1. Il processo di recupero: strumenti e attori
Il recupero del centro storico è partito nella prima metà degli anni ‘90 attraverso la pianificazione esecutiva, rappresentata prevalentemente dal piano particolareggiato noto come P.P.E.[1] Gli interventi privati di recupero sono stati sostenuti da finanziamenti stanziati dalla Regione con la legge finanziaria n. 15 del 1993 e gestiti dal Comune di Palermo attraverso sei bandi che hanno avuto grande successo[2].
Palermo è una delle poche città d’Italia che si è dotata in tempi brevi (1989-1993) di uno strumento urbanistico organico per il recupero del centro storico e questa esperienza ha avuto molto risalto nella letteratura specialistica. Si tratta di un piano culturalmente condivisibile, che si basa sulla conoscenza storica della città e del patrimonio edilizio, utilizzata come matrice delle scelte progettuali[3].
Bisogna riconoscere anche che si tratta di un piano “efficace” facilmente consultabile e utilizzabile da parte degli operatori privati e dei tecnici comunali, che ha consentito l’apertura di numerosissimi cantieri di recupero edilizio residenziale, che ha creato un mercato immobiliare prima inesistente, che ha ampliato l’offerta di attività culturali pubbliche e private e che ha rivitalizzato molte aree del centro storico, inducendo contemporaneamente una certa quota di sostituzione sociale[4].
I soggetti attuatori degli interventi sono stati prima di tutto la stessa Amministrazione Comunale, la Soprintendenza ai Beni Culturali, i privati singoli e aggregati, l’Istituto Autonomo Case Popolari, l’Università tramite l’Opera Universitaria[5]. Più recentemente sono stati coinvolti come titolari di contributi pubblici gli imprenditori, le società immobiliari e i commercianti, mentre non è finora andato in porto il coinvolgimento delle cooperative edilizie.
2. L’attuazione del P.P.E.: risultati e criticità
Il recupero è partito con lentezza e con un certo spreco di risorse finanziarie erogate “a pioggia” a causa di errori di strategia contenuti nei primi bandi; ha avuto una notevole accelerazione quando dopo il 2001 è stato emanato il quinto bando che ammetteva al contributosocietà immobiliari o imprese edili e che privilegiava l’intervento su intere unità edilizie, dando la priorità a quelle fortemente degradate.
Oggi il processo di recupero del centro storico è visibile in molte zone della città, ma si manifesta prevalentemente come una somma di “recuperi edilizi” attuati prevalentemente da privati sulle piazze e sulle vie di maggior pregio; non investe la riqualificazione degli spazi pubblici, non prevede una quota significativa di edilizia residenziale pubblica e non è guidato da “politiche pubbliche” cioè indirizzi sulle attività e le funzioni da privilegiare, al di là dell’enfasi sulla ricettività turistica e alberghiera.
Il processo di recupero è sottolineato dall’apertura di nuove attività commerciali come agenzie immobiliari, agenzie di viaggio, negozi di prodotti etnici e phone-center gestiti da extra-comunitari, gallerie d’arte, ristoranti, pub, enoteche, piani bar, che scatenano una frenetica vita notturna ed entrano in conflitto con i pochi residenti.
I prezzi degli immobili sono cresciuti enormemente e si assiste a una fervida compravendita di edifici anche abitati. Ciò prelude all’allontanamento degli abitanti siano essi indigeni o extra-comunitari e alla sparizione dei piccoli esercizi commerciali e artigianali. Rischiano grosso anche i grandi mercati storici all’aperto che contribuiscono in maniera irrinunciabile a conferire identità al centro storico[6].
In sintesi si stanno verificando dei notevoli cambiamenti che dovrebbero essere monitorati e analizzati dall’amministrazione comunale per introdurre regole e correttivi.
Per altri versi l’attuazione del recupero del centro storico e la prefigurazione dell’assetto urbanistico generale della città non possono essere considerati separatamente, ma devono far parte di una strategia unitaria, in grado di dislocare adeguatamente risorse e interessi, in un disegno organico di riqualificazione della città, in grado di ridare dignità urbana sia al centro che alle periferie. Questa visione organica si rivela ineludibile se consideriamo il sistema della viabilità, del trasporto pubblico, della mobilità, della sosta, della pedonalizzazione, a partire da un problema cruciale che il P.P.E. provò a indicare: l’incompatiblità dei flussi di traffico pesante sul Foro Italico e sulla Cala con la riqualificazione della città storica e con la riproposizione di un rapporto felice tra la città e il mare[7].
3. Ipotesi di prospettiva
Ferma restando l’opportunità del coordinamento prima accennato, si potrebbe mettere in cantiere una rivisitazione parziale del P.P.E. sulla base dei risultati conseguiti, dell’esperienza maturata, con riferimento all’evoluzione del contesto, senza snaturarne le qualità positive e l’efficacia.[8]
Una delle riflessioni dovrebbe partire dalla consistenza del patrimonio edilizio storico del centro storico e dalla densità edilizia. Il centro storico presenta massicce volumetrie, pochi spazi aperti, una rete viaria di ampiezza modesta. La densità edilizia in alcuni casi supera i 9 metri cubi per metro quadro. Questa condizione, comune ad altri grandi centri storici, ha origine dai processi di crescita della città entro le mura e dal continuo inurbamento di abitanti alla ricerca della sicurezza e delle opportunità derivanti dalla condizione urbana. Questo meccanismo ha fatto si che nei secoli si costruisse dappertutto, che il patrimonio edilizio storico crescesse e in altezza e in superficie, a volte sacrificando perfino piazze, cortili e reti viarie.
Inoltre esiste, anche se in precarie condizioni, una grande quantità di patrimonio edilizio monumentale storico di proprietà della chiesa, di privati, di enti e istituzioni (222 edifici
[1] Il Piano Particolareggiato Esecutivo (P.P.E.) commissionato dalla giunta Orlando a Leonardo Benevolo, Pierluigi Cervellati, Italo Insolera nel 1988 è stato approvato dalla Regione nel 1993. Gli altri piani particolareggiati coevi sono il Piano dell’Albergheria e i quattro piani di recupero Italter che interessano porzioni limitate della città storica. V. Teresa Cannarozzo Il piano per il centro storico di Palermo in Urbanistica Informazioni n. 107/1989; Approvato il piano per il centro storicodi Palermo in Urbanistica Informazioni n. 118/1991; Palermo: completati i piani per il centro storico in Urbanistica Informazioni n. 119-120/1991.
[2] La legge stanzia 170 miliardi di vecchie lire, di cui 50 miliardi per l’anno 1993. I bandi sono disciplinati dalla legge regionale n. 25/1993 che contiene ulteriori disposizioni per il recupero del centro storico.
[3] V. Teresa Cannarozzo, Palermo tra memoria e futuro. Riqualificazione e recupero del centro storico, Palermo, Publisicula Editrice, 1996.
[7]V. Teresa Cannarozzo , Territorio costiero e città: da Panormos a Palermo in AA.VV. Territori costieri, a cura di G. Abbate, A. Giampino, M. Orlando, V. Todaro, Milano, Franco Angeli, 2009, ISBN 978-88-568-1018-9, pagg. 194-208.
[8]Con riferimento al fatto che il piano sia scaduto dopo dieci anni (e cioè nel 2003) è bene puntualizzare che dopo 10 anni scadono solo i vincoli sulle proprietà immobiliari, ma il piano rimane efficace per tutto il resto.
[1] Il Piano Particolareggiato Esecutivo (P.P.E.) commissionato dalla giunta Orlando a Leonardo Benevolo, Pierluigi Cervellati, Italo Insolera nel 1988 è stato approvato dalla Regione nel 1993. Gli altri piani particolareggiati coevi sono il Piano dell’Albergheria e i quattro piani di recupero Italter che interessano porzioni limitate della città storica. V. Teresa Cannarozzo Il piano per il centro storico di Palermo in Urbanistica Informazioni n. 107/1989; Approvato il piano per il centro storicodi Palermo in Urbanistica Informazioni n. 118/1991; Palermo: completati i piani per il centro storico in Urbanistica Informazioni n. 119-120/1991.
[1] La legge stanzia 170 miliardi di vecchie lire, di cui 50 miliardi per l’anno 1993. I bandi sono disciplinati dalla legge regionale n. 25/1993 che contiene ulteriori disposizioni per il recupero del centro storico.
[1] V. Teresa Cannarozzo, Palermo tra memoria e futuro. Riqualificazione e recupero del centro storico, Palermo, Publisicula Editrice, 1996.
[1]V. Teresa Cannarozzo , Territorio costiero e città: da Panormos a Palermo in AA.VV. Territori costieri, a cura di G. Abbate, A. Giampino, M. Orlando, V. Todaro, Milano, Franco Angeli, 2009, ISBN 978-88-568-1018-9, pagg. 194-208.
[1]Con riferimento al fatto che il piano sia scaduto dopo dieci anni (e cioè nel 2003) è bene puntualizzare che dopo 10 anni scadono solo i vincoli sulle proprietà immobiliari, ma il piano rimane efficace per tutto il resto.
[1] Anche per questa ragione si è contrari al progetto di ricostruzione integrale nell’area della Curia in via Maqueda. V. Teresa Cannarozzo, Una piazza giardino nell’area Quaroni, in LA REPUBBLICA del 3.3.2009.
[1] V. Teresa Cannarozzo, Una piazza giardino nell’area Quaroni, in LA REPUBBLICA del 3 marzo 2009.
[1] V. Teresa Cannarozzo, Il piano dei musei nel centro storico di Palermo in RECUPERARE n. 1/1994.
[1]Teresa Cannarozzo, Il recupero dei centri storici e i procedimenti innovativi di conoscenza, progetto e gestione. Prefazione al volume di Marilena Orlando Il ruolo dei sistemi informativi territoriali nel processo di recupero dei centri storici, Milano, Franco Angeli, 2008. ISBN 978-88-568-0495-9 pag. 11-13.
La Corte dei Conti boccia il ponte sullo Stretto di Messina. Dopo anni di battaglie degli ambientalisti, arriva ora il suggello della massima magistratura contabile che demolisce punto su punto i pilastri progettuali dell’infrastruttura. Sotto accusa i costi elevatissimi, la fattibilità tecnica e la compatibilità ambientale. Ma andiamo con ordine. La Corte dei Conti ha innanzitutto ricordato che la spesa per l’opera, risultante dall’importo previsto nel progetto preliminare approvato nel 2003, ammonta a 4,68 miliardi di euro ma che nell’Allegato Infrastrutture al Dpef 2009/2013 l’importo per il ponte sullo Stretto di Messina è indicato in 6,1 miliardi (la stessa cifra è indicata nel Dpef 2010/2013).
Conti alla mano, un aumento di oltre 1,5 miliardi. Sotto accusa della magistratura contabile anche le stime del traffico, formulate nel 2001 e che oggi «potrebbero verosimilmente non solo essere non più aggiornate ai tempi attuali, ma anche non coerenti con il quadro economico della sopraggiunta congiuntura economica». In due parole: bisogna rifare tutti i conti. «Solo un’adeguata stima dei volumi di traffico viario e ferroviario potrà effettivamente consentire, rispettando il quadro della finanza di progetto su cui si fonda circa il 60% delle risorse complessive, di sostenere gli oneri finanziari per interessi che graveranno sui capitali presi a mutuo».
Riguardo alla fattibilità tecnica, la Corte segnala che «il modello progettuale infrange ogni primato sinora esistente: rispetto al ponte più lungo ad unica campata attualmente esistente al mondo, il ponte giapponese di Akashi-Kaiky con una campata unica di metri 1.991,quello sullo stretto di Messina avrebbe una lunghezza superiore del 39,6%, pari a metri 3.300». E il j’accuse dei giudici contabili non si ferma qui. La Corte ha infatti raccomandato all’Amministrazione di valutare attentamente le questioni ambientali «al fine di rendere compatibile l’intervento con le misure di tutela e protezione adottate nell’area».
Un’analisi costi-benefici che delinea uno scenario di oggettivo spreco di risorse e che, naturalmente, fa esultare i Verdi e gli ambientalisti: «Quelle della Corte dei Conti - rileva il presidente del Sole che ride, Angelo Bonelli - sono le stesse obiezioni che da sempre poniamo al governo Berlusconi su un’opera costosissima e senza alcuna utilità. Il governo eviti di buttare letteralmente a mare circa 7 miliardi di euro per il Ponte. Le vere priorità dell’Italia e del Mezzogiorno sono altre: lotta al dissesto idrogeologico, realizzazione di collegamenti ferroviari efficienti e realizzazione di una rete idrica per portare l’acqua in città che ancora sono servite da autobotti».
Gli fa eco il senatore Pd Roberto Della Seta: «Prima ancora dell’apertura dei cantieri il costo preventivato per l’opera è già lievitato di un miliardo e mezzo». Dal 17 dicembre del 1971, giorno in cui il governo Colombo approvò la legge 1158 che autorizzava la creazione di una società concessionaria per la progettazione, realizzazione e gestione del collegamento stabile viario e ferroviario, sono passati 39 anni. Miliardi al vento. E della prima pietra si son perse le tracce.
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L'autodromo Motorcity incassa il sì definitivo della Regione, ma la Lega si astiene. La giunta ha votato, a maggioranza, la presa d'atto del giudizio favorevole sul Motorcity di Vigasio e Trevenzuolo, espresso dalla commissione per la Valutazione dell'impatto ambientale (Via) il 2 dicembre scorso. L'autorizzazione diventerà efficace dopo la pubblicazione della delibera sul bollettino regionale. Alla votazione c'erano tutti gli assessori, mancava solo il presidente Giancarlo Galan. L'esito dell'alzata di mano è stato di 10 assessori a favore e due astenuti. I tre veronesi, Giancarlo Conta, Massimo Giorgetti, entrambi del Pdl e Stefano Valdegamberi dell'Udc, come da pronostico, si sono schierati per il sì. L'altro assessore di Verona, Sandro Sandri della Lega Nord, si è invece astenuto assieme al collega di partito Franco Manzato, che ha presieduto la riunione al posto di Galan.
La giunta ha accolto in maniera integrale la relazione dei tecnici della commissione ambientale. Nel documento è stato espresso parere positivo all'opera, condizionato dalla realizzazione di alcuni interventi. Come la strada a quattro corsie che collegherà l'autodromo e gli altri insediamenti previsti nell'area (District Park e Centro agroalimentare) con l'autostrada del Brennero e la futura Mediana. Queste opere furono richieste dalla Provincia per compensare l'aumento di traffico previsto all'avvio di Motorcity.
Con l'approvazione regionale è caduto l'ultimo ostacolo alla realizzazione del piano di lottizzazione, che occuperà quattro milioni e mezzo di metri quadri, divisi tra i Comuni di Vigasio e Trevenzuolo. La società Autodromo del Veneto, dopo la pubblicazione della delibera, potrà avviare i progetti degli edifici e delle opere urbanistiche del complesso, inclusi la pista per i piloti, il polo te cnologico, il centro commerciale, il parco divertimenti e la zona ricettiva.
Il voto degli assessori leghisti è stato particolarmente travagliato e un po' contraddittorio, poiché fu proprio il Carroccio, nel 2008, a contestare in tutte le sedi il progetto appoggiato dal resto del centrodestra. Lo provano sia i volantini contro la «cementificazione del territorio», firmati e diffusi da Giovanni Codognola, segretario di circoscrizione del Carroccio, sia le dichiarazioni dei consiglieri regionali Vittorino Cenci ed Emilio Zamboni al convegno organizzato dal Pd a Vigasio nello stesso anno. Dopo le elezioni provinciali dello scorso anno, l'atteggiamento leghista nei confronti del progetto mutò. Gli assessori della Lega in Provincia approvarono, assieme ai colleghi del centrodestra, la valutazione per l'impatto ambientale dell'autodromo. Ed ora l'astensione della componente leghista in giunta regionale.
Sandro Sandri spiega perché non ha votato contro il progetto. «Era una questione squisitamente tecnica», afferma, «e perciò non ci siamo potuti opporre alla presa d'atto. Noi non siamo sostanzialmente d'accordo all'autodromo, ma dare una valutazione negativa era praticamente impossibile. In mano non avevamo elementi tecnici per opporci. Abbiamo rimarcato il nostro dissenso astenendoci dal voto».
Franco Bonfante, consigliere del Pd, critica la giunta e l'astensione della Lega. «Rimaniamo fermi nella nostra posizione», spiega, «e cioè favorevoli alla pista automobilistica in sé, ma contrari a tutto ciò che le sorgerà attorno e che porterà alla devastazione di quattro milioni e mezzo di metri quadrati di territorio. È stata stravolta l'idea originaria, che prevedeva un autodromo con pochi edifici di completamento. Oltre alla speculazione edilizia l'intervento porterà molto traffico e non i numerosi posti di lavoro promessi. La promozione dello sviluppo economico non potrà compensare i problemi viabilistici e di inquinamento».
Sull'astensione degli assessori leghisti osserva: «La Lega Nord ha dimostrato ancora una volta la sua incoerenza. I leghisti avevano proclamato la loro contrarietà al Motorcity anche di fronte alla popolazione di Vigasio. Si sono rimangiati tutto dopo che Luca Zaia è stato indicato come candidato del centrodestra alla presidenza della Regione. Hanno barattato lo sviluppo equilibrato del territorio dei prossimi 50 anni con una poltrona».
Commissariamenti a catena. L'arte continua a finire sotto sorveglianza mentre si elargisce una pioggia di soldi a chi si trova a gestirla - saltando le altre competenze - investito di poteri straordinari in situazioni di emergenza. I commissariamenti che piacciono tanto alla coppia Berlusconi-Bondi stanno alla cultura come la fiducia eternamente richiesta da questo governo (o il decreto-legge-lampo) sta al Parlamento. L'ultimo è quello di Brera, «il Louvre italiano», come lo chiama il ministro, che sfoggerà la sua imponenza entro il 2015, in parallelo all'Expo. Per motivazioni imperscrutabili, arriverà al traguardo soltanto da «bene commissariato». L'importante è esautorare - che siano le sovrintendenze, i deputati o la Costituzione stessa - le impalcature democratiche di uno stato, agendo senza intralci. Così lo stipendio d'oro (il cui ammontare, come segnalato dai sindacati, si potrebbe aggirare intorno ai 2,5 milioni di euro) del super manager Mario Resca, già direttore generale ai beni culturali e ora anche tutore con poteri speciali del polo museale Grande Brera può far sussultare (se corrisponde a verità), ma non è il solo punto dolente.
La vera follia gestionale è quella che utilizza come carta vincente i commissariamenti. Come è finito, ad esempio, quello propagandato come ineluttabile ai Fori romani e al Colosseo? Bertolaso e la Protezione civile hanno avuto altro da fare (sisma in Abruzzo) e a Roma sono subentrati nuove guide per contrastare il «degrado irreversibile» dei siti archeologici. Eppure avere finanziamenti cospicui e facili non risolve con la bacchetta magica i problemi preesistenti. Qualcosa però insegna: mette in campo i grandi appalti - è stato dimostrato perfettamente all'Aquila nel corso della «non politica» di risanamento attuata nel centro storico - e soprattutto accontenta molti imprenditori. Se poi le «isole protette» intorno ai beni stentano a decollare, poco importa. Meglio incassare intanto i consensi nel settore degli affari.
È stato previsto che il progetto del nuovo polo museale milanese - con la sistemazione della Pinacoteca e il trasferimento dell'Accademia nella caserma di via Mascheroni - costerà all'incirca 50 milioni di euro. Il 5% del totale sarebbe destinato al direttore dei lavori, in questo caso «il commissario» Resca. Emilia De Biasi e Emanuela Ghizzoni, deputate Pd in commissione cultura, hanno chiesto con un'interrogazione parlamentare al ministro Bondi di chiarire «sia il progetto per il museo di Brera sia le motivazioni del commissariamento che hanno portato alla nomina di Mario Resca». Dal Mibac si sono affrettati a smentire i numeri esorbitanti: «Il compenso è equiparato a quello del direttore dei lavori, ossia, in base a quanto prevede la normativa, al massimo corrisponderà al 20% dello 0,5% dell'importo dei lavori posto a base di gara; inoltre tale cifra è dilazionata nell'arco della durata del cantiere». Ma nessuno ha spiegato la necessità dell'ordinanza del Presidente del consiglio che ha designato Resca unico «intestatario» di Brera.
C’è di tutto nel letto del Serchio: strade, ferrovie, aree industriali, impianti sportivi, scuole, residenze, strutture ricettive, discariche, discoteche, club ippici, colonie solari, campi nomadi. E le golene sono quasi completamente edificate, tanto da rendere difficile individuare possibili casse d’espansione in cui far defluire le acque in caso di piena, per evitare nuovi disastri. È disarmante il quadro che si ha delle condizioni dell’asta del Serchio, percorrendola tutta dalle sorgenti sopra Sillano e Minucciano fino a Nodica e al mare, passando per la Garfagnana, la Media Valle e la Piana di Lucca.
Un viaggio lungo il fiume che Il Tirreno ha fatto - venti giorni dopo la drammatica alluvione - insieme al segretario dell’autorità di Bacino del Serchio, il geologo Raffaello Nardi, l’assessore della Provincia di Lucca alla protezione civile, Emiliano Favilla, e il presidente della commissione provinciale infrastrutture Francesco Angelini.
Secondo il programma degli interventi del piano di bacino, occorrerebbe oltre un miliardo di euro per evitare nuove esondazioni attraverso la realizzazione di casse di espansione, gli adeguamenti degli argini e delle infrastrutture viarie, la manutenzione delle opere idrauliche, la bonifica e il consolidamento delle frane e la sistemazione idraulico-forestale. In realtà non c’è al momento traccia di stanziamenti del genere, sia pure in un periodo pluriennale. Dal 2003, in sostanza, arrivano i soldi per pagare gli stipendi della trentina di dipendenti e piccole somme che finiscono più per rispondere alle richieste dei singoli Comuni che non al quadro d’insieme delle cose da fare.
Che sono tante e tutte urgenti, come si capisce subito scendendo sulle rive del fiume tra Piano della Pieve e Castelnuovo Garfagnana, dove sul greto del Serchio sorgono numerosi insediamenti produttivi, accanto a scuole, impianti sportivi e abitazioni. Rischiano tutti di finire sott’acqua e l’Autorità di Bacino si è già opposta a ulteriori ampliamenti a valle. «Anche alla luce dei danni prodotti dalle ultime piene - spiega Nardi - sarebbe opportuno realizzare delle protezioni in tutte le aree produttive sul fiume, come abbiamo fatto a Diecimo di Borgo a Mozzano per tutelare le fabbriche che erano andate sotto nell’alluvione del 2000. In quel caso la metà della spesa fu sostenuta dall’Associazione industriali».
Aree simili, a rischio, sono anche quelle di Gallicano, Bolognana, Pian di Coreglia, Fornaci di Barga, Fornoli e Socciglia.
Altro provvedimento urgente è la delocalizzazione di quelli che in gergo vengono chiamati “mucchi” nell’alveo, per lo più impianti per la lavorazione e il riciclaggio degli inerti (soprattutto ghiaia). Ce ne sono lungo tutto il corso del Serchio e alcuni hanno dimensioni imponenti, come a Gallicano, Borgo a Mozzano, Ponte a Moriano, e Nave.
«Con Comuni e privati - commenta il segretario dell’Autorità di Bacino - ci sono protocolli d’intesa. Solo Lucca deve ancora approvarli, ma mi risulta che la delibera stia per arrivare in consiglio comunale». Peccato che quella delibera dia dieci anni di tempo alle aziende che devono spostarsi. Lucca, il Comune più colpito dalle alluvioni, sembra paradossalmente il meno sollecito ad attuare rapide misure di prevenzione e salvaguardia. Alle prossime piene, la delocalizzazione potrebbe rivelarsi superflua: il fiume potrebbe aver spazzato via i “mucchi”.
Più urgente ancora è capire in quali condizioni si trovano davvero gli argini che hanno ceduto di fronte a una portata - 1.700 metri cubi al secondo a Lucca e 1.900 a Nodica - inferiore a quella di altre piene passate senza danni. In attesa di conferme scientifiche, Nardi ha comunque una convinzione: «Le notizie storiche dal 1419 in poi non riportano la concomitanza di due piene superiori ai 1.700 metri cubi nel giro di due-tre giorni. Non va dimenticato che il 18-19 dicembre 2009 c’erano state nevicate abbondanti anche a valle e che gli argini erano quindi diventati molli.
Quattro giorni dopo, il 22, è passata una piena da 1.200 metri cubi e gli argini si sono intrisi ancora di più. A distanza di 48 ore, alle 6,10 del 25 è arrivata l’ondata da 1.700-1.900 metri che ha creato non la tracimazione, ma la rottura dell’argine in due punti a S. Maria a Colle e, più a valle, a Nodica. Non dimentichiamoci che il mare in tempesta non riceveva. Non credo peraltro che siano casuali i punti della rottura, avvenuta all’altezza di due meandri dell’antico Auser (il Serchio di allora, ndr) raddrizzati per portare il fiume verso il mare invece che nel bacino del Bientina. Va infine aggiunto che gli argini sulla riva destra, a Lucca come nel Pisano, sono terrapieni meno robusti rispetto a quelli della riva sinistra, costruiti più ampi e solidi per proteggere le città. In passato, in casi di piena, gli argini venivano rotti proprio nell’Oltreserchio, per evitare danni ai centri abitati».
Il guaio è che oggi, da Ponte a Moriano a Nodica, ma anche più a monte, tutte le fasce sotto gli argini sono centri abitati. In teoria non ci potrebbe essere alcuna costruzione a meno di dieci metri dai terrapieni; la realtà è che si trova di tutto, anche a pochi metri dall’acqua, in mezzo al letto. I controlli? L’Autorità di Bacino indica con chiarezza le prescrizioni e i divieti, ma i Comuni non sembrano particolarmente impegnati nel farli rispettare. E i privati, di fronte ai dinieghi, si rivolgono al tribunale delle acque e al Tar, arrivando anche a chiedere i danni. Risultato: alla fine passano progetti di ogni genere. «Sono gli effetti della legge ponte del 1967 che, dopo l’alluvione di Firenze - chiarisce Nardi - previde lo stop alle edificazioni accanto ai corsi d’acqua, concedendo però un anno di proroga. Ci fu la corsa a presentare richieste per nuove costruzioni, i cui danni sono stati poi aggravati dall’abusivismo e dal condono del 1985». Solo a Lucca, le domande di condono sono 10mila, molte delle quali ancora inevase.
Perché stupirsi allora, scendendo a valle, delle aree industriali a due passi dall’acqua del Serchio a Gallicano, Pian di Coreglia, Fornaci di Barga, Pian della Rocca, Socciglia, Diecimo, Chifenti, Piaggione, Ponte a Moriano e giù giù fino al mare? O delle zone sotto Nodica occupate da stabilimenti che sorgono in terreni 4-5 metri sotto il livello del Massaciuccoli? O ancora della presenza di un club ippico, di un campo nomadi, di una ex colonia e di una discoteca - accanto a impianti per lavorare gli inerti - tra Monte S. Quirico e Ponte S. Pietro?
Quando sento i discorsi dei tifosi delle privatizzazioni penso ai versi di Melchiorre Murenu, e alla insofferenza descritta in quella strofa contro le “chiudende”. La chiusura delle terre - 1820 - era stata disposta nel nome della modernizzazione auspicata. Si metteva cinicamente a repentaglio la sopravvivenza dei più.
Ma la proprietà “perfetta” era il bene supremo, presupposto della crescita economica. Senza riserve. Era rimasto colpito il poeta dagli effetti del provvedimento. Un flagello quell’ “afferra afferra” che toglieva alle comunità le terre comuni senza restituire nulla. Le chiusure premiavano solo alcuni - come era stato previsto. E come riconobbe un ex viceré descrivendo le prevaricazioni (l’editto “giovò nella sua esecuzione soltanto ai ricchi e potenti”). Agli altri si negava l’accesso ai boschi ghiandiferi, ai pascoli migliori, alle fontane e agli abbeveratoi. La strofa si conclude con la nota iperbole “si su chelu fit in terra l’haiant serradu puru”. Avrebbero recintato pure il cielo casomai fosse in terra. Ma le caricature - ne sa qualcosa la satira - con il passare del tempo possono diventare inopinatamente reali, come i versi di Murenu appunto, rinfrescati dalle cronache di questi tempi. I sardi di prevaricazioni ne sanno qualcosa, tanto da immaginare che qualche anticorpo lo abbiano realizzato. Invece la storia si ripete.
I soprusi, raccontati come necessità, sono una costante. La terra sarda è stata da tempo consegnata - nelle sue parti più belle - all’uso di pochi che hanno usato dune e scogliere come piedistalli di brutte case, la vista e l’uso delle spiagge in grandi tratti sono impediti, molte proprietà demaniali sono recintate.
Ma ecco, subito dopo la decisione che privatizza l’acqua, il governo vara a Natale un decreto per la svendita di beni pubblici di pregio (tra gli altri il poligono di Capo Teulada, 70 kmq di splendidi paesaggi).
Si annunciano brutti tempi. Il 2009 si è chiuso in Sardegna con una brutta “autonoma” legge sul governo del territorio e chissà cosa ci aspetta. Nello sfondo quel verso del poeta - “se il cielo fosse in terra” - acquista una nuova luce.
Quel paradosso prende corpo. Le torri eoliche, sul mare o sui crinali, non si pigliano pezzi di cielo? Messe dove occorre per catturare il vento non alterano la vista dell’orizzonte? E a chi convengono queste moderne svendite?
Propongo di istituire il premio "Attila per la Comunicazione" e di assegnarlo al Mibac, Ministero per i beni e le attività culturali. È in corso, infatti, una delle più sgraziate e peregrine campagne di comunicazione dell'anno. Non si è ancora spenta l'eco del formidabile slogan delle Ferrovie dello Stato (voi portate coperte e panini, ai treni ci pensiamo noi?) che arriva quello del ministro Bondi: se non lo visiti, lo portiamo via.
Questo è lo spot televisivo messo in onda dal ministero. Arrivano quattro elicotteri, stile Apocalypse now. Compare, tra le nuvole e agganciato a lunghi cavi, il David di Michelangelo. Si riconosce, in basso, il centro di Londra. Irrompe la scritta: se non lo visiti, lo portiamo via. Stacco, altra scritta: In Italia ti aspettano da sempre i più grandi capolavori della storia dell'arte. Riscoprili.
Altro spot, altro soggetto, stesso stile e modo. È notte, alcune enormi gru lavorano alla luce di potenti fotoelettriche: stanno smantellando il Colosseo, pezzo per pezzo. La chiusa del breve comunicato (15 secondi) è la solita: se non lo visiti, lo portiamo via!
Per par conditio geografica e culturale, medesima triste sorte toccherà al Cenacolo di Leonardo su giornali, riviste e su poster stradali.
Sugli obiettivi dell'iniziativa, nulla da eccepire. Da tempo ci si augura che, dopo la lunga stagione della conservazione fine a se stessa, si mettano in opera strategie e attività per una moderna valorizzazione economica e una più efficace e democratica comunicazione della cultura e del suo patrimonio. D'accordo anche sul fatto che sarebbe bene aumentassero i visitatori dei musei e che le famiglie e i giovani avessero più dimestichezza con pinacoteche e gallerie. Giusto che, a fronte di una crescente domanda di cultura e di arte, l'offerta debba essere più attenta e sensibile alle esigenze del visitatore.
Ma, a parte il fatto che i simboli culturali scelti dal ministero come "testimonial" dell'infelice campagna di comunicazione sono tra i luoghi e i beni più amati e frequentati in assoluto e che accostare il claim minatorio "se non lo visiti lo portiamo via" al Colosseo (4 milioni di visitatori l'anno!) provoca un effetto tragicomico, non ci si poteva sforzare un poco e trovare un'idea creativa migliore? Una comunicazione un tantino più raffinata o, perlomeno, più cordiale e gentile?
Proprio in questi giorni, per fare un esempio, moltissime persone hanno investito alcune ore del loro tempo e tanta umana sofferenza a causa del gelo di Milano per poter vedere un solo quadro: il Battista di Leonardo. Ebbene, quei signori (24 mila solo negli ultimi due giorni di apertura) sono andati a Palazzo Marino perché una corretta comunicazione ha fatto loro sapere, gentilmente, che quel capolavoro sarebbe stato ospite del nostro Paese, solo per poco tempo, e poi se ne sarebbe tranquillamente tornato al Louvre.
Così, di solito e a tutte le latitudini del mondo, funziona la comunicazione culturale. Senza elicotteri, senza gru e, soprattutto, senza minacce.
La "sindrome di Stendhal alla rovescia" (grave insensibilità alla cultura, all'arte, al bello) ha colpito duramente il ministro Bondi e i suoi collaboratori. Ne avevamo avuto, più volte, il sospetto. Ora, questo stile di comunicazione, lo conferma in modo certo.
*L’autore è consulente e docente in Comunicazione e Marketing della Cultura.
Il 2010 segnerà anche per la Toscana un cambio al vertice dell’amministrazione regionale: è dunque il momento di fare una breve considerazione e qualche auspicio. Per la sua storia e la sua civiltà, la Toscana ha il dovere, verso i suoi cittadini e verso il mondo, di preservare con cure specialmente attente lo straordinario, delicatissimo patrimonio di valori ambientali, paesaggistici, urbani.
In Toscana meglio che altrove è possibile cogliere l’intima unità del patrimonio culturale col paesaggio, la diffusione capillare di opere d’arte e monumenti fin nelle più remote pievi di campagna, la secolare costruzione di un orizzonte di civiltà e di bellezza che fino a qualche decennio fa appariva spesso inalterato. Dalla Toscana, in un momento di svuotamento progressivo dello Stato sotto le irresponsabili spinte della Lega e nella colpevole inerzia delle (mancate) opposizioni, abbiamo il diritto di attenderci, come Italiani, la costruzione di un modello integrato di conservazione per lo sviluppo, che possa servire da esempio-guida per il resto d’Italia.
In questi anni di crescente degrado della cultura civica e di assalto ai valori della Costituzione, la Toscana ha “retto” meglio di altre regioni italiane (come la Sicilia o il Veneto) alle pressioni di speculatori senza scrupoli e alle spietate cementificazioni. Meglio, o sarebbe più giusto dire “meno peggio”. Ma la Toscana non può accontentarsi del “meno peggio”; non può affidare la propria politica del paesaggio, come spesso è stato, a soluzioni compromissorie. Deve scegliere e indicare la propria strada, con consapevolezza e ambizione: per rispondere alle aspettative dei cittadini, ma soprattutto per rispettare se stessa, la propria tradizione e il proprio futuro. Il mio auspicio per il 2010 è che la nuova amministrazione regionale sappia cogliere l’importanza e la pregnanza di questa sfida: un’occasione che la Toscana non può perdere.
Il signor Innocente Proverbio, 62 anni portati con irruenza, da quando è in pensione neppure d’inverno rinuncia alla passeggiata sul lungolago con il cagnolino al guinzaglio. Ogni tanto si ferma davanti agli oblò aperti nella palizzata che nasconde il cantiere del «Piccolo Mose». Guarda e vede il deserto. Perché i lavori sono fermi da un paio di settimane e dietro il sipario di legno nulla si muove. Il muro che il signor Proverbio per primo denunciò pubblicamente con una lettera alla Provincia, il quotidiano locale, è lì al suo posto e ci resterà ancora per almeno un paio di mesi. Monumento all’immobilismo italico, all’ingorgo di poteri e alle alchimie della politica.
Il muro in questione è una colata di cemento di 120 metri di lunghezza e 2,5 di altezza che dallo scorso mese di settembre è inopinatamente apparso sul Lungolago Trento, la passeggiata che si apre a sinistra di piazza Cavour, il cuore di Como. Da gennaio 2008 quello spicchio di riva è diventato riserva di caccia di gru e betoniere. Obiettivo: la costruzione di un sistema di paratie che difendano la piazza e i quartieri a lago della città dalle esondazioni del Lario. Un progetto da 15 milioni di euro, finanziato da Stato e Regione con i fondi della legge Valtellina. Peccato che il lago in piazza dal 1845 a oggi ci sia finito in tutto 17 volte. E che l’altezza delle paratie (230 centimetri) nulla avrebbe potuto contro le alluvioni veramente devastanti, tipo quella dell’ottobre ’93, con l’acqua a 265 centimetri sopra lo zero idrometrico.
Ma quei 15 milioni di euro facevano comodo soprattutto per rifare completamente il lungolago. Lugano, a pochi chilometri, vanta spazi verdi e aperti sulle acque del Ceresio. Como a tutt’oggi deve accontentarsi di una passeggiata larga pochi metri.
Perché — in tempi di vacche magre per le casse degli enti locali— non approfittare dell’occasione? E allora, dopo anni di discussioni e di progetti, via con il «Piccolo Mosé», gestito, per risparmiare, dall’Ufficio Tecnico del Comune. Tutto bene fino a che il direttore dei lavori, l’ingegner Antonio Viola, decide che il muretto di contenimento previsto dal progetto è troppo basso, in alcuni punti potrebbe diventare a rischio inciampo, e perciò lo corregge, portandolo a due metri e mezzo.
La variazione non incide per più del 5% sui costi complessivi dell’opera, per cui non ha bisogno né di nuove delibere, né di discussioni pubbliche. Il muro viene su alla chetichella fino alla scoperta del signor Proverbio. E lì apriti cielo: sollevazione popolare, marce di protesta, indagine della Procura. Bossi che tuona «No al muro, Como non è Berlino», la Lega che se la prende con il sindaco, maggioranza che vacilla, l’assessore responsabile delle grandi opere dimissionato con i voti della sua stessa maggioranza. Insomma un vespaio. Al termine del quale il sindaco Bruni (segno politico Pdl, ascendente Comunione e Liberazione) si rassegna e sentenzia: «Il muro verrà abbattuto». Eravamo ai primi di ottobre. A fine dicembre il muro è ancora lì. Come mai?
Fino a che la magistratura non avrà concluso la sua inchiesta, non è possibile tirarlo giù» spiega Bruni. Intanto non si sta con le mani in mano: la Regione scova nelle pieghe dei bilanci un paio di milioni di euro per sistemare il disastro, ci si accorda per un nuovo progetto che prevede solo paratie mobili e, nella parte che fronteggia piazza Cavour, anche trasparenti, che la vista del lago non ne soffra. Non solo, viene dato il via ad un concorso internazionale, “per la sistemazione ambientale e territoriale” della zona del lungolago.
E il muro? Il cantiere resterà chiuso fino a febbraio, quando sarà completato l’iter del nuovo progetto. Il primo colpo di piccone non potrà partire prima. E cosa c’è di meglio di una demolizione voluta a furor di popolo che parte giusto ad mese dalle elezioni regionali?
Fortuna che c'è la crisi a placare un po' il pressing delle ruspe. Se no, non si fermerebbero mai. Già che di suolo se ne mangiano, in Italia, quasi 250 mila ettari l'anno. E in 16 hanno costruito un'altra Torino ai margini della città, con un aumento di superficie edificata in provincia di 7.500 ettari. Dati che raccontano di un progressivo prevalere della grande e media proprietà immobiliare sui poteri di controllo degli enti locali. Di una politica non più attenta alle esigenze della collettività.
Niente di nuovo, è una spirale che affonda le radici negli anni Ottanta e ha contaminato anche la sinistra. Ma ciò che emerge nell'ultimo periodo è la capacità dei privati di imporre alle assemblee elettive la propria visione urbana (il proprio tornaconto). Mega progetti di cittadelle sportive, parchi divertimenti, villaggi residenziali in stile berlusconiano, che fanno leva sul simbolico, ma non rispondono mai a una reale domanda. Sintomo di una «bolla culturale» da cui non riusciamo a scuoterci. E, a tutto questo, si aggiungono gli strumenti di programmazione territoriale che si sostituiscono alla pianificazione urbanistica e ai vincoli che impone.
Ai tempi della giunta Novelli
«I progetti dei grandi potentati sono presentati come occasione irripetibile per assicurare un vantaggio alla collettività in termini di sviluppo economico e sociale». Lo spiega Raffaele Radicioni, uno che di urbanistica se ne intende: è stato assessore delle giunte Novelli dal 1975 al 1985. Quando si pensava a una Torino dalla struttura «a griglia» invece che radiocentrica, a rompere i confini tra centro e periferia, a trasformazioni urbane svincolate dalla rendita fondiaria, ad aprire a tutti l'elitaria collina e a ridurre il costo della casa. Allo stato delle cose, ha perso, ma alle sue idee ci tiene. E negli ultimi anni, oltre a essere l'autore del libro Torino invisibile, è stato protagonista di una lotta contro un progetto che racchiude lo scarto culturale di un'epoca. E anche le contraddizioni: «Un baratto tra pubblico e privato per costruire dove non si poteva».
È il caso Bor.Set.to, acronimo che prende il nome dai comuni che in quest'area, nella zona nord di Torino vicino alla tangenziale, si incontrano: Borgaro, Settimo e Torino. Un territorio conteso da 40 anni, che ciclicamente torna a far parlare di sé. Un polmone verde grande quanto Central Park, tre milioni e 200 mila metri quadri; l'unico spazio agricolo ai confini della metropoli. Nel passato ha fatto gola a Sogene, l'immobiliare prima del Vaticano poi di Michele Sindona, che sul terreno voleva dar luce a una «Città Satellite» da 60 mila abitanti e, negli ultimi anni, alletta Salvatore Ligresti. Il re del mattone, nonché della finanza, che - gettati alle spalle i guai giudiziari di Tangentopoli (condanna a 2 anni e 4 mesi per lo scandalo Eni Sai) - ha allungato le mani, o meglio il cemento, su Torino. Nel 2007 fu accolto con fasti dal sindaco Sergio Chiamparino. Arrivò in elicottero per la conferenza del MiTo, la manifestazione musicale tra Milano e Torino, e si incontrò in gran segreto con le istituzioni sabaude. Se ne fece un gran parlare. Sembrava che Totò avesse le mani sulla città: un grattacielo vicino a Porta Susa (accanto alla contestata Torre Intesa-Sanpaolo di Piano), dove insediare il quartiere generale di Sai Fondiaria di cui è presidente onorario, un altro lungo la Spina, la realizzazione della Biblioteca civica e il «gran baratto» del Bor.Set.to.
L'Expo di Milano sposta gli interessi
Ligresti, in quest'area, vorrebbe costruire una Falchera 2 (una delle ipotesi era di 1500 alloggi al posto del futuro parco dei laghetti). Diciamo un'edizione più à la page dell'attuale quartiere popolare, o forse per ironia della sorte una Milano 4, per la vicinanza con la futura stazione dell'Alta velocità, Torino Stura, che la renderebbe più appetibile ai palati meneghini. Adesso è tutto fermo: non è più il 2007, c'è la crisi e c'è anche l'Expo di Milano, dove si stanno concentrando le mire del patron di Sai. Il progetto rimane congelato ma non si sa fino a quando: «Probabilmente aspettano, con la fine del passante ferroviario nel 2012, le migliori opportunità immobiliari - pungola Emilio Soave, Pro Natura - perché, come ama ripetere l'assessore all'urbanistica del comune di Torino, Mario Viano, al privato si devono sempre fornire le più agevoli condizioni per investire». Ma anche nella tregua, meglio tenere le antenne ritte: «Un leitmotiv entra nel subconscio della gente come un mantra. Dicono, tanto non lo faranno mai, poi, appena l'attenzione scema, ecco le ruspe» sbotta Lucia Saglia, consigliere comunale Prc di Borgaro e animatrice del Coordinamento per la difesa delle aree Bor.Set.To.
All'inizio fu il Vaticano
Meglio raccontarla dall'inizio questa storia. «È uno dei più significativi casi di subalternità degli interessi pubblici rispetto a quelli privati», spiega Radicioni, storico membro del Collettivo d'architettura (Coar). Correva l'anno 1962 quando nacque la Urbanistica sociale torinese controllata al 71% dalla Sogene, l'immobiliare del Vaticano che nel 1963 acquistò i terreni al confine tra i 3 comuni, oltre 320 ettari, con l'intenzione - lo dimostrano gli atti d'acquisto - di costruirci la «città satellite». In aree di prima fascia agricola. Il progetto fu contrastato per 15 anni dal Pci e dalla sinistra Dc, fino a far saltare la testa del sindaco comunista Edoardo Defassi, invece favorevole. «Erano altri tempi» dice Radicioni, senza nostalgia né la celebrazione di un passato d'illusioni. Ma spiega: «Nei Settanta c'era un conflitto tra il privato, da una parte, e la cultura più qualificata e le amministrazioni di sinistra, dall'altra, che tentavano una politica di controllo e gestione del territorio».
Il cambio è nei primi Ottanta: «Maturò al termine del governo di unità nazionale e, in concomitanza, ci fu la sentenza del 1980 della Corte costituzionale: un colpo al governo delle città. Fu, infatti, rigettata la legge del 1977 sull'edificabilità dei suoli, sancendo l'illegittimità della separazione fra proprietà dei suoli e diritto di edificare». Erano anni rampanti.
Lo sbarco di Ligresti
Nel 1991 fallisce Sogene, i liquidatori vendono i terreni alla neocostituita Bor.Set.To. Azionisti sono le acciaierie Ferrero, la Coop Antonelliana (poi uscita di scena) e Valorizzazioni edili moderne, ovvero Salvatore Ligresti, che ne tirerà le fila. Prendono contatto con le amministrazioni e sondano le possibilità edificatorie. Nel 1996, le istituzioni coordinate dall'assessore provinciale Luigi Rivalta provano ad acquisire l'area per 30 miliardi. Tentativo fallito. Nel 1999, la Provincia stabilisce che, nel Piano territoriale di coordinamento, quel lembo di area metropolitana sia preservato allo sviluppo edilizio, rimanendo agricolo. Il Piano deve però essere approvato dalla Regione. E prima di essere votato passano quattro anni in cui capita un po' di tutto. Nell'«attesa» entrano in vigore due nuovi strumenti di programmazione che permettono di aggirare la pianificazione. Il primo è Urban (finanziato dal Fondo europeo) per lo sviluppo sostenibile di quartieri in crisi con l'insediamento di infrastrutture e attività produttive. Il secondo è Pruust, ideato dal ministero delle Infrastrutture, per la costruzione di una «Tangenziale verde», più o meno un parco.
«Sono il bastone e la carota ed è qui che prende piede il do ut des. Con il protocollo d'intesa del 2004 tra Comuni, Provincia e Regione - racconta Radicioni - si concede la possibilità di edificare sul 12% (271 mila metri quadrati) dei terreni, attività produttive, servizi, case, in cambio della cessione gratuita della restante proprietà (2 milioni e 7 mila metri quadri) destinata alla Tangenziale Verde». Intanto, nel 2003 il comune di Borgaro approva una variante al Prg che trasforma parte delle zone Bor.Set.To da agricole a servizi per parchi urbani e territoriali. Negli stessi anni, nasce il Coordinamento per la difesa delle aree, formato da cittadini e associazioni ambientaliste, con l'appoggio di Prc, Pdci e Verdi. «Incominciammo a elaborare un libro bianco - spiega Lucia Saglia - e a preparare un ricorso al Tar (tuttora in sospeso), perché la variante era palesemente in contrasto con il Piano provinciale».
La protesta degli abitanti
È il 2007 quando Ligresti alza il tiro: vuole quadruplicare l'area residenziale della parte torinese, spostandola da Borgaro e collocandola vicino alla Falchera: più allettante farlo qui, il villaggio, a due passi ci sarà la stazione dell'Alta velocità. C'è chi calcolò una plusvalenza di 100 milioni di euro. Ma gli abitanti scendono sul piede di guerra, da vent'anni attendono che i due laghetti del quartiere vengano recuperati in una zona da destinare a parco, così dice il protocollo. L'amministrazione Chiamparino sposa invece la linea Ligresti: i palazzi saranno costruiti a semicerchio attorno ai laghi. E il parco? Nel maggio del 2008 il costruttore siciliano fa retromarcia. Non richiede più la revisione del protocollo. Ma rimane tutto in ballo. «Le amministrazioni gli hanno fornito lo scivolo» commenta Soave. «Senza nessuna pianificazione, senza valutare se c'è bisogno di nuovi palazzi, visto che in città gli alloggi sfitti sono 30 mila».
La Variante 200
Ma così vanno le cose. Ad Albiano d'Ivrea da 10 anni parlano di Mediapolis, il parco divertimenti con tre centri commerciali davanti al castello di Masino. La società, promotrice del progetto (con sede in Lussemburgo), ha i permessi per iniziare: le istituzioni hanno pure stanziato i fondi, mancano quelli privati. A Torino, la novità è la variante 200, che oltre a contemplare l'utile linea metropolitana, prevede triplicati i diritti edificatori. E le abitazioni del nuovo boulevard della Spina 3 non sono un bel segnale. Certo, non è prerogativa torinese: in Parlamento, la proposta di legge Lupi sulla gestione del territorio introdurrebbe i privati nell'attività di scelta urbana. Per le grandi città forse è un'utopia la crescita zero, ma una pianificazione diversa è la sola strada percorribile.
Sulla vicenda di Bor.Set.To, un illuminante articolo di Raffaele Radicioni per eddyburg, del 2004
I Comuni della Val di Cornia, per decenni, sono stati portati ad esempio per i piani regolatori coordinati, redatti sin dagli anni ’70, e per l’aver previsto al loro interno la tutela di oltre 8.000 ettari di aree d’interesse archeologico e naturalistico. Da quei piani è sorto il sistema dei parchi, anch’esso attuato senza ricorrere ad Enti e con risultati che collocano questa esperienza tra i migliori esempi nazionali. Non è bastato. Disconoscendo il suo valore, le attuali amministrazioni sembrano preferire l’istituzione di un Ente parco regionale. La lista civica “Comune dei Cittadini”, nel Comune di Campiglia, ha fatto sentire il suo dissenso.
Dalla stampa apprendiamo che i Comuni hanno richiesto alla Regione di creare un “ente parco” per la Val di Cornia. Naturalmente di tutto questo non sanno nulla i Consigli Comunali, né è stato oggetto di una discussione pubblica.
Come noto, i parchi della Val di Cornia sono divenuti un punto di riferimento nazionale per l’essere stati concepiti, realizzati e gestiti direttamente dai Comuni tramite un loro soggetto strumentale. Qui non esistono enti che sostituiscono i Comuni nell’amministrazione del territorio del parco: gli obiettivi e le norme dei parchi sono contenute nella pianificazione urbanistica definita in forma coordinata dai Comuni sin dagli ’80.
L’assenza di enti intermedi, insieme alla feconda interazione con il mondo della ricerca scientifica e alla cultura d’impresa che si è formata nel management della società Parchi, è stata una delle ragioni del successo di questa esperienza. In poco più di 10 anni è stato messo in opera un sistema integrato di parchi archeologici, di musei e di aree naturali protette che ha tutelato il patrimonio, consentendo inoltre di raggiungere nel 2007 il pareggio di bilancio di parte corrente.
Senza nulla togliere alla funzione sociale degli enti parco (in molte realtà senza gli enti parco non si sarebbe protetto il territorio), si deve riconoscere che il modello adottato dai Comuni della Val di Cornia ha dato ottimi risultati. Questa è la ragione della grande attenzione che ha suscitato questa esperienza a livello nazionale. Del resto, a riprova, basta osservare ciò che è accaduto per il parco interprovinciale di Montioni dove sono occorsi 12 anni dalla sua istituzione per sottoscrivere, solo nel 2009, l’atto costitutivo dell’ente che dovrà gestirlo. Qualche riflessione andrebbe fatta.
Stupisce quindi che sia proprio la Val di Cornia a considerare oggi l’ipotesi di approdare a scenari che prevedono nuovi enti, piani dei parchi separati dai piani urbanistici dei Comuni, duplicazioni di funzioni amministrative e burocratiche. Se così sarà i Comuni rinunceranno a svolgere il ruolo di protagonisti primari della tutela del territorio che hanno avuto fino ad oggi, non senza contraddizioni. E vorrà dire che ci saranno stagioni in cui si sono fatti parchi ed altre in cui si fanno enti.
Campiglia, 19 dicembre 200
Gruppo Consiliare Comune dei Cittadini
Il cartello messo da qualche fan del comune annuncia urbi et orbi: 'Dal 19 febbraio potati 5.500 alberi!'. Tra cui, si sottolinea, '416 lecci'. Sotto la pubblicità un secondo cartello, appiccicato dai fascisti di Casa Pound. Lapidario. 'E 'sti cazzi! I cittadini di via Mastrigni vivono ancora sopra una discarica abusiva!'. Ecco qua. La diatriba un po' scurrile tra destra al potere e contestatori che più neri non si può, sintetizza alla perfezione lo scontento che serpeggia tra le strade e i vicoli della città eterna. Traffico, smog, spazzatura, trasporti e buchi nelle strade, "la Capitale più che a Milano sembra avvicinarsi sempre più a Napoli". Lo si sente dire sempre più spesso tra gli stranieri in visita al Colosseo, dai settentrionali costretti a scendere per lavoro sotto il Po e pure dai romani 'de' Roma', cittadini della capitale più degradata dell'Europa occidentale. Una vox populi che monta, passa di bocca in bocca, diventa quasi un luogo comune, praticamente certezza quando si parla di sporcizia, mobilità da manicomio e sicurezza urbana.
Non sono solo chiacchiere, ma insofferenze che trovano conforto nell'esperienza quotidiana dei forzati dell'Urbe e, soprattutto, negli indicatori formulati da studi di ricerca e istituti specializzati super partes. Al di là delle classifiche di fine anno sulla qualità della vita (in quella del 'Sole 24-Ore' Roma migliora di quattro posizioni, 'Italia Oggi' parla invece di "allarme" e la fa sprofonda dal 29esimo all'83esimo posto) i dati disegnano una città che sembra aver messo la retromarcia. O che, quando va bene, resta inchiodata sul posto.
Partiamo dal settore 'igiene e decoro'. L'Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali del Comune qualche settimana fa ha snocciolato le tabelle del rapporto annuale, dicendo, fuor di metafora, che le strade sono sporche da far schifo. L'aveva anticipato Silvio Berlusconi lo scorso maggio: "Roma sembra una città africana". Lo ripetono a novembre i cittadini intervistati dall'Agenzia: il loro indice di soddisfazione si ferma a un misero 4,4 su 10. I marciapiedi sono un letamaio perfino in centro, i cassonetti debordanti, mentre la raccolta differenziata è immobile, ancora sotto il 20 per cento. È una delle percentuali più basse registrate in Italia, nonostante i romani paghino tariffe del 35 per cento più alte rispetto alla media delle grandi città.
Viva l'automobile
Venerdì 4 dicembre. Causa mal tempo, la presenza di due cortei e di un qualsiasi piano anti-traffico, Roma si è bloccata. Accartocciata su se stessa in un delirio di macchine, scooter e taxi paralizzati nel peggior ingorgo degli ultimi anni. 'Il giorno del giudizio', recitano i titoli dei giornali locali. Un delirio che si ripete in scala ridotta altre volte nelle settimane successive, a ogni stormir di sciopero dei mezzi pubblici o per colpa di qualche goccia di pioggia. I vigili, nonostante siano stati muniti di pistola, non possono domare il Mostro, e si dichiarano sconfitti. Anche sul versante della mobilità, la Roma di fine 2009 resta anni luce da Berlino, Parigi, Londra o Madrid. Il giudizio dei residenti sulla metro è migliorato, ma la rete - che resta ridicola in termini chilometrici - per l'Agenzia non assicura "l'efficacia effettiva rispetto alle esigenze dei cittadini".
In attesa che il governo metta in piedi l'utopica colletta da 12 miliardi di euro, cifra necessaria secondo i tecnici del ministero dei Trasporti a liberare per sempre la Capitale dal traffico, quasi tutti sono costretti a ficcarsi sull'autobus e l'auto. Tram e affini (che pesano sul 70 per cento del trasporto pubblico) godono però "di scarso apprezzamento". Troppo pochi e affollati, troppo lunghi i tempi di percorrenza, troppo rare le corsie a loro riservate. Spesso congestionate di Suv e utilitarie, che complice l'apertura spesso indiscriminata dei varchi Ztl, sono le vere dominatrici dell'asfalto romano. Asfalto pieno di buche, come tradizione: archiviato mesi fa il maxi-appalto dell'imprenditore Romeo, non sono stati ancora assegnati gli otto lotti per i lavori di manutenzione ordinaria del manto stradale. Si viaggia a vista, sull'emergenza.
Risultato del combinato disposto: il pandemonio totale. E lo smog finito sopra ogni livello di guardia: secondo uno studio dell'Asl di fine 2008 mai pubblicizzato, i decessi da inquinamento 'evitabili' sarebbero migliaia. Ogni anno. Le polveri sono colpevoli di "una quota piccola ma rilevante di mortalità", e uccidono soprattutto anziani, donne e cardiopatici. L'analisi degli scienziati si conclude mestamente: "A Roma l'inquinamento ambientale costituisce un problema di sanità pubblica ancora molto rilevante". Alternative all'orizzonte non se ne vedono: secondo l'Agenzia l'urbe è "fanalino di coda nello sviluppo del car sharing", i parcheggi di scambio sono ai minimi. Anche la nuova organizzazione tariffaria delle strisce blu è disastrosa: se nel 2009 i furbi che non pagano la sosta sono rimasti stabili (circa il 12 per cento), sulle nuove strisce bianche a disco orario sono saliti al 22 per cento.
Trionfo dell'insicurezza Anche sul tema caldissimo della sicurezza non sono rose e fiori. I campi rom non sono stati ancora trasferiti fuori dal Grande Raccordo (il piano era della giunta Veltroni, Alemanno aveva promesso in campagna elettorale di rimpatriarli tutti) e i recenti episodi di violenza non hanno aiutato a rasserenare il clima. Gli effetti dell'ordinanza antiprostitute sono durati poco: le lucciole sono tornate presto sulla Salaria, sulla Colombo e sulla Tiburtina; gli eventi di via Gradoli e di Marrazzo hanno svelato la penosa situazione 'indoor' del fenomeno. Gli ultimi indicatori sono quelli dei carabinieri: nel 2009 segnalano per la provincia un calo del 12 per cento dei reati rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Molti hanno gridato al miracolo, ma secondo il sociologo Marzio Barbagli, "per capire davvero il trend, è necessario sempre e comunque analizzare serie storiche più lunghe". Miglioramenti e peggioramenti possono essere repentini e contingenti: il 2003, per esempio, è di gran lunga il periodo migliore dell'ultimo lustro, e per molti delitti il 2008 è stato peggiore del 2007.
Di certo, quest'anno è enormemente cresciuto il senso d'insicurezza dei cittadini: secondo il Rapporto Eures-Upi pubblicato a novembre, la metà esatta dei romani si sente meno protetta rispetto a 12 mesi fa. Solo un misero 4,1 per cento dichiara di sentirsi 'più sicuro'. Colpa, probabilmente, delle gesta omofobe di Svastichella e dei suoi epigoni, delle tragiche vicende degli stupri su minorenni e delle risse che caratterizzano le notti romane. Niente di strano, visto che le 'ronde' non si sono messe in moto, le periferie restano in stato di abbandono, la polizia non ha mezzi per presidiare a dovere il territorio. Intanto la criminalità organizzata si sta insediando dappertutto, da via Veneto ai ristoranti di Fiumicino: un analisi riservata della Direzione centrale della polizia criminale descrive le infiltrazione di Cosa Nostra, in particolare la famiglia Stassi e la 'ndrina calabrese dei Parrello, mentre la camorra resta campione del "traffico di droga, dell'usura, del riciclaggio, del gioco d'azzardo".
Il futuro è nero In tempo di crisi, l'angoscia principale, dice l'Eures, resta il lavoro. Le parole d'ordine sono 'sviluppo' e 'occupazione', che dovrebbero essere priorità assoluta dell'azione politica. Dal 2005 al 2008 Roma ha tenuto meglio di altre, perché strutturata da sempre sul pubblico impiego e il lavoro dipendente. Ma secondo Confindustria le prospettive per il futuro sono negative: il 5 dicembre gli economisti dell'associazione, valutando vari indicatori (dai posti di lavoro ai depositi bancari, dalla grande distribuzione alla 'consistenza' delle imprese, fino alle spese per spettacoli e alle esportazioni), hanno tolto la Capitale dalla top ten. Ora è 13 , lontana da Milano, Aosta e Bologna.
Anche il turismo, settore chiave dove lavorano decine di migliaia di romani, soffre da cani. I tourist angels, 16 ragazzi dotati di monopattini elettrici, maglietta rosa e logo Spqr spediti a Fiumicino e Termini a dare informazione agli stranieri, non hanno potuto da soli far molto. Nemmeno il promo-video firmato da Franco Zeffirelli, costato centinaia di migliaia di euro, ha cambiato il trend. Sarà la crisi economica e il dollaro debole, un Festival del cinema senza lustrini, l'Estate romana ridimensionata, la Notte bianca cancellata, fatto sta che il numero di presenze in albergo nel 2008 è crollato del 7 per cento, mentre nei primi sei mesi del 2009 (dati dell'ente bilaterale del turismo) le presenze totali sono scese di altri 5 punti.
Calma piatta pure a Natale, dove ci si aspetta circa 200 mila arrivi in meno rispetto al 2007, con un fatturato per gli hotel in picchiata, ha detto il presidente di Federalberghi Giuseppe Roscioli, "del 20-30 per cento". Se le botticelle anacronistiche (Michela Brambilla dixit), ristoranti e taxi piangono, il settore commerciale, a causa della recessione e di affitti alle stelle, non ride: più di un migliaio di negozi sono stati chiusi nel 2008, altrettanti abbasseranno le saracinesche nel 2009.
Tante promesse Alemanno è sindaco da quasi due anni. Un tempo in cui è riuscito a farsi un po' di nemici, e una schiera sterminata di delusi. Retromanno, Lupomanno, Alè-danno, re Tentenna, sono alcuni dei nomignoli con cui viene sbeffeggiato dai critici di ogni colore. "Un uomo solo al potere, circondato da una schiera di incompetenti. Un sindaco che più che a un secondo mandato lavora per diventare futuro leader del Pdl", sospettano nel Pd e congiurati del centro-destra, tendenza Forza Italia. Alemanno è accusato da più parti di governare non con atti concreti, ma con promesse e parole. Sfogliando le pagine del libro dei sogni, in effetti, c'è di tutto: un "accordo preliminare" con Bernie Ecclestone per portare la F1 all'Eur, la candidatura per le Olimpiadi del 2020, il centro città da pedonalizzare "entro 5 anni", il raddoppio dell'aeroporto di Fiumicino, il waterfront del litorale di Ostia, i parchi tematici, i campi da golf, la costruzione di case popolari, il polo turistico sulle campagne dell'agro-romano.
Annunci sfornati anche dai tanti componenti della celebre Commissione Marzano (per il restauro della sede di via Baccelli si prevedeva una spesa di 271 mila euro, più altri 30mila per gli arredi), ma mai diventati operativi. Alcune delle loro idee sono state rilanciate qualche giorno fa attraverso il Progetto Millennium, sorta di Stati generali che a maggio dovrebbero realizzare un nuovo piano strategico per la città.
Secondo le opposizioni si tratta di "fuffa pura", progetti destinati a rimanere sulla carta. Nel mondo reale, il gradimento sugli asili e l'assistenza agli anziani scende, i fondi della legge Roma Capitale non sono stati ancora ri-finanziati (gli ultimi denari li ha messi Prodi), i miliardi del Cipe per le opere pubbliche sono finiti quasi tutti al Nord. Le casse comunali piangono, e molte delle 20 società del Campidoglio sono in profondo rosso. Non solo per il 'buco' lasciato da Veltroni, ma anche per le performance mediocri delle municipalizzate, Acea su tutti. Senza l'Ici tolta dal governo, è poi mancata una fonte di gettito essenziale. Tanto che il bilancio per la prima volta da lustri non verrà approvato a Natale: si vocifera che sia in cantiere l'aumento della Tarsu, delle rette degli asili e del biglietto della metro.
Qualche euro è stato ovviamente speso, e i pochi appalti assegnati disegnano parte della nuova mappa del potere. I costruttori dell'Acer, attraverso Patrizio Furio Monaco, hanno per ora incassato la commessa da 140 milioni per la tramvia che collegherà l'Eur con Tor de' Cenci, mentre Franco Gaetano Caltagirone ha all'attivo gli accordi su Acea (oggi l'uomo forte nella ricca azienda elettrica è un suo fedelissimo, Marco Staderini). Un subappalto da circa 20 milioni per alcuni servizi dentro gli asili comunali è stato invece assegnato alla Team Service, co-proprietaria di Obiettivo Lavoro, la società collegata alla Compagnia delle Opere dentro cui è confluita anni fa la Lavoro Temporaneo, un tempo diretta dall'amico del sindaco Franco Panzironi, attuale amministratore di Ama. Emilio Innocenzi, ex presidente di Team Service, non ha però potuto festeggiare: è stato arrestato lo scorso giugno in un'inchiesta su tangenti e appalti nella sanità. Alemanno sembra voler emulare il governatore lombardo Formigoni: a un'altro consorzio vicino alla Cdo ha concesso qualche milione per il servizio di apertura, "anche forzosa", degli alloggi degli sfrattati. Si tratta di Labor, ovviamente partner anche lui di Obiettivo Lavoro.
Offresi poltrona Qualche mese fa il Comune aveva contestato 'L'espresso' perché aveva svelato come, in meno di un anno, sindaco e assessori avessero assunto 182 collaboratori esterni, per una spesa tra stipendi e oneri previdenziali di 18 milioni e mezzo. Ebbene, quei numeri erano esatti, presi pari pari dalle delibere di giunta. Non solo: Alemanno non ha smesso di assumere. Quasi un vizietto, un tic che ha contagiato anche gli amministratori messi dal primo cittadino a capo delle municipalizzate. Sommando contratti a termine e a tempo indeterminato, tra Comune, Ama, Trambus, Metro e altre società in house, in meno di due anni sono stati assunti ad personam circa 500 tra ex precari, professionisti ed esperti veri e presunti, amici, amici degli amici e famigli. Molti, ça va sans dire, con il cuore che batte a destra.
Ormai l'ufficio stampa del Campidoglio è composto da ben 64 unità, di cui 23 esterni. Una cosa mai vista prima. Segreteria e uffici di gabinetto costano come non mai. Con la scusa del risparmio i vecchi dipendenti lamentano di non poter fare più straordinari, ma di recente i magnifici 182 sono stati raggiunti da altri 25 fortunati. Il Gastone è Antonino Turicchi, nuovo 'direttore esecutivo' che pesa sul bilancio per 349 mila euro l'anno, figura che secondo Alemanno "avrà il compito di assicurare la coerenza, l'efficacia e l'economicità dell'attività di gestione". Un doppione, dicono invece i critici, del potente segretario generale Antonio Lucarelli e del (già pagatissimo) capo di gabinetto Sergio Gallo. Il 4 novembre sono stati assunti il professore appassionato di poesie Fabrizio Giulimondi (110 mila euro l'anno), Giovanni Formica, l'ex vicepresidente della Cdo di Roma Paolo Gramiccia (136 mila) e Marco Cochi (fratello del consigliere delegato allo Sport).
Non si bada a spese nemmeno all'Ama, la municipalizzata che raccoglie spazzatura, dove Panzironi ha assunto oltre 60 persone. Nonostante un rosso record che nel 2008 ha toccato i 256 milioni, un buco che ha costretto il comune ha regalare all'ente il Centro carni, mega complesso immobiliare ancora da costruire. Ebbene, all'Ama sono entrati gli amici di Alemanno come Luca Panariello, l'ex naziskin Stefano Andrini, il genero di Panzironi Armando Appetito (2.904 euro lorde al mese), Carmela Gallo (una sua omonima ha lavorato con il sindaco quando era ministro), Fabio Massimo Fumelli (licenziato dai veltroniani nel 2007 è stato riassunto con uno stipendio da 6.431 euro al mese), e decine di altri contratti a tempo indeterminato. In tutto, i nuovi stipendi viaggiano intorno al milione e mezzo l'anno. Stessa linea anche alla Me.tro spa, dove si segnalano tra le decine di assunzioni quella di un consigliere municipale di An (Giuseppe Sorrenti), di un ex candidato di Forza Italia alle comunali 2006 (Emanuele Pesciaroli) e di Giuliano Falcioni, ora autista dell'amministratore delegato, ieri taxista e sindacalista vicino all'Msi.
"Quando è troppo, è troppo" sostiene qualcuno, senza sapere che il medico personale e gran consigliere di Alemanno, Adolfo Panfili, è stato designato delegato alla Salute, mentre la di lui consorte Valeria Mangani è diventata vice-presidente della società AltaRoma. Le indiscrezioni parlano di consulenze al giornalista Enrico Cisnetto (chiamato dalla Fiera di Roma, per 'Italia Oggi' incasserebbe 280 mila euro) e all'intramontabile Maurizio Costanzo. L'anchor-man è consigliere personale per la 'comunicazione sociale', ma ha precisato che svolgerà la mansione a titolo gratuito. Speriamo: nelle casse del Campidoglio non c'è davvero più un euro.
Fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, quando la popolazione della capitale è già più che raddoppiata rispetto a quella del 1870 e veleggia oltre il mezzo milione di abitanti, i borghi abusivi degli immigrati (manovali, muratori, scaricatori, popolo minuto) si chiamano “villaggi abissini”. Nei borghetti, ha scritto Mario Sanfilippo nel suo esemplare volume Le tre città di Roma, uscito da Laterza nel 1993, “si rifugiano i nuovi immigrati poveri, attratti dalla ‘febbre edilizia’, ma anche gli espulsi dalla città regolare e coloro che possono costruirsi soltanto un riparo di fortuna”. Sono gli effetti dei grandi sventramenti umbertini che Mussolini riprenderà potenziandoli, fra via dell’Impero, corso Rinascimento, Spina di Borgo, Augusteo e creando le prime borgate del regime, a cominciare da Primavalle. Nel 1911 si contano già almeno una trentina di insediamenti precari. È cominciata a Roma la lunga e dolorosa storia dell’edilizia illegale la quale ha per decenni, fino agli anni Settanta del Novecento, una radice e una ragione sociale profonda. Sulla capitale si rovesciano infatti masse di immigrati – anche centomila all’anno un quarantennio fa – che vengono dal Lazio interno misero e affamato, dal Sud, in particolare da Campania e Sicilia.
Nel 1938, quando Adolf Hitler viene in visita a Roma, il corteo ufficiale deve sfilare davanti al Verano, e allora le baracche abusive dei diseredati vengono celate da un grande pannello dipinto con pini a ombrello. Neppure il fascismo, la cui attività edilizia risulterà intensissima, riesce ad affrontare, pur coi grandi mezzi che Mussolini mette a disposizione della città-immagine dell’Impero tornato sui colli fatali, il nodo dell’abusivismo edilizio. Del resto proprio il duce ha fatto saltare i conti demografici della metropoli evitandole, caso unico, l’applicazione delle leggi fasciste contro l’immigrazione spontanea. Per emigrare, bisogna avere un lavoro e una casa e nessuno dei poveri che lasciano campagne e paesi ce l’ha. Così, rispetto al 1921, la Roma della Liberazione ha più che raddoppiato gli abitanti giunti al milione e mezzo di persone.
Nel dopoguerra, con le maggiori città ridotte spesso a macerie, il fenomeno dell’edilizia illegale dilaga in tutta Italia, anche nelle aree più sviluppate del Nord. Sono abusive intere “città della domenica” alla periferia di Milano, nei comuni della “cintura” settentrionale, come Limbiate e Paderno Dugnano, dove le chiamano “coree”, affollate di immigrati veneti, calabresi, siciliani, campani. Nel 1959 collaboro con Camilla Cederna (il fotografo è Ugo Mulas) a una inchiesta per l’“Espresso”. Passiamo attraverso incredibili periferie “spontanee” alle quali poi bisognerà portare tutti i servizi, primari e secondari. Il fenomeno, di proporzioni impressionanti, si riassorbirà, grazie all’azione dei governi e dei comuni di sinistra e di centrosinistra, soltanto negli anni Settanta. Lì come a Torino o a Venezia Mestre. Ma già sulle riviere liguri e lungo la costa romagnola o toscana l’abusivismo è diventato il grimaldello della speculazione edilizia, che fa saltare i piani regolatori e pone le basi per la cementificazione delle nostre coste. Di litoranea in litoranea, di lungomare in lungomare, dei 1240 chilometri di dune sabbiose in faccia all’Adriatico, ne sopravviveranno, alla fine del secolo scorso, appena 120, cioè meno del 9 per cento. Per la Liguria Giorgio Bocca conia sul “Giorno”, dove conduce inchieste informate e taglienti, due neologismi: “Lambrate sul Tigullio” e “rapallizzazione”.
Quando vengo, nel 1974, a lavorare a Roma, al “Messaggero”, mi occupo molto e molto liberamente di urbanistica. Vado in Umbria e lì l’assessore regionale alla partita, il comunista Ottaviani, mi garantisce che l’abusivismo edilizio, da loro. è ormai del tutto sconosciuto. È così anche al Nord che ho appena lasciato, tranne i “punti neri” di alcune riviere. A Roma invece va avanti come una fiumana: le inchieste giornalistiche del tempo fissano in 800 mila il numero dei romani i quali risiedono in case illegali. Sono quindi 800 mila stanze abusive, non allacciate alle fognature, fra l’altro, e che quindi determinano un inquinamento terribile delle marane, delle falde idriche e del Tevere. Una sorta di anti-città che viene ben descritta nel volume-inchiesta che Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta dedicano alle Borgate di Roma, dove si dimostra, fra l’altro, che autentiche “colonie” di immigrati si sono fermate – e formate – all’ingresso delle vie consolari a Roma: campani sull’Appia, abruzzesi sulla Prenestina, marchigiani e umbri sulla Flaminia e così via. Sono gli anni dell’epos drammatico e populista dei pasoliniani Ragazzi di vita (1955) e di Una vita violenta (1959). Di quegli stessi anni è il film Il tetto di De Sica e Zavattini, uno dei più deboli forse e però da ricordare come documento cinematografico delle “case della domenica”, dell’autocostruzione nel decennio Cinquanta nella capitale, e non solo. Ma, accanto alle case, ai borghi e ai borghetti abusivi, si cominciano a sviluppare intere lottizzazioni non meno abusive che, sulla pelle dei più poveri, della stessa micro-borghesia e del Comune, si ramificano nell’Agro cementificando intere zone verdi e lucrando profitti enormi. Come testimoniano le inchieste e le fustigazioni continue di Antonio Cederna, sul “Mondo” e poi sul “Corriere della Sera”, le campagne dell’“Espresso”, di “Paese Sera” e dell’“Unità”, e i libri del sociologo Franco Ferrarotti, come Roma da capitale a periferia. Ci vorrà lo sforzo enorme delle prime amministrazioni di sinistra dopo tanti anni di sgoverno (Argan, Petroselli, Vetere) per sanare, a carissimo prezzo, la ferita immane dell’abusivismo e per dare forma di città a quella anti-città.
Nel 1984, nell’imminenza di nuove elezioni amministrative comunali, facciamo svolgere, al “Messaggero”, una inchiesta sull’abusivismo edilizio affidandola al Censis di Giuseppe De Rita. Cosa ne emerge? Che l’abusivismo “sociale” o “di necessità” è ormai poca cosa rappresentando il 4,5 per cento dell’edilizia illegale a Roma. Ecco emergere quindi i protagonisti del nuovo abusivismo romano: speculatori i quali imboccano la solita scorciatoia per costruire villoni da quattro appartamenti almeno, uno per sé, uno per gli altri membri della famiglia e due almeno da vendere o da affittare. Tutto rigorosamente in “nero”. E spesso con finanziamenti facili che venivano dal racket, dalla malavita. Ma cosa fanno i notai, le aziende pubbliche dell’elettricità, dell’acqua, del gas? Nulla di nulla.
È, per l’appunto, il nuovo abusivismo romano che viene raccontato in questo importante libro, scritto in presa diretta come una cronaca vera e viva, dalla giornalista Chiara Lico, e che ha come protagonista positivo Massimo Miglio, titolare per molti anni dell’Ufficio comunale antiabusivismo, esposto a minacce, attentati, initimidazioni e però sempre sulla breccia quando le amministrazioni di centrosinistra s’impegnano a fondo. Un dirigente essenziale, prezioso, per competenza e coraggio che invece la giunta di centrodestra guidata da Gianni Alemanno ha praticamente sollevato dall’incarico e che, per fortuna, ha trovato nuovi spazi d’azione e di tutela dell’interesse generale presso la Regione Lazio su di un territorio devastato da abusi di ogni tipo, ovunque arrivi un po’ di sviluppo, dalle città dell’interno al litorale, campo di esercitazione prediletto. Anni fa lo scrittore Alberto Moravia espose una sua insolita teoria: l’abusivismo diffuso nasceva, a suo dire, soprattutto dalla totale assenza di cultura urbana che caratterizzava immigrati meridionali i quali – gli abruzzesi in particolare – erano in origine pastori nomadi. Non so quanto fondamento avesse. Certo esiste una “cultura dell’abuso edilizio e urbanistico” che, negli anni Settanta, riguardava essenzialmente la grande area da Roma alla Sicilia e che oggi, dopo i condoni edilizi del 1984, del 1994 e del 2003 (governi Craxi, Berlusconi 1 e 2), è risalita anche al Centro-Nord dove risultava quasi estinta o comunque limitata a piccoli abusi (lo stenditoio, che diventa, ad esempio, mansarda). Una autentica tragedia nazionale. La quale ha concorso a estendere le ramificazioni del crimine organizzato, sotto forma di racket o di “assistenza” interessata.
In questo libro, utile in sé e per sé, frutto di una ricerca sul campo penetrante, è decisamente interessante l’analisi della natura dell’abusivismo romano, delle sue diverse fasi storiche nonché la descrizione dei vari tipi umani che ne sono stati o ne sono i protagonisti: l’abusivo semplice, “storico”, e cioè quello della “casa della domenica” a blocchetti di tufo; l’abusivo speculatore, i cosiddetti “speculatori mediani” che diventeranno spesso famosi come i furbetti del mattone; l’abusivo scientifico, quello che fa leva sul condono del 2003, con intenti speculativi molto mirati godendo di assistenza legale e tecnica continua (e che magari ha nel centro storico uno dei suoi terreni privilegiati di azione illegale); l’abusivo arrogante che si avvale anche di appoggi e di omertà decisamente allarmanti, di segno malavitoso. Ma non mancano pure casi stupefacenti di abusivismo “istituzionale” legato ad alcuni centri di potere politico-istituzionale che pensano di fare, più o meno, quello che vogliono. Certo è che, indebolitesi ormai le tracce di una “necessità sociale”, l’abusivismo sceglie i propri nuovi insediamenti nelle aree più pregiate della capitale, ai margini delle zone archeologiche o di grandi parchi, quello di Veio, in specie, che “entra” dentro Roma. Ma senza trascurare naturalmente l’Appia Antica dove tante sono state le demolizioni, specialmente sotto la presidenza di Gaetano Benedetto. Nel libro fanno impressione cifre da capogiro, capannoni da tre-quattromila metri cubi.
Un fenomeno che non si riesce a estirpare, anche per la progressiva riduzione (fino alla sparizione) dell’edilizia pubblica, in specie quella sociale in un Paese che è di nuovo finito ai primi posti di una classifica europea della vergogna. Un fenomeno del quale, anche per stanchezza (oggi è un po’ troppo facile, in verità), l’informazione si interessa a cicli, a ondate, senza fare il suo mestiere di scandaglio continuo, incessante, di ogni legalità, a partire da questa che somma illegalità urbanistica, edilizia, occupazionale, contributiva, fiscale, con ripercussioni negative sull’intero arco dei beni primari di una città e di un Paese. L’augurio è che una ricerca come questa – che fra l’altro contiene una cronistoria di casi di grande leggibilità e pertanto ancor più scioccante – concorra a risvegliare le coscienze intorpidite, a porre le basi per una ripresa dell’impegno civile e democratico per la legalità in generale e contro un groviglio micidiale di illegalità, di abusi, di mafiosità. Davvero in questa battaglia – che è una battaglia di civiltà – non possiamo mollare, non possiamo rassegnarci a subire il corso delle cose. Siamo sempre più i peggiori dell’Europa sviluppata e avanzata, retrocediamo agli ultimi posti. Stiamo stuprando, imbruttendo e dissipando, oltre tutto, un patrimonio di bellezza paesaggistica e ambientale che dovremmo invece conservare con la massima cura, anche soltanto per ragioni economicistiche, di tipo turistico-commerciale. Siamo stupidi e ciechi. Ma stiamo pure appannando una identità culturale nazionale, subendo quei “profani e scelerati barbari” dei quali Raffaello, primo soprintendente alle antichità dell’era moderna, denunciava nel 1519 i guasti orrendi. A forza di edilizia legale e illegale, in questi “anni di cemento” (e di asfalto), abbiamo consumato tanta buona terra agricola o a bosco e a pascolo dell’Agro Romano da far retrocedere il pur vastissimo comune di Roma dal primo al terzo posto (dopo Cerignola e Foggia) nella classifica dei comuni agricoli italiani. E senza aver affrontato seriamente l’emergenza-casa che si ripropone e che sposta i problemi della città oltre il gran raccordo anulare, addirittura oltre i confini della stessa provincia di Roma. V’è di più, in regioni ipersviluppate, come la Lombardia e il Veneto, la libertà di ogni pianificazione fondata sulla salvaguardia dell’interesse pubblico sta diventando tale che, paradossalmente, non ci sarà neppure più bisogno di costruire abusivamente. Il rapporto passa già, direttamente, fra i comuni e i maggiori detentori di aree, con la cancellazione di quella conquista di civiltà che erano stati, con la legge-ponte del 1968, gli standard urbanistici coi quali si prescriveva la dotazione, nei piani regolatori, di una certa quota per abitante di verde, di scuole materne e primarie, di strutture culturali, di quanto insomma fa della civile Europa, dalla Svezia all’Olanda, alla Germania, la civiltà dell’abitare di un popolo. Noi regrediamo ad un tale imbarbarimento urbanistico che edilizia legale e illegale finiscono praticamente per confondersi. E con un presidente del Consiglio tragicomico che, di fronte alle macerie del centro storico dell’Aquila, straparla per giorni di “new town” (poi, al solito, smentirà), pensando non a quelle volute, tanti anni fa, dai laburisti inglesi, ma alla “sua” Milano 2.
Roma, giugno 2009
Messina. Tre ore scarse di lavoro, uno sbancamento di qualche centinaio di metri quadrati, due ruspe “prese a prestito”, un cancello chiuso con lucchetto e sigillato con legature in fil di ferro, e tanti saluti. Ci si rivede il 7 gennaio. La posa della prima pietra del ponte, attesa da quarant’anni, è tutta qui. Le defezioni del premier Silvio Berlusconi prima e del ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli dopo l’hanno azzoppata. Le continue puntualizzazioni del personale presente sul fatto che si trattasse dell’apertura del cantiere senza alcuna pietra da posare, hanno fatto il resto. Il ponte sullo Stretto nasce così.
Un mercoledì da leoni
“Guardi, non ci risulta che ci sia alcun coinvolgimento di Impregilo, non è prevista nessuna attività. Noi non ne sappiamo niente”. L’ufficio relazioni pubbliche di Impregilo, impresa capofila di Eurolink, l’associazione temporanea di imprese che materialmente dovrebbe costruire costruire il ponte, della posa della prima pietra non ne sa nulla. Al momento simbolico mancano una quindicina di ore. È il pomeriggio di martedì 22 dicembre. A Cannitello di cantieri non ce n’è ombra, nemmeno la rete arancione che delimita il cantiere. “A dire la verità noi non ne sappiamo granché. Ad occuparsi di tutto dovrebbe essere Eurolink. Comunque, si tratterà delle opere propedeutiche ai cantieri, messa in sicurezza e cose del genere”. Anche alla Stretto di Messina cadono dalle nuvole. Della prima pietra nessuno ne ha conoscenza, su chi la poserà c’è il più assoluto mistero. E dire che Impregilo dell’inizio dei lavori dovrebbe saperne qualcosa, visto che la sua quota di già stanziati per il ponte è di circa 500 milioni di euro, e che il suo titolo a piazza Affari a Milano ha registrato un’impennata del 3,36% alla comunicazione dell’inizio dei lavori.
In realtà, un tecnico del colosso delle costruzioni di Sesto San Giovanni a Cannitello c’è. Si chiama Paolo Brogani, e dirige i lavori sotto la supervisione dell’Anas. Che lavori? “Quelli propedeutici all’apertura dei cantieri”, è il mantra ripetuto allo sfinimento dalla decina di tecnici e addetti ai lavori presenti. Di prima pietra nemmeno a parlarne: il progetto della variante di Cannitello è ancora “sub judice”, impossibile posare prime pietre. A fianco dello spiazzo parzialmente “bonificato”, scorre la ferrovia. Se tutto va secondo i piani, tra 18 mesi scorrerà qualche metro più in alto. “Massimo 35, nel tratto di maggiore ampiezza della curva”, spiegano dall’Anas. Ad eseguire i lavori, si affannano a sottolineare i responsabili, è l’Eurolink, l’associazione di imprese capeggiata da Impregilo che ha ottenuto il ruolo di general contractor. Una notizia vera a metà. O anche meno.
Mi presti la ruspa?
Al lavoro nel cantiere ci sono due mezzi. Un escavatore rosso ed una ruspa gialla. Entrambi, nelle fiancate, hanno attaccati alla bell’e meglio gli adesivi “Eurolink Scpa”. Terminati i lavori, e stesa la rete arancione, i cingolati se ne vanno. L’escavatore giusto una decina di metri più in là, dentro un cantiere privato a spostare massi. Il proprietario, della prima pietra, non vuole saperne niente. “Sacciu nenti du ponti, ieu”, esclama allargando le braccia. La ruspa, invece, viene caricata su un camion, diretta al luogo d’origine: il terzo macrolotto dell’autostrada A3. L’eterna incompiuta Salerno-Reggio Calabria. Perché, sotto l’adesivo Eurolink, spunta il nome dell’impresa proprietaria del mezzo. Che è la Europea 92 di Isernia, al lavoro sull’autostrada in un consorzio che si chiama Erea assieme alla Ricci Costruzioni.
Il consorzio Erea fa parte a sua volta di un’associazione temporanea di imprese, affidataria dei lavori del macrolotto. Un “subappalto” dato all’Ati dal committente Anas spa, che ha pensato bene di sfruttare le economie di scala, cercare in “famiglia” e fare arrivare a Cannitello un mezzo e otto operai dai vicini cantieri dell’autostrada. Beffa delle beffe, la Europea 92, per la costruzione di una diga in Algeria ha un committente “scomodo”: la Astaldi, ditta concorrente di Impregilo nell’appalto (poi aggiudicato da quest’ultima) per i lavori del ponte. Che non inizieranno, per bene che vada, prima del 10 febbraio.
I nodi irrisolti
Guido Signorino è un economista dell’Università di Messina. In due semplici parole spiega il perché del “bluff della prima pietra”. Fino al 10 febbraio il progetto è soggetto alle osservazioni da parte dei privati. Quindi, di fatto, non esiste. Non c’è”. E, a rigor di legge, non potrebbe esserci. Il perché lo spiega lo stesso Signorino. “In origine, la bretella ferroviaria (un chilometro per 23 milioni di euro, ndr) avrebbe dovuto realizzarla Rfi. Lo diceva la delibera Cipe del 2006, che sganciava l’opera dall’operazione ponte. Era un progetto che viveva di vita propria. Senonché – continua Signorino – a luglio del 2009 una nuova delibera Cipe assegna la realizzazione alla Stretto di Messina che l’affida al general contractor. Che quindi inizierà formalmente i lavori sul ponte. E se per qualsiasi motivo poi il ponte non si farà, ci saranno le penali da pagare”. Da 390 a 630 milioni di euro, secondo il Wwf, a seconda che si consideri il 10% del valore di aggiudicazione della gara o dell’investimento totale. per un’opera che, per ammissione dell’amministratore delegato della Stretto di Messina, Pietro Ciucci, non ha alcuna attinenza con il ponte. Per questo motivo, la regione Calabria ha impugnato di fronte al Tar la delibera Cipe del 31 luglio.
Inaugurazione a lutto
“Il 23 dicembre è una giornata importante. Non per la prima pietra, ma per i funerali di Franco Nisticò”. La giornata “campale”, la rete No ponte la celebra così. Franco Nisticò, ex sindaco di Badolato, è morto sabato 19 dicembre, per un infarto, subito dopo aver gridato dal palco della manifestazione contro il ponte il suo deciso “no” ad un’opera calata dall’alto che non ha mai ascoltato i bisogni di un territorio e di una comunità. “Qualcuno ha definito Franco Nisticò la prima vittima del ponte”, hanno concluso i responsabili della rete.
Al Collatino erano previste opere pubbliche e campi sportivi regolamentari, un polo espositivo e una biblioteca. Ora invece il sindaco regala ai costruttori il venti per cento in più di residenziale.
«Adesso è chiaro quale è la ricetta di Alemanno per le periferie romane». «Una colata di cemento». La voce del consigliere di opposizione Massimiliano Valeriani è indignata, se possibile sconcertata, ma i dati che snocciola sono oggettivi. Al Collatino, periferia sud-est di Roma, intorno al nuovo centro carni si era articolata una importante trasformazione urbana, che puntava sulla riqualificazione.
Ora invece nello schema di assetto preliminare elaborato dalla giunta di centro-destra si passa, per l’edilizia residenziale da 4000 abitanti a 10.000. Nel piano elaborato dalla giunta Veltroni il mix urbanistico prevedeva il 32% di residenziale, il 51% di funzioni pubblice e il cosiddetto flessibile (cioè nella disponibilità del costruttore se ci sono problemi di costi o altro) al 15%. Nella previsione attuale i rapporti sono capovolti: il 42 per cento è destinato ad appartamenti, quantità a cui va aggiunta la quota flessibile aumentata al 23%; mentre scendono al35%le opere di interesse pubblico.
NIENTE IMPIANTI SPORTIVI
Oggi alle 12 è convocata una conferenza stampa di protesta a cui parteciperanno i presidenti del V, VI, VII municipio, perché la riqualificazione urbana dell’area intorno al Centro carni aveva coinvolto tutti: cittadini, istituzioni, squadre sportive. E il piano accolto dalla giunta Veltroni proprio grazie alla condivisione delle scelte prevedeva cose ben precise: una biblioteca di livello metropolitano,un polo espositivo delle scoperte archeologiche della zona ricchissima di reperti, impianti regolamentari di pallavolo e di pallacanestro, anche perché al Collatino ci sono due squadre che si collocano ai livelli alti della classifica nazionale.
Tutto questo è sparito o trasformato in generici impegni, mentre chiarissime sono le indicazioni che vengono dalla quantità di metri cubi: una colata di cemento finalizzata al massimo della «valorizzazione».Ma c’è di più: il Campidoglio ha ceduto la proprietà dei terreni pubblici ad Ama, l’azienda di smaltimento dei rifiuti che affoga nei debiti. Anche la giunta precedente intendeva utilizzare i profitti ricavati dalla valorizzazione per ripianare una parte del debito Ama. Ma una cosa è mantenere l’interesse pubblico, «che è quello di fare asili e opere di riqualificazione del territorio, un’altra è cedere tutto a chi ha solo interesse a guadagnare il più possibile».
Il Centro carni, per di più, non è la sola realtà su cui si concentrano gli appetiti speculativi. A poche centinaia di metri di distanza, il piano particolareggiato “casilino” prevede un indice di edificabilità dell’uno e quaranta per cento, quasi triplicato rispetto alle previsioni del piano regolatore.
«La mobilitazione comincia solo ora. - dice Valeriani - Quello che succede con il Centro Carni non è inaccettabile solo per noi,ma per tutti i cittadini, tutti i comitati. È inaccettabile anche per gli elettori di Alemanno
Alessandro Bianchi è stato sempre uno dei più incalliti contestatori del Ponte di Messina. Anche quando era ministro dei Trasporti, nel passato governo Prodi, non ha mai nascosto il suo scarso feeling con un’opera dalui definita «inutile, dannosa » e per la quale, ancora, «non si conoscono bene tutti problemi legati all’impatto della struttura».
Com’è possibile che a pochi giorni dalla posa della prima pietra non si abbia ancora un quadro chiaro sui costi e benefici dell’opera?
«Semplicemente perché non è stato presentato un progetto definitivo. Le opere pubbliche hanno bisogno di tre tipi di progetti prima di poter iniziare la costruzione: quello di massima, quello definitivo, sul quale vengono rilasciate le varie autorizzazioni e fatte le verifiche ambientali, e poi un progetto esecutivo sul quale si realizza l’opera. Ecco non esiste né il progetto esecutivo né quello definitivo. Esiste solo il progetto di massima. Tutte le verifiche di impatto ambientale non si sono fatte e non si possono fare perché non c’è uno schema completo ».
I problemi strutturali sono tutti aperti.
«Certo. I geologi dell’area hanno fatto vedere che il pilone che ricadrebbe sul territorio calabrese, a Villa San Giovanni - Cannitello, va ad appoggiare su un punto di frana naturale. Questo in condizioni normali. Si immagini con un peso di quel genere. Con un piccolo sisma avremmo danni incalcolabili».
Un terremoto da quelle parti non è un fatto così inusuale.
«Tenga conto che quella è una delle tre zone a più alta pericolosità sismica del mondo dopo Giappone e California. Il terremoto di Messina del 1908 è stato uno di quelli con maggiore magnitudo. Quindi è molto probabile che avvengano sismi anche di intensità non elevata ma che metterebbero a rischio la struttura del Ponte».
Secondo lei, dunque, si parte alla cieca. Per realizzare poi cosa?
«Un’opera che non serve a nessuno. Non serve ai calabresi che non hanno strade per raggiungerla, non serve ai messinesi che ne saranno scavalcati ».
Scavalcati?
«Se parto dalla Calabria e sto sul Ponte quando arrivo dall’altra parte, dove finisce l’acqua, Messina me la ritrovo sotto, a 70 metri più in basso. E siccome per guadagnare terra serve una pendenza dello 0,01 per cento, altrimenti i treni deragliano, occorrono decine di chilometri di svincoli per poter arrivare in Sicilia. Quindi parto da Reggio ma arrivo a Milazzo o a Catania».
È stato detto che il Ponte è strategico perché ci avvicina all’Africa..
«Anche questa è una bella bufala. Ammesso che si riuscisse ad attraversarlo visto che ci sono mesi, specie quelli invernali, che dovrebbe star chiuso per i forti venti, una volta sbarcati in Sicilia si arriva a Mazara del Vallo e poi? Poi si resta lì perché c’è il mare».
Il 6 novembre scorso il ministro dei Trasporti Altero Mattioli dichiarò: «Confermo che il Ponte si realizza in gran parte con capitali privati attraverso il project financing. I capitali pubblici servono solo per le opere a terra».Maè davvero così? Il Ponte di Messina sarà finanziato dai privati? La risposta è no. Alla fine sarà solo lo Stato a farsene carico. Fu così anche con il sistema Tav. Si disse che l’opera sarebbe stata garantita dalle grandi imprese. I mille chilometri di Alta Velocità sono finiti, invece, tutti sulle spalle del cittadino. A una cifra salatissima: 32 milioni a chilometro, secondo i parametri delle Ferrovie, 60 milioni secondo le stime di comitati indipendenti. Comunque dalle tre alle cinque volte rispetto al prezzo iniziale.
LO SCHEMA
Per il Ponte non andrà diversamente. Lo schema o la catena contrattuale, come ci spiega Ivan Cicconi, direttore dell’Istituto per la Trasparenza Aggiornamento e Certificazione Appalti (Itaca) sono gli stessi. Come nell’Alta Velocità, l’architrave dell’inganno sta nell’affidamento «da parte dello Stato alla Stretto di Messina Spa della concessione per la costruzione e la gestione dell’opera». Normalmente è attraverso la gestione che si dovrebbe recuperare l’investimento che si fa. Èil rischio che un’impresa corre. Costruisce l’opera e poi ne gestisce i guadagni. Ma non in questo caso. «Il rischio nel caso del Ponte è in capo alla Stretto di Messina spa. Una società di diritto privato ma con soci e capitale tutti pubblici». Come Iritecna, che è posseduta al100%dal ministero dell’Economia, Anas spa, di proprietà del Tesoro, e quote insignificanti della Regione Calabria e della Regione Sicilia. Il costruttore, invece, è un altro. In questo caso è un consorzio di imprese guidato da Impregilo, che assume il ruolo di «general contractor ».Chevuol dire? L’affidamento a contraente generale si differenzia da un normale appalto pubblico per un elemento: «Il contraente generale - spiega Cicconi - èun concessionario. E quindi è quello che fa la progettazione esecutiva e che nomina la direzione dei lavori». In poche parole è quello che esegue i lavori e che li dovrebbe controllare. Che cosa rischia il contraente generale? Dal punto di vista finanziario nulla. «È pagato al 100% dallo Stretto di Messina spa, con la semplice differenza, rispetto a un appalto, che anticipa circa il20%del costo di costruzione». Ma è solo una partita di giro. Alla fine dei lavori il consorzio avràcomunque i suoi soldi indietro. Ne deriva che il contraente generalenon ha nessun interesse oggettivo e soggettivo a fare presto e bene. «Potrà aumentare i costi dell’opera, come è successo con la Tav, come vorrà. Nessuno potrà contestargli rialzi nei prezzi». In qualsiasi caso, sia ci metta cinque anni, come scritto nel contratto, sia venti come è plausibile avvenga, è pagato al 100% da Stretto di Messina spa.
CHI GUADAGNA E CHI PERDE
In sostanza, lo schema consente di avere due piccioni con una fava. Permette alle grandi imprese costruttrici di avere guadagni sicuri ma anche alle banche di fare affari certi. In che modo? Siccome Stretto di Messina è una spa, e quindi è fuori dai conteggi del Parametro di Stabilità europei, può richiedere qualsiasi tipo di finanziamento. Di solito i prestiti e relativi interessi sono coparto attraverso la gestione dell’opera (in questo caso i pedaggi). «Ma è stato calcolato - spiega Cicconi - che per recuperare l’investimento sul Ponte solo con gli introiti di gestione occorrano dai 150 ai 200 anni». Un lasso di tempo un po’ troppo lungo per le banche. Quindi sarà lo Stato a dover sborsare subito i soldi. «È il cosiddetto debito a babbo morto». Proprio come successo con la Tav nel 2006. Quando pagammo alle banche 13 miliardi di euro. In contanti.
Il bluff della prima pietra: costi in più per i contribuenti
Iolanda Bufalini
È stato annunciato in pompa magna e, nei piani originari, sarebbe dovuto andare Berlusconi. Ma,in realtà, cosa succederà il 23 dicembre? Il cantiere che si apre è quello della variante di Cannitello, lo spostamento di un tratto di binari ferroviari dal centro di Villa San Giovanni all’esterno della cittadina. Un investimento pubblico di 26 milioni di euro che non ha a che fare direttamente con il Ponte e che, probabilmente, sarebbe stato più utile investire in opere più urgenti sulla costa calabra (a cominciare dai problemi del dissesto idro-geologico). Tanto più che ad oggi non esiste un progetto esecutivo per la Grande opera dello Stretto e ancora non si sa se effettivamente si potrà fare. Le obiezioni degli esperti sono, infatti, molto importanti e numerose.
Il ponte chiuso dal vento.
A cominciare da quelle formulate da Remo Calzona, che è stato consulente dell’Anas e del governo ma che da convinto sostenitore è diventato fortemente critico. Per l’ingegnere la campata troppo lunga rischia di oscillare al forte vento dello stretto e il ponte di restare chiuso per 200 giorni l’anno.
L’evoluzione dei grattacieli.
Un altro ingegnere che ha sollevato forti critiche alla campata unica è Federico Mazzolari, che insegna alla Università Federico II di Napoli: «Prima di parlare di ponti - sostiene Mazzolari - può essere istruttivo esaminare l’evoluzione dei grattacieli» Dal 1931, anno di costruzione dell’Empire State Building (alto 381 metri) al 1973, anno di inaugurazione delle sfortunate Twin Towers (415 metri) , fino ai 450 metri delle Torri di Kuala Lumpur in Malesia, la crescita dei grattacieli è stata di 127 metri in 73 anni. Un’evoluzione veloce nei primi anni e poi costante ma abbastanza lenta. Passando ai ponti: i primi a superare la lunghezza dei mille metri furono il Washington Bridge di New York e il Golden Gate di San Francisco (1931). Oggi il ponte più lungo è l’Akashi-Kaikyo Bridge in Giappone (1990 metri): ci sono voluti settanta anni perché l’evoluzione delle tecniche ingegneristiche consentissero un aumento di 900 metri della luce di un ponte a campata unica. La domanda è: quali innovazioni tecnologiche consentono oggi di fare un salto di oltre mille metri per raggiungere i 3 chilometri e 300 che distanziano Scilla e Cariddi? Gli esperti non hanno notizia di innovazioni tecnologiche eccezionali che, in ogni caso, dovrebbero essere oggetto di confronto scientifico. Tanto più che il ponte sullo Stretto dovrà consentire anche il passaggio dei treni. Il ponte di Lisbona costruito sul fiume Tago nel 1973 è stato il primo tentativo di utilizzazione mista, ferroviaria e stradale. È lungo poco più di un chilometro e, per i treni, è rimasto chiuso fino al 1998, dopo 25 anni di lavori di adeguamento della struttura.
Un’unica grande via trans/europea che da Berlino arriva a Palermo, scavando il Brennero e gettando l’avveniristico ponte con tremilatrecento metri di luce sullo Stretto. Sogno ingegneristico ed economico per unire la Sicilia al continente ma, come dice uno spot sul gioco responsabile, «bisogna sognare senza illudersi». Altrimenti il risveglio potrebbe essere brusco e la scommessa foriera di cattive sorprese: «Attenti a non unire due cosche anziché due coste», mette in guardia la rete «No ponte». A scendere dal mondo dei sogni con i piedi per terra dovrebbero aiutarci gli studi preliminari (1986 e 2003) che proiettavano le loro ipotesi al 2012.
«Ma ormai ci siamo» osserva Gaetano Giunta, che è stato presidente della commissione sul Ponte del consiglio comunale di Messina. «Oggi quelle previsioni le possiamo confrontare con ciò che è successo». Le previsioni sulle magnifiche sorti e progressive dell’economia siciliana stimavano 8 milioni di passeggeri sullo Stretto nel 2000, 9 milioni 700mila nel 2012 (un aumento del 20 per cento su base annua nel caso di una crescita economica bassa) oppure 12 milioni 300mila in caso di crescita economica alta (un aumento 52%).
Queste stime si sono rivelate sbagliate per più motivi. Purtroppo la crescita economica non è stata quella prospettata: gli estensori dello Studio di impatto ambientale ipotizzavano che il Pil sarebbe cresciuto del 4,4% nell’ipotesi migliore e dell’1,7%, nell’ipotesi peggiore. «E ci marciavano - sostiene Gaetano Giunta - perché il traffico passeggeri non cresce di pari passo con il Pil». Come sono andate effettivamente le cose? Nel periodo 2001-2007 l’economia siciliana è cresciuta dello 0.9 % e quella calabrese dell’1%, l’anno migliore è stato il 2001 (2,8%), dal 2002 in poi lo sviluppo è stato sempre inferiore a quello del Centro nord.
Merci via mare
Ma, in tutti questi anni, che le cose andassero bene o male, il traffico marittimo delle merci sullo Stretto è sempre diminuito mentre è cresciuto l’export via mare da Palermo, Trapani, Catania, Messina e, ovviamente, da Gioia Tauro. È per mare che le merci arrivano da e per il Nord e, si presume, tanto più si svilupperanno negli anni in cui il gigantesco cantiere metterà sottosopra Scilla e Cariddi. Chi è che fa la spola nei traghetti dello Stretto? Oltre ai pendolari fra Messina e Reggio (poco trans/europei) ci sono i “padroncini”. I possessori di un furgone o camioncino che portano la merce da paese a paese: un traffico residuale che difficilmente giustifica la Grande Opera in Project Financing. Chi mette i soldi dovrebbe poter rientrare attraverso i pedaggi, ma se il traffico non giustifica l’opera, allora molto difficilmente si troveranno forze imprenditorialmente sane disposte a rischiare i 3.300 milioni di euro richiesti.
Tutto questo alimenta due tipi di preoccupazione. La prima: il Ponte potrebbe rivelarsi una grande occasione di riciclaggio per le mafie delle due sponde sinergicamente interessate al controllo del territorio, alla copertura del traffico di droga , alla gestione dei posti di lavoro. E ci sono attività come il movimento terre, gli espropri, il ciclo del cemento e i servizi ai cantieri che sono particolarmente a rischio perché settori tradizionalmente infiltrati da organizzazioni. La seconda: i costi sono ora ripartiti al 40% per lo Stato e al 60% per i privati. Ma se il Ponte fallisse chi si assumerebbe il passivo? Alla fine l’intero costo potrebbe finire a carico del debito pubblico e dei contribuenti.
È un no con molti sì, quello contro il Ponte sullo Stretto che ha manifestato a Villa S.Giovanni.
Se la parola capitale non configgesse con il termine sociale, potremmo dire che il «capitale sociale» scende in piazza per rivendicare autonomia e salvaguardia del territorio meridionale e per un altro modello di «sviluppo». Più di 150 associazioni, dai centri sociali alla Cgil, dalle associazioni culturali, ai comitati locali alle grandi associazioni ambientaliste, hanno aderito alla manifestazione contro l'insostenibile ponte sullo Stretto di Messina e sostenuto una articolata piattaforma programmatica. Messa in sicurezza delle abitazioni e delle scuole nelle aree sismiche e idrogeologicamente instabili; bonifica dei territori inquinati e del mare; un sistema di trasporti leggero, articolato, multimodale e sostenibile (anche in attraversamento dello Stretto); infrastrutture utili e necessarie, beni comuni (ad esempio e in primo luogo l'acqua); difesa e riqualificazione dei patrimoni ambientali e culturali: questi sono alcuni dei punti che qualificano lo slogan «tanti sì, un solo no - fermiamo i cantieri del ponte, lottiamo per le vere priorità».
A questo movimento, che risponde all'iniziativa della «Rete No Ponte», si sono affiancati partiti della sinistra ed istituzioni (regione, provincia e comuni). La Giunta Regionale della Calabria ha aderito alla manifestazione e, finalmente, con coerenza esce dal consiglio di amministrazione della Società Stretto di Messina.
«Capitale sociale», ovvero intelligenza collettiva che crea coesione e network sociale, a onta di chi sostiene che il Sud è solo familismo, clientela e mafia, si schiera contro il capitale finanziario e la dispossession (sfruttamento a fini di accumulazione privata) dei territori. Il no al progetto del ponte non si basa quindi soltanto sulle critiche alla inutilità trasportistica di questa assurda infrastruttura, al devastante impatto ambientale in un'area - quella tra Scilla e Cariddi - rivendicata come patrimonio dell'umanità, allo sperpero di danaro pubblico che, secondo una logica di «keynesismo all'incontrario», passerebbe dalle mani degli abitanti e dei contribuenti a quelle di poche corporation private. Il no al ponte - che peraltro ancora non dispone di progetti definitivi e esecutivi e presenta inoltre gravi carenza tecnico-strutturali e enormi rischi dal punto di vista geologico e sismico - è un no a un obsoleto concetto di modernizzazione, che si vorrebbe imporre come modello all'intero paese. Il movimento e la rete sociale e istituzionale che sono scesi in piazza affermano la priorità dei sistemi locali sostenibili e la loro autonomia a fronte dei devastanti processi di globalizzazione, la priorità della partecipazione diretta e della iniziativa dal basso a fronte della pericolosa crisi della democrazia, l'importanza della cura dei luoghi e dei patrimoni ambientali e culturali, una appartenenza riflessiva, aperta e solidaristica, strettamente connessa alla ricchezza dei milieux meridionali.
Nel denunciare l'imbroglio del presunto avvio delle opere connesse al Ponte i manifestanti di Villa si oppongono non solo e non tanto a cantieri che probabilmente non si vedranno mai, ma alla colossale truffa che si sta perpetrando ai danni dei cittadini italiani, non solo siciliani e calabresi: si accelera la procedura di riaffido del progetto ad Impregilo proprio perché in mancanza di progetto esecutivo - come spiegano diversi amministrativisti in queste ore- così verranno pagate operazioni che l'impresa potrà non eseguire e tra l'altro si riattiveranno le penali a carico dello stato, e quindi di tutta la comunità nazionale, a suo tempo congelate dal governo Prodi.
Nemmeno il finto avvio dei lavori del «binario morto di Cannitello» può essere effettuato, almeno con procedura regolare: il progetto cui esso appartiene (che non è quello del ponte) è tuttora sotto verifica di «ottemperanza delle prescrizioni ambientali» che non si potrà concludere prima del febbraio 2010 e che blocca l'avvio, anche solo formale, dell'iter. Siamo all'imbroglio nell'imbroglio.
E allora “No Ponte! significa buttare definitivamente a mare il vecchio modello di sviluppo meridionale” - tra l'altro rivelatosi fallimentare -che ha prodotto i disastri economici e ambientali di cui sono marcati i contesti siciliani e calabresi.
Natale a Beverly Hills è un film di interesse culturale. Avete capito bene, non è una battuta alla Crozza: il cinepanettone di Neri Parenti che sta invadendo le nostre sale natalizie è stato riconosciuto - dalla Commissione cinema del ministero con delibera dello scorso 4 dicembre - film di «interesse culturale». Decisione da confermare, dopo la «visione della copia campione del film». Se la commissione preposta all’erogazione dei finanziamenti pubblici al nostro cinema, confermerà tale decisione, la «gastroenterica» commedia della Filmauro di De Laurentiis potrà accedere - sia ben chiaro - non a contributi in denaro, ma a tutta una serie di agevolazioni, create per sostenere il cinema di qualità. Per esempio sgravi fiscali (tax credit), il riconoscimento di film d’essai, la possibilità per il distributore di accedere ad un fondo - questo sì in denaro - in relazione agli incassi.
«Si tratta di un precedente di una gravità estrema», dice Citto Maselli dell’Anac, la storica Associazione degli autori. «In questo modo, infatti, si permette ad un film, di legittimo e straordinario valore commerciale, di accedere a quei circuiti riservati, invece, ai film italiani ed europei di qualità che soffrono di una visibilità limitata».
PICCOLI ESERCENTI IN RIVOLTA
Lo sanno bene quegli esercenti eroici, resistenti alle lusinghe del cinema commerciale, che si battono per tenere aperte le loro piccole sale di provincia, programmando, appunto, cinema di qualità. Come Arrigo Tumelleri, per esempio, proprietario del Cinema Verdi di Candelo, paesino di 8mila anime in provincia di Biella, «sgomento» alla notizia del riconoscimento di «film culturale» per Natale a Beverly Hills. «Posso capire - dice - che un tale “bollino” sia dato, magari, ad una commedia d’esordio di Ficarra e Picone. Ma un film di Neri Parenti che incassa milioni perché dovrebbe ottenere certe agevolazioni?».
CIARPAME CULTURALE
Nell’Italia del «ciarpame culturale», insomma può capitare anche questo. Come pure che, il «bollino doc» del ministero, venga rifiutato - è accaduto nella stessa sessione del 4 dicembre - ad un film che di «culturale» avrebbe tutti i crismi: Morire di soap di Antonietta De Lillo, la regista del pluripremiato Il resto di niente che qui propone una riflessione sul contemporaneo, stravolto dal soffocante potere televisivo. Troppo «culturale», evidentemente per i nostri tempi. Meglio le Winx che, infatti, hanno ottenuto il riconoscimento del ministero.
Ma alla base di certe scelte, diciamo così, surreali, c’è soprattutto un meccanismo di legge, per accedere ai finanziamenti pubblici, che fa acqua. Stiamo parlando, infatti, del «reference system» che fu introdotto, ai tempi, dal ministro Urbani. Per ottenere l’accesso ai fondi pubblici, infatti, bisogna avere già in tasca degli ottimi «voti». Tipo: premi, cast famoso, buoni incassi. Se la «pagella» vale si è idonei per accedere al denaro pubblico, che può essere anche il riconoscimento di interesse culturale, appunto, con o senza denari. In questo modo, va da sè, che un certo cinema meno allineato sulla «medietà» italiana ha più difficoltà. Ricordiamo, anni fa quando, parlando appunto di «reference system», suscitammo le ire del ministro Urbani chiedendo: ma non si richiesca in questo modo che il denaro pubblico, invece di aiutare il cinema d’autore, vada a finanziare i cinepanettoni? Ebbene ci siamo arrivati. Il prossimo passo sarà Il Grande fratello sotto l’alto patrocinio del Capo dello Stato.
Postilla
All’amaro sorriso che accompagna questa notizia, aggiungiamo due considerazioni minime a commento della dilagante insipienza che alberga al Collegio Romano (sede Mibac). L’evidente corto circuito di cui quest’ultimo episodio è riprova, è il frutto di un sistema appiattito in partenza sui meccanismi quantitativi: se un film ha buoni incassi, ha maggiori probabilità di accedere alle agevolazioni ministeriali.
Non solo da questo episodio risulta chiaro come la logica imperante cui l’ultima gestione ministeriale si è adeguata, sia quella del numero e della quantità: i numeri delle top list e l’aumento quantitativo dei turisti sembra essere d’altronde l’unico obiettivo culturale del Direttore Generale alla Valorizzazione così come trionfalmente dichiarato nell’autocelebrativa conferenza stampa di due giorni fa.
E’ il processo di trasformazione del bene culturale in merce che, come segnala da sempre eddyburg, caratterizza questa fase politica della gestione del territorio e dei beni comuni nel loro complesso e che si accompagna, come in questo caso, inesorabilmente, all’inversa sublimazione della merce in bene culturale: il cerchio si chiude. (m.p.g.)
Un altro commissariamento (quello di Brera) e un altro incarico per Mario Resca da poco al Mi.BAC quale direttore generale “valorizzatore” dell’intero patrimonio storico-artistico. La strategia del governo è chiara: “commissariare” l’Italia, con proconsoli liberi di assumere decisioni importantissime senza dover rispettare le normali procedure, di spendere forti somme senza il controllo della Corte dei conti, di appaltare grandi lavori accorciando i normali e trasparenti percorsi.
Dopo Pompei, le aree archeologiche di Roma e Ostia (col pretesto di vari disastri ambientali...), i lavori per gli Uffizi, tocca alla “grande Brera”. I soprintendenti in carica (e quindi scaricati) obietterebbero facilmente – se non fossero colti da afasia (a parte i compattissimi e ammirevoli archeologi di Roma e Ostia Antica) – che, con quelle scorciatoie e quei fondi, loro avrebbero fatto altrettanto senza dover stipendiare un altro ben pagato Commissario straordinario. Il quale: a) di musei sente parlare solo da qualche mese; b) ha tanti altri incarichi che si tiene ben stretti.
Mario Resca – pur essendo stato oggetto di pungenti interrogazioni parlamentari (Giulietti, De Biasi, Ghizzoni, Melandri, Adamo, ecc.) – è tuttora incollato alla poltrona di consigliere della Mondadori SpA controllante in toto di Electa, la maggiore impresa di servizi museali.
Per i quali è lui ad avere la delega specifica (gare d’appalto incluse). È inoltre presidente di Confimprese, dell’American Chamber of Commerce in Italia, di Finbieticola (dismissione di zuccherifici e di maxi-aree), promotore di centrali elettriche nel Vogherese, consigliere di Arfin, ENI, UPA e Finance Leasing SpA. Ora pure vicerè a Milano per Brera.
A quando Commissario straordinario del Ministero trasformato in ipermercato?
Se è vero che l’identità di un paese si rispecchia nelle sue biblioteche, la fotografia nazionale appena prodotta dal ministero dei Beni Culturali ci restituisce il ritratto di un’Italia smarrita, priva di memoria, che volge le spalle alla sua stessa tradizione. Nell’arco di cinque anni, le risorse finanziarie per l´attività delle biblioteche pubbliche statali - quarantasei istituti, tra cui la Braidense, la Laurenziana, la Malatestiana, l´Angelica e la Casanatense - sono state ridotte della metà (da trenta milioni a sedici milioni di euro), con un depauperamento ancora più marcato per le due Biblioteche Nazionali Centrali di Roma e Firenze, custodi delle stesse fonti dell’identità nazionale italiana. Dall’acquisizione dei libri alla valorizzazione, dalla prevenzione alla tutela, dai servizi per il pubblico all’informatizzazione, non c’è passaggio nell’attività delle biblioteche che oggi non mostri limiti e disfunzioni. Il confronto con la British Library di Londra o la Bibliothèque Nationale de France finisce per essere mortificante. E per l’istituto romano di viale Castro Pretorio, si rischia la chiusura.
Il merito di aver prodotto un quadro aggiornato del "costume bibliotecario degli italiani" è della stessa Direzione generale per le Biblioteche. «Mi auguro che sia lo strumento per ottenere maggiore attenzione politica e soprattutto un incremento di fondi», spiega il direttore Maurizio Fallace. Il rapporto redatto da una commissione di esperti non è sospettabile di ambiguità: la situazione appare molto critica, quasi disperata. Diminuisce la qualità dei servizi, decresce di conseguenza anche la domanda, ossia il numero dei prestiti e delle persone ammesse al servizio. «Se non si aggiornano le collezioni librarie e se non si ha la possibilità di catalogare tempestivamente il materiale acquisito, anche l’utenza è scoraggiata», recita il rapporto del ministero. Per inquadrare il malessere, basterà qualche cifra.
Se nel 2005 si spendeva per il patrimonio bibliografico 8.263.311 euro, la previsione per il 2010 è di 3.605.877. La spesa per il funzionamento del servizio bibliotecario informatico passa da cinque milioni a meno di quattro milioni di euro, mentre per la tutela dei libri e dei documenti la perdita è ancora più secca: da 3.525.966 a 650.000 euro (consentita appena la manutenzione degli impianti di sicurezza, antifurto o antincendio, mentre mancano le risorse per i lavori di spolveratura, rilegatura, disinfestazione). Anche la catalogazione nel Sistema Bibliotecario Nazionale mostra una vera emorragia: dagli 823.821 euro del 2005 agli 84.645 euro previsti per il prossimo anno. Cifra del tutto inadeguata: solo per il materiale del Novecento, sono almeno cinque milioni i volumi non ancora catalogati (il loro recupero costerebbe circa venti milioni di euro).
Emblema del grave declino è rappresentato dalle due Biblioteche Centrali, di Roma e Firenze. Quella romana risulta oggi la più sacrificata, con una dotazione di 1.590.423 euro (rispetto al 2001 la decurtazione è pari al 50 per cento): per un buon funzionamento occorrerebbero almeno trenta milioni di euro. Il paragone con le sorelle europee è schiacciante: la dotazione annua della Bibliothèque Nationale de France è 254 milioni di euro, quella della British Library supera i 159 milioni. Se riferiti al personale, i dati sono ancora più clamorosi. Anche in questo caso, la comparazione può essere utile: alla Bibliothèque Nationale lavorano 2.651 persone, in quella inglese 2.011, a Firenze 205, a Roma 264: complessivamente le due biblioteche nazionali italiane hanno un patrimonio librario equivalente a quello parigino - circa 14 milioni di volumi - ma vi lavora meno di un quinto del personale impiegato a Parigi.
Le conclusioni del rapporto non fanno presagire niente di buono. Per la Biblioteca Nazionale di Roma, «le risorse attualmente disponibili non bastano a garantire neppure la pura e semplice sopravvivenza dell’istituto». Come distruggere la propria carta d’identità, quella in cui siamo venuti meglio.
Il 19 dicembre si mobiliterà il popolo del «No Ponte» proprio nei giorni in cui il governo, attraverso il Cipe, ha cominciato a sperperare denaro pubblico per finanziare la progettazione del Ponte sullo Stretto di Messina, costo iniziale 6,3 miliardi di euro, ed avviare la variante ferroviaria di Cannitello a Villa San Giovanni (costo 27 milioni di euro) che è sbandierata da Matteoli come l'inaugurazione dell'opera.
La decisione del governo Berlusconi di rifinanziare il Ponte sullo Stretto, che era stato definanziato dal governo Prodi, è un insulto all'Italia che frana e alle sue vittime, ai pendolari, ai cittadini del Sud che non hanno infrastrutture ferroviarie degne di questo nome, alle centinaia di migliaia di persone che ancora oggi non hanno acqua potabile in casa a causa dell'assenza di acquedotti, alle settemila persone che ogni anno muoiono a causa dello smog provocato dal traffico nelle grandi città mentre si azzerano i fondi per il trasporto pubblico.
Il Ponte sullo stretto è il simbolo della grande contraddizione di uno sviluppo che divora risorse ambientali ed economiche non affrontando le vere priorità del paese. Le operazioni complessive attorno al Ponte e i 12 cantieri, di cui uno in pieno centro a Messina, ribalteranno l'assetto della zona interessata: solo a Ganzirri, ecosistema pregiato e protetto, si dovranno espropriare 700mila metri cubi di costruzioni, cambiare destinazione d'uso a 180mila metri quadrati di terreno.
Il Ponte è inutile e insostenibile sia sul piano economico che ambientale. La società Stretto di Messina Spa ha sottostimato i costi e i tempi di realizzazione del Ponte e sovrastimato i benefici. La società prevede sei anni e sei mesi per costruire ponte e 24 chilometri fra gallerie e raccordi. Per lo Store Baelt, in Danimarca, ci sono voluti dodici anni. Se si considera che il Ponte sullo stretto ha delle dimensioni doppie rispetto a quello danese, la stima della durata dei lavori sale almeno a 20 anni con ovvie conseguenze sui costi. Che la società (a consuntivo) valuta in sei miliardi di euro, inflazione compresa (la stima è sui prezzi 2002).
Si tratta di una valutazione che non tiene conto almeno di tre elementi: 1) l'incremento del costo dell'acciaio; 2) la credibilità dei tempi di realizzazione dell'opera; 3) l'effetto di prescrizioni e raccomandazioni che il Cipe ha fatto nell'approvare il progetto preliminare. La conseguenza è che le spese lieviteranno sicuramente almeno a nove miliardi di euro.
Anche il Capo dello Stato, dopo la tragedia di Messina, è intervenuto in modo netto: prima di realizzare opere faraoniche bisogna mettere in sicurezza il territorio. Il punto è che con quelle risorse si potrebbero realizzare infrastrutture socialmente utili dalla messa in sicurezza del territorio, ben 80 Km di metropolitana o acquistare nuovi treni per i pendolari. Il Ponte è figlio della stessa logica che ha portato il governo a reintrodurre il nucleare in Italia. Ossia quella di creare una torta di appalti pubblici, che avrà un costo per i cittadini di almeno 30 miliardi di euro, da spartire.
Ho un grande rammarico che dalle pagine del manifesto voglio ricordare. Il governo Prodi poteva chiudere definitivamente la vicenda Ponte se l'allora ministro dei Lavori pubblici, Antonio Di Pietro, non si fosse opposto allo scioglimento della Società Ponte sullo Stretto, adducendo false motivazioni di inesistenti penali da pagare. Oggi siamo a un paradosso: se Berlusconi deve ringraziare qualcuno per l'avvio dei lavori del Ponte...questi si chiama Di Pietro.
* Presidente dei Verdi
ALCUNE BREVI CONSIDERAZIONI POLITICHE
E ALCUNE PROPOSTE
GUIDA ALLA LETTURA
(in calce il link al testo completo)
Sommario delle osservazioni:
- Dalla documentazione pubblicata rileviamo che nel piano di governo del territorio mancano i seguenti elementi fondamentali: una città e un piano di governo del territorio. Si rinuncia cioè ad un qualunque governo politico del territorio.
- Procedendo per sottrazioni, il PGT detta le condizioni del collasso liquidativo del territorio, nella misura in cui deregola il comportamento degli agenti economici.
- Il pubblico si ritira e consegna ai privati una borsa di compravendita di diritti edificatori scambiabili in una pura logica di mercato cui si sacrifica ogni bene comune non negoziabile.
- I servizi si precarizzano nel regime di sussidiarietà orizzontale.
- L'operazione Expo detta la scadenza 2015 e si sovrappone perfettamente come logo della corrispondente città vetrina.
- Occorre che i soggetti reali rivendichino un vero PGT dall'approccio sistemico. Questo PGT va fermato.
PREMESSE
Legge regionale, PTR e PTCP
La Regione Lombardia ha approvato dal '99 ad oggi una serie di provvedimenti dalla L.r9/99 sino alla legge regionale 11.3.2005 n.12 con lo scopo di ridisegnare il quadro della strumentazione legislativa in materia urbanistica.
Il PGT (Piano di Governo del Territorio) viene supportato nelle sua stesura dal PTR (Piano Territoriale Regionale) considerato dalla Regione “unausilio ai Comuni nella predisposizione dei Piani di Governo del Territorio (PGT)”. Contemporaneamente, viene sempre meno il ruolo, già debole, del PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Milano), che viene schiacciato fra una pianificazione comunale milanese sempre più proiettata verso una dimensione metropolitana “di area vasta” e una strategia territoriale regionale aggressiva, avvolgente e centralizzante.
Cos'è il PGT
L'art.23 dispone che i Comuni provvedano all’approvazione del PGT come documento che sostituisce le funzioni del "vecchio" PRG (Piano Regolatore Generale) - quale atto per la definizione dell’assetto dell’intero territorio comunale.
Il PGT è articolato in 3 atti nominati come: Documento di Piano (PdP), Piano dei Servizi (PdS) e Piano delle Regole (PdR); il PdS dovrebbe occuparsi della definizione delle strutture pubbliche o di interesse pubblico mentre il PdR dovrebbe definire propriamente la destinazione delle aree individuando quelle per l'agricoltura, quelle di interesse paesaggistico, storico o ambientale, quelle non trasformabili, nonché le modalità degli interventi sugli edifici esistenti e su quelli di nuova realizzazione.
Nell'iter, il PGT deve essere discusso in commissione consiliare, in Giunta ed in Consiglio Comunale. Al momento della stesura di questo testo la tempistica sta slittando.
Brevi note sulla presentazione del materiale
Il solo PdP - in mancanza degli altri due atti - presentato come "Proposta di Documento di Piano" di 370 pagine corredato di "Sintesi non tecnica" e Rapporto Ambientale, è stato "messo a disposizione" per la "partecipazione", anzidetta "consultazione", nel luglio 2009 (cioè poco prima delle ferie estive con scadenza delle osservazioni subito dopo le ferie), presso il Palazzo Comunale o per il download dal sito web del Comune attraverso 33 files di diverse centinaia di Mb.
La disponibilità alla "consultazione" pubblica suona vuota retorica se basata su documenti molto preliminari, generici e contraddittori. Negli incontri con i consigli di zona e con l'associazionismo non sono stati presentati i progetti principali né le schede di indirizzo dei vari ambiti di interventi con i dati quantitativi, né gli interventi per la viabilità e i trasporti. La documentazione, deficitaria e al tempo stesso pesante, appare di faticosa consultazione per il cittadino, chiamato a una "partecipazione" virtuale, non soltanto per il peso dei tecnicismi, quanto pure dal semplice punto di vista della presentazione formale, vista la distribuzione a pioggia dei contenuti in allegati ed errata corrige con lunghi giri di parole, pochi "numeri" qua e là disallineati, grafici talvolta approssimativi, locuzioni specialistiche fuori contesto e ricercate per colorire significati molto più semplici, economichese e politichese sovrabbondanti, slogan scollegati dalla realtà in esplicita contraddizione con i contenuti effettivi del documento, caratterizzato a sua volta da contraddizioni interne che segnalano tra l'altro la disomogeneità dei contributi.
ANALISI E OSSERVAZIONI SUI CONTENUTI
Visti più da vicino, scomposti e ricomposti, alcuni passaggi del cap."Un racconto inedito. La genesi del progetto" e del cap."Obiettivi e strategie" rivelano la logica politica e l'intreccio di scelte strategiche che sono sottesi al fumo progettuale del Documento di Piano.
Cit. dal Documento di Piano:
"La legge urbanistica vigente in Lombardia, pur indicando valori di riferimento di tipo quantitativo (al fine di garantire un bilancio complessivo tra abitanti insediati e i metri quadrati di servizi esistenti e previsti), non definisce i servizi da considerare all’interno del Piano, né in termini qualitativi (fatta eccezione per il sistema del verde, le infrastrutture, l’edilizia residenziale pubblica), né in termini quantitativi (ossia la quantità necessaria di verde, di servizi per l’istruzione, di servizi sociali e così via). Il PGT auspica la necessità di un riequilibrio ed una riqualificazione sul territorio dei servizi esistenti e sposta l’attenzione dalla quantità alla prestazione reale dei servizi in termini qualitativi per i servizi futuri. La sfida principale è dunque quella di inserire un universo di valori “qualitativi” (peraltro di difficile misurazione “oggettiva”) in un sistema che chiede garanzie quantitative. Per quello che riguarda il riequilibro della qualità dei servizi, il Piano abbandona la logica dello standard localizzato e dei servizi pianificati a partire dai vincoli secondo la logica del “prodotto finito” (meccanismo rigido, ulteriormente indebolito dal fatto che si ragiona su lunghi archi temporali) ed attiva un ragionamento differente da quello tradizionale dei Piani Regolatori proponendo un sistema che ruota attorno a una forte regia del Comune, soggetto portatore di obiettivi specifici e chiari, base di riferimento per il dialogo con l’operatore privato".
Sussidiarietà orizzontale e riduzione alla mera contrattazione tra privati
Cominciamo a vedere che ci troviamo di fronte allo svuotamento di un ruolo forte di governo dei processi e delle scelte: si spaccia il cosiddetto "universo di valori “qualitativi” (peraltro di difficile misurazione “oggettiva”)", tanto accattivante quanto vago, per una dimensione ideale, moderna e più flessibile, di regia comunale delle scelte di pianificazione urbanistica e di stanziamento delle risorse economiche in tema di servizi.
Ma di fatto il territorio, concepito come estensione di servizi totalmente mercificata, ridotto al calcolo della razionalità economica come parametro assoluto di "qualità", si spartisce in progetti-investimenti da contrattare - da definire e decidere - con gli operatori privati e quindi in funzione dei loro specifici interessi economici. Una regia senza vincoli e distribuita, senza controllo nei termini del pubblico, su tempi lunghi e quindi poco verificabile nella sua reale efficacia, che nei termini vaghi proposti "sposta l’attenzione dalla quantità alla prestazione reale dei servizi in termini qualitativi per i servizi futuri". Cioè, per dirla più chiaramente: meno servizi futuri, temporanei, ma con l’autocertificazione di qualità del realizzatore e del gestore privato (imprese, fondazioni e associazioni “non profit”, confessioni religiose firmatarie di patti e intese, camere di commercio, università e quant’altro), in perfetto quanto oliato regime di sussidiarietà orizzontale in salsa lombardo-ciellina (come esaurientemente spiegato al punto 2.3.5 "La sussidiarietà quale principio di relazione virtuosa pubblico-privato). Sussidiarietà che in ultima istanza produce consumo e profittabilità ma non riproducibilità.
Cit. dal Documento di Piano:
"I punti chiave sono fondamentalmente due:
1. Le infrastrutture (collettive ed individuali).
2. Il sistema degli spazi aperti incluso il verde a tutte le scale.
A questi se ne aggiunge poi un terzo caratterizzato dal tema della casa per tutti. Tutti quelli che sono gli altri “servizi costruiti” sono stabiliti di volta in volta in funzione dei fabbisogni rilevati. Affrontare il tema della qualità nella pianificazione dei servizi rappresenta oggi una sfida per le città, che si vedono costrette a riformulare le proprie politiche in modo diverso rispetto al passato, lavorando attraverso una sorta di “rivoluzione” in tema di pianificazione urbanistica. È pertanto più utile ragionare in termini di “metodo” e di “processo” a partire dal bisogno reale, sostituendo così la logica del “prodotto finito”.
Il nuovo Piano non indica il risultato finale, ma definisce un metodo di criteri che di volta in volta divengono il quadro di riferimento per la dotazione di nuovi servizi. La prassi non è più quella di cristallizzare aree per servizi e infrastrutture all’interno di uno schema ideale complessivo, ma di specificare le linee d’azione operative per arrivare a fornire servizi in maniera effettiva ed efficace; l’amministrazione pubblica si impegna a costruire e fornire un quadro di riferimento che abbia confini certi e chiaramente definiti (ad esempio sugli obiettivi di interesse pubblico).
Per quanto riguarda le nuove aree di trasformazione introdotte dal PGT, l’Amministrazione stabilisce quote della nuova edificazione da cedere per servizi indispensabili, senza indicare di quali tipologie si tratta, ma distinguendo tra aree a verde, infrastrutture e servizi costruiti.
Su questi ultimi, il Piano, costantemente aggiornato, avrà una lista da cui attingere a seconda della localizzazione del progetto, dei fabbisogni rilevati o prospettati, dell’accessibilità, della dimensione dell’intervento, ecc. Tutto ciò è possibile grazie ad una costante analisi sull’offerta e sul fabbisogno esistente/potenziale monitorata, nelle differenti aree della città, dal Settore Statistica e SIT del Comune di Milano. Il punto di partenza è costituito dalla messa in rete di tutte le più importanti risorse presenti nel territorio di Milano, da quelle economiche, creative, sociali, culturali, a quelle più di natura urbana.
Il nuovo Piano intende in questo modo attivare una strategia di sistema.
Per questo, l’Amministrazione di Milano ha dettato un “programma” connesso a 15 obiettivi che in questo capitolo verranno esplicati attraverso le strategie e le politiche del Piano ad essi connesse.
Gli obiettivi di natura politica, strutturanti per la redazione del Documento di Piano, sono articolati in 15 punti, riferiti a tre politiche principali:
1. La città attrattiva
2. La città vivibile
3. La città efficiente
da cui deriva il quadro programmatico che il Documento di Piano e il PGT in generale hanno come riferimento. Una relazione che intende, senza ambiguità, far emergere il quadro delle “politiche urbanistiche” e, quindi, la visione strategica complessiva per la città di Milano; una strategia quella del DDP che riassume anche i presupposti degli altri due documenti complementari del PGT, cioè PdS e PdR. E’ dalla visione che emerge l’idea di città del nuovo Piano".
La cancellazione dei vincoli e la sua copertura ideologica
"Strategia di Sistema" è la parola magica della neo-lingua del PGT per nominare quella che in effetti è la perdita della possibilità concreta di pianificare i servizi collettivi costituendo una metodologia tutta interna ad una vaga e indistinta razionalità “di processo” che valuterebbe, di volta in volta, ciò che è da realizzare. Si stabilisce così la morte della realizzazione delle opere e dei progetti governata da regole precise e vincoli certi in quanto principi e metodi considerati troppo rigidi e appartenenti alla pianificazione del passato (quella dei piani regolatori). Trasparirebbe nella "mente" del legislatore la volontà di lasciarsi alle spalle "l'inefficienza" dei "piani tradizionali" che "pretendono che la città si adegui forzatamente ad un disegno astratto", sostituendovi la visione di un territorio monetizzato secondo i dettami dell'economia di mercato con le parole d'ordine dell'"attrattività", dell'"efficienza", della "competitività" e della cosiddetta valorizzazione dei "poli d'eccellenza".
Risulta palese la forzatura ideologica: come se le alternative fossero dirigismo/razionalismo/statalismo dall'alto cui opporre un moderno liberismo illimitato dal basso secondo la mitica opposizione rovesciata à la Friedrich von Hayek. Così si parla il linguaggio dell'economia dell'ambiente e dello "sviluppo del territorio" (quella per cui "toh c'è un albero" è buffo romanticismo mentre va sostituito con "qual è la tua disponibilità a pagare per guardare quel vaso di piante?" etc.), si parla di "formazione della città mondiale", di "competizione tra i luoghi", di "city marketing", e così via in una pura logica di mercato deregolato.
Tornando al testo, si passa alle linee d’azione operative e ai quadri di riferimento delle “politiche urbanistiche” racchiusi in una sorta di “programma” connesso a 15 obiettivi di natura politica ed alle tre seguenti nozioni chiave:
Cit. dal Documento di Piano:
"La città attrattiva
Con città attrattiva si intende progettare un riequilibrio di funzioni tra centro e periferia favorendo progetti intercomunali, modernizzare la rete di mobilità pubblica e privata in rapporto con lo sviluppo della città, secondo una logica di rete e ottimizzando i tracciati esistenti, incrementare alloggi e soluzioni abitative anche temporanee a prezzi accessibili, incentivare presenza di lavoratori e creativi del terziario propulsivo e valorizzare le identità dei quartieri tutelando gli ambiti monumentali e paesaggistici.
La città vivibile
Con città vivibile si intende promuovere Milano città agricola, connettere i sistemi ambientali esistenti a nuovi grandi parchi urbani fruibili, ripristinare la funzione ambientale dei corsi d’acqua e dei canali, completare la riqualificazione del territorio contaminato o dismesso, supportare a livello urbanistico, edilizio e logistico la politica di efficienza energetica “20-20 by 2020” dell’Unione Europea.
La città efficiente
Con città efficiente si intende diffondere servizi alla persona di qualità alla scala del quartiere, vivere la città grazie ad una politica sulla temporaneità dei servizi e sull’accessibilità dei luoghi, rafforzare il sistema del verde alla scala locale e di mobilità lenta basata su spazi pubblici e percorsi ciclo-pedonali, garantire qualità e manutenzione degli spazi pubblici e delle strutture destinate a servizio, incentivare servizi privati di pubblico interesse attraverso il principio della sussidiarietà".
Questi tre nodi di riferimento strategici, queste “tre città nella città” sono un prisma opaco attraverso il quale leggere le trasformazioni verso cui viene pilotata la pianificazione urbanistica e sociale metropolitana. Uno stravolgimento razionale e di prospettiva lunga, all’insegna della più profonda deregulation mai progettata da un’amministrazione comunale che cede, per scelta cosciente, ampie fette di governo del territorio alla speculazione e alla gestione privata che realizza, volta per volta, le abitazioni, le infrastrutture e i servizi seguendo la vocazione che le compete ovvero la mera logica del profitto.
Verso una città aperta e sostenibile?
Tentando di rimodulare il rapporto tra la città e il suo hinterland il Documento di Piano fa alcune importanti ammissioni.
Prima ammissione:
"Il PGT legge il territorio milanese e la città di Milano come un sistema di pieni e vuoti ed esplora, nella specificità degli stessi, le opportunità intrinseche, non sempre evidenti, di diventare occasioni progettuali, a tutte le scale, per produrre innovazione e modernità e, soprattutto, qualità urbana. Occorre ricordare che la crescita della città per pura addizione non ha prodotto la necessaria qualità e funzionalità. Il PGT intende riconquistare questi aspetti attraverso la proposizione del concetto di città pubblica e attraverso una metodologia progettuale basata sulla sottrazione, introducendo strumenti di riqualificazione e di sostituzione, ponendo i cosiddetti “vuoti” in condizione di svolgere una funzione strutturante, ecologica, ambientale, sostenibile, per valorizzare al meglio i “pieni” dell’urbanizzato".
La città non è vista come un tutto vivente, con una sua progettualità e una sua storia, ma come una somma di "pieni" (da riqualificare affidando le decisioni - cioè liberalizzando, come dice il testo - la destinazione d'uso ai privati), e di "vuoti" da riutilizzare" per "produrre innovazione e modernità". La continuità della città con la sua storia, con il suo carattere, con i suoi abitanti è cancellata come tradizione e al massimo "museificata" conservando qualche monumento in un nuovo contesto ispirato alla "città attrattiva".
Seconda ammissione:
"La città, malgrado l’intensa attività edilizia degli ultimi decenni, non è cresciuta per numero di abitanti, ha di fatto mantenuto un sostanziale equilibrio demografico, ma ha cambiato il rapporto con il suo territorio".
"Milano oggi ha quindi l’opportunità di immaginare il suo futuro in modo finalmente sostenibile ma, soprattutto, ha la straordinaria occasione, nel quadro di una forte domanda di modernizzazione e riqualificazione, di stipulare un grande “patto trasversale pubblico-privato” per affrontare e risolvere concretamente le criticità peculiari dell’urbanistica milanese e della regione urbana e, soprattutto, della qualità della vita urbana nel suo complesso".
La constatazione è interessante, ma si rifiuta di assumere un atteggiamento critico verso questa trasformazione del centro (e in prospettiva dell'intero territorio urbano) in deserto abitativo riservato a uffici, sedi di rappresentanza e strutture per "grandi eventi" e dell'hinterland in dormitorio con i problemi di vivibilità, sicurezza e traffico pendolare che questo comporta. Un processo che non cesserà se le decisioni continueranno ad essere assunte dai vantati "gruppi portatori di interessi".
Arriviamo così a delineare meglio quale sarà la nuova versione della città vetrina, della città funzionale e prestazionale, della città dello sviluppo e del profitto senza limiti e senza freni.
Sussidiarietà sovracomunale: dal Comune alla Regione
Sotto queste premesse, il PdP viene riempito di progetti sulla mobilità e sul verde, di “città multicentrica”, di riequilibrio centro-periferia, di piano casa (che però non si deve appoggiare sul pubblico ma su un sistema fortemente sussidiario "dando modo così di superare il tradizionale binomio soggetto pubblico-edilizia economico-popolare”) e di efficienza (attraverso l’incentivazione dei servizi privati di pubblico interesse).
Tuttavia non si esplicita quali siano i progetti da accelerare da subito (tranne l'EXPO acceleratore ovviamente), quali gli investimenti e gli interessi in campo e quale potrà essere la qualità del vivere sociale soprattutto dei comuni vicini travolti e assoggettati da una dimensione sovracomunale che così viene descritta:
Cit. dal Documento di Piano:
"Entro questa visione il nuovo Piano ha attivato percorsi di pianificazione comune con Amministrazioni di Comuni limitrofi per favorire così importanti accordi e progetti intercomunali. Il percorso del nuovo Piano intende, in questo modo, anticipare una logica di governo alla scala metropolitana, già oggi presente nell’agenda politica per il prossimo futuro".
E' da notare l'ipocrisia del sopprimere indicazioni precise di piano in cambio di un'ipotesi di "forte regia del Comune" per altro sempre più indebolito di ruolo e di disponibilità finanziarie (una operazione che ricorda quello sul taglio della scala mobile per dare spazio alla contrattazione).
In breve: la Regione detta le linee guida, la Provincia è didascalica, il Comune delega a cabine di regia autonominate che non hanno più nulla di "civico" il compito di "dialogare" con Ligresti o magari con i Casalesi, mentre il resto dei Comuni vale come il due di picche. I cittadini invece scompaiono come lacrime nella pioggia al di là della Cerchia dei Bastioni.
Metodo NON partecipativo
Dal punto di vista del metodo (NON partecipativo), possiamo affermare che questo è il primo PGT al mondo che assume come parte integrante del capitolo sull'ascolto della cittadinanza il programma elettorale del sindaco (Moratti). Sembra paranormale ma il cosiddetto processo di ascolto delle soggettività della città si configura come una rassegna stampa e uno studio di vari blog durante la campagna elettorale della Moratti! Altro che analisi sociologiche preliminari a un governo del territorio. Il dato che emerge da questa raffinata metodologia di ascolto è la richiesta di "valorizzazione" di aree della città. Richiesta avanzata da chi? Dagli stakeholders, ovviamente! Cioè da quei soggetti che in questi ultimi due anni hanno partecipato al processo "partecipativo" nella redazione del PGT. Peccato che questo processo sia stato sotterrato anche per non dover parlare, in alcuna sede pubblica, dell'operazione EXPO in questi termini.
La desertificazione del tessuto sociale urbano
La rinuncia al governo del territorio
Perequazione, compensazione e incentivazioni
Lo "sviluppo" (di cosa?)
Arriviamo così a ricapitolare i lineamenti della nuova versione della città vetrina, della città funzionale e prestazionale, della città dello sviluppo e del profitto senza limiti e senza freni.
Cit. dal Documento di Piano:
"Per tali ragioni si è deciso di strutturare un percorso in grado di rapportarsi con tempi attuativi differenti: coordinare le trasformazioni in corso ed allineare l’interesse pubblico allo scenario del Piano (accordi di programma in corso o in via di definizione); snellire ogni procedura per un’attuazione più celere degli obiettivi urgenti (opere e trasformazioni in vista di Expo 2015). […] La flessibilità, cioè quello che si è definito mix funzionale libero costituisce l’aspetto qualificante le scelte in merito alle destinazioni d’uso degli immobili della città consolidata, la cui regolazione è affidata al Piano delle Regole [...??]. La scelta della destinazione d’uso è, infatti, liberalizzata e quindi la proprietà può scegliere quale destinazione attribuire ai beni immobili. Una scelta importante per la città di Milano quella del libero mix funzionale, in linea con molte metropoli europee. In questa maniera s’intende favorire il più possibile Milano quale laboratorio privilegiato per la creatività, incentivando tutte quelle forme di terziario propulsivo già così tanto correlate con la cultura Milanese. Basti pensare al mondo del design e della moda su tutto".
Il dato politico fondamentale è quindi l'esplicita rinuncia del PGT, cioè del piano di governo del territorio, a governare per l'appunto il territorio, ovvero l'autocastrazione della politica che attraverso i propri strumenti legislativi definitivamente svuotati delega interamente alla libera razionalità economica la determinazione dello "sviluppo" del territorio; uno "sviluppo" ben lungi dal riguardare la soddisfazione dei bisogni reali, il benessere reale, la protezione e la cura di fasce deboli e dell'ambiente, di spazi sociali e di ciò che è bene comune; la cura vicendevole tra città e cittadino; uno "sviluppo" che non potrà che essere lo sviluppo degli scambi ineguali, lo sviluppo delle remunerazioni dei privati, delle rendite fondiarie e immobiliari.
Lo scambio delle destinazioni d'uso dei territori rende di per sè non prevedibile un piano di trasporti o altri servizi sul territorio. Si tratta quindi di un documento che fa vedere i brillantini dell'immaginario della città attrattiva ridotta a logo, a city marketing, a città della moda in toto, talmente generico da non dire neppure dove verranno reperiti i soldi.
No Pianificazione = No Risorse = No Pubblico significa che viene sacrificato ciò che esce dalla logica della competitività dei privati nella corsa al cannibalismo reciproco, cioè tutto quello che è nell’interesse di chi concretamente vive sul territorio, cioè del "cittadino concreto" che ha bisogno del medico, della scuola, del verde, del tram qui, del welfare. Materialmente, il meccanismo della "perequazione" rivolto a "soggetti astratti", stando alla quale c'è meno verde qui perché ampliano il parco di là, non ci tocca come Soggetti Reali - soggetti reali cui vogliamo rivolgerci per rivendicare un'altra politica del territorio.
Quella che sembra la debolezza del PGT è in effetti la sua forza. Nel sancire l’inesistenza dichiarata di un ruolo di progetto del pubblico, nel concordare col privato tutto a partire dai servizi - neppure si dice più "pubblici" - da gestire in regime di sussidiarietà, nel distribuire in funzione dei "poli attrattivi che finalizzano", il resto rimane deserto, fatta eccezione per il centro cittadino, desertificato dal punto di vista abitativo ma mondo a parte come luogo delle funzioni di eccellenza.
La semplificazione degli urbanisti
Sul fatto che venga spazzata via la logica della pianificazione ci aspettiamo che gli stessi urbanisti abbiano tanto da dire, nella misura in cui divengono meri esecutori dei dettagli mentre viene dimezzata la loro area di competenza come progettisti, ovvero la funzione politico-sociale di creatori degli spazi del vivere urbano.
La perequazione
La stessa "perequazione" è lo strumento per la salvaguardia dei diritti (edificatori, e quindi di reddito), non certo per la pianificazione dei diritti della città pubblica. Di fatto stabilisce una norma che regola una classifica in cui hanno dignità di diritto solo i fattori che producono edificazione; un meccanismo compensatorio nel quale tutti hanno diritti edificatori che - nota bene - si possono scambiare, secondo una pura logica di mercato di compravendita su piazza pubblica di diritti edificatori.
D'altra parte, emerge la difficoltà di attuazione di questo progetto laddove dovesse dimostrarsi prevedibilmente impossibile per tanti proprietari trovare un compratore per i propri diritti di edificazione. Così di fronte alla debolezza di chi vende sarà chi compra ad essere molto più forte ed il mercato di fatto cederà, nella indeterminatezza della allocazione delle risorse sul territorio, tutto quanto al "soggetto forte", mentre il "debole" per potere contrattuale non avrà certezza del diritto. A questo proposito risalta a pagina 179 un passo eccezionale:
Cit. dal Documento di Piano:
"Il problema di maggior rilievo per l'amministrazione risiede nella possibilità, per ogni proprietario di un diritto edificatorio, di trovare un acquirente, e quindi, in altri termini, di essere indennizzato per la mancata valorizzazione del proprio terreno destinato a finzioni collettive".
Quindi, in altri termini, di essere indennizzato per la mancata valorizzazione del proprio terreno destinato a finzioni (sic!, forse funzioni, ah i lapsus rivelatori!) collettive.
Il mix funzionale libero
La definizione di "mix funzionale libero" è assolutamente fantastica, sia nel senso della bellezza artistica, quasi ossimorica della definizione, sia nel senso della irrealizzabilità, essendo chiaro a qualsiasi soggetto che pratica un'azione territoriale che la spinta alla omologazione funzionale è prevalente rispetto alla scelta del mix. Nel cosiddetto mix funzionale certe funzioni non vengono attribuite esplicitamente ma si rimanda al privato. Salta cioè qualsiasi vincolo. Non esiste programmazione per esempio sul piano sociale della tipologia abitativa che si va a costruire o del soggetto che andrà a vivere in certe zone, il che in una prospettiva di densificazione (aumenti in verticale etc) ci porta dritti a parlare chiaramente di ghetti. Abbiamo un processo di gentrificazione, cioè di espulsione radiale dei soggetti a basso reddito. Rispetto ad una analisi sociologica preliminare corrispondente a una mappa di servizi, una mera borsa di compravendita immobiliare produce come risultato "geografico" una vera e propria desertificazione.
L'orizzonte temporale
Il PGT non pensa alla città che già esiste. Non c'è rispetto dell'esistente. Non c'è nessun rispetto per il passato così come non c'è nessuna considerazione di prevedibilità di un orizzonte futuro. Non c’è riuso, non c'è manutenzione, non c'è riciclo della città, non c’è un piano finanziario che possa corrispondervi.
Il principio economico che governa il PGT è quello del puro darwinismo sociale.
Le rinunce sul sistema dei trasporti
Il sistema dei trasporti appare come la parte più evanescente perché più indeterminata. Si fanno però due esplicite rinunce: si rinuncia al ferroviario come potenziamento infrastrutturale; cioè non alle tracce, ai vettori, alle fermate, ma alle infrastrutture. La debolezza maggiore è quella relativa al secondo passante ferroviario, ciò che potrebbe far decollare propriamente il sistema ferroviario. Nell’ambito di queste non-scelte vengono dimenticati i sistemi deboli di mobilità: non si sviluppa nulla che stia sotto il livello dimensionale della automobile, il che ha conseguenze che si possono facilmente immaginare sul piano della sostenibilità ambientale.
Un piano di governo che lascia al mercato la progettazione del territorio non permette di pianificare né governare alcunché Molto significativo è ad esempio il fatto che "l'assetto di rete" non prende in considerazione lo sviluppo dei "sistemi deboli" (bici, pedoni...) in quanto gli scenari sono talmente imprevedibili che potrebbero variare radicalmente in funzione di nuove organizzazioni di spazi urbani. Ed così si è deciso di non progettarli nemmeno, tanto nessuno protesterà. Poche ma chiare parole vengono spese per i grandi progetti viabilistici onerosi, pagati con tagli e privatizzazioni. Su tutti spicca la famosa Gronda Nord e, soprattutto, il megatunnel Linate-Rho; un obbrobrio tanto economico quanto per i disagi che crea alla città, trattandosi della rinuncia a qualsiasi idea che non sia farvi passare centinaia di macchine. Un modello di mobilità ribadito alla faccia dei polmoni dei milanesi: al di là delle belle parole sulla città pubblica il PGT non difende nessun bene comune come il diritto alla salute.
Costi e tagli
Viene scritto, ad ogni modo, quanto "costano" a grandi linee certe "infrastrutture", con l'esplicita ammissione della mancanza di fondi per realizzarle. Vengono indicati 6 miliardi e 108 mila euro in totale di cui sono stati stanziati poco più di due miliardi - "accidentalmente" pari a quelli recuperati dalla legge 133 (la Tremonti dei tagli alla scuola). Si tratta quindi di un conto preventivo vincolante che viene presentato al pubblico per ricollocare risorse inutili come quelle sprecate per l'educazione. Ciò che viene stanziato da una parte è equiparabile a quanto viene tagliato altrove: potrebbe trattarsi di una sfortunatissima coincidenza o di una congiunzione astrale negativa, oppure di una scelta strategica del legislatore.
[tabella omissis]
Edilizia convenzionata (e conveniente)
L'edilizia convenzionata è prevista solo come appendice dell'edilizia normale. Viene infatti detto che il privato che decide di realizzare una parte del volume in edilizia convenzionata (che non è la casa popolare, ma diciamo si configura come "aiutino") riceve un "compenso" in termini di aumento di volumetria edificabile in più rispetto a quella già prevista dal piano! Realizzare abitazioni in edilizia convenzionata al fine di procurarsi nuova volumetria, molto più redditizia (cioè con margini molto diversi): ecco apparire un'intenzione "etica" deformata in un volto mostruoso.
Lo spazio sociale coincide con lo spazio commerciale
Esempi di ridefinizioni linguistiche
Precarizzazione del territorio
D'altra parte, nella mente perversa del regolatore lo spazio sociale è contemplato solo come arena di scambio e consumo, come spazio commerciale. C'è creatività linguistica. Ci sono le curiose ridefinizioni del verde in verde fruito, dei parchi come arredi urbani di superfici per altro già esistenti, dei "raggi verdi", delle "strade-parco"; ma ci sono anche le shopping-strips come luoghi di "aggregazione". Si veda ad esempio il "boulevard" di Buenos Aires-Padova(!) o la "rambla" di Sempione ricondotti a pura funzione commerciale. Siamo all'eterogenesi, se non dei fini, almeno delle parole? La rambla (in qualche modo anche il boulevard) sono per antonomasia luoghi dove si passeggia per passeggiare, dove si cammina per camminare, dove si perde tempo senza l'obbligo di comprare o vendere alcunché Ma la "valorizzazione" del territorio non ammette perdite di tempo; il nostro legislatore non riesce a pensare ad uno spazio pubblico dove non ci sono negozi. La razionalizzazione economica trasforma il verde in aiuola logistica, in erba di consumo: vero fumo linguistico. Prendiamo viale Certosa: ora potrebbe essere definito zona verde il tratto in cui passa il tram. Ma se lo ripavimentiamo, magari lo facciamo anche "più carino", con due vasi, et voilà: il "raggio verde". Ora nella "mappatura dei pieni e dei vuoti" questo viene chiamato "pieno". Quest'operazione geniale viene in conclusione nominata come "diminuzione dello sfruttamento dei suoli"! La "riqualificazione linguistica" non è una semplice presa in giro.
Scompaiono i bambini
Il soggetto astratto, che percorre il deserto tra casa e azienda, tra azienda e shopping-strips, il consumatore modello cui si rivolge questo PGT non contempla l'esistenza di soggetti marginali che faticano ad essere inglobati in questa logica: nel PGT non esistono i bambini. Come se a Milano non ci fossero bambini, che vanno a scuola, che giocano, che devono imparare a vivere la città e ad esplorare un territorio per diventare autonomi. Piste ciclabili intorno alle scuole? No, grazie. Zone protette intorno alle scuole d'infanzia? No, grazie. Servizi dedicati (biblioteche, etc)? No, grazie. Forse un giro panoramico a Lione, Madrid o Monaco potrebbe essere illuminante per i nostri legislatori?
Scompare l'industria
Procedendo per sottrazioni materiali, dal PGT risulta scomparsa l'industria. Sembra incredibile ma la INNSE - per dirne una a caso - diventa una tipologia non catalogata. Non ci sono operai: c'è solo un terziario avanzatissimo, talmente avanzato che è scappato in avanti e si è perso trovandosi in piena crisi. Mentre sta collassando la dimensione del lavoro, quel sistema del lavoro in cui siamo vissuti per almeno 15 anni, viene sgretolato il sistema di servizi e infrastrutture che ha sorretto quella dimensione perfino alle condizioni minime di sopravvivenza.
La precarizzazione del territorio è evidente sotto tutti gli aspetti: rispetto alla prevedibilità, al suo orizzonte temporale di riproduzione, rispetto a spazi, tempi, spostamenti, al suo percorrimento, rispetto alla sua abitabilità, rispetto allo stesso avvelenamento ambientale. Chi sta facendo dentro questo iter legislativo un ragionamento serio sulla distruzione del sistema idrogeologico dalle Alpi al pedemontano? Chi sta considerando il rapporto tra inquinamento e malattie? La precarizzazione del lavoro e quella del territorio si rispecchiano e condizionano a vicenda come parte di un medesimo fenomeno di disgregazione sociale.
Una storia distorta dal legislatore è proprio quella dell'autorganizzazione della città come sistema che si costituisce nel tempo dal continuo sovrapporsi di serie storiche agenti sulle strutture (case, vie o piazze), attraversate dalle relazioni e dalle dinamiche sociali di soggetti (soggetti, non immobiliaristi) che proprio interagendo disegnano il tessuto vivente e vissuto dell'urbe. La città si impone sulla dispersione della campagna anche perché formata da quest'incontro, perché soggetti sviluppano reti e connessioni impossibili da riprodurre artificialmente. La città del PGT è invece quella recintata da alcuni poteri contrattuali determinanti che "approfittano" di strumenti di neutralizzazione come la "perequazione" ingabbiando soggetti deboli disaggregati, controllati nell'impossibilità di creare quelle dinamiche di autorganizzazione e autodeterminazione che servono alla città per emergere come tale. La scomposizione in Ambiti di Trasformazione Urbana, Periurbana e di Interesse Pubblico Generale non sono altro che una somma di progetti (vaghi) su aree ben definite, senza un approccio di sistema che parli al sistema delle relazioni tra persone anziché tra immobiliaristi.
Quello che è successo all'Aquila è esattamente questo: non permettere l'autonomia dei soggetti, e lavorare invece su un controllo stretto e su schemi preordinati.
La scelta non è tra dirigismo e liberismo come cavallo di battaglia ideologico: si può scegliere di lasciare liberi gli immobiliaristi e ingabbiare i cittadini, oppure si può scegliere di liberare i cittadini e regolare gli immobiliaristi. Da qualche parte bisogna "sottrarre" e appare evidente la scelta del legislatore.
La città del profitto e del controllo
In questo senso, Milano sembra incarnare il laboratorio italiano che più tende ad avvicinarsi ai modelli mondiali di "città del capitale globale" e di "metropoli totale". Nel suo piccolo, una New York o una Los Angeles nostrana, che cerca di riprodurre i loro aspetti repressivi e disciplinari. Una città del profitto e del controllo, per l'appunto. Controllo e autocontrollo a monte sui corpi e sulle scelte delle persone, sui comportamenti e sui termini della comunicazione, sul tempo di lavoro, sui tempi di vita e sulle relazioni sociali. Con i ricatti economici e morali, la flessibilizzazione e la precarizzazione selvagge del lavoro e della vita, un governo ferreo delle reti produttive e comunicative, la disinformazione emergenzialista, l’invasività tecnologica e, quando serve, una repressione disciplinare classica, fatta di polizia e galera.
Dentro questa "sottrazione", non c'è da stupirsi che in questa città avanzino da più parti ondate politiche e culturali di discriminazione, di epurazione di ogni persona considerata diversa dai modelli conformi al pensiero unico del moderno ed elitario capitalismo globale. Si possono ritagliare arbitrariamente gruppi di ogni genere da escludere e tutto ciò può avere molte definizioni: Fascismo, differenzialismo, razzismo, xenofobia, ecc.; con un obiettivo ricorrente: il controllo delle classi dominanti sulle subalterne che alimenta odi, paure, avversione e rifiuto, in un conflitto permanente fra poveri e sfruttati che li mantenga tali e separati.
Quest'istituzione totale è il volto reale dell'ideologica libertà della deregolazione. Nella sottrazione dell'esistente scompare tutto il territorio come sedimentazione della storia, del lavoro, della cultura e dei cicli della natura. Rimane un arcipelago anonimo di cose, una rete di assi e poli logistici e corridoi di smistamento; un supporto inerte da occupare o edificare, una piattaforma neutrale per l'ingombro, lo stoccaggio, lo smistamento; ricettacolo di margini di profitto a monte e deposito di rifiuti a valle.
Dietro gli apparati di questo sistema, dietro le leggi e le procedure che sostengono e concretizzano la sua essenza autoritaria e produttiva, Milano "cresce" sul piano urbanistico riconsegnando territori e volumi nelle mani della speculazione finanziaria, dell'immobiliarismo e del commercio, mentre si trasforma sempre di più in una macchina sociale che stravolge definitivamente assetti sociali e vivibilità. In sinergia con le altre istituzioni locali (Regione e Provincia) il governo metropolitano rimodula, definisce e consolida privatizzazioni di sanità, servizi, infrastrutture e reti di modernizzazione, secondo criteri di mercato, di profitto e di controllo sul territorio, sulle dinamiche sociali e sui suoi stessi abitanti. La vita sempre più frenetica, caotica e irrespirabile ne fa un luogo di sfruttamento totale, dove tempo di lavoro e tempo di non lavoro si sovrappongono e si compenetrano irreversibilmente. Una ristrutturazione e una trasformazione iniziate molti anni fa, giunte ormai ad un punto avanzato e soffocante che bisogna cercare di fermare ed invertire. E per tentare di modificare il processo di mutazione, apparentemente irreversibile, di questa città, bisogna comprendere i meccanismi della macchina sociale in atto e i modi per incepparla e fermarla.
La necessità di un approccio sistemico
I fattori reali che costituiscono nel loro sistema di relazioni il territorio reale sono connessi in modo che una modifica in un punto condiziona la modifica di tutti gli altri. Favorire un polo di attrazione periferico con un centro commerciale produce congestione del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi etc; al tempo stesso, stimola l’apertura di altre valvole commerciali.
E se il territorio è un sistema, anche le azioni che lo trasformano devono essere viste in modo sistemico per mantenerne la coerenza nel tempo - come per fronteggiare i dissesti delle catastrofi "naturali". In questo senso l’uso del territorio e le sue trasformazioni devono essere governate nel loro insieme attraverso un approccio sistemico. E non c'è un metodo moderno ed efficiente da inventare per governare sistematicamente: c'è già, ed è propriamente quello della pianificazione territoriale e urbanistica.
Sovrapposizione tra PGT ed Expo 2015
Emerge una continuità logica tra Concept Masterplan della città dell'Expo e Documento di Piano del PGT. Seguendo fin dai primi stentati passi la tragica operazione Expo - che fissa a modo suo e fuor di retorica una scadenza precisa per il territorio - la Rete No Expo ha descritto questo logo, questo strumento di marketing, come motore del mercato immobiliare, come catalizzatore di certi interventi infrastrutturali, come drenaggio di ricchezza dal pubblico al privato - tolto il fumo del tema espositivo.
Alla luce delle analisi del PGT emerge come i due strumenti siano sfacciatamente sovrapponibili al punto che l'uno sembra la traduzione dell'altro nel senso che il PGT svuotato è per l'appunto ciò che spiana la via all'assalto alla diligenza per lo scoccare dell'ora fatale del 2015.
Nessuno scenario successivo al 2015 viene per altro contemplato.
Il Concept Masterplan di Expo
A settembre 2009, con la presentazione del Concept Masterplan (tipico documento evanescente di indirizzo di tre paginette), l’operazione Expo è entrata nella fase pre-esecutiva, sempre che crisi e scarsità di soldi non facciano saltare del tutto “il grande evento salvifico”. La rinuncia a padiglioni, torri e l’utilizzo parziale dei padiglioni fieristici di Rho costituiscono sicuramente una vittoria parziale per chi ha contrastato da subito Expo, ma non spostano il problema. Non è la realizzazione di un Expo "diffuso", "sostenibile", magari "bello", o "rosso", a cambiare i termini del problema. Neppure il Concept Masterplan dice nulla rispetto agli accordi con i proprietari dell’area del sito Expo (Fiera e Cabassi) ed è in tal senso complementare al PGT perché passa la palla ad altri tavoli, sicuramente non pubblici, per definire progetti e soddisfare i diversi interessi in gioco (Euromilano, Fiera, Banche, Ligresti, Compagnia delle Opere). Nel vuoto del Masterplan, che rispetto al dossier di candidatura si limita a parlare del sito Expo e delle opere “di facciata”, brillano perle di fanta-urbanistica come le vie d’acqua (20 km di canali tra la Darsena e Rho, ripresi infatti dal PGT, costosi e inutili) o reiterati progetti come quello di Boeri sullo sfruttamento delle cascine per attività ricettive - aree che vengono definite vuote mentre in realtà comprendono 70 cascine vive, attive, come Torchiera, o Monluè fino all'anno scorso, dove ci sono contadini e attività agricole, o dove vivono rom. Cascine che subiranno l’impatto delle grandi opere tangenziali e autostradali che il Masterplan ribadisce (laddove invece fa sparire una linea metropolitana, alla faccia della sostenibilità) e che non possono sicuramente convivere con l’agricoltura periurbana che i promotori di Expo vorrebbero rivalutare. Si scrive nel Masterplan che mancano i soldi, ma non si rinuncia a investire su opere "pubbliche" destinate solo a servire Fiera ed Expo, mentre il trasporto pubblico locale collassa. Si lascia intendere di volare alto con visioni di tavoli, orti, uccellini e fiori profumati per nascondere la realtà di un Expo che, come il PGT, è funzionale ai privati, ai costruttori, per definire gli interventi concreti. Come fa Euromilano, ossia Legacoop e Banca Intesa, per l’area del villaggio Expo a Cascina Merlata, con residenze, alberghi, parcheggi pullman, zone commerciali: una città nella città. E i servizi? E le connessioni sociali con il territorio circostante? Ad Aprile 2010, il Masterplan diventerà il piano definitivo di Expo 2015, ma nel frattempo, sul territorio, cantieri, alberghi e richieste edilizie su aree vanno avanti come se i proprietari sapessero già cosa Masterplan e PGT consentiranno. Alla faccia di chi crede alla svolta ambientalista del PGT e ad una Moratti buona contro un cattivo Ligresti palazzinaro.
Fermare il PGT!
Così come l'unica exit strategy per salvare la città, il territorio e quel poco di pubblico che rimane è l'uscita dall'operazione Expo, parimenti la prima conclusione che si impone come proposta urgente a partire dalle presenti analisi è: fermare il PGT!
Come si è visto dal metodo, questo PGT è scritto dai soggetti a cui si rivolge: privati, proprietari di terreni e immobili, costruttori che determineranno gli assetti futuri del territorio all'interno delle logiche di mercato. Senza vincoli, liberi di "approfittarsi" delle risorse.
E non parliamo per forza del privato delinquenziale che già spadroneggia (come da recenti inchieste) ma anche del miglior privato possibile senza soluzione di continuità, essendo racchiuso questo destino nel gioco stesso dei poteri contrattuali svincolati. Alla precarizzazione del lavoro si affianca quella del territorio e dei servizi, l'aumento delle relative tariffe e la diminuzione della loro qualità e sicurezza seguendo il contenimento dei costi, infine l'aumento di consumo di suolo e l'edificabilità selvaggia come ultima spiaggia.
E' un PGT che rispecchia il volto degli agenti economici che lo scrivono. Così tutta la partita del territorio riguarda la democrazia: chi decide? E la prima alternativa a questo modello di città desertificata è una città; e la prima alternativa a questo PGT è un PGT, una politica del territorio con un approccio sistemico alle persone, un PGT deciso da qualcun altro, cioè da tutti gli altri, dalle persone, dai Soggetti Reali. E la prima urgenza è fermare questo PGT.
PROPOSTE ALTERNATIVE PER UN’ALTRA CITTÀ POSSIBILE
In conclusione, vogliamo soltanto accennare qui a quali potrebbero essere i tratti di un'altra città possibile, una città possibile partendo proprio da ciò che viene sottratto da questo documento di non governo del territorio.
Un’altra città significa un altro modo di viverla e di trasformarla, calibrando il tutto con e per le donne e gli uomini che la vivono, la abitano e la attraversano quotidianamente.
Un’altra città è caratterizzata da una dimensione democratica intesa come partecipazione diretta e solidale nella gestione del patrimonio comune, delle risorse e della vita collettiva.
Un’altra città deve contrapporre al PGT un Progetto, collettivo e orizzontale, di Autogoverno dei Territori che la compongono.
Un progetto che veda emergere dentro la macchina del PGT, che sta scaldando i motori e sta tessendo la rete del profitto speculativo e del disciplinamento sociale, una forza sociale che possa fermarla costruendo una dimensione metropolitana alternativa di lotta e di socialità.
La città della solidarietà
- dei diritti e della libera circolazione
- dell’accoglienza e della cittadinanza
- delle culture e della loro autodeterminazione comunicante
La città del welfare metropolitano
- del diritto al reddito diretto e indiretto
- dei servizi sociali pubblici, gratuiti e di qualità
- del diritto alla casa e all’abitare dignitoso e sufficiente
La città dei saperi autogestiti
- della salvaguardia della scuola pubblica
- della libera creatività e della sua libera diffusione
- dell’autoproduzione culturale e artistica
La città della qualità ambientale
- dello stop al consumo speculativo di suolo
- del diritto alla mobilità per tutti contro traffico e inquinamento
- dell’aumento del verde pubblico e dei parchi
La città del conflitto
- del protagonismo politico e sociale dei soggetti, individuali e collettivi, che la abitano, la vivono e la attraversano quotidianamente
- dell’autodeterminazione dal basso delle scelte e dei progetti
- delle lotte autorganizzate e delle vertenze territoriali e metropolitane
La città delle reti di lotta e autogoverno territoriale
- delle reti politiche e sociali di confronto e di lotta a partire dai bisogni e dai diritti negati
- delle reti territoriali e metropolitane di solidarietà e di vertenzialità
- delle reti dell’autogestione, dell’autorganizzazione e dell’autoproduzione culturale
[Appendici omissis]
Lo avevamo lungamente anticipato e la prima censura del Piano casa della Giunta Cappellacci È arrivata puntuale a meno di un mese e mezzo dall’approvazione della legge regionale n. 4 che, a detta del centro destra avrebbe fatto respirare e rilanciare l’economia isolana. Come avviene di norma il Ministero dei Beni Culturali ha notificato alla Giunta regionale che la legge così come non può trovare legittimità costituzionale e dunque o la Regione la modifica o il Governo sarà costretto ad impugnarla. Ecco allora puntuale la delibera della Giunta regionale n.54/25 del 10 dicembre scorso che interviene ad approvare un disegno di legge recante modifiche ed integrazioni al cosiddetto Piano Casa. Di solito quando si fanno le leggi seriamente le “modifiche e le integrazioni” si introducono dopo alcuni anni di applicazione al fine di adeguare alle mutate esigenze le norme in questione. Poichè questo Governo regionale e la sua maggioranza rappresentano la sintesi dell’arroganza e dell’incompetenza ecco che neppure entrata in vigore si è costretti a correre ai ripari e a correggere gli errori che avevamo lungamente denunciato.
Tuttavia Cappellacci ed Asunis continuano con la loro consueta supponenza e il testo del nuovo disegno di legge correttivo “addolcisce” i rilievi del Ministero quasi nella spasmodica ricerca di dimostrare che si tratti solo di aspetti marginali. Così non è e ve lo dimostriamo subito.
Il testo approvato dalla Giunta nel suo primo articolo introduce un nuovo comma all’articolo 11 della l.r. 4/2009 che in sostanza dice che le revisioni e gli aggiornamenti ai piani paesaggistici avvengono in applicazione delle disposizioni del Codice Urbani sul Paesaggio. Dire questo significa ammettere che senza la preventiva intesa con il Ministero non può essere modificato il PPR. Ne consegue che gli articoli 13 e 14 nonchè ogni altra disposizione che modifica il Piano Paesaggistico e le sue norme di salvaguardia non possono essere considerati applicabili prima di una revisione legittima del PPR. Perciò niente via libera a nuove lottizzazioni, modifiche dei Piani particolareggiati dei centri storici, superamento dei vincoli di inedificabilità totale nei 300 metri, modifica delle norme di salvaguardia nell’agro e cosìvia. In poche parole la “bomba” mediatica preparata dal centrodestra non era che un innocuo petardo.
Altro punto del Disegno di legge è quello che riguarda l’integrazione dell’articolo 8 dove si inserisce un comma a dir poco “bizzarro” che da un lato ammette l’inderogabilità degli standard di parcheggi corrispondenti agli incrementi volumetrici e subito dopo autorizza, qualora gli stessi non siano reperibili di fatto, la monetizzazione degli spazi destinati a parcheggi con la quale i Comuni dovrebbero così poterli realizzare in altre aree. Della serie: costruisco nel centro storico, non posso disporre di parcheggi adeguati ai volumi introdotti, li monetizzo e te li costruisco magari nella zona industriale, magari a qualche kilometro. Ne più e ne meno un’aberrazione del concetto stesso di standard urbanistico.
Il Disegno di legge correttivo per altro non dimentica le uniche cose “serie” di cui si occupa alacremente il centro destra e cioè gli incarichi e le poltrone e perciò all’articolo 2 viene definito lo stipendio degli esperti della non meglio identificata Commissione per il paesaggio. Tali esperti saranno pagati il 30 per cento di quello che percepiscono i presidenti degli enti regionali di primo livello ( Sfirs, Arst etc.) ed inoltre, senza assumersi minimamente nessuna responsabilità , avranno diritto dalla data del loro insediamento anche del trattamento di missione e rimborso spese viaggio. Mi pare una decisione semplicemente infame di fronte alla sofferenza di migliaia di famiglie che non hanno più di che vivere, non hanno più lavoro o devono perfino ricorrere alle mense della carità per vivere. Tornando al nostro argomento principale dunque, il Piano casa di Cappellacci ed Asunis per ora è come non esistesse e rimangono impregiudicati tutti i restanti aspetti di legittimità giuridica e costituzionale sollevati con competenza e responsabilità dal Procuratore della repubblica di Oristano e dal centro sinistra in Consiglio regionale. Anche su questi aspetti attenderemo con serena pazienza che si apra il nuovo confronto in Aula sul nuovo testo approvato dalla giunta regionale e in quell’occasione ci spenderemo ancora con passione ed intransigenza per far emergere la verità dei fatti, gli inganni di questa maggioranza e la necessità di rispettare sempre e comunque le regole e le competenze legislative degli altri organi dello Stato.
Alle già numerose figuracce di questo Governo regionale, dal G8 scippato, dai fondi FAS spariti, dalle crisi industriali che ci travolgono senza che si batta un colpo, dalla strada Sassari-Olbia che vedremo chissà fra quanti anni, ora si aggiunge il fallimento di un Piano casa che per fortuna non era per i cittadini sardi ma solo per qualche privilegiato che doveva essere ricompensato per i benefici elargiti in campagna elettorale. Un Governo regionale del genere forse non si era ancora visto, un decadimento della moralità pubblica così acuto neppure, tuttavia il nostro compito di opposizione deve continuare per informare e denunciare l’uso irresponsabile delle istituzioni autonomistiche di fronte alle sofferenze dei sardi e perché si ricostruisca rapidamente in Sardegna una forte coscienza civile in grado di giudicare, quando arriverà il momento del giudizio popolare, la fedeltà di chi ci governa agli impegni assunti.
Di fronte a tutto questo sinceramente non riesco a capire cosa si aspetti chi, dalle file del PD, annuncia di voler “collaborare” con questo centro destra!
Dopo lo scontro sull’urbanistica con Palazzo Marino, Salvatore Ligresti benedice il Piano di governo del territorio della giunta Moratti: «Sembra un ottimo piano perché rispecchia quelle che sono le esigenze attuali di Milano: creare molto verde e spostare volumi dove c’è bisogno e quindi riordinare la città». E sulla richiesta di commissariamento del Comune presentata lo scorso settembre per sbloccare tre progetti edilizi, il costruttore dice: «Bisognava smuovere qualcosa». Da Ligresti anche la conferma della modifica per il grattacielo "storto" di Citylife: «Cercheremo di raddrizzarlo un po’».
Sono passati soltanto tre mesi dalla dichiarazione di guerra sull’urbanistica lanciata da Salvatore Ligresti a Palazzo Marino. Eppure sembrano trascorsi secoli dalla tensione che scatenò la richiesta di commissariamento ad acta del Comune presentata dal gruppo del costruttore per sbloccare tre progetti fermi da anni sulla carta. Almeno ascoltando le parole dello stesso Ligresti. Che, per la prima volta, ha parlato ufficialmente dello scontro scatenato con l’amministrazione. Difendendo così la scelta di quella richiesta, poi ritirata in extremis: «Bisognava smuovere qualcosa. Anche per tenere sveglia l’attenzione su quello che si realizza nell’incontro di oggi (il riferimento è al cantiere di Citylife, ndr)». Ma soprattutto dando un giudizio positivo sul Piano di governo del territorio, il documento che manderà in pensione il vecchio Piano regolatore e che il consiglio comunale dovrà iniziare a discutere a giorni. Ligresti in passato non avrebbe nascosto le sue perplessità. Ma adesso dice: «Sembra un ottimo piano perché rispecchia quelle che sono le esigenze attuali di Milano: creare molto verde e spostare volumi dove ce n’è bisogno, quindi riordinare la città». Parole che, però, scatenano la reazione del Pd. «Sono dichiarazioni gravissime - attacca il capogruppo in Provincia, Matteo Mauri - Ligresti non ha fatto altro che confermare il sospetto che già avevamo: le richieste di commissariamento servivano a fare pressione in vista dell’approvazione del Pgt e del Piano provinciale».
È stata una luna di miele quella consumata durante la pubblica cerimonia di inaugurazione del cantiere di Citylife. Lì, dove un tempo sorgevano i padiglioni dell’ex Fiera e dove sta prendendo forma un nuovo quartiere, l’ingegnere sedeva in prima fila ad ascoltare - tra gli altri - i ringraziamenti di Letizia Moratti per aver creduto e investito nel progetto. Un progetto da cui Ligresti, assicura, non ha intenzione di uscire cedendo la propria quota a Impregilo: «Non ci pensiamo neanche». Concreta, invece, la modifica per uno dei tre grattacieli, la torre "storta" di Daniel Libeskind che ieri ha presentato anche il nuovo palazzo residenziale da 26 piani su piazzale Arduino. «Cercheremo di raddrizzarla un po’ - ha spiegato l’immobiliarista - in fase esecutiva si cerca di risparmiare e una torre storta costa di più».
Il taglio del nastro del cantiere, tra autorità e visita agli scavi che si concluderanno entro il 2015, è sembrata l’occasione per infondere una nuova ventata di ottimismo anche in tema di crisi economica. Per Claudio Artusi, amministratore delegato di Citylife, «i lavori comporteranno un investimento di circa 1,5 miliardi di euro al netto dei 523 milioni per l’acquisto dell’area e daranno lavoro a 2mila persone. Altrettanti saranno gli occupati nell’indotto». E sulle vendite delle case: «Sono iniziate lo scorso marzo: già firmati contratti preliminari di acquisto per 100 milioni, e ci sono trattative in corso per altri 40 milioni».