponte. Soltanto 2,5 miliardi dovrebbero venire dalle casse dello Stato e, di questi, appena 1,3 miliardi a fondo perduto: il resto dovrebbe essere restituito al socio pubblico nei modi previsti per le banche.

Questa struttura, però, è a rischio.

Gli istituti di credito vogliono certezze su quando riavranno indietro i loro prestiti. E ci sono i consueti dubbi su un costo reale che potrà essere più alto del previsto. Timori che potrebbero far saltare i prestiti bancari, una prospettiva che va sempre tenuta in considerazione, vista la lezione del fallimento finanziario dell'Eurotunnel, la galleria sotto la Manica che, pur collocata sull'asse fra due megalopoli vivissime come Londra e Parigi, ha causato perdite miliardarie agli investitori. Di qui il tentativo in extremis di Matteoli per serrare le fila, convincere le banche sulla serietà delle intenzioni e non mandare all'aria un progetto fortemente voluto dal premier Silvio Berlusconi e dal partito del cemento, visto l'appalto affidato a un consorzio guidato da Impregilo, società che conta fra i soci pezzi da novanta come i Ligresti, i Benetton e il costruttore Marcellino Gavio.

In apparenza, il traffico sullo Stretto è tutto fuorché in crisi. Fra traghetti privati e navi delle Ferrovie dello Stato, ai moli messinesi di Rada San Francesco e di Tremestieri e a quelli calabresi di Reggio e Villa San Giovanni si contano 280 partenze giornaliere, che salgono a 400 in alta stagione. Gli imprenditori sostengono che i treni merci prima di essere imbarcati aspettano anche due giorni. Per chi viaggia con l'auto i ritardi sono una dannazione, come appare inevitabile se si considera che lo Stretto è affollato anche da 20 mila cargo l'anno in viaggio fra Tirreno e Mediterraneo. Di qui la difesa dell'utilità del ponte fatta da Pietro Ciucci, numero uno della Stretto di Messina Spa, la società dell'Anas chiamata prima a sovrintenderne la costruzione e poi a gestirlo per trent'anni: "Anche un non amico del ponte come Alessandro Bianchi, l'ex ministro dei Trasporti, in un'audizione definì lo Stretto una delle aree più trafficate del Mediterraneo. Ogni quattro minuti parte un traghetto, mentre un terzo delle navi che incrociano trasporta prodotti chimici e petroliferi: i rischi per la sicurezza e l'ambiente sono facilmente immaginabili", dice Ciucci.

Se però si scende nei particolari, le prospettive di ritorno economico di un'infrastruttura tanto impegnativa appaiono fortemente dubbie. Basta prenotare un viaggio via Internet per farsene un'idea. In un giorno feriale di novembre, un trasferimento da Trapani a Roma con la compagnia aerea Ryanair costa 30 euro e dura un'ora e mezza, mentre con il treno si va dai 55 euro dell'interregionale ai 126 dell'Intercity e ci vogliono da 16 a 23 ore, cambi compresi. Da Palermo a Roma si vola con EasyJet a 40 euro e con WindJet a 75 euro, mentre in treno - scegliendo il Frecciarossa da Napoli - ci vogliono 11 ore e 87 euro.

Il passaggio via ponte accorcerà un po' i tempi, ma il vero ostacolo restano l'arretratezza della linea di oltre 400 chilometri fra Reggio e Napoli, nonché quella delle ferrovie che congiungono Messina a Catania e Palermo. Dipende anche da questo il successo negli ultimi anni del traffico aereo. Se si guardano solo i viaggi tra la Sicilia e il resto d'Italia, il boom è superiore a quello nazionale. Nel 2001 era il 13,4 per cento dei viaggiatori a utilizzare l'aereo, mentre nella prima parte del 2009 si è raggiunto il 17 per cento.

Dagli aerei alle navi, i dubbi sul ponte non vengono meno. L'anno scorso sono diminuiti sia i passeggeri che le merci passate per lo Stretto. Le Ferrovie, in particolare, hanno tagliato del 5 per cento le corse rispetto alle previsioni, ma sono molte le valutazioni che indicano come il transito da Reggio a Messina non sia più un passaggio obbligato per i trasporti di merce per la Sicilia. I camion hanno molteplici rotte con il resto d'Italia. Il 42 per cento dei posti disponibili, stando ai dati di Confitarma, è su navi che collegano Palermo con tutto il Tirreno: solo il 23 per cento passa da Messina. Persino la Caronte & Tourist, la storica società dei traghetti dello Stretto, realizza ormai metà dei propri ricavi su rotte diverse: una diversificazione attuata in vista del ponte, ma che già oggi dà i suoi frutti.

La questione è delicata. "Se alla fine le stime di traffico non dovessero essere rispettate, chi ci metterà i quattrini necessari: le banche, i privati o i contribuenti?", si domanda Marco Ponti, che insegna Economia dei trasporti al Politecnico di Milano. A domande come queste, Ciucci risponde che i piani elaborati dalla Stretto Spa non presentano falle: "È stato considerato un ventaglio di scenari sia in relazione alla crescita del Pil che all'evoluzione del traffico. A settembre, come ulteriore prudenza è stato scelto di utilizzare le nuove previsioni di traffico stradale ridotte del 5 per cento e di calcolare, a partire dal quinto anno, flussi di traffico stradale e ferroviario costanti. Anche in questo scenario, molto prudenziale, il progetto è risultato economicamente fattibile", dice.

Può darsi che sia così. Il problema, però, resta quello delle cifre in gioco. Se si guardano i bilanci delle Ferrovie e della Caronte & Tourist, emerge un dato interessante: oggi il giro d'affari del trasporto sullo Stretto vale circa 120 milioni di euro. Una piccola torta, se si considera che la Stretto Spa dovrà restituire alle banche e ai soci pubblici (l'Anas e le Fs) circa 5 miliardi su 6,3. Se anche riuscisse ad accaparrarsi l'intero business del transito, polverizzando la concorrenza navale e aumentando i prezzi, ci vorrebbero decenni per ripagare l'investimento. È questo il nodo principale che, probabilmente, Matteoli e Ciucci dovranno sciogliere con le banche: se anche le cose andassero al meglio, nei 30 anni di concessione la Stretto Spa non riuscirà a restituire l'intera cifra.

Dal punto di vista tecnico, Ciucci la mette così: "Abbiamo previsto di effettuare nel periodo di gestione un ammortamento dell'opera non inferiore al 50 per cento dell'investimento ed il riconoscimento alla Stretto di Messina da parte dello Stato di un valore di riscatto pari, al massimo, al 50 per cento dell'investimento stesso al termine del periodo di gestione". Il valore di riscatto, aggiunge, troverà "integrale copertura mediante utilizzo di parte delle risorse che verranno acquisite dallo Stato rimettendo a gara la gestione al termine del periodo della prima concessione". Che cosa significa? Che anche se tutto filerà liscio alla fine dei 30 anni metà dei 5 miliardi probabilmente non sarà ancora stata restituita ai finanziatori e dovrà essere, nella migliore delle ipotesi, spalmata su una nuova concessione trentennale. I banchieri lo chiamano 'balloon', che in italiano vuol dire mongolfiera. Una mongolfiera di debiti che, prima o poi, bisognerà restituire.

Nell'estate del 2004 fu uno dei primi atti della giunta regionale appena eletta: divieto di costruzione entro i due chilometri dalla linea della costa. Un decreto firmato da Renato Soru, che della tutela del paesaggio aveva fatto uno dei temi forti della campagna elettorale che s'era chiusa, nel giugno di quell'anno, con la vittoria della coalizione di centrosinistra. Al primo alt agli appetiti dei cementificatori (industria edile, albergatori, immobiliaristi) Soru fece seguire il "Piano paesaggistico regionale", uno strumento di tutela senza eguali in Italia e tra i più avanzati in Europa. Tutela non solo delle zone più vicine al mare, ma anche di quelle interne, comprese le aree agricole intorno ai centri urbani e le zone collinari e montuose. Tutto il territorio regionale veniva coperto, per la prima volta, da un sistema di regole che dettavano i criteri d'interesse generale in base ai quali l'attività edilizia doveva essere svolta. Per una regione come la Sardegna, e per un paese come l'Italia, una novità epocale: il paesaggio riconosciuto come bene comune rispetto al quale l'ordine di priorità che guida le logiche degli imprenditori del mattone e degli speculatori veniva disinnescato, destituito della legittimità e della priorità che le amministrazioni pubbliche, non solo in Sardegna, le avevano sempre riconosciuto.

A caldo il commento di Soru, capo dell'opposizione in consiglio, alla decisione dell'assemblea regionale di ridare disco verde a chi all'ambiente preferisce l'edilizia di rapina è durissimo: «Noi faremo di tutto perché la legge che è stata approvata venerdì sia cancellata. Se passasse, per la Sardegna sarebbe un disastro di dimensioni storiche».

Il presidente della giunta di centrodestra, Ugo Cappellacci, dice che lei e tutto il centrosinistra fate un allarmismo ingiustificato...

Cappellacci mente in maniera spudorata. La prima bugia che dice è che la legge approvata dal consiglio regionale non è altro che l'attuazione del Piano casa nazionale. La seconda bugia è che in fondo ciò che è stato deciso è solo un aumento delle cubature finalizzato alla riqualificazione delle strutture turistiche e al risparmio energetico.

Queste cose non ci sono nelle legge regionale?

Non è questo il punto. Il punto è che la legge di fatto reintroduce nella normativa urbanistica le vecchie zone F, le famigerate zone di sviluppo turistico. In tutte le aeree costiere della Sardegna di qualche pregio ambientale, ma proprio in tutte, sono pronti progetti di lottizzazione che, con la legge della giunta Cappellacci, ripartiranno alla grande. Cappellacci e i suoi assessori cercano di far credere che il loro progetto sia solo chiudere terrazzini e scantinati e concedere agli alberghi un po' di volumetrie in più se ristrutturano in funzione del risparmio energetico. E questo purtroppo è anche il messaggio che passa nei media. Invece il vero obiettivo è un altro. E' quello di ritornare al sacco indiscriminato delle coste. E sarà una colata di cemento mostruosa, da nord a sud, dall'Argentiera ad Alghero, da Bosa a Chia, da Pula a Capo Malfatano, da Nora a Capo Spartivento, da Teulada a Olbia. Uno scempio a confronto del quale il più grande disastro ambientale subito dalla Sardegna, la deforestazione compiuta dai piemontesi nella seconda metà dell'Ottocento, che non è stata poi neanche così grande com'è stata dipinta, è una cosa da niente. Se la legge approvata dalla maggioranza di centrodestra sarà attuata, la nostra generazione sarà ricordata per sempre come quella che ha irreparabilmente devastato un patrimonio ambientale e paesaggistico straordinario.

Come intendete opporvi?

Faremo tutto ciò che è possibile fare per fermare lo scempio che il centrodestra sta preparando. Ricorreremo alla Corte Costituzionale, che su queste materie si è già pronunciata a nostro favore contro il tentativo di cancellare il Piano paesaggistico. Promuoveremo un referendum regionale che dia la parola a tutte i sardi e spiegheremo che in gioco non ci sono solo aumenti di volumetria, ma la sopravvivenza di quel bene prezioso e unico che è il nostro ambiente e il nostro paesaggio, contro il quale si sta tentando di sferrare un colpo mortale.

Più cubature, anche in riva al mare Via la salva coste

«Piano casa» secondo il centrodestra, «piano cemento» secondo l'opposizione di centrosinistra. Venerdì il consiglio regionale sardo ha approvato un disegno di legge che il presidente della giunta, Ugo Cappellacci, aveva messo al centro della sua campagna elettorale, quella che nel febbraio di quest'anno lo vide correre, e vincere, contro il governatore uscente, Renato Soru.

Cappellacci promise agli elettori che una delle prime cose che avrebbe fatto sarebbe stata la modifica radicale delle norme urbanistiche approvate da Soru, quel "Piano paesaggistico" che il centrodestra indicò, durante lo scontro elettorale, come una delle cause principali, se non la principale, delle difficoltà dell'economia sarda. In una regione dove l'industria è al collasso e gli agricoltori sono strangolati dai debiti contratti con le banche, era gioco facile, per Cappellacci e soci, presentare turismo e sviluppo dell'edilizia come i toccasana per curare il crollo del pil regionale e l'impennata del tasso di disoccupazione.

Ora la promessa viene puntualmente mantenuta. C'è voluto un mese e mezzo dalla presentazione del testo della giunta e due settimane di scontri molto aspri in consiglio regionale, ma alla fine, venerdì scorso a tarda sera, l'aula ha approvato il progetto con il voto compatto di tutta la maggioranza.

Inutili i tentativi dell'opposizione di introdurre parziali modifiche. Inutile il tentativo-provocazione dell'ex assessore Gian Valerio Sanna, principale collaboratore di Renato Soru nell'elaborazione e nella gestione del Piano paesaggistico, che ha presentato un documento per chiedere ai consiglieri regionali di impegnarsi a non usufruire personalmente dei benefici della legge. Né sono serviti a molto gli interventi dei capigruppo del Pd, Mario Bruno, della Sinistra, Luciano Uras, dell'Idv, Adriano Salis. Al vice presidente del consiglio, Giuseppe Cucca, che chiedeva di mettere da parte le contrapposizioni della passata legislatura e di aprire un confronto nel merito della legge, Chicco Porcu, uno dei consiglieri più vicini a Soru, ha replicato: «Se confronto deve essere sia sulle riforme vere, a iniziare dai conflitti di interessi».

La battaglia più aspra è stata quella sull'articolo 13 della legge, che consente aumenti di cubature sino al 10 per cento dei volumi già esistenti "in strutture a finalità turistico-ricettiva" anche entro la fascia sinora protetta dei trecento metri dalla linea del mare. E questo senza la verifica prevista dal "Piano paesaggistico" attraverso il meccanismo dell'intesa preventiva tra enti locali, costruttori e assessorati all'ambiente e all'urbanistica. Un meccanismo che garantiva il controllo regionale sulla base delle norme generali dettate dal Piano paesaggistico. La cancellazione della procedura dell'intesa è uno stravolgimento palese del sistema di tutela voluto dalla giunta Soru, ma anche delle norme del Codice Urbani. Lo ha ricordato Gian Valerio Sanna. «Non si possono usare norme urbanistiche, come quelle approvate dal consiglio, per intervenire sulla tutela paesaggistica, garantita sia dal piano regionale sia dal Codice Urbani. La legge ora prevede che si potrà costruire entro i trecento metri dalla costa a condizione che venga concessa un'autorizzazione paesaggistica da parte di una commissione nominata, in pratica, dalla maggioranza. Ma non può essere concessa alcuna autorizzazione paesaggistica entro zone che sono, sia secondo la normativa regionale sia secondo quella nazionale, zone a vincolo integrale». Secondo il piano casa di Cappellacci, nelle aree non costiere gli attuali indici di edificabilità potranno essere superati del 20%, ma solamente per fabbricati ad uso residenziale uni-bifamiliare (escluse le villette a schiera), con una premialità sino al trenta per cento di volumetria in più se si ristruttura casa con tecnologie che garantiscano un risparmio energetico. Sottotetti e seminterrati potranno ottenere l'abitabilità. I cosiddetti "vuoti tecnici" all'interno della facciate, in pratica verande e terrazzi, potranno essere chiusi se non danno in facciata.

Netta l'opposizione del fronte ambientalista. Per Vincenzo Tiana (Legambiente), Fanny Cao (Italia Nostra) e Luca Pinna (Wwf) il consiglio regionale ha approvato una legge peggiorativa delle norme di salvaguardia paesaggistica: «I sardi devono essere informati che attraverso un dispositivo di legge in teoria volto a rendere possibili e più semplici piccoli ampliamenti edilizi, si vuole far passare una modifica di fatto delle norme di tutela del paesaggio».

È bastata una nuova ondata di maltempo per riportare la paura nelle zone del Messinese distrutte dall’alluvione del primo ottobre. La pioggia che si è abbattuta l’altra notte sulla Sicilia, ed in particolare su Palermo e sulla costa di Messina, ha creato non pochi problemi alla popolazione. Tra Taormina e Santa Teresa di Riva alcuni torrenti sono straripati e si sono registrate frane e allagamenti. Alcune auto sono rimaste intrappolate nel fango e sull’autostrada Messina-Catania, nel tratto della galleria Giardini, a causa di uno smottamento, si circolava solo sulla corsia di sorpasso.“Ma se non riusciamo a uscire dalla città perché la situazione delle infrastrutture è già disastrosa, che ce ne facciamo di un Ponte che ci colleghi al continente?”. Non ha dubbi, nel bocciare la grande opera, Claudio Villari, ingegnere strutturista di Messina, ex docente della Facoltà di Architettura all’Università di Reggio Calabria, grande esperto di terremoti. “Perfettamente inutile, sia in un’immediata visione della realtà, sia in una prospettiva futura. Noi non abbiamo problemi a raggiungere l’altra sponda, ma abbiamo moltissimi problemi a raggiungere l’altra parte dell’isola. L’attuale sistema ferroviario e viario è fragilissimo”.

Sicilia e Calabria, secondo Villari, sono due terre che scontano decenni di abbandono, ma che hanno anche gravissimi problemi idrogeologici. “Si parla di territori che subiscono profonde modificazioni perché di recente formazione”, spiega.

E il cuore della questione è proprio questo: “Non esiste un progetto definitivo per il Ponte sullo Stretto - prosegue Villari - né esiste uno studio ufficiale di fattibilità. Un’opera di queste dimensioni e che richiede un tale impegno finanziario non può essere fatta se non si è assolutamente certi che non si siano situazioni di instabilità dovuta ai movimenti tellurici, al terreno e, in generale, al contesto idrogeologico. Come si fa a dire che si farà in piena sicurezza quando non esiste una progettazione definitiva, che abbia avuto un esame di fattibilità e di buona esecuzione formale? Tutto ciò finora non esiste, c’è solo un progetto di massima e una dichiarazione informale di fattibilità”.

C’è poi un discorso economico da fare, perché, secondo l’ingegnere, non c’è la copertura finanziaria per un simile progetto, che deve comprendere anche tutte le opere connesse (come le infrastrutture). “Il primo finanziamento è di 2.100 miliardi di euro (sui 6.500 ritenuti necessari per il completamento dei lavori), effettuato dal Cipe con il denaro pubblico, mentre il resto viene subordinato ad un inesistente interesse privato”.

Eppure pochi giorni fa il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli ha annunciato in pompa magna che i cantieri partiranno a dicembre e dureranno sei anni. Se volessimo fare l’avvocato del diavolo, si potrebbe dire: finalmente, dopo 40 anni, una data certa. “Ma quali cantieri? Hanno annunciato soltanto una modifica dell’asse ferroviario della stazione di Villa San Giovanni: faranno quella, poi si fermeranno perché avranno finito i soldi. E a quel punto si metteranno nelle condizioni di farsi ricattare dall’impresa aggiudicataria dell’appalto. Tutto ciò è contrario ai principii fondamentali di chi appalta un’opera: non ci sono soldi e non c’è progetto. Eppure sono 40 anni che vengono elargiti fondi alle varie società che si sono susseguite. C’è tutta l’aria dell’imbroglio, o di una sottovalutazione ignobile delle urgenze e delle priorità che drammaticamente si impongono”.Non tutti i siciliani la pensano come il professor Villari, però. “I cittadini non hanno la possibilità di farsi un’idea precisa di questa grande opera - risponde lui - la società ha costruito un bellissimo modellino di ponte (visibile al pubblico), con tanto di aria calma e mare cristallino; hanno raccontato che servirà anche ad incrementare il turismo. La gente si illude che l’opera possa realizzarsi subito e che tutto sia semplice e scontato. Ma si tratta di sensazioni sbagliate, fondate su un errore di fondo”.

Dunque una condanna senza appello: “Inutile, lo ripeto. Nessuno mi convincerà mai dell’utilità di un’opera simile, neanche se vi fossero un progetto definitivo e uno studio di fattibilità che tenga conto del dissesto del territorio. Abbiamo bisogno di strade, non di ponti”.

CAGLIARI - Via libera a nuove colate di cemento sui litorali sardi. Sotto attacco la fascia di 300 metri dal mare. Almeno per possibili ampliamenti di alberghi, residence e strutture turistiche (sino al 25% delle volumetrie esistenti). Secondo il centrosinistra e gli ambientalisti, l’inversione di tendenza rappresenta un primo, durissimo colpo alla legge salvacoste varata nel 2004 dall’ex governatore Renato Soru. A dare il disco verde è stato il consiglio regionale. Il testo sull’edilizia, che in qualche misura comincia ad attuare il piano casa nazionale su scala isolana, è stato approvato ieri mattina: 39 i favorevoli, 20 i contrari, 1 astenuto. Ha votato sì l’intero schieramento di centrodestra che sostiene il presidente, Ugo Cappellacci, a suo tempo fortemente voluto da Silvio Berlusconi come candidato alla guida della giunta sarda.

L’iter del provvedimento è stato contrassegnato da un forte scontro in aula tra maggioranza e opposizione. La minoranza ha presentato oltre 400 emendamenti contro quello che ha più volte chiamato «Progetto cemento». Il centrosinistra, che nella scorsa legislatura approvò il Piano paesaggistico sardo e confermò il vincolo dell’inedificabilità nei 300 metri dal mare, ha criticato pesantemente le deroghe. Gli aumenti di cubatura potranno riguardare solo fabbricati a uso residenziale. Ma senza sopraelevazioni. E a condizione che gli ampliamenti migliorino la qualità architettonica dell’immobile, secondo quanto vagliato da una Commissione regionale ad hoc istituita con l’articolo 7 del provvedimento.

Sul patrimonio delle costruzioni in aree urbane gli indici massimi di edificabilità potranno essere superati fino al 20%. Ma solamente nel caso di fabbricati per uso residenziale uni-bifamiliare. Con una premialità fino al 30% di fronte a miglioramenti per il risparmio energetico. Gli incrementi potranno interessare anche le zone agricole. Per i centri storici dell’isola saranno invece subordinati a delibera da parte dei consigli comunali. Previsto infine il recupero a fini abitativi di sottotetti e seminterrati, tranne in aree a rischio idrogeologico.

«Profonda soddisfazione» viene espressa dal capogruppo del Pdl, Mario Diana. Mentre secondo Ance e Confindustria sarde è «un’opportunità per la ripresa dell’economia dell’isola». «È iniziata l’operazione verità: che la nostra legge sia un Piano cemento è una menzogna, semmai i cementificatori erano gli esponenti della precedente giunta»: così Ugo Cappellacci, che ieri sera ha rimandato al mittente le accuse di «deregulation selvaggia». «È una legge semplicemente vergognosa - ha invece commentato senza mezzi termini l’ecologista Stefano Deliperi, presidente sardo del Gruppo d’intervento giuridico - Riapre le coste al cemento selvaggio. Minaccia l’ambiente. Crea pericoli in zone dove già si sono verificate calamità "innaturali". Come a Capoterra, vicino a Cagliari, quando sono morte sei persone e ci sono stati danni per decine di milioni. Presenteremo perciò ricorso: le nuove disposizioni hanno profili d’incostituzionalità perché violano il codice del paesaggio».

"Si vanifica la risorsa più grande: il turismo"

(intervista a Massimo Carlotto)

CAGLIARI - «È una follia: e lo è da ogni punto di vista». Lo scrittore padovano Massimo Carlotto, che in Sardegna ha da tempo trovato nuove radici, condanna senza esitazioni la nuova legge. L’autore ha affrontato di frequente temi eco-sociali nei suoi romanzi, spesso ambientati nell’isola, come "Perdasdefogu", uno degli ultimi. Ed è quindi rimasto particolarmente colpito dalle possibilità aperte dal provvedimento varato ieri in consiglio regionale.

Perché parla di follia, Carlotto?

«Interventi del genere rischiano di compromettere seriamente le coste della Sardegna».

Con quali conseguenze?

«Prima di tutto di compromettere la risorsa che si vorrebbe tutelare: il turismo. Di fronte alle devastazioni selvagge dei litorali naturalmente i clienti dell’industria delle vacanze non potranno che andare da un’altra parte».

Come mai, secondo lei, si è arrivati a questa decisione?

«È semplice: Ugo Cappellacci l’aveva promesso in campagna elettorale al partito dei costruttori, nell’isola da sempre fortissimo. Oggi, da governatore, non ha fatto che mantenere i suoi impegni».

Pensa che la legge farà mutare connotati al turismo sardo?

«Non credo si arriverà mai a una riminizzazione dell’isola. Tuttavia il pericolo di cementificazione dei litorali è molto concreto».

Lo avevano promesso in campagna elettorale. Lo aveva detto Berlusconi che bisognava interrompere la carestia edilizia degli anni di Soru; e sembra di vederlo il suo sorriso alla notizia di un’altra Regione che ha seguito alla lettera il suo consiglio. E viene pure il sospetto che il piano casa (?) sia stato pensato con un’occhiata alle coste sarde. D’altra parte il provvedimento sardo raccoglie il massimalismo della prima proposta del premier, prendendo al volo l’occasione per dare un colpo al Piano paesaggistico.

Ogni volume edilizio nelle parti più sensibili dei litorali potrà essere incrementato senza tante storie (addirittura nella fascia dei 300metri dal mare tutelata già negli anni ‘80). Una botta da milioni di metri cubi. La casa necessità non c’entra nulla, perché questa è un’altra storia - direbbe Lucarelli. Un’altra storia del programma demagogico, sapientemente pop.

Prima si attizza l’insofferenza verso ogni forma di tutela, poi si dà il via all’azzoppamento delle regole, cambiando il Piano senza prendersi neppure la briga di fare una vera variante.

In modo improprio - dicono i giuristi. Senza remore e non stupisce. Figuriamoci se chi ha creduto di modificare la Costituzione con il lodo Alfano può esitare di fronte al rischio per la bellezza e la sicurezza del territorio. E i modi spicci piacciono. Se si potrà fare o ci saranno impedimenti si vedrà, intanto ecco la legge: la risposta in blocco alle attese di proprietari di pochi mq di terra e di altri più cospicui patrimoni.

Se poi l’interesse per il bene comune scivola all’ultimo posto nella gerarchia dei valori poco importa. Perché il danno è oltre gli effetti che si vedranno in Sardegna. La cosa peggiore è il messaggio: la tutela del bene comune è una fissazione dei soliti pessimisti che vaneggiano sul paesaggio invece di calcolare con ottimismo quanti bilocali starebbero su quel versante così tenero che si taglia con un grissino.

Disposizioni inopportune e, queste sì, antitaliane. Giungono proprio ora che si scopre il territorio malandato e vulnerabile. Le disgrazie recenti, nel Paese e anche in Sardegna, sono indizi di uno stato patologico che consiglia prudenza e il fai-da-te assecondato e blandito non promette nulla di buono. Questa indifferenza al principio di precauzione colpisce, tanto più se si leggono le dichiarazioni del presidente della Regione Sicilia che dubita sulla approvazione di una legge su questa linea in quella Regione. Chi pensa alla Sardegna come immune da rischi si sbaglia. Anche qui e dopo questa scelta avremo molti scempi sulla coscienza. Il rimorso che veniva dopo ora ci precede, notava Flaiano.

Ci sono cose che tocca rileggere almeno due volte per convincersi che la realtà, di questi tempi, supera la fantasia. Anche la più inconcepibile. Dunque, al nostro sindaco Letizia Moratti piace da pazzi l’idea di un tunnel automobilistico sotterraneo da Linate a Rho: quattordici chilometri che dovrebbero tagliare la città da Est a Nord-ovest, congiungendo il "city airport" al nuovo polo fieristico. Costo previsto 2,4 miliardi di euro, finanziamento interamente privato, sette anni di lavori, inizio dei cantieri nel 2011, fine nel 2018, pedaggio stimato 10 euro per l’intera tratta, profondità dello scavo fino a 40 metri. Tralasciando il fatto che la scaramanzia consiglierebbe prudenza nel promuovere una maxi-opera di dimensioni colossali come questa a ridosso della decisione di buttare a mare il progetto del parcheggio alla Darsena, è quasi imbarazzante mettere in fila incongruenze, contraddizioni, controindicazioni, insensatezze di una simile idea.

La prima incongruenza riguarda il calendario: l’opera sarà completata fuori tempo massimo per l’Expo, nel 2018, ma in compenso l’Expo riuscirà a disturbarla alla grande, essendo inimmaginabile che il cantiere per un’autostrada urbana underground rimanga invisibile e non sconvolga mezza città. Il sindaco dice: sarà pronto metà tunnel. Ma che ce ne facciamo di un tunnel da Lancetti a Rho, visto che per tre quarti del percorso coincide con lo snodo autostradale di Certosa?

Seconda assurdità, non meno stupefacente della prima: il collegamento con l’aeroporto di Linate. Scusate, ma non si era detto e ripetuto che Linate, giocoforza, è destinato a ridimensionarsi per non infliggere il colpo definitivo, probabilmente letale, a Malpensa? È vero o no che si sta discutendo della riduzione di Linate ad aeroporto d’affari, destinato a gestire un traffico passeggeri di cinque milioni l’anno contro i dieci degli anni scorsi? Ma se è così, e il Comune dovrebbe saperlo benissimo essendo azionista di larga maggioranza della Sea, a che serve prevedere un maxitunnel di collegamento a un aeroporto dimezzato, oltretutto in sovrapposizione con la nuova linea del metrò, prevista da Lorenteggio al Forlanini?

Ma non è finita. Terza follia, il costo. Ogni chilometro di tunnel costerà circa 150 milioni di euro. È tanto? Probabilmente troppo poco, tenendo conto che si dovrà perforare, ancora una volta, il cuore di una città che negli ultimi cinquantenni è stata bucata e ribucata come un groviera. Si dovrà scendere con gli scavi fino a 40 metri, passando sotto le linee di tre metropolitane e incrociando i cantieri delle nuove linee progettate, si incontreranno le falde, i parcheggi sotterranei, qualche antica necropoli, qualche resto medievale e spagnolesco. Si inietterà un’altra mostruosa quantità di cemento in un sottosuolo esausto, sempre più impermeabilizzato.

I costi, come accade regolarmente, saliranno di molto rispetto alle previsioni iniziali, ma facciamo finta che davvero l’opera si possa fare con 2,4 miliardi. Li metteranno i privati, spiega Letizia Moratti, che rientreranno dall’investimento incassando i pedaggi. Si prevedono 10,22 euro per l’intero tracciato, con un costo a chilometro di 0,70 centesimi. Ma ammesso e non concesso che il costo di transito rimanga questo, chi sarà disposto a pagare una cifra simile? Difficile pensare che saranno i cinquantamila al giorno previsti dal progetto, numero minimo per rendere conveniente l’impresa. Oggi con 10,10 euro di pedaggio si va da Milano a Modena, per 173 chilometri di percorso. E se pare inverosimile che si trovino cinquantamila automobilisti disposti a pagare 10 euro per andare da Linate a Rho, non può stupire che, finora, non si sia capito chi scucirà 2,4 miliardi di euro per placare la voglia di grandi opere di Donna Letizia.

postilla

Naturalmente, come si intuisce al volo, le questioni in gioco sono altre: prima fra tutte la solita politica al servizio degli interessi di “sviluppo del territorio”: come non notare la sovrapposizione del tracciato del tunnel con l’asse trasversale della mitica T rovesciata del Documento di Delega agli Amici delle Politiche Urbanistiche Comunali? Ma oltre le facili polemiche su attori forti, comparse e suggeritori dietro le quinte, forse val la pena di ricordare la vicenda, assai poco nota qui da noi, dello Zar dei Lavori Pubblici di New York, Robert Moses. Del suo sistematico smantellamento di una idea di città collettiva e condivisa, in sostanza di qualunque politica urbanistica in senso proprio, a favore delle Grandi Opere. Proprio in questi giorni la massima responsabile per la pianificazione urbana della città, la signora Amanda M. Burden, di estrazione alto borghese e nominata da un’amministrazione di destra, riceve il più alto riconoscimento da una prestigiosa associazione di costruttori privati (Urban Land Institute) … esattamente per “remare contro” la vecchia impostazione di Moses: la città disegnata attorno a autostrade, gallerie, ponti ecc. E operare invece a favore del Piano, senza enfasi e soluzioni spicce studiate a tavolino, ma seguendo quell’impiccio che da noi pare sempre inutile tara: le regole condivise. Per chi vuole saperne di più, su Mall ho riportato una nota di agenzia con le motivazioni del premio alla signora Burden. Per saperne di più su questa demenza anni ’50 del tunnel milanese, traslocata di peso da un’altra signora borghese nel terzo millennio, non mancheranno purtroppo le occasioni in futuro (f.b.

Il Consiglio approva il Piano casa ma boccia nuove aree protette

di Oriana Liso

Dopo quattro ore e mezza di discussione passa, con 37 voti su 41, la delibera della giunta che mette una serie di paletti al Piano casa della Regione. Dodici, per la precisione: perché alle undici aree individuate dai tecnici dell’assessorato all’Urbanistica come "città-giardino" da salvare da iniezioni di cemento, ieri l’aula del consiglio comunale ne ha voluto ribadire solo un’altra, ovvero tutto il perimetro del Parco Nord. Bocciati o ritirati gli emendamenti sulle altre zone da tutelare, presentati soprattutto dall’opposizione. E riformulato solo come ordine del giorno - che verrà votato lunedì - un contestato emendamento del leghista Matteo Salvini (con firme bipartisan) sulla tutela delle cascine di Milano. Voto contrario alla delibera dei Comunisti italiani; astenuti Rifondazione e Sinistra democratica. Voto a favore del resto dell’opposizione, con una forte riserva generale sul Piano casa formigoniano.

L’approvazione del provvedimento disegnato dall’assessore Carlo Masseroli - che sarà subito operativo - arriva a 24 ore dalla data limite per imporre limiti al Piano casa della Regione: le nuove regole saranno in vigore da domani per i prossimi 18 mesi e permette ai proprietari di case (privati e pubblici) di aumentare le volumetrie fino al 30 per cento con una serie di interventi di risparmio energetico. La legge regionale pone alcuni vincoli sui centri storici - nel caso di Milano, l’area della Cerchia dei Bastioni - , ma il Comune ha deciso di escludere dall’applicazione anche quei quartieri periferici con un tessuto particolare. A quelli, nei giorni scorsi, i consiglieri avevano proposto se ne aggiungessero altri - come Lampugnano, Trenno, Cantalupa, le casette di via Barzoni e il quartiere Umanitaria - ma ieri, durante l’acceso dibattito, queste ipotesi sono venute meno. Lo scontro più acceso è arrivato sull’emendamento presentato dall’Udc Pasquale Salvatore (e firmato da Manca e Gallera del Pdl): la delibera prevede la possibilità di incrementare del 40 per cento le volumetrie delle case popolari, ma solo se lo stabile viene abbattuto e ricostruito. Per l’opposizione l’emendamento - poi modificato profondamente - apriva la possibilità a speculazioni edilizie per i privati: nella versione definitiva, invece, si potrà abbattere una casa popolare e ricostruirla nella stessa zona (anche non sul suolo originario), con la possibilità di vendere quel 40 per cento di volume in più come edilizia convenzionata.

Alle critiche che l’opposizione ha ribadito fino al momento della votazione sul Piano casa e sulle sue implicazioni l’assessore Masseroli ha risposto che «ogni nuova costruzione consentita a Milano dal Piano casa sarà comunque sottoposta al vaglio preliminare della commissione comunale paesaggistica», che prende il posto di quella edilizia e dovrebbe essere operativa a breve. Ma Fai, Italia Nostra e Wwf rilanciano: «Per fortuna molti Comuni lombardi hanno colto il nostro invito per una applicazione molto restrittiva del piano (tra questi, le amministrazioni del Parco Sud): è evidente che sono stanchi di fare cassa svendendo il proprio territorio».

"Per Milano poche tutele si doveva fare di più"

intervista al presidente di Legambiente Damiano di Simine

di Alessia Gallione

Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia, cosa ne pensa dei vincoli di Palazzo Marino al Piano casa?

«La delibera di Milano contiene aspetti migliorativi come quelli decisi da molti altri Comuni. Purtroppo è il Piano della Lombardia a essere uno dei peggiori d’Italia dal punto di vista delle garanzie: ha permesso di fare aumenti di volumetrie indifferenziati o demolizioni e ricostruzioni con criteri poco chiari senza mettere paletti».

Quelli messi dal Comune bastano?

«Sono state salvate alcune zone di pregio: sono poche ma comunque sono qualcosa. Se non altro hanno affermato che il Comune ha una potestà di pianificazione urbanistica. Il problema è che Milano è una città talmente complessa che pensare di decidere cosa salvare dalla deturpazione in tempi così stretti è al limite del possibile».

Altre proposte sono state bocciate dall’aula, però.

«Stiamo parlando di pezzi di città che hanno tutti una forte valenza e che con questo Piano, invece, vengono venduti al mercato delle vacche. Si perde di vista che la città è un organismo da tutelare complessivamente: non si può decidere di lasciare carta bianca alle manomissioni di alcune aree invece di altre. Milano ha patrimoni sparpagliati su tutto il territorio che spesso rappresentano l’identità dei quartieri come nel caso di Lampugnano o le case di via Dezza».

Si poteva fare di più?

«Senza giustificarla, posso anche capire una certa prudenza istituzionale del Comune. Molti amministratori sono preoccupati di dover affrontare i ricorsi dei cittadini che, magari, si vedranno negata la possibilità di intervento».

Cosa rischiamo adesso?

«Di giocarci pezzi importanti di patrimonio della città. Abbiamo già visto cosa è successo con i sottotetti. In questo caso, però, sono più preoccupato per i quartieri periferici».

Perché avete presentato un esposto alla Corte di giustizia europea contro il Piano casa?

«Per noi è illegittimo visto che non prevede la partecipazione dei cittadini alle scelte e neanche quel passaggio oggi obbligatorio in tutta l’Unione Europea che è la Valutazione ambientale strategica».

Con la presentazione da parte della giunta Regionale del Piano casa, o meglio il Piano per il rilancio dell'edilizia è ormai definitivamente chiaro, per diretta ammissione della Giunta Cappellacci, che di case, intese come abitazioni da destinare a chi non ne dispone per viverci, se ne parla molto piano, anzi per adesso non se ne parla proprio. Se ne parlerà, semmai, più in là

"Non vogliamo scaricare cemento sulle coste, in Sardegna il territorio è una risorsa straordinaria, non vogliamo disperderla né dissiparla. Non c'è nessun atteggiamento filo-cementificatore da parte nostra ma siamo convinti che l'ambiente possa essere rispettato con l'intervento dell'uomo e con uno sviluppo sostenibile. La miglior tutela dell'ambiente si ottiene proprio con l'intervento dell'uomo". Parole rassicuranti queste del Governatore della Sardegna Ugo Cappellacci, pronunciate solo qualche mese fa. Note di violino per le orecchie di chi paventava terrificanti colate di cemento lungo le coste della Sardegna dopo le promesse di anti-carestia edilizia fatte da Berlusconi in campagna elettorale (d'altronde i muratori devono pur lavorare e anche.... i "liberi muratori"!).

Peccato che a distanza di così poco tempo la musica sia cambiata, con la presentazione da parte della giunta Regionale del Piano casa, o meglio il Piano per il rilancio dell'edilizia. Lo strumento più idoneo ad eseguire la nuova melodia e ad estrarne la musicalità più profonda ora appare il pianoforte (Piano Casa - Forte Village) essendo ormai definitivamente chiaro, per diretta ammissione della Giunta Cappellacci che di case, intese come abitazioni da destinare a chi non ne dispone per viverci, se ne parla molto piano, anzi per adesso non se ne parla proprio. Se ne parlerà, semmai, più in là. La priorità ora è data dall'esigenza di assegnare i premi di cubatura aggiuntiva, fino al 40%, per costruzioni e ricostruzioni, ai resort e agli alberghi che insistono sulla costa anche, e forse soprattutto, entro la fascia di 300 metri. D'altronde i muratori (soprattutto quelli "liberi") devono pur lavorare.

Così pure deve lavorare il gruppo che fa capo al presidente della Confindustria Emma Marcegaglia, la stessa che ha avuto in gestione per dieci euro a metro quadro l'ex Arsenale Militare della Maddalena per trent'anni, poi diventati quaranta per ripagarla del danno subito dalla Mita Resort, per l'appunto azienda del gruppo Marcegaglia, a causa del trasferimento del G8 all'Aquila (vedi l'articolo " G8 affare privato" nel settimanale L'Espresso del 30 giugno 2009). Alla Sardegna e ai sardi quale risarcimento è stato invece riconosciuto per lo scippo del G8? Lo scippo dei fondi FAS! Quei fondi che, per dirla come il segretario del PD Franceschini, il ministro Tremonti utilizza come un suo personalissimo bancomat.

La Mita Resort gestisce a Santa Margherita di Pula il Forte Village, uno dei principali resort europei, un complesso composto da 7 alberghi, 21 ristoranti, spazi e servizi ricettivi di grande prestigio. Si potrebbe mai negare al Forte Village, la cui gestione fa capo al presidente della Confindustria, una bella premialita' in termini di consistenti volumetrie aggiuntive?

Si potrebbe mai negare questo al presidente della Confindustria, invitata dal premier Berlusconi a diventare il vice presidente del Consiglio? "E' il ministro honoris causa all'attuazione del programma. Dato che non ho un vicepresidente del Consiglio mi piacerebbe che Emma potesse venire a farlo. Siamo sempre andati d'accordo", ha detto Berlusconi parlando di Emma Marcegaglia all'assemblea degli industriali di Monza, grato dell'invito rivoltogli dalla presidente nazionale degli industriali italiani ad "andare avanti" e a "fare le grandi riforme di cui ha bisogno questo Paese, evitando le polemiche".

No, non è neppure pensabile di poter negare ad un supporter così autorevole del Governo, come pure agli altri imprenditori sostenitori del "Governo del fare" e della Sardegna da edificare, qualche premialità volumetrica nelle attività immobiliari di suo interesse. Basterà approvare una legge regionale che, come ha commentato Renato Soru, "favorirà pochi, darà un contentino a tanti, ma in futuro ci impoverirà tutti".

La Sardegna ha potuto andare fiera del proprio il Piano paesaggistico varato dalla giunta Soru, considerato una delle esperienze di pianificazione più interessanti in Italia e in Europa, sia per il carattere pionieristico, essendo il primo piano paesaggistico approvato secondo le norme del Codice dei beni culturali e del paesaggio, sia per essere stato concepito e costruito in maniera coerente ad un più generale modello di sviluppo e di crescita economica. Ha goduto della considerazione nazionale e internazionale avendo il Piano paesaggistico acquisito, a livello europeo, una valenza di "best practice" da prendere ad esempio, a cui guardare con interesse. Se il piano casa/piano per l'edilizia dovesse passare così come l'infeudata Giunta di centrodestra propone, la Sardegna potrebbe retrocedere al livello di "bad practice" se non, addiritura, di "worse practice".

Con le coste sature di costruzioni la sopravvivenza economica del modello di sviluppo esistente in molte zone costiere, lungi dall'essere valorizzata, sarebbe certamente compromessa e progressivamente impoverita.

nel cuore di Milano fu una tappa fondamentale nella storia contemporanea della città riguardo all’architettura e all’urbanistica. Era in corso di completamento la potente operazione immobiliare alla Bicocca concordata fra il Comune e la Pirelli, cioè fra il sindaco Albertini e Tronchetti Provera, che per la prima volta designava a grande scala l’espansione urbana fuori di qualsiasi pianificazione generale e persino di una qualche idea complessiva di città presentata pubblicamente. Una pretesa autoritaria oltre che un grave sbaglio verso la realtà milanese e gli esistenti o futuribili equilibri territoriali e sociali. Con l’iniziativa ex-Fiera (poi “City Life”) fu peggio. Erano coinvolti il destino della città storica, la vita dell’architettura urbana, centro di una questione generale che non è quella di un’architettura isolata quale monumento d’autore, bensì di un’urbanistica che diventa forte se inclusiva di un’architettura civile; insomma, parliamo di architettura della città, la forma funzionale e rappresentativa che ha contraddistinto la storia del nostro paese. Erano in causa all’interno della città compatta la cura e la tutela oppure la trasformazione aggressiva di un consolidato ambiente fisico e sociale. Vinse il nuovo modo privatistico di organizzare, progettare, realizzare; sarà l’unico per il futuro. Il concorso non aveva nulla della forma tradizionale di affidabile confronto, nominativo o no, fra diversi progetti di architetti o équipe professionali. È l’impresa o il gruppo di imprese a gareggiare, se così si può dire dubbiosamente, a offrire il prodotto e il prezzo. Il progettista è al suo servizio, è subalterno, fornisce gli elaborati figurativi adatti a colpire l’immaginazione. Il caso dell’ex-Fiera preluse a una miriade di altri analoghi, diffusi a Milano e in tutto il paese, pseudo concorso o commessa diretta che sia. Una particolare condizione di base li collega tutti: la totale assenza di analisi urbana, di studio del luogo e della società, di considerazione della situazione fisica e sociale al contorno e nell’intera città. Soffermandosi sul progetto vincitore per “City Life”, peraltro il peggiore (è bene ricordare: cordata di imprese Generali-Ligresti-Lanaro-Grupo Lar Desarollos Residential, triade di architetti Hadid-Isozaki-Lebeskind), Alain Croset scrisse di progetto, anziché rappresentativo di una “Nuova Milano”, «emblematico dell’autoreferenzialità di una parte dell’avanguardia internazionale. Nessun riguardo per le relazioni con la città esistente». Nello stesso momento Dejan Sudijc, commentando la mostra della Biennale veneziana (quella curata da Kurt Forster) scriveva che gli architetti «vogliono proporsi come figure creative autonome avulse dalla funzionalità, dal contenuto e persino dalla costruibilità».

Cinque anni non sono passati invano per decretare la sconfitta forse definitiva sia dell’urbanistica sia dell’architettura come le abbiamo considerate e coltivate, unite, nella nostra preparazione disciplinare e nella contesa a favore del bene pubblico e contro lo strapotere di proprietari fondiari e imprenditori. Costoro e i loro architetti detti archi-star o super-architetti a causa della loro appartenenza a un mercato internazionale dell’edilizia “grandiosa”, godono di illimitata libertà; agiscono per così dire extra legem, in conformità a indici di fabbricazione decretati per il luogo dall’amministratore pubblico e dal proprietario o impresario privato accordati: indici tutti a beneficio del secondo per larghezza di sfruttamento e scelta di destinazione, di tipo, di forme e misure, di materiali, senza alcuna preoccupazione delle doti urbane esistenti, locali e generali. Così sorgeranno, fra tanto d’altro astruso per lo più in veste di grattacielo, la banana di Lebeskind, lo sciancato di Hadid, il materasso verticale di Isozaki, il tortiglione di Fuksas alla Magonara di Savona, il doppio fungone di Botta a Sarzana, i nuovi Punta Perotti di Bofill a Savona e di Bohigas a Mola di Bari, i volumi rotti o molli di Gehry e di suoi provinciali imitatori (come per Via Principe Eugenio a Milano), il pretenzioso svettante gigante di Renzo Piano sbeffeggiante la Mole Antonelliana di Torino…

Non esiste un’autorevole critica dell’architettura paragonabile alla critica d’arte. Solo la stampa quotidiana locale è talvolta attenta alle più gravi vessazioni verso la città. Solo la vitalità di certi comitati di abitanti riesce magari a ritardare il danno che gli crea la nuova edificazione distruttiva del loro ambiente, a ottenere qualche modifica di scarso rilievo; non a impedirla. Un articolo del Manifesto del 2 settembre riportato in eddyburg (Un albero di trenta piani) torna sul caso milanese del quartiere Isola. Ci informa della lotta degli abitanti nell’ultima trincea dopo le avanzate del nemico: i giardini, ubicati fra due strade storiche, da sottrarre alla cementificazione prevista da impresa e progettista. I quali continuano a vantare i loro ingannevoli “grattacieli verdi” (perché dotati di terrazze cespugliose) e a trovare consenso anche sulla stampa giacché, scrive Nicola Bertasi, «sono troppo importanti per essere criticati».

Grattacieli… Ormai scelta quasi inevitabile, maniacale degli operatori pubblici, privati, professionali ben conciliati (Comune, proprietario, imprenditore, progettista).

La cultura architettonica rappresentata in questi casi dal progettista di turno si sottopone a diversi dogmi:

- indiscutibilità dell’abnorme densità di fabbricazione e perseguimento fino all’ultimo centimetro cubo dell’inusitata e sostanzialmente illegittima volumetria, mentre sono proprio queste le condizioni di partenza da contestare;

- obbligo, più che preferenza, di edificazione in altezza come menzognera occasione di ottenere grandi superfici verdi in regime di forte densità, mentre per ricavare larghi spazi verdi davvero efficaci la forte altezza deve accompagnarsi con la bassa densità e garantire così grandi distanze fra i volumi;

- accettazione del verde prativo quasi totalmente posato sui solettoni sotto i quali brulicheranno i box per le automobili, falso verde incapace di sopportare la piantumazione di alberi ad alto fusto;

- condivisione morale, umile e umiliante, del fallimento economico dello speculatore, prima accettato a occhi chiusi senza la minima preoccupazione etica, come nella vicenda dell’incredibile finanziere Zunino accudito da Foster per il quartiere Santa Giulia a Milano (lavori sospesi) e da Renzo Piano per il grande progetto sulle aree Falk di Sesto San Giovanni (accantonato).

Sic transit [infelicĭter] gloria ad architécti artem pertĭnens.

Milano, 8 settembre 2009

Vedi anche Nnpp, nella cartella delle Opinioni di Ludovico Meneghetti

Il sindaco dà il via libera al tunnel di 14 chilometri che collegherà Linate all´autostrada dei Laghi. E chiede di accelerare sui tempi per portare il progetto in giunta entro la fine del mese. La maxigalleria dunque si farà. A realizzarla saranno due società, Torno e Condotte, sarà completamente finanziata dai privati e costerà 2,4 miliardi. Entro la fine dell´anno partirà la gara d´appalto per la prima tratta. Cambia il conto economico: percorrere tutto il tunnel costerà oltre 10 euro.

Il progetto del maxitunnel che attraverserà la città collegando l´aeroporto di Linate all´autostrada dei Laghi procede spedito. E già entro la fine del mese lo studio di fattibilità della prima parte della galleria (da Expo a Garibaldi) potrebbe arrivare in giunta per l´approvazione definitiva. Dopo di che l´opera verrà inserita nel piano delle opere dell´anno venturo. Un passaggio importante che riporterà alla ribalta l´opera promossa dall´ex sindaco Albertini e che sembrava dimenticata nei cassetti.

A spingere sui tempi è stato il sindaco Moratti a cui, nei giorni scorsi, è stata sottoposta l´ultima versione del progetto: un´opera mastodontica, completamente finanziata dai privati e realizzata da due società la Torno e la Condotte, appoggiata dalla Regione Lombardia, la cui realizzazione costerà 2 miliardi e 400 milioni di euro. Una galleria ultramoderna, con un sistema di areazione antismog e nove uscite lungo il percorso, che potrebbe cambiare radicalmente la mobilità in città, spostando sotto terra 50 mila auto al giorno. Il tutto però a un costo non indifferente: il nuovo conto economico infatti ha fatto salire il pedaggio da 0,50 centesimi al chilometro (prima ipotesi della società Torno) a 0,70, che significa 10,22 euro se si percorre tutta la tratta. Un cifra salata che non è detto i milanesi siano disposti a spendere pur di saltare la coda delle tangeziali.

L´entusiasmo dal sindaco, che quando riprese in mano il progetto della giunta Albertini chiese il prolungamento della galleria fino a Linate, è già stato tradotto dagli uffici tecnici in una tabella di marcia serrata. Se tutto procederà come previsto i lavori partiranno nel 2011 e l´opera sarà consegnata alla città entro il 2018. Il primo passo sarà l´approvazione della giunta della prima tratta, quella che dovrà realizzare la Torno. Intantola Condotte, la seconda società entrata nel progetto prima dell´estate, dovrà preparare uno studio di fattibilità per il tratto da Garibaldi a Linate, che entro Natale sarà sottosposto all´esecutivo. Quindi le due gare d´appalto (per la prima parte fra tre mesi, per la seconda nel 2010) e l´avvio dei lavori senza ulteriori indugi. Non è ancora stato stabilito se gli scavi saranno in contemporanea nelle due tratte, ma è più probabile di no. Forse anche per arrivare all´appuntamento con l´Expo con almeno un pezzo di galleria concluso, quello che da Cascina Merlata arriverà a Lancetti passando in prossimità dei capannoni della fiera di Rho-Pero.

Sempre in tema di infrastrutture, la riunione del Cipe di venerdì potrebbe dare finalmente una risposta agli interrogativi sul futuro delle metropolitane M4 e M5. Soprattutto sulla linea 4 di cui mancano ancora i finanziamenti del governo per la seconda tratta. Un ritardo che per i tecnici di Palazzo Marino mette a serio rischio la realizzazione di tutta l´opera. Tanto che è già allo studio la possibilità di costruirne solo un pezzo per non arrivare al 2015 con la città bloccata dai cantieri della linea che dovrà collegare Linate a Lorenteggio passando per il centro storico.

La prima visita lunedì 28 settembre 2009: un duro avvertimento. Mercoledì 7 ottobre scorso: presa di possesso in pompa magna. I rappresentanti di Comune e Provincia di Milano, di Regione Lombardia e del Consorzio Garibaldi-Repubblica (Catella-Hines, Ligresti, ecc.) con avvocati e poliziotti e uomini della vigilanza urbana, sono entrati nella Cascina Romagnina in via De Castillia al numero 30, al quartiere Isola di Milano, per appropriarsi degli edifici e degli spazi verdi dell’Immobiliare Romagnina. Obiettivo: demolirli subito e costruire sull’area una strada e infrastrutture funzionali al megaprogetto Isola-Garibaldi-Repubblica- Varesine. Nonostante sia aperto il contenzioso giuridico, si vuole predeterminare il fatto compiuto. E’ l’ennesimo delitto urbanistico di questa pestilenziale città che affoga nel cemento. La preda o la vittima è un complesso di valore storico e architettonico, culturale e sociale: l’antica Cascina Romagnina (già Colombara) che faceva parte di un sistema di cascine, peculiare sin dall’epoca romana del borgo Isola.

È l’unica testimonianza rimasta, in zona centrale di Milano, della civiltà rurale che, a parole, si dice di volere valorizzare in occasione dell’EXPO 2015!... I nuovi proprietari dettero vita (fine XIX secolo) alle Officine Villa, che si specializzarono nella lavorazione del ferro battuto. I loro manufatti diventarono opere molto richieste e di prestigio, che una buona amministrazione pubblica avrebbe potuto valorizzare. Cascina-officina: testimonianza di due culture, e della trasformazione del quartiere da rurale in industriale con l’insediamento dagli inizi del ‘900 di fabbriche importanti, quali Pirelli, Breda, Tecnomaso, ed altre. Finora i locali della cascina venivano usati per tre sere settimanali come discoteca (Nuova Idea), che si è cominciato a smantellare e quindi ad approntare la demolizione completa. Stabili, che potevano essere conservati come patrimonio di archeologia industriale e riutilizzati per altre funzioni, sono già stati distrutti: le scuderie Del Nero, la fabbrica di pettini Janecke e del sapone Heiman, la Tecnomaso Brown Boveri ridenominata «Stecca degli Artigiani»...

Si vuole completare la tabula rasa dell’Isola per correre dietro al business del mattone. È una politica urbanistica nefasta che investe l’intera città. La fa respirare male (il climaviene sconvolto e peggiora anche per la sovrabbondante cementificazione). La inquina ancora di più. La distrugge nella sua identità storica e culturale. E’ sensato aver distrutto il verde già fruibile (Bosco di Gioia, giardini di Via Gonfalonieri...) e concentrato in uno spazio ristretto (ribattezzato Porta Nuova) un accumulo cementizio di proporzioni gigantesche: più di un milione di metri cubi e sette cantieri aperti contemporaneamente per costruire uffici, abitazioni, impossibili «città della moda» e centri commerciali, ampliamenti stradali ed enormi parcheggi sotterranei, una selva di grattacieli tra cui quello faraonico dannoso dispendioso e inutile di Formigoni per la nuova sede della regione e le torri «verdi verticali» (?!) dell’architetto sedicente innovatore Stefano Boeri... E’ sensato concentrare in un solo punto della città un gran numero di sedi e funzioni?

È tollerabile che gli amministratori e i politici non prendano in alcuna considerazione precise e serie proposte, avanzate da comitati ed associazioni di cittadini e di artigiani ed artisti, da urbanisti e studiosi di problemi urbani? E si continua a violare norme e regolamenti, come dimostrano tanti ricorsi

Le ultime notizie giungono dalla Sardegna. L´assalto alle sue coste, fra le più belle del Mediterraneo, non arriva più soltanto dai costruttori di complessi edilizi, finti villaggi, seconde e terze ville, ma direttamente dal mare. Sulla costa del Sinis, nella provincia di Oristano, precisamente davanti al litorale di Is Arenas, Su Pallosu e S´Archittu dovrebbe, infatti, sorgere una centrale eolica composta da 80 torri off shore, alte 130 metri (100 sopra il pelo dell´acqua), in uno spazio marittimo di circa 22 milioni di mq, a una distanza fra 2 e 8 chilometri dalla costa. Ne sarebbe devastato il paesaggio, il turismo, la pesca, tre fra le maggiori fonti di ricchezza dell´Isola.

Sarebbe questa la seconda centrale eolica off shore installata in Italia, dopo quella nel mare di Termoli, al confine tra la Puglia e il Molise, che suscitò non poche proteste. Ora, sulla spiaggia sarda qualche migliaio di persone hanno dato vita nei giorni scorsi a una manifestazione per chiedere che il Demanio marittimo neghi l´autorizzazione ma i precedenti lasciano poco spazio all´ottimismo. Nelle delibere dei consigli comunali e nelle convenzioni regionali fa testo, infatti, una assurda sentenza del Tar della Puglia che ha dichiarato «irricevibile» un ricorso contro un impianto eolico, in quanto impianto, opere connesse e infrastrutture sarebbero realizzazioni di «pubblica utilità, indifferibili ed urgenti». Abbiamo chiesto agli organizzatori della protesta sarda (Amici della Terra e Gruppo d´intervento giuridico) quale sia l´impresa interessata alla costruzione ma l´unica sigla che hanno reperito corrisponde ad una non meglio precisata Arenas Renewables Energies, controllata da un´altra ignota società, residente nel Liechtenstein.

Probabilmente, dunque, una delle solite scatole vuote, domiciliate in un paradiso fiscale, da dove possono operare nella più tranquilla opacità. In questo caso, come è già avvenuto, potrebbe anche darsi che, una volta ottenuta la concessione, la società del Principato la rivenda al migliore offerente, realizzando sicuramente un buon guadagno. In Italia l´autorizzazione a costruire e a gestire un parco eolico rappresenta, infatti, uno degli affari più lucrosi e privi di rischi offerti dal mercato drogato di questa specifica voce dell´energia pulita. Il livello di rendita, procurato dagli incentivi in Italia (pagati dagli utenti nella bolletta) è di gran lunga il più alto fra tutti i Paesi dell´Unione europea, circa 100 euro per MWh (megawatt ore) per sito eolico medio, mentre in Germania è inferiore ai 10 euro e in Spagna non arriva a 20 euro. L´onere fra dieci anni graverà sulle bollette delle nostre famiglie e imprese per 7 miliardi di euro. Questo spiega la corsa che sta spingendo non solo regolari imprenditori italiani e stranieri ma anche speculatori di ogni risma compresa - come provano inchieste della magistratura in Sicilia e Calabria - la criminalità organizzata, alla costruzione di migliaia di torri eoliche dal Sud al Nord, anche laddove il vento non soffia regolarmente e forte, come occorre per raggiungere un livello minimo di efficienza.

Alla fine del 2008 risultavano già in esercizio 3.640 torri eoliche. Se si considerano quelle in costruzione, quelle già autorizzate e quelle in istruttoria si arriverebbe nei prossimi anni ad una selva di 50.560 dalle Prealpi alla Sicilia, dai colli della Toscana alle coste dell´Adriatico e del Tirreno. Dovunque ci sia ancora un po´ di spazio. Il profilo dell´ineguagliabile paesaggio italiano ne uscirebbe deturpato. E tutto questo non certo per darci almeno una quantità consistente di energia pulita, visto che tutti i dati, sia presentati dal governo che dagli «imprenditori del vento», affermano che se oggi l´energia eolica rappresenta solo lo 0,25% dei consumi energetici, nel 2020, pur triplicata, arriverà al massimo a coprire l´1,3% dei consumi elettrici complessivi. E per una simile inezia il volto dell´Italia dovrebbe essere sconciato?

Può apparire curioso che, a distanza di oltre trent’anni dall’ultima elaborazione di un nuovo piano per Milano, essa avvenga, oggi come allora, nel pieno svolgersi di una crisi economica drammatica. Certamente, il contesto non è paragonabile a quello della fine degli anni 70; e anche ciò che si intende per governo del territorio è ben diverso dall’elaborazione di un vecchio piano regolatore urbanistico (come nel caso dello strumento approvato nel 1980).

Tuttavia, atti di governo di tale significato non possono e non debbono ignorare il contesto generale e – per quanto riguarda il nuovo Pgt – la specificità della crisi in atto. Una crisi che ha mostrato fin dall’inizio le relazioni distorte proprio tra le dinamiche finanziarie e i processi di produzione e allocazione di beni immobiliari (ricordiamo tutti i cosiddetti subprime statunitensi). Realtà distinte e lontane, si potrebbe dire con alcune ragioni: basta poi sfogliare i giornali per comprendere quanto i legami tra banche e settore immobiliare mostrino segni preoccupanti anche in Italia e a Milano in particolare. Questo per dire che la classe dirigente locale farebbe bene a prendere sul serio il mutamento di fronte imposto dalla crisi e – come sembra per l’Expo – orientare con lungimiranza le proprie scelte strategiche, a partire da quelle nevralgiche riguardanti lo sviluppo territoriale.

Dalla prima lettura dei documenti sinora elaborati – mancano il documento delle regole e un compiuto piano dei servizi – sembrano presenti molte suggestioni che alludono a una diversa strada, maggiormente sostenibile. Ma sappiamo quanto scarto possa esistere tra carta e pratiche effettive di costruzione della città. Ci limitiamo a constatare che la sfida è lanciata. Non è poco, in una città come Milano: e ciò va attribuito al tenace lavoro dell’assessore Masseroli. Ma sembra necessario un serio bilancio del recente sviluppo urbanistico della città, senza il quale ogni proiezione in avanti appare più una fuga dalle responsabilità che una necessaria precisazione della rotta di governo. Infatti, una volta tramontata ogni visione salvifica dei piani e della pianificazione, il nuovo Pgt non sarà certo giudicato per la raffinatezza di alcune rappresentazioni grafiche o per l’eleganza di alcune interpretazioni della città, ma per la capacità effettiva di intercettare i concreti processi di sviluppo e per orientarne efficacemente alcuni esiti. Milano ha maledettamente bisogno di produrre sensibili effetti di governo nella produzione di beni pubblici indispensabili a qualificarne la crescita (spazi pubblici e servizi alle varie popolazioni, in primo luogo), ma la strada per conseguire tali risultati non può che essere strategicamente selettiva. Saprà la gestione del nuovo strumento dare segnali in questo senso? È questa la chiave migliore per valutare l’urbanistica milanese dei prossimi anni e per coglierne la sua autentica dimensione politica e civile.

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