Il segreto di Arcus La cassaforte dei ministeri
Luca Del Fra
Cade la manna dal cielo, sotto forma di un diluvio di 200 milioni di euro distribuiti da Arcus lungo il triennio 2010–2012: c’è già chi parla di un miracolo della Madonna di Pompei, per il suo santuario infatti arriveranno 3 milioni di euro, 16 per Cinecittà Luce, 3 e mezzo per la Valorizzazione del patrimonio diretta da Mario Resca. Niente miracolo però per la regione piegata dal terremoto e poi abbandonata: all’Abruzzo nel prossimo triennio vanno appena 3 milioni di euro, meno che alle istituzioni con cui collabora Elena Francesca Ghedini, ordinario di archeologia di Padova nonché sorella dell’avvocato di Silvio Berlusconi, il deputato Niccolò Ghedini. Gridano allo scandalo i sindacati Cgil e Flp Bac, e non senza motivo: a fronte dell’abbandono del centro storico de L’Aquila, oramai ridotto in poltiglia dall’inverno e pronto per ospitare una “new town” di quelle promesse a suo tempo da Berlusconi, il Lazio nei prossimi tre anni porta a casa circa 31 milioni di euro, 21 la Toscana del ministro Bondi, poi staccate le altre regioni, 14 il Piemonte, 12 la Campania.
Per ultime: 3 l’Abruzzo, 2,8 la Basilicata, 1 la Calabria. Fanno il pieno gli enti ecclesiastici che, oltre a cospicui restauri sempre pagati da Arcus e affidati alle Sovrintendenze o agli enti locali – è il caso del non bello (litote) santuario pompeiano –, ottengono finanziamenti per altri 20 milioni di euro direttamente erogati a parrocchie, conventi, congregazioni, ordini, diocesi e arcidiocesi. Qualcuno dietro questi fondi sente il passo felpato di Gianni Letta, una specie di risarcimento per le bagatelle del premier e per la campagna contro l’ex direttore di «Avvenire»: orate fratres. Ma anche le sorelle non se la passano male, e non pensiamo solo alle Clarisse di Santa Rosa (500 mila euro in tre anni), ma anche alla sorella di Niccolò, Francesca Ghedini, dal momento che l’università di Padova dove è ordinario ottiene 3 finanziamenti per il totale di 1 milione e 800 mila euro, ma anche la Scuola Archeologica di Atene e la fondazione Aquileia di cui è collaboratrice – come da pagina web della stessa Ghedini sul sito dell’ateneo patavino –, avranno rispettivamente 500 mila e un milione e mezzo di euro: totale 3 milioni e 800 mila. Quasi un milione più dell’Abruzzo. Spesso i progetti finanziati hanno titoli oscuri: «Roma fuori dai fori» oppure «Studi Cinetelevisivi Rodolfo Valentino».
E non sorprende: fondata nel 2004 Arcus è una Spa dello stato che ridistribuisce il 3% degli stanziamenti previsti per le infrastrutture, da investire in cultura. Inizialmente lo statuto prevedeva dovesse finanziare non la regolare attività delle istituzioni, ma progetti specifici e dal carattere innovativo. Una formula vaga, resa ancor più incerta da successivi ritocchi: nella prassi Arcus è la cassaforte dove i ministri che si sono succeduti alla cultura e alle infrastrutture hanno attinto per operazioni di facciata, disinvolte e talvolta anche opache. Tanto che nel 2007 Arcus è stata commissariata, e si scoprì che i soldi venivano erogati perfino per una tappa del giro d’Italia.
Ancora una volta la disinvoltura non manca: si finanziano teatri commissariati come il Carlo Felice di Genova o il San Carlo di Napoli, Mario Resca l’uomo assunto dal ministro Bondi alla Valorizzazione del patrimonio museale per attirare i capitali dei privati, per ora si prende quelli di Arcus, cioè dello stato, per la sua Direzione Generale e per l’Expò di Shanghai. I 16 milioni per Cinecittà vanno a un generico progetto di «Valorizzazione e rilancio della attività», senza considerare i 500 mila euro per la Fondazione Pianura Bresciana, in passato promotrice dell’indimenticabile Convegno sulle cinque razze autoctone dei suini. Ultimo paradosso, attraverso Arcus foraggia anche la Fondazione Banco di Napoli, vale a dire una di quelle fondazioni bancarie private che avrebbero per statuto quello di finanziare la ricerca, la cultura e così via. Altro che intervento dei privati nella cultura: questa è una pioggia gelatinosa di danaro pubblico.
ARCUS - La saga dei fratelli Ghedini
Vittorio Emiliani
Nella saga dei fratelli Ghedini l’avvocato del Cav, nonché deputato, Niccolò ha la faccia sempre più triste di chi proprio non la sfanga, poveraccio, con ‘sti giudici talebani, nonostante i “mavalà” lanciati in tv.
Sale invece e riluce vivido l’astro della sorella Elena Francesca, archeologa dalle mille attività ministeriali, a partire dal 2002. Prima di allora soltanto alcuni titoli accademici. Dal 2002, una fiumana, un’“esplosione”. E’ contemporaneamente nella commissione Infrastrutture con Lunardi ministro (l’uomo dei trafori), in quella della Protezione civile per i Beni culturali e nel CdA di Arcus, la “cassaforte” della cultura irrorata a pioggia. Di nuovo in ombra dopo il 2006, riemerge con le elezioni 2008: subito consigliere del ministro Bondi per le aree archeologiche; cooptata nel Consiglio Superiore quando Carandini rattamente accetta di subentrare al dimissionario Settis. Ma presiede pure la commissione per la gestione/valorizzazione dei Parchi Archeologici e figura nel gruppo di lavoro per riformare la Scuola di Atene.
Tralascio qualcosa? Certamente. Si fa prima a dire che, senza di lei, i beni archeologici non sanno stare. L’ambizione della superattiva Elena Francesca? “Riportare l’Italia al ruolo che le spetta nel panorama dei Beni culturali mondiali”. Una vera italiana, perbacco. E l’archeologia? “Salvo poche eccezioni, musei e aree archeologiche sono in condizioni disastrose”, poi si rende conto che le è scappata la mano e precisa: ”soprattutto per la comunicazione: didascalie spesso illeggibili e quasi sempre solo in italiano”. E se i milioni di Arcus li usassimo per ’ste benedette didascalie? Che dice, se po ffà?
L’ultimo pacco siglato «Cultura spa» porta in dote 200 milioni di euro. L’infornata è di questi giorni e permetterà al governo una distribuzione a pioggia in favore di centinaia di associazioni, enti, teatri e fondazioni. Più che di privatizzazione della cultura, l’operazione sa tanto di mancia di Stato, giusto a un mese dal voto, per amici, boiardi e parenti importanti. Succede così dal 2004. I tre ministeri di riferimento stanziano (Beni culturali, Economia e Infrastrutture) e i beneficiari graditi incassano. È un affare gestito da pochi, con fondi pubblici e scavalcando il controllo parlamentare.
La «Cultura spa» di impronta berlusconiana - assieme ad Ales - ha il volto di Arcus, più che un volto il vero braccio operativo, il braccio lungo della spartizione. «Società per lo sviluppo dell’arte» fondata nel 2004 (sotto il precedente governo del Cavaliere) a capitale interamente sottoscritto dal ministero dell’Economia. I suoi decreti operativi vengono adottati dal ministero per i Beni culturali di Sandro Bondi, di concerto con le Infrastrutture di Altero Matteoli. Una spa a tutti gli effetti - col suo cda di sette componenti per dieci dipendenti - che, come ha avuto modo di denunciare in ripetute occasioni la Corte dei conti, si è «trasformata in un una agenzia ministeriale per il finanziamento di interventi», spesso «non ispirati a principi di imparzialità e trasparenza». La storia torna a ripetersi. Nel silenzio generale, la spa Arcus ha adottato a febbraio il piano triennale di interventi: 119 milioni per quest’anno, 43 per il prossimo, 37 e mezzo per il 2012. Totale: 200 milioni, parcellizzati in 208 interventi.
La logica appare discrezionale, se non emergenziale, in stile Protezione civile. Nel calderone, dietro il Lazio con 23 milioni di euro nel 2010, la parte del leone la fa la Toscana dei ministri Bondi e Matteoli: 21,4 milioni, rispetto per esempio agli 8,5 della Sicilia o ai 12,5 della Campania, pur ricche entrambe di siti, chiese, monumenti. Ma quali sono gli interventi strategici sui quali il ministero punterà per i prossimi tre anni? Nel capitolo «varie», intanto, 500 mila euro vengono destinati alla «partecipazione dell’Italia all’Expo di Shangai 2010». A guidare la missione sarà Mario Resca, consigliere d’amministrazione della Mondadori, berlusconiano doc, direttore generale del dipartimento per la «valorizzazione del patrimonio culturale» al ministero. Solo coincidenze, ovvio. Come lo è il fatto che, in Veneto, Arcus finanzia con due capitoli per un totale di 600 mila euro il dipartimento di Archeologia dell’Università di Padova. Direttore è la professoressa ordinaria di Archeologia Elena Francesca Ghedini, sorella del più illustre deputato, avvocato e consigliere del premier, Niccolò. Altissime le sue referenze nel mondo culturale: dal 2008 il ministro Bondi l’ha voluta al suo fianco quale «consigliere per le aree archeologiche» e dal marzo 2009 quale membro del «Consiglio superiore per i beni culturali». Ma di bizzarrie nelle 18 tabelle del piano se ne scovano tante. Ad Amelia, in Umbria, l’Associazione culturale società teatrale riceverà 800 mila euro, la Fondazione teatro dell’Archivolto in Liguria 450 mila euro e via elargendo.
Generoso il finanziamento di decine di interventi su immobili ecclesiastici, anche del patrimonio vaticano, dunque extraterritoriali. È il caso del «restauro dei cortili interni della Pontificia università gregoriana» a Roma: 1 milione di euro nel 2010 e 500 mila nel 2011, sebbene lo Stato abbia già finanziato lo stesso restauro con 457.444 euro tratti dai fondi dell’8 per mille, lo scorso anno, e con 442.500 euro, nel 2007. Ma, anche qui, la lista di monasteri, campanili e basiliche beneficiati è sconfinata. Dal pozzo dei miracoli di Arcus il governo attinge per aiutare pure le amministrazioni comunali «amiche» in crisi finanziaria: 1 milione alla cultura del Comune di Roma di Gianni Alemanno, 1,5 milioni per la rassegna estiva «Kals’art» del Comune di Palermo (Diego Cammarata).
La spa del ministero tra il 2004 e il 2009 aveva già spalmato, su 300 interventi, finanziamenti pubblici per altri 250 milioni di euro. La storia non cambia. E dire che il ministro Bondi, presentando in Parlamento il suo programma, il 26 giugno 2008, annunciava l’intenzione di «restituire alla società Arcus la sua mission originaria, evitando interventi a pioggia» e promettendo di «privilegiare d’ora in poi interventi di notevole spessore». Dalla fondazione del 2004, a gestire la spa è il direttore generale Ettore Pietrabissa, già vice all’Iri e poi all’Abi. Presidente è un vecchio andreottiano, Salvatore Italia, classe ‘40, alla guida del cda composto da altri sei consiglieri. Vertice di tutto rispetto per una spa che vanta però solo 4 dipendenti distaccati dal ministero e 6 contratti a termine. Sebbene la sede legale sia in via del Collegio romano 27, nei locali del ministero, quella «operativa» si trova in via Barberini 86, in un elegante ufficio da 350 metri quadrati nel pieno centro di Roma, affittato per circa 16 mila euro al mese, 175 mila euro l’anno. Nel 2010, stipendi, sede, gettoni e quant’altro necessita al funzionamento di Arcus costeranno 2 milioni di euro.
«La spa è solo a uso e consumo dei gabinetti dei ministeri», racconta Gianfranco Cerasoli, responsabile cultura della Uil. «Un carrozzone da smantellare, che continua a finanziare beni extraterritoriali della Chiesa: le sue risorse potrebbero essere gestite dal ministero, tagliando spese che gravano inutilmente sui contribuenti». Resta il nodo dei controlli. «Arcus ha di positivo l’immediata operatività, finanzia anche opere importanti - spiega Fabio Granata, componente Pdl della commissione Cultura della Camera - tuttavia in due anni di legislatura mai un atto della spa è transitato in Parlamento».
Al primo posto, come ogni volta che abbiamo trattato dell’auditorium di Ravello, sta la questione della legalità, che continua a essere ignorata anche da autorevoli commentatori. Cesare De Seta, sul “Venerdì” della settimana scorsa liquida l’argomento fra i “conflitti grotteschi” che hanno preceduto la realizzazione dell’opera. È bene allora ricordare che la costiera Amalfitana e la penisola Sorrentina sono tutelate da un piano urbanistico territoriale “con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali” approvato con legge regionale (27 giugno 1987, n. 35). Il piano era stato originariamente predisposto dal ministero dei Lavori pubblici, poi trasmesso per competenza alla regione Campania che lo tenne in un cassetto fino all’approvazione della legge Galasso (1985): solo allora decise di fare bella figura approvando il piano addirittura con legge. È forse il solo strumento urbanistico (dopo il 1942) approvato con legge. Una legge, e quindi un piano, molto rigorosi, e si deve a essi se quel territorio, che pure non è scampato all’abusivismo, non è però affetto dalla rivoltante devastazione legale e illegale dilagata in Campania negli ultimi lustri.
Il piano urbanistico territoriale (noto come Put), disciplina minutamente tutti gli interventi possibili e ne fissa misure e modalità costruttive. Sono stabiliti accuratamente i dimensionamenti dei piani regolatori dei 34 comuni interessati, gli standard, le attrezzature pubbliche di livello superiore (art. 16). Fra queste ultime l’auditorium non è previsto, ma la legge consente di operare in variante. In che modo? “I pareri su progetti che comportino varianti al Piano Urbanistico Territoriale sono espressi dal Consiglio regionale” (art. 7, comma 2). E ancora “Le varianti, anche se parziali rispetto al Piano Urbanistico Territoriale, dovranno essere proposte al Consiglio Regionale per la relativa approvazione” (art. 15, comma 3). Esisteva quindi la possibilità di realizzare l’auditorium con regolare variante, ma questa strada non è stata percorsa. Non sappiamo perché. Probabilmente perché il consiglio regionale non avrebbe approvato. O per l’arroganza di un potere che non perde tempo intorno a fastidiosi formalismi come il rispetto di una legge. Ma è incontestabile che l’approvazione di un'opera non conforme al Put è illegittima. Italia nostra lo ho sempre sostenuto. Su questo sito trovate una completa documentazione (vedi: Città e territorio; Sos-Sos-Sos; Ravello).
Sulla questione il Tar si pronunciò una prima volta nel 2000 dichiarando illegittima la previsione di un auditorium a Ravello per contrasto con il Put. Nel 2003, comune, regione, provincia e soprintendenza insistono e approvano in conferenza dei servizi, il progetto attribuito a Oscar Niemayer (ma in effetti firmato dall’arch. Rosa Zeccato: chi scrive lo ha personalmente verificato negli atti comunali, e poteva benissimo farlo anche la giornalista che scrive su la Repubblica di oggi). Parte così l’operazione consenso, con un’invadente campagna pubblicitaria con la quale si cerca di tacitare le critiche sull’illegittimità dell’intervento. Ben 165 importanti intellettuali, politici, ambientalisti, giornalisti (da Remo Bodei a Fausto Bertinotti, da Massimo Cacciari a Renato Brunetta, da Giovanni Valentini a Mario Pirani: per la lista completa vedi sempre in eddyburg.it) più sensibili alla griffe che alla legalità, si dichiarano entusiasticamente a favore.
La storia si conclude così: Italia nostra ricorre al Tar, che nuovamente conferma l’illegittimità dell’intervento (sentenza del 9 agosto 2004). Sindaco e regione si appellano al consiglio di Stato che, nel febbraio 2005, senza pronunciarsi nel merito, con decisione inaudita, annulla la sentenza del Tar. Perché l’annulla? Nientemeno perché Italia nostra non ha notificato il ricorso anche al ministero per i Beni e le attività culturali. Non basta che lo abbia notificato alla soprintendenza, organo del ministero. Il pronunciamento del consiglio di Stato viene a tutti gli effetti assunto come un permesso di costruzione e si mette mano ai lavori. A Italia nostra non resta che il giudice penale che però, finora, non ha dato segni di vita.
Fin qui la questione della legalità, anzi dell’illegalità dell’opera, che era e rimane illegittima, checché ne dicano, come scrive Salzano, schiere di potenti e sapienti che, forse, in una terra strozzata dalla malavita, dovrebbero stare più attenti alla trasparenza delle decisioni pubbliche. Si leggono invece commenti sbalorditivi. Secondo De Seta, “l’Auditorium dialoga con le ardimentose colline della costiera”, aprendo formidabili prospettive agli architetti di rango, perché solo Niemayer? Nei prossimi giorni l’auditorium sarà solennemente inaugurato, dicono alla presenza del presidente della Repubblica, ma spero che non sia vero. Chiunque può andare a Ravello e giudicarlo. Per quanto mi riguarda, condivido pienamente un recente comunicato di Italia nostra della Campania: “all’illegalità si aggiunge la violazione di ogni rispetto del paesaggio e del contesto, per le dimensioni palesemente fuori scala (parte del costruito aggetta sui terrazzamenti) e per la forma: la cupola si oppone all’andamento naturale del pendio e occupa pesantemente le visuali dall’alto e dal basso; la struttura ondeggiante non ha alcun rapporto con la tipologia edilizia tradizionale dominante in Costiera”. Italia nostra pone anche un altro inquietante dubbio sulla funzionalità dell’auditorium, che non sembra avere spazio per ricevere la grande orchestra wagneriana. Spero che in proposito intervenga qualche autorevole esperto. Perché sarebbe una gaffe imperdonabile la pubblicizzazione dell’auditorium che ossessiona in questi giorni le stazioni ferroviarie con la Cavalcata delle Valchirie.
Aggiungo infine che per la realizzazione dell’auditorium la regione Campania ha speso 18,5 milioni di euro, al fine di consentire a Ravello di estendere la sua stagione turistica a tutto l’anno. Non so quanti sanno che la costiera Amalfitana è stata ufficialmente definita a economia turistica matura fin dagli anni Sessanta e che di tutto ha bisogno meno che di nuovi turisti. E non so quanti sanno che la città di Napoli è priva di auditorium (se si esclude quello della Rai). E non mi pare che ce ne siano nelle altre città della regione Un nuovo grande e bello auditorium non era meglio costruirlo a Scampia?
Lo chiamavano l’uomo dal foglio d’oro. Non il vello d’oro, proprio il foglio, come quelli preziosi che Angelo Balducci volle come decorazioni al teatro Petruzzelli di Bari.
Dal Petruzzelli al San Carlo di Napoli: ricorrono sempre gli stessi nomi. E il nuovo superdirettore Mario Resca, ex ad di McDonald’s, con la società controllata Ales ora può gestire le gare come vuole.
Il business messo in piedi dall’alto funzionario Angelo Balducci e dai suoi amici appaltatori avrebbe suggerito la nomina di Bertolaso a ministro, al posto di Bondi, annunciata da Berlusconi.
Il deus ex machina dello Stato "in deroga" per realizzare "l’Italia del fare" di Berlusconi & Bertolaso, pronubo Letta, aprì sul campo un nuovo fronte di business miliardario: la Beni Culturali Spa. Un fronte così prodigo di soddisfazioni per i pubblici funzionari e per la cricca degli appaltatori da suggerire la nomina dell’uomo dei "decreti emergenziali" Guido Bertolaso a ministro dei Beni Culturali al posto di Sandro Bondi. Di qui l’annuncio di Berlusconi su «Bertolaso ministro» il 29 gennaio scorso, poco prima che lo scandalo deflagrasse. Poi, con l’arresto di Balducci e di altri "servitori dello Stato" la storia ha preso indirizzi diversi per l’inchiesta dei magistrati di Firenze sulla nuova Appaltopoli. Ma l’apparato predisposto è bello e pronto per intercettare "in deroga" i due miliardi e mezzo di euro (diconsi miliardi) di fondi europei per i beni e il turismo culturale. In principio furono per l’appunto i fogli d’oro che Angelo Balducci pretese invece di quelli di oro sintetico nell’apparato decorativo del teatro Petruzzelli, bruciato nel 1991, per la ricostruzione del quale fu commissario straordinario. Che volete che sia un milione di euro in più, di fronte a un costo globale cresciuto del 156 per cento?
Poca cosa rispetto ai 6 milioni di aggiornamento prezzi per le poltrone. Relativamente poco anche rispetto ai 650 mila euro per le "chianche" scomparse. Cos’erano? Erano le antiche basole tipiche del borgo antico di Bari, rimosse perché non andassero rovinate. Ma i soliti ignoti scoprirono il ricovero e se le portarono via. Conto totale del commissariamento di Balducci al Petruzzelli: cinquanta milioni contro un appalto iniziale di 23, secondo il calcolo di Antonio Cantoro, che sul "Teatro degli imbrogli" ha scritto un libro che sembra un giallo. Ma pazienza perché, come disse il sindaco di Bari Michele Emiliano, «il Petruzzelli è come il Vesuvio che se erutta fa danni». Se lo si placa fa invece la fortuna di politici, pubblici funzionari, commissari straordinari e appaltatori.
Non eruttò il teatro. Fu inaugurato a fine 2009 e con esso decollò il progetto per trasformare i Beni Culturali nel grande polmone dell’Italia del fare, mondati da ogni regola della legislazione ordinaria, da ogni controllo contabile e di legittimità, in onore di una suprema deroga appaltatrice per teatri da ricostruire, zone archeologiche da ripulire, siti d’arte da mettere in sicurezza, monumenti da sbiancare, palazzi da ristrutturare, statue da rigenerare, quadri da restaurare, biblioteche da puntellare, musei da gestire, biglietterie, librerie, bar e ristoranti da dare in concessione.
La Beni Culturali Spa, un’evoluzione della specie della Protezione Civile Spa, è già pronta a partire sotto i buoni auspici di Gianni Letta se non fosse per i magistrati fiorentini che inchiodano la cricca della bertolasocrazia tutta protesa alla conquista della prateria di appalti che si apre per la valorizzazione del patrimonio storico e monumentale.
È al Petruzzelli di Bari che si fa le ossa come sub-commissario un giovanotto rampante asceso infine a capo di Gabinetto del ministro Bondi. Trentasei anni, si chiama Salvo Nastasi e dalla tolda ministeriale controlla il partito dei commissari e l’annessa galassia di appaltatori del cuore. Egli stesso è stato commissario al Maggio Fiorentino e al teatro San Carlo di Napoli, dove ai lavori di restauro ha partecipato Pierfrancesco Gagliardi, quello che sghignazzava con suo cognato Francesco Piscicelli la notte del terremoto all’Aquila. Dipendente del ministero al settimo livello, questo Nastasi stava per diventare direttore generale senza concorso, per decreto, con un emendamento ad personam del senatore Antonio D’Alì. Nell’agosto scorso passò invece come un colpo di fucile la nomina a direttore generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale di Mario Resca, che Berlusconi aveva già proposto in tutte le salse, anche come direttore generale della Rai o presidente dell’Alitalia. Ex amministratore delegato della McDonald’s Italia, ex presidente del Casinò di Campione e della Finbieticola, il suo sogno è fare una centrale elettrica alimentata dal sorgo nell’ex zuccherificio di Voghera. Ma Berlusconi e Letta l’hanno risolutamente voluto al Patrimonio culturale, anche se non ha mai visto un museo in vita sua. «I cheeseburger - ironizzò il New York Times all’atto della nomina - entrano nel dibattito sui musei italiani». Alla Pinacoteca di Brera, di cui Resca è commissario e dove spenderà almeno 50 milioni, potremo ordinare «un McCaravaggio e una coca»? si chiedeva il NYT. E spiegava che il governo italiano «al mandato costituzionale di proteggere il patrimonio culturale sembra voler sostituire un modello imprenditoriale finalizzato allo sfruttamento». Al genio stile McDonald’s dobbiamo lo spot pubblicitario che sull’immagine del Colosseo recita: «Se non lo visitate ve lo portiamo via». In che senso? Come in "TotòTruffa", il film del 1962 nel quale il principe De Curtis vende la Fontana di Trevi a un turista.
Regnante Berlusconi, il conflitto d’interessi, si sa, è un concetto desueto. Ma le società di gestione museale riunite nella Confcultura, aderente alla Confindustria e presieduta da Patrizia Asproni, sono infuriate perché tra i tanti incarichi Resca, che ha accasato i suoi consulenti in un palazzetto al numero 32-33 di via dell’Umiltà di proprietà di una immobiliare berlusconiana, è anche consigliere d’amministrazione della Mondadori, che controlla la Mondadori Electa, società leader nella gestione dei punti di vendita all’interno dei musei. Magari in un soprassalto di dignità Resca si dimetterà. Ma chi potrà impedire che l’Electa si aggiudichi i pezzi più pregiati del business? Oltre alla Pinacoteca di Brera, gli Uffizi di Firenze, le aree archeologiche di Roma e Ostia Antica, l’area archeologica di Pompei, tutti i siti più importanti sono già nelle mani del partito dei commissari.
Una compagnia di giro ben sperimentata e ottimamente retribuita. A Firenze c’è Elisabetta Fabbri, un architetto veneziano nella manica di Nastasi, già commissaria per il Parco della musica, da cui sono partite le indagini della Procura di Firenze. Tra i "soggetti attuatori", Balducci ha inserito Mauro Dellagiovanpaola, finito in galera insieme a lui. A Roma e Ostia Antica, dopo il commissariamento di Bertolaso, è subentrato Roberto Cecchi, direttore generale per il Paesaggio e in procinto di diventare segretario generale del ministero. A Pompei c’è Marcello Fiori, ex responsabile dell’Ufficio emergenze della Protezione civile, intimo di Gianni Letta. Ovunque ci siano i soldi pronti ci sono anche i commissari, che in deroga a tutte le leggi affidano i lavori e i servizi senza gare di evidenza pubblica. E non a caso nel 2009 i residui passivi del ministero, cioè i soldi non spesi, sono aumentati di 200 milioni, per dimostrare che per far funzionare le cose occorrono i commissari straordinari.
Tramite la società controllata Arcus, Resca ha affidato per 200 mila euro a due società di consulenza, la Roland Berger e la Price Waterhouse Coopers, il compito di redigere le nuove linee per le gare di concessione dei musei. Ma il gioiellino dell’uomo che vuole portar via il Colosseo è un altro. Si chiama Ales, Arte Lavoro e Servizi Spa, e serve a fare esattamente quello che Berlusconi, Letta e Bertolaso avrebbero voluto fare con la Protezione Civile Spa. Ma stavolta senza decreti, senza passaggi parlamentari, senza opposizione. Ex società per il reimpiego di lavoratori socialmente utili interamente controllata dal ministero dei Beni Culturali, la Ales ha ora la possibilità statutaria di fare quel che vuole, a cominciare dal drenaggio di fondi e dalla loro distribuzione con assoluta discrezionalità. Altro che l’Italstat, la società dell’Iri guidata da Ettore Bernabei che in epoca democristiana introdusse in Italia la concessione e l’appalto di opere di tutti i tipi, dagli uffici postali alle carceri, superando gli ostacoli burocratici e che con fondi Fio si occupò anche di beni culturali, girando gli "sfiori", che per i grandi partiti erano troppo modesti, ai ministri socialdemocratici dell’epoca Vincenza Bono Parrino, Ferdinando Facchiano e al segretario Psdi Antonio Cariglia. Fu attraverso la consociata Italstrade che furono costituiti centinaia di miliardi di lire di fondi neri, cui attinsero in molti prima. Tra questi, proprio Gianni Letta, che incassò un miliardo e mezzo e raccontò di averlo utilizzato per salvare il quotidiano Il Tempo, di cui era direttore e amministratore delegato. Ne uscì pulito, dopo che il processo fu scippato a Milano dalla Procura di Roma, come il successivo sulla legge Mammì e le frequenze televisive di Berlusconi. La storia si ripete nell’ex porto delle nebbie, come dimostra il coinvolgimento del procuratore aggiunto di Roma Achille Toro nello scandalo Bertolaso.
Lo statuto della Ales, di fatto la Beni Culturali Spa, è un capolavoro che, senza una legge, istituisce una sorta di Iri della Cultura. «A titolo indicativo e non esaustivo», svolge per il ministero «la gestione di musei, aree archeologiche e monumentali, biblioteche, archivi, la guardiania, le visite guidate, la biglietteria, il bookshop, la gestione dei centri di ristoro (con somministrazione di alimenti e bevande rivolta ai fruitori dei luoghi della cultura)... la gestione del marchio e dei diritti d’immagine, il supporto tecnico-operativo per le attività di prestiti. L’esercizio di attività di pubblicità e promozione in tutte le sue forme, anche attraverso l’organizzazione di uffici stampa e piani di comunicazione, di mostre, convegni, fiere promozionali, spettacoli e, in generale, di eventi culturali; l’attività di editoria in generale e in particolare la pubblicazione, produzione e coedizione di libri». E via così per tre pagine fitte fitte. Ecco il gioiellino "in deroga" che era bello e pronto per Guido Bertolaso ministro dei Beni Culturali della Repubblica berlusconiana "del fare". "Fare affari", naturalmente. Se non ci fossero stati quei magistrati di Firenze che secondo Berlusconi «si dovrebbero vergognare». Sì, del loro Paese.
IL LAMBRO avvelenato, che minaccia di avvelenare il Po è l´ultima delle devastazioni compiute dal partito del fare e del non ragionare. Il Piemonte è "il padre di tutte le inondazioni", i suoi fiumi non tengono più, non regolano più. Contadini, industrie e cavatori hanno chiesto all´alto corso del Po più del ragionevole.
Hanno preso i suoi valligiani per farne dei manovali, le sue acque per derivazioni che in certi tratti, d´inverno, asciugano il fiume che è tanto più pericoloso quanto più è in magra. Tra Casalgrasso e Moncalieri, c´è il "materasso alluvionale" più profondo e più pregiato d´Europa. Ghiaie e sabbie depositatesi nei millenni per una profondità che arriva ai duecento metri, materiali di corso alto dunque puri e pregiati. Ogni tanto, dove il bosco fluviale s´interrompe, sembra di essere sul Canale di Suez dove passa fra alte dune sabbiose. Sono le colline di sabbia delle cave per cui si muovono come insetti mostruosi i camion giganti. Ricordano la confusione e il fervore dantesco dell´"arsenal dei viniziani", gru alte cinquanta metri, scavatrici mostruose, baracche e la pozza d´acqua della cava, delle voragini profonde fino a duecento metri, a centinaia in un territorio che dall´alto sembra un groviera con il rischio che le acque del fiume sfondino le paratie di terra e si uniscano alle acque delle cave con un caos idrologico imprevedibile.
Il rischio è grande, ma cosa è il rischio per i contemporanei? Gli esperti del Progetto Po ci perdono la testa, ma per i due milioni di Torino e dintorni è una cosa inesistente. Eppure le acque delle cave inquinatissime potrebbero penetrare nella falda acquifera che fornisce il settanta per cento dei consumi della metropoli. La grande difesa in superficie del depuratore del Po Sangone, il più grande e pare l´unico da qui al delta, potrebbe essere sottopassato. Ma che sanno i nostri governanti di questi rischi? Poi le genti del fiume Po hanno perpetrato il misfatto di rifiutare, di sabotare la navigazione commerciale del fiume. Ogni giorno arriva nel porto fluviale di Cremona una nave da carico. Potrebbero essere trenta, cinquanta se Cremona fosse collegata all´area di Milano, dove si concentra la metà della produzione industriale italiana, ma gli agrari si oppongono. Quanti sono? Forse cinquecento proprietari fra grandi e piccoli fra Pizzighettone e Crema. Più forti dei quattro milioni di abitanti della grande Milano e pronti a tutto. Il teorema degli agrari è il seguente: il canale è inutile perché il Po non è veramente navigabile: fondali bassi, nebbie, due periodi di magra. Non è vero, il professor Della Luna, un grande esperto del Po dice: «I giorni in cui il Po da Cremona al mare ha un fondale di due metri e cinquanta, due metri e ottanta sono duecentosessantanove, sui due metri trecentodiciassette. I fondali sui due metri e ottanta saranno necessari quando useremo le navi fluvio-marine lunghe centocinque metri e larghe undici e cinquanta, navi da duemila tonnellate, ma con le navi di oggi i fondali medi sono sufficienti. Quelli del Reno, che è la più grande via d´acqua d´Europa, sono analoghi».
Credo che il professore, che è fra i progettisti del canale dica una cosa vera: il Po è il più navigabile fiume d´Europa e il meno navigato. Cremona è a trenta metri di altezza sul livello del mare mentre il Rodano a Lione a centosessanta. Il dislivello tra Cremona e Milano è di cinquanta metri, e il canale tedesco tra il Meno e il Danubio ha superato una quota di quattrocentosei metri. I francesi vogliono collegare con un canale Parigi a Lilla, ci sono due progetti ed è in corso una lotta aspra fra i sindaci dei due tracciati che se lo contendono. Qui i venti sindaci fra Pizzighettone e Milano sono tutti fortemente ostili. Perché? Perché i lombardi hanno perso il gusto per l´intrapresa e sono allineati sulla linea conservatrice di "sfruttiamo l´esistente".
Ma cosa è questo esistente? È un sistema di trasporto su strada prossimo a scoppiare anzi già scoppiato. Nonostante la terza corsia, la autostrada Milano-Bologna, è già un fiume rombante di camion che non possono, come un fiume vero, "esondare" in lanche o golene. E siccome il piano Delors prevede nel decennio un raddoppio del traffico o si usano anche le vie di acqua o si va verso una cementificazione folle. Nella metropoli milanese vivono quattro milioni di persone e ognuna di esse ha bisogno di un trasporto di materiali solidi di tre metri cubi: cifre terrificanti. Il Po è un fiume di rare piene ma disastrose, nel ‘51 e nel ‘94 ha inondato intere province. Ma per la navigazione è un fiume placido, riceve gli ultimi dei suoi trenta grossi affluenti, il Mincio e il Panaro a 160, 140 chilometri dalla foce, diciamo una portata costante con variazioni regolari, ma dei grandi fiumi europei è il meno usato, quattrocentomila tonnellate di merce contro milioni.
Il Po è il grande padre avvelenato dai suoi figli. «Spero di morire prima di veder morto il Po» si legge in uno degli ultimi scritti di Riccardo Bacchelli. L´agonia è stata, per un fiume millenario, rapida, quindici anni fa il Po era ancora un Nilo, invadeva secondo le stagioni le terre di golena e le fecondava, dico le terre comprese fra gli argini di maestra, alti, possenti, rinforzati ogni anno e gli argini di ripa, pian piano invase dai coltivatori padani che vi hanno costruito le loro case le loro "grange" o piccoli borghi mettendo nel conto che ogni tanti anni, magari cinquanta, magari dieci il fiume dà e toglie, arricchisce e impoverisce. Gente di Po, comunque, incapace di abbandonare il suo fiume, la sua storia. Ora dopo una esondazione - sono belli i nomi fluviali - restano sul terreno chiazze di olio, macchie calcinate di residui chimici. «Solo pochi anni fa - mi dice un uomo del fiume - andare per i pioppeti inondati era stupendo, si passava in barchino tra i filari nella luce ombra della piantagione, più che una violenza era una silente, pacifica comunione di acque e di piante. Ora, appesi ai rami più bassi, trovi i sacchetti di plastica, i nastri di plastica e sembra di stare in un film dell´orrore, ti aspetti che compaiano mostri esangui». Ma anche i pallidi eleganti pioppi hanno la loro parte nel disastro del Po. Li hanno piantati fino alla riva del fiume e non sono alberi che rafforzano l´argine, non si piegano all´onda come i canneti o i salici, non hanno radici forti come gli ontani, sono piante di poche radici sradicabili, per proteggerli si è imprigionato il fiume nei cassoni dei "bolognini" o delle prismate, difese dure che fanno impazzire la corrente.
E inquinano, i tronchi sono cosparsi di insetticidi, la chimica arriva nel terreno, bisognerebbe arretrarli di almeno cento metri ma quel che è fatto è fatto, la barriera verde sta sulle rive. L´agonia per un fiume millenario che non era mai sostanzialmente cambiato è stata rapida, questione di venti, di quindici anni. Non molto tempo fa i pescatori si facevano la minestra con l´acqua del fiume prendevano l´acqua con la loro tazza di legno per berla. Ora non se la sentono più di entrarci a gambe nude, si proteggono con stivaloni e tute. L´inquinamento è salito negli ultimi cinque anni dai 14 milligrammi per litro ai 50. Pochi anni fa la gente del Po anche benestante faceva le vacanze sul fiume, preferiva i suoi ghiaioni alle spiagge affollate di Viareggio o di Rimini, conosceva gli accessi, sapeva tagliare le frasche con cui fare dei ripari al sole, non sentiva come Gioan Brera nessun complesso edipico verso il padre fiume feroce "rombante nelle notti di piena" semmai, adesso, il complesso è verso il padre sporco. Le società fluviali avevano nomi diversi ma sempre abbinati a "canottieri" e il legame è così antico che anche se ci si bagna in piscina in club aperti di recente a quindici chilometri dal fiume sempre canottieri sono.
Ha scritto uno studioso del fiume, Piero Bevilacqua: «Nella cultura dello sviluppo padano ci si è mossi verso l´ambiente come in una realtà da dominare, da schiacciare». Che il Po fosse il sistema nervoso di questa grande valle, il punto di riferimento, di identità, quello che dava una misura precisa alla nostra vita non ha avuto alcuna importanza: era solo un canale di scarico, un luogo per estrazioni di sabbia e allevamenti di maiali. Non si è più distinto fra rischi accettabili e rischi mortali, fra i rischi normali di un fiume e la sua uccisione; non si è più distinto fra convivenza accettabile e convivenza distruttiva. E così si è arrivati all´assurdo che per la manutenzione normale del fiume si sono spesi in sei anni settecento miliardi e per pagare i danni della piena del Tanaro diecimila. Che per l´auto ogni persona spende tre milioni l´anno ma tutti assieme i lombardi non sono stati capaci di bonificare la zona del Lambro, non se ne è fatto niente perché l´acqua del Lambro e dei pozzi è strumento di potere politico che i sindaci e i partiti non vogliono mollare. I soldi per la variante di valico dell´autostrada Bologna-Firenze li troveremo, ma quelli per collegare le vie d´acqua del Veneto e andare dal Po a Ravenna chi sa quando. Eppure sono ottimista, ho partecipato quest´anno a un convegno sul Po, c´erano quattrocento amministratori, tecnici, studiosi del fiume. Molti non si erano mai incontrati prima, eppure c´era un sentire comune: il governo civile del Po, il recupero del Po devono diventare senso comune, devono formare un nuovo pensiero sociale che riprenda il cammino del riformismo del primo Novecento.
La secessione non risolve nulla, ci vuole l´autogoverno solidale. Come mai? La società impazzisce ogni tanto.
L´agonia del fiume e anche quella dei suoi pesci, non molti anni fa al mercato di Piacenza vendevano trance di storione di Po oggi se ne trovano ancora, non i giganti di quattro metri di cui Plinio il vecchio per Paduam navigante, seguiva le scie argentee, se ne pescano ancora nelle lanche di acqua tiepida dove vengono a digerire il pasto di carpe e di cavedani ma non superiori ai due metri. Sono scomparse anche le anguille di Ongina dove una ostessa con la faccia di Giuseppe Verdi le friggeva crocchianti e dolci mentre il marito era addetto al taglio perpetuo dei culatelli di Zibello, le cose miracolose che maturano solo all´aria umida del Po come i prosciutti e gli stradivari. Nel fiume si pescano ancora lucci, scardole, cavedani, carpe ma spesso "di gusto avariato". Imperversa il pesce siluro, lo squalo del Po. Venti anni fa non c´era o era rarissimo. Dicono che questo silurus flanis descritto dai naturalisti come "pesce tirannico, crudele vorace" sia arrivato dal Baltico. «C´è una Lombardia - mi dice il dottor Gavioli assessore all´Ambiente della Provincia di Parma - che ha prodotto i grandi costruttori di canali da Leonardo al Filarete e un´altra che ha prodotto Craxi e Formigoni», la Lombardia che ha impiegato venti anni a rendere percorribili le strade per Como e per Lecco, che non è stata capace di bonificare il bacino del Lambro che butta nel Po tutti i suoi rifiuti e veleni, incapace di capire che non ci sono solo gli interessi suoi ma anche quelli dei sedici milioni di italiani che stanno nei settantamila chilometri quadrati del bacino fluviale, nelle terre che Philippe de Commines, al seguito di Carlo VIII di Francia descrisse nel suo diario come "il paese più bello e il più abbondante di Europa".
Non è facile capire per quale involuzione dello sviluppo questa Lombardia che scavava i navigli per cui passavano le merci provenienti da Genova e dall´Adriatico fino alla fossa interna milanese dove si legavano a quelli provenienti dall´Europa attraverso i laghi, come mai la Lombardia dei grandi ingegneri idraulici come l´Aristotele Fioravanti e il Bertola da Novate non sia capace oggi di collegare il Po a Milano, non riesca a fare di questo Po cadaverico e puzzolente il fiume della rinascita.
È un affare da mezzo miliardo di euro, un progetto faraonico da 187mila metri quadrati su un terreno di 309mila. Ed è previsto proprio sui terreni della Lombarda Petroli, l´ex raffineria di Villasanta a Monza da cui qualcuno, nella notte tra lunedì e martedì, ha fatto uscire gli ottomila metri cubi di petrolio che hanno avvelenato il Lambro per poi riversarsi nel Po.
Su quell´impianto, e sui terreni che lo circondano, dovrebbero sorgere appartamenti, negozi, capannoni industriali, un grande centro direzionale. In una parola, "Ecocity": così lo ha battezzato la "Addamiano Engineering" di Nova Milanese che vuole realizzare tutto ciò. Un progetto che da qualche tempo sembra segnare il passo, frenato da una serie di difficoltà economiche, e sul quale ora la catastrofe del Lambro si abbatte con la forza di un ciclone.
| foto f. bottini |
E le indagini dei carabinieri, della polizia provinciale e del Noe, il nucleo ecologico dell´Arma, sembrano avere già imboccato una direzione precisa: quella del sottobosco dei subappalti. Ieri la Procura di Monza ha aperto un fascicolo per disastro ambientale e avvelenamento delle acque a carico di ignoti. Nessun dubbio che si sia trattato di un sabotaggio a cui hanno preso parte almeno tre persone. Per svuotare le cisterne è necessario sbloccare le valvole, attivare nella giusta sequenza tre comandi e attendere che gli idrocarburi vengano aspirati dal fondo e pompati in apposite tubature. Solo a questo punto si possono aprire le ultime paratie che dovrebbero essere collegate ad autobotti.
L´amministratore delegato della Lombarda Petroli, Giuseppe Tagliabue, è stato interrogato a lungo. Sarebbero emerse gravi carenze nella sicurezza dell´impianto. Nei prossimi giorni verrà sentita anche la famiglia Addamiano: i fratelli Giosuè, Rosario e Matteo, alla guida del holding Addamiano Engineering di Nova Milanese, fondata negli anni Sessanta. Ieri, all´ora di pranzo, i costruttori si sono presentati ai cancelli della Lombarda Petroli per verificare di persona quanto accaduto sui terreni dove a breve prenderà il via il loro progetto di riqualificazione urbana.
L´idea di "Ecocity" è trasformare l´ex-raffineria in una cittadella ecosostenibile. Il masterplan è stato realizzato dall´architetto Massimo Roj in collaborazione con progettisti del Politecnico. La prima parte, 80mila metri quadri dedicati all´industria, è già stata realizzati. Presto dovrebbe partire l´intervento per la costruzione della zona residenziale, altri 36mila metri quadri. Ed entro due anni dovrebbe essere aperto il cantiere per l´edificazione dell´ultima parte, quella direzionale (44mila metri quadri), che si troverebbe proprio dove oggi ci sono le cisterne del deposito carburanti della Lombarda Petroli da cui è uscita la terrificante onda nera che ora avanza lungo il Po.
Nel quartiere svetteranno proprio due delle cisterne, simbolo della old economy, reperto di archeologia industriale, che saranno inserite nel nuovo contesto fatto di verde, piazze e piste ciclabili. «È prematuro dire se quanto accaduto rallenterà il nostro lavoro» fanno sapere gli Addamiano. Di certo c´è che questa non è la loro unica opera di lottizzazione di grosse dimensioni. Sparsi da nord a sud, gli Addamiano hanno disseminato l´Italia di quartieri ecosostenibili, ma in questo momento soffrono di scarsa liquidità come molti imprenditori del settore.
Un dato, quest´ultimo, che non è sfuggito agli inquirenti che hanno deciso di compiere una serie di accertamenti proprio in questa direzione. E la pista degli interessi legati al mattone prende corpo anche nelle dichiarazioni del presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà, che ieri ha dichiarato: «Se la magistratura dovesse individuare nella speculazione edilizia il movente di quest´azione criminalesarebbe necessario porre un vincolo urbanistico su tutte le aree attorno al Lambro». L´ex raffineria della Lombarda Petroli non è per la verità nelle vicinanze del fiume ferito, ma il sospetto che dietro il sabotaggio alle cisterne ci sia un qualche misterioso interesse legato al futuro di tutta quell´area è la principale pista su cui, per ora, si stanno concentrando procura e carabinieri.
(di seguito scaricabili relazione e tavole del progetto desunte dall'archivio valutazione regionale, e la delibera di adozione comunale con altri particolari; informazioni "istituzionali" anche sul sito dei promotori http://www.eco-city.it/ecocity-villasanta/)
Cari amici,
guardate un po' in cosa mi sono imbattuto per caso gironzolando sul BURL per tutt'altra questione: a p. 566 un'integrazione all'Accordo di Programma che consente la trasformazione di 10.000 mq da Manifestazioni espositive a show rooms, atelier, uffici privati, piccolo e medio commercio e la possibilità di trasformarne altri 10.000 da Manifestazioni espositive nelle altre funzioni private del PII.
Saranno ancora rispettati gli standard pubblici prescritti dalle norme?
Una volta tutto ciò avrebbe richiesto una delibera di Consiglio con pubblico dibattito, una pubblicazione comunicata a mezzo stampa, osservazioni, controdeduzioni, eccetera. Oggi si fa tutto alla chetichella e se uno non se ne accorge per caso... e poi ci sarà qualcuno che avrà interesse legittimo, voglia e soldi per opporsi con un ricorso? Ormai è passato il principio: facciamo quel c.... che ci pare!
Fatemi sapere se avete qualche idea riguardo al che fare (scaricabile qui di seguito il Bollettino Regionale)
L'uomo in giaccone piomba all'improvviso nel cantiere con un gruppo di manovali e urla: "Via di qui! Basta fotografie! È violazione di domicilio! Adesso chiamo la polizia!". Cammina avanti e indietro furente, il cinquantenne che chiamano "titolare". Poi afferra il cellulare e confabula in siciliano stretto; poi ancora ordina ai suoi uomini di cacciare gli intrusi: "Cortesemente sbattiamoli fuori!", strilla un paio di volte. E gli operai stanno per obbedire, perché i curiosi non sono graditi in questo spicchio dei monti Peloritani che sovrasta Messina. Nessuno, a quanto pare, ha il diritto di verificare come su queste colline di sabbia e terra stia spuntando un'infilata di palazzine che il cartello chiama "Il grande Olimpo".
Nessuno dovrebbe soffermarsi a osservare la scarpata e il suo terreno instabile, tanto debole da richiedere sostegni artificiali. Tantomeno è apprezzato, da queste parti, che si aggiunga un altro dettaglio: quello del torrente Trapani, che qui accanto smette di scorrere in superficie e s'infila sotto l'asfalto stradale in un varco di cemento armato circondato dal pattume. Una bomba d'acqua che già in passato ha causato esondazioni e un morto, e che fa ancora più paura guardando le colline sbeccate dalle frane. "L'alluvione del primo ottobre 2009 non ha insegnato niente", denuncia il capo del Genio civile messinese Gaetano Sciacca. "Non contano i 31 morti e sei dispersi di Giampilieri e villaggi vicini". Non conta neppure che pochi giorni fa, il 14 febbraio, abbiano dovuto evacuare dal borgo di San Fratello duemila persone per l'ennesima frana. "Là è successo quello che è successo senza bisogno di abusi edilizi, mentre qui massacrano la città con cantieri spericolati.
Poi tutti piangono quando arrivano le disgrazie; tutti giurano di avere tutelato la nostra provincia, i suoi 257 corsi d'acqua e i 108 comuni a rischio sismico. La verità è che pochissimi stanno cercando di fermare il disastro. A quattro mesi dall'alluvione le ruspe continuano a sventrare le colline, la coscienza civile latita ed è il trionfo assoluto dell'abusivismo ambientale: quello di chi edifica seguendo le regole umane, ma non quelle imposte dalla natura". Il risultato è un collasso territoriale. L'agonia di una Messina dove ogni giorno spuntano nuove gru: "Anche nelle aree più impensabili, anche dove il buon senso suggerirebbe di evitare", dice Anna Giordano del Wwf. Per esempio nella zona dell'Annunziata, un quartiere residenziale della fascia nord cittadina.
"Sopra incombe il Monte Ciccia, 609 metri di una montagna geologicamente giovane e a rischio dissesti. Sotto c'è una grande fiumara, e come non bastasse ci costruiscono dentro una chiesa". Un edificio già enorme anche se è ancora da completare. Un operaio sta riposando all'ora di pranzo nell'abitacolo della ruspa, ma quando vede il fotografo spalanca lo sportello: "Qui è tutto a posto, tutto in regola ", assicura. E avrà anche ragione. Però è impossibile confermarlo, visto che all'ingresso del cantiere non c'è il cartello con la descrizione dei lavori e della società chi li sta svolgendo. "Noi cittadini", spiega un militare che abita in zona, "partiamo da concetti semplici: ci chiediamo perché collochino una struttura imponente in corrispondenza di una fiumara, peraltro già affiancata da una palazzina. Non capiamo perché si arrivi a un simile azzardo, insomma. E soprattutto, ci domandiamo chi abbia reso edificabili posti simili".
Certo è singolare che dopo il disastro di Giampilieri, e dopo la recente morte di due bambine per il cedimento di una palazzina a Favara, nell'agrigentino, si costruisca un luogo di culto in un'area tanto delicata. Anche perché, una cinquantina di metri più a sud della chiesa, tra massi sgretolati e misera vegetazione spunta un tubo nero che, a detta dei residenti, dovrebbe contenere il torrente Annunziata quando s'ingrossa. In teoria: perché in pratica il tubo ha due sezioni scollegate, e potrebbe non bastare in caso di emergenza. Il che riporta alla questione centrale: ha senso tutto questo?, chiediamo al presidente dell'Associazione costruttori messinesi Carlo Borella. È una situazione accettabile, nel 2010, per una città con 247 mila abitanti? "La nostra edilizia", risponde Borella, anche titolare dell'impresa di costruzioni De.mo.ter, "è conseguenza di un Piano regolatore approvato tanti anni fa. Inutile discolparsi o negare gli eccessi di qualche imprenditore. L'aggressione alle colline messinesi c'è e fa paura, anche perché non si è trovata un'alternativa valida".
Detto questo, assicura Borella, è arrivata l'ora di cambiare atteggiamento: "Da una parte controllando con più scrupolo la qualità dei progetti, dall'altra confrontandosi attorno a un tavolo con gli ambientalisti". Quanto alla chiesa della fiumara, il presidente sostiene di non saperne niente ("Ma mi informerò", assicura). E nemmeno accenna ai pensieri che gli sta provocando Maurizio Marchetta, ex vicepresidente del Consiglio comunale di Barcellona, secondo cui Borella avrebbe "costituito un gruppo di imprenditori che fanno parte del Consiglio direttivo e stabiliscono preventivamente, a tavolino, a chi fare aggiudicare gli appalti in provincia e fuori". Frasi che altrove farebbero scalpore, mentre a Messina scivolano tra le infinite contraddizioni. Per dire: quando l'8 gennaio il capo del Genio civile Sciacca ha invocato la sospensione immediata del Piano regolatore (spiegando che "durante queste ultime settimane, in barba a qualunque motivazione etica dopo il disastro del primo ottobre, ci sono pervenute nuove richieste di pareri e autorizzazioni relativamente a imponenti complessi edilizi"), il presidente dell'Ordine degli architetti Gaetano Montalto (che è anche presidente della Commissione edilizia) ha risposto invitando a risparmiarsi "crisi di panico e patetici buonismi ambientalistici".
Eppure è facile vedere quanto stia soffrendo Messina. Basta leggere cosa scrive il capo del Genio civile in un documento inviato il 14 dicembre al sindaco Giuseppe Buzzanca. Un testo dove si parla del quartiere San Lìcandro e dei lavori per un complesso residenziale con quattro corpi di fabbrica da sette piani ciascuno. Palazzi che potrebbero "modificare sensibilmente le attuali condizioni del territorio e determinare di riflesso effetti negativi sull'intera area oggetto d'intervento", dice Sciacca. Non solo: nella sua nota specifica che "i drammatici eventi alluvionali di ottobre hanno mostrato come una dissennata attività edificatoria a ridosso delle zone collinari possa produrre effetti devastanti sul territorio ".
Appunto per questo, ammonisce, è fondamentale che al business si anteponga "la pubblica incolumità". Parole che, per il momento, bloccheranno il cantiere. Ma è una piccola vittoria in una guerra infinita. "Fate un giro al quartiere Montepiselli", suggerisce un operaio con trent'anni di esperienza, "guardate come le ruspe aggrediscono la collina". Ed è un buon consiglio, perché il tragitto stesso per Montepiselli è istruttivo. La strada che sale dalla centrale via Principe Umberto è parzialmente franata. E così pure il fianco del monte, dove un'imbragatura penzola fin quasi a terra. Sull'altro versante del colle, poi, la strada porta a una curva dove l'asfalto sta cedendo sul ciglio a strapiombo. "Colpa della terra rimossa per costruire le case a valle", sostengono gli ambientalisti. Gli stessi che fanno strada, in cima alla collina, fino al complesso Aralia: un elegante blocco di palazzine in via di rifinitura voluto dal costruttore Vincenzo Pergolizzi, il titolare della società E.P. srl arrestato nel 1999 con l'accusa di concorso in associazione mafiosa, assolto nel 2008 e uscito con la prescrizione dall'ipotesi di favoreggiamento della latitanza di due boss. Colpisce, in questo insieme di cemento e palerie di rinforzo, come il fianco della collina sia prossimo agli appartamenti. E ancor più impressiona, al di là delle autorizzazioni chieste e concesse, la scarpata di fronte, dove il terreno è puntellato ma l'acqua piovana continua a scivolare fino a un muretto crepato.
Quanto basta, spiegano gli ambientalisti, per mostrare la fragilità del luogo e l'inopportunità di costruirci massicciamente sopra. Ma il discorso Aralia non termina qui, perché c'è ancora da ascoltare il resoconto fatto da più giornalisti del loro dialogo con Enrico Ricevuto, legale del costruttore Pergolizzi. "Stavamo parlando di questi sbancamenti e della loro sicurezza", racconta uno dei presenti. "Al che l'avvocato, per sottolineare la bontà dei lavori, ha detto che la relazione sul terreno è stata sottoscritta anche dal geologo Sergio Dolfin, e che i palazzi sono talmente sicuri che Dolfin stesso ha acquistato un appartamento per il figlio".
Riassumendo: il geologo Dolfin, già membro della Commissione per la verifica delle valutazione d'incidenza, avrebbe firmato il via libera allo sbancamento della collina, comprando poi un appartamento nel complesso di Montepiselli. Non solo: in un'intercettazione della Procura Sergio Dolfin, parlando con l'ex assessore all'Urbanistica Antonio Catalioto, ha definito l'ambientalista Giordano "una testa di cazzo", mentre il suo interlocutore prevede che la signora "continuerà a rompere le palle...". E il perché è evidente: "Nel 2009 il Wwf si è battuto per fermare il Piano regolatore, ma ha anche presentato quattro denunce specifiche per anomalie edilizie", spiega il legale Aurora Notarianni. "Un lavoro finito prima nel registro degli atti che non costituiscono notizie di reato, e poi all'attenzione del procuratore capo Guido Lo Forte". Cosa significhi, in concreto, non si può sapere. Lo Forte non rilascia dichiarazioni ufficiali, nel suo ufficio. Ragiona però sul dopo alluvione ponendo una domanda fondamentale: "Come mai, da più parti, dicono che la popolazione messinese diminuisce mentre gli appartamenti aumentano?". Un'ipotesi, in corso di verifica, è che la malavita organizzata finanzi indirettamente le costruzioni, acquistandole poi con prestanome per riciclare il denaro sporco.
Un sistema mai contrastato con troppa determinazione, secondo la Procura, e quindi impermeabile a qualsiasi alluvione. "Chi ha investito deve comunque guadagnare ", ironizza l'avvocato Notarjanni. E l'assessore in carica all'Urbanistica, Giuseppe Corvaja, conferma quanto sia complicato opporsi: "Non si tratta semplicemente di legalità o illegalità: se il piano regolatore permette di costruire in zone pericolose, gli imprenditori lo fanno e basta. Provassimo a bloccare i cantieri, verrebbero chiesti al Comune risarcimenti sontuosi".Dopodiché tutto è possibile, a Messina. Anche che sopra la strada Panoramica, a due passi dal mare, si salga per una viuzza qualsiasi e si spalanchi un groviglio di ruspe e cemento, mattoni e palazzi che crescono dietro al cartello "Victoria Park, costruendi appartamenti signorili con ampie verande e cantine". Il tutto a cura della ditta Co.Gest.Ir srl, che offre metrature da 50 a200 metri quadri con tanto di box auto.
Un complesso che sicuramente ha tutte le carte in regola, tutte le autorizzazioni a posto e tutte le cautele prese. Ma nasce in un ambiente che si commenta da solo, con una centrale elettrica della Terna vicina, la solita fiumara sotto l'asfalto e il terreno intorno che Giordano classifica come "la nota sabbia e ghiaia di Messina, adatta alle fondamenta di un edificio ma meno per i pendii, spesso instabili e propensi alle frane". Un discorso valido, a grandi linee, anche per altre zone della Messina post alluvione. A partire da quella di Conca d'Oro, vicino al quartiere Annunziata, dove sono in corso i lavori per completare le 29 aule delle scuole superiori. Una struttura, spiegano gli operai, che per un decennio è andata avanti a singhiozzo e adesso vedrà la luce. Finalmente, dicono i residenti; che sono soddisfatti ma non nascondono qualche preoccupazione. Dietro gli edifici gialli e amaranto della scuola, infatti, c'è una collina che verrà messa in sicurezza con un muro e adeguate palificazioni (garantiscono sempre gli operai). Ma ancora più in alto c'è un condominio, la cui cinta di protezione ha una crepa che non piace. "Sarà abbastanza sicura la scuola?", si chiedono i residenti. "O dovremo vivere con l'ansia per i nostri figli?". Perché la risposta sia rassicurante, e inauguri nel messinese una stagione di edilizia più ragionevole e ragionata, il vicesindaco Giovanni Ardizzone (Udc) sta battendosi per applicare il cosiddetto Piano territoriale paesaggistico, che la Soprintendenza ai beni culturali ha trasmesso il 23 dicembre. Da parte sua, il sindaco Giuseppe Buzzanca ha annunciato l'avvio dell'iter per il nuovo piano regolatore, che dovrebbe scattare dopo un anno di consultazioni. "Comunque vada a finire", riconosce Ardizzone, "i politici consegneranno alle prossime generazioni una città devastata".
Un pensiero che torna quando, in una giornata di pioggia gelida, i vigili del fuoco danno il via libera per visitare il centro di Giampilieri. Qui a ottobre sono morte 19 persone, e qui oggi tra cumuli di macerie e stoviglie, giocattoli abbandonati e camere da letto sepolte dalla frana, un soccorritore racconta come recuperarono le salme una dopo l'altra, coprendole con i teli su barelle improvvisate: "Ricordo il panico dei sopravvissuti, il terrore di riconoscere sotto ai lenzuoli familiari o amici", dice. "Un dolore che i messinesi non vorrebbero vivere nella loro città, ma che lo scempio edilizio potrebbe imporci al prossimo temporale".
Milano, 23 feb. (Adnkronos) - ''Un disastro ambientale senza precedenti per l'ecosistema del fiume Lambro che ne pagherà a lungo le conseguenze''. Non usano mezzi termini i volontari di Legambiente che da stamane lavorano per frenare l'onda di petrolio, riversatasi nel fiume che attraversa la Brianza e che rischia di raggiungere il Po. Almeno 600mila i metri cubi di sostanza inquinante, fuoriuscita dai depositi della ex-raffineria Lombarda Petroli di Villasanta, che si sono riversati in acqua.
Si tratta di uno ''dei più gravi disastri ambientali verificatisi di recente in Lombardia, che potrebbe avere conseguenze di lungo periodo, considerata anche la messa fuori servizio del grande depuratore di Monza San Rocco, che tratta le acque fognarie di oltre mezzo milione di brianzoli'', spiegano i volontari. ''Qualunque ne sia la causa, accidentale o dolosa - sottolinea Damiano Di Simine, presidente regionale di Legambiente- questa nuova catastrofe torna a mettere in luce l'insufficienza della prevenzione dei rischi industriali''.
Ancora troppo presto per quantificare il danno ambientale: al momento manca una cifra ufficiale sulla quantità di petrolio riversata nel fiume, ma l'impatto 'visivo' è ben visibile:numerose le carcasse di anatre e germani che affiorano dall'acqua.
Nel frattempo il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, sta valutando accuratamente insieme ai tecnici i termini di un'ordinanza, da emettere nella giornata di domani, per garantire lo smaltimento in sicurezza del materiale inquinante. Gli agenti della Polizia provinciale, presenti insieme alla protezione civile, alla polizia locale e all'Arpa, hanno tratto in salvo tre germani che sono stati trasportati all'oasi Wwf di Vanzago. ''Le priorità - spiega l'assessore alla Polizia Provinciale della Provincia di Milano, Stefano Bolognini - sono arginare i danni e proseguire nella bonifica della zona''. Intanto, però, è caccia anche ai responsabili di quanto accaduto. ''Si accertino al più presto le responsabilità del grave disastro ecologico del fiume Lambro'' è la richiesta della Lipu-BirdLife Italia.
A chiederlo è anchePaolo Grimoldi, deputato monzese della Lega Nord. "La priorità è che vengano stabilite in tempi padani le responsabilità, perché questo scempio non passerà certo senza nomi e cognomi dei colpevoli. Ho chiesto l'intervento del Viminale e ottenuto un incontro con il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo".
DaGiuseppe Civati e Carlo Monguzzi, consiglieri regionali del Pd arriva la richiesta di ''Mettere subito in sicurezza il depuratore di San Rocco a Monza, andato letteralmente in tilt a causa dello sversamento doloso di migliaia di metri cubi di gasolio e petrolio e arginare il disastro''.
Una quantità ''tremenda di gasolio e petrolio si è riversata nelle fogne e nel Lambro - spiega Civati, c'è un odore nauseante ed è stato straziante vedere poveri animali in agonia praticamente imprigionati nella melma oleosa''. E' una corsa contro il tempo quello di esperti e volontari per salvare germani, folaghe e cormorani.
La marea nera ha attraversato Milano per arrivare questo pomeriggio a Lodi e proseguire verso il Po. Oltre l'inquinamento del fiume, il petrolio ha colpito il reticolo idrico minore, formato dai canali utilizzati essenzialmente dalle produzioni agricole, e sta raggiungendo, attraverso Cremona, il fiume Po. ''Mi auguro che l'intervento immediato delle autorità competenti possa limitare i danni all'intero territorio lombardo e alla fauna, - spiega il capodelegazione della Lega Nord in giunta regionale lombarda, Davide Boni- evitando che il petrolio raggiunga lo stesso fiume Po.
Confido, inoltre, che venga ben presto accertata la dinamica dell'incidente, individuando eventuali colpevoli''. Un ''gravissimo episodio che dimostra la fragilità e il rischio a cui sono sottoposti un territorio fortemente urbanizzato e i corsi d'acqua della Brianza'' è il commento del segretario provinciale del Pd e il capogruppo in Consiglio provinciale di Monza, Enrico Brambilla e Gigi Ponti.
1. La città è diventata privata
Nel mese di gennaio Il Sole 24 Ore ha chiarito i motivi per cui –a distanza di cinque anni dall’approvazione del progetto- non prendono ancora avvio i lavori di ristrutturazione dei Mercati generali dell’Ostiense. Afferma il giornale che il gruppo Lamaro sta attendendo l’erogazione di un prestito di 200 milioni di euro da parte della Cassa Depositi e Prestiti.
La prassi di accensione di mutui per realizzare qualsiasi intervento di interesse pubblico è interdetta a tutti i comuni italiani a causa di continui provvedimenti bipartisan tesi –ufficialmente- a limitare l’indebitamento delle amministrazioni locali. Le regole non valgono pertanto allo stesso modo: il settore pubblico non può compiere le stesse operazioni che sono invece consentite ai privati, con l’aggravante che la Cassa è un istituto di credito pubblico (il 70% appartiene allo Stato): la collettività presta soldi a tassi ridotti ai privati ma non alle amministrazioni pubbliche.
Non c’è nessun altro paese occidentale che abbia avviato politiche così inique e penalizzanti per le amministrazioni pubbliche: lì rimane infatti il senso dello Stato e della fondamentale importanza delle azioni delle amministrazioni pubbliche. Da noi le amministrazioni locali sono state messe in ginocchio, sottoposte a tagli di bilanci insensati soprattutto se confrontati con l’allegra prassi che lo scandalo della Protezione civile sta mettendo in luce.
Attraverso una campagna mediatica efficacissima ci è stato detto che “non c’erano più risorse pubbliche” e in questo modo i comuni sono stati costretti da un lato a svendere il patrimonio pubblico e dall’altro lato a incentivare l’unica fonte di entrata su cui non si attua nessuna politica di controllo, e cioè quella legata all’aumento di concessioni edilizie. Si aumenta a dismisura l’edificazione per sopperire ai mancati trasferimenti di risorse pubbliche che vengono invece sperperate nei modi che la magistratura fiorentina ha messo sotto gli occhi degli italiani.
E, purtroppo, non è vero neppure che il comune di Roma in particolare soffra in ogni settore dei tagli alla finanza pubblica. Dobbiamo questa preziosa ricerca a Vittorio Sartogo e all’associazione Calma: da quando (agosto 2006) l’ultimo governo Prodi ha fornito di poteri speciali in materia di mobilità il sindaco di Roma al novembre 2009 sono state emesse 246 ordinanze per una spesa totale di 760 milioni di euro senza rispettare le regole di affidamento europee. Come vedete, ognuno ha la sua protezione incivile. Intanto all’ospedale Pertini di Pietralata viene chiesto ai parenti dei ricoverati di portare le siringhe. Alcuni di essi collaborano alla pulizia del nosocomio. Analoghi fenomeni avvengono nelle scuole dell’obbligo e in ogni altro comparto della sfera pubblica, ad iniziare dal settore giudiziario.
A distanza di quindici anni dal suo trionfo, il neoliberismo si svela dunque per quello che è: una gigantesca costruzione ideologica che ha coperto la vendita delle città alla peggiore speculazione parassitaria e che sta distruggendo alla radice il ruolo dello Stato moderno. Negli altri paesi europei che pure hanno subito la ricetta economica neoliberista sono stati privatizzati settori importanti dell’economia e venduti imponenti quantità di beni e aziende pubbliche. Ma hanno preservato il ruolo delle amministrazioni pubbliche. Da noi, per i ritardi storici, la cura ha prodotto un disastro di dimensioni incalcolabili. Viviamo ormai in un paese senza più una guida pubblica, lasciato in mano a scorrerie di avidi predatori. Oggi tutti possono vedere e spero che la buona politica -di cui non si vede ancora traccia- recuperi in fretta il tragico baratro in cui siamo caduti. Che questi temi vengano affrontati dalla Cgil che ha svolto coerentemente in questi anni un ruolo di difesa di alcuni ruoli dello stato nelle dinamiche sociali. Si tratta di estendere questa azione anche alla città, perché è qui che maggiormente si misurano i disastri dell’aver cancellato ogni regola affidando le sorti delle città ai privati.
2. La gigantesca area metropolitana di Roma
Cercherò dunque di sintetizzare quali siano stati i fenomeni che hanno investito la capitale e come esse abbiano provocato l’aggravamento delle condizioni di vita della parte debole della società. Il primo grande fenomeno riguarda la creazione di un’area di gravitazione metropolitana di dimensioni gigantesche che non hanno alcun confronto con le capitali europee notevolmente più grandi di Roma. Afferma la provincia di Roma che sono oltre 400 mila gli spostamenti pendolari quotidiani dall’area metropolitana ai luoghi di lavoro che non si è voluto decentrare in questi anni. La dimensione fisica dell’area è gigantesca: ci si muove quotidianamente anche da distanze superiori ai cinquanta chilometri, come ad esempio la pendolarità da Civitavecchia, Aprilia o Anzio-Nettuno soltanto per citare i casi più eclatanti. Anche dalla grande conurbazione londinese (12 milioni di residenti) ci si sposta da distanze superiori ai 50 chilometri per andare nella city. Ma ci si va con treni comodi e moderni che viaggiano a 200 chilometri orari. Lo scorso anno è stata inaugurata una nuova linea ferroviaria che dalla regione del Kent impiega 30 minuti per percorrere 70 chilometri. Per arrivare dalla conurbazione Tivoli-Giudonia (150 mila abitanti) si impiega circa un’ora su treni indecenti che viaggiano su binario unico. In Gran Bretagna ha governato a lungo Margaret Thatcher, ma nessuno ha mai pensato, come da noi, di divorare lo Stato.
Anche nella regione dell’Ile de France (11 milioni di abitanti) ci si sposta in treno per raggiungere Parigi. E nonostante la diffusione capillare della rete ferroviaria nel 2004 il sindaco di Parigi Bertrand Delanoe ha deciso di costruire una nuova line tranviaria a nord della città. E’ stata progettata, costruita e inaugurata in tre anni, senza aggirare alcuna regola.
A Roma si è consentita una gigantesca diffusione residenziale senza realizzare linee ferroviarie: ci si sposta dunque in automobile. Ecco perché abbiamo 800 automobili ogni mille abitanti e un numero patologico di scooter. Del resto la media italiana è di 61 auto per mille abitanti rispetto alla media europea di 46. Ed è anche questo storico ritardo della città ad aver influito in questi tempi di crisi alla scomparsa della presenza di alcune imprese internazionali da decenni presenti sul territorio.
3. La grande espulsione
Quest’enorme diffusione residenziale è avvenuta per il grande processo di rivalutazione del comparto immobiliare che abbiamo conosciuto e su cui esiste molta letteratura. E’ forse più interessante ragionare sulle differenze dei valori immobiliari tra le varie zone di Roma e la Provincia sulla base dei dati dell’Agenzia delle Entrate. I valori immobiliari rilevati nel primo semestre 2009 si attestano a 9.000 euro/mq nei rioni più qualificati come Campitelli. Quando si inizia ad allontanarsi dal centro si raggiungono i seguenti valori immobiliari:
- periferia storica: valori medi di 7.000 euro/mq;
- periferia interna al Gra: valori medi di 5.500 euro/mq;
- periferia esterna al Gra: valori medi di 4.000 euro/mq;
- prima corona dei comuni metropolitani: valori tra 1.700 e 3.300 euro/mq (v.medio 2.500);
- seconda e terza corona dei comuni dell’area romana: valori tra 1.500 e 2.300 euro/mq (1.900);
- comuni più lontani e a basso livello di accessibilità: valore medio di 1.400 euro/mq.
E’ noto a tutti che i valori reali delle transazioni immobiliari sono superiori a quelli appena elencati: non varia però l’andamento relativo. Più di centomila famiglie sono state espulse da Roma perché non ce l’hanno fatta a sostenere l’impennata dei valori delle case e quelli degli affitti.
Una delle obiezioni che ci è stata spesso rivolta quando abbiamo denunciato lo svuotamento residenziale di Roma è che la città appariva al contrario piena. E’ vero. Le case delle famiglie che si sono trasferite lontano sono stata affittate a studenti e immigrati in numero superiore al numero dei componenti delle famiglie che le abitavano. Insomma, i 100 mila studenti fuori sede che frequentano le università romane e i 400 mila immigrati che vivono in città sono stati una delle cause della grande espulsione. Si guadagna di più ad affittare una stanza o un posto letto e ciò ha fatto lievitare ulteriormente i valori degli affitti. Le statistiche che fornisce l’Istat ci dicono che nel Lazio esistono 2.431.000 abitazioni, mentre il numero delle famiglie è di 1.985.487. E' dunque certo che rispetto al fabbisogno teorico ci sono già 450 mila alloggi in più. E' un numero enorme, di cui Roma detiene la gran parte, circa 250 mila alloggi. Ma è ragionevole pensare che 100 - 150 mila alloggi siano occupati ma non risultano alle statistiche ufficiali. La bella campagna promossa dalla Cgil contro l’evasione fiscale dovrebbe aprire anche questa importante questione.
4. Quattro progetti pubblici per l’area metropolitana
Roma dunque non è vuota, ma le famiglie economicamente deboli sono dovute andare a grandi distanze dalla città. Le loro condizioni di vita si sono aggravate. Dal punto di vista della qualità della vita perché perdono 3 ore di vita al giorno soltanto per spostarsi, un mese e mezzo della propia vita in fila. Dal punto di vista economico perché spendono molto di più di un “romano” per spostarsi. Si tenga in questo senso conto che la prospettiva di istituire pedaggi nella rete stradale primaria porterà un ulteriore decurtazione del reddito di queste famiglie, come è già avvenuto per gli abitanti di Ponte di Nona e Case Rosse che pagano per percorrere il tratto urbano dell’A24. Dal punto di vista della prospettiva sociale perché la qualità dei servizi scolastici, sociali e sanitari sono notevolmente minori –in genere, ovviamente- di quelli di Roma. Non è soltanto la generazione che si è trasferita furori Roma ad aver diminuito la sua prospettiva di riscatto sociale, ma sono anche le generazioni future che ne risentiranno. Una prospettiva iniqua e inaccettabile che può essere attenuata attraverso la pianificazione urbanistica. Era quello che affermava 60 anni fa un grande personaggio come Adriano Olivetti: il territorio è la proiezione esterna della vita dei salariati e l’urbanistica è il metodo pubblico che permette di migliorarne la vita.
Oggi che l’urbanistica contrattata, i diritti edificatori e le compensazioni hanno abolito ogni regola dobbiamo ricostruire il volto pubblico della nostra città e dell’area metropolitana. A partire dal perseguire quattro indispensabili obiettivi. Quattro progetti di chiaro impianto pubblico: le città sono beni comuni e bisogna tornare a questa semplice acquisizione storica, abbandonando ogni riproposizione mascherata di idee che hanno fallito nel ventennio liberista.
Il primo è quello di creare in temi rapidissimi una rete di trasporto su ferro efficiente e moderno. A partire dal 1993 fino all’anno prossimo l’Italia avrà speso 51 miliardi di euro per realizzare l’alta velocità ferroviaria tra Napoli e Torino. Serve il 5% degli utenti delle ferrovie. I quattro milioni della popolazione della provincia di Roma sono invece il 5% della popolazione italiana e meritano un investimento altrettanto adeguato.
Il secondo progetto è quello di definire le ipotesi di decentramento delle attività direzionali dello Stato, unico potente strumento di riequilibrio territoriale e di qualificazione dei territori. Cito soltanto il tema, ben sapendo quanto sia complesso oggi porre questa questione, sia per le occasioni mancate sia per le troppo diffuse resistenze e incomprensioni a questa prospettiva. Ma il fallimento delle centralità del piano regolatore di Roma obbliga a riaprire la questione.
Il terzo progetto è relativo alla soddisfazione del problema abitativo di almeno 100 mila famiglie che hanno il problema dello sfratto o vivono in alloggi impropri. Anche qui è necessario di operare una soluzione di continuità con il passato. In quasi anni, come noto, non sono state costruite case pubbliche, se si fa eccezione di un piccolo gruppo a Ponte di Nona. Era considerato un affronto dalla dirigenza romana dell’Acer poi promossa a livello nazionale: il pubblico si ritragga, ci pensiamo noi, in coerenza con gli indirizzi del neoliberismo. Sono stati spesi molti soldi pubblici sia per finanziare il comparto dell’edilizia convenzionata, sia per acquistare abitazioni per la popolazione romana in luoghi impensabili, Aprilia, Pomezia e tanti altri comuni. E’ indispensabile invece tornare all’edilizia pubblica senza aggettivi.
Quarto e ultimo la riqualificazione delle immense periferie urbane e metropolitane, questione che deve essere presa in carico dalle amministrazioni pubbliche perché non può esserci interesse privato. A guardarli bene, i quattro obiettivi che ho elencato sono gli stessi che delineò Antonio Cederna nella sua lucida proposta per la legge “Roma capitale”. Una legge pubblicistica in palese controtendenza nel momento in cui (siamo nei primi anni ’90) la presentò alla Camera dei Deputati. E’ stata abbandonata e il disastro che ne è seguito impone di riprenderla nella sua interezza.
5. La questione istituzionale
Manca soltanto, per concludere il mio intervento, di ragionare sulla questione istituzionale, e cioè quale sia l’istituzione più adeguata in termini di sussidiarietà a governare le trasformazioni urbane dell’area metropolitana romana, ma il compito è facilitato da quanto abbiamo fin qui argomentato. Non c’è infatti nessuna trasformazione urbana che possa essere analizzata e risolta all’interno dei confini comunali della città. Le relazioni territoriali sono così strutturate e interconnesse che non si comprende nulla di quanto sta avvenendo a Roma se non si guarda dal punto di vista della sua area metropolitana.
Ed è evidente che se non si comprendono i fenomeni non si riesce neppure a governarli. Considero dunque un grave errore quello commesso dal Governo nell’indicare nell’attuale città di Roma l’istituzione più adatta a governare i processi d’area. E’ solo tornando allo spirito del legislatore del 1990, anno di istituzione delle città metropolitane, che si può tentare di risanare i mali di Roma e della sua area. E’ solo su una nuova scala territoriale di intervento che si può invertire la china rovinosa causata dalla cancellazione delle regole.
Certo, dover constatare che la legge 142 è stata disattesa per venti anni non induce a facili ottimismi. Credo però che di fronte ad una crisi istituzionale così profonda ci siano forze, ad iniziare dalla Cgil in grado di indicare un percorso chiaro per risolvere i mali di Roma.
A Santa Gilla ormai volano solo gli avvoltoi». Lo slogan corre dai bar fino alla Rete. A Cagliari ne parlano tutti. Tace solo la Regione Sardegna. Un tempo Santa Gilla al tramonto si colorava di rosa tra le ali dei fenicotteri e il sole a scivolare nello stagno, area umida tra le più importanti dell'Isola. Tuvixeddu, la necropoli fenicio-punica fiore all'occhiello dell'intero Mediterraneo, non è distante. E anche lì ci sono le gru. Se fosse un film si intitolerebbe «Le mani sulla città». Al posto dei fenicotteri, a Santa Gilla, c'è una gigantesca colata di cemento. Oltre 113mila metri cubi. Il proprietario si chiama Sergio Zuncheddu, costruttore col pallino dei media. Quote nel Foglio di Ferrara insieme a Denis Verdini. Ma soprattutto editore di Unione Sarda, Videolina, Radiolina. Praticamente il trittico di destra che gestisce l'informazione nell'Isola. Santa Gilla è roba di Zuncheddu. Ma anche dell'esecutivo di Ugo Cappellacci, il governatore che è corso al capezzale di Bertolaso per dirimere l'affaire G8 alla Maddalena, rimediando perfino i dubbi del commissario.
A scoprire lo strano intreccio cagliaritano – mattone, accordi nel Pdl e benedizione della massoneria - è stato il quotidiano Il Sardegna che, carte alla mano, ha dimostrato che quei palazzoni sono stati realizzati con l'obiettivo precipuo di ospitare anche la sede della Regione. Tutto previsto molti anni addietro. Siamo nel 2004, delibera 27/11 dell'8 giugno. Il timone della giunta è nella mani di Italo Masala (An), Cappellacci è assessore al bilancio. Sono loro ad accogliere la proposta di Ienove, azienda che opera nel nascente complesso immobiliare di Zuncheddu per l'acquisto dei nuovi uffici. Costo: 82milioni di euro, più altri 33 milioni per un altro edificio “direzionale” in via Posada, ma di proprietà della Tepor, slegata dal gruppo dell'editore.
A Santa Gilla volano ancora fenicotteri, l'operazione è in essere. Ma meglio portarsi avanti con il lavoro. Quattro giorni dopo Renato Soru vince le elezioni. Un colpo forse non previsto. La galassia di società legate a Zuncheddu, con interessi in Lombardia, Campania e Sicilia, cambia nome più volte, ma nel frattempo l'UnioneSarda spara ad alzo zero contro il nuovo Governatore.
Soru si insedia e visti i costi revoca l'operazione. Stop all'offerta di acquisto dei˘90mila metri cubi per gli uffici regionali a Santa Gilla (in totale 32 metri quadri per ogni dipendente, quasi un mini appartamento), blocco dello stupro di Tuvixeddu e in più una legge salva-coste. Troppo per il partito del mattone. Che affila pesantemente le armi. E infatti nel 2009 la Sardegna passa nelle mani del figlio del commercialista di Berlusconi. Guarda caso, il 29 dicembre scorso – delibera 59/63 – Cappellacci cancella l'ordinanza di Soru e «con massima urgenza dà mandato all'assessore agli Enti locali di riprendere le proposte di Ienove», che nel frattempo, ha mutato pelle come le lucertole e si mescola nelle scatole cinesi delle imprese˘(Tepor, invece appartiene al geometra Giuseppe Sedda). Però i fenicotteri Hanno smesso di volare e le gru alzano palazzi. Curioso che in sei anni nessuno si sia fatto avanti, spiega l’inviato del Sardegna Marco Mostallino. Oltre 113mila cubi a disposizione del miglior offerente in quel paradiso rosa e un silenzio di tomba. Ma la realtà è che le offerte, forse, non interessano. Il piatto pare predisposto. Lo spiegano gli architetti francesi coinvolti nell'operazione addirittura nel 2000 nel sito www. valode-et pistre. com. Basta leggere. L'idea è di un “Centre de Médias et annexe Hotel de Region”. Un retroscena pubblico, basta cercare sul Web. «Quell'area sarà la sede del governo sardo», spiegano senza fronzoli. E c'è di più: la redazione dell'UnioneSarda sorgerebbe nello stesso complesso. Non c'è neppure da scoperchiare tombe puniche. L'attuale assessore regionale al personale è Ketty Corona, amica di Cappellacci e socia in affari di Zuncheddu nell'iperfetazione della costa di Olbia. Figlia di Armandino – scomparso di recente – ex gran maestro della Loggia d'Oriente. Ora Zuncheddu, mattonaro mediatico, s'arrabbia, smentisce. Minaccia querele. Carta canta, però. Il Pd e tutta l'opposizione in Regione hanno chiesto conto della montagna di milioni per il Monopoli di Zuncheddu.
Una tombola per la Sardegna costretta a buttare in mare le fabbriche del Sulcis-Iglesiente. Solo con l'Alcoa fanno duemila a casa. A sera i fenicotteri ancora puntano l'ex cementificio di Santa Gilla. Sorvolavano la terra leggeri. Rosa e bellissimi. Come un racconto di Sergio Atzeni. Poi, la notte cala sulla Sardegna senza più colori.
L'entusiasmo di Vincenzo De Luca, sindaco diessino di Salerno, non conosce limiti: "È un'opera che vale la mia vita ", dice. "È un progetto di valore mondiale", insiste. Anzi: "Dev'essere la nostra piazza Plebiscito, il nostro Colosseo...". E non importa se con la solita flemma Vittorio Sgarbi dice che il progetto in questione è "una delle dieci cose più brutte al mondo", o se il presidente della Provincia Edmondo Cirielli (Pdl) la definisce "un'opera obbrobriosa, un palazzone di cemento che deturpa la prospettiva della città".
Dettagli. Il sindaco è innamorato dell'idea che una delle aree più pregiate di Salerno, quella che dal porto turistico corre sul lungomare verso la spiaggia di Santa Teresa, diventi una piazza da "circa 27 mila metri quadri". E ancora di più lo affascina il Crescent (dall'inglese "Luna crescente"): un gigantesco edificio alto 33,25 metri sul livello del mare e lungo 215 (incluse due torri previste alle estremità) che abbraccerà a semicerchio il piazzale e verrà interamente destinato ai privati: il che significa appartamenti, negozi e centinaia di parcheggi.
Una prospettiva disegnata dall'architetto catalano Ricardo Bofill, classe 1939, esponente di quella corrente postmoderna che abbina il classico alla contemporaneità. "Il risultato, a Salerno, sarà un mastodontico edificio che separerà il centro storico dal golfo", dice Alberto Cuomo, docente di Architettura all'Università di Napoli: "Un'operazione gestita senza il confronto con la popolazione e distante dallo spirito originale del piano regolatore". Accuse che il sindaco rimanda al mittente, tacciando di provincialismo chi non s'infiamma per la grandeur. Ma la vicenda non finisce qui. Perché non è il solito bisticcio tra architetti: è una storia in cui l'amministrazione comunale spende oltre 10 milioni di euro per acquistare il terreno dal demanio pubblico, e chi è preposto al controllo paesaggistico (la Soprintendenza di Salerno e Avellino) viene tacciato di inefficienza e conflitto d'interessi.
"Problemi che vengono da lontano", dice il comitato bipartisan No Crescent, 4 mila sostenitori tra professionisti, intellettuali e semplici cittadini: "Nel 1992, il consiglio comunale ha commissionato il nuovo piano regolatore a un altro spagnolo, l'architetto Oriol Bohigas. Il quale nel documento programmatico è chiaro: "L'area di Santa Teresa deve aprire decisamente la Salerno vecchia al mare". Inoltre, prosegue il comitato, "gli interventi sul lungomare sono sottoposti al vincolo costiero: le trasformazioni edilizie, cioè, devono ottenere l'autorizzazione del Comune e della Soprintendenza. Ma questo iter, per il Crescent, si è trasformato in un guazzabuglio".
Da qui la situazione si fa incandescente. Il 9 luglio 2009, il comitato No Crescent presenta un ricorso straordinario al presidente della Repubblica, poi trasferito su richiesta dei legali comunali al Tar di Salerno, che boccia in blocco l'operazione Santa Teresa-Crescent: dall'uso di questa ex area demaniale per una speculazione privata fino alla violazione della delibera provinciale 16 del gennaio 2009, che impone nelle aree come Santa Teresa ("di riqualificazione urbanistica e riequilibrio ambientale e funzionale") la costruzione di palazzi alti al massimo 10 metri e mezzo. Ma la notizia più clamorosa è un'altra: l'11 novembre, la Provincia di Salerno si schiera a fianco del comitato nel ricorso al Tar, scrivendo che "il Crescent è in contrasto con ciò che la Provincia, in qualità di ente preposto alla pianificazione di primo livello del "bene paesaggio", ritiene essere in linea con la conservazione e la tutela del paesaggio urbano". E il 21 dicembre, mentre la protesta cresce, anche Italia Nostra presenta un proprio ricorso.
Reazione del sindaco De Luca? Totale serenità. Appena può, continua a declamare in pubblico le meraviglie di piazza della Libertà. "Per fermarla dovranno spararmi", avverte. E a quelli che storcono il naso, dà degli "sfessati che parlano a nome del comitato dei fringuelli e dei pinguini". Il che non è il massimo dell'eleganza, e soprattutto non distoglie da un dettaglio sul soprintendente in carica Giuseppe Zampino.
Ovvero che il giorno in cui il Comune inoltra il progetto definitivo alla Soprintendenza (10 dicembre 2008), Zampino propone alla stessa amministrazione di organizzare una mostra convegno ("Architettura, economia e territorio") e allestire un Archivio dell'architettura contemporanea. Progetti che il sindaco De Luca scrive, in una nota ufficiale, di voler finanziare (con 504 mila euro, delibera la Giunta) il 2 marzo 2009: la stessa data in cui Zampino concede l'ok definitivo all'operazione Crescent. "È normale", chiedono i No Crescent, "che il soprintendente giudichi il progetto e intanto riceva finanziamenti dal Comune? ". No, dice il legale del comitato Oreste Agosto. E invoca "controlli da parte delle istituzioni".
Il video del Comitato No Crescent
Sul Crescent, in eddyburg, v. nella Cartella Città Oggi - Altre Città
Ecco la vela di Bofill
sul mare della città futura
di Gianluca Sollazzo
È uno squarcio di luce ad illuminare la Salerno sul mare che verrà. Si stende pian piano, toccando la nuova piazza della Concordia con la vela catturata dal futuro. Ecco la luce rivelatrice. Attraversa carezzevole tutto il lungomare, fino a quella Piazza della Libertà abbracciata dal Crescent. È la solennità della scoperta che ci rivela il nuovo che avanza. Sulla scia di note di quel Joaquin Rodrigo in "Concerto di Aranjuez" che solca il momento mediatico, studiato alla meraviglia. Ed allora il sindaco De Luca capisce che è il momento giusto per l'esordio: «La musica è un omaggio alla cultura spagnola che evidenzia il tratto mediterraneo di Salerno - dice - un tributo al padre del nostro piano regolatore, Bohigas, e al progettista del nuovo fronte di mare, Ricardo Bofill». La cerimonia. Ore 11.14, il sipario si scopre svelando la novità che prende forma in 12 metri di plastico. Un altro dopo quello di Piazza della Libertà. La fattura è la stessa, porta il nome dell'architetto Rosanna Giannino. Arte che ritrae arte. Nella cornice scenografica del Salone dei Marmi di Palazzo di Città che trepida nell'attesa. E così, dopo minuti di oscurità totale, è il sindaco De Luca ad entrare nel sogno. C'è la vela in piazza della Concordia partorita da Bofill che sovrasta la Salerno sul mare. La novità è questa. «Ho già il film in testa, pensate alla città del futuro con questo centro attrattore, ma la cosa straordinaria è che non è solo un sogno, la zona della Concordia ha già vissuto una prima rinascita dopo l'abbattimento del cementificio che gettava polveri di amianto», dice De Luca. Pronto a brandire il microfono a luce riaccesa. Silenzio. Si celebra la nuova Salerno. «Siamo l'unica realtà europea in cui si lavora all'europea - afferma De Luca rivolgendosi all'uditorio istituzionale, assessori e consiglieri comunali - quella che abbiamo progettato è una trasformazione concreta, difficile da realizzare in un Paese in cui pensare e decidere è una impresa, con i soggetti decisori che ostacolano i progetti e in cui il processo democratico è inquinato. Noi oggi siamo qui per un atto di trasparenza democratica». Il nuovo fronte di mare. De Luca toglie i veli al plastico che riproduce il nuovo fronte della Salerno che guarda al mare. C'è la Piazza della Libertà che già conosciamo, «ammirate la proporzione armonica con la prima palazzata del lungomare Trieste», incalza il sindaco che aziona subito rendering a partire dalla spiaggia di Santa Teresa. «Rivedremo il mare, pensate ai crocieristi che sbarcheranno nella stazione marittima di Zaha Hadid - dice - apriremo inoltre due moli all'altezza di piazza Cavour e via Velia con locali e passeggiate a mare». Si continua verso la zona orientale. «In via Leucosia nascerà una città del mare - dice De Luca - senza dimenticare il porto turistico Marina d'Arechi di Santiago Calatrava e il Parco Marino con cinque pennelli al confine di Pontecagnano». Ed infine il comparto Pip completamente dedicato alla cantieristica navale. Fronte di mare che si sposa bene col fronte lavorativo. «Daremo impieghi a circa 5mila persone», sostiene il sindaco. Piazza della Concordia e la Vela di Bofill. Ma la rinascita esplosiva è a piazza della Concordia. È un tocco di modernità dalle mille suggestioni. «Ad oggi la piazza è povera, insignificante, priva di identità - osserva il sindaco - raddoppieremo l'area portuale e il molo Masuccio fino ad arrivare alla foce dell'Irno». La nuova Concordia si estenderà complessivamente su 72mila metri quadrati dove sorgerà al centro la vela venuta dal futuro pensata da Bofill. Altezza 74 metri per 17 piani. «Solo cinque in più rispetto agli edifici circostanti», sottolinea De Luca. Nella vela sul mare non ci saranno residenze private. Previsti infatti sei piani di uffici e spazio a un albergo di cento camere. Ma il segno architettonico non ha nulla a che vedere con quello di Piazza della Libertà. «Segna l'inizio della Salerno moderna degli anni '60, sarà un luogo funzionale destinato a diventare simbolo della Campania, del Sud e dell'Italia», sprizza l'enfasi deluchiana. Ma la rivalutazione toccherà anche piazza Mazzini. «Faremo una catena di attività commerciali - annuncia De Luca - inoltre abbiamo pensato a un interramento di 260 metri di via Lungomare per evitare la congestione del traffico». Anche parcheggi nella nuova Concordia. Mille posti sorgeranno nel sottopiazza. Costo del progetto di finanza privato: 220 milioni di euro, 70 per la realizzazione della vela, 150 per il raddoppio delle dimensioni del molo Masuccio in direzione foce Irno. «Senza però aumentare i posti barca», precisa De Luca. «Sarà un lavoro immane che stimolerà la gente all'ottimismo creando dinamismo dai riflessi anche nazionali - conclude il sindaco - e che dà senso alla vita e non solo a un impegno politico».
Purini: “Opera necessaria”. E. Salzano: “Orribile come il Crescent”
di Erminia Pellecchia
Aveva già mostrato il suo interesse per il Crescent, che aveva visto solo in foto, ma di cui seguiva con interesse il dibattito, ora Franco Purini, architetto e teorico dell’architettura, ha scelto un posto di prima fila per avere un colpo d’occhio immediato. senza intermediazioni di giornali o tv, su quello che sarà il prossimo ridisegno urbano della città. Il pluripremiato docente di Composizione architettonica alla Sapienza di Roma ha accettato con piacere l’invito del sindaco De Luca alla presentazione del plastico del fronte di mare. «Un’importante opera - dice - Sono convinto che si tratta di un’operazione necessaria che spero non si arresti nelle secche dell’opposizione cittadina. Si tratta, a mio parere, di un progetto unitario che offre una veduta complessiva ed organica del fronte mare, il cui recupero è fondamentale per una città come Salerno che si affaccia sul mare, ma che sembra aver dimenticato il mare». Per Purini il rapporto tra città e mare è di estrema rilevanza per il suo sviluppo economico, sociale ed ambientale. Il fronte è, ribadisce, «un progetto universale che ingloba finalmente la risorsa mare che viene recuperata definitivamente». Ad una reazione positiva, arriva immediata la replica di un’altra personalità di spicco del mondo dell’architettura, che ancora una volta si spacca nel dibattito sempre aperto tra conservazione dell’esistente e costruzione del nuovo. L’autorevole bocciatura è di Edoardo Salzano, urbanista, ex preside di Urbanistica alla Iuav di Venezia e consulente di amministrazioni pubbliche - lo è stato anche per la Provincia di Salerno - per la pianificazione territoriale ed urbanistica. «La vela? Un’orribile cosa come il Crescent - ironizza - ma sono contento perchè sono napoletano. Più Salerno diventa uno schifo più gente viene nella mia Napoli». Poi il tono si fa serio. «Mi sembra - osserva - che l’atteggiamento del sindaco De Luca sia quello di distruggere la qualità della vita dei cittadini che lo hanno eletto. Per accrescere la sua statura utilizza come piedistallo gli “architetti del pennacchio”». Contrario anche il presidente degli architetti salernitani Pasquale Caprio: «Nulla di nuovo, il palazzo di piazza della Concordia è una copia di altre vele. In ogni caso conservo alcune riserva sulle destinazioni d’uso di un edificio che si presenta come un intervento fuori dalle peculiarità di Salerno. Piuttosto mi preoccuperei dell’emergenza sismica che tocca da vicino il patrimonio edilizio della nostra città che non ha bisogno di totem per ricreare lo spirito di ottimismo e di speranza della gente». Il dibattito è aperto. Al momento resta nitida l’immagine onirica del plastico che si è offerto alla vista come una quinta teatrale con lo splendido effetto notturno-alba-giorno che ricorda il bellissimo allestimento del Nabucco di Quirino Conti. L’architetto romano, ancora in città, andrà presto a curiosare, poi si esprimerà in merito.
Erostrato era un pastore greco che, ossessionato dall’ansia di essere ricordato dai posteri, bruciò il tempio di Artemide.
Ci è venuto alla mente il pastorello matto visitando Salerno e vedendo le simulazioni di un’opera inspiegabilmente grande, brutta e violenta detta Crescent, progettata da un Erostrato spagnolo dell’architettura di nome Ricardo Bofill e voluta dal sindaco Erostrato della città, Vincenzo De Luca.
Ogni città ha i suoi Erostrati e quando l’Io gigantesco di un architetto si allea con l’Io colossale di qualche politico, allora la legittima aspirazione ad essere ricordato diviene una pericolosa afflizione dello spirito. L’erostratismo, appunto.
Così gli Erostrati italiani, forti di leggi deboli, feriscono la vittima più inerme perché immobile e passiva: il Paesaggio. Da Nord a Sud Erostrati di sinistra, di destra e di centro cercano di lasciare una traccia di sé e vince chi ha il Crescent, il grattacielo, il porto, il palazzo più grande.
Il sindaco di Salerno prende la rincorsa e arriva a voler essere tumulato al centro dell’emiciclo. La sindrome assume una rilevanza psicoanalitica. Quel monumento si incarna nel sindaco e il sindaco s’impietra nel monumento. D’altronde il progetto di Bofill un tratto funebre ce l’ha. Sfregia un dolce lungomare e lo trasforma in una mastodontica cappella di famiglia quando sarebbe stato sufficiente un loculo perpetuo di prima classe nel bel cimitero di Salerno.
Nascerà un turismo “misto”, di meditazione, circondato da negozi griffati e buzzurri. Noi consigliamo, però, al sindaco di salvare i platani secolari vicini alla sua sepoltura perché all’ombra si prega meglio.
E mentre in Spagna l’ordine degli architetti si interroga su quanto sia etico disegnare, per esempio, una torre a Siviglia più alta della Giralda, mentre si mette in discussione il diritto morale dell’architetto a conformare su di sé un paesaggio quando dovrebbe conformare se stesso al paesaggio, in Italia si chiamano a corte architetti il cui nome convalida ogni scempio. E tanto più la corte è minuscola e provinciale, tanto più l’architetto ha un nome luccicante e produrrà un progetto invasivo, pacchiano e uguale a mille altri.
Così si spiega il Crescent e lo “stile” sovietico di Bofill. Se ne impipano del contesto. Il contesto, dice il sindaco, sono Io. Così a Mantova, così a Ravello, a Cagliari, Napoli, Milano, Torino, Roma, così a Firenze. Il Paese si abbruttisce e si riempie di metastatiche costruzioni.
C’è un rischio nell’erostratismo, ma chi cerca un’azione indimenticabile è disposto a correrlo. Il rischio di essere ricordato, sì, ma come si ricordano le epidemie di peste, le invasioni delle locuste, i prìncipi crudeli.
Il borgomastro di Salerno resterà nella memoria. E chi passerà davanti al mostro di trecento metri, alto trenta che accecherà per sempre il paesaggio di Salerno, farà gli scongiuri davanti al mausoleo del sindaco Erostrato il quale ha dichiarato, come Lincoln, che per fermarlo devono sparargli.
Il sindaco ha un solo modo per salvare una buona memoria di sé. Fermarsi, non ascoltare il demone del “fare”, trovare la misura dei luoghi e, quando arriverà il momento, accontentarsi di una sepoltura appartata.
A testa bassa, senza sentire ragioni che non siano le sue, l’Uomo prosegue a tappe forzate verso il disastro. Contro tutto e contro tutti, trascinandosi dietro i simulacri del governo cittadino, incurante delle tante voci autorevoli che si sono levate a difesa del lungomare, del centro storico, dei tratti identitari della città. Avanti tutta, con ostinazione, contro la cultura, contro la logica, contro Salerno.
Possibile che, l’Uomo, non sia stato sfiorato da un ragionevole dubbio? Possibile che le migliaia di adesioni al comitato Nocrescent e la quantità ormai notevole di prese di posizione contrarie allo Scempio Promesso non abbiano scalfito la sua - apparentemente incrollabile - convinzione di non essersi sbagliato? E poi, davvero si crede esteta, raffinato, esperto di architettura e di urbanistica, conoscitore di tutte le arti, arbiter elegantiae, Unto del Signore venuto qui, da Ruvo del Monte, a evangelizzare i salernitani, altrimenti plebei, cafoni, pinguini, anime morte?
Non sembra coltivare dubbi, l’Uomo del Crescent ostenta certezze. Deve farlo per tranquillizzare i figuranti che gli consentono, ogni giorno, di mettere in scena la farsa di un governo cittadino democratico e pluralista. Un tentennamento sarebbe rischioso: la mandria potrebbe sbandare. E, allora, l’Uomo Infallibile non può ammettere di aver sbagliato, di aver preso una cantonata, insomma, di averla fatta fuori dal vaso. Deve andare avanti, costi quel che costi, anche simulando convincimenti granitici, anche chiamando a raccolta i petentes che abitualmente affollano la sua segreteria, perché evochino inesistenti baracche o l’olezzo di piscio che, una volta, si respirava alle “chiancarelle” e che ora, grazie a lui, l’Igienizzante, non c’è più.
Deve andare avanti, senza pietà, perché l’esposizione economica è già spaventosa e perché, peggio che nei giochi d’azzardo, ha impegnato somme che non aveva, contando di rientrare con la svendita dei diritti di edificare sulle aree sottratte all’uso pubblico. Fermarsi gli sarebbe fatale e il comune finirebbe in dissesto. Deve andare avanti.
L’Uomo è tutto, meno che stupido. Ha ben compreso di aver sbagliato, ma non può permettersi di tornare indietro. Neanche lui, che pure è stato capace di acrobazie e voltafaccia a proposito della centrale termoelettrica – fingendo di demonizzarla dopo averla evocata - neanche lui, sarebbe capace di dire alla città: “scusate, ho preso un granchio (a Santa Teresa si può), non se ne fa nulla”.
E allora drammatizza: “Per non farmi fare la piazza, dovranno solo spararmi”, minaccia. E, tentando di intenerirci, piagnucola: “E’ l’opera della mia vita”. Poi, plastico in spalla, si trasforma in piazzista, imbonitore, cantastorie, e chiama a raccolta consulenti prezzolati o appositi maître à penser. Sono credibili? Ma andiamo! Non ce n’è uno che non abbia avuto, stia avendo o debba avere qualcosa dal Palazzo. Opinionisti d’accatto, incapaci di un pensiero che sia loro davvero, sempre disposti a uggiolare per una polpetta, un osso, una promessa con pacca rassicurante.
Il re è nudo, e ormai sa bene di esserlo. Ma, costretto a mostrare le vergogne, si circonda di cortigiani bugiardi che, a comando, ne lodano l’abbigliamento. Dice di amare Salerno, ma è un amore malsano e il progetto di Bofill, ceneri comprese, ha il sapore amaro dello stupro.
Su eddyburg vedi anche gli articoli di Paolo Ferraiolo Piazze e pazzie e Nuovi incubi urbani
Si chiama Crescent, che significa luna crescente, mezzaluna. È un enorme edificio a forma di semicerchio, firmato da una delle star dell’architettura mondiale, il catalano Ricardo Bofill. Dovrebbe sorgere sul lungomare di Salerno. Ma contro questo colosso alto più di 30 metri con uno sviluppo lineare di quasi 300 e un volume di 100mila metri cubi, più 50mila di altri edifici, si è scatenata la protesta degli ambientalisti e del comitato Nocrescent.
È un ecomostro - sostengono gli oppositori - una muraglia che chiude la città al mare e il mare alla città. È una grande opera di riqualificazione urbana di una zona degradata, un capolavoro dell’architettura, sostiene il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, che in passato si è invaghito di altre archistar, da Zaha Hadid a David Chipperfield, ai quali ha affidato incarichi ancora non conclusi. "Sarà la nostra piazza Plebiscito", insiste il primo cittadino che rinverdisce nel cemento un’antica contesa di campanile, Salerno versus Napoli, tradotto in politica nel duello all’arma bianca fra lui e Antonio Bassolino (entrambi ex Pci, entrambi ora Pd).
De Luca crede al progetto al punto di annunciare che, "più tardi possibile", darà disposizione affinché le sue ceneri siano interrate al centro della piazza che si spianerà davanti al Crescent. La piazza si chiamerà piazza della Libertà: "È l’opera della mia vita", aggiunge, "per fermarla dovranno spararmi. Ci libereremo dal potentato della Regione. Vi renderete conto di quanto è bella quando a Salerno arriveranno il Festivalbar e tanti altri eventi musicali e culturali". Ci saranno anche luccicanti negozi, "ma solo grandi firme", specifica il sindaco. Che durante una presentazione pubblica è sbottato: "Avrete la movida e le spiagge per farvi il bagno, che volete di più?".
"L’edificio è un ipertrofico, cimiteriale manufatto", sintetizza, per gli oppositori, Fausto Martino, architetto della Soprintendenza, per dieci anni assessore all’Urbanistica in una precedente giunta De Luca. "La forma a mezzaluna è tanto cara a Bofill che dove può ne infila una. Lo ha fatto a Cergy Pontoise, periferia parigina, addirittura venticinque anni fa. Poi a Savona e a Montpellier. E ora la ripropone a Salerno. È una surreale colata di cemento per abitazioni di lusso, che volge le spalle al centro storico e sottrae il mare alla città, le ruba perfino l’immagine della costiera amalfitana".
Il Crescent sarà alto come un palazzo di dieci piani, visto dal lungomare avrà l’aspetto di un immenso paravento solcato da colonnine che gli danno un marchio post moderno (ma molto in ritardo). Sorgerà dove il piano regolatore redatto da Oriol Bohigas, conterraneo di Bofill, prevedeva verde, spiaggia e qualche costruzione. Quel piano, già molto discusso, è stato poi terribilmente stravolto da varianti e deroghe. Del Crescent si comincia a parlare nel 2007. Vengono chieste le autorizzazioni alla Soprintendenza che chiede chiarimenti. Ma è solo all’inizio di quest’anno che inizia la travolgente marcia del progetto. Appena il soprintendente Giuseppe Zampino ha dato il nullaosta per De Luca è arrivato il segnale di via libera.
Tutta l’operazione viene bollata dalle associazioni ambientaliste come speculativa. "Piazza e parcheggio sottostante sono già finanziate da fondi europei, perché cedere ai privati l’area per costruire l’edificio?" si domanda Lella Di Leo, presidente campana di Italia Nostra. E aggiunge: "Dal mare non si vedrà più la collina con il castello di Arechi e spariranno alla vista i conventi di età medievale e il giardino della Minerva, legato alla Scuola medica salernitana".
Salerno sarà come Barcellona, si entusiasma qualcuno. Come Valencia o Bilbao, incalza qualcun altro. De Luca annuncia: "Metteremo presidi di polizia per tenere la piazza bella e pulita. I veri salernitani apprezzeranno. Gli altri lasciateli parlare". Gli altri chi sono? "Scienziati" li ha definiti sprezzante De Luca. E altre volte, "pinguini" e "schiattamorti", che più o meno vuol dire jettatori. Il Crescent va avanti. E intanto Bofill prepara per Salerno il progetto di un grattacielo di 32 piani e 100 metri d’altezza, proprio sul lungomare, ma dalla parte opposta della mezza luna.
Sul crescento di Bofill e De Luca a Salerno leggete anche gli articoli di Paolo Ferraiolo scritti per eddyburg il 1° gennaio 2009 e l'11 giugno 2009
All’inizio di quest’anno avevo dato notizia di quello che stava per succedere a Salerno. Ma non ci s’immaginava tanto. Il 18 marzo a palazzo di città , il giorno dopo aver siglato gli ultimi contratti, il sindaco di Salerno, in una scenografia da presentazione di formula uno, con tanto di drappo, luci e musiche, svela alla città il suo ultimo “regalo” .
E’ un plastico (forse in scala 1:200) di quello che fino a pochi giorni prima si era ostinato a chiamare “una piazza più grande di quella del Plebiscito a Napoli”. Tra le autorità cittadine ed i nomi noti della città ha illustrato con tanto di bacchetta il suo nuovo progetto. Un faraonico condominio sul mare. Profusione di elogi alla sua persona, alla sua nuova creatura e al settantenne architetto Ricardo Bofill.
Adesso Salerno è alle prese con questo nuovo ecomostro, a forma del solito crescent di Bofill, questa volta posizionato a ridosso della spiaggia di Santa Teresa , proprio nel punto dove il centro storico della città lambisce la riva del mare. E’ una zona super vincolata per i suoi pregi paesaggistici. Da qui si ammira a sud tutto il lungomare di Salerno fino a Paestum ad ovest la Costiera Amalfitana ad est il castello di Arechi a nord la montagna di san Liberatore che con la sua croce illuminata è il vero simbolo di Salerno.
Anche se così panoramica, quest’area era stata occupata da sempre da costruzioni basse ad un piano che servivano da deposito di materiali posti all’ingresso del vecchio porto commerciale. Negli ultimi dieci anni queste costruzioni sono state giustamente smantellate e la città ha ritrovato una vasta area vicino al centro storico di grosse potenzialità ma attualmente usata come parcheggio-polmone per tutto il centro città.
Con tante polemiche, osservazioni inascoltate, dimissioni dell’assessore all’urbanistica e dopo 15 anni di gestazione, alla fine del 2006 fu approvato il Puc (piano urbanistico comunale) di Salerno. Questo piano prevedeva per l’area in questione parecchi metri cubi di costruzione da definirsi poi in un piano attuativo. Varie erano state le proposte fatte dall’arch. Oriol Bohigas estensore del piano regolatore. Ad ogni versione le costruzioni aumentavano e l’impatto paesaggistico peggiorava fino alla soluzione davvero disastrosa presentata in questi giorni dal suo collega spagnolo.
Si tratta di una costruzione compatta a forma di crescent alta 33,25m slm per un fronte di 300 metri .
Come vedete nella foto qui accanto, con queste misure è stata costruita una sagoma in giallo dello spazio effettivamente occupato da questa mastodontica costruzione che si impone prepotentemente su tutto il consolidato skyline cittadino.
Si tratta di un ‘operazione prettamente finanziaria portata avanti anche qui prepotentemente dal Sindaco. Grande affabulatore, forte di un gran consenso popolare che lo vedono in cima alle classifiche dei sindaci più amati, Vincenzo De Luca si è speso in queste settimane, con presentazioni e trasmissioni tv, a cercare di far capire quanto sia bello il “suo” progetto.
I cittadini di Salerno sono stati investiti da fiumi di parole del primo cittadino che elogiavano questo grandioso progetto "bellissimo" e "volano economico turistico dell'intera città E forse dell'intera nazione". Tanta l'esaltazione che, tra gli increduli cittadini riuniti per una "spiegazione pubblica", il sindaco è arrivato a dire: "chi è contro dovrà spararmi".
Questa è la situazione nella città di Salerno. Per due anni si è tenuto nascosto alla popolazione quello a cui si stava lavorando (la disinformazione è stata totale). Poi a pareri acquisiti, tra cui anche lo scandaloso silenzio-assenso della locale soprintendenza, si dà notizia con grande enfasi di quello che si vuole realizzare in quell‘area.
Se non fosse per la drammaticità della situazione politica-informativa ci sarebbe veramente da ridere per come si è cercato di far passare da parte dell’amministrazione comunale tutta questa operazione.
La tattica è sempre la stessa già usata in passato per altri interventi molto invasivi. Si fa pesare la situazione antecedente al progetto:”Vedete lì dove c’erano baracche adesso troverete case lussuose , negozi grandi firme ed una piazza enorme” con lo scopo di abbindolare i cittadini omettendo il vero impatto fisico del progetto. Tutto deve far sognare e non far capire. Si tenta di indurre la gente a pensare che questa sia una proposta (“scrupolo democratico”) e non una imposizione (“chi è contro dovrà spararmi”). Si portano ad accompagnare il plastico non i rendering dell’inserimento del progetto nel paesaggio, obbligatori per legge e mai divulgati, ma solo vecchie foto di come era prima il luogo. Chi osa contraddire, cercando di spiegare che se l’alternativa alle baracche è una volumetria di 173.000 metri cubi a ridosso del mare, alta 30m e lunga 300, forse erano meglio le baracche ad un piano, viene apostrofato e ridicolizzato dal sindaco come un retrogrado “amico delle baracche” (nel migliore dei casi).
Questa è veramente la cosa più preoccupante di questa vicenda salernitana. Toccare con mano lo stato dell’ informazione a Salerno. Cose che già erano abbastanza note sono state inevitabilmente confermate dal comportamento dei media cittadini. La totale assenza dei mezzi d’informazione quando si stava preparando tutta la procedura per arrivare a questo ed il clamore incondizionato all’exploit del sindaco alla presentazione del plastico del progetto. Il servilismo giornalistico di certe interviste televisive.
E’ poi dovuto nascere un comitato di liberi cittadini per conoscere (in parte) come sono andate veramente le cose. Lo stesso comitato ha indagato ed ha aperto un sito web (www.nocrescent.it) nella totale assenza della maggior parte degli organi di informazione. Sul sito si legge a chiare lettere la alquanto dubbia procedura di progetto e soprattutto che il sindaco si è presentato alla città con un falso plastico e dichiarato false altezze del manufatto (il sindaco ha dichiarato un’altezza del manufatto di m24,50 contro i 28,10m reali ed il plastico non rispecchia la vera orografia dei luoghi). Con i disegni ufficiali pubblicati sul sito web, nessun organo di stampa ha rilanciato la notizia in città. E questo è molto grave e soprattutto molto preoccupante per tutti i cittadini e per l’intera democrazia di una città.
Nella totale assenza di contrapposizione democratica, con il Sindaco che dichiara di essere al di fuori di ogni logica di partito “non sto né a destra né a sinistra né al centro, mi votano tutti perché sono De Luca”, la città di Salerno si avvia alla costruzione di un nuovo ecomostro sulla riva del mare. Dover preservare alle generazione future quel poco di bello che rimane è un concetto del tutto sconosciuto nella mente di questo “nuovo” condottiero. Ci rimane da sperare solo nell’estremo ravvedimento di questa città narcotizzata e in forze esterne che contrastino questa pazzia locale.
Blitz al Comune, dieci indagati
«Non vorrei che questa inchiesta sia una intimidazione per il Puc, il piano urbanistico» Mario De Biase reagisce all’avviso di garanzia convocando una conferenza stampa. Il sindaco banalizza le contestazioni che vengono mosse a lui e ai dirigenti del Comune, si rammarica perché il programma di interventi a Paradiso di Pastena era ormai pronto per partire, essendo arrivato il finanziamento del ministero, ma è soprattutto preoccupato per i funzionari: «Questa inchiesta rischia di essere un ulteriore freno. I dirigenti potrebbero chiedersi se vale la pena subire perquisizioni alle prime ore del mattino solo per fare il proprio lavoro. Spero nel senso di responsabilità dei magistrati: non intacchino l’autonomia dei politici cui spetta decidere il futuro della città». SERVIZI A PAGINA 32
Bufera giudiziaria sul comune di Salerno: dicei avvisi di garanzia sono stati notificati ieri mattina dai carabineiri del reparto operativo nell’ambito dell’inchiesta sulla realizzazione di 480 alloggi nella zona collinare di Paradiso di Pastena. Falso e truffa, questi i reati ipotizzati per i dieci indagati: il sindaco Mario De Biase, l’ex assessore all’urbanistica Fausto Martino, i funzioanri comunali Bianca De Robero e Lorenzo Criscuoli, i costruttori Pietro Postiglione, Gennaro Di Giacomo, Santi Furnari, Anna Alviggi, Domenico Russo e il notaio Giuseppe Monica. I provvedimenti sono stati firmati dal procuratore capo Luigi Apicella e dal pm Gabriella Nuzzi, titolare dell’indagine. I carabinieri hanno anche perquisito gli uffici delle società di costruzione e le abitazioni di alcuni indagati (Postiglione, Di Giacomo, Alviggi, Furnari, Russo, De Roberto, Criscuolo) e la sede dell’associazione Sud Europa al centro, secondo il pm, deglui affari tra politici, amministratori comunali e costruttori. Il sindaco, in una conferenza stamha dichiarato di «essere assolutamente sereno in merito ai provvedimenti assunti».
De Biase: questa sembra un’intimidazione
FULVIO SCARLATA
«Ho ricevuto un avviso di garanzia ma non vedo nulla di rilevante. Di certo, però, i dirigenti sono stati colpiti da questo provvedimento. Non vorrei che questa inchiesta fosse una intimidazione per il Puc, il piano urbanistico, altrimenti la politica dovrebbe arrendersi alla stagnazione». Mario De Biase affronta il ciclone giudiziario che invece Palazzo di Città, in prima persona. Alla improvvisata conferenza stampa convocata ieri al secondo piano del Comune, vuole sia presente l’intera Giunta e i consiglieri di maggioranza disponibili. Attorniato da Franco Picarone, Marco Petillo, Lello Ciccone, Mimmo De Maio, Nino Savastano, Ambrogio Ietto, Ermanno Guerra, Carmine Mastalia, il sindaco smonta le accuse, rileva incongruità, interpreta come un segnale di ostilità «le perquisizioni alle 6 del mattino a casa dei funzionari alla ricerca di documenti pubblici che comunque sono al Comune». La difesa di Mario De Biase parte da un dato: avvisi di garanzia e perquisizioni hanno colpito solo costruttori, politici e dirigenti comunali salernitani. «Ma questo programma per la costruzione di alloggi destinati alle forze dell’ordine - dice - nasce e finisce a Roma. È il ministero delle Infrastrutture ad aver proposto l’opera e ad aver esercitato il controllo finale. In Comune ha solo adottato una variante al vecchio piano regolatore e partecipato ad un paio di conferenze di servizi con la Regione che ha poi approvato la variante». Dunque, lascia implicitamente intendere il sindaco, sembra strano che nessuno al di fuori di Salerno si sia accorto di irregolarità e sia stato coinvolto dalla magistratura. L’amarezza, evidente ieri tra le stanze del Palazzo, nasce dal fatto che l’iter burocratico per la realizzazione degli alloggi era concluso. Qualche mese fa era arrivato da Roma il decreto di finanziamento, il Comune si accingeva a incassare gli oneri di urbanizzazione con cui intervenire con una nuova strada per superare la strozzatura oggi esistente in via Pietro del Pezzo, all’altezza della caserma del 46esimo Guide, mentre a giorni era prevista l’apertura del cantiere per la realizzazione delle palazzine. Nel Palazzo si era passati a consultare esperi botanici per decidere quali specie arboree piantare, come rinaturalizzare il torrente e quali essenze privilegiare, mentre Amministrazione e maggioranza potevano sbandierare l’avvio della costruzione di 480 in una città dove non c’è un nuovo palazzo da decenni. «C’è grande rammarico - continua De Biase - Speriamo che la magistratura accerti in tempi rapidissimi eventuali discrasie ma non blocchi lo sviluppo della città. Questo programma integrato è una delle opere più significative dell’attività amministrativa di questi anni. Fra le altre cose ci contestano la rapidità delle procedure: sono passati tanti anni ed ancora non sono aperti i cantieri. Se questa è rapidità...Abbiamo fiducia nella magistratura ma speriamo anche in un atto di responsabilità dei giudici che non devono intaccare l’autonomia delle forze politiche a cui spetta decidere il futuro della città». Il sindaco teme l’effetto a cascata che gli avvisi di garanzia potrebbero avere, spingendo funzionari e dirigenti del Comune a rallentare i provvedimenti amministrativi. «Un freno in più - dice De Biase - tra i tanti, troppi freni che abbiamo in Italia e in particolare a Salerno, dove solo i treni non hanno freni. Io e la Giunta non vogliamo fermarci. I nostri funzionari e dirigenti hanno piena autonomia amministrativa, la nostra stima e il plauso vanno a Bianca De Roberto e Lorenzo Criscuolo per il loro quotidiano lavoro indefesso che va oltre il dovuto come è evidente da orari e mole di documentazione prodotta». Finisce la conferenza stampa. Tutti vanno via, anche Mario De Biase dopo un po’ abbandona il Palazzo parlando dell’accaduto e commentando il coinvolgimento dell’associazione «Sud Europa» di Vincenzo De Luca si lascia sfuggire: «Tutto sembra un’operazione capziosa anche per mettere mano ai registri di questa associazione. È da inchiesta giudiziaria leninista arrivare e chiedere: chi ne fa parte? Meno male che io non mi sono mai iscritto».
Una storia di esposti, querele e di parametri non rispettati
È una storia di esposti, querele, consulenze, decisioni del consiglio comunale e parametri non rispettati, quella che riguarda l’intervento edilizio in Paradiso di Pastena per la realizzazione di 480 alloggi che è all’origine dell’inchiesta della magistratura. Una vicenda che comincia quasi quindici anni fa. Anno 1991: viene varata una legge che prevede all’«articolo 18», programmi straordinari di edilizia residenziale da destinare a dipendenti dello Stato impegnati nella lotta alla criminalità. Un anno dopo arrivano al ministero dei Lavori pubblici due proposte dalla società salernitana «Acacia» di Gerardo Satriano per un intervento a Salerno e uno a Pozzuoli da rilocalizzare poi a Salerno. La proposta non supera il bando di selezione per mancanza di titoli, scatta un ricorso al Tar che nel 1993 annulla la bocciatura per un vizio di forma. Poi tutto si blocca. Il progetto viene improvvisamente ripreso alla fine del 2002 quando nascono due società la «Consortile Irno» di Gennaro Di Giacomo e la «Corepro» di Pietro Postiglione. In entrambe entra la «Acacia» con l’1% del capitale sociale. Da questo momento il programma di intervento vola. Nel febbraio 2003 l’Ufficio di Piano di Salerno rileva che ci sono 7 proposte di intervento ex «articolo 18», dopo un mese lo stesso ufficio rileva che le integrazioni richieste sono state fornite solo dalla Consortile Irno e dalla Corepro, entrambe per costruire a Paradiso di Pastena. La richiesta di intervento, con nota di «interessamento» da parte della Giunta comunale, viene inviata al Ministero. A fine marzo arriva il nulla osta della Prefettura, poi due conferenze di servizio, infine l’accordo di programma tra Regione, Comune e le società Acacia-Consortile Irno e Acacia-Corepro. Si prevede un «programma A» per la realizzazione di «154 alloggi per 55mila metri cubi più 16mila metri cubi non residenziali da destinare ad attrezzature commerciali, attività direzionali, opere di urbanizzazione primarie e secondarie» con tre milioni di euro di finanziamento pubblico per gli interventi di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata e 10 milioni di finanziamento privato. E un «programma B» per 296 alloggi, 105mila metri cubi più 31mila metri cubi di standard, con finanziamento pubblico da 8 milioni di euro più 18 milioni di intervento privato. Tutto firmato il 15 maggio 2003. Il giorno dopo il consiglio comunale approva la convenzione. Il 17 parte la prima osservazione di Antonio Pierro al Ministero e alla Procura della Repubblica. Le osservazioni sulle «gravi irregolarità» nell’intervento a Paradiso di Pastena del consigliere comunale di Forza Italia provocano la reazione del sindaco che querela Pierro. Il procedimento finisce al pm Michelangelo Russo che chiede una consulenza tecnica. Il collegio formato da Antonio Ruggiero e Raimondo Russo presenta la relazione nel dicembre 2003. Nelle conclusioni si legge: «Esaminata la documentazione e effettuati gli accertamenti diciamo che un quadro sintetico non è sufficiente per inquadrare adeguatamente le consumate violazioni che si sono verificate lungo l’iter amministrativo cui è stata sottoposta la pratica. Sintetizzando i punti più importanti. 1) La Acacia non poteva essere ammessa alla seconda fase del confronto pubblico concorrenziale del 1992 perché non in possesso dei requisiti tecnico-economici richiesti dal bando di gara, come stabilito dalle commissioni ministeriali. 2) Il Tar del Lazio annullò la decisione contro la Acacia per vizi di forma. 3) La Acacia nel 1993 non possedeva la disponibilità dei suoli necessari per la realizzazione degli interventi in Pozzuoli. Lo stesso dicasi per il 2003, anno di ripresa dell’iter della pratica, nei riguardi della Acacia, nel frattempo associatasi con la Consortile Irno e la Corepro. 4) Il programma di insediamento residenziale ubicato a Pozzuoli non poteva essere rilocalizzato a Salerno». Da questa relazione è nata l’inchiesta del pm Gabriella Nuzzi e del procuratore capo Luigi Apicella (nella foto). f.s.
LA REAZIONE DELL’EX ASSESSORE ALL’URBANISTICA
Martino: bene il risveglio della magistratura
«Mario De Biase parla di inchiesta intimidatoria? Ormai è come Berlusconi con i giudici cattivi e i politici buoni. C’è un berlusconismo galoppante con una sinistra che non riconosco più, penso che è sempre la solita destra travestita da sinistra. Io sono contento di questo risveglio della magistratura anche se sono stato coinvolto personalmente». È un Fausto Martino tranquillo, quello che affronta la vicenda giudiziaria in cui si ritrova coinvolto dopo l’avviso di garanzia che anche lui ha ricevuto ieri mattina. Ricostruisce la vicenda dei 480 alloggi a Paradiso di Pastena, si lascia andare a qualche battuta e non tralascia spunti polemici. Nessun problema per questo avviso di garanzia? «La mia tranquillità non è ostentata ma reale, a differenza di qualcun altro. Capisco che c’è sconcerto per un fatto che non accadeva da anni ma è fisiologico che possa arrivare una informazione di garanzia quando si approvano provvedimenti così complessi. Fra l’altro penso che il provvedimento del pm sia dettato solo dalla necessità di effettuare le perquisizioni domiciliari e sequestrare i documenti». E lei ha subito la visita dei carabinieri a casa? «No, è quasi una diminutio. In realtà, per come emerge dalle carte, la mia posizione è diversa, sfumata. Mi si imputa di non aver esercitato il controllo sugli atti dei dirigenti. Però ho qualche dubbio che dopo la Bassanini un amministratore pubblico debba controllare gli atti dei dirigenti. In realtà ai politici spettano solo compiti di indirizzo». Sul merito, ritiene che ci siano state irregolarità in questa che è stata la prima delle varianti approvate durante l’Amministrazione De Biase? «Non so. Quando mi venne illustrata i dirigenti mi dissero che era in linea con il redigendo piano regolatore, anche se oggi non mi fido più di nessuno. Di certo erano rispettati i parametri della perequazione tanto che la presentai al consiglio comunale come un test per tutto il Prg su questo aspetto così complesso, con il Comune che in questo intervento recuperava vaste aree da destinare a standard, tra verde e parcheggi. Una variante del tutto differente da quella successiva delle Mcm, che ho osteggiato anche all’esterno del Comune, in cui gli indici di edificazione sono stati raddoppiati rispetto a quelli previsti dal Prg. Se poi dietro l’intervento per l’articolo 18 ci siano state donazioni, dichiarazioni false dei proponenti sulle proprietà dei terreni o sui posti nella graduatoria del ministero, se insomma ci sono stati imbrogli a me non risulta e la magistratura fa bene ad indagare. Io do la mia totale disponibilità a collaborare con i giudici». E se poi vengono fuori fatti penalmente rilevanti? «Sono il primo a pensare che è un bene. Anzi personalmente sono contento di questo risveglio della magistratura, anche se vi sono coinvolto personalmente, il che mi spiace per tutto il clamore che si crea intorno, dalle foto ai media. Soprattutto perché io, a differenza di altri, non avevo messo in conto un avviso di garanzia». f.s.
IL RETROSCENA
Gli omissis nei documenti del Comune
Era disponibile, il sindaco, ieri. Tanto che Mario De Biase ha messo a disposizione il plico dell’avviso di garanzia perché fosse distribuito ai giornalisti. Nella copia poi effettivamente consegnata tuttavia erano sparite delle pagine. Gli omissis tendevano a salvaguardare la posizione di Bianca De Roberto e l’associazione Sud Europa di Vincenzo De Luca. Il capo del settore Urbanistica infatti al capo E viene accusata di aver «falsamento attestato nel rapporto dell’11 marzo 2003 indirizzato al presidente della commissione urbanistica, che non vi era stato riscontro alle richieste di integrazioni dell’ufficio per le istanze di interventi secondo l’articolo 18, se non per la Consortile Irno e la Corepro anche se le due società non avevano né la proprietà né la disponibilità delle aree interessate». Viene poi contestato a De Biase e Martino di aver dato credito, senza controlli, all’attestazione della De Roberto.
I Ds: piena solidarietà al compagno Mario
«Riconfermo al compagno Mario De Biase e alla intera Amministrazione comunale la piena solidarietà e il più convinto sostegno dei Democratici di Sinistra». Alfredo D’Attorre prende posizione sulla vicenda degli avvisi di garanzia per l’intervento edilizio a Paradiso di Pastena. «Auspico che la magistratura inquirente, al cui lavoro ci rimettiamo con serenità e fiducia, possa chiarire nei tempi più rapidi la vicenda per la quale è stata inviata una informazione di garanzia al sindaco. Nel contempo esprimo l’assoluta convinzione nella correttezza personale e amministrativa del compagno Mario De Biase».
Cemento e affari, il Palazzo sotto assedio
ANTONIO MANZO
Dieci avvisi di garanzia, otto perquisizioni domiciliari, decreto di sequestro per migliaia di metri quadrati di terreno nelle zone collinari di Torrione-Pastena. Poi, per l’intera mattinata, perquisizione negli uffici urbanistica e lavori pubblici del Comune oltre che nella sede di una associazione politico-culturale che, secondo l’accusa della Procura, è al centro dei legami tra gli amministratori comunali ed i costruttori indagati nell’affaire della costruzione di 480 alloggi edilizia di residenziale. È il bilancio del blitz dei carabinieri del reparto operativo nell’ambito dell’inchiesta della procura della Repubblica condotta dal procuratore capo della Repubblica Luigi Apicella e dal pm Gabriella Nuzzi. Tutto comincia ieri mattina, intorno alle sette quando all’ingresso principale del Comune arrivano, con auto civili, gli ufficiali del reparto operativo dei carabinieri. Sono il comandante del reparto operativo, ten.col.Cannone, il comandante del nucleo operativo, maggiore De Maio e i tenenti Gallo e Virgillo. Negli stessi minuti, altri carabinieri stanno eseguendo una serie di perqusizioni: a casa dei costruttori Pietro Postiglione, Gennaro Di Giacomo, Santi Furnai, Anna Alviggi, Domenico Russo e presso le abitazioni dei funzionari del Comune Bianca De Roberto e Lorenzo Criscuolo. Quei signori con giacca e cravatta, intabarrati in giacconi e cappotti, sembrano dei distinti funzionari in attesa di colleghi dipendenti comunali o di qualche assessore. Ma è troppo presto per avere i politici. Agli uscieri che chiedono chi fossero, i quattro ufficiali sussurrano appena delle parole affidandosi alla sommarietà di una risposta: «Stiamo aspettando delle persone...». Aspettano il sindaco e due funzionari del Comune, ma soprattutto Bianca De Roberto e Lorenzo Criscuolo che dovranno condurli nei rispettivi uffici - urbanistica e lavori pubblici - per eseguire le perquisizioni ordinate dalla procura della Repubblica. Tutto avviene con il massimo del fair-play e della discrezione: da una parte i carabinieri con le richieste della documentazione da sequestrare, dall’altra i funzionari pronti a garantire tutte le carte. Scatta così il blitz dei carabinieri a palazzo di città nell’ambito delle indagini a sui programmi integrati di edilizia residenziale pubblica, più nota come l’inchiesta sui 480 alloggi nelle zone collinari di Torrione. Edilizia residenziale pubblica, solo case per poliziotti e carabinieri? No, replica, il pm Gabriella Nuzzi, «solo un utile, efficace espediente per conseguire, con procedure semplificate e d’urgenza, in maniera fraudolenta varianti al piano regolatore generale» da parte del gruppo imprenditoriale Postiglione-Furnari-Di Giacomo-Russo. Una operazione urbanistica, secondo il pm, volta a «simulare la natura pubblica degli interventi» coseguendo «in maniera fraudolenta finanziamenti pubblici». Cioè realizzare, con la variante di piano, superato il vincolo degli standard urbanistici (delibera 71 dell’87), 256 alloggi per il libero mercato, 92 alloggi per le forze dell’ordine e 126 per edilizia convenzionata (cooperative e imprese). In pratica, con un investimento largamente maggioritario a favore degli imprenditori privati. Per raggiungere questo obiettivo, l’accusa della Procura intercetta la «fittizia costituzione» delle società consortili Co.Re.Pro. e Consortile Irno riconducibili all’unico gruppo imprenditoriale Postiglione-Furnari-Di Giacomo-Russo. È il gruppo che acquisisce un programma integrato di edilizia residenziale pubblica del febbraio ’92 proposto dalla cooperativa Acacia, con sede in Salerno, inglobata successivamente nella Co.Re.Pro e nella Consortile Irno. L’Acacia avrebbe dovuto realizzare, secondo l’articolo 18 della legge edilizia convenzionata, alloggi a Salerno, Battipaglia e Pozzuoli. Ma è solo la società apripista per i finanziamenti, secondo l’accusa dei pm. È a distanza di dieci anni, nel 2003, che i programmi vengono approvati e finanziati con circa 13 milioni di euro in favore dello stesso gruppo imrpenditoriale. E nei programma entrano anche gli interventi previsti per Pozzuoli, agli inizi degli anni Novanta «ricollocati» su Salerno, illegittimamente secondo l’accusa ma con procedure del tutto lineare secondo l’amministrazione comunale. È il programma del ’92 della cooperativa Acacia e di altri due soggetti imprenditoriali, società costruzioni Gerardo Satriano e impresa Milara (Pietro Postiglione). Da qui partono le nuove società consortili con «opzioni di acquisto di proprietà delle aree in realtà mai avvenute» e con la partecipazione di parti riconducibili a gruppi familiari: le società Gexim e Flavia dei coniugi Santi Furnari e Anna Alviggi; la società Milara del gruppo familiare Postiglione/D’Alessio.
Pierro e Celano: ora indagare sul Puc
FULVIO SCARLATA
Sono entusiasti, Antonio Pierro e Roberto Celano. Ieri gli avvisi di garanzia sulla vicenda degli alloggi ex articolo 18 di Paradiso di Pastena sembrano aver dato finalmente un senso alle denunce presentate a ripetizione dai due consiglieri dell’opposizione. Osteggiati, logicamente, dall’Amministrazione e dalla maggioranza, fino alla querela per diffamazione da parte del sindaco, isolati, e questo è più strano, nella minoranza e per Pierro perfino all’interno dello stesso gruppo di Forza Italia. Ieri i due hanno chiesto alla magistratura «di andare avanti. Non vogliamo fare sciacallaggio ma i giudici devono essere liberi di indagare e fare chiarezza su altre questioni». Modi fin troppo teatrali, quelli di Antonio Pierro, campione nell’acquisire ogni tipo di documentazione e a porre questioni che, con il tempo, assumono più rilievo. Toni politicamente più corretti per Roberto Celano, An, più attento alle questioni economiche e ai giochi di prestigio che si possono fare con numeri e bilanci. Sono loro ad aver dato inizio alla indagine della magistratura sul programma integrato a Paradiso di Pastena. Per primo tocca ad Antonio Pierro, il 17 maggio 2003, il giorno dopo l’approvazione dell’intervento edilizio del consiglio comunale, inviare un esposto al ministero per le Infrastrutture e alla Procura della Repubblica rilevando «le circostanze (cambio di localizzazione originaria, indisponibilità delle aree, aumento del numero degli alloggi rispetto a quanto indicato nelle schede Cer, mancato finanziamento) che meritano l’attenzione della vostra autorità». L’intervento dell’esponente di Forza Italia in consiglio comunale era stato così violento da provocare la reazione di Mario De Biase che querela il consigliere forzista. Una inchiesta, quest’ultima, affidata al pm Michelangelo Russo che chiede una consulenza tecnica la cui relazione viene depositata il 12 luglio 2004. Per un anno non accade nulla per cui Pierro e Celano, nel maggio scorso, inviano una nota al ministero per le Infrastrutture e a quello della Giustizia. Segue un esposto al Csm in cui si lamenta la passività della magistratura nonostante molte denunce che arrivano dagli stessi partiti della maggioranza, infine un altro esposto a settembre ai ministeri e di nuovo al Csm. L’inchiesta riparte, ieri i primi avvisi di garanzia. «Non avevo dubbi sul lavoro della magistratura - dice Antonio Pierro - Ritengo di avere svolto il mio ruolo di controllo con coscienza. Continuerò senza esitazione denunciando quanto c’è di illegittimo e illegale negli atti dell’Amministrazione. Ora spero che i magistrati indaghino anche sul piano regolatore». «La quantità di violazioni che si sono accumulate in questo atto sono incredibili - dice Roberto Celano - La magistratura dovrebbe intervenire con più continuità anche perché molte denunce arrivano dai banchi della maggioranza».
De Roberto, Criscuoli, costruttori e un notaio
Dai falsi ideologici e materiali, alla truffa aggravata in danno dello Stato, del Comune di Salerno e della Regione Campania: è questa la gamma dei reati contestati ai dieci indagati nell’inchiesta sui 480 alloggi di edilizia residenziale pubblica. Per Pietro Postiglione, in qualità di socio ed amministratore della Milara e presidente della Belvedere Srl; Gennaro Di Giacomo, presidente della società Ambra e amministratore della Consortile Irno; Domenico Russo, nelal qualità di amministratore dell’Acacia; Sante Fornari, amministartore delle società Flavia e Gexim; Anna Alviggi, socia della Gexim e moglie di Furnari, accusa di falso dei privati in atti pubblici; avrebbero presentato «falsi atti ed elaborati progettuali inerenti due progranmni integrati di edilizia residenziale individuati come schede di prefattibilità (154 alloggi a Salerno e 260 alloggi a Pozzuoli, poi ricollocati a Salerno); inoltre, alla data di presentazione delle istanze (febbraio 2003) le società consortili «non avevano conseguito alcuna effettiva titolarità delle aree interessate dall’intervento». Per gli stessi imputati, più Anna Alviggi, è scattata l’accusa di falso relativamente agli atti presentati che attestavano la disponibilità delle aree. Il sindaco Mario De Biase, l’ex assessore Fausto Martino, Bianca De Roberto, direttore del settore urbanistica del Comune, Lorenzo Criscuolo, direttore delle opere pubbliche, rispondono di falso materiale e ideologico: l’accusa è relativa all’approvazione delle delibera di giunta del 9 aprile 2003 «avendo approvato una delibera fondata, secondo l’accusa, su falsi presupposti forniti dai funzionari e senza accertamenti istruttori». Sempre per De Biase, Martino, Criscuolo e De Roberto c’è l’accusa di falsità materiale ed ideologica per la partecipazione alle conferenze di servizio ed alla sottoscrizione degli accordi di programma presentati dai costruttori. Per il notaio Giuseppe Monica è scattata l’accusa di falso materiale e ideologico, in concorso con i privati; avrebbe attestato falsamente l’acquisto delle aree acquisite dalle società dei costruttori interessate all’intervento di edilizia resindeziale pubblica. Per il sindaco De Biase, i funzionari Bianca De Roberto, Lorenzo Criscuolo, i costruttori Postiglione, Di Giacomo, Russo, Furnari, accusa di truffa aggravata in danno del comune di Salerno e della Regione Campania «per aver indotto in errore i due enti con l’approvazione delle procedure semplificate degli accordi di programma e per aver procurato ingiusto vantaggio» al gruppo dei costruttori. Per gli stessi imputati c’è l’accusa di truffa aggravata in danno dello Stato per il conseguimento di erogazioni pubbliche.
Decine di faldoni per le indagini
Fino a ieri sera, a tarda ora, negli uffici del reparto operativo dei carabineiri sono stati sistamti e catalogati tutti i documenti acquisiti nel corso delle perquisizioni effettuati presso le società Co.Re.Pro., Belvedere e Gexim (via Pietro del Pezzo, 64), alla Consortile Irno (via Pietro del Pezzo, 52), all’Acacia, via San Leonardo, 315 e all’associazione Sud Europa. I carabinieri hanno acquisito anche documentazione contenuta in floppy disk e computer delle società coinvolte nelle inchieste. Di qui la necessità per gli investigatori di sistemare le carte, «leggere» i documenti informatici e catalogarli. La Procura intende anche ricostruire le situazioni patrimoniali e finanziarie delle società di costruzione
IL RETROSCENA
Via Testa, carabinieri alla sede di Sud Europa
Il pm: è luogo significativo del legame privati-politici. Il ruolo di Postiglione
È un affare edilizio con «illeciti interessi politico-economici sottesi alle iniziative edificatorie»: è questa una delle considerazioni che stanno nel fondamento accusatorio dell’inchiesta firmata dal procuratore capo Luigi Apicella e dal sostituto procuratore Gabriella Nuzzi. Ma è a pagina cinquantacinque del decreto di perquisizone che i pm specificano il luogo ove questi interessi politico-imprenditoriali si combinerebbero. «Significativa dei legami esistenti tra i privati e i pubblici amministratori è da ritenersi l’esistenza di una associazione denominata «Sud Europa», con sede a Salerno alla via Michelangelo Testa, numero 8, i cui soci, accanto all’imprenditore edile Pietro Postiglione, sono soggetti che ricoprono o hanno ricoperto importanti cariche istituzionali all’interno del Comune di Salerno o svolto attività professionali per conto dell’ente». Fin qui la considerazione, poi l’ordine di perquisizione proprio all’associazione che fu varata dal parlamentare ds Vicnenzo De Luca, ex sindaco, e tuttora il principale animatore di un club politico-culturale che raduna decine di professionisti della città e della provincia di Salerno. Nell’elenco delle società da perquisire spunta anche il nome dell’associazione «Sud Europa». In pratica, la Procura ritiene che attraverso l’associazione Sud Europa si sarebbero formati «rapporti tra soci e amministratori dell’associazione oltre che tra dirigenti e funzionari degli uffici comunali o consulenti del Comune». L’associazione Sud Europa ha firmato negli ultimi anni significativi momenti di confronto pubblico sui temi dello sviluppo cittadino, con la partecipazione di economisti, esponenti politici ed istituzionali di rilievo. Recentemente, l’associazione ha promosso anche un organo di informazione legato allo sviluppo dei quartieri cittadini. an.ma.
Bohigas rimette mano al piano regolatore
di Fulvio Scarlata
Tutto nelle mani di Bohigas. Di nuovo. Complice la nuova legge regionale, ma anche le discussioni in commissione urbanistica e le varianti, quelle già decise e quella ancora da completare, le carte tornano a Barcellona per un ridisegno complessivo della città. Lo ha deciso la Giunta precisando: «L’attività professionale non comporta spesa in quanto svolta d’ufficio sotto la guida di Bohigas la cui attività risulta ricompresa nella convenzione del 1995».
La delibera è passata con il voto all’unanimità di tutti gli assessori. Partendo dalla nuova legge urbanistica approvata dalla Regione alla fine dello scorso anno e tenendo presente tutti gli interventi che si sono moltiplicati da quando Oriol Bohigas consegnò la stesura definitiva del piano regolatore nell’ormai lontano 30 aprile 2003, l’Amministrazione De Biase riconsegna le carte all’architetto catalano e all’ufficio di Piano per rimodulare il Puc (così si chiamerà il Prg) «non solo rispetto alla nuova normativa - è scritto nella delibera - ma anche viste le osservazioni della commissione urbanistica e l’elenco dei provvedimenti di natura urbanistica approvati o in corso di approvazione». A Bohigas toccherà dunque adeguare i disegni «con elaborati grafici e descrittivi in ottemperanza della nuova legge», cioé bisognerà perimetrare di insediamenti abusivi più importanti, per esempio quelli di Giovi, «perimetrare i comparti continui e discontinui e relativi strumenti di attuazione» e la valutazione ambientale dei piani.
Ma soprattutto dovrà integrare il Puc con tutte le varianti che sono state approvate in questi anni, dall’edilizia sovvenzionata a Mariconda e Cappelle ai programmi integrati per le Mcm, la Salid, i Fonditori salernitani, la Gds di via Della Monica, l’albergo Alifin, il Play Garden, fino alla piazza di Giovi e alla nuova strada di Ogliara. Anzi sul fronte dei piani integrati l’indicazione dell’Amministrazione è a prendere in considerazione anche le varianti ancora non approvate dal consiglio comunale, in particolare quella per la fabbrica Marzotto, per il pastificio Amato, per le fonderie Pisano e per l’ex Enpas.
«È vero che le varianti approvate erano anticipazione del Prg e dunque già previste - spiega l’assessore all’Urbanistica Mimmo De Maio - ma adesso ci sono anche gli indici. Il Piano aveva individuato gli ambiti per i programmi attuativi che ora si sono conclusi e dunque il Piano può essere più preciso. E anche gli ultimi quattro interventi, non ancora votati, sono compatibili con il Piano. Con questa delibera abbiamo inoltre valorizzato il lavoro della commissione urbanistica che dovrebbe essere recepito dal Puc con tutti i suggerimenti. Per esempio verificare se servano 30mila metri quadrati per costruire una casa colonica, visto che per la legge regionale ne bastano poco più della metà».
La Giunta Comunale ha anche deciso all’unanimità di arrivare alla pubblicazione del Programma urbanistico comunale entro giugno 2005. Dopo la pubblicazione, il Puc diventerà per sessanta giorni oggetto di osservazioni e pareri da parte dei cittadini oltre che del consiglio comunale e delle forze sociali, economiche, culturali ed imprenditoriali. A quel punto il documento dovrà essere adottata dal consiglio comunale per poi esser trasmesso alla Provincia per il parere di conformità alle norme vigenti che l'ente dovrà rilasciare entro 90 giorni. «Con questa delibera - dice Mario De Biase - compiamo un decisivo passo verso la definitiva approvazione del Programma Urbanistico Comunale la fine di questa consiliatura. Nonostante la nuova normativa regionale assegni competenza esclusiva alla Giunta per la pubblicazione del Puc, abbiamo anche deciso di tener conto del prezioso lavoro svolto dalla commissione urbanistica e di coinvolgere i consiglieri comunali per assicurare la massima partecipazione alla procedura di approvazione del nuovo strumento urbanistico. Ancora una volta il Comune si conferma all'avanguardia in materia urbanistica e si propone al Presidente della Regione Antonio Bassolino ed all'assessore regionale all'Urbanistica Marco Di Lello come laboratorio urbanistico per la nuova normativa regionale che proprio nella nostra città trova per la prima volta concreta attuazione».
il Mattino, 1 dicembre 2004
“Con due grandi torri cambio il volto alla città”
Intervista di Carla Barbieri al Sindaco De Biase
Alla città che governa vuol «cambiare lo skyline»: un palazzo alto quaranta piani lì dov’è oggi il Jolly e possibilmente una seconda torre svettante sul porto, due ”twin towers” in salsa salernitana che nel profilo-immagine prendano «il posto del castello d’Arechi». Al partito dei Ds di cui è uomo-immagine e leader alter ego con Vincenzo De Luca, vuol rifare il look in vista delle elezioni regionali, una rivoluzione politica parallela a quella urbanistica, in cui si spinge a minacciare «il congelamento del congresso provinciale» se non sarà dato più spazio e maggior peso «a Salerno e alla sua classe dirigente». Sfoggia gran dinamismo su più fronti, Mario De Biase. Al punto di svolta di una stagione amministrativa tribolata e con la prospettiva di una campagna elettorale che si apre alla Regione per chiudersi tra un anno e mezzo alla scadenza del suo mandato al Comune, il sindaco ci tiene a mostrare un profilo da primattore per se stesso e per la sua ”squadra” politica.
Cominciamo dall’urbanistica, sindaco. Si procede ancora a colpi di varianti? «Sulle varianti abbiamo trovato una condivisione politica. Il metodo è quello acquisito nell’ultimo consiglio: mentre si procede per il Prg, si procede anche per le trasformazioni reali con gli interventi privati di interesse pubblico. Eccoli, i progetti per cui l’istruttoria è completata, vuol vedere?
Vediamo. «Questo è il programma integrato per l’area dell’ex Marzotto. Qui è previsto un grande auditorium con un museo privato d’arte moderna. Purtroppo, i privati spesso mostrano di non riuscire a tenere il passo con la velocità dell’amministrazione comunale. C’è una guerra interna alla società proponente, storia di vecchie ruggini tra Pastore e Schiavo. Se si mettessero d’accordo, potremmo portare l’intervento già nel prossimo consiglio. Insieme con quello che riguarda il pastificio Amato. Eccolo: anche qui parcheggi interrati, case uffici e negozi, ma soprattutto la scuola nuova per il quartiere Mercatello».
Amato e Marzotto: le due varianti sollecitate da Vincenzo De Luca nell’ultima esternazione televisiva. Anche stavolta ha dettato lui l’agenda del Comune? «Semmai è il contrario. Lui assume notizie dal Comune per trovare materia di cui parlare il venerdì in tv. No, la verità è che mai come in questa fase c’è piena e totale sinergia con De Luca».
Ma non con la magistratura, che ha sequestrato gli atti delle ex Mcm. «Ben vengano i controlli, ma non possiamo farci interdire. Il guaio è se finiscono per farsi intimidire i funzionari che hanno la responsabilità dei procedimenti. Il rischio c’è. Ma l’importante è non bloccare i processi di sviluppo e trasformazione della città.
La città di Salerno è conosciuta e considerata, oggi, in ambito regionale e nazionale, come mai in precedenza (esclusa, forse, la sua gloriosa ma davvero troppo lontana stagione longobardo-normanna); e la sua Amministrazione, nell’immediato immaginario massmediatico, è vista fra le più efficienti del Paese, e -per alcuni- persino la più virtuosa: di una virtù che non è solo quella, materiale e pratica, di una fattiva guida amministrativa, democraticamente delegata, ma anche quella, più immateriale, della carismatica guida spirituale verso il sicuro riscatto da miserie e degrado passati. Diversi sono stati, in questi anni, i fronti sui quali si è tentato il rilancio della città. Ma, principale fra tutti, o fra tutti avvertito come il più concreto, coinvolgente e “strutturante”, è apparso quello urbanistico, che, di per sé, è pure più fortemente suggestivo di altri, per la metafora di più profonda mutazione personale e collettiva che si accompagna ai cambiamenti che induciamo al nostro spazio fisico.
Ma, allora, come si spiega che Italia Nostra di Salerno non sia stata e non sia fra i sostenitori del nuovo corso urbanistico cittadino?
A questa domanda abbiamo cercato di dare risposta comprensibile attraverso un breve documento filmato, consapevoli che ridurre la storia di quasi vent’anni di nuova urbanistica in meno di venti minuti fosse cosa complicata. E tuttavia occorreva farlo, evitando innanzitutto l’errore della solita minestra “faziosa” e già scodellata, sicura produttrice di gesti, oltre che monchi e/o reticenti, anche ingenerosi della libera intelligenza delle cose. Abbiamo perciò tentato con l’apporto dei nostri documentati amici una ricostruzione della vicenda che riuscisse –con la sola elencazione di dati certi e fatti realmente accaduti- a trasmetterne per intero il senso.
Oggi che i Padri “tecnici” del PRG di Salerno sono, uno alla volta, tutti usciti dalla scena e appare realizzata solo una delle profezie di Bohigas, cioè quella sulla natura del Piano, che non sarebbe stata una creatura tecnica, ma politica, da mettere nelle mani della Polis (ma non, certo, in quella dei suoi oligarchi…) noi crediamo ancor più fermamente che un Piano non sia mai il gesto isolato di un Demiurgo, ma un frutto che porta in sé il gene, o il marchio, di una paternità più larga. Sotto questo punto di vista il PUC di Salerno, ancorché firmato da una star forestiera dell’architettura europea, è il frutto servito in tavola da un ambiente “fattivo” che difficilmente fa le sue scelte concrete nella discordia aperta; ma che invece elabora e rielabora pazientemente i suoi progetti e, all’occorrenza, demagogicamente li aggiusta, perché si realizzino nel più scontato sostegno, meglio ancora se non troppo gridato.
In questo senso la lunga marcia del Piano regolatore generale, poi divenuto PUC ai sensi della nuova Legge Regionale 16/2004 è esemplare: un avvicinamento al traguardo desiderato scandito dai necessari scarti e dagli opportuni rientri sulla pista principale, nell’immancabile conflitto fra desiderio impulsivo di prendere subito tutta la posta e la pazienza di adattare le regole del gioco alla misura di volta in volta consentita dagli eventi.
Su tutto ciò, il giudizio più volte espresso da Italia Nostra fu, come è noto ai concittadini salernitani, critico, e specialmente lo fu su alcuni temi decisivi, per noi irrinunciabili: dalla sempre mancata ragionevole spiegazione di un dimensionamento altrimenti assurdo del Piano, alla scelta di varare progetti in quantità difficilmente autorizzabili in caso di sua tempestiva adozione; da quella della problematica relazione fra massa edificabile nuova e/o di trasformazione e reale capacità di loro sostenibilità ambientale, a quella di una effettiva generale equità delle nuove regole edificatorie; da quella di una promessa e non mantenuta svolta sociologica da compiere con la diffusione della residenza popolare nei diversi comparti della città compatta, cioè della città centrale o ben servita, a quella di un trattamento sinceramente rivolto al rilancio vero della città vecchia, non-strumentale cioè, e attuato nei fatti, e non nelle parole.
E dunque, avremmo potuto delineare l’iter del PRG-PUC di Salerno seguendo il filo -o mettendo in fila- i documenti di volta in volta elaborati e pubblicamente diffusi da Italia Nostra durante tutto il percorso, ma ciò avrebbe avuto il torto certo della scelta pedante o pigra. Abbiamo invece diviso il tragitto in sette segmenti temporali, o tematici, che sono apparsi cruciali non solo a noi, ma a molti osservatori e cronisi del tempo. Ognuno di questi segmenti, naturalmente con tutti gli altri possibili, è offerto alla vostra visione, per farsi oggetto di utile curiosità di ricostruzione e approfondimento.
Storia del Piano della Salerno del Duemila
video in due parti sul sito web youtube, a cura di “ItaliaNostra” - sezione di Salerno - Dicembre 2009
prima parte http://www.youtube.com/watch?v=KxM_pwFjRRY (I conti con il passato, La stagione di Bohigas, I rapporti con la storia, L’equità è per tutti, L’addio dei padri)
seconda parte http://www.youtube.com/watch?v=lDZp5aO8jyA (Intermezzo, Il cemento e il simbolo, Ma quanti saremo?)
Salerno. Se gli chiedi come ha fatto a resistere dieci anni affianco a Vincenzo De Luca se pensa e dice le cose che riportiamo nell’intervista, Fausto Martino risponde: “Ho scoperto il personaggio poco alla volta. Molte vicende, purtroppo, le ho apprese solo dopo. E volevo portare a termine il piano regolatore”. Architetto della Soprintendenza, Martino è stato dal 1993 al 2003 l’assessore all’Urbanistica della Salerno da bere cantata dagli agiografi del candidato Governatore del Pd e di Idv. La movida, i cantieri, il Prg affidato a Oriol Bohigas. E le vicende finite nel mirino della Procura: Ideal Standard, il Parco Marino, la Mcm. Martino può descrivere il ‘sistema De Luca’ visto dall’interno.
Una definizione di De Luca.
“Personalità diabolica. Sembra sincero quando lancia accuse contro le clientele di Bassolino dimenticando le proprie. Nulla si muove a Salerno se De Luca non è d’accordo”.
Dieci anni con De Luca. A dire il vero, dal 2001 al 2003 il sindaco era Mario De Biase.
“De Biase era teleguidato da De Luca, che dagli uffici di via Testa inviava gli ordini”.
De Luca la chiamò in giunta nel 1993.
“Per ricucire i rapporti con Bohigas. L’architetto era preoccupato delle notizie di Tangentopoli che avevano azzerato la precedente amministrazione e non si era ancora mosso. Riuscimmo a produrre un lavoro il cui spirito è andato perso”.
Parliamo di Ideal Standard e dei lavoratori che il sindaco afferma di aver difeso.
“Nel 1998 partecipo a una riunione in cui due manager Ideal Standard comunicano che intendono cedere suoli e capannoni a un consorzio emiliano, la Cecam, per un prezzo bassissimo, un miliardo e mezzo di lire circa, perché questi avrebbero assunto i 204 operai licenziati. Ma…”
Ma?
“Propongono una cessione modale: Ideal Standard vendeva al Comune, e il Comune alla Cecam. Una triangolazione che avrebbe determinato un risparmio fiscale, diciamo così. Fui brusco e dissi no, il Comune non poteva prestarsi a un’operazione che pareva fattaper eludere le tasse. Ricordo il loro sguardo di sorpresa, del tipo: “Ma a questo nessuno gli ha detto niente”?
Poi che succede?
“Dopo qualche tempo si manifesta la Cecam attraverso due personaggi da operetta. Una signora, Dina Monti, coi capelli tinti rosso fuoco, e un ex calciatore con le scarpe risuolate, Gianni Benetti. A prima vista non affiderei loro le chiavi di casa. Mi dicono che sono pronti a investire 40 miliardi di lire per un parco marino nell’ex Ideal Standard. Rispondo che non si può fare, il vincolo industriale non può essere rimosso”.
Eppure insisteranno nel progetto.
“La Cecam non puntava al parco marino, ma al possesso dell’ex Ideal Standard. Valeva almeno dieci miliardi e l’acquistavano per quattro soldi. Bisognava però capitalizzare il valore dell’area e porre a carico della collettività il costo degli operai, inventandosi qualcosa che giustificasse la cassa integrazione: il progetto del Parco Marino”.
Lei espresse questi timori a De Luca?
“Molte cose purtroppo le ho sapute e comprese solo dopo”.
A quel punto?
“La Cecam cerca di trasferire il parco in terreni vicini allo stadio, di proprietà dell’imprenditore Vincenzo Grieco. Preparano una variante, la presentano allo Sportello Unico. Nel progetto si ipotizza l’utilizzo dei suoli Ideal Standard per la produzione del merchandising. Ma nel frattempo fanno a fette l’area – anche questo lo scoprirò dopo – attraverso una serie di compromessi di cessione di piccoli lotti, operai compresi”.
In che senso “operai compresi”?
“Nei compromessi c’era scritto: tu acquisti tot metri ed assumi due ex operai Ideal, tu ne compri di più e ne assumi tre…”.
Grande idea, a prima vista.
“Un imprenditore interessato a uno di quei suoli, però, va in Emilia e ne approfitta per recarsi alla sede Cecam. Ma scopre che a quell’indirizzo c’è solo una cassetta postale”.
Insomma, il Parco marino non si farà mai. De Luca che colpe ha?
“Un uomo che controlla militarmente Salerno non poteva non essersi accorto di quel che stava accadendo. Specie se la Procura, che stoppa la lottizzazione, rinviene nello studio di uno dei suoi fedelissimimolta documentazione relativa all’operazione”.
Lei però si dimette per altri motivi.
“Per tre ragioni: le licenze per alcune ville sul Masso della Signora; l’ostruzionismo sul Prg Bohigas, che eliminava i quartieri popolari e riduceva le rendite fondiarie; gli indici di edificabilità della variante Mcm, più che raddoppiati. Vado a litigare da De Luca, perché De Biase non conta nulla. Chiedo che il Prg vada in consiglio ma De Luca mi dice: “Una volta che lo approviamo, chiudiamo lo Sportello e che facciamo? Suoniamo i piattini”?
Traduca.
“La condizione migliore per tenere aperto lo Sportello è l’assenza di un Prg. Altrimenti lo si chiude e si perde il potere contrattuale con un’imprenditoria allergica a regole certe. Mi dimisi dopo una notte insonne, capii che si buttavano all’aria dieci anni di lavoro. Il Prg è stato infatti sottoposto a una feroce revisione, privato di tutte le cose buone di Bohigas, e grazie ad esso è iniziato il sacco edilizio di Salerno, del quale il Crescent rappresenta la punta dell’iceberg”.
In questi giorni di pioggia, il quartiere integrato, la città nella città, «il nuovo stile di vita», è ancora più triste. Strade di fango e sterpaglie al posto del «polmone verde» da 33 ettari. Poche vetrine illuminate al posto del «bulevard», anzi di «Montecity avenue», come era stata ribattezzata nei pomposi progetti di sir Norman Foster, l’architetto di grido fatto sbarcare dall’Inghilterra per dare vita alla nuova zona modello di Milano che invece è entrata di diritto nel modello delle Grandi Incompiute, le opere degli sprechi finanziate con soldi privati e pubblici e che sembrano non terminare mai. Qui per fare la spesa, per andare in farmacia, per prendere un tram, bisogna alzare i tacchi e andare in centro, quello vero, perché di negozi, servizi, scuole o asili, non si è vista ancora l’ombra. Benevenuti a Rogoredo Montecity-Santa Giulia, una bella idea finita male.
Con l’aggravante di un’inchiesta ancora aperta e che rischia di far scoprire rifiuti tossici seppelliti nelle aree ancora da costruire invece delle bonifiche promesse. Bonifiche che, quando nei primi anni ’90 s’iniziarono a stendere i progetti, erano stati stimati, secondo Legambiente, in 60 milioni di euro, e che sono arrivati a sfiorare costi per oltre 200 milioni, in buona parte finanziati dagli enti pubblici, Regione e Provincia, senza la certezza che i terreni siano stati davvero bonificati.
E’ la storia dell’inchiesta che nell’ottobre scorso portò in carcere l’imprenditore Giuseppe Grossi, titolare della Green Holding, uno dei colossi delle bonifiche nel Nord Italia, accusato di aver gonfiato le fatture proprio sul trasporto della terra inquinata per decine di milioni. E di aver corrotto, con regali, automobili, orologi e prebende di vario genere, diversi politici locali e vari funzionari. Anche se, a quasi un anno dall’inizio dell’inchiesta, ancora non si è riuscito a capire che fine abbiano fatto, ad esempio, «due milioni e mezzo di euro» in contanti che «nel solo 2008» Grossi si era fatto riportare in Italia dagli spalloni della società svizzera Silvoro per distribuirli non si sa bene a chi.
Una storia da manuale che mescola corruzione, lassismo amministrativo, sprechi e speculazione, per un’area, quella di Montecity Santa Giulia, tormentata anche dal mezzo fallimento della società proprietaria, quella Risanamento dell’immobiliarista piemontese Luigi Zunino arrivata a un passo dalla bancarotta e tenuta in vita dall’intervento massiccio delle banche. Sulla carta, un ottimo affare: 550 milioni di euro per acquistare oltre un milione di metri quadrati, infestati un tempo dagli impianti chimici Montedison, a fronte di investimenti per un miliardo e 100 milioni e previsioni di ricavi doppi.
Peccato che basta farsi un giro tra le case nuovissime e spettrali del quartiere per capire che qualcosa non ha funzionato. Eppure, ancora qualche mese fa, il Comune di Milano aveva tentato il rilancio promettendo, per bocca dell’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli, la ripresa dei lavori e la realizzazione di quei servizi indispensabili per le decine di famiglie che già vivono Santa Giulia, entro il 2010.
Ma rischia di arrivare prima la conclusione delle indagini dei pm Laura Pedio e Gaetano Ruta con relative richieste di rinvio a giudizio per un’inchiesta che si è rivelata complessa come una matrioska con filoni diversissimi tra loro: dall’ombra della malavita organizzata sugli appalti alle bonifiche mai realizzate, fino ai conti all’estero custoditi da Rosanna Gariboldi, ex assessore alla provincia di Pavia nonché moglie di Giancarlo Abelli, ex ras della sanità lombarda e vicecoordinatore nazionale del Pdl, uscita dalle indagini dopo aver patteggiato una condanna a due anni e mezzo di reclusione. Rimangono poi da chiarire le vicende intorno all’ex area Sisas di Pioltello, con una pioggia di milioni versati a Grossi dalla Regione come «paracadute» per le sue speculazioni fino alla questione del piano cave in Lombardia. E i cui costi per la collettività, tra tangenti, false fatture, lievitazioni varie, potranno essere contabilizzati dalla Corte dei Conti solo tra qualche anno.
OSSERVAZIONI IN MERITO ALLA PROPOSTA DI VARIANTE URBANISTICA AL PIANO REGOLATORE GENERALE PER LA REALIZZAZIONE DELL’ESPOSIZIONE UNIVERSALE DEL 2015
In merito alla “Proposta di variante urbanistica al piano regolatore generale vigente mediante l’accordo di programma promosso dal Sindaco di Milano in data 16 ottobre 2008, per la realizzazione dell’esposizione universale del 2015” si osserva quanto segue:
1 – OSSERVAZIONI METODOLOGICHE PROCEDURALI
1A) L'accordo di programma è strumento inadeguato
Lo strumento dell'Accordo di Programma (ADP) finalizzato all'evento EXPO 2015, appare inadeguato quale elemento promotore della variante.
L'ADP infatti definisce i caratteri e le finalità della manifestazione prevista per il 2015, e contemporaneamente assume il compito di definire le linee principali della variante urbanistica, semplificando e riducendo il complesso rapporto che dovrebbe esistere tra la programmazione territoriale, la pianificazione economica di un'area vasta, le valutazioni ambientali, trasportistiche, produttive, residenziali.
Si contesta la riduzione drastica degli elementi di complessità considerati nell'area, la mancanza di una adeguata analisi socio-territoriale, la semplificazione implicita negli strumenti adottati, in prima analisi riconducibili unicamente all'obiettivo di "rendere le aree suddette compatibili alla realizzazione dell'Expo"
Tale procedura, nel metodo ma soprattutto nel merito, non è accettabile dal punto di vista della prassi urbanistica.
1B) Assenza di un inquadramento complessivo
Il nuovo PGT di Milano, in corso di approvazione, dovrà dare le linee guida di una città di rilevanza nazionale ma certamente anche europea come Milano. Non si comprende quindi la necessità di una variante "particulare" che anticipa di qualche mese il documento di inquadramento complessivo, con il rischio di dover successivamente di nuovo porre mano all'area per nuove modifiche alle destinazioni ed all'assetto interno.
Da questa analisi verrebbe il dubbio, non suffragato da prove ma certamente sostenuto da indizi, che il PGT dovrà adeguarsi, diremmo pedissequamente, a quanto previsto nella variante in oggetto.
Tale modo di procedere in tutta evidenza appare strutturalmente errato ed inefficace, oltre che profondamente contrario al ruolo a cui è chiamato il PGT.
Si pongono infatti dei paletti, probabilmente inamovibili, prima che siano definitivamente fissati i criteri generali, e si rende di fatto vano il Piano di Governo del Territorio nella sua intrinseca funzione.
Diverso sarebbe, ma non vogliamo nemmeno pensarlo, che il PGT sia pensato come ridotto ad un banale ricettacolo di istanze particolari, tra cui quella, prioritaria, dell'Expo 2015. O che, peggio ancora, sia redatto esattamente in funzione di questo.
Se cosi fosse, evidentemente, si tratterebbe di un tale stravolgimento da meritare considerazioni ed azioni in sede ben più seria che non la presente relativa alle osservazioni
2 - OSSERVAZIONI DI MERITO
2A) La destinazione a verde coerente con il sistema circostante
Gli scarsi elementi a supporto della proposta di variante risultano ampiamente insufficienti a rendere la stessa sostenibile secondo molti punti di vista.
Il fatto che al momento l'area sia per la maggior parte non edificata, in stato agricolo, dovrebbe portare ad una valutazione complessiva del sistema del verde nell'area identificabile con il quadrante nordovest esterno a Milano. Non si comprende il motivo intrinseco di un intervento esattamente in quella sede.
Inoltre il fatto che l'area si colloca lungo una direttrice territoriale (asse nord-ovest) da tempo interessato da "profondi processi di trasformazione e riqualificazione" non induce necessariamente ad assegnarle la vocazione a "polo fieristico", al contrario indurrebbe ad evidenziarla come polmone verde necessario per uno sviluppo equilibrato, ed economicamente vantaggioso, di un sistema compresso tra autostrada ed alta velocità, e da nuovi insediamenti abitativi che hanno provocato una profonda densificazione del territorio circostante.
2B – In assenza di bonifica, l'area non è funzionale alla destinazione d'uso
Il sito individuato per lo svolgimento della manifestazione “Expo 2015”, è localizzato in un’area adiacente al Polo Fieristico di Rho Pero. Sull’area occupata da quest’ultima, insisteva in precedenza l’ex impianto di raffineria Agip Petroli, con un’estensione di circa 130 ettari , ed era stato per decenni, a partire dal 1953, sede di attività di raffinazione di prodotti petroliferi. La raffineria aveva una capacità di raffinazione pari a 5 milioni di tonnellate anno. La bonifica del suolo, completata nel 2003, ha riguardato il perimetro dell’attuale Polo Fieristico, ma l’area circostante non ne è stata toccata. Riteniamo assai probabile che l’area proposta per il “sito Expo” abbia subito, a causa della sua adiacenza alla Raffineria, ricadute in termini di residui da combustione, liquami e oli o altri eventuali liquami penetrati nel terreno. Non ci risultano analisi e/o bonifiche avvenute in tal senso. In virtù anche del fatto che nel Concept Plan per Expo 2015, presentato a settembre 2009 dal Comune di Milano, si identifica il sito come sede di “un grande orto botanico”, in cui “ogni Paese avrà il suo pezzetto di suolo da coltivare” (Boeri), e che “si tratterà di far crescere cibo e generare prodotti che la gente consumerà” (Burdett), sottolineiamo, nell’intento di non avvelenare gli ospiti dell’Esposizione Universale, che in nessun documento allegato alla Variante Urbanistica, né all’interno dell’Accordo di Programma si accenna alla necessità di realizzare una bonifica del sito Expo, che sembrerebbe invece opportuna. A supporto di tale tesi ricordiamo che all'interno del progetto sono previsti anche nuovi bacini di acqua artificiali e la nuova “via d'acqua”, che potrebbero influire sulla sedimentazione dei residui derivanti dall'attività di raffinazione, con il rischio evidente di inquinamento della falda acquifera.
2C – L'accessibilità al sito ne compromette la destinazione.
Al contrario di quanto si evince dalla relazione illustrativa prodotta dalla Direzione centrale sviluppo del territorio del Comune di Milano, la prossimità del Polo Fieristico può risultare fonte di grandi problemi di gestione della manifestazione Expo 2015. Bisogna infatti considerare che le stime di ospiti della manifestazione contenuti all’interno del progetto presentato al BIE dal Comune di Milano durante la fase di candidatura, è di 29 milioni in sei mesi, pari ad una media aritmetica di 160 mila al giorno. Prendendo per buona la stima inserita nello steso documento, secondo cui il 60% dei visitatori utilizzerà i mezzi pubblici, ne risulta che circa 65 mila persone tutti i giorni per 6 mesi si recheranno al sito Expo con mezzi privati, senza contare i volontari e i lavoratori coinvolti. Alla luce di ciò, se si considera anche il traffico che deriverà dalle normali esposizioni fieristiche che si terranno in quei 6 mesi, la prossimità del Polo Fieristico di Rho Pero potrebbe incrementare i rischi già elevati di congestionamento del traffico.
Si propone pertanto in via prioritaria l’identificazione di un altro sito in cui realizzare Expo 2015 e in via subordinata l’ipotesi di vietare altre manifestazioni fieristiche in contemporanea all’Esposizione Universale.
2D – Perdita di un’area strategica per l’eco-sistema del Nord-Ovest
La trasformazione dell’area prescelta e la sua definitiva antropizzazione (al pari dell’area adiacente in località Cascina Merlata anch’essa interessata dai progetti per Expo 2015), porta alla perdita dell’unico corridoio ecologico esistente nel territorio del Comune di Milano, in grado di fornire appoggio alle specie animali migratorie e ideale anello di congiunzione tra il sistema dei parchi del nord Milano (Groane, Grugnotorto, Parco Nord) e dell’ovest Milano (Boscoincittà, Parco dei fontanili, Parco Sud), pregiudicando in via definitiva la realizzazione dell’anello verde attorno alla città. In tal senso si propone altra localizzazione per la rassegna espositiva.
3 – DESTINAZIONE D’USO DELL’AREA
In considerazione di quanto ai punti 1 e 2 delle presenti Osservazioni, si chiede che la variante di PRG sia ritirata.
L’eventuale necessità di utilizzare comunque l’area per Expo 2015, malgrado le osservazioni qui riportate, si concretizzi almeno attraverso un uso temporaneo della stessa per i sei mesi della rassegna, previa bonifica profonda e a condizione della sospensione di ogni altra manifestazione fieristica contemporanea all'evento, per poi restituire l'area alla sua attuale destinazione VA con opportuna sistemazione e riqualificazione per uso pubblico.
Documento elaborato dal Comitato No Expo e dal Centro Sociale Fornace il 22 dicembre 2009.
Documento presentato al Comune di Milano e al Comune di Rho il 23 dicembre 2009
(di seguito scaricabili alcune altre osservazioni del Comitato sull'iter complessivo del Piano di Governo del Territorio di Milano)
Il rischio di impresa nel caso del Ponte è in capo alla Stretto di Messina spa. Una società di diritto privato ma con soci e capitale tutti pubblici: Iritecna, Anas, Regione Calabria e Regione Sicilia.
Il 6 novembre scorso il ministro dei Trasporti Altero Mattioli dichiarò: «Confermo che il Ponte si realizza in gran parte con capitali privati attraverso il project financing. I capitali pubblici servono solo per le opere a terra».Ma è davvero così? Il Ponte di Messina sarà finanziato dai privati? La risposta è no. Alla fine sarà solo lo Stato a farsene carico. Fu così anche con il sistema Tav. Si disse che l’opera sarebbe stata garantita dalle grandi imprese. I mille chilometri di Alta Velocità sono finiti, invece, tutti sulle spalle del cittadino. A una cifra salatissima: 32 milioni a chilometro, secondo i parametri delle Ferrovie, 60 milioni secondo le stime di comitati indipendenti. Comunque dalle tre alle cinque volte rispetto al prezzo iniziale.
LO SCHEMA
Per il Ponte non andrà diversamente. Lo schema o la catena contrattuale, come ci spiega Ivan Cicconi, direttore dell’Istituto per la Trasparenza Aggiornamento e Certificazione Appalti (Itaca) sono gli stessi. Come nell’Alta Velocità, l’architrave dell’inganno sta nell’affidamento «da parte dello Stato alla Stretto di Messina Spa della concessione per la costruzione e la gestione dell’opera». Normalmente è attraverso la gestione che si dovrebbe recuperare l’investimento che si fa. Èil rischio che un’impresa corre. Costruisce l’opera e poi ne gestisce i guadagni.
Ma non in questo caso. «Il rischio nel caso del Ponte è in capo alla Stretto di Messina spa. Una società di diritto privato ma con soci e capitale tutti pubblici». Come Iritecna, che è posseduta al100%dal ministero dell’Economia, Anas spa, di proprietà del Tesoro, e quote insignificanti della Regione Calabria e della Regione Sicilia.
Il costruttore, invece, è un altro. In questo caso è un consorzio di imprese guidato da Impregilo, che assume il ruolo di «general contractor ».Che vuol dire? L’affidamento a contraente generale si differenzia da un normale appalto pubblico per un elemento: «Il contraente generale - spiega Cicconi – è un concessionario. E quindi è quello che fa la progettazione esecutiva e che nomina la direzione dei lavori». In poche parole è quello che esegue i lavori e che li dovrebbe controllare.
Che cosa rischia il contraente generale? Dal punto di vista finanziario nulla. «È pagato al 100% dallo Stretto di Messina spa, con la semplice differenza, rispetto a un appalto, che anticipa circa il20%del costo di costruzione». Ma è solo una partita di giro. Alla fine dei lavori il consorzio avrà comunque i suoi soldi indietro. Ne deriva che il contraente generale non ha nessun interesse oggettivo e soggettivo a fare presto e bene. «Potrà aumentare i costi dell’opera, come è successo con la Tav, come vorrà. Nessuno potrà contestargli rialzi nei prezzi». In qualsiasi caso, sia ci metta cinque anni, come scritto nel contratto, sia venti come è plausibile avvenga, è pagato al 100% da Stretto di Messina spa.
CHI GUADAGNA E CHI PERDE
In sostanza, lo schema consente di avere duepiccioni con unafava. Permette alle grandi imprese costruttrici di avere guadagni sicuri ma anche alle banche di fare affari certi. In che modo? Siccome Stretto di Messina è una spa, e quindi è fuori dai conteggi del Parametro di Stabilità europei, può richiedere qualsiasi tipo di finanziamento. Di solito i prestiti e relativi interessi sono coperti attraverso la gestione dell’opera (in questo caso i pedaggi). «Ma è stato calcolato - spiega Cicconi - che per recuperare l’investimento sul Ponte solo con gli introiti di gestione occorrano dai 150 ai 200 anni». Un lasso di tempo un po’ troppo lungo per le banche. Quindi sarà lo Stato a dover sborsare subito i soldi. «È il cosiddetto debito a babbo morto». Proprio come successo con la Tav nel 2006. Quando pagammo alle banche.