Una settimana fa vi ho scritto che ad un convegno sull´Expo 2015 sia l´amministratore delegato Stanca che il governatore Formigoni avevano assicurato che tutto procede secondo programma e che la manifestazione si svolgerà in tutta la sua magnificenza, tanto da attirare a Milano turisti da tutto il mondo anche dopo i sei mesi. Esprimevo qualche dubbio: la Fiera inaugurata nel 2005 ancora non ha i servizi e le infrastrutture previste, non vedo muoversi foglia. Ebbene, ora apprendo dai media che soldi non ce ne sono! Anzi, Berlusconi vorrebbe affidare la conduzione a Bertolaso e ciò mi fa pensare che siamo in emergenza rifiuti più terremoto: i troppi interessi, forse anche mafiosi, stanno bloccando tutto. Qualcuno ha proposto addirittura il ritiro della candidatura! Che figura. Dopo i festeggiamenti per la vittoria, la sindaco Moratti & c. chiuderebbe i battenti dell´evento. Allora sì che verrebbero turisti da tutto il mondo, ma per partecipare al Carnevale ambrosiano tanto più lungo rispetto ad altri, da essere reso "eterno" dai nostri pubblici amministratori!
Francesco Gentile
Carnevale italiano, non solo milanese. Non pochi cittadini italiani (senza voce in tv e nell´80 per cento dei media) vedono nelle scelte politiche e in alcuni rappresentanti pubblici non lo specchio della nostra società, ma una versione grottesca, patetica e a volte criminale dei difetti italiani. Le ultime intercettazioni riguardo il giro di Bertolaso, con amici influenti a destra come a sinistra, che ci dicono? Che si può scherzare persino sul terremoto e gli appalti, e benvenuti i soldi che verranno macchiati di morte e macerie. Anche noi giornalisti siamo cinici, a volte scherziamo sulle disgrazie per non «morire dentro» ma, cavolo, non ci guadagniamo un euro in più da sciagure e omicidi. Questi qua sì. E c´è sempre un´autoassoluzione. C´è, in Berlusconi e nei suoi succedanei, questa idea che si può dire e fare tutto, che non si risponde mai alle domande, o se si risponde lo si fa in un ambiente protetto, amico, che di giornalismo ha solo l´etichetta, ma non la sostanza.
L´Expo di Milano - e noi lo vediamo - è stato sinora una sorta di «fiera della palla». Si staglia un titolo: «L´occasione sprecata di un´ex metropoli». Sperando - e lo dico per davvero - che alla fine non andrà così.
Piero Colaprico
Nella Relazione annuale dell’Ispettorato della Guardia di Finanzadel 2008si legge che nelle attività della Protezione civile si possono riscontrare numerose irregolarità e incrementi del costo degli interventi. Delle irregolarità si sta occupando la magistratura: passiamo agli «incrementi del costo». Per far digerire a Regioni ed Enti locali i commissariamenti viene fatto balenare l’arrivo con la Protezione civile anche di «risorse aggiuntive» del governo, che poi sfumano. Gianni Alemanno si è fatto commissariare l’intera soprintendenza archeologica di Roma e Ostia e perfino l’Opera di Roma ma in entrambi i casi è rimasto a bocca asciutta. Allora la strategia qual è? Dove sono i soldi veri, lì si getta famelica la Protezione civile: le soprintendenze autonome e ricche (Napoli-Pompei e Roma- Ostia), i lavori straordinari già dotati di fondi (Uffizi, Pinacoteca di Brera), la ricostruzione post terremoto. Alla strategia segue la tattica: dopo il prefetto Profili a Pompei come commissario è arrivato Marcello Fiori della Protezione civile e il costo dello staff commissariale è lievitato da 200mila agli attuali 800mila euro. Il commissario all’area archeologica di Roma è Roberto Cecchi: come funzionario del ministero dei Beni culturali prende solo una indennità. Il principe di questa tattica? Bertolaso stesso: dopo aver dichiarato che non voleva lo stipendio da sottosegretario poiché gli bastava quello della Protezione civile, avrà il 3,75% del budget dei lavori per la prossima Vuitton Cup (come da art. 2, comma 9 dell’Ordinanza del presidente del consiglio 3838 del 30-12-2009), una percentuale maggiore di quella percepita dal commissario Mario Resca per i lavori di Brera che dovrebbe aggirarsi intorno al 3%. Tutta roba affidata alla Protezione civile.
Assicurate le ricche prebende, qualcosa si dovrà pur fare, e a Pompei di fronte alla cinquantina di pacifici cani che abitavano le rovine dell’antica città flegrea Fiori ha lanciato la campagna «(C)ave Canem» (sic!) per la loro adozione, con tanto di sito internet e poderoso lancio stampa. Spesa in tre mesi 86mila euro, cani finora adottati 4. Non costava meno alloggiare i randa getti all’Hotel Hilton? Inoltre è stata stipulata una convenzione con la Croce Rossa e la Asl per il pronto intervento nel caso di malori per i turisti: costo 300mila euro, una volta lo faceva solo la Asl per 8mila euro al mese. Potevano mancare gli eventi? C’è già un preventivo di un milione di euro di spesa per un ciclo di spettacoli estivi del San Carlo da allestire nel teatro grande di Pompei, che sarà sottoposto a ulteriori «restauri ad hoc» su cui farebbe meglio a vigilare la direzione generale all’archeologia del Ministero. Non è la prima volta che si fanno spettacoli a Pompei, ci sono state le Panatenee su cui però il sito guadagnava e non spendeva. C’è da chiedersi se sia giusto investire una parte degli scarsi fondi destinati all’archeologia in spettacoli.
In “ Paesaggi Perduti Sardegna. La bellezza violata”Sandro Roggio dice d’essere nato in Sardegna e di viverci “non solo d’estate ”. Una condizione con cui ha selezionato diversi autori chiedendo loro di descriversi. A partire dai luoghi con cui si sono imbattuti e da cui non intendono andar via. Nel dare immediata voce ai suoi, per determinazione geografica residenziale, “simili” Sandro innesca un processo di lettura fatto di continui rimandi tra le diverse narrazioni. I contributi, veri e propri autoritratti a volte di parole, altre di pietra; prendono la forma di altrettante “ figure urbane”. In un periodo di Piani casa, [ quello sardo è incentrato nel dare il colpo di grazia ai milleottocento chilometri della costa isolana], raccontarci di paesaggi perduti vuol dire parlare di, altrettanti, territori resistenti. Perché nel testo, anche se numerosi sono i riferimenti al passato, non c’è alcuno spazio per la nostalgia, per lo scontato “come eravamo”. Al contrario, in tutti i contributi, appare una doppia considerazione: risalire a quando è avvenuto il disastro che attanaglia l’isola e a come costruire i primi elementi per condividere un nuovo paesaggio di riferimento. Un nuovo luogo. Costruito dai tanti paesaggi; non utopico. Questa la scommessa di Sandro Roggio: fare i conti con l’esistente. Partiamo, dice, con elencare, le cose da usare in modo diverso. Per poter “agguantare” [resistere in sassarese] almeno ciò che abbiamo in consegna. Che, leggendo anche solo questo libro, non è poco. Sempre se si riuscirà a combattere una doppia partita: invertire lo svuotamento dei paesi al centro dell’isola e farla finita sulla costa con “trasformazioni sconsiderate e penalizzanti”.“Anche se è il mare a identificare, nell’immaginario collettivo di tutti, la Sardegna, i sardi non amerebbero il mare” scrive Ignazio Camarda. Sanno bene che i peggiori attentati alle spiagge sono avvenuti quando queste sono diventate indicatori di valore per il mercato immobiliare. Oggi pulire le spiagge significa la distruzione del paesaggio delle dune e il conseguente vuoto biologico. Bisogna vigilare con la consapevolezza, sostiene invece Marcello Madau, che la “tutela non basta”; dovrà essere accompagnata “dalla tensione di tutte le comunità di accogliere i luoghi entro se stesse”. A saperli riconoscere e guardarli con quello che Antonietta Mazzette chiama lo “sguardo lungo”; vale a dire il solo punto di vista capace di cogliere il paesaggio urbano come “assemblaggio di percezioni e segni”. A riscoprire la prospettiva come elemento di misura. Come nelle tavole di Alberto Ferrero della Marmore che nell’ottocento seppe cogliere i caratteri individuali dell’isola. A volte, anche i sardi, hanno tenacemente voluto cancellarli. E’ il caso dei “demolitori sacrileghi” descritti da Giacomo Mameli nel loro accanimento per abbattere la chiesa del Cinquecento di Perdasdefogu e realizzare un campetto, chiuso, per altro, all’uso dei bambini perché, dice il parroco:”ogni tanto dicono parolacce”. Verrebbe voglia di gridarle di peggiori, e ancora più forte, andando a vedere le immagini del libro. Dal disastro di Capoterra, al villaggio della Marmorata [ ma è vero? ], al bucare le piazze sassaresi, alle spettrali geometrie dei fossili edilizi riprese da Alessandra Chemollo. Che fare? Forse, ridefinire l’identità dell’isola, di cui la rete dei ventimila monumenti e dei centomila racconti, costituisce l’ossatura materiale e immateriale, come reinvenzione di quella vita che si vuole cancellata.
Sandro Roggio, Paesaggi perduti. Sardegna, la bellezza violata, Cagliari, CUEC, 2009. euro 13,00
Messina. Vinci un superappalto e cinque anni dopo ti ritrovi con un contratto nuovo. Ancora più "super". Che il Ponte sullo Stretto sia un'opera dal costo faraonico è noto. Ciò che ancora non si sa è che Eurolink, il consorzio con capofila Impregilo che dovrà unire Scilla e Cariddi, s'è visto riconoscere a settembre dalla società Stretto di Messina una maggiorazione sul compenso altrettanto faraonica: un miliardo e 90 milioni in più rispetto al corrispettivo pattuito nel 2005. Che è lievitato da quasi 4 miliardi di euro (3.879.600, per l'esattezza) a 4.969.530. E tutto questo senza aver mosso una pietra. Con l'effetto non solo di annullare il ribasso del 12% con cui il cartello di imprese - che comprende anche Condotte, Cmc, la spagnola Sacyr e la giapponese Ishigawa - si era aggiudicata la gara, ma addirittura di accrescere il compenso in misura più che doppia rispetto allo stesso ribasso.
Il nuovo corrispettivo è fissato nella relazione di aggiornamento del piano finanziario dell'opera, firmato dall'amministratore delegato della Stretto di Messina e presidente dell'Anas Piero Ciucci e inviato per conoscenza al governo. Nella relazione, Ciucci sdogana la maggiorazione con la necessità di adeguare il valore di base definito con la gara alla dinamica dei prezzi e dei costi intervenuta e prevista tra il 2002 (chiusura del progetto preliminare) e il 2011, data presunta dell'approvazione del progetto definitivo. Che, è bene ricordare, non c'è ancora. Nel documento, non mancano i punti che lasciano perplesso più di un economista. A partire da Guido Signorino, ordinario di Economia applicata all'Università di Messina e membro del Centro studi per l'area dello Stretto Fortunata Pellizzeri. Che osserva: "In poco tempo, mentre non si è mossa una ruspa, la commessa è lievitata del 28%, anche se, nello stesso periodo, la dinamica dei prezzi ha raggiunto record secolari di stabilità". Che cosa hanno fatto, invece, alla Stretto di Messina? Un esempio utile è quello dell'acciaio: l'accordo giustifica l'aumento del corrispettivo citando anche "l'eccezionale aumento dei prezzi registrato tra il 2003 e il 2004" e l'andamento dell'inflazione intervenuta e attesa nel periodo 2002-2011. Curioso che la valutazione dei prezzi si proietti al 2011, mentre quella dei costi si fermi al 2004. Se la Stretto di Messina avesse considerato l'andamento del costo dell'acciaio fino al 2009, avrebbe scoperto che questo è calato di molto, e che le stime del trend di domanda e offerta fino al 2011 dovrebbero far prevedere un assestamento su un valore molto più basso di quello del 2004.
Le perplessità, però, non finiscono qui. Stranamente, il corrispettivo dei lavori cresce di oltre un miliardo, mentre la stima del valore finale dell'opera - che include gli oneri finanziari - aumenta di soli 200 milioni, passando da 6,1 a 6,3 miliardi. Insomma, se da un lato è aumentata del 28% la somma da versare all'impresa, dall'altro il valore stimato del Ponte è cresciuto solo del 3,3. Una contraddizione che si può spiegare così: aumentare il valore dell'opera oltre i 6,3 miliardi avrebbe significato esporsi alle critiche di chi sostiene già adesso che l'investimento è troppo costoso e non remunerativo. Resta poi da spiegare per quale motivo in questi anni la Stretto di Messina non abbia ridotto il valore finale dell'opera, proporzionandolo al ribasso offerto dalla cordata vincitrice. La Corte dei Conti informa, infatti, che nel 2008 la società indicava ancora un costo finale pari a circa 6 miliardi, quando il ribasso offerto da Impregilo avrebbe dovuto far scendere il valore attorno ai 5 e mezzo. Secondo Signorino, questa scelta potrebbe significare che il ribasso col quale il consorzio ha vinto la gara era eccessivo: "Stretto di Messina ha tenuto invariata la stima del costo finale dell'opera, quando avrebbe fatto meglio a rifiutare l'offerta". In proposito, è il caso di ricordare che l'appalto fu impugnato al Tar da Astaldi, che aveva partecipato alla gara, e che il suo presidente Vittorio Di Paola dichiarò come "sul maxi ribasso di Impregilo" bisognasse riflettere. Ma il ricorso non andò avanti, perché il governo Prodi dichiarò il Ponte opera non più prioritaria, facendo venir meno l'oggetto del contendere.
Un altro aspetto da ricordare è che per anni si è paventato di dover pagare a Eurolink penali pesantissime nel caso in cui l'opera fosse stata fermata dal governo senza mai arrivare al progetto definitivo. In realtà, afferma Ciucci, al consorzio non sarebbero dovute penali qualora venisse intimato l'alt anche dopo aver ricevuto il progetto definitivo e quello esecutivo: le penali sono invece dovute se lo stop avvenisse anche un solo giorno dopo l'inizio dei lavori.
E qui si apre un'altra questione. Per il governo, i lavori del Ponte sono ufficialmente iniziati il 23 dicembre, con la prima pietra del progetto di spostamento di un binario nella frazione Cannitello di Villa San Giovanni. Si tratta di un'opera che avrebbero dovuto eseguire le Ferrovie e che, invece, il Cipe ha dichiarato a luglio di competenza della Stretto di Messina, "calandola" nel progetto Ponte. Il 23 dicembre le ruspe hanno iniziato a lavorare, fermandosi subito dopo per la pausa natalizia. Da allora il cantiere non è avanzato. Né poteva essere altrimenti, visto che dell'opera non esiste il progetto definitivo né la relativa variante urbanistica è mai stata approvata. Anzi, la Regione Calabria ha fatto ricorso al Tar e alla Corte costituzionale, lamentando di non essere stata sentita prima che il Cipe classificasse l'opera come preliminare al Ponte (al quale la giunta calabrese di centrosinistra si oppone).
Ma c'è di più: il terreno su cui le ruspe hanno lavorato per qualche giorno non è ancora stato espropriato, come confermano i proprietari. Eppure, su questo bluff Eurolink potrebbe fondare la futura pretesa di penali. Calcolate sul nuovo corrispettivo astronomico.
Negli uffici delle sovrintendenze sono certi: è in arrivo da Roma la norma salva-Cualbu, che potrebbe garantire le ultime due autorizzazioni paesaggistiche indispensabili per completare l’intervento edilizio su Tuvixeddu. Bocciati dal Consiglio di Stato, i nullosta - quando saranno chiesti per la seconda volta - dovrebbero passare ora all’esame di merito da parte della sovrintendenza come previsto dalla riformulazione del Codice Urbani. Ma è in arrivo un salvagente: il ministro ha proposto il ritorno provvisorio alla normativa che delegava l’esame alle regioni e ai comuni.
CAGLIARI. Negli uffici delle sovrintendenze sono certi: è in arrivo da Roma la norma salva-Cualbu, un provvedimento clamoroso che potrebbe garantire le ultime due autorizzazioni paesaggistiche indispensabili per completare il controverso intervento edilizio su Tuvixeddu.
Bocciati dal Consiglio di Stato per carenza di motivazione, in base alla nuova formulazione dell’articolo 146 del Codice Urbani i nullaosta - quando verranno chiesti per la seconda volta - dovrebbero passare all’esame di merito da parte della sovrintendenza architettonica e paesaggistica, che fino al 31 dicembre 2009 poteva esprimere soltanto un parere di legittimità. Messe una dietro l’altra le iniziative di contrasto legale del piano Coimpresa avviate dagli uffici ministeriali negli ultimi anni - ultima quella dell’ex sovrintendente Fausto Martino che ha annullato con decreto le autorizzazioni, il Consiglio di Stato gli ha dato ragione in via definitiva - è difficile credere che la società del costruttore fonnese avrebbe vita facile a ottenere un nuovo via libera. Ma ecco che arriva il salvagente da Roma: tra oggi e domani il consiglio dei ministri dovrebbe esaminare la proposta del ministro dei beni culturali Sandro Bondi, che chiede il ritorno provvisorio alla normativa precedente. Quella che delegava all’esame delle richieste di autorizzazione e al loro rilascio le regioni e in sub-delega i comuni.
Il motivo di questo incredibile dietrofront, destinato con ogni probabilità a gettare nel caos le sovrintendenze di tutta Italia, sarebbe la mancanza di mezzi e i problemi organizzativi manifestati dagli uffici regionali del ministero. Alcuni - secondo le informazioni raccolte a Roma - non sarebbero in grado di far fronte alle richieste di nullaosta. Pertanto, anzichè migliorare mezzi e dotazioni di personale, il ministro chiederebbe una sorta di sospensiva alla formulazione definitiva del Codice Urbani per prorogare la versione precedente. Un caso probabilmente unico e straordinario persino in un paese come l’Italia, dove le norme cambiano di giorno in giorno a seconda delle convenienze private. Ma una cosa è modificare una legge, un’altra sospendere l’efficacia di una norma entrata in vigore un mese e mezzo fa per ridare forza a quella precedente. Una norma modificata proprio per assicurare un controllo maggiore, più specialistico alle pratiche autorizzatorie che riguardano siti sensibilissimi e di enorme valore culturale.
Stando alle indiscrezioni alcune sovrintendenze avrebbero protestato per questa decisione, ancora da ratificare: molte istanze di concessione dei nullaosta sono state infatti già esaminate, altre sono in lista d’attesa. Se il provvedimento, che dovrebbe assumere la forma del decreto, sarà approvato dal consiglio dei ministri si assisterà a un precipitoso giro di pratiche, con termini e scadenze da rivedere, pareri da ritirare e un contenzioso che si annuncia intricatissimo. Nel caso della Sardegna la competenza verrà riassunta dalla Regione, che potrà delegare i comuni compresi nell’elenco pubblicato nel Buras. In quell’elenco Cagliari non c’è perchè non ha uffici e organizzazione sufficiente. Quindi le nuove richieste di nullaosta che il gruppo Cualbu presenterà con ogni probabilità nel giro di qualche settimana passeranno all’esame degli uffici regionali. Dove la tendenza nei confronti del piano Tuvixeddu è variabile insieme al colore politico della giunta: se quella guidata da Renato Soru ha lottato sino in fondo per fermarne la realizzazione, l’esecutivo Cappellacci ha annunciato con enfasi storica che l’accordo di programma del 2000 sarà rispettato. Non solo: dall’inizio della legislatura in poi l’ufficio legale della Regione ha stranamente omesso di costituirsi in giudizio quando la parte avversa è Nuova Iniziative Coimpresa, affiancandosi idealmente al comune di Cagliari nella difesa a oltranza dell’edificazione. E’ cambiato l’orientamento e presto si riparlerà dell’arbitrato che dovrà risolvere lo spinoso tema del risarcimento al costruttore per i ritardi accumulati nella realizzazione del progetto a causa degli intoppi legali provocati da Soru: malgrado la recente pronuncia del Consiglio di Stato e il clamoroso contenuto del provvedimento di archiviazione dell’inchiesta penale su Tuvixeddu firmato dal pubblico ministero Daniele Caria sembra che per la giunta Cappellacci la ragione stia tutta da una parte: quella di chi vuole portare palazzi e ville attorno alla necropoli punica più importante del mondo.
Nel giorno in cui Guido Bertolaso va in Senato e assicura che non diventerà commissario straordinario dell’Expo, la Provincia lancia «Expo fuori le mura». Ma il sottotitolo potrebbe essere l’Expo dei dimenticati: i 134 comuni della provincia milanese che per adesso hanno visto l’Expo solo sulle pagine dei giornali. Per questo motivo, il presidente della Provincia, Guido Podestà, ha deciso di chiamarli a raccolta. Da Palazzo Isimbardi assicurano che non c’è nessuna volontà polemica nei confronti del sindaco Letizia Moratti e dell’ad della società, Lucio Stanca. Ma che si tratta solamente di declinare quello che è uno slogan ripetuto da mesi: l’Expo, un’occasione per tutti. Anche per quei comuni della Grande Milano che la Provincia coordina e vorrebbe far entrare nella partita dell’evento del 2015. Sul tavolo ci sono tre progetti.
Due che riguardano direttamente i comuni metropolitani. Il terzo riguarda invece l’Idroscalo, che nelle intenzioni di Podestà, deve diventare «la seconda zattera di Expo» che si andrebbe ad aggiungere al sito ufficiale dell’evento a Rho-Pero. Un progetto ambizioso che vorrebbe trasformare il «mare dei milanesi» nel Parco dell’Acqua, una sorta di città del benessere (dalla medicina sportiva, al fitness, alla riabilitazione post-traumatica, alle terme, all’alimentazione, alle piste ciclabili). Il primo obiettivo, naturalmente, visto che si tratta del Parco dell’Acqua, è recuperare la «balneabilità». I progetti che riguardano i comuni della cinta sono altrettanto ambiziosi. Il primo riguarda la messa in rete di tutti i comuni per la pianificazione urbanistica e le infrastrutture in modo da avere uno sviluppo ordinato del territorio. Piani di governo del territorio in comune. E infrastrutture come il prolungamento dei metrò al di fuori dei confini cittadini.
L’ultimo progetto riguarda un tema contenuto nel dossier di candidatura. Le vie d’acqua. Un progetto «sfortunato» e irto di difficoltà tecniche, visto che in un primo mento era stato ritirato e poi, per volere della stessa Moratti, rimesso allo studio. Podestà si porta avanti. E sia che si faccia sia che non si faccia la Via d’Acqua dalla Darsena a Rho-Pero, lancia la «Gran Traversata dei Navigli» per realizzare un percorso navigabile che attraversa l’intera provincia dall’Adda al Ticino. Progetti realizzabili? Sicuramente ci vogliono tanti fondi. Ma dal punto di vista politico il messaggio è chiaro: la Provincia vuole giocare un ruolo strategico in Expo in alternativa al Comune.
La necropoli Tuvixeddu è salva
di Francesca Ortalli
uvixeddu è salva. Sulla necropoli punico-fenicia più grande del Mediterraneo, incastonata nei colli di Cagliari il cemento non arriverà. Lo dice la sentenza del Consiglio di Stato n° 00538 del 24 novembre 2009 e pubblicata il 5 febbraio scorso. Senza troppi giri di parole si annulla l’autorizzazione paesaggistica del 25 agosto del 2008 concessa dal Comune di Cagliari alla Nuova Iniziativa Coimpresa di Gualtiero Cualbu. Era questa l’impresa che, facendosi forte di un accordo di programma sottoscritto nel duemila insieme alla la Regione guidata allora da Mario Floris, e al Comune di Cagliari (sindaco Mariano Delogu oggi senatore Pdl) voleva costruire tra le tombe antichissime: 150 mila metri cubi di palazzine spalmate tra viali alberati e fioriere traboccanti di verde al posto di pezzi di storia perché rende più il mattone della cultura.
I giudici di palazzo Spada hanno detto che quell’autorizzazione non poteva essere concessa. E che bene aveva fatto il soprintendente di allora, l’architetto Fausto Martino ad annullarla. Si legge infatti nel documento che, «volendo sinteticamente riassumere, le ragioni poste dalla Soprintendenza a fondamento del disposto e contestato annullamento possono essere illustrate nei termini di seguito indicati: carenza di motivazione del parere espresso, a fini paesaggistici, dalla Commissione edilizia; carenza della relazione paesaggistica, destinata a costituire parte integrante del progetto approvato, adozione dell’autorizzazione paesaggistica sulla base di documentazione diversa da quella presa in esame dalla Commissione edilizia».
L’autorizzazione concessa dal Comune a Cagliari si basa, continua, «su un apparato motivazionale davvero stringato» così come «la compatibilità dell’intervento con il contesto urbano sulla base di argomentazioni superficiali». Ma c’è di più. I giudici di Palazzo Spada sottolineano che a causa della modifica del Codice Urbani del 31 dicembre 2009, il parere della Soprintendenza è vincolante entro 45 giorni dalla richiesta. Questo significa che l’impresa di Cualbu se vorrà costruire sopra la necropoli dovrà iniziare tutto da capo tenendo conto questa volta di un parere vincolante della Soprintendenza. La stessa, per capirci, che si è rivolta al Consiglio di Stato per tutelare il colle.
Un duro colpo per l’imprenditore che aveva festeggiato con una bottiglia di champagne stappata in pompa magna l’arrivo alla guida della Regione di Ugo Cappellacci nel febbraio dello scorso anno. Durissima infatti era stata la battaglia contro il governatore Renato Soru, che aveva stoppato nel 2006 le sue betoniere con una delibera regionale. Ora sul colle di Tuvixeddu, per legge, i palazzi non si possono più costruire.
Che riposino in pace
di Giorgio Todde
Lord Carnarvon morì un anno dopo l’apertura della sepoltura del più celebrato dei faraoni. Il faraone, dice la leggenda, si offese per la violazione della sua pace.
A Tuvixeddu, la necropoli che si è miracolosamente conservata anche se asfissiata da una pappa urbana che l’assedia, era il cimitero della Cagliari fenicio punica e poi romana. Nei millenni si adattò alla storia. Divenne perfino insediamento rupestre e le tombe furono abitate sino a qualche decennio fa. Ha sofferto perché per più di mezzo secolo fu una cava e i lavori la alterarono anche se hanno prodotto un paesaggio di grande fascino.
Ha resistito ad ogni offesa ma stava per cedere, sfinita, ad un’impresa che vorrebbe edificare sul colle e all’amministrazione comunale che l’avrebbe dovuta difendere perché quel sito è irripetibile, ci rappresenta ed è di tutti. Ma dai primi anni novanta il progetto ha oppositori. L’archeologo Lilliu, accademico dei Lincei, lo boccia come “crimine contro l’umanità”.
E’ lievitato un intrico giuridico, nel quale, per la prima volta nella storia sonnolenta della città, il cui ago magnetico è rivolto al mattone, nasce uno spirito critico, dopo anni e anni di intelletti un po’ bambini, autorizzati a sognare e ricordare, sì, ma a lasciar stare il presente perché quello è riservato ai grandi. L’intrico, impossibile da raccontare in poche righe, vede l’Amministrazione regionale e la Sovrintendenza schierate in giudizio contro il Comune e l’Impresa. Un gruppo di intellettuali cittadini parla di “incestuose collusioni” tra chi imprende e chi governa la città. E viene inquisito. Giornali, tribunali, lettere aperte, televisioni. Perfino il Times, la Suddeutsche Zeitung, la Conferenza Europea delle Regioni. Ma tribunali amministrativi e le loro carte danno ragione all’impresa.
Per di più, si sa, cambia il clima politico in Regione. Tuvixeddu è agli sgoccioli e sta per cedere.
Ma accade che la procura si occupi delle vicende e che dalle indagini nasca un atto complesso, preciso, basato su una lucida analisi dei fatti.
L’ex Sovrintendente, quello che aveva negato l’esistenza di nuovi ritrovamenti e votato contro l’ampliamento dei vincoli, ha omesso, in commissione, le mille e passa sepolture, una parte delle quali nel frattempo erano finite sotto il garage di un palazzo. Se avesse detto la verità la storia di Tuvixeddu sarebbe stata un’altra.
Insomma, l’idea di un complotto anti-impresa, ipotizzato dai giudici del tribunale amministrativo, si sfalda e l’ipotesi si ribalta.
Emerge dall’atto del Piemme il quadro di una città nella quale non si distingue più chi amministra da chi imprende, la condizione che più di ogni altra ostacola il perseguimento del cosiddetto, invisibile a Tuvixeddu, Pubblico Interesse. Nelle pagine della Procura la documentata descrizione di un clima che conferma lo scenario di una comunità che si regge su rapporti nebulosi e confusi, le parti non chiare. Uno scenario che inquieta. Ogni cosa regolata da pochi, consolidati interessi, concentrati nella consunzione del paesaggio considerato come spazio da costruire. Tuvixeddu, le rive degli stagni immensi, luoghi che erano là da secoli ma concupiti e, in qualche modo, sottomessi all’interesse di pochi.
Poi il Consiglio di Stato, finalmente, emette una sentenza a favore del colle e l’autorizzazione a costruire un lotto sul colle è annullata.
Chissà che i defunti punici e romani, i quali non possono ricorrere al Tar, non abbiano trovato finalmente un modo per difendere la propria quiete.
Ventiquattro pagine di frasi fatte sulla Bologna da cartolina, eteree riflessioni sulle vocazioni della città e analisi su come potrebbe essere. Ma, come direbbe Mourinho, zero proposte concrete. Dopo sei mesi di lavoro la giunta ha lasciato in eredità ai posteri il documento "progetto per la città storica di Bologna". Se non ci fosse stato l'incidente Cinzia, avrebbe dovuto essere il piano di lavoro. In effetti sembra poco più di un programma elettorale. "Immaginiamo il coinvolgimento dei cittadini e delle categorie in eventi gastronomici....immaginiamo una giornata dell'accoglienza, dove le case sono aperte, la gente invita i vicini...immaginiamo di tematizzare vetrine, luoghi e installazioni valorizzando il rosso bolognese..."
Se questa è la premessa poi si passa al capitolo operativo (perché "questa giunta fa sul serio"). E di "concreto", ad esempio, c'è la proposta, per quanto riguarda la sicurezza, di "favorire punti virtuosi di aggregazione sociale"; di dotare la città di un piano regolatore dei beni artistici e culturali; di fare un maxicalendario degli eventi culturali già programmati; e, sui dehors, "di semplificare la concessione delle autorizzazioni definendo un piano di sviluppo di queste forme di stare insieme sempre più popolari tra la gente".
CASSANO Magnago (Varese) - Se ne parla da mezzo secolo, adesso è la volta buona. Ieri, l’inaugurazione in pompa magna della Pedemontana, opera viabilistica che collegherà cinque province lombarde (Bergamo, Monza, Milano, Como e Varese). Centosessanta i chilometri del nuovo percorso: 70 di autostrada, 20 di tangenziali e altri 70 di viabilità locale. Si comincia a lavorare da ovest: il cantiere inaugurato è a Cassano Magnago, in provincia di Varese, la stessa località dove nel 1924 cominciarono i lavori per la Milano-Laghi, la prima autostrada d’Europa.
La Pedemontana dovrebbe essere completata entro il 2015, l’anno dell’Expo a Milano. A regime, avrà circa 350mila utenti al giorno, con una notevole riduzione del traffico sui 20mila chilometri di rete stradale esistente: dal 10 al 70 per cento. Gli abitanti che gravitano lungo il percorso della nuova opera sono quattro milioni, e 300mila le imprese. Si calcola che i posti di lavori creati saranno 40mila in cinque anni. Grande opera, grandi costi: cinque miliardi di euro, di cui oltre quattro destinati alla costruzione, 100 milioni per opere compensative (tra cui cinque milioni di metri quadri di boschi e prati, con un milione di nuove piante) e 800 milioni per oneri finanziari e gestionali durante i trent’anni di durata della concessione. Gli azionisti di Autostrade Pedemontana spa sono la Serravalle - società pubblica sotto il controllo della provincia di Milano (68%) , Equiter (20%) Banca infrastrutture innovazione sviluppo (6%) - queste ultime due controllate dal gruppo Intesa Sanpaolo - e Ubi Banca (5%).
Secondo una ricerca della Camera di commercio di Monza, la nuova infrastruttura consentirà un risparmio 45 milioni di ore l’anno in spostamenti, e ogni suo chilometro creerà 900 posti di lavoro. L’incremento stimato del Pil è pari a 210 milioni di euro, con un beneficio diretto sul fatturato delle imprese che supera i 200 milioni. Numeri sottolineati ieri da una folla di autorità: dal ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli al suo collega Umberto Bossi (nativo di Cassano Magnago), dal presidente della Lombardia Roberto Formigoni a quello della Provincia Guido Podestà. A mezzogiorno telefona Silvio Berlusconi, che non rinuncia allo spottone elettorale. «Dopo il governo della sinistra, tutto è ricominciato a partire», dice il premier, che insiste in particolare sulla necessità di «rendere più verde l’Italia», perché il milione di nuovi alberi lungo la Pedemontana «non basta». Seduto in prima fila, Bossi ha qualcosa da dire: «Silvio, lascia stare, che a piantare il verde ci pensa la Lega». Controreplica del Cavaliere: «Ne sono felice, ma l’italiano che ha piantato più’ alberi in Italia credo di essere io, su questo siamo in competizione assoluta».
Prima dei discorsi la cerimonia del muro di ghiaccio abbattuto, a simboleggiare il lungo letargo di un’opera, pensata alla fine dei Cinquanta. L’accelerazione negli ultimi anni, dopo un difficile confronto fra i Comuni interessati, le Province e la Regione. Inaugurazione con polemica. Filippo Penati, fino all’anno scorso presidente della Provincia di Milano e ora candidato governatore del centrosinistra in Lombardia, abbandona la sala. «Per colpa di qualche servo sciocco - spiega - sono stato relegato in quinta fila, mi hanno nascosto per non riconoscere il mio impegno come amministratore per la realizzazione di questa struttura, e anche perché mi sono candidato contro Formigoni».
Con i recenti commissariamenti degli Uffizi e Brera, il processo faticoso e altalenante verso l’autonomia, intrapreso da qualche anno dalle principali Soprintendenze storico artistiche e archeologiche ha subito una battuta d’arresto probabilmente decisiva: ad oggi risultano di fatto commissariate le Soprintendenze di Pompei, Roma- Ostia Antica, Brera, gli Uffizi.
Si era trattato di un disegno che, pur non esente da molte criticità, aveva prodotto anche notevoli migliorie in termini di efficienza di gestione: il tentativo di aggiornare alle mutate esigenze almeno una parte, quella più esposta alla pressione turistica, del sistema territoriale della tutela del nostro patrimonio. Frutto di una visione non priva di incongruenze, ma che aveva cercato di fornire una risposta non di facciata ai molti problemi che si andavano addensando sui temi della tutela e valorizzazione del nostro patrimonio, è perfettamente legittimo che tale sistema possa essere ridiscusso e ribaltato, ma attraverso i commissariamenti ciò sta avvenendo con modalità assai contestabili, di dubbia efficacia organizzativa e che presentano forti rilievi di legittimità, come si sottolinea da più parti con sempre maggiore forza.
A distanza di oltre un anno dal commissariamento di Pompei (luglio 2008), con il dossier dedicato a questo tema, torniamo quindi ad interrogarci su queste operazioni , a partire dalle due Soprintendenze Archeologiche , (oltre a Pompei, Roma-Ostia: le più importanti d’Italia), entrambe commissariate. Nel frattempo gli incarichi dei Commissari sono stati entrambi prorogati, mentre in compenso sono mutati, per motivi diversi, i personaggi cui è affidato il ruolo: a Roma, Roberto Cecchi – Direttore Generale alle Belle Arti - ha sostituito Guido Bertolaso, il Capo della Protezione Civile, mentre a Pompei Marcello Fiori, dirigente della Protezione Civile, è subentrato al prefetto Renato Profili.
In entrambi i casi le fortissime critiche sollevate ai provvedimenti partivano dalla pretestuosità delle motivazioni indicate a loro sostegno: grave stato di degrado e incuria per quanto riguarda Pompei e addirittura gravissimi rischi strutturali e di imminente crollo per i monumenti dell’area archeologica centrale capitolina e del sito di Ostia Antica. L’inconsistenza delle motivazioni contrastava invece con per l’ampiezza del mandato affidato al commissario straordinario: deroga dalle norme sulla contabilità dello Stato, sul procedimento amministrativo, sul pubblico impiego, nonchè sulle norme del Codice dei contratti pubblici, quelle in materia di emergenza sanitaria ed igiene pubblica, oltre alle leggi regionali di recepimento e di applicazione; gli interventi costituiscono poi varianti ai piani urbanistici.
Anche se i provvedimenti risalgono a momenti diversi (luglio 2008 e marzo 2009) è però possibile un primo bilancio che, in entrambi i casi, è fortemente negativo. Pochi e superficiali i provvedimenti realizzati nel sito campano: qualche miglioria igienico sanitaria, l’adozione dei cani randagi, il marketing ai privati produttori di vino doc. Altrettanto inconsistente l’opera del Commissario a Roma: non è servita una pubblicazione autocelebrativa, dedicata a pubblicizzare i presunti successi dei primi mesi, a mascherare che dietro il presunto attivismo del nutrito staff commissariale si nascondono in realtà le normali attività di manutenzione e controllo da sempre svolte dalla Soprintendenza in modalità di ordinaria amministrazione, mentre si ignora a tutt’oggi quale sia l’agenda dei lavori del Commissario per quanto riguarda il sito di Ostia Antica. Appaiono così del tutto convalidati i sospetti, già espressi da Italia Nostra, secondo i quali uno degli obiettivi dell’ordinanza governativa di commissariamento consisteva nella annessione sic et simpliciter della Soprintendenza ostiense a quella romana, con il risultato della cancellazione, dietro il pretesto della emergenza, di decenni di autonoma storia culturale.
Mentre quasi del tutto inconsistenti appaiono i risultati sul piano scientifico archeologico, su quello delle risorse disponibili, non solo i commissariamenti non hanno apportato finanziamenti aggiuntivi, limitandosi ad utilizzare e vampirizzare quelli delle Soprintendenze di riferimento, ma hanno anzi provocato spese aggiuntive a causa dei costi di mantenimento delle strutture commissariali, costi, nel caso di Pompei, enormemente lievitati (da 200 a 800mila euro) senza motivazione nè riscontro.
Fallimentare negli esiti, tale esperienza è però lungi dall’essere esaurita ed anzi la gestione commissariale tende a stabilizzarsi e ad ampliarsi ad altre realtà (v. da ultimi, Brera e uffizi) . E’ una vera e propria cultura dell’emergenza quella che si va affermando: l’obiettivo immediato è senz’altro quello di liberarsi di “lacci e lacciuoli” per accellerare (aggirare) i normali percorsi amministrativi, supplendo in tal modo alle lentezze e inefficienze dell’amministrazione ordinaria . Inefficienze che pure esistono, ma che sono il frutto di carenze e rigidità organizzative e strutturali che non si risolvono affiancando a quella ordinaria un’amministrazione parallela di estemporanea concezione, dubbia efficacia e difficile monitoraggio.
La crescente complessità che attraversa anche il problema della tutela del nostro patrimonio culturale merita un’attenzione non rinviabile: i commissariamenti rappresentano però una risposta culturalmente rozza e democraticamente deficitaria. Ponendo le premesse, una volta che l’emergenza si sia stabilizzata, per un’amministrazione di diversa concezione, con pochi vincoli e di diretta nomina politica, questi organismi decretano la sostituzione del l’esercizio della competenza con il principio di autorità.
In quello che Cederna chiamava il Paese delle eterne emergenze, il ruolo destinato ad assumere dai Commissari straordinari è purtroppo crescente ed abnorme: l’azione di contrasto di Italia Nostra si prefigge non solo di ridurre una concentrazione di potere decisionale pericolosa sul piano della trasparenza amministrativa e inefficace sul piano operativo, ma di evitare il contestuale declassamento, in termini di risorse e capacità operativa, delle istituzioni deputate per legge e sulla base di competenze tecniche accertate ad applicare leggi e regolamenti. Questi organismi, le Soprintendenze, esercitano il loro ruolo in autonomia dal potere politico perchè custodi di funzioni che salvaguardano beni e interessi della collettività nel suo complesso e non solo di una parte: pretendiamo che continuino a farlo attraverso strutture e risorse finalmente adeguate al compito.
Qui dove i segni della dea lunare
vegliano i morti e parlano d'amore,
Qui dove i fiori esangui e senza odore
Vestono l'aspra roccia di calcare,
Qui nel cospetto dell'azzurro mare
Sotto i raggi del dio divoratore,
Piccola sfinge, esotico mio fiore,
Sopra la bocca ti vorrei baciare.
Mentre punica, immobile, infinita
Del meriggio l'arsura in alto tace,
La necropoli invita ai suoi recessi.
Stretta al mio cuore io vorrei trarti in essi:
Io vorrei trarti dove è fresco e pace
Soli tra i morti ad eternar la vita.
Francesco Tauro, "Tuvixeddu", Cagliari, 1 maggio inizio sec. XX
Ho vissuto per tutta la mia infanzia e l’adolescenza sulla collina di Tuvixeddu a Cagliari, proprio ai piedi della nota necropoli fenicio punica. Mi riferisco al periodo tra gli anni 60 e primi anni 80, quando Tuvixeddu era una sorta di villaggio composto prevalentemente dalle famiglie di operai che lavoravano nel cementificio che sfruttava la collina per l’estrazione di cava, e da quelle degli ultimi pescatori dello stagno di Santa Gilla, che si trova proprio davanti al colle; nonché da una umanità di poveri, diseredati e rifiutati dalla società, alla quale quel colle, con le sue millenarie “grotte”, ha sempre dato rifugio.
Ritengo di essere stato un privilegiato per aver potuto passare una importante parte della mia esistenza a Tuvixeddu e di aver fatto parte, insieme alla mia famiglia, a quel sottoproletariato estremo che con dignità ha abitato le povere case del colle. Noi sottoproletari di Tuvixeddu non sapevamo nulla dell’importanza storica e archeologica del luogo in cui abitavamo. Ma sapevamo che quello era un antichissimo cimitero in cui erano sepolti i nostri antenati e nella nostra quotidiana sopravvivenza cercavamo di instaurare con quelle millenarie tombe una forma pratica di convivenza. Le usavamo per coltivarci i fiori o allevarci le galline, per arrostire la carne e il pesce o per gettarci l’immondezza. Mai a nessuno è venuta l’idea di cancellarle con colate di cemento per creare il parcheggio alla propria utilitaria.
Bande di bambini scorrazzavano per Tuvixeddu, luogo prediletto per i giochi, le avventure e le esplorazioni; ogni mattina poi tutti i bambini del quartiere, amavano usare la strada della necropoli come scorciatoia per andare alla scuola elementare che si trovava al di là del colle. Eravamo consapevoli della bellezza di quelle bianche rocce di calcare traforate e ricoperte da folti cespugli di capperi selvatici e di quella campagna così sobria, aspra e silenziosa. Nel punto più alto del colle, immersa in un boschetto di pini e cipressi, quasi a strapiombo sulle rocce scavate dalle antiche tombe, dominava misteriosa una villa in stile liberty.
In seguito, come studente d’arte, ho capito quanto quello scorcio di paesaggio fosse simile alla famosissima opera “L’isola dei morti” di Arnold Böcklin e come a Tuvixeddu, nonostante le ferite del cementificio e il degrado dell’urbanizzazione che avanzava, continuasse a sopravvivere una dimensione paesaggistica fortemente romantica. Ogni tanto un pastore col suo gregge di pecore attraversava la necropoli e percorreva tutto il colle. I rumori della città sembravano lontani e ovattati.
Prima dell’imbrunire le ruspe del cementificio che divorava una parte della collina, coi loro lamentosi cigolii rientravano nel cantiere e appena faceva buio Tuvixeddu diventava il luogo appartato in cui arrivavano le prostitute coi loro clienti. Tuvixeddu era un altro pianeta: bastava salire il centinaio di scalini del vico 2 del viale Sant’Avendrace per trovarsi improvvisamente catapultati in un’altra dimensione spazio-temporale, lontana dalla grigia urbanizzazione che cresceva schizofrenicamente intorno al colle. Tutti avevamo giardini molto belli ed orti rigogliosi che fungevano anche da barriera ai palazzi del quartiere che inesorabilmente, negli anni, avanzavano nel loro assedio.
Agli inizi degli anni 80, con la chiusura del cementificio, le famiglie degli operai che abitavano le casupole di Tuvixeddu vennero sfrattate. Quella già fragile dimensione popolare che viveva sulla collina, scomparve definitivamente, così come definitivamente avanzò il degrado in cui Tuvixeddu venne abbandonato. I cosiddetti “abitatori delle grotte” di Tuvixeddu, nel corso degli anni, si susseguirono scandendo anche quelli che erano i cambiamenti antropologici e sociali di una città che nel bene e nel male mutava nella sua crescita. Da rifugio per sfollati di guerra, quelle “grotte”, ovvero quelle grandi tombe a parete di epoca romana, ospitarono man mano persone sempre più povere, barboni e disperati, gente in preda all’alcolismo, rifiutata dalla società, e poi giovani freakkettoni, tossici, punkabbestia…
Interrotta l’aggressione già devastante del cementificio, è cresciuta una incivile urbanizzazione proseguita senza pausa sino ad oggi e che ha finito per nascondere quasi completamente Tuvixeddu al resto della città, come se il colle fosse qualcosa di cui la stessa città si vergognasse. EppureTuvixeddu rappresenta il luogo da cui ha origine l’identità storica, culturale e antropologica della città di Cagliari ed è una delle più importanti testimonianze archeologiche del mediterraneo.
Forse questo “Tuvixeddu” che conservo e coltivo nei ricordi potrebbe risultare un pò idilliaco per chi non ci ha mai vissuto o messo piede. E forse questo “Tuvixeddu” non ha mai trovato spazio nelle ambizioni di una città provinciale e piccolo borghese come Cagliari, che ha sempre aspirato ad uno sviluppo urbanistico in grado di darle l’illusione di diventare una grande metropoli e in cui gli speculatori e i palazzinari di alto livello hanno sempre trovato un ambiente estremamente favorevole e particolarmente accondiscendente sia nella politica che nell’opinione pubblica.
Soprattutto non ha mai trovato abbastanza spazio negli interessi nazionali di un’Italia che nel bene e nel male ha sempre considerato i beni culturali e paesaggistici da tutelare all’interno di un atteggiamento “centralista”, in base al valore “turistico” di ciò che va salvaguardato e ciò che può essere anche lasciato andare in rovina. Così in Italia si grida allo scandalo se un turista ubriaco si fa un bagno in una delle fontane delle nostre cosiddette città d’arte, ma è passato in secondo piano o è stato del tutto ignorato lo scempio e i progetti nefasti di cementificazione su Tuvixeddu, a ridosso della necropoli fenicio punica più importante del mediterraneo, e in un ambiente unico, ricco di specie faunistiche e botaniche addirittura protette.
“(...)Non si riesce a intravedere nessun panorama né alcuno spettacolo di particolare bellezza.(…) la zona si presenta brulla e ha l'aspetto di una cava abbandonata circondata da alti edifici residenziali sorti in oggettivo disordine (…) appare priva di qualunque pregio paesistico visivamente apprezzabile(…).”
Queste furono le considerazioni dei giudici del Tar dopo un sopralluogo effettuato per decidere se bloccare o meno la colata di 300.000 metri cubi di cemento sul colle. La burocrazia sostituì il parere autorevole di associazioni ed esperti dell’ambiente, del paesaggio, dell’urbanistica e dell’archeologia di livello internazionale che hanno sempre chiesto di fermare ogni forma di cementificazione e una tutela integrale del colle. E quando si chiese un intervento dello stato, dei beni culturali e addirittura del Presidente della Repubblica, in sostanza la risposta fu che si trattava di un problema “regionale” quindi da risolvere “in casa”.
(…)Abbiamo di fronte al mondo, la responsabilità di salvaguardare questo grande patrimonio comune. E d'altronde a ciò ci chiama l'articolo 9 della nostra Costituzione, che è uno dei suoi principi fondamentali :"La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione" tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico è responsabilità che dobbiamo, sì, sollecitare i poteri pubblici ad assolvere pienamente ; ma è anche responsabilità che dobbiamo assumerci noi cittadini, ciascuno di noi, dovunque viviamo e operiamo, specie se in luoghi di inestimabile valore per l'umanità intera. Contano i comportamenti di ciascuno, che debbono essere rivolti non al cieco soddisfacimento di interessi particolari, ma alla salvaguardia della ricchezza comune, anche nell'interesse dei nostri figli e delle generazioni future.(…)
Queste furono alcune frasi del discorso che il Presidente della Repubblica Napolitano pronunciò durante la cerimonia celebrativa delle Dolomiti come patrimonio dell’umanità. Purtroppo pare che l’articolo 9 della Costituzione Italiana citato dal Presidente, e il suo auspicio affinchè in Italia conti la salvaguardia della ricchezza comune e non il “cieco soddisfacimento di interessi particolari”, abbiano faticato non poco per essere presi in considerazione anche nei confronti di Tuvixeddu, che è sempre stato una periferia in tutti i sensi, un luogo “sporco”, frequentato da una umanità ai margini della società, importante solo per quegli enormi interessi economici e speculativi di palazzinari e politici che definivano i loro affari col titolo di “Progetto di Riqualificazione Urbana ed Ambientale dei Colli di San Avendrace”.
E solo oggi, dopo le indagini della Procura della Repubblica di Cagliari e una serie di intercettazioni telefoniche rese pubbliche dai quotidiani sardi, viene alla luce la reale spazzatura che ricopriva le candide rocce di Tuvixeddu deturpandone tutta la bellezza.
Tra l’imprenditore del progetto immobiliare sul colle e una serie di personaggi facenti parte dell’humus politico, amministrativo e giuridico della città, personaggi che avrebbero dovuto applicare tutte quelle forme possibili di tutela in nome del bene comune, vi erano invece rapporti impostati proprio su quel “cieco soddisfacimento di interessi particolari”, di cui parlava il Presidente Napolitano.
Così in questi giorni arriva una sentenza del Consiglio di Stato che accogliendo il ricorso della Sovrintendenza per i beni architettonici e paesaggistici, si oppone alla costruzione degli edifici privati su una parte significativa di Tuvixeddu. Possiamo solo augurarci che i cittadini di Cagliari siano sempre vigili, non dimentichino questa vicenda e che siano più accorti nello scegliere i loro amministratori e che su Tuvixeddu venga applicata definitivamente una tutela integrale affinchè torni ad essere il luogo del silenzio, della pace e della poesia.
Manager d'oro, esperti all'angolo: l'agonia della cultura
Luca Del Fra
«Se non lo visiti lo portiamo via»: recitava così la pubblicità presentata in pompa magna al Ministero dei Beni Culturali lo scorso dicembre, corredata da inquietanti immagini del Colosseo, del Cenacolo e del David di Michelangelo.
Una campagna voluta dal supermanager Mario Resca, chiamato dal ministro Sandro Bondi alla valorizzazione del patrimonio culturale, e sembra molto ben pagata ma a quanto pare risultata respingente. Di sicuro il messaggio conteneva inconsapevolmente una verità: lo smantellamento del Ministero dei Beni Culturali negli ultimi due anni, da quando Bondi regge le sorti di questo dicastero, ha subito una devastante accelerazione.
Saltano i compiti istituzionali come la tutela e la programmazione, il personale è scarso e mal pagato, demotivato di fronte all’arrivo di agguerriti manipoli di manager privati o commissari straordinari super pagati - alla faccia delle difficoltà economiche -, con la Protezione Civile che praticamente ha «agguantato» tutte le vere iniziative dei prossimi anni nei Beni Culturali - Pinacoteca di Brera, aree archeologiche di Roma e Ostia, di Napoli e Pompei, oltre alla ricostruzione del centro storico de L’Aquila -, attraverso commissariamenti che permettono appalti assai più disinvolti che nella normalità. Nel frattempo Giuseppe Proietti lascia la carica di segretario generale - il ruolo più alto “non politico” del ministero - e al suo posto arriva Roberto Cecchi: un archeologo è sostituito da un architetto e si assiste alla progressiva sparizione degli storici dell’arte dagli alti ranghi ministeriali.
Incapace di reagire ai feroci tagli economici operati da Giulio Tremonti, poco competente in materia, incline a intendere il suo ruolo in maniera censoria, decidendo lui cosa sia da finanziare e addirittura cosa sia bello e cosa no, vittima spesso di falsi luoghi comuni, Bondi si sta dimostrando un ministro non all’altezza neanche di confrontarsi con le categorie - agli incontri con i sindacati viene portato via sotto braccio dal suo capo gabinetto Salvo Nastasi con la scusa che non ha tempo. E non è tutto. «Bondi ha applicato meccanicamente il decreto Brunetta che manda in pensione i dipendenti dello Stato con 40 anni di contributi».
Questa la denuncia Gianfranco Cerasoli, segretario della Uil per i Beni Culturali, che aggiunge: «Nei prossimi 4 mesi andranno via 6 direttori regionali e 16 soprintendenti o direttori di musei e archivi. L’idea di fare un ricambio generazionale nei livelli alti del ministero può anche essere condivisibile, ma non si fanno assunzioni: così tra qualche settimana ci troveremo con dirigenti che avranno 3 soprintendenze, altri con due regioni da seguire, oppure con una direzione centrale e una regionale».
Insomma il caos. La norma di Brunetta non era cogente e ogni ministro poteva applicarla in maniera più o meno rigida. Applicandola in maniera meccanica Bondi ha inferto un colpo mortale a un ministero già da tempo sotto organico: «Solo nella vigilanza dei musei mancano 6000 persone - insiste Cerasoli -, ma il fatto più preoccupante che porterà alla paralisi riguarda il settore tecnico-scientifico. Dal 1° gennaio la tutela del paesaggio è passata sotto il controllo dei Beni Culturali, ci sono soltanto 500 architetti già oberati di lavoro per affrontare le richieste di autorizzazioni paesaggistiche: ne occorrerebbe almeno il triplo. Senza considerare poi altri settori sotto organico e perciò in crisi: i tecnici e i restauratori».
Uno dei nodi scottanti è proprio la tutela del paesaggio: che in base al nuovo codice dei Beni Culturali spettasse alla direzione al paesaggio del Ministero dei Beni Culturali era stata salutata come una vittoria, e dopo molti rinvii da quest’anno la cosa è operativa. «Forse una vittoria di Pirro - osserva amaramente Maria Pia Guermandi di Italia Nostra -: le regioni che prima si opponevano hanno mollato la presa perché sanno che la situazione si è ammorbidita. Il Ministero ha abbassato la guardia perché mancano le risorse soprattutto umane e culturali.
Oltre a un personale scarsissimo è mancato il salto di qualità: un’occasione unica per passare dal funzionario borbonico, il burocrate che nuota nelle carte, al tecnico che entra nel merito. I piani regionali sono lettera morta, e i governatori si guardano bene dall’avviarli, poiché sanno che poi tutto dovrebbe svolgersi in quella cornice, anche i piani regolatori. Preferiscono il regime transitorio, con le soprintendenze regionali non in condizione di controllare realmente la situazione, con la direzione al paesaggio del Ministero degradata sotto le Belle Arti e senza più autonomia». S’alza in crescendo la musica delle betoniere del cemento armato nella grande partitura varata dal governo e intitolata “Piano casa”.
In questi ultimi 18 mesi spesso si è sentito parlare di commissariamento a proposito di molte aree d’interesse culturale: in realtà a essere “commissariato” è lo stesso ministro Bondi, considerando che perfino nelle attività culturali la presidenza del consiglio gli ha scippato la legge sul cinema. Tuttavia la politica perseguita dal governo di concedere superpoteri ai super commissari della protezione civile non sta avendo risultati positivi: l’ultimo caso è Brera, dove oggi si trovano l’Accademia di belle arti e la Pinacoteca. Entro il 2015 si dovrà trovare una nuova dimora per la scuola e trasformare l’intera sede in spazio espositivo per la Pinacoteca, e i lavori di ristrutturazione sono stati affidati al commissario straordinario Mario Resca. Già l’anno scorso la sua nomina a direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale aveva destato molte perplessità: Resca è manager di notevole esperienza nel settore privato, tra cui McDonald’s, ma per sua ammissione di pochissima esperienza nella cultura, come non bastasse siede attualmente nel Cda Mondadori - da cui dipende Electa che fornisce servizi al Ministero e anche alla Pinacoteca di Brera -, dunque secondo molti in palese conflitto d’interessi.
La Uil conti alla mano sostiene che Resca per il solo commissariamento di Brera percepirà un compenso di circa 2,5 milioni di euro: una cifra spropositata per i nostri beni culturali e che nessun dirigente del Ministero, anche al massimo della sua anzianità e con molteplici funzioni, ha mai percepito. Inoltre Resca finora ha presentato un piano di grande vaghezza, asserendo che in 90 giorni sarebbero partiti i lavori seguendo il progetto dell’architetto Bellini. Al di là della disinvoltura che occorrerà per concedere appalti in così breve tempo, quello di Bellini è uno schema di progetto, che andrebbe sviluppato con cura, magari in accordo con i tecnici della Pinacoteca per capire a fondo le esigenze dello spazio. Come molti commissari di questo governo, Resca sembra più motivato ad aprire cantieri per milioni di euro, senza porsi troppi problemi sulla congruenza dei lavori.
Cultura al tramonto
Vittorio Emiliani
Sul sito del Ministero per i Beni culturali il faccione curiale di Sandro Bondi non compare più: ha smesso di recensirvi libri, il suo congedo dal Collegio Romano è vicino. Nemmeno gli anni di Giuliano Urbani, segnati dalla tremontiana Patrimonio SpA (facciamo cassa coi gioielli di famiglia), erano stati gloriosi, Ma, almeno, Urbani aveva cercato di tenersi fondi e competenze. Bondi si è comportato come un guardaportone: «Prego, accomodatevi». Chi si accomoderà ora al suo posto? L’ultima ipotesi che gira è Guido Bertolaso uno dei più potenti fra gli uomini di Berlusconi.
Bondi ha fatto entrare le accette di Tremonti amputando i già magri fondi del Mi.BAC: 1/3 in meno per la tutela del paesaggio; pura sopravvivenza per Soprintendenze, Istituti e Musei; servizi ridotti nell’archeologia e ipotesi di chiusure; indebolimento generale delle biblioteche; meno investimenti per i derelitti archivi; addio formazione e perfezionamento. Su queste macerie si è stagliato un sorridente Super Mario Resca nuovo direttore generale, ex McDonald’s, ex Casinò di Campione, tuttora nel CdA di Mondadori (controllante di Electa che fa business nei musei, e chi lo schioda?), presidente di Finbieticola e altro ancora. Incaricato di valorizzare, valorizzare e valorizzare, ha lanciato la campagna “terroristica” «Se non lo visiti, lo portiamo via» e si vedono degli operai che portano via il povero Cenacolo, un livido Colosseo smontato, il David. Che genio comunicativo! Intanto l’Istituto Centrale per il Restauro, gloria planetaria, lo portano via davvero da San Pietro in Vincoli, sfrattato dai frati Paolotti.
In compenso i bocconi migliori del patrimonio vengono sottratti alla regia del Ministero e commissariati con elementi spesso esterni: meno controlli, fondi propri, via libera agli appalti. Prima l’area archeologica di Roma e di Ostia (col Colosseo che pompa euro) col pretesto che il Palatino crolla, una mezza bufala: per buttare fuori la Soprintendenza e metterci il plurimedagliato Bertolaso. Poi, l’impegno aquilano e la compatta protesta (l’unica, temo, in tutta l’Amministrazione) degli archeologi romani ci hanno messo una pezza. Commissariata Pompei, altra rendita: subito in pensione il bravo Piero Guzzo. Commissariata Brera dove si spenderanno 50 milioni di euro (2,5 per Super Resca). Una vera e propria Amministrazione parallela. Ricca però. A fronte di un Ministero impoverito, frustrato, con stipendi da travet. E ora entra in funzione il Codice per il Paesaggio, con regioni inerti e altre, come la Sardegna, dove i piani salvacoste di Renato Soru sono stati subito cancellati dalla destra, i cementificatori ringraziano e ogni tecnico della tutela ha già 4-5 pratiche al giorno da sbrigare.
Emma Marcegaglia vuol portare al 20%, cioè raddoppiare, il Pil del turismo che in buona parte viene dal turismo culturale. Ma come si fa, se paesaggi, città d’arte, ville e parchi storici vengono assediati e imbruttiti da quell’edilizia che solo Berlusconi, rimasto all’800, considera il motore del mondo? Spunta la parola d’ordine salvifica: Eventi! Ma che mediocrità provinciale.
Dirigenti e funzionari la sperequazione degli stipendi
Luca Del Fra.
Gli stipendi nel settore del Ministero dedicato ai Beni Culturali presentano una netta scissione tra dirigenti e funzionari: entrambi dovrebbero avere competenze specifiche, ma i primi sono di nomina politica - alcuni non sono entrati in graduatoria ai concorsi -, mentre i secondi tutti assunti per concorso pubblico lavorano sul campo. Gli stipendi dei funzionari, che svolgono anche compiti di dirigenza di musei e scuole, sono bassissimi, in media un terzo delle altre realtà europee: a fine carriera il direttore di un museo celeberrimo come gli Uffizi o la Galleria Borghese arriva a prendere 1700 euro al mese, un dirigente dell'istituto superiore del restauro 1500.
I NEO ASSUNTI Singolare appare anche il compenso dei tecnici appena assunti: con paghe che superano di poco i 1000 euro al mese: molti di loro si troveranno a dover affrontare le pressioni esterne, come nel caso del controllo del paesaggio dove pesano gli interessi delle grandi imprese edili. In questo panorama non poche perplessità e polemiche ha destato lo stipendio di Mario Resca, l'ex manager di McDonald's nominato direttore alla valorizzazione dal ministro Bondi: l60mila euro all'anno cui aggiungere, secondo la Uil, 2,5 milioni di euro per la ristrutturazione della pinacoteca di Brera, un compenso mai elargito dal Ministero à nessuno dei suoi dipendenti.
RESTAURO - Rissotto «Restauri sfrattati e senza più sede»
Luca Del Fra
L'Onu ha descritto i nostri restauratori come i Caschi blu della cultura: quella italiana è una lunga tradizione che ha raggiunto risultati epocali. Ennesimo tassello del disfacimento dei Beni culturali italiani, oggi l'Istituto Superiore Centrale del Restauro (Iscr) di Roma è sotto sfratto e gli sarebbe stata data un'altra sede, al San Michele: «Dove non esiste lo spazio per essere operativi» esordisce secca Lidia Rissotto. «Quello che chiediamo - prosegue - è un posto che permetta di lavorare e di non essere annientati». Direttore coordinatore presso l'Iscr, distaccata come direttore alla scuola di Alta formazione e restauro di Venaria (Torino), Rissotto descrive così la situazione: «Dopo che le regioni hanno istituito una miriade di corsi in conservazione, non sempre ineccepibili, magari dando l'illusione di un attestato che avesse un valore, l'art. 182 dice che tutti coloro che non hanno frequentato Iscr o l'Opificio delle pietre dure devono dimostrare di avere una esperienza sul campo di 8 anni o sostenere un esame.
La cosa ha creato malumori, soprattutto tra i privati che sono soggetti a una anacronistica legge sugli appalti analoga a quella edilizia: le gare le vincono le grandi ditte, sul campo più aggressive, e poi subappaltano a loro per pochi soldi». La creazione di un albo dei restauratori con regole precise fa presagire l'ennesima sanatoria che contenti tutti. «La formazione di un restauratore - continua Rissotto - è fatta di un 50% di teoria e un 50% di laboratorio. Poi c'è la pratica sul campo accanto a un maestro di esperienza. La mancanza di personale a cui si aggiungono i pensionamenti forzati sta creando un vuoto di trasmissione, pericoloso. Il restauro, che era un nostro fiore all'occhiello, sta appassendo».
«Ressa di privati dopo i tagli»
Luca Del Fra
«I Beni Culturali sono un Ministero a forte vocazione tecnica. Il danno epocale che stanno causando la scarsità di personale e la valanga di pensionamenti decretati dal tandem Brunetta-Bondi è presto detto: senza il progressivo ricambio attraverso gli affiancamenti del personale si colpisce il cuore delle competenze. «Quello che chiamiamo restauro dei monumenti e siti archeologici è, o almeno dovrebbe essere, manutenzione sistematica, conservazione preventiva: insomma basarsi su una programmazione». Così Irene Berlingò, presidente di Assotecnici che riunisce le competenze tecnico-scientifiche del Ministero descrive quel diuturno lavoro di chi conserva i nostri beni architettonici: «Tuttavia - continua -, il drastico taglio dei fondi operato in questi anni ha avuto come conseguenza due il restauro sia finalizzato a degli eventi. Si chiamano gli sponsor per avere fondi e poi vista la scarsità del personale e la necessità di finalizzare il lavoro entro una data ci si affida essenzialmente ai privati, senza adeguati studi preventivi». Le parole pacate e misurate di Berlingò fanno intravvedere il tramonto di una grande tradizione italiana negli scavi archeologici che il mondo ci invidia, o forse ci invidiava. Il caso di Pompei è emblematico: nell'area archeologica vicino Napoli il 14 gennaio è avvenuto un crollo presso la casa dei Casti amanti, probabilmente causato anche dalla fretta. In altri tempi, quando a Pompei cadeva una tegola scoppiava il finimondo, con lunghi articoli su tutti i giornali. Ma oggi il sito è commissariato dalla protezione civile, ed è stato fatto di tutto per seppellire la gravità dell'incidente sotto la lava del segreto.
I terreni e le piste di trotto e di allenamento di Trenno saranno venduti al miglior offerente. Snai, la proprietaria, entro un anno dovrà restituire ai creditori 250 milioni. Ora, fallita la strada di un bond, resta solo la cessione. In bilancio gli immobili valgono 90 milioni ma si spera di farli fruttare quasi il doppio: l´operazione potrebbe essere curata da Cushman & Wakefield, società Usa controllata dalla Exor della famiglia Agnelli. Esclusa dall´affare solo la pista del galoppo, che è vincolata.
La posizione è ideale per un nuovo campo di calcio in grado di ospitare la finale 2015 di Champions e gli Europei del 2016. Chiunque acquisti dovrà fare i conti con l´imprenditore Losito: il suo piano per un quartiere di lusso è tramontato ma resta l´opzione
Nell´area non si può (per ora) costruire ma sull´affare si muovono già in molti.
Il Comune, che vuole «restituire verde alla città»? La Provincia amica di Salvatore Ligresti che teme la concorrenza alle future case di Citylife? Un imprenditore privato con il sogno di aprire a Milano il primo golf club o una spa di lusso? Le squadre di calcio che da anni vorrebbero costruire uno stadio bis?
Alla luce della complicata storia del trotto su cui, dopo anni di silenzio, la giunta Moratti ha riaperto la partita nel 2008 una delle ipotesi più probabili è che il Comune stia pensando di sostituire i cavalli con il pallone. L´ippodromo del trotto, infatti, a due passi dallo stadio di San Siro sarebbe la posizione ideale dove costruire un nuovo campo da calcio. Un impianto costruito ex novo in grado anche di ospitare la finale di Champions League del 2015 e gli Europei del 2016, e che potrebbe soddisfare il desiderio dell´Inter di avere uno stadio tutto per sé. Certo, se fosse così, seppur nella legalità l´operazione potrebbe sollevare qualche dubbio.
La vicenda infatti è cominciata nel 2008 quando Palazzo Marino ha dato un´improvvisa accelerata al progetto di trasferimento dell´ippica fuori Milano per «riqualificare un´area verde che oggi la città non può fruire», come diceva allora l´assessore all´Urbanistica Carlo Masseroli.
Le trattative con Snai sono andate avanti mesi, con soddisfazione. Tanto che lo scorso settembre il quartiere di superlusso proposto da Roberto Losito, imprenditore milanese con un´opzione di acquisto sull´area fino al 2012 e advisor di Snai, è stato inserito nel Piano di governo del territorio. Il progetto edilizio che prevedeva il trasferimento dell´ippica fuori città per rilanciarla, si diceva, ma anche per far spazio a un grande parco cittadino, a un centro polifunzionale per lo stadio e a complesso di residenze a cinque stelle immerse nel verde.
L´operazione però è naufragata. Un mese dopo, per portare a casa il Pgt senza l´ostruzionismo della Provincia, il Comune ha siglato un patto con il presidente Guido Podestà che prevedeva la salvaguardia del verde all´ippodromo. «Neanche un metro cubo di cemento potrà essere costruito in quell´area» esultava allora la Provincia, sbandierando un´insolita politica ambientalista. Unica eccezione, stabiliva l´accordo, verrà fatta per le strutture funzionali allo stadio o dedicate allo sport e all´intrattenimento. Il progetto di Losito quindi venne abbandonato e dell´ippodromo non si parlò più.
Oggi, mentre il Pgt sta paralizzando i lavori del consiglio e creando molti imbarazzi al sindaco Moratti, il tema torna d´attualità. Le banche chiedono a Snai di vendere i terreni al più presto, fissando il prezzo base a 90 milioni di euro. Il valore dell´area - che Losito un anno fa era disposto a pagare 260 milioni di euro - è crollato una volta esclusa la possibilità di costruirci sopra. E per chi vuole farci strutture sportive, diventa un affare. Nel frattempo, l´assessore allo Sport Alan Rizzi ha dichiarato la sua intenzione di ristrutturare San Siro per ospitare gli Europei del 2016, senza dare però nessun dettaglio sul reperimento di quei 40 milioni di euro necessari al restyling. Se tutti i pezzi vengono messi insieme verrebbe da pensare che il primo interessato a comprare l´ippodromo sia l´Inter, in cerca da anni della location giusta dove innalzare il suo stadio.
Ma il futuro delle piste del cavalli può anche essere un altro. Approvare oggi un Pgt che stralcia di fatto l´Ippodromo dalle aree su cui si potrà edificare non significa che un domani la destinazione d´uso possa cambiare. Non è detto quindi che chi investirà in questo spicchio di verde non stia pensando di iniziare con una struttura legata allo sport per aggiungere, fra qualche anno, anche delle residente. Lo spazio di certo non mancherebbe.
Chiunque però voglia rischiare in questa operazione dovrà vedersela con l´opzione di Losito. L´imprenditore al momento non sembra intenzionato a rinunciare alla sua prelazione che dice essere blindata per i prossimi due anni. E, come advisor della Snai, dovrà necessariamente essere coinvolto. «Se cercheranno di sfilarmi l´advisor - spiega - andrò per vie legali».
Ormai nel cuore di Roma succede di tutto. Se da piazza Navona, ridotta a parcheggio, andate verso Sant’Apollinare, vi verrà incontro un gigantesco cameriere di cartapesta colorata sullo sfondo di Palazzo Altemps. Un nuovo arredo urbano pensato dal vice-sindaco Cutrufo? Poco più in là vedrete una pizzeria ficcata in una delle torri medioevali superstiti: Tor Sanguigna. Possibile che il raro manufatto non sia vincolato e che vi si possano venire ricavati locali con mattonelle coloratissime (ma ’sti progetti chi li vista?) occupando con tavoli e seggiole anche piazza Zanardelli sin qui libera? Non ha nulla da dire la soprintendente Federica Galloni segnalatasi nella tutela dell’Agro?
In pochi mesi i pedoni sono stati scacciati dall’«isola» di Sant’Apollinare dalle varie pizzerie. Il gigantesco cameriere annuncia forse la prossima «valorizzazione» enogastronomica davanti a Palazzo Altemps (con Resca non si sa mai). Perché a Bologna le occupazioni di suolo pubblico sono vietate in piazze o edifici vincolati e a Roma no? Colpa del Comune o della Soprintendenza?
La città storica è ormai una mangiatoia ininterrotta, da via in Arcione a Fontana di Trevi, a Vicolo di Pietra (si salva la piazza perché c’è la Camera di Commercio, ma col nuovo presidente…), a via dei Pastini (i più orribili e invadenti empori di souvenir), al Pantheon dove i tavolini fra un po’ «se magneno» pure fontana e obelisco, e dopo piazza Navona c’è Tor Millina luogo-simbolo della degradazione totale. Gli esperti dicono che soltanto l’alta qualità potrà salvare il turismo italiano; il Campidoglio promette regolamenti severi, multe a raffica. Però la marea di locali avanza e Roma imbruttisce sempre più. I «bottegari» hanno votato in massa Alemanno ed ora esigono mano libera. Totalmente.
Spiagge d'un bianco accecante, mare di cristallo, campi e colline non violati dal cemento, montagne dove l'unica presenza che s'avverte per decine di chilometri è quella del vento che soffia tra le querce, i resti unici lasciati in ogni angolo dal popolo dei nuraghi passato sulla terra leggero. E' la Sardegna bella, quella che ancora c'è, ma sempre più stretta dal proliferare di un suo doppio deforme, mostruoso, la Sardegna brutta raccontata in Paesaggi perduti, il libro curato da Sandro Roggio appena pubblicato dall'editore cagliaritano Cuec (140 pagine 13 euro).
Il volume è un campionario degli scempi compiuti negli ultimi decenni e, insieme, un allarme lanciato perché si eviti il peggio che potrebbe arrivare con il cosiddetto «piano casa» approvato dalla giunta regionale di centro destra presieduta da Ugo Cappellacci, il governatore succeduto a Renato Soru dopo le elezioni del febbraio dello scorso anno.
Sono tredici i contributi raccolti nel libro e non è possibile qui citarli tutti. Si va dalla dissennata gestione del patrimonio archeologico descritta dall'archeologo Marcello Madau, all'ironico dialogo tra il regista Antonello Grimaldi e l'attore Sante Maurizi sulla «filosofia del villaggio turistico» che, a partire dagli anni Settanta, ha fondato un modello di sviluppo turistico devastante per coste e paesaggio. Oppure, dalla sconsolata constatazione del degrado del tessuto urbanistico e di quello sociale di Sassari nelle pagine dello scrittore Salvatore Mannuzzu, al racconto che lo storico Luciano Marrocu fa dello scempio delle tracce del passato cui è stato sottoposto il centro storico di Cagliari. Il giornalista Giancarlo Ghirra spiega come nell'alluvione che ha devastato Capoterra, presentata come una catastrofe naturale, di naturale non ci sia stato proprio un accidente, perché le cause del disastro stanno tutte nel modo criminale in cui per decenni lì il territorio è stato violentato nel nome dell'espansione edilizia. Un altro cronista, Giacomo Mameli, racconta come a Perdasdefogu, il paese al centro del poligono di Quirra dove vengono testati i droni che l'aviazione americana usa in Afghanistan e in Pakistan, una basilica del Cinquecento sia stata rasa al suolo per farci sopra un campo di calcio.
Uno scrittore, Marcello Fois, avverte che le devastazioni non sono solo materiali: «Non è sempre necessario demolire per cancellare la propria storia urbana, qualche volta si distrugge anche costruendo una parastoria», ovvero una falsa identità in cui il peggio del vecchio (i codici della tradizione della Barbagia) si fondono in un ibrido orrendo con il peggio del nuovo (i codici del consumo come unica fonte di strutturazione del sé, individuale e collettivo). E siccome Cappellacci la sua campagna elettorale l'ha vinta anche promettendo che avrebbe smantellato il Piano paesaggistico voluto da Soru (come infatti puntualmente sta avvenendo), l'analisi di Marcello Fois dovrebbe far riflettere su quanto il sopravanzare della Sardegna brutta sulla Sardegna bella sia il frutto di processi profondi, in cui modelli di sviluppo economico e sistemi di relazioni sociali si sono modificati di pari passo con un progressivo slittamento di senso dei valori della tradizione verso un individualismo proprietario non dissimile da quello che si afferma a Bergamo o a Treviso. Un campo di contraddizioni aperto, però, dove le possibilità di giocare una partita diversa non sono ancora tutte chiuse. Un orizzonte di conflitto in cui il libro curato da Sandro Roggio s'inserisce come un prezioso contributo di conoscenza.
La Procura rivaluta le iniziative della Regione nella battaglia in difesa del colle punico di Tuvixeddu - Vincoli giustificati dai ritrovamenti di nuove tombe e dal Codice Urbani
CAGLIARI. Forse è una vittoria di Pirro, ma il contenuto della richiesta di archiviazione per l’inchiesta penale su Tuvixeddu firmata dal pm Daniele Caria riabilita l’azione della giunta Soru in difesa del colle punico e getta un’ombra sulle decisioni dei giudici amministrativi.
Caria ricostruisce attraverso atti, testimonianze e intercettazioni telefoniche le fasi infuocate del conflitto tra Nuova Iniziative Coimpresa del gruppo Cualbu e la Regione. Per arrivare a conclusioni che fanno riflettere: il Tar e il Consiglio di Stato hanno sbagliato le valutazioni sulla legittimità della commissione regionale per il paesaggio che aveva imposto nuovi vincoli sull’area privata del colle. Quella commissione poteva operare ed era composta da persone qualificatissime, reclutate regolarmente. Non solo: i giudici non hanno potuto tener conto di quanto ha deciso la Corte Costituzionale il 27 giugno 2008 e hanno sostanzialmente ignorato il contenuto della Convenzione europea del paesaggio e del Codice Urbani: la tutela del paesaggio è competenza esclusiva dello Stato e in presenza di situazioni nuove l’accordo di programma per Tuvixeddu, con le autorizzazioni concesse al gruppo Cualbu, poteva essere cancellato. Il Tar però, bocciato il ricorso della Regione per la questione formale legata alla legittimità della commissione, ha deciso solo in base alle dichiarazioni dell’ex sovrintendente archeologico Vincenzo Santoni: nessun ritrovamento significativo dopo il vincolo del 1997. Per il pm Caria sono false, come risulta dalle note della funzionaria Donatella Salvi: oltre mille tombe ritrovate negli anni successivi, alcune sotto vincolo diretto, altre indiretto, altre ancora fuori dall’area vincolata. Santoni - così sostiene il magistrato penale - ha mentito («ha maliziosamente taciuto» sulla nuova realtà del sito archeologico) per favorire la figlia Valeria, ingegnere, che lavorava per Cualbu dal 1995 e operava proprio sui lavori del colle punico. L’imprenditore l’aveva assunta malgrado non avesse alcuna esperienza - sostiene il pm e risulta dalle testimonianze - ma il fatto che lavorasse a Coimpresa prima ancora che partisse il piano Tuvixeddu ha salvato Gualtiero e Vincenzo Santoni dall’accusa ipotizzata all’avvio dell’inchiesta: corruzione. D’altronde quella di assumere figli qualificati sembrerebbe un’abitudine consolidata di Cualbu: il Corriere del Mezzogiorno di Napoli scrive - la data è 19 febbraio 2009 - che la Mediacom, altra società del gruppo sardo, ha assunto la figlia del vicesindaco di Napoli Marella Santangelo appena prima di aggiudicarsi il piano di recupero dell’area ex birreria Peroni di Miano. Dodici mesi fa l’opposizione ha chiesto le dimissioni dell’amministratore ma nessuno si è rivolto alla Procura. Mentre nel caso cagliaritano è stato il pm Caria a ricostruire i rapporti e le vicende della guerra su Tuvixeddu - che definisce «opache» - partendo dall’esposto presentato dallo stesso Cualbu: l’imprenditore sospettava che Soru agisse contro di lui, lo stesso Tar attribuisce in sentenza all’ex governatore un presunto «sviamento di potere». Ma per Caria non c’è nulla di fondato: Soru si muoveva solo per interesse pubblico. Così come si è mosso, insieme all’assessore ai lavori pubblico Carlo Mannoni, quando ha affidato all’architetto francese Gilles Clement un progetto alternativo per Tuvixeddu. A spese pubbliche e senza gara, accusavano gli oppositori. Falso anche questo: i soldi erano privati, i 50 mila euro dello sponsor Banco di Sardegna. E il rapporto è naufragato proprio perchè il dirigente Franco Sardi - l’ha riferito lui stesso al pm - ha messo il veto sull’affidamento diretto. Peraltro risulta agli atti - e il pm Caria lo scrive - che il progetto attuale del parco archeologico urbano, quello bloccato per gli abusi rilevati dalla Procura (quattro indagati, presto probabilmente cinque o sei) era stato affidato dal Comune allo studio Masoero-De Carlo senza selezione pubblica.
Ma per Caria il punto centrale della vicenda è un altro: «La Regione - scrive nell’atto notificato ai legali degli indagati Soru, Mannoni, Salvi e Cualbu, tutti prosciolti ma non Santoni - aveva il potere sia di disporre la sospensione cautelare dei lavori pur legittimamente autorizzati, sia di rideterminare il contenuto e l’estensione dei vincoli sul territorio attraverso una nuova valutazione paesaggistico-ambientale, anche se ciò avrebbe reso inattuabili in quanto incompatibili gli interventi autorizzati in precedenza». Insomma: la Regione poteva fermare il piano Coimpresa.
Un attacco frontale, senza precedenti: Procura della Repubblica contro Tar. Sullo sfondo «un insieme di relazioni tra i vari attori privati e istituzionali che getta una luce opaca sull'intera vicenda Tuvixeddu». Il sostituto Daniele Carìa in 24 fittissime pagine scrive perché l'ex Governatore Renato Soru e l'ex assessore alla Pubblica istruzione Carlo Mannoni non hanno abusato del loro ufficio nel voler estendere il vincolo paesistico e perché l'imprenditore Gualtiero Cualbu, il braccio destro dell'ex Soprintendente ai beni archeologici Donatella Salvi e l'ingegnere Valeria Santoni non hanno corrotto nessuno per indirizzare il voto della commissione regionale.
Si limita a citare i fatti il pm, e parte da Cualbu che, un mese prima del deposito, conosceva l'esito del processo davanti al Tar. Lo conosceva in anticipo anche l'avvocato dello Stato Giulio Steri, consigliere regionale e in quel momento difensore della parte avversaria a Cualbu, la Soprintendenza. Del resto, sottolinea il magistrato, Steri ha stretti rapporti anche con l'ex Soprintendente Vincenzo Santoni, l'unico ancora sotto inchiesta per tentato abuso d'ufficio e falso ideologico. I telefoni degli indagati erano sotto controllo, così si è saputo pure che tre giorni prima dell'udienza fissata dal Tar per la discussione sul caso Tuvixeddu Steri aveva chiamato Cualbu per presentargli un magistrato del Tar.
Insomma lo scenario non sembra limpido, anche se non ci sono reati, eccezion fatta per Santoni. L'ex Soprintendente «si era distinto all'interno della Commissione regionale sul paesaggio per una condotta contraria a qualunque forma di rivalutazione del vincolo preesistente arrivando al punto di negare falsamente la sussistenza di numerosi ritrovamenti archeologici, in realtà sottoposti solo a vincolo indiretto o addirittura privi di vincolo dopo il 1997». La figlia di Santoni, Valeria, lavorava per Cualbu ma non c'è la prova di una corruzione, nonostante prima dell'assunzione lo stesso Santoni (difeso da Pierluigi Concas) avesse manifestato rigore nel richiedere che il progetto nel suo complesso fosse supportato da uno studio di impatto ambientale.
L'inchiesta, avviata dopo le denunce di Cualbu (assistito da Agostinangelo Marras) contro Soru (avvocati Giuseppe Macciotta e Carlo Pilia) e Mannoni (difeso da Michele Schirò), ha ripercorso tutte le tappe della vicenda: quella politica con l'imposizione dei nuovi vincoli sul colle dopo il ritrovamento di nuovi importantissimi reperti archeologici, e quella amministrativa con i ricorsi, e le vittorie, di Cualbu al Tar.
E subito il pm esterna «perplessità» circa i rilievi che supportano le decisioni del Tar Sardegna e del Consiglio di Stato, prima di elencare norme, leggi e sentenze ma anche episodi, alcuni dei quali inediti. Come il sopralluogo a Tuvixeddu effettuato dai giudici del Tar: dopo, a proposito dell'esistenza del Colle della Pace, hanno scritto: non si riesce a intravedere nessun panorama né alcuno spettacolo di particolare bellezza. Sul colle di Tuvumannu il bis: la zona si presenta brulla e ha l'aspetto di una cava abbandonata circondata da alti edifici residenziali sorti in oggettivo disordine che ostacolano la visuale verso il colle di San Michele e Monte Claro e che appare priva di qualunque pregio paesistico visivamente apprezzabile. Valutazioni che «attengono palesemente al merito», secondo Caria. Come dire, non sono questioni di cui si debba occupare il Tar.
Il fatto
Le gincane del progettato Gran premio di Formula 1 di Roma, che si dovrebbe snodare tra i parchi dell´Eur, dovranno cambiare forse tracciato. E anche la sequenza di edifici pensati lungo il decantato "Boulevard delle Tre Fontane" comincia a vacillare. Per non parlare delle feste notturne che ogni estate romana riempiono i giardini intorno alla Cristoforo Colombo. Sul verde del quartiere iniziato per l´Esposizione universale del 1942, e portato a termine negli anni Cinquanta, è stato infatti appena apposto il vincolo del ministero dei Beni culturali.
Dopo lo strumento di tutela deciso sull´Agro romano, un altro tassello nella difesa statale del paesaggio della Capitale. Con il risultato che d´ora in poi Comune ed Eur spa prima di decidere se e come intervenire sui giardini progettati dall´architetto Raffaele De Vico, dovranno chiedere e coordinarsi con la Soprintendenza statale guidata da Federica Galloni.
È stata infatti istruita dalla soprintendente la pratica del decreto, firmato dal direttore regionale Mario Lolli Ghetti, che stabilisce: «Il complesso di aree verdi denominato "Parchi dell´E. U. R. sito in Roma» è «di interesse storico artistico». In base al cosiddetto Codice Urbani (2004) il parco è «conseguentemente sottoposto a tutte le disposizioni di tutela».
Il procedimento risale al 18 marzo 2009. E già allora le "clausole di salvaguardia" proteggevano con il vincolo il Parco del Turismo e quello del Ninfeo, quello delle Cascate, tutto il verde intorno al Laghetto e il suo invaso, il Giardino degli Ulivi e quello delle Cascate, il Teatro all´aperto, fino al Bosco degli eucalipti, «piantato nell´Ottocento - si legge nelle nove pagine della relazione che accompagna il dossier fatto di foto, piante, documenti d´epoca - dai frati trappisti dell´abbazia delle Tre Fontane allo scopo di aver e a disposizione la materia prima per i loro prodotti farmaceutici». Queste sono le architetture verdi, del più giovane e fino al 2009 ancora non vincolato, parco della Città Eterna. Parco che il decreto ministeriale emanato il 16 dicembre (le notifiche sono partite il 12 gennaio) finalmente protegge.
Tra gli allegati al vincolo, c´è anche la mappa (degli anni Quaranta) con l´esatta dislocazione delle 44 specie arboree previste nei "Parchi del Ninfeo e del Turismo". Dal «Pinus» al «Cedrus Atl. Glauca», passando per quello del Libano e per l´acanto, la robinia, i cipressi, le querce, il «myrtus communis». Anche la disposizione dei fusti è segnata nel progetto dell´epoca. E, in attesa di un restauro ambientale, ci si chiede come questa zona possa sopportare i box, le gradinate, le protezioni per i piloti lungo la pista, indispensabili per una corsa di Formula 1.
Anche le manifestazioni organizzate lungo i tre mesi estivi - fino a cinque contemporaneamente, e che a causa dell´eccessivo rumore hanno prodotto almeno una novantina di esposti da parte degli abitanti, in particolare degli inquilini di via di Val Fiorita - dovranno passare ora al vaglio della Soprintendenza. I palchi, i bar, le passerelle e le cancellate, dovranno - se autorizzati - rispettare il decoro e la salvaguardia di quei giardini e di quegli alberi che all´Eur sono riconosciuti ora «di valore artistico». E tutelati come il Colosseo quadrato, il palazzo dei Congressi o i mosaici futuristi di Prampolini e Depero.
I commenti
Non sta nella pelle Matilde Spadaro, 37 anni, piccola e combattiva, un cuore rosso-verde che batte per il quartiere del XII Municipio del quale è consigliere d´opposizione. «Siamo felici per il vincolo sul verde dell´Eur, ma il merito è tutto del ministero che ha dotato il nostro quartiere di un formidabile strumento di tutela». Più compassata la sua compagna di battaglie, Cristina Lattanzi, 61 anni, un passato da imprenditrice tessile e un presente da vicepresidente del combattivo manipolo di cittadini del comitato («apolitico», ci tiene a sottolineare) "Salute e ambiente Eur": «È una vittoria di tutti i cittadini, non una guerra contro qualcuno. Del vincolo goderanno tutti, nessuno escluso». Intorno a loro si è mossa una galassia che va dal Consiglio di Quartiere Eur all´Associazione Colle della Strega, dal Comitato di Quartiere Torrino Decima a Cecchignola vivibile, a Viviamo Vitinia. E da questo movimento è nata la richiesta di vincolo.
Matilde Spadaro, come iniziò la vostra battaglia?
«Quando nel 2006 ci rendemmo conto che sui parchi dell´Eur pesava la minaccia di edificazioni stabili per un totale di 18mila metri cubi di cemento».
Non si trattava solo di "gazebo"?
«In realtà si trattava di strutture di ristorazione previste lungo via di Tre Fontane e del tutto incompatibili con l´architettura verde prevista da De Vico nel parco del Ninfeo e del Turismo. La delibera comunale del 2008, la 72, ci diede però torto. E arrivò il permesso a costruire 12mila metri quadri lungo il Boulevard. Ma nel frattempo, insieme con Italia Nostra e altre associazioni ambientaliste, chiedemmo allo Stato di porre il vincolo sul verde dell´Eur. E, ora che è arrivato, esultiamo perché è confermato il valore storico artistico dei nostri parchi. E perché viene ribadito il ruolo di protagonista della Soprintendenza nella tutela».
Ma perché una gara di automobilismo è incompatibile con i parchi dell´Eur, non sono previste nuove strade, vero Cristina Lattanzi?
«Sembrerebbe di no. Ma i problemi sono due. Primo, c´è la questione dell´inquinamento atmosferico e acustico che un Gran Premio porta con sé. E secondo, soprattutto, c´è l´impatto che le strutture di contorno della gara avranno certamente ai bordi del tracciato. Infine, vorrei segnalare che il sottopasso sotto la Colombo è indispensabile per la gara ma non ha nessun senso per la viabilità quotidiana: lì sotto, a via delle Tre Fontane, non si creano mai ingorghi».
Eppure a Monza la Formula 1 attraversa il parco, perché a Roma no?
«A settembre siamo andate con Matilde a prendere visione del circuito. Eravamo ospiti degli "Amici dell´autodromo". Ma lì, per l´appunto, si tratta di un autodromo vero. A Roma, invece, sarebbe un circuito cittadino. E non è pensabile che le piante, gli alberi e i prati del parco del Turismo, del Ninfeo o degli Eucalipti, non verrebbero toccati qualora si dovessero inserire le vie di fuga per le auto di soccorso, i box per i team, le recinzioni per la tutela dell´incolumità dei piloti e del pubblico. Le gradinate per la folla, poi, andrebbero messe lungo le strade. Ma sono le strade di un parco tutelato, ora».
Che rapporto c´è tra i 9-10mila abitanti dell´Eur e questi giardini di mezzo secolo fa?
«La gente dell´Eur è molto affezionata al verde tra i grandi viali e i magnifici palazzi dell´E42. E il vincolo, lo ripeto, è una vittoria di tutti».
la Repubblica, 27 gennaio 2010
Agro, tagliato 1 milione di metri cubi di cemento
Il vincolo del ministero tutela 5400 ettari di verde tra Laurentina e Torvaianica - Prg da rivedere Alemanno: "Attenzione per i diritti già acquisiti"
È un vincolo "vestito" quello del ministero Beni culturali che definisce di «notevole interesse pubblico paesaggistico ampi compendi dell’Agro romano meridionale nell’ambito del Comune di Roma». Ma è un abito che va parecchio stretto sia ai costruttori sia agli amministratori locali. Lo strumento di tutela prevederebbe un taglio secco ai due milioni di metri cubi di cemento che si sarebbero dovuti riversare sui 5400 ettari dell’area compresa «tra le vie Laurentina e Ardeatina e, in senso Nord-Ovest - Sud-Est, tra la Cecchignola e il confine comunale meridionale costituito dalla strada provinciale Albano-Torvaianica, fino ad est dell’Ardeatina, verso la fascia pedemontana del vulcano laziale». Secondo le indiscrezioni ci sarà spazio invece per un milione di metri cubi, e basta.
La nota tecnica che entra nel dettaglio del vincolo preparato a luglio dalla Soprintendenza statale ai beni architettonici e paesaggistici di Roma è nel computer della Direzione regionale del Lazio: la firma al decreto è del direttore Mario Lolli Ghetti. Ma nei prossimi giorni il dossier dovrebbe andare online sui portali del ministero. Si potrà così saperne di più del vincolo che ha spaventato Campidoglio e Associazione dei costruttori romani.
«Prima di esprimere un giudizio bisogna fare una valutazione molto attenta di come il vincolo è stato corretto in base alle osservazioni» ha detto ieri il sindaco Alemanno, facendo eco al presidente dell’Acer Eugenio Batelli. Ma poi il primo cittadino ha annunciato che dopo l’analisi «prenderemo una posizione molto netta e definita perché vogliamo che ognuno si prenda le proprie responsabilità. Qualsiasi correzione rispetto al piano regolatore approvato dalla giunta Veltroni, e non dalla nostra, rappresenta comunque un problema di diritti acquisiti che vengono violati».
Certo, il Piano regolatore generale del 2008 va rivisto. Il vincolo del ministero - che ha ricevuto il plauso dell’opposizione attraverso il vice presidente della commissione Ambiente Athos De Luca, e che è passato dopo l’analisi (una per una) delle più di novanta controdeduzioni - in realtà non prevede nessuna barricata nei confronti degli edili. Neanche nella zona centrale, dove l’identità paesaggistica è più integra.
Mentre nelle parti più vicine al Gra e ai quartieri storici della periferia, le compensazioni ottenute dai costruttori romani non vengono toccate (cantieri e progetti insomma vanno avanti) nel cuore antico dell’Agro romano il vincolo è più stringente. Ma permette comunque agli imprenditori agricoli presenti di espandersi, anche attraverso nuove costruzioni, a patto che rispettino l’ambiente e precise norme edilizie. Ed è in questo senso che - spiegano gli architetti del ministero - il «vincolo è "vestito"», come ha detto l’altro ieri il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro. Diversamente dagli strumenti di tutela del paesaggio messi a punto in passato, quello sull’Agro romano ha una visione globale che fornisce anche un corpus di norme dettagliate, strumenti che ne permettono in ogni momento l’attuazione e la difesa.
Repubblica online, 28 gennaio 2010
Vincolo sull'Agro, il Comune ricorre al Tar
L’assessore all’Urbanistica Corsini: "Contro i divieti ci appelliamo ai magistrati". I Verdi: "Difenderemo noi il decreto di Bondi"
Eccola la mappa del vincolo della discordia [i punti rossi indicano i luoghi dove era consentita l'edificazione - ndr]. Il perimetro esatto degli ettari dell’Agro romano intorno ai quali è scoppiata una guerra tra Campidoglio e ministero Beni culturali a suon di ricorsi al Tar. L’assessore all’Urbanistica Marco Corsini ieri ha annunciato: «Dopo una approfondita valutazione dell’iter seguito, il Comune ha deciso di far valere le sue censure davanti all’autorità giudiziaria». «Abbiamo sempre detto che il metodo seguito dalla Soprintendenza lasciava molte perplessità» ha aggiunto, sottolineando che «il Prg del Comune è stato approvato con il parere favorevole della Soprintendenza e che il tavolo istituzionale costituito dal ministro non è mai stato convocato».
Una prima difesa della bontà dell’operato del soprintendente Federica Galloni arriva dal leader nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli: «Il ricorso del Comune è un atto contro l’ambiente e i cittadini. Difenderemo presso il Tar il decreto del ministro Bondi per impedire la cementificazione di una parte importante dell’Agro». Il dossier sul decreto che stabilisce di «notevole interesse pubblico» l’area «sita nel Comune di Roma, Municipio XII, qualificata "Ambito Meridionale dell’Agro Romano compreso tra le vie Laurentina e Ardeatina» è da ieri sul sito della Direzione regionale guidata dal firmatario del decreto, Mario Lolli Ghetti.
La mappa dell’area tutelata ha la forma di un cuore. E al suo interno prevede diversi punti in cui erano state rilasciate o si prevedevano autorizzazioni a costruire. Le compensazioni di Prato Smeraldo 2, vicino alla Cecchignola, e di Valleranello più avanti sulla Laurentina, ad esempio. E poi gli insediamenti di edilizia popolare (legge 161) a Porta Medaglia, Trigoria, o a Falcognana (Divino Amore). Più i cosiddetti "toponimi" (altre concessioni di metri cubi di
Nel rapporto scaricabile dal sito laziobeniculturali.it ci sono anche le bellissime foto di casali e torri messi al riparo dalla speculazione: Falcognana, Torre Medaglia, Donna Olimpia. E c’è il quadro completo delle osservazioni al vincolo: 124. Con le risposte, una per una, della Soprintendenza. «Rigettato» è ad esempio il «parere genericamente contrario» della Provincia. «Rigettate» sono le «osservazioni varie» del Comune. «Accolta con prescrizioni» invece l’osservazione dell’Acea per la «rete infrastrutturale» su un quarto di ettaro. «Rigettata» la richiesta di «trasformazione urbanistica» su 10 ettari presentata dalla Immobiliare Domizia. «Rigettata» anche quelle della Cecchignola Immobiliare srl che chiedeva lo «stralcio dell’area dal vincolo» per più di 110 ettari di Agro. E se il «parere complessivo sul vincolo» della Regione Lazio ha avuto come controdeduzione «motivatamente disatteso», «rigettata» è la «previsione edificatoria del comprensorio di Castel di Guido» avanzata dalla Gestione ristoranti romani srl.
In attesa di analizzare bene le carte, il comitato "Liberagro", per voce di Massimiliano Di Gioia, difende l’operato della Soprintendenza statale: «Ha svolto un lavoro di grande importanza nella pianificazione del territorio, un ruolo mortificato per troppo tempo dalle amministrazioni locali».
A proposito di "diritti edificatori" vedi l'articolo di Edoardo Salzano e il parere pro veritate di Vincenzo Cerulli Irelli
Il minimo che si possa dire, di fronte a questo ennesimo pasticcio fatto, a quanto pare, di uso distorto del denaro pubblico, di poca o nulla trasparenza, di intrecci impropri tra pubblico e privato, è che c'è tutto un ceto politico-amministrativo che sembra avere perso ogni contatto con la realtà. Non omettiamo la dovuta premessa: finché non vi saranno fatti accertati, il giudizio sul piano giudiziario resta sospeso. Ma il discorso politico è diverso. La piazza non usa troppe cautele, giudica in base alle prime impressioni. E l'impressione è quella di un abisso tra chi, nel Palazzo, approfitta dei propri privilegi e chi, fuori, deve fare i conti con una crisi pesante che mangia posti di lavoro e quote di salario. Milioni di persone per le quali la vita quotidiana è un rompicapo. I figli da mandare a scuola, gli anziani da accudire, le bollette da pagare. Di fronte a questo Paese, è desolante lo spettacolo di una classe politica, quando non corrotta, futile e gaudente.
Ma nel caso del Pd c'è di più, e c'è di più soprattutto quando c'entra Bologna. Non occorre leggere la stampa estera per sapere che oggi il caso italiano si chiama Berlusconi: conflitti d'interesse, uso privato delle istituzioni, fuga dai processi e via elencando. Basterebbe questo per raccogliere i frutti di un'opposizione seria e coerente, che nulla conceda sul piano della moralità e del rispetto delle istituzioni. Lo stile di chi governa è tale da concedere all'avversario mille e una opportunità. Invece capita l'esatto contrario. A torto o a ragione, sembra di non poter distinguere, e il qualunquismo pare la sola attitudine obiettiva. È un dissennato suicidio politico quello al quale stiamo assistendo. E ci coinvolge tutti, nella misura in cui rischia di blindare per lungo tempo il potere di una destra brutale, fascistoide e razzista.
Che l'ultimo scandalo coinvolga Bologna è particolarmente grave. Questa città, si dice, è un simbolo. È vero, e bisogna intendersi. Era la capitale dell'Emilia rossa, al tempo della prima Repubblica. Qui il Pci diede prova di una indiscutibile capacità di governo, di probità e di efficienza amministrativa. Seppe dialogare con l'impresa e con i ceti medi costringendoli a contribuire alla costruzione di una società in senso proprio civile. Una città, anzi una regione esemplare per accoglienza ed efficienza. Dove venivano sin dalla Svezia a studiare il modello di welfare. Non era la rivoluzione, era il buon governo, cemento di una intesa talmente stretta tra politica e società - qui davvero «popolo della sinistra» - che la si sarebbe detta indistruttibile.
La caduta di Bologna, con la vittoria di Giorgio Guazzaloca nel '99, fu la fine di un mondo. O meglio, la sanzione ufficiale di una crisi sotterranea che aveva lentamente eroso quel blocco e ora cancellava definitivamente un tabù. Era finita la «diversità». Bologna pagava la pervicacia ideologica dei nipotini del Pci convertitisi alla teologia delle privatizzazioni. E si scopriva «normale», uguale alle altre città, non meno esposta allo spirito dei tempi. Il guaio però non fu tanto quella prima sconfitta, pur traumatica, che avrebbe potuto essere persino un toccasana. La prova di una crisi organica della «sinistra di governo» bolognese venne cinque anni dopo, con la guerra intestina tra gli aspiranti alla guida del Comune e la decisione di affidarsi a una figura esterna alla città, mortificandone la storia.
Dei cinque anni di Cofferati a Bologna non val la pena di parlare. Arbitrio solipsista è stato scritto, e basta questo. Fu, quello tra sindaco e città, un dialogo tra sordi e la decisione di Cofferati di non ricandidarsi venne accolta da tutti con sollievo. E con speranza. Non è trascorso un anno e siamo a questo disastro, che nessuno avrebbe immaginato. Ora chi se la sentisse di prevedere un successo del Pd alle prossime elezioni - quando saranno - parrebbe oggi un inguaribile ottimista. Ma il punto non è questo: è il dissennato spreco di pazienza, di fiducia, di volontà di credere e sperare nonostante tutto, che vicende come questa determinano, e dio solo sa se ce lo si può permettere.
Non gettiamo la croce su nessuno, tanto meno all'inizio di una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma una cosa è certa: Bologna, la sua gente e la sua storia si meriterebbero ben altro. E faranno di tutto per averlo.
Milano. Il contratto da cui nasce l’Expo di Milano è un documento di 25 pagine e sette planimetrie che nessuno ha mai visto: non il consiglio comunale, che lo aspetta da un paio d’anni, non i cittadini milanesi che avrebbero diritto di sapere che cosa si sta progettando. È una convenzione sottoscritta, già nel giugno 2007, dal comune e dai due proprietari dell’area su cui, nel 2015, si svolgerà l’evento: la Fiera di Milano e la società Belgioiosa (gruppo Cabassi). È il documento, finora segreto, che fa finalmente capire dov’è il trucco dell’Expo 2015: un’iniziativa intitolata “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, che nutrirà però soprattutto i proprietari dell’area, i quali potranno cementificarla con grande energia, oltre ogni regola.
IL CONTRATTO. Che cosa prevede, infatti, il contratto? Che quell’area sghemba a nord di Milano tra Pero e Baranzate, contigua alla nuova Fiera, prescelta per celebrare i fasti dell’Expo, resti ai proprietari. Viene data in concessione alla società Expo per sette anni (2010-2017), al termine dei quali Fiera e Cabassi se la riprenderanno. Ma, passata la festa, ci troveranno alcune gradite sorprese. Oggi l’area (circa 1 milione di metri quadri, 70 per cento della Fiera, 30 di Cabassi) è agricola. Non ci si può costruire nulla. Che cosa dice invece la miracolosa convenzione segreta? Che nel 2017 l’area sarà restituita a Fiera e Cabassi con un indice d’edificabilità 0,6: ossia puoi costruire 6 metri quadri ogni 10, per un totale di 600 mila metri quadri. Non è meraviglioso? Ma c’è di più. Il nuovo Piano di governo del territorio (Pgt) in approvazione a Milano innalza per le aree agricole l’indice di costruzione allo 0,2 (puoi costruire 2 metri quadri ogni 10); ma l’area Expo è considerata un’eccezione (“zona di trasformazione speciale”), con un eccezionale indice 1: dunque si potrà costruire ben 1 milione di metri quadri. E con un mix funzionale libero, dice il contratto Expo, a gentile discrezione dei proprietari.
In una prima ipotesi, c’era anche un regalo aggiuntivo, come nelle fiere di paese. Guardate l’illustrazione numero 1 in questa pagina: padiglioni, edifici, uffici, abitazioni, una grande torre... Il primo progetto prevedeva che la società Expo costruisse molto, sull’area. Così nel 2017 i proprietari si sarebbero ritrovati una gran parte del lavoro già fatto, senza neanche la fatica di costruire a loro spese. Poi la crisi, i litigi politici, i ritardi, le incertezze, la mancanza di soldi hanno determinato un cambiamento di rotta. Il sindaco di Milano Letizia Moratti ha chiamato cinque architetti a ripensare l’Expo. Una consulta internazionale formata da Stefano Boeri, Richard Burdett (quello che sta progettando le Olimpiadi di Londra 2012), Jacques Herzog (quello dello stadio-nido di Pechino), William McDonough (collaboratore di Al Gore) e Joan Busquets (Olimpiadi di Barcellona). Il nuovo progetto, presentato in pompa magna nel settembre 2009, lo vedete nell’immagine numero 2. Niente più grandi padiglioni, ma un immenso orto botanico. Ognuno dei 120 paesi che parteciperanno all’Expo avrà una striscia di terreno larga 20 metri in cui potrà presentare le sue coltivazioni, i suoi prodotti, le sue eccellenze, con serre e terreni che riproducono le biodiversità, i climi del mondo e le loro tipicità alimentari. Ogni striscia s’affaccia su un lungo boulevard-tavola dove i paesi ospiti potranno mettere in mostra e condividere le loro colture e i loro prodotti. Un piccolo villaggio-Expo, di edifici bassi, sarà costruito discretamente sui bordi dell’area. Così, dopo l’Expo, alla città potrà restare in eredità un grande parco botanico planetario.
L’EXPO DOPO L’EXPO. Questo dice il progetto realizzato con la collaborazione anche di Carlin Petrini, il papà di Slowfood. Ma se le aree nel 2017 torneranno ai loro proprietari, e con la possibilità di costruirci sopra un milione di metri quadri, dove andrà mai a finire la promessa del parco botanico planetario da regalare alla città? Per non sbagliare, comunque, si sta passando dal “concept plan” al “masterplan”. Ovvero: ora che i cinque grandi architetti, sotto l’ala del sindaco Moratti, hanno detto la loro (“concept plan”), la palla passa all’Ufficio di Piano dell’Expo, che dovrà realizzare il progetto vero (“masterplan”). E qui arriva il bello. L’Ufficio di Piano sta remando in direzione opposta: il sogno dei cinque super-architetti è troppo leggero, troppo agreste, troppo bucolico. Bisogna riempire, costruire, appesantire. Dare la possibilità ai paesi espositori di potersi esibire innalzando come vogliono i loro padiglioni nazionali. Ad aprile vedremo il risultato. Questo è il primo dei durissimi scontri in atto. Il secondo è sulla proprietà dell’area. Il terzo è sul dopo: che cosa sarà l’Expo dopo l’Expo?
LA FIERA. La Fiera (più che Cabassi) vuole mantenere il controllo dell’area, come previsto dal contratto, e dopo l’Expo avere uno spazio immenso da valorizzare, con un guadagno immenso. Case, uffici, il nuovo centro di produzione Rai (ma con quali soldi?), magari un po’ di housing sociale (abitazioni a basso costo) tanto per indorare la pillola. L’amministratore delegato di Expo spa, Lucio Stanca, sta invece provando a percorrere un’altra strada, su cui s’incamminerebbe qualunque manager serio: acquistare le aree. Perché lasciarle ai proprietari, a cui regalare un valore immenso? Oggi l’area Expo è terreno agricolo, potrebbe dunque essere comprata a prezzi ragionevoli (100-130 milioni di euro). Ma, naturalmente, la Fiera non ci sta. Preferisce il regalo miracoloso del milione di metri quadri di cemento. Se proprio costretta, potrebbe anche vendere, ma alzando di molto il prezzo. Ma per capire questa partita, che è il vero, feroce conflitto in corso, bisogna capire la geografia del potere che si sta ricomponendo attorno all’Expo.
Fiera vuol dire Roberto Formigoni, cioè Pdl ala Comunione e liberazione. Formigoni, eterno presidente della regione Lombardia, ha lavorato sottotraccia per diventare il vero padrone dell’Expo. Sottraendo il giocattolo a Letizia Moratti. Formigoni non solo controlla attraverso i suoi uomini la Fiera, proprietaria dell’area, ma ha anche abilmente occupato l’Ufficio di Piano, d’ora in avanti vera cabina di regia dell’Expo. Sono di area Comunione e liberazione (e formigoniani di ferro) Matteo Gatto, il direttore dell’Ufficio di Piano; Andrea Radic, responsabile della comunicazione; Alberto Mina, responsabile delle relazioni istituzionali. Il comitato scientifico è presidiato da uno dei grandi capi di Cl, Giorgio Vittadini. Nel consiglio d’amministrazione di Expo spa siede invece Paolo Alli, già capogabinetto di Formigoni. La guerra è cominciata.
Personaggi e interpreti delle battaglie milanesi
Chissà se è pentita, Letizia Moratti, di aver fatto vincere a Milano la gara internazionale per l’Expo 2015. Finora da quel successo le sono venuti solo guai. Ora è preoccupata, tesa. È in forse anche la sua ricandidatura a sindaco. Credeva di poter gestire l’evento con i suoi uomini senza le interferenze dei partiti. Ha imparato a sue spese che non è possibile. Ha dovuto subire subito i boicottaggi degli expo-scettici, Lega e Giulio Tremonti. E poi gli assalti dei poteri, delle correnti, delle cordate. Umberto Bossi all’Expo non ha mai creduto, lo chiama “Expo di territorio”, vorrebbe che coinvolgesse paesi, città, territori e genti di tutta la Padania. Vorrebbe insomma che, se proprio si deve fare, fosse utile a portare consenso (ma anche poltrone, potere e soldi) alla Lega. Ha imposto un suo uomo, Leonardo Carioni a presidiare il consiglio d’amministrazione.
Tremonti dell’Expo avrebbe proprio fatto a meno: il suo ministero ha pochi soldi da spendere e non li vuole buttare per la gloria di Donna Letizia, che quando è andata a Roma a batter cassa si è sentita rispondere: “Letizia, il governo non è tuo marito”. Così Tremonti ha garantito per ora soltanto 133 milioni per il triennio 2009-2011, che dovrebbero diventare (chissà) 1,4 miliardi entro il 2015. Non si sa se arriveranno davvero i 600 milioni di competenza degli enti locali e i 500 dei privati. Tanto per cominciare bene, già quest’anno il bilancio previsionale di Expo spa è in rosso di 15 milioni di euro. Le grandi opere già previste e infilate a forza nel progetto Expo (le superstrade Pedemontana, Tem, Brebemi, le linee di metrò M4 e M5) non si sa se saranno finite in tempo per il 2015. Si sa però che mancano i soldi: almeno 2,5 miliardi di euro. Alcune opere sono state addirittura cancellate: non sarà fatta la linea M6, non sarà fatta la torre Landmark; non sarà fatta la via d’acqua navigabile che avrebbe dovuto portare dalla città all’Expo. Per fortuna gli orti costano meno. Del resto, alla stima iniziale di 30 milioni di visitatori previsti non crede più nessuno. E le previsioni di fatturato sono già precipitate da 44 a 34 miliardi.
Chissà se Lucio Stanca, il mediatore imposto da Silvio Berlusconi dopo tante polemiche, tanti litigi, tanti ritardi, resisterà fino al 2015. C’è già chi lo dà per sconfitto, bruciato dal braccio di ferro in corso (lui vuole comprare l’area, la Fiera vuole mantenerne la proprietà). C’è chi fa già il nome del successore: l’uomo di Berlusconi per le imprese impossibili, il super commissario Guido Bertolaso. Intanto ha messo il suo cappellone sull’Expo anche Bruno Ermolli, a cui piace tanto essere definito il Gianni Letta di Milano. Attraverso la Camera di commercio-Promos, ha organizzato nei giorni scorsi un incontro sull’Expo per dire: occhio, ci sono anch’io.
Ma è la Fiera, ormai, il vero dominus dell’operazione, strappata alla povera Moratti. Dunque Roberto Formigoni, che ha occupato anche l’Expo, e non si fa certo disturbare dall’arrivo del nuovo presidente della holding di controllo della Fiera, l’ex banchiere craxiano (ora berlusconiano) Giampiero Cantoni. L’uomo forte di Formigoni che ha lavorato nell’ombra (anche) per l’Expo è – tenetevi forte – l’avvocato Paolo Sciumè. Ora ha dovuto sospendere il suo impegno, perché è stato arrestato con l’accusa di aver presentato clienti mafiosi al presidente della Banca Arner, Nicola Bravetti. Il personaggio giusto, Sciumè, per lavorare a un’impresa che, già per conto suo, è a rischio infiltrazioni mafiose.
Si addensa la nebbia sugli scavi di Pompei. Solo ieri sera, dopo una settimana di silenzi, fra voci che si rincorrevano e inviti perentori a star zitti, arrivano i primi sprazzi di una versione ufficiale sul crollo avvenuto lunedì della scorsa settimana nei pressi della Casa dei Casti Amanti, che si affaccia su via dell’Abbondanza. In mattinata il direttore generale dei beni archeologici del Ministero, Stefano De Caro, tenuto all’oscuro della vicenda, ha chiesto alla Soprintendenza di Napoli e Pompei una dettagliata relazione. Un secco fax con una richiesta di chiarimenti a chi per legge ha il compito di tutelare gli scavi. Ma intanto nel tardo pomeriggio il commissario all’area archeologica, Marcello Fiori, e il direttore del sito, Antonio Varone, hanno fornito una versione di quanto accaduto. Poche righe in un lungo comunicato che esalta le meraviglie della Casa, di cui si annuncia l’apertura in febbraio. Grazie ai lavori nel cantiere in cui sarebbe avvenuto l’incidente.
È solo «un piccolo smottamento», assicura Varone, che non avrebbe provocato danni significativi. La causa? Le piogge. Che avrebbero fatto franare parte di un terreno «nell’insula adiacente a quella della Casa dei Casti Amanti». Comunque si ammette «il crollo di alcuni metri di un muro perimetrale dove non vi erano affreschi». Muro perimetrale, inutile aggiungere, d’epoca romana.
Molte cose restano, però, avvolte nella nebbia. Al crollo hanno assistito gli operai della ditta che eseguiva i lavori (il cantiere è stato subito dopo blindato). Ma alcune testimonianze concordano sul fatto che nella parte superiore del lato est dell’Insula IX, 11 (sono questi i riferimenti toponomastici di Pompei) stessero lavorando con un escavatore girevole di 30/40 quintali, in direzione di via dell’Abbondanza. È il mezzo più appropriato per muoversi in una zona così delicata? Tanto più che, sempre secondo alcuni racconti, l’escavatore stava togliendo terra in uno strato dove si dovrebbe procedere solo con le mani. Quest’opera di "terrazzamento", riferiscono le stesse fonti, avrebbe messo in luce la parte posteriore di un’altra casa, in particolare l’ambulacro est del peristilio e sette colonne. Il crollo avrebbe riguardato la parte superiore del muro di confine est dell’Insula IX, 11. C’entra qualcosa l’escavatore? È quello che deve essere accertato. Come pure il perché di tanta fretta, come se quello fosse un cantiere edile e basta e non gli scavi di Pompei. E poi: il cantiere ha una vasta copertura, com’è possibile che la pioggia abbia provocato lo smottamento? E, infine, perché tanto mistero? Chiarimenti chiedono ora Italia Nostra, che per prima ha denunciato la vicenda, e un’interrogazione parlamentare di Luisa Bossa del Pd.
Il punto chiave della vicenda è comunque il rapporto fra il commissario e la Soprintendenza. Andato in pensione Pietro Giovanni Guzzo, che ha diretto l’ufficio per quindici anni, è stata nominata Maria Rosaria Salvatore, archeologa di grande esperienza, alle soglie della pensione. Ma il vero soprintendente è Fiori, al quale la Salvatore avrebbe lasciato molte competenze. Pompei è una macchina enorme, complessa sia dal punto di vista amministrativo, sia perché resta un grande cantiere di studi e di indagini. È la Soprintendenza che ha in carico la tutela e la ricerca archeologica. Non il commissario, che pure ha svolto importanti lavori, come il completamento del restauro all’Antiquarium.
Crollo o non crollo, la storia pompeiana rilancia la polemica sui commissariamenti decisi da Sandro Bondi. I commissari, provenienti dalla Protezione civile (come Fiori), ma non solo, tendono a esautorare le soprintendenze, a corto di finanziamenti, con poco personale e con funzionari sempre più anziani. Ma cosa succede con i commissari? «Succede che le procedure vengono semplificate», rispondeva Guzzo poco dopo aver lasciato il suo incarico, «introducendo, per esempio, criteri assolutamente discrezionali nella distribuzione degli appalti, in deroga a tutte le norme vigenti. Insomma si creano postazioni che godono di maggior fiducia, politicamente molto utili».
Sull’ inquinamento a Milano le parole hanno perso di senso: non basta più dire allarme o emergenza, non serve scrivere che la città soffoca o non respira. Una rassegnata accettazione al peggio ambientale contagia da mesi la politica e la pubblica opinione: se non fosse per un gruppo di mamme indignate, dell’aria avvelenata che da tredici giorni intossica i polmoni di bambini e anziani non si parlerebbe nemmeno. Dieci anni fa un’analoga esposizione ai pericoli delle polveri sottili avrebbe provocato il blocco del traffico, una settimana di targhe alterne, il divieto di uscire nelle ore di punta per le persone a rischio. Si esagerava prima o si sottovaluta oggi?
Colpisce il silenzio generale che accompagna la ritirata ecologica che da Milano si espande al resto d’Italia: tace il sindaco, non parla il governatore, è disinteressato il ministro. Nonostante gli appelli al civismo dei piccoli gesti, delle questioni ambientali si parla quasi con fastidio. Alle prese con la crisi e la lotta quotidiana per la sopravvivenza, il problema dell’aria avvelenata sembra rimosso dall’agenda politica. C’era una volta lo smog.
Bisogna andare all’altro secolo per trovare un’azione coordinata tra governi e Comuni, alla metà degli anni Novanta, quando smog e pubblica salute diventarono materia per accordi e interventi coordinati tra Regioni. Incentivi, domeniche a piedi, blocchi infrasettimanali del traffico, divieti alla circolazione dopo sette giorni di allarme. L’inquinamento era in cima alle preoccupazioni dei cittadini quando l’ex ministro della Salute, Sirchia, si sbilanciava con una provocazione: «Per salvare i polmoni dei bambini di Milano d’inverno portateli in Riviera...».
Non c’è nostalgia per quei blocchi che in passato hanno appiedato le domeniche degli italiani: come cerotti sul bagnato tamponavano appena la ferita. Avevano però un effetto sui cittadini e sulla politica: evitavano l’assuefazione ai veleni, ricordavano un problema irrisolto. Quello che si presenta ad ogni inverno nella pianura Padana, quando la pioggia non spezza l’assedio dei mefitici veleni. Anche se Napoli, Torino e Lodi stanno peggio, Milano ha la poco invidiabile fama di capitale dello smog. È per questo che dovrebbe dare un segnale. Qui l’Ecopass voluto da Letizia Moratti ha fatto pensare a una coraggiosa svolta: il sindaco ha rischiato il consenso imponendo un pedaggio alle auto inquinanti. Ma quando il divieto doveva essere allargato, sul bilancino del consenso è finito l’assessore che l’aveva voluto: ed è stato dimissionato. Così oggi siamo al nulla: lo smog cresce, la pioggia non arriva, l’allarme resta, nessuno agisce.
Ma non può vincere la neoindifferenza, credere che tanto non cambierà mai niente. Una task force di medici ed esperti dovrebbe decidere le politiche sulla qualità dell’aria da applicare a livello nazionale facendo uscire l’inquinamento dalle logiche di una infinita campagna elettorale. Si mettano i tecnici attorno a un tavolo e si concentrino risorse per la qualità dell’aria: una battaglia civile che vale per i figli, i nipoti, i pronipoti, il futuro.
Suor Letizia Moratti, come la chiama il suo ex assessore Vittorio Sgarbi, ruggì. Ma l'educato gorgoglìo del sindaco di Milano e commissario dell'Expo del 2015 non impensierì né poco né punto le iene che si aggirano intorno al salvifico evento che dovrebbe riesumare la Milano capitale da bere. Piombata l'altro giorno ad Arcore per esternare tutto il suo malumore nei confronti di Lucio Stanca, l'ex manager Ibm ed ex ministro dell'Innovazione tecnologica messo a capo della società di gestione e accusato di totale inefficienza, è stata gentilmente invitata a soprassedere, data l'assenza di Bruno Ermolli, che aveva dato forfait fornendo così a Berlusconi il destro per non affrontare l'argomento. Un congedo cortese, non ruvido come quello che la commissaria dimezzata aveva ricevuto da Giulio Tremonti, quando era andata a battere cassa: «Letizia, il governo non è tuo marito!»
Ma l'irritazione di suor Letizia è così ulteriormente montata nei confronti di Stanca, che per nessuno è un crostino facile da digerire, figurarsi per la signora della buona borghesia milanese, icona vivente del bon ton. Ex granatiere di Sardegna, nato a Lucera, l'uomo che si definisce «manager di livello internazionale» non sa cosa sia l'understatement che usa ancora in quel che resta della Milanobene. Nelle interviste che rilascia a raffica è riuscito a dire che si sente un «direttore d'orchestra», di essere quasi offeso dalla «barzelletta» rappresentata dallo stipendio di 450 mila euro che riscuote in aggiunta all'indennità di deputato, carica da cui non intende dimettersi, e che per lui Keynes è un taxi: lo usa quando non può farne a meno, ma preferisce muoversi con la sua macchina. Questo gigante del pensiero a otto mesi dall'insediamento nella società di gestione dell'Expo, secondo la Moratti ha fatto ben poco, dopo l'intero anno di paralisi trascorso in una indegna rissa politica nella maggioranza per il controllo dell'evento.
La commissaria dimezzata, che vede a rischio persino la sua ricandidatura a sindaco di Milano nel 2011, comincia a sentire l'alito del decesso in culla per il grande evento salvifico o, nel meno tragico dei casi, di un flop come quello dell'Expo di Zaragoza, che ebbe meno della metà dei visitatori previsti. Le stime sul possibile futuro fatturato sono già state ridimesionate da 44 a 34 miliardi, mentre dei soldi promessi per l'avvio ci sono in cassa soltanto 133 milioni fino al 2011, tanto che la società chiuderà il 2010 con un rosso di 15 milioni. Tra le opere previste ma che già si sa che non si faranno mai ci sono la via d'acqua navigabile, la M6 e la Torre Landmark. Poi, chissà che altro, visti i chiari di luna. Per di più pare che a Parigi sorridano un po' per l'impianto "bucolico" del conceptplan espositivo, di cui hanno richiesto modifiche.
Volete sapere allora come andrà a finire, con buona pace del sindacocommissario e del granatiere di Sardegna dall'ego ipertrofico? Che una mattina Berlusconi si sveglierà e appunterà le insegne di supercommissario dell'Expo al petto di Guido Bertolaso, che nel frattempo sarà rientrato vincitore dal salvataggio dei terremotati di Haiti.