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Giapponesi infuriati che assaltano il Louvre in un estremo tentativo di tornare a casa dopo aver omaggiato la Gioconda. Lavoratori museali francesi in sciopero dal 2 dicembre contro i prossimi tagli occupazionali. Alcuni musei (tra cui il Louvre) che oggi per forza maggiore riaprono. Altre istituzioni irriducibili (tra cui il Beaubourg e la Sainte-Chapelle) che rimangono sprangate. Caos a Parigi nel weekend pre-Immacolata.

E una diffusa, forse non imprevista sensazione: che le opere d’arte, anche se da lungo tempo nell’era della loro riproducibilità tecnica, siano un servizio essenziale. Che la cultura sia un servizio essenziale in Paese civile; come i trasporti pubblici, per dire. Il che darebbe ragione a tutti: ai turisti che dopo un lungo viaggio vogliono vedere i quadri, agli operatori culturali che non vogliono essere decimati, a chi vive di turismo nelle città d’arte. Dove la cultura — mai scordarlo — è un motore dell’economia.

Specie in paesi come la Francia e l’Italia. E in tutta quell’Europa che ha perso peso economico ma resiste (anche) trasformandosi in un’Eurodisney per visitatori grandi e piccini. E magari dovrebbe moltiplicare le attrazioni invece di ridurre i fondi come se si trattasse di biglietti d’auguri dei ministeri. È un problema in Francia come da noi (chiedere ai sovrintendenti delle nostre strapelate Belle Arti, in caso).

Ma è un guaio/opportunità che non si risolve solo trovando sponsor per restaurare attrazioni note ai giapponesi e aprendo nei musei ristoranti e bookshop. Ci si dovrebbe (in Francia e da noi) inventare dell’altro. Non solo far vedere, fare capire. Spendere qualche euro anche per stimolare la creatività. E tentare di ridiventare un laboratorio. I musei sono un servizio essenziale ma non sufficiente. Non basta guadagnare rifocillando i turisti. Non basta produrre qualche erudito che — genere colonnello Hans Landa di Bastardi senza gloria — conosca a menadito arti e lettere e poi vada sereno a caccia di ebrei. La cultura europea ha ancora parecchio da dire e da dare, anche partendo dai suoi errori. Per questo serve.

BERGAMO — Se fossero già installate, le eliche girerebbero a pieno regime. Ma non è il vento delle polemiche che dovranno sfruttare, se davvero otterranno il via libera, le pale del parco eolico che la società Centuria di Milano vuole realizzare al passo San Marco (a due mila metri), versante valtellinese.

Il progetto, il primo del genere in Lombardia, ha ottenuto l’ok della Regione per quanto riguarda l’impatto ambienta le e aspetta solo che la Conferenza dei servizi faccia scattare il definitivo semaforo verde. Ma in terra bergamasca le quattro pale da 90 metri d’altezza non sono viste di buon occhio. Anzi, il fronte del no è piuttosto ampio e variegato. E anche chi, come Legambiente, in un primo tempo si era detta in linea di principio favorevole, in virtù del valore ecologico del l’impianto, ora chiede garanzieche l’impatto non sia troppo pesante per il contesto.

Il più feroce avversario delle pale, vestito metaforicamente come un Don Chisciotte contro i mulini a vento, è Franco Grassi, presidente del Parco delle Orobie: «Questo progetto è un vero disastro. Dal punto di vista paesaggistico installare quattro pale del genere è uno scempio. Il passo San Marco è l’unica porta di accesso alla Valtellina: possibile che non ci sia una valletta nascosta in cui piazzare il parco eolico?». Il paradosso è che proprio di questi tempi era maturata l’idea di interrare tralicci e cavi dell’alta tensione. Ora le pale rischiano di aggravare la situazione. Schierato per il no è anche il sindaco di Averara: «Le abbiamo provate tutte per opporci — spiega Angelo Cassi — non sappiamo più a che santo votarci, ma pare che non serva a nulla. Siamo troppo piccoli per ché ascoltino la nostra voce».

L’impressione, in alta Valle Brembana, è che ormai la decisione sia stata presa e che non vi siano margini per opporsi. Il consigliere regionale del Pdl Carlo Saffioti si è impegnato ad affrontare la questione con gli assessori competenti al Pirellone: «Trovo inopportuno deturpare parti importanti e significative del territorio per posizionare pale eoliche che da una parte sono antiestetiche e dall’altra non garantiscono una continuità sul fronte della resa energetica. Il paesaggio naturale dei nostri monti va tu telato ».

Chi fa della montagna la propria palestra, come il Club Alpino Italiano, è sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda. «L’utilizzo delle fonti rinnovabili è fondamentale — osserva Paolo Valoti, presidente della sezione bergamasca — ma senzatroppo impatto sull’ambiente. Nel caso del passo San Marco bisogna vedere se il gioco vale la candela, cioè se il sacrificio ambientale porta un guadagno economico». Nel fronte bergamasco l’unica voce che non dice aprioristicamente no è quella di Legambiente: «Riteniamo che le pale siano uno dei progetti da tenere maggiormente in considerazione per la produzione di energia pulita — è la premessa di Paolo Locatelli—. Riteniamo però che sia necessario avviare un approfondimento sull’effettiva incidenza territoriale e sulle implicazioni reali dell’intervento, come i possibili danni per l’avi­fauna ». L’associazione ambientalista chiede infine che vi sia un confronto, con assemblee pubbliche, sia con gli organismi regionali che con la società promotrice del progetto.

Alghero. E’ nato ieri mattina in una sala affollatissima del chiostro di San Francesco il Comitato regionale per impedire lo stravolgimento del piano paesaggistico ed evitare ulteriori aggressioni speculative al territorio della Sardegna. Con questo obiettivo si è svolto il convegno che aveva per titolo “Non lasciamoli giocare con le costruzioni”, l’iniziativa promossa da Sinistra Ecologia e Libertà contro il piano di edilizia approvato dalla maggioranza di centrodestra in Consiglio regionale. Era presente anche l’ex governatore Renato Soru.

«Da una parte - spiega Carlo Sechi uno dei promotori - il comitato dovrà attivare tutte le iniziative per impugnare la legge di fronte agli organi giurisdizionali, alla Corte Costituzionale e alla Commissione Europea, perché in palese contrasto con norme di tutela sovraordinate rispetto alla potestà legislativa della Regione Sardegna. Dall’altra, è necessario informare correttamente i cittadini sulla portata delle legge, sugli effetti disastrosi nella fascia costiera, nei centri storici, nei quartieri delle grandi città e nei piccoli paesi, nell’agro e nelle borgate rurali. Spiegando perché questa legge renderà la Sardegna più brutta e più povera. Spiegando che la sua applicazione comporterà inevitabilmente una diffusa conflittualità tra cittadini in quanto, per ottenere gli aumenti volumetrici, sarà sufficiente presentare agli uffici tecnici comunali una semplice dichiarazione d’inizio attività, in deroga ai regolamenti e ai piani urbanistici comunali: comunque al di fuori delle più elementari regole di pianificazione e di rispetto degli standard urbanistici».

La manifestazione è stata aperta dai contributi della sociologa Antonietta Mazzette, da Stefano Deliperi per il Gruppo di intervento Giuridico e dall’urbanista Sandro Roggio. Alla tavola rotonda, coordinata dal consigliere regionale Carlo Sechi, hanno partecipato l’urbanista Arnaldo Bibo Cecchini, Luigi Cogodi, già assessore regionale all’Urbanistica, Renato Soru, il costituzionalista Piero Pinna e l’avvocato Giulio Spanu. «Il Comitato per la Difesa della pianificazione paesaggistica in Sardegna, appena costituito, dovrà essere aperto alla partecipazione e al contributo di quanti sentono di amare e intendono tutelare il paesaggio sardo, la più grande risorsa patrimoniale della comunità isolana». L’impegno operativo emerso dal convegno: «L’impegno di tutti, associazioni, partiti, movimenti, sarà determinante per sconfiggere un modello di sviluppo egoista e arretrato che ci pone fuori dal contesto dei paesi europei».

Cancelli agli ingressi del parco della Martesana, da chiudere ogni sera, per evitare le feste improvvisate di giovani extracomunitari. Una decisione che il Comune ha preso senza badare ai diritti dei ciclisti. Sì, perché le cancellate che stanno spuntando - in via Perticari come in via Agordat - chiudono anche la pista ciclabile che corre lungo il parco, una delle migliori in città, che arriva fino a Cassano d’Adda. Così i ciclisti che di sera si trovano a passare sulla pista accanto al Naviglio nel tratto del parco, rischiano di trovarsi imprigionati. «Ho segnalato il problema a chi sta montando il cancello - racconta Luca Martinelli, ciclista e residente della zona - ma mi è stato risposto che nel progetto di chiusura non è stato preso in considerazione il problema della pista ciclabile».

Insomma per ora l’opera di recinzione - con cartelli che indicano la chiusura serale entro le 21 del parco intitolato ai Martiri della libertà iracheni - va avanti nonostante le segnalazioni di diversi ciclisti abituati a usare la pista anche di sera, rientrando a casa dal lavoro. L’obiettivo è quello di evitare la presenza serale di giovani peruviani e ecuadoriani che ascoltano musica ad alto volume.

Attacca il consigliere Pd Maurizio Baruffi: «A nessuno verrebbe mai in mente di recintare una strada dove circolano le auto, ma evidentemente per questa amministrazione le biciclette non hanno pari dignità». I sostenitori delle due ruote, intanto, stanno mettendo a punto una manifestazione di protesta contro un altro luogo vietato alle due ruote: il nuovo tunnel in zona Garibaldi. Lì Ciclobby sta organizzando per sabato mattina un presidio di ciclisti.

Un percorso ciclabile che dal Duomo arriva a Porta Nuova, attraversando Brera, come preludio al primo Raggio verde. Un progetto che l´amministrazione aveva già accarezzato - fino a delinearlo nella sostanza - due anni fa, ma che solo ieri, dopo stop e ritardi, è arrivato in giunta per il necessario avvio burocratico. Parte così il primo dei tre progetti di piste ciclabili che dal centro città raggiungeranno corso Monforte, corso Sempione e, appunto, i Bastioni di Porta Nuova.

Ieri sono stati approvati sia il progetto preliminare del "Piano mobilità ciclistica-rete ciclabile centro storico" sia il progetto definitivo per il primo lotto (con un importo stimato di 5 milioni e 500mila euro): il primo tratto su cui verrà disegnata la pista ciclabile è quello che va da via Monte di Pietà a Porta Nuova. Considerando i tempi tecnici per la gara e le autorizzazioni esecutive, però, gli operai non saranno per strada prima di otto, dieci mesi. Di certo il percorso - ora gli uffici dell´assessore ai Lavori pubblici Bruno Simini dovranno studiarlo nei dettagli - avrà anche zone miste, in cui far convivere pedoni e due ruote: a Brera, per esempio, dove si sta disegnando una nuova isola pedonale. La filosofia resta quella di cambiare passo sulle politiche per la mobilità ciclabile: non più spezzoni di piste, ma un percorso quanto più possibile continuo, risistemando il tracciato esistente e costruendone uno ex novo, che porti i milanesi in bici dall´Ottagono fino al Raggio verde.

Un anno e mezzo fa il progetto del primo percorso ciclabile del centro sembrava pronto per l´approvazione: ma era arrivato imprevisto lo stop, perché nella stessa giunta c´era chi si preoccupava della perdita di posti auto a favore della pista per le due ruote. Ora la strada per la nuova pista sembra segnata. Ma in forse ci sono altri progetti che, nelle intenzioni, dovranno in futuro collegare il Duomo a Porta Romana e a Porta Ticinese.

postilla

Quando si parte da sottozero qualunque progresso infinitesimale è pur sempre un passo in avanti, o magari come in questo caso una pedalata, che porta un po’ più in là. Il sottoscritto non è un appassionato catastrofista, che non vede l’ora di indignarsi davanti a qualunque cosa: proprio oggi ho addirittura votato per il nuovo nome della Piramide di Formigoni I, ovvero il nuovo grattacielo della Regione (per la cronaca, ho proposto “Gioia”, forse si capisce perché).

Ma con tutto l’ottimismo possibile, qui la montagna ha addirittura bisogno di inseminazione artificiale, trattamenti nucleari e parto cesareo, per partorire quel tremante topolino. Una manciata di centinaia di metri fra le strade supercentrali terziarizzate, ed altre strade supercentrali magari lievemente meno terziarizzate: e dai! “Mobilità ciclabile” è una cosa seria, che in bocca a certe amministrazioni a quanto pare non può che diventare tragicomica. Per adesso lasciamoli lì a lavorare soprattutto con gi uffici stampa che tentano di gonfiare l’effetto annuncio, e continuiamo a pensare a cose più divertenti, utili, e puntualmente ignorate da lorsignori, come il progetto Grande Gronda presentato a Cassinetta di Lugagnano nel quasi silenzio della stampa, e che per 170 km di percorso metropolitano chiedeva cifre paragonabili a quelle della manciata di metri autopromozionali di questa Kriptonite Verde. Brr…. (f.b.)

Già la letterina del sindaco Letizia Moratti (“Cari amici…”) che apre l’opuscolo, ridicolmente intitolato “el nost milan - la nostra milano - our milan”, rivela lo scopo grossolanamente propagandistico dell’operazione. Abbiamo ricevuto a casa, come tutte le famiglie milanesi, queste paginette, smilze eppur egualmente irritanti, che vorrebbero farci tenere chiusi gli occhi, tappate le orecchie, turato il naso. Tre motivetti, nella letterina, riassumono i risultati ottenuti. I) “Milano più vivibile”. Al contrario, il problema principale, riassunto di tutti gli altri settoriali, è proprio quello dell’invivibilità attuale della città «ottenuta» nel lungo periodo dominato dal centrodestra. È talmente grave il peggioramento di tanti aspetti relativi all’abitarci e al frequentarla, che la qualità della vita e il valore, diciamo fisico, della città sono caduti a un grado non immaginabile ai tempi della Milano famosa per funzionalità e affabilità. II) “La nostra città è oggi più efficiente”. Lo sarebbe, si legge, soprattutto grazie al servizio di un call center unico 02.02.02, sempre aperto (e sempre occupato). Evidentemente il sindaco non conosce quali erano i fattori reali della vecchia efficienza, quella che aveva assicurato alla città il primato nella gestione dell’economia, dei trasporti, delle scuole, della cultura… III) “Milano è infine più sicura”. Quando mai è stata davvero insicura? La città sarebbe più sicura, si legge, perché “il numero di reati è diminuito del 16%” e perché “ci stiamo prendendo cura dei nostri ragazzi anche attraverso l’ordinanza che vieta l’alcol ai minori di 16 anni”. Si burla di noi, la signora sindaco.

Ma guardiamo ora dentro l’articolazione dei capitoli in paragrafi.

Nel primo, colpisce subito, circa “Ambiente”, una informazione sensazionale: “abbiamo piantato 128.000 alberi”! Una bufala gigantesca. Claudio Abbado (tutti ricorderanno la notizia, tanto forte ne fu la risonanza) aveva posto come condizione del suo ritorno a Milano la piantumazione di 90.000 alberi. Il sindaco non rivendicò alcun successo già conseguito. Anzi, accennò alle difficoltà di messa a dimora in piena terra e dunque alla probabilità di ricorrere ampiamente a “grandi vasi” (e, aggiungiamo, a miserevoli pianticelle o arbusti). Infelice inammissibile soluzione. L’amministrazione comunale ha decretato il taglio di migliaia di alberi per la costruzione dei parcheggi sotterranei i cui solettoni impediscono il reimpianto di essenze ad alto fusto come quelle demolite e permettono solo alberini senza crescita e cespugli o, appunto, dimora in vasi. Quello di sparare numeri senza riferimenti seri, paragoni, fonti, calcoli è il metodo applicato nell’intero opuscolo. “Ecopass”: “il traffico è diminuito del 6,8 % nell’intera città” e sarebbero diminuite secondo certe percentuali (senza alcun altro indicatore) le “emissioni allo scarico”. Sappiamo che ogni giorno entrano nel comune di Milano 600/700.000 automobili. Per parlare di successo (ma non di svolta) la diminuzione del numero dovrebbe consistere almeno nel 20%. D’altra parte se tutte le automobili fossero del tipo Euro 4, come dovrebbe accadere fra poco tempo, tutte supererebbero le barriere di controllo.

Non pollutioncharge sarebbe occorso, bensì congestioncharge, cioè un provvedimento contro la numerosità stessa dei mezzi privati, non solo contro i loro scarichi tossici. I risultati relativi agli inquinanti sono insufficienti, soprattutto riguardo al più pericoloso, le polveri sottili. Le statistiche periodiche veritiere rivelano che in quest’ultimi anni fino a oggi le polveri hanno superato il livello di pericolo di 50 mmg/mc per gran parte di ogni anno mentre il numero massimo di giorni fuori norma ammesso dall’Unione europea è di soli 35. Inoltre, qui per “polveri sottili” si considera il materiale particolato di 10 micron (Pm10), mentre le norme europee richiedono di misurare il Pm 2,5 secondo un limite massimo di 25 anziché 50 mmg/mc. “Metropolitane”, un paragrafo scarno perché non c’è nulla di cui vantarsi, anzi ci sarebbe troppo di cui vergognarsi. Il sindaco spera di inaugurare nel 2011 una prima breve tratta della bizzarra linea M5, bizzarra nel nome giacché la M4 non esiste; ma la falsa numerazione viene conservata allo stupido scopo di ingannare sulla realtà dell’effettiva dotazione di Milano. “Parcheggi”, intesi garage sotterranei. I numeri vantati non possono nascondere cosa c’è dietro di loro: sia la pena (nostra, non del sindaco) per la distruzione di una quantità di begli spazi alberati o comunque retaggio del costituirsi della forma urbana nel tempo, sia l’assurdità di una politica del traffico che mentre da una parte cerca, benché in maniera inadeguata, di allontanare le auto, dall’altro le richiama verso il centro e dentro di esso proprio offrendo loro parcheggio e ricovero.

Decine gli esempi. Cito qualche caso di massima ignominia: il silo di Piazza Meda, cinque anni di lavori ancora in corso, nel centro del centro, a un tiro d’arco dal Duomo; quello previsto, ribadito, confermato dalla pazza soprintendenza, contestato dagli abitanti, indagato, sospeso a Sant’Ambrogio, addossato in pieno al recinto della basilica; il parcheggio programmato, avviato, bloccato e ora in orribile abbandono alla Darsena dei Navigli Grande e Pavese, uno dei luoghi più rappresentativi della città “ridotto a desolata landa fangosa, sormontata però da pubblicità” (Stefano Bartezzaghi, “la Repubblica” 24.10.09).

Nel secondo capitolo, “Milano efficiente”, il paragrafo “Casa” espone numeri privi di spiegazioni. 1.714 “nuovi appartamenti realizzati” di “edilizia sociale” è il dato fondamentale. Veramente pochi, vien subito da sbottare, in una città in cui gli immobiliaristi in amoroso accordo con gli amministratori pubblici stanno realizzando, progettando, ipotizzando, noncuranti dei salutari (secondo noi) fallimenti del tipo Santa Giulia/Zunino/Foster, decine di migliaia di alloggi di lusso (250.000 in prospettiva estesa!), mentre permangono dai 35.000 ai 50.000 alloggi vuoti, e giacciono mucchi di inascoltate sofferenti domande per accedere a un alloggio popolare. “Famiglia”: ancora numeri vanterini, questa volta riguardanti i “posti nido”. 1.725 posti “in più” in oltre due anni, per una popolazione di tre classi di età stimabile in 40/50.000 unità, enormemente maggiore in avvenire se dovessimo dar retta alla famosa previsione di 2 milioni di abitanti per la città nei propri confini comunali e al prevedibile aumento della natalità. Di questo passo la domanda reale delle coppie giovani sarà continuamente delusa e ragione d’impedimento a risiedere in Milano.

Il terzo capitolo, “Milano sicura”, chiarisce, avessimo mai avuto qualche dubbio, che Letizia Brichetto Moratti raduna saldamente a sé forzismo e leghismo. Con una punta di razzismo. “Giro di vite”, sembra gridare, per la presenza di presidi militari e per certe ordinanze (andate buche) contro diversi fenomeni, dalla droga alla prostituzione all’”imbrattamento” (detto così, senza specificare). E il paragrafo “Abusivismo”? Pensiamo, prima di leggere il testo, che si riferisca all’edilizia, invece riguarda i campi dei nomadi. Questa volta ai numeri crediamo, 143 “sgomberi” (e distruzione dei ricoveri) contro 3 prima dell’epoca morattiana. Non ci ricordiamo di rimozioni mediante l’incendio di tende e baracche abitate, come avvenne nel vicino comune di Opera. Brava.

Milano, 8 novembre 2009

A un anno dalla chiusura, l’ospedale San Giacomo di Roma appare come un nobile decaduto, un vetusto edificio del centro storico condannato ad un futuro di abbandono. Gli ingressi sono sbarrati e nessuno è in grado di dire se e quando là dentro rientrerà un po’ d’aria. Il portone su via Canova viene aperto ogni tanto per permettere agli operai lo smontaggio di qualche residuo pezzo sanitario pregiato e per consentire ai facchini di imballarlo, caricarlo sui camion e portarlo chissà dove. L’altro ingresso su via di Ripetta è addirittura inchiodato con le assi di legno come usa con quegli immobili che per una ragione o per un’altra finiscono nel dimenticatoio, lasciati ai topi e ai piccioni. Per i romani è un colpo al cuore vedere il vecchio San Giacomo ridotto in quelle condizioni.

Ai non romani quel nome forse dice poco o nulla perché non conoscono le vicende che hanno portato al triste abbandono, e se le conoscono probabilmente le hanno catalogate in fretta tra i cento e cento brutti episodi della sanità contestata. In effetti è così, di malasanità si tratta, ma fino ad un certo punto, perché la storia del San Giacomo è anche qualcosa di diverso e di peggio.

Più passa il tempo e più prende corpo l’idea che l’affare dell’ospedale chiuso sia legato da mille fili alla storia del caso Marrazzo, l’ex governatore del Lazio travolto dallo scandalo delle trans e prima ancora finito impigliato in una rete vischiosa di ricatti. Intorno a quella vicenda frullano interessi immobiliari giganteschi su cui si affacciano personaggi di spicco. Ci sono i soliti costruttori romani, l’onnipresente Franco Caltagirone, proprietario del Messaggero e di una catena di quotidiani, e Domenico Bonifaci, editore del Tempo, l’altro giornale romano. E poi gli Angelucci, i self made men per antonomasia della sanità, creatori dal nulla di un impero di cliniche nel Lazio, in Abruzzo e Puglia. Anche gli Angelucci sono editori di due giornali collocatiin aree assai distanti: il Riformista nel centrosinistra e dall’altra parte Libero, il quotidiano che per primo a metà luglio ha visionato i video di Marrazzo e le trans.

La carrellata di big affacciati sull’affare San Giacomo non è finita. Nella lista compare anche Alfredo Romeo, imprenditore campano già condannato a 4 anni ai tempi di Mani Pulite e un anno fa di nuovo coinvolto in una storia legale di appalti irregolari per la manutenzione delle strade a Napoli e Roma con contestazioni da lui sempre respinte. Romeo ha in gestione il patrimonio immobiliare pubblico capitolino ed è, come si usa dire, un affarista di area, ammanicato con tutti, ma in particolare confidenza con Claudio Velardi, personaggio poliedrico, manager, editore, politico, fino a qualche mese fa assessore nella giunta Bassolino in Campania e ancor prima uno dei più stretti consiglieri di Massimo D’Alema.

E poi, dulcis in fundo, ecco l’ex governatore Pd del Lazio, Piero Marrazzo. È stato Marrazzo ad esporsi più di tutti per la chiusura del San Giacomo a dispetto di qualsiasi considerazione di ragionevolezza e anche a costo di contraddire se stesso. Perché la serrata dell’ospedale romano non solo è avvenuta a passo di carica, in appena 70 giorni, un record mondiale, ma è stata attuata dalla Regione Lazio dopo che la stessa Regione si era fatta carico di una gigantesca operazione di ristrutturazione dei 32 mila metri quadrati dell’immobile, con una spesa di circa 20 milioni di euro, come se la chiusura fosse un evento impensabile. Per mesi Marrazzo ha continuato ad inaugurare in pompa magna padiglioni e laboratori modello di un ospedale che poi di punto in bianco, come se niente fosse, ha deciso di sprangare. Tanto che oggi visto da fuori quell’immobileha l’aria vecchia, ma dentro è un gioiellino tutto nuovo e lucente, con macchinari costosi ed efficienti, dalla Tac alla risonanza magnetica ad una farmacia completamente computerizzata.

C’è un momento in cui Marrazzo ha fatto l’inversione ad U sul san Giacomo ed è il 15 luglio 2008, giorno in cui è stato nominato dal governo Berlusconi commissario per la Sanità laziale, proprio con il mandato di riparare ai suoi stessi errori oltre a quelli dei predecessori, controllore di se stesso, in pratica, un caso da manuale di conflitto di interessi indotto. Diciotto giorni più tardi il governatore-commissario firma la delibera di soppressione del san Giacomo. Motivazione ufficiale: la sanità del Lazio è in braghe di tela, indebitata fino agli occhi, l’ospedale romano costa troppo, è fuori dai parametri posti letto/abitanti e deve essere venduto per fare cassa. All’apparenza è un ragionamento serio, anche se molti addetti del ramo lo contestano punto per punto, cifre alla mano. Ma è anche un ragionamento che fa a pugni con le delibere di spesa firmate dallo stesso Marrazzo fino a cinque minuti prima e soprattutto lascia interdetti alla luce di ciò che fino a quel momento per la Regione ha significato fare cassa con l’immenso patrimonio della sanità.

Dal 2004 al 2007 nel Lazio è stata perpetrata in silenzio la più grande svendita di beni pubblici posseduti dalle aziende sanitarie e in parte riconducibili allo stesso San Giacomo: 950 immobili della Asl Rm A nel centro di Roma, area del Tridente tra piazza di Spagna e piazza del Popolo, 100 mila metri quadrati ceduti ad un prezzo ridicolo, poco più di 200 milioni di euro, 2 mila euro a metro quadro in media, a fronte di un valore di mercato più che doppio, forse triplo. Una gigantesca operazione di cui sono stati protagonisti l’imprenditore Romeo, la sezione immobiliare della Banca nazionale del Lavoro e la Gepra Lazio, società che, secondo quanto scritto dal Sole 24 Ore, avrebbe un’appendice in Irlanda, paese con un regime fiscale favorevole.

Il complesso del San Giacomo con molta probabilità avrebbe dovuto essere il secondo tempo di quella gigantesca partita immobiliar-sanitaria. Ma, a differenza degli immobili di piccola taglia, finiti presumibilmente in mano a tanti fortunati Gastone, essendo l’ospedale un blocco unico, anche il pretendente all’acquisto non poteva che essere unico o al massimo pochi, i soliti immobiliaristi, i cavalieri del mattone capitolino interessati a trasformare il nosocomio in un residence. GLI STESSI che ora stanno puntando su un altro boccone dell’abbuffata immobiliar-sanitaria laziale, il patrimonio dell’ex Pio Istituto S. Spirito e degli Ospedali riuniti di Roma, 18 mila ettari di tenute in zone di pregio, comprese alcune affacciate sul mare a nord della Capitale, a Santa Severa e Palidoro. Più altri 41 stabili a Roma suddivisi in 266 appartamenti e un palazzo nella centralissima via del Governo Vecchio. E poi decine di fabbricati e palazzi a Monteromano, Tarquinia, Castelguido, ancora Palidoroe Santa Severa.

Sarà difficile che qualcuno possa fermarli. Le proteste per il San Giacomo, per esempio, non sono state neanche prese in considerazione. A nulla un anno fa valsero le 60 mila firme raccolte, le contestazioni, i sit-in di uno schieramento composito ma unito nella denuncia di quello che considerava un inspiegabile sopruso. Si mobilitarono i pazienti in primo luogo, soprattutto i 100 in dialisi, che da un giorno all’altro vedevano sparire una struttura valida su cui avevano fatto affidamento per anni. E i 1.700 malati del reparto di oncologia poi costretti a rivolgersi al Nuovo Regina Margherita dove non erano pronti per un afflusso del genere. Scesero in piazza i residenti della zona e protestarono anche i medici, i quali fecero presente quanto fosse irrazionale una scelta così drastica in assenza di un piano sanitario generale regionale che decidesse cosa, dove e come tagliaresulla base di esigenze studiate e condivise.

Marrazzo non volle sentir ragioni dimostrando una faccia di sé fino ad allora sconosciuta: quella del decisionista testardo. La macchina della chiusura e del successivo business immobiliare si mise in moto e sarebbe arrivata fino in fondo se non fosse spuntato l’imprevisto: il testamento del cardinale Antonio Maria Salviati scoperto da Oliva, una sua discendente. Quel documento risalente al lontano 1592 stabiliva in modo chiarissimo che il cardinale regalava l’immobile alla città di Roma a patto che il suo uso di ospedale fosse conservato nei secoli. A un passo dalla meta il grande affare immobiliare saltava. Dal cilindro ecco che spunta allora un piano B. Lo illustra il viceministro alla Sanità, Ferruccio Fazio, alla irremovibile Oliva Salviati consegnandole un’“ipotesi di ridestinazione/riconversione dell’ospedale San Giacomo” che sembra una proposta di mediazione.

Al punto 2 c’è scritto: “Mantenere per la struttura una finalizzazione sanitaria a carattere extraospedaliero compatibile con il vincolo di destinazione d’uso”, un modo arzigogolato per dire, in sostanza, che il San Giacomo potrebbe diventare una Rsa, residenza sanitaria per anziani. Sembra un’idea studiata apposta per gli Angelucci, specializzati proprio in cliniche di quel tipo. Il progetto bis procede sotto traccia per mesi e rispunta a pagina 203 del piano sanitario regionale 2009-2011 preparato da Marrazzo e presentato un mese e mezzo fa. Con il gergo burocratico-sanitario tipico si prevede una “riconversione del San Giacomo in ospedale del territorio a forte integrazione socio-sanitaria”. E’ una frasetta all’apparenza innocua, ma per molti è il segnale atteso, per altri, invece, è come una miccia accesa. Tre giorni dopo scoppia lo scandalo delle trans e Marrazzo salta.

Agro romano, sulle tutele è scontro Montino-Giro

Il Tempo, 2 dicembre 2009

Vincolo sì, vincolo no. Anche ieri è stata una giornata di annunci e smentite in tema di tutele al Piano territoriale paesistico regionale e di conseguenza al Prg capitolino. Dallo scontro tutto interno al Pdl tra Alemanno (An) e la premiata ditta Bondi-Giro (Fi) si è tornati a quello "bipolare" destra-sinistra. Da una parte il vice presidente del Lazio Esterino Montino, dall'altra il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro che proprio giorni fa, alla domanda de Il Tempo se fossero vere le indiscrezioni sulla possibilità dell'apposizione di nuovi vincoli su aree agricole nel quadrante Nordovest del Comune, aveva risposto con un «nì» che non lasciava ben sperare. Ieri Montino è tornato a fare la voce grossa confermando, ma sempre «per sentito dire», la volontà del Mibac di apporre quei vincoli su un territorio compreso tra Cassia e Aurelia, fino ai confini con il Comune di Bracciano.

Notizia smentita da Giro, questa volta, con un secco «no». Il sottosegretario, che ora non sembra gradire l'idea di passare da "uomo nero", ha aggiunto, seccato, «quelli di Montino sono solo proclami elettorali» in vista, aggiungiamo noi, delle regionali di primavera. Ieri, però, Montino, riferendosi al vincolo che riguarda l'area compresa tra Laurentina e Ardeatina, procedimento in avanzata fase di discussione in sede ministeriale - anche se al Mibac c'è stata una sola riunione durante la quale, come ricorda l'assessore all'Urbanistica capitolino Marco Corsini, «si è parlato di stadi» - Montino, dicevamo, ha ribadito l'intenzione della Regione «di presentare ricorso». Ma ricorso a che - domanda - se l'apposizione di quel vincolo da 1 milione e 540mila metri cubi non è ancora stato ufficializzato dal Mibac?

Proprio pochi giorni fa, infatti, Regione, Comune e privati hanno depositato al Ministero le osservazioni alla proposta di vincolo. Ora il Mibac dovrà controdedurre e decidere se dare il «la» o meno al decreto. La nuova alzata di voce di Montino, a soli due giorni dalla consegna delle osservazioni, suona quindi stonata. Con il prossimo cambio della guardia in Regione, inoltre, l'ipotesi ricorso - che non potrà che essere fatto alla Corte costituzionale - è destinata a perdere significato. Se vincoli saranno, saranno di certo un problema del prossimo governatore del Lazio. Per questo anche il Comune - nella persona dell'assessore Corsini - aspetta e spera criticando le posizioni del Mibac non tanto sul metodo, «il ministero è disponibile al confronto», quanto sul merito: «la concertazione non è ancora iniziata». Del resto, in caso di vincoli, il danneggiato Campidoglio avrebbe le mani legate. Al massimo potrebbe rivolgersi al Tar. È normale quindi che lo scontro - o meglio la farsa - si sposti ora tra Regione e ministero dei Beni culturali. Così, mentre loro si scannano, i costruttori accendono ceri a San Vincenzo Ferrer, protettore degli edili. E visto che da qui alle elezioni ci passano 4 mesi, viene loro anche il dubbio che le norme di salvaguardia nel frattempo decadano e con esse la possibilità di apporre vincoli. Un sospiro di sollievo per la città, certo, ma anche una beffa: un anno perso dietro alla solita politica.

Vincoli sull’Agro, scontro sull’Urbanistica

Chiara Righetti – la Repubblica, ed. Roma

Sull’urbanistica lo scontro è aperto. Il primo attacco, preventivo, lo ha sferrato ieri il governatore reggente Esterino Montino. Annunciando l’intenzione di presentare ricorso contro un vincolo paesaggistico che il ministero dei Beni culturali non ha ancora introdotto: quello fra Laurentina e Ardeatina che bloccherebbe un milione 540 mila metri cubi di nuove costruzioni. Non solo: «Ho sentore - ha aggiunto - che sia in arrivo un secondo decreto, in un’area che va dalla Cassia all’Aurelia» (dove tra l’altro dovrebbe sorgere il nuovo stadio della Roma, ndr). Per Montino sarebbe «un atto unilaterale, da evitare» avendo «un piano regolatore approvato nel 2008, non nel 1960, che ha avuto un percorso lungo e complesso».

Dichiarazioni che il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro bolla come «proclami elettorali». Peggio: «Parole in libertà per nascondere il fallimento di una Regione che non è riuscita ad approvare il Ptpr». Cioè il Piano paesaggistico territoriale regionale, adottato ma mai approvato; e ostacolato, all’inizio del suo percorso, anche per il mancato accordo dell’allora ministro Rutelli. Poi l’affondo: «È evidente che Montino si sente già in campagna elettorale, e si pone come paladino degli interessi garantiti dal Prg di Veltroni. È un vecchio gioco, ma gli imprenditori non ci cadranno ancora».

Sul vincolo tra Ardeatina e Laurentina è scaduto il 26 novembre il termine per le osservazioni di enti locali e associazioni. Ora il ministero dei Beni culturali ha due mesi per decidere e in sostanza tre opzioni. Può adottarlo integralmente, rinunciarvi del tutto o ammorbidirlo: sarebbe questo l’orientamento prevalente, e a guidare la scelta potrebbe essere la qualità architettonica dei progetti. Il più impegnativo nell’area in discussione è quello da 900mila metri cubi a Paglian Casale, tra Roma e Pomezia. Quanto all’ipotesi di un nuovo vincolo a nord, Giro la smentisce con decisione: «All’orizzonte non ci sono nuovi vincoli nella zona nord e nordest di Roma».

Dura la replica a Montino delle associazioni ambientaliste, con Lorenzo Parlati, di Legambiente Lazio, che afferma: «Basta cemento sull’Agro» e bolla come «assurdo» il ricorso annunciato. Sulla stessa linea l’assessore Sl Luigi Nieri: «L’Agro è un bene della città che va salvaguardato». Sull’urbanistica comunque lo scontro è aperto, con paradossi e inedite alleanze: contro il vincolo si è schierata da tempo anche la giunta Alemanno.

E' stato presentato alla stampa con toni trionfalistici il megaprogetto di distruzione di altri 88 ettari della Riserva di Decima-Malafede. Dove oggi pascolano i daini ed i cinghiali, dove è possibile sorprendere voli di pavoncelle e beccacce, sullo splendido altopiano che domina il mare, dove venivano girati di film wetern degli anni 60, sorgerà l'ennesimo inutile scempio.

Quattro milioni di presenze, 2.500 occupati. per un investimento che supera i 500 milioni di euro - sono queste le cifre della rovina, presentati da un'asse trasversale istituzionale tra i quali Nicola Zingaretti e Gianni Alemanno, come a dire che ormai non c'è alcuna distinzione fra i fautori del cemento selvaggio. Una classe politica ormai impegnata nel solo succedere a se stessa, ha deciso da tempo di annientare l'ultimo polmone verde e selvaggio della capitale.

da un comunicato stampa:“La prima fase si estenderà su 23 ettari e comprenderà 3 attrazioni “adrenaliniche", 16 attrazioni riservate ai più piccoli e 19 attrazioni per la famiglia, in una sorta di Family Entertainment Center. E' poi prevista nel 2012 l'apertura del Village con negozi e servizi di ristorazione per il pubblico. Nel 2013 aprirà Cinecittà World2, una nuova area con attrazioni, quindi nel 2014 sarà visitabile il grande spazio verde nel quale vengono ambientate le riprese di numerosi film, “Cinecittà Natura”. A realizzare la struttura è Cinecittà Parchi, società costituita nel 2009 e partecipata per l’80% da Cinecittà Entertainment e per il 20% da Generali Properties. Cinecittà Entertainment fa capo alla IEG – Italian Entertainment Group i cui principali azionisti sono Luigi Abete, Andrea e Diego Della Valle, Aurelio De Laurentiis e la Famiglia Haggiag.”

Ogni commento è superfluo. Verrà un giorno in cui ci si domanderà come mai la demenza abbia colpito, all’inizio del Terzo millennio, un’intera popolazione. I pochi rimasti, indenni dal morbo, a testimoniare delle epoche precedenti (nel frattempo avranno distrutto anche i musei, trasformati in parcheggi, e le biblioteche, trasformate in casini) non riusciranno a far comprendere ai visitatori di queste terre devastate perché tutto ciò sia potuto accadere.

Qui il link a google map con l’indicazione del perimetro della Riserva naturale

Glielo ha chiesto Pierluigi Bersani. Un incontro lunedì, poi lunghe e ripetute telefonate il giorno dopo. E adesso Filippo Penati non scuote più la testa. Manca ancora il sì ufficiale, ma per l’ex presidente della Provincia si profila un futuro al Pirellone, come candidato alla presidenza contro Roberto Formigoni. Quello che fino a qualche settimana suonava come un granitico diniego si sta dunque sgretolando sotto l’effetto del pressing congiunto esercitato prima dai lombardi del Pd e adesso dallo stesso Bersani, che ha appena nominato Penati capo della sua segreteria.

Proprio questo nuovo incarico sembrava costituire un ostacolo lungo la strada del Pirellone. Almeno così sosteneva Penati («Mi si chiede un grosso sacrificio»), che però alla vigilia del faccia faccia a faccia con Bersani aveva già ammorbidito la posizione: «Io vorrei evitare - confidava lunedì - ma in un partito come il nostro si deve fare quello che serve». Insomma, proprio l’impegno nazionale nella cabina di regia del Pd lo starebbe portando a un’assunzione di responsabilità che cozza contro il suo progetto originario: candidarsi, sì, alle regionali, ma solo come capolista del Pd. E prepararsi poi da votatissimo consigliere del Pirellone alla sfida del 2011, come candidato sindaco.

Quello di Penati è un profilo di politico a tutto tondo, ma con alle spalle una solidissima esperienza amministrativa, cominciata nei primi anni Ottanta come assessore nella sua Sesto. Inoltre, e questo nell’entourage penatiano sta diventando il leit motiv delle ultime ore, il centrosinistra in Lombardia ha sempre candidato figure «di certo rispettabili, ma bisognose del forte traino dei partiti». Traduzione: a fare da traino stavolta sarebbe lui. Maurizio Martina, segretario lombardo del Pd, è stato il primo a proporre la carta Penati per la gara del Pirellone, e dopo la «chiamata» di Bersani dice che per l’ex sindaco di Sesto «ci sono forti stimoli ad accettare la sfida». Un via libera è già arrivato dagli alleati certi, Italia dei valori e Sinistra e libertà, mentre continua il corteggiamento dell’Udc. Intanto la mozione Bersani candida il sindaco di Cormano, Roberto Cornelli, alla segreteria provinciale. Se, come sembra, entro domenica non verranno presentati altri candidati, non ci sarà neppure bisogno di ricorrere alle primarie.

Postilla

caro Penati: ma chi glie lo fa fare? Intendo, chi glie lo fa fare di accettare un ruolo tutto sommato marginale, di “capo dell’opposizione” per il prossimo travolgente mandato del Celeste Formigoni? Perché, complice anche una sua eventuale candidatura, questo ci aspetta, implacabile, con tutti i suoi strascichi di nuovo clientelismo, autostrade inutili, spreco di territorio, tirapiedi baciapile a bizzeffe e via dicendo. Per non parlare dell’altissima probabilità di un suo ufficioso quanto inevitabile ritiro a carica nazionale (quella di alto coordinamento a cui l’ha appena chiama il segretario Bersani) dopo la sconfitta alle elezioni e qualche mese di visibilità locale.

Per dirla tutta, e con un briciolo di buon senso: perché mai la stessa persona che è stata scalzata dal governo provinciale di Milano da un signor Nessuno messo lì a fare il candidato zerbino degli interessi del centrodestra, dovrebbe spuntarla contro la corazzata talebano-affaristica di ciellini, leghisti, annessi & connessi?

Nel Pd lombardo ci sono fior di personalità e intelletti, giovani, cresciuti esattamente nel clima da nuove reti sociali e politiche che tutti auspicano da anni, che conoscono benissimo il mitico “territorio”, e lei che non avrebbe nulla da guadagnare li lascia a far la muffa in terza fila, in una logica da “paracadutato da Roma” che peggio di così non si può?

Non ascolti gli appelli di chi ormai da anni infligge piuttosto sadicamente la medesima zuppa sempre più indigeribile ai democratici e progressisti di una Regione che avrebbe molto da dire. Sempre che la si lasciasse parlare, ogni tanto (f.b.)

Pgt, il gran ritorno ai "cattivi maestri"

Il Piano di governo del territorio milanese è costruito per favorire gli interessi di pochi: i soliti. Da la Repubblica, ed. Milano, 24 novembre 2009 (m.p.g.)



Giusto una settimana fa il sindaco Letizia Moratti, introducendo i lavori per la presentazione finale del Piano di governo del territorio, ne ha sintetizzato gli obiettivi in tre punti: città più vivibile, città più verde, città più densa: ossia un’ovvietà, uno slogan e un’affermazione in parte contraddittoria con la prima. Dopo aver parlato se n’è andata: l’ascolto delle parti sociali – da cui la manifestazione – la interessa poco o nulla. Eppure questo ascolto, come ha sottolineato l’assessore Carlo Masseroli, è un adempimento previsto dalla legge regionale 12/2005, quella che ha istituito i Piani di governo del territorio cancellando i vecchi piani regolatori.

Quali erano, però, le "parti sociali" presenti all’incontro? Sostanzialmente una: gli operatori immobiliari. Il resto della platea era costituito da professionisti, architetti e avvocati amministrativisti, ossia i professionisti degli operatori immobiliari: una rappresentanza molto parziale delle parti sociali. Peraltro anche nelle fasi precedenti va notato che il termine per la presentazione delle osservazioni preliminari scadeva tre settimane prima del passaggio in giunta del Pgt ed è legittimo domandarsi se in tre settimane fosse possibile rimettere mano a un documento di più di mille pagine e ricchissimo di tavole e grafici.

L’eterna finzione della partecipazione pubblica. Non è questo lo spazio per addentrarci nei dettagli tecnici ma solo per considerazioni di tipo politico.

L’operazione Piano di governo del territorio è partita al grido: il vecchio piano regolatore frena lo sviluppo della città. Però Santa Giulia, Citylife, Garibaldi Repubblica (oggi Milano Porta Nuova) e, per finire il grattacielo della Regione, più altre cosette, sono nati col vecchio piano regolatore e se non si è fatto di più lo si deve al "mercato" che non tira, quello stesso mercato che ha lasciato tanti vuoti cadaveri sul territorio milanese a cominciare dagli edifici di via Stephenson della galassia Ligresti.

Dunque la ragione è un’altra: il tentativo di questa destra di accreditarsi come innovatrice, ideologicamente più vicina al Paese e alle sue necessità. Allora se la questione è di tipo ideologico vediamola sotto quest’ottica. In questo migliaio di pagine, comunque troppe rispetto agli obiettivi e alla praticabilità di uno strumento urbanistico, si ritrovano tutti gli slogan di un certo tipo di urbanistica della passata sinistra i cui mentori furono allora indicati come "cattivi maestri" da quella stessa destra che, insieme alla progenie mutante di quelli, oggi risciacqua gli stessi panni nell’acqua di Comunione e Liberazione con un occhio alla Compagnia delle Opere. Niente di grave nell’aver ripescato vecchie cose ma non bisogna gridare alla novità, almeno non gridarlo pensando di farla franca quando c’è chi può divertirsi con operazioni di esegesi delle fonti.

Ancora un’osservazione. Il nuovo Pgt dispiegherà i suoi effetti, buoni o cattivi, a condizione che il mercato riprenda vigorosamente: senza mercato niente nuovo verde, niente generale riassetto della città, niente densificazione ma solo parole. Ma quando riprenderà il mercato, con il nuovo scenario fatto di meno regole, gli esiti saranno assai poco diversi da quelli del passato: gli interessi di pochi, gli uomini del mordi e fuggi immobiliare, determineranno il futuro di Milano.

La Broni-Mortara e il Business Park le prossime ferite all’antico tessuto di marcite e risaie della Bassa I comitati in rivolta e i municipi provano a ripensare l’espansione, ma forse è troppo tardi

Tangenziali, villette, logistica: ogni anno si perdono in media 13 metri quadrati di terreno agricolo pro capite

A Lodi e Pavia, dove l’industria sta diventando un lontano ricordo e si devono fare i conti quotidiani con i posti di lavoro persi, si sta rischiando di svendere il territorio. Autostrade, centri commerciali, lunghe file di capannoni, poli logistici. E poi case, ville, villette a schiera, se possibile condomini e uffici stanno prendendo il posto di campi, prati, coltivazioni, marcite. In cerca di un’anima, le due province sorelle non hanno ancora capito quale sia la loro strada.

Pavia ha la prospettiva, in teoria già nel 2013, di un altro, lunghissimo, nastro di asfalto che porterà tir, smog, campagne devastate. O almeno così vedono gli ambientalisti il progetto ormai approvato dell’autostrada Broni-Pavia-Mortara.

L’altro, di incubo, era quello dei 250mila metri quadrati di territorio consumato, 90mila di superficie edificata, del centro commerciale (il più grande d’Europa si diceva) che la multinazionale Sonae avrebbe voluto costruire a Borgarello, a due passi dal monumento della Certosa di Pavia. Una ferita, ma migliaia di posti di lavoro potenziali in un territorio con una cassa integrazione a quota più 400 per cento. Se Pavia piange, Lodi non ride con una cassa in salita del 350 per cento. Eppure, è solo di qualche mese fa il ricorso al Tar contro la variante urbanistica per la realizzazione del Business Park, progetto che consumerebbe quasi 400mila metri quadrati di terreno agricolo tra Lodi e San Martino in Strada.

Pavia e Lodi del resto condividono, secondo una ricerca del Politecnico di Milano, il record di consumo di territorio agricolo pro capite: 13,4 metri quadrati all’anno per abitante a Pavia, prima in Lombardia, e 10,1 a Lodi, terza e preceduta solo da Mantova (13,1), con una media regionale di 4,7 metri quadrati. E nel Lodigiano come nel Pavese (che però ha realtà diverse con Lomellina e Oltrepo) non si tratta soltanto di autostrade, centri commerciali e logistica, ma anche delle scelte fatte da molti sindaci. Scrive lo storico Giorgio Boatti: «Ogni Comune si fa puntiglio di estendere le zone urbanizzate, di consentire voraci lottizzazioni, di far nascere nel tempo più breve interi quartieri: il risultato è che vi sono settori cittadini, a Pavia, e paesi, nei dintorni del capoluogo, che nel giro del prossimo quinquennio aspirano ad avere il trenta, cinquanta per cento di popolazione in più. Con tutti i conseguenti squilibri che ne deriveranno».

E basta andare nella zona "calda" tra Pavese, sud Milano e Lodi, per scoprire che alcuni di questi paesi stanno perdendo la loro identità: case su case, villette a schiera, piccoli centri per la logistica, supermercati, e poi mini tangenziali per far arrivare residenti e clienti. Parcheggi enormi. Anche i Comuni e le Province, che pure hanno autorizzato e ancora vorrebbero autorizzare espansioni e cemento, provano a tirare il freno. Tant’è che proprio il sindaco di Lodi, Lorenzo Guerini, presentando il Piano di governo del territorio, aveva sottolineato come gli obiettivi del Pgt «si collocano all’interno di una scelta precisa, quella volta a limitare il consumo del suolo», che «sarà comunque pressoché integralmente legato a trasformazioni per gli ambiti produttivi mentre per le trasformazione residenziali verranno privilegiati ambiti relativi ad aree dismesse».

Eppure, viaggiando lungo queste due province, i cantieri ormai non si contano più, e leggendo i vecchi piani regolatori o le varianti appena approvate, si registra come la voglia di mattone, e di consumo di territorio, sia infinita. Lo si scopre in una cittadina qual è Voghera, 40mila abitanti, che si lecca le ferite della deindustrializzazione, che fa i conti con le decine di casse integrazione e che poi con il "Parco Baratta", approva una lottizzazione da un migliaio di appartamenti per circa quasi tremila nuovi abitanti. D’altro canto, dove fuggono via le industrie e dove il terziario avanzato non decolla, non resta molto per offrire lavoro. Il business dei rifiuti, per dirne una: e così a Senna Lodigiana il comitato "Per continuare a vivere" si rivolge al ministro per l’Ambiente Stefania Prestigiacomo perché blocchi l’arrivo della discarica da un 1,5 milioni di metri cubi di capienza in località Bellaguarda. Mentre a Casei Gerola, morto lo zuccherificio dell’Italia Zuccheri che occupò oltre 150 dipendenti, dopo la bonifica (altro business) si pensa a un outlet del prodotto tipico con annesso centro commerciale. A due passi dal casello autostradale della Milano-Genova. Strade e centri commerciali. Il futuro, a Pavia e Lodi, è davvero solo questo?

"Svendono i terreni per far quadrare i conti"

intervista all’urbanista Cristina Treu



Maria Cristina Treu insegna Progettazione urbanistica al Politecnico di Milano. Conosce a fondo i piani territoriali di Comuni e Province come Pavia e Lodi. E dice: «La svendita del territorio e il consumo del suolo non sono solo la reazione alla deindustrializzazione, sono una sorta di autodifesa da parte dei Comuni, di istinto di sopravvivenza contabile».

Che cosa intende dire?

«Gli oneri delle lottizzazioni di case e terziario servono ai Comuni per le spese ordinarie, per tirare avanti e far quadrare i bilanci, in particolare ora che è stata abolita l’Ici. In Lombardia ci sono 1.547 Comuni, il 94 per cento dei quali ha meno di 5mila abitanti, e proprio questi hanno fatto registrare il maggiore aumento della popolazione dal 2001 a oggi».

È una soluzione per non aumentare le tasse.

«Abbiamo fatto uno studio recentissimo. Ci dice che su una lottizzazione di circa 20mila metri quadrati, mediamente, in gettito di contributi diretti o in opere, un’amministrazione è in grado di garantirsi la sopravvivenza per 5 anni, ossia la durata del mandato di un sindaco. E sa cosa ci restano dopo i 5 anni? I costi di manutenzione. E c’è un problema in più».

Un altro?

«Gran parte delle opere a scomputo oneri sono strade e rotatorie, che non solo costano per la manutenzione ma che se non curate a dovere diventano anche un pericolo. I dati ci dicono che la maggiore incidentalità non è sulle grandi arterie, ma sulla piccola rete viaria di competenza di Province e Comuni».

C’è qualche soluzione praticabile?

«Penso che, invece di abolire le Province, che per zone come Pavia e Lodi non sono enti inutili, sarebbe il caso di unire i Comuni. In Provincia di Lodi, per dirne una, c’è Maccastorna, che ha 45 abitanti. Ha un senso?».

Podestà stoppa il Metrobosco "Progetto da ripensare"



Anche su Internet oggi non se ne sa più nulla, il sito è stato oscurato e chi volesse notizie non le trova. Metrobosco, una cintura verde attorno alla metropoli, un anello continuo di oltre 30mila ettari che coinvolgeva i Comuni dell’hinterland con l’obiettivo di piantare tre milioni di nuovi alberi in dieci anni, è stato uno dei progetti più ambiziosi della Provincia quando a governare era Penati. Iniziato nel 2006, «ha già portato alla piantumazione di 300mila alberi e 190mila erano in programma nel 2009» dicono dal laboratorio Multiplicity.lab del Politecnico, coordinato dall’architetto Stefano Boeri, che ha curato il progetto. Ma passata la gestione della Provincia al Pdl con le ultime amministrative, Metrobosco si è fermato. E ora Palazzo Isimbardi, dove il presidente Guido Podestà ha tenuto la delega sull’Ambiente, sta rivedendo la politica di forestazione. «Non intendiamo spegnere Metrobosco - chiarisce Podestà - ma integrarlo con un progetto più ampio».

Non si vuole più agire con una frammentazione di interventi e solo in alcune aree, ma è allo studio «una forestazione di più ampio respiro in modo da dare le stesse opportunità a tutto il territorio e coinvolgere i 139 comuni provinciali». «Ho chiesto un incontro con Podestà più di un mese fa - spiega Stefano Boeri - e spero che il progetto Metrobosco prosegua. Mi stupirebbe che non fosse così, ha avuto ottimi risultati in tre anni di storia. Incentiva i Comuni alla piantumazione ed è molto legato al tema dell’Expo. Il bosco pensato non solo è continuo, ma cambia natura a seconda delle aree con cui si incrocia». Il progetto, che ha coinvolto circa una sessantina di Comuni, prevede che ogni ettaro di bosco possa contenere fino a 100 alberi, per abbattere così 50 tonnellate di CO2 per anno, al costo di 50mila euro ad ettaro. Per la realizzazione di 30mila ettari di bosco in dieci anni, servivano circa 1,5 miliardi di euro «pari a un quarto della spesa prevista per la linea Tav tra Milano e Bologna» precisano da Multiplicity.lab.

«L’incontro con l’architetto Boeri avverrà nelle prossime settimane - assicura Podestà - . Metrobosco è valido, ma isolato rispetto a un progetto che vuole investire tutta la provincia. La mia idea è quella di una città espansa, dove da una parte si allungano le linee metropolitane per intercettare lo scambio gomma-ferro, e dall’altra si creano piste ciclabili contornate dal verde. Assi di riforestazione che conducano dalla città verso l’Adda e verso il Ticino. Per valorizzare anche il parco Sud, di cui difendo la natura di parco agricolo, ma che deve essere penetrabile, fruibile». Intanto Multiplicity.lab del Politecnico è stato invitato a presentare Metrobosco all’interno della mostra internazionale dedicata ai progetti di forestazione metropolitana. L’appuntamento è alla Academy Der Kunst di Berlino nel marzo 2010, quando forse si saprà già se Metrobosco è destinato a vivere o a morire.

I laghi e i prati del parco naturale il gioiello delle Cave rischia la fine



Il parco delle Cave conta quattro laghi su cui si riflettono alti alberi, specchi d’acqua attorniati da canne palustri in cui nuotano beate anatre, sottoboschi da dove è facile veder uscire fagiani, conigli selvatici o mini leprotti, mentre ogni tanto si fa sentire il toc toc del picchi che piantano il becco su piante morte per andare a pescare larve e insetti. Dicono che la colonia più numerosa della provincia abbia casa qui. E poi ampi prati sempre verdi e ben curati, antichi canali d’acqua per l’irrigazione ripristinati e pieni di pesci, sentieri in terra battuta studiati apposta per avere tutti i pregi e nessun difetto, ordinate separazioni in legno e orti. Si pota poco, lasciando che la natura faccia il suo corso, indirizzandola con interventi leggeri, ogni giorno e solo dove serve.

Si stenta a credere che fino a poco più di una decina di anni fa quello che oggi è diventato il parco delle Cave fosse la casa dell’eroina, posto pericoloso e squallido ad alto tasso di degrado, discarica per rifiuti materiali e umani. Diventato giardino di acque e di verde con Italia Nostra. Il Comune nel 1997 affidò all’associazione (dopo aver visto quello che aveva fatto nella vicina area di 120 ettari, Bosco in Città, verde e boschi dal nulla) altri 121 ettari di ex cave abbandonate, allora terra di nessuno. Trasformati in bella terra per tutti. Con criteri particolari che hanno portato questo parco ad essere diverso dagli altri. «La nostra è una gestione naturalistica - spiega il direttore del centro di forestazione urbana di Italia Nostra, Silvio Anderloni - . Ragioniamo sull’ecosistema del bosco. Molti alberi morti o caduti, per esempio, restano dove sono. Servono al rinnovamento, offrono nicchie ecologiche indispensabili. Si fa il minimo per rendere tutto fruibile, ma con interventi soft».

Gli ettari già realizzati sono 98, costo 8 milioni di euro: 23 ettari, invece, quelli della cava Ongari, sono ancora chiusi e inaccessibili, tutti da fare. Ma chissà che succederà ora che non si rinnova, per contrasti tra le parti, la convenzione per il parco tra Italia Nostra e il Comune, in scadenza il 31 dicembre. Tutti sono pronti ad andarsene e a lasciare con rammarico una creatura che hanno generato e molto amano: i sette giardinieri del centro di forestazione urbana di Italia Nostra che si occupano della manutenzione quotidiana e i tantissimi volontari che hanno contribuito a fare il parco e che adesso stanno raccogliendo in un album "le foto di famiglia". La paura è che chi verrà stravolga le Cave e il suo spirito.

«Non c’è giardino senza giardiniere, ci deve essere una quotidianità di gestione, con interventi man mano che il parco cresce - dice il paesaggista Francesco Borella, artefice del parco Nord e consigliere di Italia Nostra - . Questo è il modo di governare il verde a Parigi o a Berlino, in Olanda come in Spagna, la gestione diretta. Qui a Milano, invece, è quello della Global Service, dell’appalto per singole operazioni, potare, tagliare l’erba, senza la presenza costante del giardiniere. Gli effetti di questa operazione sono uniformare tutti gli ambienti, appiattendoli. Il problema del verde è la gestione non il progetto, posso progettare il più bel parco del mondo ma se non ho programmato come gestirlo faccio flop». Negli ultimi tre anni, quando è iniziata la querelle con l’assessore Cadeo sul contratto, Italia Nostra «non è più riuscita ad andare avanti con il suo progetto, tutto si è arenato» racconta Silvio Anderloni.

E adesso il parco chi lo gestirà? «Vogliamo affidare alla facoltà di Biologia della Statale la parte di collaborazione progettuale, per mantenere e incrementare la biodiversità - spiega l’assessore Cadeo - . Invece la manutenzione del verde, che ci preoccupa meno, sarà affidata a Global Service, come negli altri parchi». Proprio quello che Italia Nostra temeva. «A Italia Nostra - conclude - che ha dato disdetta del contratto con il Comune e noi ne abbiamo preso atto, stiamo valutando se assegnare la sistemazione della cava Ongari, legata all’Expo».

Poggio Imperiale, cede la collina

crollo nel cantiere delle case di lusso

di Maria Cristina Carratù

Erano le due di giovedì notte quando gli abitanti di via Benedetto Castelli, elegante strada alberata che unisce via Senese a via del Gelsomino, fra S.Gaggio e Poggio Imperiale, si sono svegliati di soprassalto. Strani schianti provenivano dal cantiere aperto da mesi dietro le loro case. E’ bastato aguzzare gli occhi per capire. La collina stava franando dentro il cantiere.Subito sono partite le chiamate a carabinieri e alla polizia: «Correte, qui sta crollando tutto». E di cosa si trattasse si è visto bene alla luce del giorno: il muro di contenimento di cemento armato che delimita l’enorme scavo del cantiere dove dovranno sorgere appartamenti e garage interrati, costruito proprio per impedire il cedimento della strada e di un pezzo di collina, era venuto giù. Piegato in due come un pezzo di Lego, mentre blocchi di sassi e terra continuavano a cadere, rendendo difficile l’intervento degli operai che tentavano di contenerlo.

In poche ore sul posto sono arrivati i vigili urbani, i tecnici comunali di Urbanistica e Edilizia, della Asl e di Publiacqua, del Genio civile e dei Vigili del Fuoco. E il verdetto è arrivato subito: immediata chiusura al traffico, anche pedonale, di un lungo tratto di via Castelli (ora senza sfondo e accessibile solo da via Senese), seguita da una intimazione dello «stato di pericolo» all’impresa, la Pinzani costruzioni di Prato, da parte della Direzione urbanistica, con obbligo di sospensione immediata dei lavori e messa in sicurezza del cantiere. L’attività, insomma, potrà riprendere solo dopo che il cedimento sarà stato arginato, e che saranno state realizzate tutte le opere necessarie per garantire la stabilità dell’area. E si sta anche valutando se impedire la prosecuzione dei lavori nel caso in cui si verificasse un rischio per la «pubblica incolumità».

Un dramma annunciato, denunciano gli abitanti della zona, che con lettere e petizioni da mesi avevano avvertito del pericolo incombente su una delle zone più pregiate della città. Da quando, dopo che nel gennaio di quest’anno (ufficialmente, in realtà già nell’agosto del 2008) era stata abbattuta in due giorni la bella villa con parco degli anni ‘50 di proprietà della famiglia Gucci (poi venduta alla Edilborg srl di Prato), ed era comparso il cartello di un cantiere. Al posto della villa, si era capito ben presto, sarebbe sorto un complesso extralusso di miniappartamenti (prima 12, poi 14, bilocali di un massimo di 35 metri quadrati l’uno), più un’enorme autorimessa sotterranea di 17 box, con microgiardinetti singoli al posto del parco.

«Una lottizzazione selvaggia» secondo gli abitanti, che hanno subito cominciato a subire gli effetti dei pesanti lavori in corso (vedi articolo qui sotto) e da mesi cercano di farsi ascoltare da qualcuno, a cominciare dl Comune, senza alcun risultato. Preoccupati del grave «pericolo ambientale» che sta correndo la loro zona, «una delle ultime dove si può ancora fare una passeggiata fra gli alberi», come hanno scritto nelle loro petizioni, mentre dall’altra parte della collina di Poggio Imperiale, su via del Gelsomino, un grande parcheggio sotterraneo di 89 box, in via di realizzazione ad opera della You Park, ha già comportato un grosso sbanco di terreno. Un’opera, in realtà, secondo il costruttore Claudio Sabatini, che «stabilizzerà una collina friabile, rendendola più sicura». Ma una friabilità, appunto, che sul fronte di via Castelli avrebbe dovuto consigliare la massima prudenza a chi ha fornito tutte le autorizzazioni. E intanto, in tarda serata, un ulteriore sopralluogo di tecnici del Comune e del Genio Civile ha portato a una serie di interrogativi: il cemento armato del muro di contenimento che ha ceduto era adatto a quella funzione? E corrisponde al campione di materiale depositato (per legge) al Genio Civile? O la colpa del cedimento , come sostiene l’impresa, è colpa delle infiltrazioni d’acqua della collina?

Nella zona un coro di proteste

"Il Comune non ha mai risposto"

«Mi è crollato il muro di cinta e i vigili del fuoco mi hanno impedito di uscire in giardino» racconta Enrico Ieri, che abita al numero 19, ora in mano a un avvocato. Aldo Grechi viene qui col cane: «Da mesi avevo notato una crepa sempre più larga sulla strada, possibile che nessuno la vedesse?». «Ho telefonato all’impresa un mese fa, lo scavo aveva portato via tutte le radici degli alberi lungo la strada, era ovvio che il terreno avrebbe ceduto» protesta Silvia Maria Prampolini. E’ un coro di proteste quello che si leva da via Benedetto Castelli il giorno del crollo «previsto, annunciato, certo» come dice Ieri. Che ha ancora qualcosa da raccontare: un pozzo, uno dei tanti di una zona piena di falde acquifere, «e dove tutti sanno da sempre che le case sono instabili perché il terreno è friabile», è stato appena tappato col cemento «e vorrei sapere dove andrà a finire, ora, quell’acqua». Vittorio Ciardi, che abita al numero 29, ha chiesto più volte un incontro in Palazzo Vecchio a nome dei residenti: «Ma non ho mai avuto risposta». I proprietari di una villa in via Magalotti hanno puntellato il fianco della collina per paura di una frana. Ed ad alto rischio è soprattutto la villa della famiglia Marovelli, a strapiombo sullo scavo, e con tre grandi cipressi mezzi secchi per mancanza di terra che potrebbero crollare sui tetti circostanti. Adesso, dicono tutti, «si spera solo che non si metta a piovere». E che l’acqua, penetrando in un terreno così disastrato, non riempia l’enorme scavo di migliaia di metri cubi di fango pronti a riversarsi sulle case. (m.c.c.)

Una strada con vincolo paesaggistico

ma la sostituzione edilizia è consentita

di Franca Selvatici

Via Benedetto Castelli, con il suo andamento sinuoso, si estende fra San Gaggio e Poggio Imperiale, ed è stata disegnata dal Poggi. La zona è magnifica e sottoposta a vincolo paesaggistico, ma nel piano regolatore è classificata come sottozona B1 ("edificato saturo") nella quale è consentita la sostituzione edilizia senza vincoli. Così è stato possibile demolire una villa costruita agli inizi degli anni Sessanta per sostituirla con tre corpi di fabbrica quadrifamiliari, per un totale di dodici bilocali di 35 mq, tutti su due piani. E’ stato possibile prevedere non soltanto un piano seminterrato per ogni corpo di fabbrica ma anche un piano totalmente interrato, fuori sagoma rispetto ai terratetto, adibito ad autorimessa per 15 veicoli. Ed è stato consentito di tagliare alberi, con l’impegno di piantarne altri.

La società Edilborg di Prato, amministrata da una signora di 71 anni e partecipata dalla Immobiliare Roll di Lorenzo Marchi, ha presentato il progetto di «sostituzione edilizia» firmato dagli architetti Alberto Ortona e Eugenio Bosi il 18 settembre 2006. L’iter del procedimento, di cui era responsabile il geometra Emanuele Crocetti (coinvolto nell’inchiesta sulla Quadra Progetti), è stato piuttosto laborioso. Il Comune fece una serie di obiezioni sui vani scale, sulle altezze e anche sugli scavi, che sembravano troppo pesanti. Ma infine, l’11 agosto 2008, gli uffici dell’edilizia privata rilasciarono il permesso di costruire. La firma sull’atto è dell’architetto Laura Achenza (anch’essa coinvolta nell’inchiesta Quadra). Sono seguite a stretto giro puntuali richieste di variante per ampliare l’intervento: la prima, assentita il 23 luglio 2009, porterebbe a 14 gli appartamenti; la seconda, presentata il 22 settembre scorso, è in istruttoria.

Fra le prescrizioni indicate nel permesso di costruire ve ne è una che alla luce di quanto è accaduto appare cruciale: «Siano rispettate tutte le prescrizioni operative indicate nella relazione geologica». Che in verità appariva abbastanza rassicurante. Niente vincolo idrogeologico. Niente pericolosità idraulica. Pericolosità moderata o media «da processi geomorfologici di versante e da frana». «I sopralluoghi effettuati non hanno evidenziato segni di instabilità in atto o quesciente né fenomeni erosivi in atto». Il geologo, peraltro, raccomandava in fase di progettazione esecutiva una campagna geognostica e tutta un’altra serie di accertamenti, in particolare per individuare «eventuale presenza di acqua a quote che potrebbero interferire con gli scavi o con i piani di fondazione». Ora bisogna capire se questi accertamenti siano stati fatti e se, nel realizzare il vasto scavo, sia stato tenuto conto del fatto che lo strato superficiale dell’intera collina è costituito dai materiali instabili risultanti dalla costruzione, oltre cento anni fa, di via Castelli, e sparsi su tutta l’area.

Erano già tutti in piedi alle cinque, ieri mattina, i rom di via Rubattino. Assieme a loro, ai cancelli dell’ex fabbrica, i volontari della comunità di Sant’Egidio, dei Padri somaschi e del Naga, che li aiutano da anni. Due ore dopo, non vedendo arrivare nessuno, cominciavano già a sperare: «Forse ci hanno ripensato». E invece no. Alle 7.30 è arrivata la colonna dei blindati che hanno scaricato davanti all’ex stabilimento Enel centinaia di agenti e carabinieri in assetto antisommossa, accanto ai vigili del Nucleo problemi del territorio, anche loro in tenuta da combattimento, con manganelli, caschi e mascherine antivirus. Gli zingari hanno chiuso il cancello dietro al quale erano accampati da mesi. Ma l’hanno subito riaperto, consapevoli che non c’era margine di trattativa. Ci sono voluti meno di trenta minuti per svuotare le baracche dei 250 romeni. Loro non hanno fatto resistenza, abituati come sono agli sgomberi. Sono già stati cacciati dal ponte Bacula, dalla Bovisasca, dalla cascina Bareggiate di Pioltello ad agosto, adesso anche da via Rubattino. Domani, chissà.

Da ieri mattina nemmeno più quest’ultimo rifugio. «Con questo sgombero, il numero 166 - è il commento del vicesindaco Riccardo De Corato - restituiamo alla città un’altra fetta di territorio degradato, l’ultima grande baraccopoli, in condizioni igieniche spaventose con tonnellate di rifiuti. Ora non rimangono che piccoli insediamenti». Ma la maggior parte delle 61 famiglie, con un centinaio di bambini, ha dovuto per ora accamparsi sotto il vicino ponte della tangenziale. Il primo a denunciare il trattamento riservato ai rom è stato il cardinale Dionigi Tettamanzi: «La miseria non sia zittita, ma piuttosto ascoltata per essere superata. A vincere deve essere sempre l’infinita dignità dell’essere umano. Chi ha alte responsabilità deve ascoltare l’invocazione che viene da tante forme di miseria, di ingiustizia e di solitudine». I funzionari del Comune hanno offerto posti in comunità solo a cinque donne con bambini sotto i 7 anni: «I minori sopra questa età - precisavano - possono essere ospitati in appositi centri ma senza i genitori».

Una frase che per le famiglie rom suona come una condanna: «Come faccio a separarmi da mia figlia? Alina ha dieci anni, fa le elementari in via Pini. Come faccio a mandarla da sola, senza madre, padre, fratelli?» ripeteva Doriana, madre di quattro bambini. Eppure l’assessore alle Politiche sociali Mariolina Moioli, proprio ieri a Palazzo Marino per la vigilia della giornata mondiale dell’infanzia, ha parole rassicuranti: «Abbiamo garantito i diritti dei bambini. Sei nuclei familiari su 61 sono stati accolti in strutture del Comune e altri sei hanno accettato l’alternativa al campo. Abbiamo dato massima attenzione a piccoli e mamme». Di parere opposto i consiglieri del Pd David Gentili (presente allo sgombero così come Patrizia Quartieri del Prc), Andrea Fanzago e Marco Granelli: «Le condizioni in Rubattino erano insostenibili - dicono - ma così è meglio? È molto grave che alla vigilia della giornata dei minori si sgomberi il campo senza preservare nemmeno i 40 bambini che frequentavano la scuola».

I temi dei compagni di classe "Dovrebbero aiutarli a restare"



«E se i rom fossero ricchi e il Comune una mattina si trovasse una ruspa che gli distrugge la sua casa? Sicuramente sarebbe deluso, ma poi il Comune che cosa ci guadagna? I rom passano da un campo all’altro e per la città sono nuovi problemi». Hanno fatto un tema, ieri mattina gli alunni delle scuole elementari di via Pini, di via Feltre e di via Cima. Un tema che in qualche caso ha preso la forma di lettera al sindaco Letizia Moratti, in qualche altro ha semplicemente raccontato lo sgombero del campo rom di via Rubattino. Pagine disperate e incredule dei compagni di classe dei piccoli rom che hanno terminato il loro anno scolastico. «In classe piangevano tutti, non solo i bimbi rom che hanno perso tutto e che da ora dormiranno in strada», diceva ieri, mentre le ruspe assaltavano le baracche dentro all’ex Enel, la maestra Barbara Bernini, responsabile del progetto stranieri nei tre plessi della primaria «Elsa Morante». C’era anche lei in via Rubattino, ieri, assieme alla dirigente Maria Cristina Rosi: «Tutto il nostro lavoro, tutta la fatica che abbiamo fatto per accoglierli, per metterli in grado di seguire le lezioni e di ottenere grandi risultati, tutto questo buttato via! È una vergogna, una cosa scandalosa». In classe intanto scrivevano: «Quello che è successo non mi piace per niente - si legge in un tema - . Le autorità dovrebbero mettersi nei panni della mia compagna Isabela, che a me all’inizio non sembrava proprio una rom. Mi sembrava africana. Aveva un grande senso dell’umorismo e era ottimista e positiva».

C’erano diversi genitori della scuola Elsa Morante, accanto agli insegnanti, davanti ai cancelli della fabbrica occupata dai rom. Ma c’erano soprattutto le maestre: Flaviana Robbiati, Silvana Salvi e Ornella Salina, che da mesi si occupano dei bambini iscritti a scuola, 36 quelli in età dell’obbligo, oltre a un altro centinaio più piccoli, in età da nido o da materna. «Nelle nostre scuole si stava costruendo concretamente quella integrazione di cui tanti parlano», racconta Veronica Vignati, una delle maestre che hanno dovuto consolare i bambini in classe, in via Pini, cercando di incanalare tutta la tristezza nel fiume di parole che ha riempito le pagine dei quaderni. «Secondo me dovrebbero aiutare questi rom a trovare un posto nuovo dove stare, invece di rendergli sempre più difficile la vita», conclude una bambina nel suo tema. «Per loro è incomprensibile, inimmaginabile che un loro compagno di scuola resti senza tetto - continua la maestra Veronica - anche se conoscevano la povertà di quelle persone. Sono disperati e noi non sappiamo come consolarli, con quali parole spiegare questo sgombero, che non ha avuto rispetto delle famiglie che volevano integrarsi». Anche l’onorevole pd Patrizia Toia si indigna: «Nel campo di via Rubattino si stava compiendo un autentico miracolo. Chiedo al sindaco Moratti, all’assessore Moioli in quale scuola andranno domani quei bambini. Chiedo se si rendono conto che hanno interrotto colpevolmente un cammino di integrazione scolastica, il primo passo di un percorso che può cambiare la vita di quei bambini».

Fondo solidarietà della diocesi altri 500mila euro dalla Cariplo



Oltre sei milioni di euro per il Fondo Famiglia e lavoro lanciato dal cardinale Dionigi Tettamanzi la notte del Natale 2008. Ieri il presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti ha annunciato di aver aggiunto altri 500mila euro alla dotazione del fondo. Guzzetti aveva già donato un milione di euro, dopo il primo milione messo dall’arcivescovo. Ieri sera oltre 500 volontari dei decanati Caritas e delle Acli sono accorsi ad ascoltare Tettamanzi nella chiesa di santo Stefano. Il Fondo ha aiutato 1.985 famiglie che vivono sul territorio della Diocesi ambrosiana. Oltre 4.100 sono state le richieste delle famiglie colpite dalla crisi. I contributi sono concessi per pagare spese non comprimibili, come l’affitto della casa, l’asilo dei figli. Nella maggior parte dei casi si tratta di famiglie con un reddito mensile inferiore a 500 euro. Il Fondo ha aiutato in uguale misura famiglie italiane e straniere, sposate (66 per cento), con figli piccoli a carico (72 per cento). Ieri sera il cardinale Tettamanzi ha ringraziato la Cariplo e tutti i volontari che dedicano tempo ed energie a raccogliere e vagliare le richieste d’aiuto: «I soldi non bastano mai perché la situazione economica è complessa. Devono svegliarsi le coscienze dei singoli se si vuole risolvere un problema che è morale, educativo e culturale».

Postilla

Forse la coincidenza toponomastica sarà sfuggita a qualcuno: la via Rubattino, scenario delle belle trovate di rinnovo urbano descritte sopra, è la stessa della INNSE, fabbrica (probabilmente) salvata l’estate scorsa grazie alla mobilitazione dei suoi operai, ma che era destinata, così come quel fazzoletto di terra occupato dai rom, alla Milano da Due Milioni di Ciellini. Se questi sono i metodi, figuriamoci i risultati finali! Sembrano proprio riemersi da qualche tombino di sventramento ottocentesco, questi neo-cattolici-liberisti, che delegano alla compassione di qualche ala minoritaria di credenti locali tutte le rogne collaterali, tenendosi stretto il timone di comando per le grandi manovre: operai, rom, …a chi toccherà, la prossima volta? Magari qualche commentatore delle strategie del PgT potrebbe anche metterli nel conto, questi minuscoli effetti collaterali (f.b.)

Il caso Mario Resca si fa sempre più imbarazzante. Ieri ha esposto i dati della crisi degli ingressi nei musei e le linee-guida della “sua” valorizzazione. Per i servizi aggiuntivi egli ha una delega specifica del ministro e però si tiene stretto un posto nel CdA della Mondadori SpA che controlla (100 per 100) Electa SpA capofila fra le imprese appaltatrici dei servizi museali medesimi. Quindi - nota la Confsal-Unsa - come Ministero, Resca prepara le nuove gare alle quali, come Mondadori-Electa, poi parteciperà. Conflitto di interessi da manuale. Ma il ministro Bondi e il sottosegretario Giro lo negano. Forse temono che, ammettendolo, “offenderebbero” il Grande Capo che ne ha uno gigantesco.

Intanto però dai Beni Culturali – sostiene Confsal - Resca percepisce 160.000 euro lordi l’anno (un direttore di grande museo non arriva ad un quarto), ma ha mantenuto pure la lucrosa presidenza di Finbieticola (che dismette gli ex zuccherifici) e quella di Confimprese. Fioccano le interrogazioni. Rispondendo all’on. Giulietti, il sottosegretario Giro ha negato ogni possibile incompatibilità con Finbieticola, annunciando: “con grande senso istituzionale, il dott. Resca comunicherà, nei prossimi giorni, la sua disponibilità agli azionisti della società a sospendere il proprio mandato”. Attenzione: sospensione, non dimissioni. E ci sono voluti mesi di polemiche e una interrogazione. Su Mondadori-Electa ha presentato un’interrogazione circostanziata l’on. Giovanna Melandri (Pd). Aspettiamo la risposta.

La vicenda di Finbieticola si complica. I proventi della vendita dell’area di Casei Gerola (500mila mq all’incrocio fra le autostrade To-Pc e Mi-Ge) sono stati prosciugati dalla bonifica. Eseguita dal rag. Giuseppe Grossi oggi ospite di San Vittore per l’altra di Santa Giulia a Rogoredo (Mi) “gonfiata” – lo accusano - per creare supposti fondi neri. Lui poi ha acquistato l’area di Casei (per un maxi-centro commerciale?) e lui doveva, con la Finbieticola di Resca, costruire una centrale elettrica a sorgo al posto dell’ex zuccherificio (55 milioni di fondi Ue). Ma i Comuni di Silvano e di Casei ed ora anche quello di Voghera dicono no alla centrale, accusando Resca di comportarsi “come un signorotto locale”. La Forestale indaga sulle bonifiche di Grossi in Oltrepò, inclusa Casei. Si concilia tutto ciò con la dignità di un direttore generale ai Beni culturali? Chi valorizza chi? e che cosa?

Nuova spallata al Codice dei Beni Culturali, con l’aggravante di conflitti interni al ministero. Dopo le dismissioni di Patrimonio Spa, dopo sanatorie e condoni edilizi e ambientali, dopo il rinvio delle norme di tutela del paesaggio, dopo le deroghe e i trucchi del "piano-casa", è il turno del patrimonio mobile. Il casus belli è (per ora) uno splendido comò del Settecento, opera di Antoine-Robert Gaudreaus, ebanista del re di Francia Luigi XV (valore dichiarato 15 milioni di euro). È un mobile di altissima qualità le cui tracce in Francia si perdono nel 1794, finché rispunta a Roma verso il 1980, e viene immediatamente vincolato dalla Soprintendenza. Altri mobili francesi di tal pregio raggiunsero le corti italiane, per esempio Parma (una figlia di Luigi XV andò sposa al duca Filippo di Borbone), anzi uno assai simile è al Quirinale. Non c’è da stupirsi che un pezzo come questo sia stato vincolato pur essendo di proprietà privata. Il Codice dei Beni Culturali, come già la legge Bottai del 1939, inserisce fra i beni culturali vincolabili «le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico particolarmente importante» di proprietà privata (art. 10).

Che la commode sia stata prodotta da un artista francese, non importa: la legge italiana si fonda sui caratteri intrinseci delle opere da tutelare, e non sulla nazionalità, l’etnia o il sangue degli artisti che le hanno prodotte. Perciò sbalordisce che l’istanza di rimozione del vincolo, avanzata sin dal 1999 e più volte respinta dal ministero dei Beni Culturali, sia stata ora accolta con una motivazione giuridicamente insussistente: il mobile non apparterrebbe al patrimonio storico-artistico italiano in quanto di produzione francese. Più ancora stupisce la procedura: il 6 luglio il direttore generale per le Belle Arti ha chiesto il parere dell’ufficio legislativo del ministero, che ha prontamente risposto ribadendo la legittimità del vincolo sulla base di valutazioni di merito e di diritto; ma senza nemmeno citare questo parere, il direttore generale ha annullato il vincolo (1 ottobre). Doppiamente giustificati, dunque, tanto il ricorso contro l’annullamento avanzato da Italia Nostra quanto l’interrogazione alla Camera presentata dall’on. Giovanna Melandri.

Una motivazione come quella del decreto di annullamento scavalca di molto la commode e i suoi proprietari recenti (fra cui Edmond Safra, il finanziere di origine libanese ucciso a Monaco in circostanze misteriose nel 1999), anzi spalanca un abisso, affermando un principio che rischia di estendersi a tutte le opere di artisti stranieri presenti in Italia. Saranno esportabili i quadri di artisti portoghesi, fiamminghi, provenzali, catalani presenti nelle nostre chiese, collezioni e musei? Non fanno parte del patrimonio artistico italiano i van Dyck di Genova, i Rubens di Mantova e di Roma, l’Innocenzo X o il Francesco I d’Este di Velázquez? Diventeranno ipso facto esportabili le centinaia di arazzi fiamminghi in musei, chiese, case e collezioni private? Dovremmo disfarci anche dei bronzi di Riace, visto che sono indubbiamente opera di artisti greci? E il grande modello per il monumento a Innocenzo XI in San Pietro (1701), premiato un mese fa come la più bella scultura della Biennale dell’antiquariato a Firenze (e a quel che pare non ancora vincolato), è forse esportabile, dopo secoli in casa Odescalchi, solo perché l’autore, Pierre-Étienne Monnot, non era italiano ma francese?

L’annullamento del vincolo della commode fa di peggio: onde consentirne l’esportazione, si appella alla normativa sulla circolazione dei beni negli stati dell’Unione europea. Ora, si sa che sul patrimonio artistico le leggi dei singoli Stati membri divergono profondamente: la tradizione di tutela, tipica dell’Italia o della Grecia, si contrappone alla deregulation di Stati (come la Gran Bretagna), che non per niente sono il paradiso dei mercanti d’arte. Ma la circolazione dei beni di pertinenza italiana all’interno della Comunità non può includere il patrimonio artistico senza violare l’art. 9 della nostra Costituzione, che è sovraordinato a qualsivoglia convenzione europea. Come ha scritto Giuseppe Severini, lo statuto giuridico dei beni artistici nell’ordinamento italiano «fa eccezione ai principi generali della piena proprietà e del libero commercio» (così l’art. 42 Cost.). La disciplina della tutela, anche dei beni di proprietà privata, si impernia sulla priorità del pubblico interesse, che si esprime mediante la «dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante» prevista dal Codice. Questa la strada sempre seguita dal ministero, e ribadita poche settimane fa dall’ufficio legislativo. Demolirla in nome del libero commercio, anche per una sola commode, apre una falla pericolosissima, su cui si avventeranno come avvoltoi mercanti e legulei, presto in caccia di opere "esportabili perché non italiane" su cui speculare. La domanda è: questa spallata al Codice è un incidente di percorso, o segnala all’interno del ministero l’esistenza di un "partito" votato allo smantellamento delle norme di tutela? C’è davvero qualcuno che vuol rinunciare alla gloriosa cultura italiana della tutela in nome di un immiserito neoprovincialismo?

La star della musica italiana sarà Luciano Ligabue. E poi il gruppo che ha fatto la storia dell’heavy metal, gli AC/DC. Si sta definendo in queste setti mane il programma dei concer ti per la prossima estate a San Siro. Con una novità: una delle cinque date sarà riservata all’opera lirica, l’intero campo trasformato in palcoscenico per il «Nabucco» o il «Renzo e Lucia». Eventi che richiameranno al «Meazza» centinaia di migliaia di persone. E che allo stesso tempo disegnano il futuro dello stadio: la stessa erba può essere calpestata da Milito e Ronaldinho; dagli All Blacks; dal pubblico metallaro degli AC/DC; da soprani e tenori. Impianto «multi-evento», come vuole la moderna filosofia di gestione degli stadi europei. Il modello sono loStade de Francedi Parigi e l’ AmsterdamArena .

Inter, Milan e Comune stanno programmando gli interventi per portare San Siro a quel livello. I nuovi lavori parti ranno tra qualche mese.

L’entusiasmo degli 80 mila spettatori che sabato pomeriggio hanno assistito a Italia-Nuova Zelanda di rugby sarà una spinta in più sulla strada del nuovo San Siro. A partire da una certezza: «Le fonda menta dello stadio sono ancora quelle di ottant’anni fa — riflette Alfonso Cefaliello, amministratore delegato del Consorzio San Siro 2000 in quota Milan — ma il 'Meazza' dimostradi essere flessibile per ospitare eventi al massimo livello». Co me dire: storia e futuro. Una miscela in grado di rendere unico un evento (che sia concerto o partita di calcio) se la cornice è San Siro. «La prova del rugby — spiega Pierfrancesco Barletta, amministratore delegato del Consorzio per l’Inter — dimostra che lo stadio, quando non ci sono partite di calcio, può essere aperto ad altre iniziative che da una parte rappresentano un’occasione e un servizio per la città, dall’altra aumentano i ricavi dell’impianto ». La sfida dei prossimi anni: aumentare i servizi perrendere San Siro più moderno e accogliente.

Il programma dei prossimi mesi prevede: ristrutturazione dell’intera copertura (a partire da giugno); rinnovamento del museo; creazione di due nuovi megastore, uno dedicato all’Inter e l’altro al Milan; quattro nuove salelounge ,più grandi delle attuali, nei settori d’angolo del primo anello; «una nuova offerta di ristorazione — conclude Cefaliello — più ampia sia per quantità, sia per qualità». Serviranno investimenti. E per questo il Comunesta mettendo a punto una modifica nel contratto d’affitto al le due società: oggi Inter e Milan pagano il 50 per centocashe il 50 per cento in opere di ristrutturazione dell’impianto. L’obiettivo è quello di passare a una proporzione 30-70, per aumentare i lavori e puntare a ospitare la finale di Champions League nel 2015.

La società di Massimo Moratti continuerà ad investire in questo progetto a medio termine, anche se non ha ancora abbandonato l’idea di costruire un nuovo stadio di proprietà. «Sabatoabbiamo assistito a un grande evento sportivo — dice l’assessore comunale allo Sport, Alan Rizzi — che ha confermato le eccezionali potenzialità dell’impianto. Stiamo lavorando per renderlo più moderno e fruibile, non solo in occasione delle partite e dei concerti, ma sette giorni su sette».

Col rinnovamento si parte già oggi: questa mattina, dopo la serie infinita di mischie tra Italia e All Blacks, inizierà il rifacimento completo del prato.

Postilla

La prima chiave di lettura è una delle ultime frasi, ovviamente quella che dice “non ha ancora abbandonato l’idea di costruire un nuovo stadio di proprietà ”. Ovvero che il riuso della struttura urbana rischia di essere un “inoltre” e non un “invece”, e quindi siamo ancora dalle parti della pura speculazione, delle corsie preferenziali, dello sprawl suburbano indotto da nuove opere sul territorio aperto ecc. ecc. Potrei anche aggiungerci, nota puramente personale, che ho una sorella che sta da quelle parti (in un raggio di alcune centinaia di metri) e deve suo malgrado seguire da parecchi anni le cronache sportive e dello spettacolo giusto per sapere come organizzarsi la vita, i rientri, le uscite, il sonno.

Ma, escluse queste premesse, rimane una convinzione: è fuor di dubbio che gli operatori delle trasformazioni territoriali, e chi poi le sfrutta per le varie attività, stiano puntando sul modello del grande, a volte enorme, polo multifunzionale attrezzato. Come doveva, e deve, essere evidente che non è più - quantomeno - maggioritario e dominante il modello di erogazione di commercio e servizi spontaneo così come siamo stati abituati a vederlo per generazioni nei nostri quartieri, specie nei centri minori.

Se si vuole evitare che una pura opposizione di principio a questi “mostri” non finisca per rivelarsi un boomerang, probabilmente val la pena iniziare a riflettere sui migliori strumenti ad esempio sovra comunali, ad esempio di coordinamento delle attività, per integrarli nel territorio, favorire una loro collocazione urbano-metropolitana, trasformarli insomma nei limiti del possibile anche in valore aggiunto per la comunità. Anziché annegare nel cemento inutile sognando improbabili età dell’oro, quando si stava peggio ma si stava tanto meglio … (f.b.)

Vade Retro Manhattan

di Enrico Bertolino

Ogni anno il Corriere mi cerca per chiedermi un articolo sull'Isola, ovviamente ironico e se possibile anche un po' comico.

Per due anni ce l'ho quasi fatta ad essere divertente e divertito, a commentare la vita di questo quartiere, Isola felice in un mare di problemi che Milano sta affrontando, con la determinazione e la grinta di sempre... ma ora si fa dura.

« Chi volta el cù a milan volta el cù al pan» si diceva una volta... (la traduzione dato che siamo sulle pagine locali la lascio alla fantasia del lettore milanese) ma oggi non si tratta di gente che volta la faccia e se ne va, anzi...

Magari se ne andassero. Stiamo parlando invece di personaggi che più che la faccia ci mettono le mani sopra. E non se ne vanno più. Negli ultimi anni qui all'Isola di persone conosciute nel mondo dello spettacolo ne sono venute a vivere tante, tutti attratti dal miraggio del quartiere «friendly living» (dove si vive bene a misura d'uomo) tipo Berlino, dagli sviluppi culturali che si prospettavano e dagli spazi che avrebbero dovuto rendere quest'Isola il paradiso dei naufraghi, sopravvissuti alla deriva veloce di una città che si muove come l'acceleratore di particelle del Cern di Ginevra. Accelera accelera poi basta un tombino che salta e si ferma tutto per giorni. «All'Isola se stava ben... ma — dicono i più ottimisti — aspettiamo e vedarem», tanto l'Expò sarà nel 2015 chi vivrà vedrà. E qui mio padre che ha 83 anni «el se da una gratada ai ball» con antica discrezione.

E così un quartiere che ho visto sin da bambino (sono nato qui a pochi isolati da dove nacque il Nostro Conducator, Silvio Primo... e Ultimo, io in via Volturno, Lui in Via F. Confalonieri non Fedele ma Federico), un aggregato urbano a vocazione popolare, con botteghe artigiane (a parte la «fu» Stecca rasa al suolo alla svelta nemmeno fossimo a Dresda), un tessuto sociale misto, dalle case popolari ai nuovi stabili ma soprattutto con un clima da grande Paesone, con persone che si salutano ancora e massaie che si fermano con la gamba alzata come le Gru a chiacchierare sugli angoli, di ritorno dal mercato rionale.

Ebbene, lungi da me l'idea pasionaria di una Milano che torna al calesse trainato dai cavalli, mentre a Londra si mette la banda larga nei parchi... a Londra perché da noi nei parchi per fare largo si tolgono le panchine; però tra la trasformazione dell’antico Paesone in un moderno quartiere di una capitale europea e la frenetica rincorsa per ridurlo ad una pseudo Manhattan dei Bauscia c'è una bella differenza... anche economica.

Infatti l'esempio di Santa Giulia la dice lunga su come gli interventi urbanistici vadano valutati più sulle risorse disponibili e sull'ottimizzazione delle stesse piuttosto che sui plastici di architetti che, ovviamente qui all'Isola non ci sono nati e che si guarderanno bene di venirci a vivere dopo averla cementata con il grattacielo di vetro nel nome della trasparenza, detto il Palazzo dell’Uno, ovvero del Presidente della Regione.

E così l'anno prossimo, se il Corriere rivolesse un altro articolo da me mi troveranno sempre qui perché per me l'Isola che non c'è invece c'è ancora, e non ho alcuna intenzione di abbando­narla nelle mani dei pirati.

Isola, cantiere aperto verso il futuro Grattacieli, metrò e cittadini antidegrado

di Armando Stella



«Io riciclo. Io riutilizzo. Insieme ri-arrediamo». L’ultimo progetto per l’Isola è firmato da una squadra di mini-architetti, sono Rachel, Armando e i compagni delle sezioni B e C, seconda elementare «Confalonieri»: hanno chiesto al sindaco i vasi di fiori attorno alla scuola, se ne occuperebbero loro e li difenderebbero coi cartelli «si prega di non toccare», ché in via Dal Verme s’aggirano «pericolosi ladri di primule». Davvero.

Lo sanno anche i bambini: qui si disegna il futuro di quel pezzo di città che fu di don Bussa e dei partigiani eroi, si sta rivoluzionando il quartiere che ha visto la mala nei bar e adesso osserva crescere i grattacieli nei cantieri Expo. Le torri di Porta Nuova (Isola, Garibaldi, Varesine e Repubblica). La Regione che alza il Pirellone bis. Lo scavo del metrò 5. Oggi i lavori provocano rumore, polvere e proteste. Tra cinque anni, chissà: questa zona avrà il terzo parco pubblico cittadino (90 mila metri quadri), un’unica isola ciclopedonale tra piazza XXV Aprile, via Confalonieri e l’hotel Principe di Savoia, oltre a 7 fermate tra metrò e passante, i treni e la Tav, i tram e i bus. Dicono in Comune: «Sarà il quartiere italiano con più infrastrutture di trasporto pubblico».

Intanto, è il laboratorio della Milano che cambia. Tra ruspe e proteste. Con i valori delle case triplicati in dieci anni e destinati a crescere. Nell’attivismo dei comitati contro e nel super impegno delle associazioni per. La Fondazione don Eugenio Bussa e la Fondazione Catella hanno ottenuto dal Comune il trasloco del monumento ai Caduti per la libertà dell’Isola, dall’incrocio trafficato di Gioia al podio di piazzale Segrino: il cantiere è aperto, arriveranno luci e aiuole. «Bisognerebbe dare decoro anche a piazza Minniti», aggiungono da Botteghe Isola: il problema è il mercato, Palazzo Marino e ambulanti non si mettono d’accordo. I sette artigiani «sfrattati» dalla vecchia Stecca (marzo 2007) si ritroveranno invece nell’Incubatore d’arte in via De Castillia: la Stecchetta sarà pronta nell’estate 2010, le polemiche sulla demolizione del rudere sono archiviate.

«Il cambiamento è nell’aria», è lo slogan di un’associazione di quartiere. Lo hanno disegnato venti archistar e tra quest’anno e il prossimo sono programmati investimenti per 1,2 miliardi: le torri Varesine, le case a prezzo convenzionato all’Isola e i grattacieli in Garibaldi saranno conclusi nel (2011); seguiranno l’inaugurazione di centro espositivo, museo della Moda, Casa della Memoria e Bosco Verticale (2012) e infine il parco pubblico che ricoprirà l’area (2013). Parliamo di circa 400 appartamenti (prezzi da 3 mila a oltre 7 mila euro al metro), negozi, uffici e 80 mila metri quadri di posteggi. La cima Coppi è a 219 metri d’altezza, punta della torre di Cesar Pelli (antenna inclusa). La Hines, società capofila dell’affare Porta Nuova, l’ha definito un progetto «romantico »: perché è stato «condiviso» coi cittadini e «ricuce» una vecchia frattura urbanistica. La nuova linea del metrò 5 garantirà un afflusso ecologista: i lavori del secondo lotto, Garibaldi- San Siro, partiranno all’inizio del 2010; la prima tratta, da Zara a Bignami, sarà «in esercizio » nel primo semestre 2011.

Il Pirellone bis cresce «secondo programma»: l’edificio sarà consegnato a dicembre, per gli allestimenti interni, e nel luglio 2010 inizierà il trasloco dei dipendenti sparsi in 31 uffici decentrati. L’unico nodo, per la Regione, è la palazzina verde su cinque piani realizzata nel 1939 in via Bellani 3: un tempo si affacciava sul Bosco in Gioia, oggi è accerchiata dai vetri a specchio del grattacielo. Infrastrutture Lombarde ha spedito un’ultima proposta d’acquisto dell’immobile ancora il 4 novem­bre scorso, vuole comprare ai «prezzi di mercato» del 2008, con il «consenso unanime» delle sedici famiglie residenti. E poi demolire. Loro, gl’inquilini, hanno rifiutato: «Noi vorremmo andar via contenti, non con una ciotola di riso...». Tradotto: chi ci ripaga il disturbo per i cantieri e i costi imposti dal trasloco, chissà dove, dopo una vita di sacrifici? «Siamo noi, i prigionieri. Senza un’offerta adeguata, restiamo qui. E vediamo come va». Intanto, questi milanesi vedono solo i canali Rai: l’antenna sul tetto non prende, il segnale è «oscurato» dal Pirellone bis. Tutto cambia, ma la tv è tornata agli anni Settanta.

Va bene per avere finanziamenti dal governo, ma chi volete che venga qui? Su quell´asse un viale alberato è accettabile ma va salvata la prospettiva Ho grande stima per lui, non posso credere che faccia davvero sul serio Sarebbe come mettere piante in piazza del Campo a Siena: la storia ha un valore.

Architetto Gregotti, le piace l´idea di andare a passeggiare in piazza Duomo con le scarpe da trekking?

«L´idea di far diventare Milano più verde mi sembra bellissima, ma l´unico posto dove non vanno piantati degli alberi è la piazza del Duomo».

Vittorio Gregotti, uno dei massimi esponenti italiani dell´architettura contemporanea, uno che è ben più di un «archistar» perché la sua non è una fama recente né effimera, una firma rigorosa che ha sempre sfuggito le mode, sorride. È nel suo studio dalle parti di via San Vittore, immerso in mille progetti, e fa un po´ fatica a ragionare sull´ultima trovata che racconta il centro della città trasformato in un bosco. Quasi non ci crede. Ma se proprio deve rispondere facendo finta che si tratti di un progetto reale e non di una boutade, allora è categorico: no, non gli piace per niente. Anzi: gli sembra una cretinata.

«Quella piazza è storicamente consolidata con una struttura diversa: è il luogo deputato ad accogliere grandi eventi pubblici come assemblee, manifestazioni, comizi. Ed è così da un secolo e mezzo. Lì c´è la chiesa più importante della città... non è possibile trasformare quello spazio in un parco, significherebbe contraddire il suo carattere strutturale. Se l´idea è di piantare tre, quattro alberi negli angoli, allora è un altro discorso».

L´idea, come è stata presentata, non è così minimalista: almeno settanta alberi sul lato della piazza verso palazzo Carminati, una piccola parte dei novantamila che la città ha promesso a Claudio Abbado. E a realizzare il progetto sarà Renzo Piano che ha offerto a Milano la sua collaborazione.

«Ho grande stima per Piano, e poi Renzo è amico di Claudio ed è comprensibile che si sia offerto di dargli una mano e sono felicissimo che lo faccia. Il progetto di aumentare il verde è interessante e ragionevole, anche se novantamila mi pare una cifra che non ha molta attendibilità. A patto però di non pretendere di invadere il centro che ha già una sua struttura definita e di cambiare il significato dello spazio. Ci sono le periferie, lì si potrebbero distribuire ragionevolmente. I contesti contano, la storia di una città anche e quasi tutte le città italiane hanno una piazza che ha la funzione di luogo di adunanza pubblica. Sarebbe come pensare di mettere gli alberi sulla piazza del Campo di Siena. Mi sembra irragionevole».

Pare che i primi alberi saranno piantati alla fine di questo mese. E che saranno aceri; il suo collega Piano ha detto che qui i platani soffrono.

«Non ne so abbastanza per dare giudizi, dico solo che a me i platani piacciono. E non so nemmeno se stiamo parlando di qualcosa di concreto o di cose riferite male. Piano è un bravissimo architetto, magari è stato male interpretato, o si è pentito subito dopo aver parlato. Perché non posso credere che uno che stimo fino in fondo abbia pensato sul serio di fare un bosco in piazza Duomo. Non si può dire "facciamo Milano più verde" e pensare di cominciare da lì».

L´onda verde dovrebbe allargarsi anche a via Dante e seguire il percorso fino al Castello.

«Beh, ai lati di via Dante si può. Un percorso pedonale che diventa viale alberato. A patto che venga mantenuto come asse e che si salvi la prospettiva del Castello».

Non ci sono problemi dal punto di vista pratico?

«Certo, sotto è pieno di infrastrutture. Ma i problemi tecnici si possono superare, è solo questione di costi. Quello che non si può superare è il valore e il significato che un luogo ha per la città, quello va mantenuto. Direi che è importante soprattutto oggi, che c´è una tendenza alla privatizzazione degli spazi pubblici».

Milano si sta preparando all´Expo. Sulla carta ci sono molti progetti di modernizzazione. Nel 2015 sarà una città diversa e migliore?

«Perché, esiste l´Expo? È un´idea assurda che può avere solo due esiti pratici: o un modo per avere finanziamenti dal governo, e allora va bene; o tradursi in un flop. Ma chi vuole che venga a Milano, a vedere che cosa? Del cibo si sta occupando da sessant´anni la Fao. Se faranno una linea del metrò sarà già un gran risultato. E poi bisogna stare attenti al nuovo: modificare non vuole dire violentare e la modernizzazione non sono i grattacieli».

Si erano immaginate grandi cose: i Navigli scoperti, le vie d´acqua...

«Sa cosa le dico? Il buonsenso è un´utopia moderna, ed è qualcosa che non ha nessuno».

Da un punto di vista finanziario il Ponte sullo Stretto è un colosso dai piedi d’argilla. L’opera ieri ha avuto il via libera dal Cipe (il comitato interministeriale per la programmazione economica che si occupa anche di grandi opere) per la fase di progettazione. Ma la decisione del governo non cancella come d’incanto i molti dubbi che gravano sull’operazione. Sapete su che cosa poggia la fattibilità economica della struttura, cioè la possibilità che tutto il sistema possa risultare sostenibile, senza il rischio di restare travolto dai debiti crollando come un castello di carte? Sulle Ferrovie dello Stato. Proprio le Fs, la società pubblica più sussidiata d’Italia, quella del miracolo alla rovescia della Tav (Alta velocità), con l’allungamento assolutamente anomalo dei tempi di realizzazione e la moltiplicazione dei costi scaricati sul bilancio dello Stato, l’azienda che nonostante tutti i proclami non riesce a far circolare scorrevolmente i treni, soprattutto quelli per i pendolari, e a dispetto delle reiterate promesse non è in grado neanche di assicurare la pulizia delle carrozze.

Una decisione tenuta in ombra

Senza l’apporto economico delle Fs niente Ponte. Ma d’altra parte con l’apporto determinante delle Fs il Ponte, economicamente parlando, parte con il piede sbagliato ed appare un azzardo prima ancora della posa della prima pietra prevista per l’inizio di dicembre. È come se qualcuno volesse correre la maratona con le stampelle o come se si mettessero insieme due debolezze. La circostanza che siano proprio le Ferrovie il pilastro di tutta l’impalcatura finanziaria è apparsa probabilmente così avventata agli stessi propugnatori dell’opera, che di fatto hanno finito per nasconderla nelle comunicazioni ufficiali; nei siti governativi non è più neanche rintracciabile. Per recuperare i termini di una faccenda sempre tenuta in ombra bisogna rispolverare un vecchio documento prodotto nel 2004 dalla società Stretto di Messina in cui si riportano gli elementi del piano economico-finanziario con i dettagli del meccanismo alla base della fattibilità del progetto. Cinque anni fa il costo dell’operazione era previsto in 6 miliardi di euro (nel frattempo è salito a 6,3), da ammortizzarsi al 50 per cento in 30 anni (che è la durata della concessione) attraverso rate costanti. Queste rate devono essere pagate, appunto, dalle Fs con la controllata Rfi (Rete ferroviaria italiana) che si impegna a sborsare un canone minimo annuo per l’utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria di 100,6 milioni di euro, più di 8 milioni al mese.

E non è finita perché le Ferrovie dovranno girare al gestore del Ponte anche il contributo che oggi ricevono dal ministero dei Trasporti a compensazione degli oneri sostenuti per il traghettamento da una parte all’altra del canale, cifre riscosse per garantire quella che gli addetti ai lavori chiamano la “continuità territoriale”. Sono un’altra trentina di milioni (27,8 nel 2008 per l’esattezza) che sommati alla quota precedente fanno circa 130 milioni, 11 milioni al mese. In più Rfi si impegna “ad effettuare a suo carico la manutenzione ordinaria e straordinaria”.

Tutto questo sforzo in cambio di che cosa? Ufficialmente Rfi diventa “gestore del collegamento ferroviario dell’opera”. E detto così sembra un grande affare. In realtà il traffico ferroviario sia di persone sia di merci tra la Sicilia e la Calabria è assai modesto, e negli ultimi anni si è ulteriormente rattrappito a vantaggio del trasporto aereo, soprattutto low cost. Secondo l’edizione 2008 del Conto nazionale dei trasporti, la bibbia del settore, in 18 anni, cioè a partire dal 1990, il totale delle carrozze transitate sullo Stretto è calato del 46,4 per cento. La diminuzione è stata repentina soprattutto negli ultimi 8 anni, a partire dal Duemila: meno 17, 8 per cento con punte del 37 per i treni viaggiatori e con un decremento più contenuto per le merci (meno 3,5). Peccato che le merci non abbiano granché bisogno di un collegamento veloce, e dal punto di vista degli scambi economici le 2-3 ore guadagnate sui tempi di percorrenza con il treno grazie al futuro Ponte siano di fatto quasi irrilevanti.

Boom del traffico aereo sull’Isola

Mentre diminuisce a rotta di collo il traffico dei treni, registra un boom il numero dei viaggiatori negli aeroporti siciliani, più 200 per cento in totale a Catania, Palermo e Trapani (fonte Assaeroporti ed Enac). A Catania, in particolare, negli ultimi vent’anni la crescita è stata del 219 percento; dal 2000 al 2008, il numero dei viaggiatori transitati nello scalo catanese è passato da poco meno di 4 milioni a 6. Se 19 anni fa, inoltre, sullo Stretto transitavano circa 15 milioni di passeggeri all’anno tra traghetti privati, Fs e treni, mentre i viaggiatori fuori dello Stretto erano appena 4 milioni, nel 2008 il rapporto si è invertito: i passeggeri passati dallo Stretto sono in minoranza, 10,7 milioni, in prevalenza trasportati dalle compagnie private tipo Caronte & Tourist della famiglia Matacena, mentre quelli fuori dallo Stretto sono più che raddoppiati e in totale ora sono un milione in più degli altri, e per di più quasi tutti clienti delle compagnie aeree. Gli affezionati del treno, infine, appaiono un’esigua minoranza della minoranza, sull’ordine delle centinaia di migliaia di viaggiatori.

Tra una sponda e l’altra, oggi transitano appena 8 coppie di treni passeggeri e 8 merci al giorno, cioè 32 convogli tra andata e ritorno. Quindi ogni anno sullo Stretto passano soltanto 11.680 treni, tanti quanti ne viaggiano in un solo giorno su tutta la rete ferroviaria nazionale, e una volta costruito il Ponte ogni treno tramite il canone elargito da Fs pagherà, di fatto, un pedaggio stratosferico, 11.130 euro in media per percorrere 3 chilometri e 300 metri, più di 3 euro per ogni metro di binario.

Sorride solo la Impregilo

Numeri alla mano, la faccenda del canone è quindi tutt’altro che un affare per le Ferrovie, mentre lo è, e parecchio, per il futuro gestore dell’opera, la società Impregilo, a cui nel 2005 il precedente governo Berlusconi affidò la realizzazione della struttura, e i cui soci di maggioranza, detto per inciso, sono anche i famosi “patrioti” del business Cai-Alitalia, da Marcellino Gavio ai Benetton a Ligresti. Ma perché le Fs avendo poca o nessuna convenienza ad infilarsi nell’affare del Ponte sullo Stretto non si sottraggono al patto leonino a favore di Impregilo? Perché non possono, probabilmente.

Essendo un’azienda pubblica dipendente dalle decisioni della politica e dai finanziamenti del governo non possono mettersi di traverso ad un affare che per l’esecutivo Berlusconi è diventato una specie di punto d’onore, un gigantesco monumento alla mitologia del fare. Del resto la relazione del 2001 del gruppo di lavoro del ministero dei Trasporti individuava proprio nello scarso traffico ferroviario il tallone d’Achille dell’impalcatura finanziaria dell’opera. E le banche chiamate a prestare il 60 per cento dei fondi necessari per l’infrastruttura fecero capire a suo tempo che senza adeguate garanzie avrebbero fatto dietro front. Quali garanzie? Che arrivassero soldi per l’ammortamento di almeno metà dell’opera tramite il pagamento certo di un canone.

Le Ferrovie, in sostanza, agiscono come sostituti finanziatori: la finzione è che paghino per un servizio, la realtà è che strapagano in cambio di poco. Ma tanto, gira e rigira, quei soldi Fs sono soldi pubblici, frutto della fiscalità generale, cioè sborsati dai cittadini onesti con le tasse.

la Repubblica ed. Milano

Un bosco da Piazza Duomo al Castello

di Oriana Liso

La prima offerta era stata lanciata un mese fa. «Aiuterò Abbado nell´impresa di piantare i 90mila alberi, mi piace l´idea di una Milano più verde»: così l’archistar Renzo Piano, a margine di una lectio magistralis a Bologna. Un desiderio che ora si fa via via più concreto, con un grande progetto che l’architetto genovese sta mettendo a punto con il Comune: un "muro verde", fatto di alberi piantati nel suolo, sul lato di piazza Duomo verso palazzo Carminati. Una scia verde che potrebbe poi proseguire fino al Castello, attraverso piazza Cordusio e via Dante. Qui, dove il sottosuolo difficilmente permetterà piantumazioni, causa metropolitana, si potrebbero piantare degli alberi, magari quelle magnolie tanto care al maestro Claudio Abbado, in "vasconi" rialzati. Di certo non nei vasi, come è stato fatto finora, vista la riuscita poco felice di quell’esperimento, tra piante morte in poche settimane e vasi presto trasformati in discariche.

Insomma una collaborazione che entra nel vivo. Renzo Piano - che anche ieri era a Milano - ha scritto qualche tempo fa una lettera al sindaco Letizia Moratti. Per dirle, in sostanza: il desiderio di Abbado di vedere tanti alberi a Milano (messo come presupposto per un suo ritorno alla Scala l’anno prossimo, dopo 24 anni di assenza) non si sta realizzando come lui avrebbe sperato, quindi metto a disposizione la mia conoscenza (e il mio nome) per elaborare dei progetti che meglio possano concretizzare il sogno di una città più verde. Ci sono stati incontri e scambi di idee, anche con l’assessore al Verde Maurizio Cadeo e con il sovrintendente ai beni architettonici e del paesaggio Alberto Artioli, che dovrebbe in ogni caso dare il via libera a progetti che riguardano luoghi così importanti e centrali. Su via Dante, per esempio, non c’è solo il vincolo degli scavi (nei prossimi giorni dovrebbero essere completate le verifiche tecniche), ma anche quello di non rovinare la prospettiva che da Cordusio porta al Castello, né di oscurarla con alberi ad alto fusto, come platani o tigli (le magnolie, oltre a piacere ad Abbado, riprenderebbero anche l’aiuola alle spalle del Duomo).

Ma la collaborazione di Piano con il Comune potrebbe anche andare oltre i progetti di verde calibrati sull’architettura urbana del centro, perché tra le ipotesi a venire potrebbe esserci anche quella di una sua collaborazione sui Raggi verdi e, in futuro, anche su Expo. Ieri Piano ha partecipato, alla Fondazione Corriere della sera, a un incontro sul tema "Fare architettura", in occasione dell’uscita del numero speciale di "Abitare" diretto da Stefano Boeri che racconta sei mesi di lavoro dell’architetto genovese. E se Boeri spiegava che «il progetto di Expo è una svolta, e la scelta di piantare gli alberi in molti luoghi della città fa parte di una sfida più ampia a cui mi auguro che Piano voglia collaborare», quest’ultimo replicava: «Mi piace l’idea degli alberi, e anche il progetto Expo è molto innovativo».

Presto la collaborazione tra Piano e il Comune potrebbe dare i suoi frutti, con i progetti esecutivi dei nuovi viali verdi nel centro città. Secondo i piani del Comune - fondi e sponsor permettendo - nei prossimi mesi dovrebbe partire anche il progetto dei dieci "boschetti di benvenuto", con la piantumazione di 30mila alberi, mentre altre 1.600 piante dovrebbero andare a "costruire" il primo Raggio verde dal centro all’area espositiva di Expo.

Il Corriere della Sera

Un bosco al Duomo Il progetto di Piano per la Milano verde

di Stefano Bucci

MILANO — Un bosco («una settantina di piante») in Piazza del Duomo, a Milano, quasi come l’avevano immaginato Dino Buzzati e Bruno Munari (ma c’è anche il precedente storico della raccolta del grano durante la guerra); un centinaio di alberi in via Dante e poi altro verde in via Orefici (però sul lato non percorso dai tram) e in Piazza Cordusio (potrebbe essere una grande aiuola). E poi altre piante che scacciano macchine e motorini (quelli in circolazione e quelli parcheggiati in via Giulini). Renzo Piano immagina così i suoi primi interventi («un lavoro d’équipe: il Comune, la Soprintendenza, il mio studio, i tecnici») per piantare quei novantamila alberi («potrebbero essere aceri, i platani qui in città soffrono») che rappresentano il cachet «in natura » che riporterà Claudio Abbado a dirigere alla Scala (il 4 e il 6 giugno 2010 con l’ Ottava Sinfonia di Mahler).

L’architetto che sta cambiando Londra con il progetto per la sua London Bridge Tower (a Milano per presentare il numero monografico di Abitare a lui dedicato dal titolo Being Renzo Piano ) ha un’idea molto chiara di quello che dovrebbe essere il suo lavoro: «Qui faccio solo il contadino e il geometra per Claudio, il mio compito è piantare alberi e basta». Una boutade , sicuramente, perché questi novantamila alberi non sono altro (per il progettista premio Pritzker 1998) che un’occasione, l’ennesima (dopo il Beaubourg a Parigi e Postadmer Platz a Berlino) per riaprire il discorso intorno al futuro delle città, dal centro alle periferie.

Ieri, nuovo sopralluogo per Renzo Piano lungo la dorsale che collega Duomo e Castello Sforzesco: un gruppetto di otto persone (più un cane) a fare compagnia all’architetto che, ad un certo punto si mette addirittura a fare correzioni sul disegno di massima (naturalmente con il suo Pentel verde d’ordinanza) inginocchiato per terra con i passanti incuriositi ma non troppo (qualche tempo prima, aveva disegnato la sua green belt per Milano sulla tovaglia bianca di un ristorante toscano). «Il problema — spiega — è trovare un equilibrio tra la disposizione degli alberi, l’arredo urbano, le vetrine dei negozi, i servizi e i sottoservizi. Per questo è fondamentale questo lavoro di collaborazione». Intanto si parla di un modello settecentesco di «taglio» che permetta di lasciare libere le vetrine, di una «Berlino dove è più facile abbattere un albero se è malato»; di una «Milano che vuole bene alle piante»; di un arredo urbano che dovrà essere uniformato e migliorato»; di quanti alberi si potrebbero piantare tra due lampioni di via Dante (uno? due?); di un Expo 2015 «meno cementificato » che saprà ben considerare l’occasione di questi novantamila alberi.

L’idea del bosco in Piazza Duomo («opposto» alla Cattedrale) è affascinante ma, concorda Piano, «presenta una serie di difficoltà, perché, ad esempio, il bosco dovrà essere in qualche modo presidiato, per evitare ogni possibile forma di degrado» (altro ostacolo potrebbe essere l’«intoccabile» pavimento del Portaluppi). Eppure l’architetto sembra fiducioso: «il 30 di questo mese ci incontreremo con Claudio qui a Milano e se tutto va bene potremmo cominciare a piantare i primi alberi già entro la fine dell’anno, al più tardi ai primi di gennaio». Questo centro di Milano tutto pieno di alberi («Stiamo lavorando su una decina di case story ») non rappresenta che l’ulteriore frammento di un progetto ben più grande: che terrà conto delle aree di verde che già esistono (il Parco Sud come quella intorno a San Siro). E che «non si dimenticherà delle periferie». Piano l’ha ribadito spesso: «le città del futuro si ricostruiranno dalle periferie »; ieri, partendo per Parigi, ha aggiunto un’altra considerazione: «questi alberi sono un piccolo grande gesto di generosità verso le prossime generazioni» .

Dopo anni di lavoro e mesi di polemiche, il Piano di governo del territorio, destinato a mandare in pensione il vecchio Piano regolatore, è pronto: questa mattina le nuove regole che ridisegneranno la Milano dei prossimi vent´anni, verranno approvate dalla giunta. Poi l´approdo in consiglio comunale all´inizio di dicembre per quella che si annuncia una maratona in aula. Con un obiettivo ribadito dal sindaco e dalla maggioranza anche ieri: riuscire a votare entro l´anno lo strumento con cui Palazzo Marino punta a costruire case per 300mila nuovi abitanti, che porteranno la popolazione a quota 1,6 milioni. Ma anche le infrastrutture, il verde e i servizi necessari: 4,5 milioni di metri quadrati (450 ettari) di nuove aree, è la stima. Per avere un ordine di grandezza corrispondono a 900 campi di calcio. Un progetto da realizzare grazie a un mezzo diverso rispetto al passato, una sorta di Borsa delle volumetrie per cui si potranno acquistare e scambiare non titoli ma metri quadrati da edificare. Si parte da un indice che, per tutta la città, il Comune ha fissato in 0,50 ma che potrà salire. E che, in alcune zone dotate di metropolitane o stazioni ferroviarie parte da un minimo di 1.

Eccolo, il Pgt. Che adesso inizia un nuovo percorso a ostacoli per essere adottato entro aprile del 2010, il termine fissato dalla Regione. Finora si conosceva soltanto una parte del documento: quello che stabilisce il destino di 31 grandi aree strategiche come gli ex scali ferroviari o le caserme. Da oggi anche il "documento dei servizi" e "quello delle regole" sono nero su bianco. Centinaia di pagine, cartine e tabelle per stabilire il futuro urbanistico della città.

La novità sarà la "perequazione", come si chiama in termini tecnici. Finora l´indice volumetrico generale della città era 0,65: diventerà 0,50 ma si potranno sommare metri cubi acquistati spostandoli da altre aree che interessano al Comune per realizzare parchi o infrastrutture. Nelle zone densamente collegate, invece, si parte da un minimo di 1 per salire. La Borsa servirà anche per far crescere i metri quadrati di verde e servizi pubblici: in proporzione dagli attuali 21 metri quadrati per abitante a 39,7. Dei 450 ettari totali, 250 saranno spazi a uso pubblico, compreso il verde; altri 200 ai trasporti definiti «la spina dorsale della vita della metropoli».

Nella storia di Roma, politica ma non solo, il 28 aprile 2008, elezione del "nero" Gianni Alemanno al soglio capitolino, è stato e resterà un giorno decisivo per comprendere cosa sia cambiato nel Paese. Come. Perché. E con una scelta evidentemente voluta, che gioca con la ricorrenza dei calendari, nell’ottantasettesimo anniversario della marcia su Roma (28 ottobre 1922), è arrivato in libreria La presa di Roma (Rizzoli, pagg. 208, euro 9.80) l’ultimo lavoro di Claudio Cerasa, eccellente giornalista del Foglio, cronista vivace e solido. «Cosa si nasconde - si chiede Cerasa - dietro la straordinaria ascesa di Gianni Alemanno? Per quali ragioni una città decide di affidare la propria sorte a un uomo dal passato così movimentato? Perché la destra sa parlare di sicurezza meglio della sinistra? Quali affari miliardari si nascondono dietro al governo dei diversi sindaci di Roma?».

Con il passo dell’inchiesta e metodo da entomologo, a queste domande Cerasa dà delle risposte. E - ciò che più importa - con nomi e cognomi, date, numeri, circostanze. Restituendo un quadro del Potere che muove la città, i suoi nessi, i suoi snodi, utile non solo a chi la abita, ma anche ai molti e confusi osservatori che, non conoscendone né l’anima, né la geografia, né le profonde discontinuità sociali e culturali che l’hanno attraversata negli ultimi vent’anni, si ostinano a semplificarne il tratto, aggiornando periodicamente il rosario di luoghi comuni che si è guadagnata nei secoli.

La "Presa di Roma" ha il pregio di illuminare, chiamandolo con il suo nome, il tratto politico della vittoria di Alemanno e, più in generale, del centro-destra che si è fatto maggioranza nel Paese. Alemanno vince con la Plebe che preme alle porte del fortilizio patrizio ormai identificato come la vera costituency della Roma di Veltroni. Racconta dunque il capovolgimento dei canoni dell’appartenenza politica, proletaria e borghese. Con una vittoria che, non a caso, comincia e viene costruita in quella cintura periferica, Ponte di Nona, che le amministrazioni del centro-sinistra avevano immaginato come monumento moderno e urbanisticamente sostenibile in cui alloggiare proletariato, piccola e media borghesia, storicamente "rosse" e da tempo espulse dal cuore della città. Abbandonate al loro senso di insicurezza materiale e fisica (reale e "percepita"). Alla prossimità imposta con gli ultimi degli ultimi (Rom e nuova immigrazione rumena).

Dopo un quindicennio di governo del centro-sinistra, la destra ha la fame, la forza e la disperazione degli esclusi. E vince non per un nuovo progetto o idea di città, di cui nel libro non a caso non c’è traccia. Vince per consunzione naturale dell’avversario e soprattutto perché i veri padroni di Roma, i suoi poteri forti - costruttori, manager delle municipalizzate, circoli Vaticani, lobby dei tassisti - nella migliore tradizione trasformista e cinica della città si liberano di un cavallo sfiancato (il Pd di Veltroni e Rutelli) da cui hanno ottenuto tutto quello che potevano ottenere e salgono sul nuovo, disposto, pur di vincere, a qualunque patto.

Il mantra di Alemanno e della sua campagna - "Sbullonare Roma" - se suona musica alle orecchie della Plebe, diventa così l’anticamera del suo inganno. Perché nelle scelte del nuovo Sindaco, nella sua nuova geografia del Potere - come Cerasa documenta - in realtà, quella Plebe viene (ri)consegnata allo stesso blocco Patrizio di cui, a parole, il neo sindaco ha promesso di volersi sbarazzare. Insomma, di rivoluzionario, nella nuova Presa di Roma c’è solo il rumore e la forza delle parole, la straordinaria suggestione della Storia, la prima volta degli esclusi da sempre. C’è soprattutto un presagio. Che una volta finito di "sbullonare" con furia la città i suoi nuovi padroni politici ne vengano rapidamente digeriti.

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