Danilo Broggi, maganer vicino alla Lega, a un passo dalla nomina a direttore generale di Expo 2015 spa. Francesco Magnano, geometra di fiducia di Silvio Berlusconi, verso la poltrona di assessore regionale all´Urbanistica o all´Ambiente della nuova giunta del Pirellone.
Le condizioni dello scambio sarebbero state poste dal premier, prima al coordinatore regionale del Pdl Guido Podestà, che gli perorava ad Arcore la riconferma di Stefano Maullu. Poi al governatore Roberto Formigoni per dare il suo via libera alla sua giunta.
Il Carroccio, in cambio, oltre ad incassare un nuovo posto di peso nell´Expo conserverebbe per Davide Boni la delega del Territorio in aggiunta a quella della Casa, lasciata libera dall´Udc. Inoltre, otterrebbe le Attività produttive finora gestite da Romano La Russa, che passerebbero ad Andrea Gibelli, vice governatore in pectore del Carroccio. Il fratello del ministro della Difesa, in questo caso, correrebbe per la presidenza del consiglio regionale.
Con la nomina di Magnano, che non è risultato eletto perché occupava solo il nono posto del listino di Formigoni, Berlusconi, metterebbe una seria ipoteca sul suo sogno: Milano 4. Un villaggio di 1.200 appartamenti sulle sponde del Lambro, in Brianza. Un investimento da ben 220 milioni. A pochi metri dalla sua residenza di villa San Martino, ad Arcore. Magnano, infatti, potrebbe giocare un ruolo decisivo. Il geometra di Berlusconi, oltre ad essere amministratore di diverse società immobiliari, è consulente della Idra, l´immobiliare di famiglia del premier, che ha presentato il progetto del nuovo villaggio alla giunta di centrodestra che governa Arcore. Spetta, però, alla Regione decidere le eventuali varianti alla valutazione ambientale dei piani territoriali. E quello del parco regionale Val di Lambro, presieduto dal ciellino Emiliano Ronzoni, è in netto contrasto con il progetto.
Per la famiglia del premier sarebbe una sorta di rivincita dopo il naufragio del progetto di trasformare in quartiere residenziale la Cascinazza, un´area protetta sulle sponde del Lambro a Monza, che nel frattempo è stata venduta da Paolo Berlusconi.
Si intrecciano sempre più quindi la partita dell´Expo con quella della nuova giunta del Pirellone. A pochi giorni dalla riunione tra i soci di Expo 2015 spa per cercare di trovare una posizione comune sull´eventuale acquisto delle aree dove si svolgerà la manifestazione, attualmente di proprietà di Fondazione Fiera e gruppo Cabassi, tutto sembra ancora in alto mare. Tanto che la Fondazione non inserirà l´argomento nell´ordine del giorno della riunione di lunedì. Nel frattempo, si rafforza sempre più l´ipotesi che Danilo Broggi, ex presidente di Confapi e attualmente ad di Consip, società per azioni del ministero dell´Economia, molto vicino sia alla Lega che a Paolo Berlusconi, venga nominato il 22 dall´assemblea dei soci di Expo direttore generale della società. Anche se nelle ultime ore circola anche un altro nome gradito al Pirellone. Quello di Antonio Giulio Rognoni, potentissimo direttore generale di Infrastrutture lombarde, la società che ha costruito in tempi record il Pirellone bis.
Lunedì 26 aprile, a quattro giorni dall´appuntamento al Bie a Parigi, la società Expo 2015 presenterà davanti a ministri e autorità il progetto definitivo della manifestazione all´auditorium del nuovo polo fieristico di Rho-Pero. Previsti gli interventi di Renzo Piano, Gualtiero Marchesi e di monsignor Erminio De Scalzi. L´amministratore delegato di Expo Lucio Stanca comunque è fiducioso. «Stiamo lavorando per avere la lettera di garanzia firmata da Berlusconi entro la prossima settimana - ha precisato ieri - anche sulle aree siamo alle battute finali». Ignora la questione del direttore generale («mi occupo di cose più importanti»). Mentre replica alle critiche di Pdl e Lega: «Ho un cda in cui sono rappresentate tutte le istituzioni e la coalizione che le sostiene. Le decisioni sono state prese sempre all´unanimità».
Perché il comune di Roma ha riunito archistar come Piano, Richard Meier, Calatrava e Fuksas (incluso Krier, escluso malgrado le sue proteste quel Salingaros che vuole costruire settant'anni dopo l'arco di Libera come porta dell'Eur...), all'Auditorium per parlare del futuro di Roma? In un presente predisposto al servilismo nei confronti del potere, abbiamo così perso l'abitudine al progetto da confondere i ruoli. Il futuro delle città non si può certo delegare al firmamento degli architetti. Questi possono dare forma a un'idea di città, che però nasce da scelte che sono di esclusiva pertinenza dei cittadini attraverso le forme della democrazia. Sempre che non si voglia confondere il Sindaco col Papa Re, chiamando a raccolta gli architetti del Principe. La debolezza di un'idea del futuro della città, com'è quella che si sta faticosamente assemblando dal Campidoglio tra Formula 1 all'Eur, Velodromi fatti saltare con la dinamite e una serie d'interventi ciascuno chiuso nel proprio recinto (questo hanno in comune Nuvola, Maxxi, Città dello Sport, Ara Pacis...) si riflette nell'architettura. L'architetto è come una spugna, assorbe quello che lo circonda: per questo la chiesa romana di Meier è superiore alla Teca dell'Ara Pacis, conosciuta dai tassisti come Museo Valentino, nella cui forma insicura l'esperto può ritrovare i tentennamenti capitolini. Non aiutano i dieci quesiti, a metà tra il burocratese e i cartigli dei Baci Perugina, proposti agli illustri invitati. Ecco svelato l'arcano! La riunione serviva da scenografia per annunciare che Richard Meier acconsente alla richiesta di modifiche alla teca dell'Ara Pacis, cancellando il muretto che si sovrappone alla visione delle facciate di San Rocco e San Girolamo.
Si può capire Alemanno, che le elezioni regionali hanno avvisato di una crisi nel rapporto con quell'elettorato che - un po' per caso un po' per protesta - lo ha spedito in Campidoglio... Appena eletto aveva dichiarato che avrebbe demolito l'Ara Pacis, ed adesso ha qualcosa per il piccone ... Si capisce meno il masochista Meier, che ha definito «stupenda» l'idea... Paolo Berdini ha messo in evidenza la ragione urbanistica - al di là delle dichiarazioni sul rapporto da recuperare tra Largo Augusto ed il Tevere, che certo non passa per poche decine di metri pedonalizzati - dei lavori annunciati. L'abbattimento del muretto distrae dalla realizzazione di un parcheggio sotterraneo, che dovrebbe sostituire quello abortito del Pincio, in una posizione inopportuna se non si vuole rinunciare per sempre a un Lungotevere dolce, passeggiata restituita ai pedoni e percorsa al più da un tram, assolutamente diverso dall'attuale arteria di scorrimento veloce. Questa stupenda demolizione rappresenta anche, se non un'offesa architettonica a Roma, qualcosa forse di peggio, un borbonico facite ammuina.
L'Ara Pacis di Meier in sé è poca cosa - e dunque non ha molto da perdere da un'alterazione (anche se questo non giustifica il cinico realismo che Meier ha dimostrato in quest'occasione). Non c'è però soltanto l'Ara Pacis in questo luogo: c'è il Mausoleo d'Augusto, costruito in relazione precisa con il Pantheon, e che ha generato (come sembrano dimostrare le più recenti ricostruzioni archeologiche della sua forma), il Mausoleo di Adriano. Una sorta di triangolo ideale: Castel Sant'Angelo, Pantheon, Augusteo, di grande importanza per comprendere il senso della città. Largo Augusto Imperatore fin dalla sua realizzazione si è rivelato uno dei luoghi più deboli della Roma del Novecento fascista, dove è tanto forte il sentimento della perdita di ciò che è stato demolito (il vecchio Auditorium della Corea, dove ha diretto Gustav Mahler all'inizio del '900), quanto metafisicamente pesante il nuovo. Qualcuno ricorderà Dov'è la libertà di Roberto Rossellini. Totò interpreta la parte di un barbiere di via dei Pontefici, condannato all'ergastolo per aver tagliato la gola all'amante della moglie, scarcerato per buona condotta dopo quasi trent'anni, e che non ritrova più la città in cui era cresciuto in questa gelida esibizione di travertino e colonne. Per restituire senso al luogo, bisogna lavorare sulle relazioni, sul gioco delle sovrapposizioni temporali, con leggerezza, altro che paranoia dei dettagli! E c'è una questione di principio, la difesa del diritto d'autore dell'architetto, cioè della sua libertà d'immaginazione, minacciata dall'arroganza di una politica debole che vuole sembrare forte. Alemanno ha già imposto a Renzo Piano la formula vetro e travertino per il mezzo grattacielo annunziato all'Eur. Non andrebbe incoraggiato a indossare improprie vesti neroniane. Ne può guadagnare il mediocre teatrino della politica, non certo il futuro della città. Rischio il conflitto d'interessi, facendo parte del gruppo Cellini che ha vinto il concorso per il nuovo assetto di Largo Augusto. Per ridare carattere a questo luogo, oggi sospeso tra capolinea degli autobus ed interventi irrisolti, sarebbe molto più importante dare inizio al cantiere per la sua realizzazione, che non segare muretti.
Iniziati i lavori del summit sull'architettura e l'urbanistica della capitale all'Auditorium con molti grandi esperti nazionali e internazionali.
''Il workshop è il primo passo verso l'attuazione e la revisione del nuovo Piano Regolatore Generale di Roma''. A dirlo il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, aprendo i lavori del summit sull'architettura e l'urbanistica che vede presenti all'Auditorium Parco della Musica molti grandi architetti nazionali e internazionali. All'esterno protesta dei presidenti del V e X municipio, rispettivamente Ivano Caradonna e Sandro Medici.
''Rispetto al Prg approvato dalle precedenti amministrazioni il nostro atteggiamento è duplice: da un lato difendiamo la definizione dei diritti ottenuta dopo una decennale trattativa tra i principali soggetti economici e imprenditoriali della città, ma soprattutto difendiamo l'intento redistributivo che esiste nel piano che può generare un risultato economico per la collettività di almeno 5 miliardi di euro. Questo valore redistributivo oggi è attaccato da sentenze del Tar che rimettono in discussione la quota di edificabilità riservata al comune e il contributo straordinario''. Alemanno parlando ancora di Meier, il giorno dopo il via libera della modifica del museo dell'Ara Pacis, ha infine detto che "con l'architetto americano potranno essere possibili nuove collaborazioni. Io vedo benissimo le opere di Meier nelle periferie perché hanno uno stile moderno in grado di dare valore artistico a zone periferiche".
A margine dei lavori l'architetto Massimiliano Fuksas ha parlato anche della sua famosa ' Nuvola': ''Sta bene ed è in ottima salute - ha detto Fuksas - La stiamo costruendo e tutto sarà concluso entro circa 2 anni da oggi, ad inizio 2012''. L'architetto ha spiegato che ''la teca è quasi finita, ora stiamo per partire con la struttura sospesa, la nuvola in senso stretto". Sulla lama, ovvero il mini grattacielo hotel, Fuksas ha aggiunto: ''Forse sorgerà anche prima del Centro congressi, le cose non stanno andando male''.
"Questa è una messa in scena. Dopo due anni di immobilismo, mentre la città peggiora sensibilmente nella sua funzionalità strutturale e si deteriora nelle condizioni sociali, non saranno queste due giornate di discussioni sull'urbanistica a rianimare un'amministrazione inconcludente", si concretizza in queste righe il senso della protesta messa in scena questa mattina all'entrata dall'Auditorium dai presidenti del V e X Municipio, Ivano Caradonna e Sandro Medici. I due presidenti hanno deciso di distribuire alcuni volantini per protestare per il loro mancato coinvolgimento. Non è mancato qualche attimo di tensione quando Medici e Caradonna, proprio mentre volantinavano, sono stati identificati dalle forze dell'ordine ed invitati ad allontanarsi. Dopo una discussione accesa, però, i due sono rimasti al loro posto concludendo la distribuzione della loro lettera aperta al sindaco.
"Non abbiamo atteggiamenti pregiudiziali nei confronti dei progetti della precedente amministrazione. Il problema più grosso non erano le idee ma il fatto che fossero progetti non finanziati". Lo ha detto stamani il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, stamani a margine del workshop internazionale sull'urbanistica in corso all'Auditorium. "Abbiamo fatto un grande sforzo di riprogrammazione per opere come la città dello sport di Tor Vergata e la Nuvola di Fuksas", ha aggiunto il primo cittadino che, sull'opera disegnata da Calatrava, ha precisato: "la città dello sport è un intervento molto pesante dal punto di vista economico, per cui mancano 400 milioni di euro all'appello. I lavori sono però iniziati e la completeremo rendendola funzionale al progetto olimpico". Quanto al Campidoglio 2, ovvero la ex Manifattura Tabacchi in zona Ostiense dove saranno spostati alcuni dipartimenti del Comune, Alemanno ha annunciato che "sarà indetta una nuova gara sia per la progettazione che per la realizzazione, senza costi diretti per l'amministrazione". Il sindaco ha infine parlato della Città della musica, "di cui stiamo verificando la possibilità di realizzazione accanto al progetto 'Fonopoli' di Renato Zero".
"Fonopoli potrebbe essere spostata in un'altra zona - ha aggiunto l'assessore all'Urbanistica Marco Corsini - Sarà, comunque, collocata dentro una centralità ed in una delle funzioni urbane, come quella ricreativo-musicale-culturale". "La decisione - ha precisato Corsini - non è ancora presa. Abbiamo iniziato un grande processo di riflessione globale e strategica all'interno della quale tutte queste questioni troveranno una definizione".
In relazione all'imminente trasferimento degli edifici militari dismessi dallo Stato al Comune di Roma, Alemanno ha spiegato che "nelle caserme di Prati, a via delle Milizia, possiamo pensare di creare una realtà direzionale vicina al centro storico, possiamo pensare di utilizzarle per creare una nuova Cittadella giudiziaria o farne un luogo dedicato agli artigiani, una sorta di Cittadella dell'artigianato". Ma in generale, secondo il sindaco, le caserme andrebbero demolite: "E' inutile tenere queste realtà definite su funzioni che non ci sono più - ha detto - Sono per la demolizione e per progetti che si muovono ex novo: ci dovremmo confrontare con la soprintendenza ma credo che bisogna lasciare spazio a interventi nuovi senza autocostringersi a una sorta di archeologia industriale che nel caso delle caserme non si può applicare".
Il sindaco ha ripercorso il tentativo, tra gli anni '60 e '70, di portare alcuni ministeri in periferia, tentativo fallito perchè molti ministri non accettavano di essere lontani dal centro storico. "Bisogna dare più spazio a uffici e ministeri che esistono e che sono addensati caoticamente nel centro storico: non si può pensare di prenderli e portarli in periferia ma si possono decentrare nella città storica", ha detto Alemanno, spiegando che il concetto di 'città storica' è riferito a tutta l'area che circonda il centro storico in senso stretto, comprendendo quartieri come Appio, Nomentano, Garbatella, Eur.
L'assenso di Richard Meier all'idea di abbattere il muro che delimita l'Ara Pacis è il peggior auspicio - purtroppo per il sindaco Alemanno - del consulto con le archistar sul futuro di Roma (Roma 2010-2020: nuovi modelli di trasformazione urbana, oggi e domani, Sala Petrassi, Auditorium). Dice il candido progettista che abbattere il muro è «un'idea superba». Ha lavorato per dieci anni al progetto. È l'autore del muro e oggi afferma che abbatterlo è un'idea stupenda. Se questi sono i medici chiamati al capezzale del malato, non c'è da stare allegri.
Chissà dov'era il grande architetto mentre la migliore cultura urbanistica discuteva con passione e competenza della necessità di guardare oltre al banale intervento di demolizione e ricostruzione della teca di Morpurgo che ricopriva l'Ara Pacis. Evidentemente, troppo preso dalla propria maestria, non si è accorto che Leonardo Benevolo, soltanto per fare il nome di maggior autorevolezza, era intervenuto decine di volte criticando alla radice l'intervento limitato al solo rifacimento di un edificio. Piazza Augusto imperatore aveva infatti subito durante il fascismo una serie così violenta di sventramenti che rimettere mano soltanto a un pezzo del mosaico sarebbe stato un errore imperdonabile che avrebbe generato un ulteriore peggioramento della qualità dei luoghi. E così è stato.
Sostiene ancora il grande architetto: «Non sapevo che il traffico del lungotevere potesse essere canalizzato sotto e che l'area si potesse pedonalizzare». Meier confessa dunque di ignorare che esistono proposte di radicale trasformazione dei lungotevere così da restituirli alla città. Sono anni che il grande urbanista Italo Insolera propone, inascoltato, che il lungotevere di sinistra venga pedonalizzato e destinato a esclusivo uso di una tramvia che dalla Piramide (nodo metro B e lido di Ostia) collegherebbe con il Flaminio (nodo metro A e ferrovia Roma nord), restituendo in questo semplice modo - a tutti i romani - una straordinaria passeggiata. Non sapeva e oggi benedice un'operazione costosa e inutile che causerà l'abbattimento degli storici platani e sarà ripagata con la creazione di un numero imprecisato di parcheggi privati. E, visto che siamo in tema, sarebbe il caso di avvertirlo che lì sotto ci sono i resti del porto di Ripetta. Forse a Las Vegas ci si può passare sopra, da noi ancora no, per fortuna.
È ancora felicissimo Meier perché l'abbattimento del muro «consentirà di vedere la chiesa di San Rocco». Davvero? Quando a dirlo era la migliore cultura storica non ascoltava evidentemente, perché è stato lui a costruire una orribile terrazza che sfregia per sempre la delicata facciata di quella chiesa. Altro che muro, è la terrazza che offende San Rocco.
Non è con la somma di tanti progetti o edifici griffati che si realizzano le città. I grandi architetti privilegiano le loro opere e il trionfo di cui godono in ogni parte d'Italia deriva proprio dalla volontà degli amministratori di ogni appartenenza politica di parlare d'altro, di nascondere dietro a nomi roboanti un vuoto di idee preoccupante. Meglio il colpo mediatico e tenere rigorosamente fuori della porta i numerosi comitati che, in questi anni, hanno dimostrato una visione complessiva della città. Il convegno all'Auditorium è infatti blindato alla partecipazione: uno strano modo di consultare la città imbavagliandola. È questo il limite culturale che preoccupa.
Con la notizia dell'abbattimento del muro, dunque, il sindaco Alemanno ha decretato il fallimento della medesima kermesse mediatica che ha organizzato. Ha reso evidente che non di architetti bravi ha bisogno Roma, ma di urbanisti. Le patologie della città sono di natura urbanistica, derivano da una eredità di feroci speculazioni e dal fallimento del «pianificar facendo» dei quindici anni del centrosinistra conclusosi con il peggiore piano urbanistico della storia della città, il piano del sacco di Roma.
La complessa vicenda dell'Ara Pacis dimostra che senza un'idea complessiva del futuro di Roma con i tanti progetti estemporanei che vanno dalla Formula 1 all'Eur alle isole artificiali davanti a Ostia, dal parco divertimenti della «Roma imperiale» alla candidatura alle Olimpiadi del 2020, non si va lontano: si va contro a un muro, anche se firmato da archistar. Le città sono un delicato equilibrio di luoghi pubblici e beni comuni che vanno trasformati con cautela e rigore ascoltando i suoi abitanti. E Roma ha invece bisogno di una sola opera, quella di essere ripensata sulla base delle reali esigenze delle desolate periferie.
E se qualcuno dei blasonati ospiti al simposio citato obietterà che «non ci sono i soldi» per risanare le periferie, qualcuno provi a sussurragli all'orecchio - nella lingua d'origine, naturalmente - che il sistema Protezione civile ha sperperato trecento milioni di euro soltanto per le inutili opere della Maddalena e a Roma ha erogato prestiti a tassi agevolati con il credito sportivo (che dunque paghiamo noi) a impianti sportivi privati prescelti solo perché specializzati in massaggi corporei a largo spettro. Non è vero che non ci sono i soldi per le nostre dolenti città. È vero, casomai, che spariscono prima.
Tuvixeddu bene pubblico, un grande entusiasmo civico si fa strada finalmente per un’idea di spazio condiviso. Ma chissà.
Lo ha spiegato Salvatore Settis il significato attualissimo di “pubblica utilità” del paesaggio, valore di lunghissimo corso: già negli statuti comunali, sancito da editti di camerlenghi e dalle leggi (delle destre) nella storia d'Italia. E' dalla parte delle comunità questo orientamento: sarebbe logico che prevalesse sempre, ma ci sono eccezioni, non ci vuole molto a scoprirlo. E a volte le eccezioni sembrano particolarmente estranee al buon senso.
Per questo appaiono sempre più strampalate, distanti da qualsiasi idea di città civile – come è Cagliari – le tesi alla base di quell' “accordo di programma” che subordinava la sorte di Tuvixeddu a interessi imprenditoriali. Nei più la convinzione di agire nell'interesse della comunità, qualcuno convinto di essere ascritto tra i benefattori, prima o poi.
Un malinteso di proporzioni inaudite, lo ha notato Settis. Una dannazione quel titolo, “accordo di programma”, riferito a quel luogo incorrotto per secoli. Ci voleva l'ostinazione degli uomini del nostro tempo, senza memoria: che si accordano per rimediare a quello stato di mesto isolamento. La città-merce si impossessi di ogni spazio libero! Si contengano le distanze di rispetto. Ma guarda un po': “fascia di rispetto” è espressione dell'urbanistica e richiama un sentimento alla base della convivenza. Rispetto appunto, come quello che si ha dei propri cari, dei maestri di vita, di principi e diritti, e pure di luoghi e monumenti.
Questa separatezza di Tuvixeddu confermata nei secoli è un valore. Ma del compassionevole reiterato ossequio verso un antichissimo cimitero certa caricaturale modernità se ne infischia. Tuvixeddu, d'altra parte, non è più un cimitero. Il lutto è stato abbondantemente elaborato avrà pensato il fautore dell' “accordo di programma”. Il paesaggio, che quell' altro accordo tra vivi e morti ha sancito per secoli, può essere stupidamente triturato in qualche anno. Non dice nulla che quell'area sia stata lasciata in pace fino a ieri?
I tempi nuovi, ci ha spiegato una sentenza, reclamano che ogni parte della città si conformi al ritmo prevalente, da ingranaggio macinatore alla Chaplin. Si consegni Tuvixeddu ai nuovi riti. Omogenizzare tutto nel frullatore delle urbanizzazioni, antiche tombe e palazzine e strade e canalizzazioni. Tutta mia la città. Eppure le pause nelle città non sono mai state inutili, avulse disarmonie. Sono nella sintassi urbana in quanto valori radicati, spesso intangibili (come gli 80 ettari del parco romano di Villa Borghese, i 40 del Valentino a Torino, i 110 delle Cascine di Firenze e così via). Come sarebbero quelle città senza i loro vuoti? Meglio così o abolire le pause, accerchiare i monumenti per metabolizzarli, tutto nel vortice del nuovo già vecchio che avanza?
Una maledizione che si riassume in quel curioso slogan negli ambienti dell'avanpoltica: “rivitalizzare la necropoli” (lo racconta Giorgio Todde). E' passata l'idea che una antica necropoli debba stare nella cerchia degli esseri viventi (!) adeguandosi alle regole del mercato, anzi conformandosi (ricordate l' avviso: il morto non afferri il vivo?) Passa facilmente, perché è nel cortocircuito di questa temperie. Tanta gente trascorre negli ipermercati le sue serate libere per combattere la noia delle vecchie strade. “Andiamo all'ipershop perché in centro è un mortorio”.
“Accordo di programma”: la sponda è nell' urbanistica contrattata per cui ti do una volumetria x e tu mi dai un'area y che in realtà si poteva/doveva acquisire, con un atto trasparente, al patrimonio pubblico moltissimo tempo fa. Pagando il dovuto, beninteso.
Così oltre la linea dell'ultima tomba accertata ( accertata?) si può fare. Si faccia, come dice pure l'organo di tutela. Una nuova fascia di rispetto mortificante, no grazie. E via libera alla serie edilizia vista sulla necropoli, anzi a contatto con la necropoli. L'interesse pubblico? Lo spiega l'agente immobiliare all'acquirente indeciso, “guardi che il fascino delle tombe sottocasa è qualcosa di unico”. Emozionante. Ed esclusivo, molto esclusivo secondo come organizzi gli accessi.
L'idea di parco archeologico rimpicciolisce di senso, assume le sembianze di giardinetto pubblico e insieme di pertinenza condominiale. “Jogging nel parco” – dice la réclame (sarà sembrato eccessivo dire “jogging tra le tombe”). Dalle terrazze ai piani alti si continua a vedere l'orizzonte splendido che sollevava gli addolorati parenti di Tizio e di Caio, quella vista che a terra troverà oggi impedimenti impietosi. A terra, dove la signora del terzo piano ha già immaginato di portare le bambine (Gavina di quattro anni, Katiuscia di sei) a giocare a nascondino perché quelle curiose cavità nella roccia sembrano fatte apposta. O saranno trincee per giochi militareschi di ragazzi. E' la poetica del riuso.
Gavina e Katiuscia adolescenti potranno esercitarsi sotto le guide amorevoli degli esperti a coltivare l'hobby dell'archeologia sottocasa, passione che certamente svilupperanno stando in cotanto posto. Un posto po' troppo arcigno però, e piatto. Brullo, disse il Tar. Una sensazione da alleviare specie nell'epicentro della necropoli.
Per questo hanno ben pensato di contraddire la monotonia di quelle fredde tombe, accomodare il loro misterioso disordine, rivitalizzare, sì rivitalizzare. Ed ecco le imponenti fioriere (non guasta un po' d'ombra per il visitatore che faticosamente arriva dal basso). Antidoti futuristi alla overdose di antico fenicio-punico e a quella malinconia che non se può più. Le fioriere circoscrivono non si capisce bene cosa (ma non importa) e si sovrappongono e si impongono ( questo si capisce) su quei tristi buchi nel calcare privi di vera forza scenica. Aiuterà, se sarà scelto con cura, il colore delle cascate di gerani.
Perfino il vigilante, all’ingresso, è cortese, di simpatia, e non s’atteggia a mastino del fortino. Prima dice che di notte, i rom, che abitano attorno nelle sconfinate fabbriche dismesse, la Maserati e l’Innocenti ormai scheletri di edera e ruggine, provano a intrufolarsi. Cercano pezzi di ferramenta, vetri, bancali per le baracchine. Poi, il vigilante, apre una cartelletta, tira fuori il primo foglio, «questo signore è un perito meccanico, di lunga esperienza, si è presentato qualche giorno fa. Anche lui ha perso il lavoro. È l’ultimo della lista».
Un altro curriculum, alla Innse. Ci sono state tre assunzioni, poi ci sono due ragazzi a tempo determinato.
Con due tonalità di grigio e una di giallo, è stato ridipinto l’interno dello stabilimento. Alcune macchine sono state ristrutturate, altre sono tornate in funzione. Max Merlo, uno dei quattro che salì sulla gru, dice: «Schiavi salariati eravamo, schiavi salariati siamo». Il padrone tale resta, ma se non sarà mai amico qui, forse, è un po’ meno nemico. Attilio Camozzi, il bresciano che ha rilevato la Innse, ha investito, ha in mente progetti (un impianto fotovoltaico sull’antico tetto dello stabilimento, maestoso, d’inizio secolo), ha preso commesse (dall’Ansaldo, daranno lavoro per settimane), e aspetta fine mese. A fine mese dovrebbe decidersi il futuro dell’area, che rimane di proprietà della società immobiliare Aedes. Qui gli interessi erano altri: edificare palazzi e servizi, e del resto il vicino nuovo quartiere di Rubattino è in crescita, si riempie di giovani coppie, spunta del nuovo verde, giardinetti, peccato per la vista-tangenziale e il centro lontanissimo.
«Non parliamo del futuro», invita il sciur Camozzi, gli piace il basso profilo, niente parole, solo lavoro. In giro si dice che l’Aedes non dovrebbe piantare ostacoli, costruirà tutt’intorno tranne che sul terreno della Innse, e poi ci sarà comunque il parere del Comune, e perché mai dovrebbe opporsi alla conservazione di una realtà produttiva, che funziona, che assume?
Il direttore dello stabilimento, il dottor Pietroboni, uno appassionato, ci conduce in visita. I torni, gli enormi macchinari, questo l’hanno fabbricato in America, quest’altro i tedeschi, e poi ecco la sala degli utensili, i trapani, i cassetti con le varie frese, gli spogliatoi (nuovi), la mensa (nuova), le gru, e altri macchinari, che trattano pezzi lunghi anche venti metri e pesanti decine di tonnellate.
Sono una quarantina, gli operai, su due turni: una trentina sul primo, dalle 6.30 alle 14.30 e gli altri sul secondo, dalle 14.30 alle 22.30. «Vede», dice Pietroboni, «almeno 150 lavoratori possono starci tranquillamente. Ci arriveremo? Un attimo. Noi dobbiamo procedere per gradi».
Sbuffano due operai, dicono che «lavoriamo soprattutto la ghisa, non il ferro, e la ghisa mette in circolo una polverina bastarda che ammazza il respiro, la gola, i polmoni». Uno tossisce. Chiede: «A che sta pensando? Che è meglio la ghisa della disoccupazione?».
Fuori, nel piazzale, stanno lavorando una ventina di dipendenti di aziende esterne, che a vario titolo fanno ristrutturazioni della facciata, del tetto, delle vetrate, insomma restyling, in grande. Oltre il piazzale, dopo la casupola del vigilante, dopo il cancello, c’è la massicciata con quella scritta, «giù le mani dall’Innse», e la fermata «Rubattino» della linea 87, che poi ferma in via Pitteri, la via dei Martinitt, in via Rombon, monte di battaglie nella Prima guerra mondiale, e al capolinea di Cascina Gobba, con il suo angolo dell’Est Europa, era un mercatino abusivo e sgarruppato, con gli anni è diventato una cittadella con security e chiesetta.
Allarme per la Domus Aurea crolla la volta di una galleria
Carlo Alberto Bucci, Massimo Lugli – 31 marzo 2010
ROMA - Un rumore sordo, un boato che ha squassato i giardini di Colle Oppio. E una valanga di terra è venuta giù di schianto nella galleria numero 15 del complesso della Domus Aurea, la principesca dimora voluta da Nerone e sovrastata dalle Terme della damnatio memoriae dell' imperatore incendiario voluta da Traiano. Tragedia sfiorata alle 9,29 di ieri mattina, perché il giardino degli anni Venti piantato sopra i resti antichi è aperto al pubblico e frequentato da una folla eterogenea che va dai clochard alle mamme con i bambini. Non basta: la galleria crollata (fa notare l' Associazione nazionale archeologi) era adibita a deposito di marmi antichi schedati dagli esperti e a laboratorio per gli studenti della Sapienza. Un episodio inquietante, spia del fragile stato di salute di molti gioielli architettonici di Roma: dalla domus tiberiana sul Palatino, agli acquedotti Claudio e Felice, alle Mura Aureliane, che ieri hanno registrato un ennesimo distacco di mattoni all' altezza dell' Arco di via Nola.
L' allarme è lanciato dal Fondo ambiente italiano: «Il crollo alla Domus Aurea sottolinea il gravissimo problema di mancanza di risorse e di personale» dichiara la presidente Ilaria Borletti. «In Italia - ricorda - la cifra destinata dallo Stato ai Beni Culturali corrisponde appena allo 0.28% del bilancio statale». Per il restauro della galleria crollata, elemento delle fondamenta addossate dagli architetti di Traiano a ciò che restava della dimora di Nerone, si parla di una spesa di 800mila euro. Non si sa da quale fondo verranno prelevati. Forse dai due milioni messi da parte per la salvaguardia del primo lotto della "Casa dorata" vera e propria, quella con la sala ottagona e le altre principesche sale le cui volte sono imbevute dell' acqua piovana che i giardinetti non drenano.
Lavori urgentissimi, tanto che nel 2006, un anno dopo la chiusura al pubblico per pericolo crolli, fu nominato un commissario straordinario, Luciano Marchetti. «C' è pericolo di altri crolli, anche immediati. E per mettere tutto in sicurezza ci servono circa 10 milioni - spiega l' ingegnere - ma sei lavori non sono ancora partiti dipende anche dal fatto che il Comune non ci ha ancora consegnato le aree sovrastanti». Al Campidoglio spetta la cura dei giardini, allo Stato quella della Domus che sta di sotto. E su quel limite di terra inzuppata d' acqua va avanti da anni il palleggio delle responsabilità sullo stato di incuria di questa meraviglia dell' arte romana. Quello di ieri mattina è il più grave smottamento, negli ultimi cinquant' anni, all' interno del complesso, un sito archeologico ad altissimo rischio. «Il problema è la natura stessa del terreno, che, anno dopo anno, si impregna d' acqua con le piogge e aumenta la pressione sulle volte - spiega l' architetto della Soprintendenza Antonello Vodret, responsabile del monumento - anche le radici degli alberi possono avere un ruolo nel rendere le gallerie più instabili». Le volte della galleria crollata sono pavimentate a mattoni e, spesso, ricoperte d' intonaco ma non sono abbellite - come quelle di Nerone - da alcun fregio, decorazione o mosaico.
L' altezza da terra è di circa 11 metri. La galleria numero 15 si inoltra per circa 100 metri quadrati di cui una sessantina sono stati interessati dal crollo. «Lo squarcio nel fianco del complesso - rivela Vodret - sta immettendo nel cuore della Domus un vento caldo che altera il microclima e mette a repentaglio la già precaria salute degli affreschi». I vigili del fuoco hanno messo in sicurezza l' area e sbarrato l' accesso ai giardini soprastanti, molto frequentati anche dai turisti che fanno una pausa sulle panchine dopo la visita al Colosseo. «Collaboreremo con la massima sollecitudine» ha assicurato il sindaco Gianni Alemanno durante un sopralluogo: «Più risorse arriveranno, anche dagli sponsor, e più l' intervento sarà ampio». Sul posto è arrivato ieri anche il ministro per i Beni Culturali, Sandro Bondi: «Sono preoccupato: abbiamo fondi ragguardevoli e questo episodio può indicare al governo che ci vuole un piano straordinario per salvaguardare il patrimonio storico del Paese - ha spiegato Bondi - soprattutto quello di Roma».
Domus Aurea, restauri in ritardo
Carlo Alberto Bucci – 31 marzo 2010
Al capezzale della Domus Aurea la ridda di dichiarazioni sui rimedi per questo grande malato dell' archeologia, ha cercato di attutire per tutto il giorno il tonfo che alle 9.29 di ieri ha mandato in polvere la volta di una delle gallerie traianee, seppellendo il sottostante deposito di antichità. Promesse di soldi, di interventi, di celerità nei lavori. Ma la questione centrale dei ritardi negli interventi di messa in sicurezza di ciò che resta della dimora di Nerone, e dei muri eretti da Traiano per farne la piattaforma delle sovrastanti Terme, rimane il palleggio delle competenze tra Stato e Campidoglio: il primo proprietario e responsabile dei resti; il secondo dei giardini messi come cappello sulla Domus durante il Ventennio. Da luglio scorso è pronto il progetto esecutivo per intervenire scoperchiando quei tre metri di terra che ricoprono ovunque i resti della dimora neroniana propriamente detta, chiusa al pubblico da quando nel dicembre del 2005 ci furono piccoli distacchi di intonaco dalle volte affrescate e imbevute ormai d' acqua piovana.
Ma il cantiere è ancora fermo. «I lavori non sono ancora partiti - ha dichiarato Luciano Marchetti, nel 2006 nominato dalla presidenza del Consiglio commissario straordinario per il monumento - a causa di qualche problema burocratico ma anche dal fatto che il Comune non ha ancora consegnato le aree sovrastanti, indispensabili al cantiere, poiché sulla Domus si deve intervenire dall' alto». Il progetto da mandare in gara prevedeva gli studi sulla salute dei muri, sul microclima ma soprattutto sulla ricca vegetazione che con le radici degli alberi minaccia le antiche vestigia. Ed ebbe il parere favorevole nel 2008 della giunta Veltroni. Il progetto esecutivo, prodotto dall' impresa vincitrice dell' appalto integrato, aspetta ancora l' ok del Campidoglio. Da ieri sera però, oltre alle transenne per tenere lontani i passanti dalla voragine - e dal pericolo «di nuovi crolli che potrebbero seguire anche nell' immediato», secondo l' opinione del commissario Marchetti e del neo soprintendente Giuseppe Proietti -, il Comune ha consegnato l' area, almeno quella del crollo. E i primi lavori possono partire.
In attesa che ci si decida a chiudere tutti i giardini al pubblico e a fare "lo scalpo" alla Domus. Sul colle Oppio ieri sono saliti il sindaco Alemanno, che ha promesso la ricerca «di uno sponsor»; l' assessore Croppi, che ha parlato del «bisogno di un monitoraggio costante»; il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, che ha rievocato i «32 milioni stanziati per intervenire»; il sottosegretario Francesco Giro, portatore di «due milioni subito, la stessa cifra prevista per il primo lotto di restauri»; più economico invece il sovrintendente comunale Umberto Broccoli, che ha parlato di «circa 800mila euro per il restauro». L' archeologo del Campidoglio riconduce alla vetustà dei resti la causa del crollo: «Né allarme né gravità, sono monumenti di 1900 anni fa. Non è la Domus Aurea ma una galleria delle Terme di Traiano». Annuncia fondi straordinari «per l' indispensabile manutenzione», da parte di tutte le istituzioni. E l' impermeabilizzazione dei resti? «Non si può impermeabilizzare tutto il terreno di Colle Oppio - ha detto Broccoli - perché l' isolamento totale creerebbe nuovi problemi»
Da Villa Adriana a Pompei tutti i capolavori a rischio
Carlo Alberto Bucci - 1° aprile 2010
I trecento metri quadrati di terra zuppa d´acqua che martedì mattina hanno schiantato la volta della galleria traianea della Domus Aurea non sono l´unico peso insostenibile sulla schiena spezzata del patrimonio italiano. Una mappa dell´archeologia a rischio crolli evidenzia una situazione grave nella Roma dei palazzi imperiali e degli acquedotti, sull´Appia antica come a villa Adriana, a Pompei, a villa Jovine a Capri, a piazza Armerina in Sicilia, fino in Puglia.
«Quello che è successo ieri alle Terme di Traiano temo che possa succedere anche a Villa Adriana a Tivoli. Lì il pericolo è ancora maggiore» ha detto ieri il presidente del consiglio superiore dei Beni culturali Andrea Carandini presentando la mostra "Villa Adriana. Una storia mai finita". Più cauta la padrona di casa, la soprintendente del Lazio Marina Sapelli Ragni: «Rischi immediati di infiltrazioni non ce ne sono, però è vero che abbiamo muri alti anche 20 metri e che dobbiamo tenere sotto controllo la vegetazione rigogliosa. Attenzione e preoccupazione sono costanti». I fondi per la manutenzione ordinaria dei 30 edifici e degli 80 ettari sono una bazzecola: 900mila euro l´anno mentre prima del Giubileo del 2000 in quattro anni ebbero 44 miliardi di lire.
Il commissario per l´archeologia di Roma, Roberto Cecchi, ha lanciato il piano di "manutenzione programmata" che prevede interventi minimi e costanti, controllo capillare per evitare che si arrivi al restauro. E il commissario della Domus Aurea Luciano Marchetti ha scoperto ieri che i pozzetti di scolo dei giardini sopra la zona del crollo non erano stati mai svuotati: ma il verde di Colle Oppio spetta al Comune.
Racconta Beatrice Basile, che guida la Soprintendenza di Enna: «Alla villa romana del Casale a Piazza Armerina il degrado è stato fortissimo per anni e anni. Sarebbe bastato curare meglio i resti per evitare di spendere tanto nel restauro. Per la manutenzione di tutto l´Ennese avevamo 150mila euro l´anno. Fino al 2009. Ora? Nulla». Stessa cifra, «zero euro», avuta da Rita Cosentino, direttrice delle 1000 tombe etrusche di Cerveteri (40 le visitabili): «Le piogge hanno messo a rischio i tumuli in tufo. Abbiamo tenuto pulito il sito, ma grazie a dipendenti e volontari. Meno male che ora arrivano 250 mila euro di Arcus».
Già, Arcus. La società interministeriale è stata più munifica con le terme patavine di Montegrotto: 3,5 milioni negli ultimi anni per un piccolo, certo importante, sito non particolarmente a rischio. Ma lì a scavare c´è l´archeologa Elena Ghedini, sorella dell´avvocato del premier e membro del consiglio superiore Beni culturali. A Canosa gli ipogei ellenistici, come quello de Lagrasta o del Cerbero, hanno bisogno di cure continue. Ma per la manutenzione di tutta la Puglia la Soprintendenza archeologica guidata da Teresa Cinquantaquattro ha meno di 200mila euro. Quanto arriva a Canosa? «Poco o nulla». Ricchissima perché autonoma, ma con una marea di case, affreschi e templi da curare, è la Soprintendenza speciale di Pompei. Ieri il commissario Marcello Fiori ha presentato uno stanziamento di 39 milioni di euro. «Il 90 per cento andranno in restauri» assicura il direttore generale per l´Archeologia, Stefano De Caro. Che sottolinea: «A Ercolano abbiamo fatto scuola per la manutenzione. La programmazione è la nuova frontiera della tutela».
Domus Aurea: un crollo annunciato
Corrado Augias – 2 aprile 2010
Caro Augias, la Bbc, che ha quasi snobbato le vicende elettorali italiane, ha invece dedicato ampio spazio al crollo della Domus Aurea. Questo inestimabile patrimonio storico è stato esaltato in tutta la sua bellezza; seguiva una domanda implicita: come è stato possibile? Non sono un esperto ma scommetto che altri paesi farebbero carte false per avere un decimo della nostra ricchezza artistica.
Marco Lombardi lombardimarco77@libero.it
Caro Augias, che pensa di ciò che sta capitando al patrimonio archeologico? Non mi riferisco solo al crollo della galleria nella Domus Aurea per altro evitabile, ma a tutte le antichità classiche di Roma. L'anfiteatro Flavio, i Fori, le mura Aureliane, gli acquedotti... E il Palatino? Il cryptoportico Neroniano versa in condizioni indecenti. E la casa di Augusto? E quella di Livia?
Alessandro Cerioli Bellagio (CO) silla81@hotmail.it
Il problema segnalato è da un lato politico perché riguarda le iniziative, ma aggiungerei la premura e potrei dire l'ansia, che il ministro e il suo staff vorranno dedicare al patrimonio del Paese tra una riunione di partito e l'altra. Uguale rimprovero, tanto per pareggiare il messaggio, meritò il ministro Fabio Mussi quand'era alla Pubblica istruzione. Poi c'è l'aspetto tecnico e qui aiuta a capire la situazione una lettera del prof Salvatore Settis, archeologo e rettore della Normale di Pisa. Settis ricorda che alcuni anni fa il prof Giorgio Macchi, insigne strutturista, aveva previsto, in un documento presentato al Ministero, il crollo delle volte traianee, perché caricare tonnellate di terra sui resti della Domus, quando continua l'infiltrazione di acque resta la soluzione peggiore.
L'illusione di poter impermeabilizzare sotto metri di terra non può migliorare a lungo lo stato delle volte. Invece, pare che l'impresa abbia cominciato a scavare il giardino proprio a questo fine. Se poi si riverserà sulle volte un sovraccarico di terreno che, con i resti traianei, raggiungerà 7,3 tonnellate al metro quadrato, il risultato sarà un disastro epocale. Settis conclude così: «Macchi aveva invece suggerito, in modo (a mio avviso) molto appropriato, di togliere totalmente il giardino sovrastante e realizzare un accesso dall'alto, mostrando anche quanto trovato del secondo livello in scavi che poi vennero risepolti». Non ho commenti da fare salvo quello di segnalare la competenza del prof Settis a fronte di tante vacue pretese di 'valorizzazione commerciale' del nostro patrimonio.
Napoli, siamo nel bookshop del museo della Certosa di San Martino, gestito in concessione da Electa-Mondadori. La legge prevede che la libreria (concessionaria) debba vendere almeno il 50% di titoli di altri editori; ma qui non è così.
I libri riconducibili alla Mondadori saranno, a occhio, oltre l’80% del materiale in mostra. Alla ricerca di spiegazioni, le sorridenti impiegate del bookshop oppongono un mutismo quasi omertoso. Non sanno niente; fa tutto Mondadori, quando vengono i suoi uomini ad allestire le esposizioni.
Le impiegate non conoscono il nome di alcun responsabile; possono solo darmi il numero di un centralino che, in seguito, non mi risponderà o non saprà dirmi nulla. Ma come vengono gestiti i beni culturali, oggi, in Italia, e chi controlla i concessionari?
Dalla legge Ronchey del ’93, infatti, si è fatto largo un nuovo approccio manageriale alla gestione della cultura che ha previsto, in primis, l’ingresso dei privati nel settore e, anche, l’istituzione di “società pubbliche” che organizzassero il settore con l’efficienza dei privati.
L’ultimo step di questa rivoluzione copernicana è il “federalismo del patrimonio”, grazie al quale gli ex beni pubblici dello Stato vengono gestiti con gli strumenti privatistici della “programmazione negoziata” da privati e Regioni. Ma, alle “rivoluzioni”, possono seguire le restaurazioni.
Secondo l’ultima relazione dell’Antitrust del presidente Antonio Catricalà, il nuovo mercato istituito dal legislatore ha fallito miseramente: c’è una collusione fra privati e società pubbliche che non ha apportato benefici in termini di efficienza, e si delineano le distorsioni tipiche degli oligopoli.
«Otto società concessionarie gestiscono in Italia il 90% dei servizi - sostiene la relazione di Catricalà - una è addirittura presente in 24 musei con ricavi che si avvicinano al 24% del totale».
«Il 30% delle concessioni è riferibile a un unico gruppo imprenditoriale», secondo il Libro Bianco di Confindustria.
Il primo gruppo è proprio l’Electa Mondadori, di Marina Berlusconi; l’altro soggetto dominante è la Pierreci, del gruppo Legacoop. Il mercato, quindi, sarebbe stato spartito con logiche bipartisan. Terzo incomodo è Civita, un’associazione partecipata da privati ed enti pubblici che nel suo stesso organigramma sembra rispondere a logiche di spartizione consensuale. Di Civita, non a caso, fanno parte (a vario titolo e fra i tanti) Province, Casse di risparmio, gruppi come Impregilo, Cremonini, Acea di Caltagirone, Berlusconi, (tramite Mediaset, Medusa e Banca Mediolanum), Telecom, Rcs, gli armatori Paolo e Cesare d’Amico e finanche Anas e Fs; nell’organigramma figurano il sottosegretario Gianni Letta, l’ex ministro del governo Prodi Antonio Maccanico, Albino Ruberti, figlio dell’ex ministro socialista Antonio, e il presidente di Bnl Luigi Abete.
La relazione dell’Antitrust dipinge un caso di privatizzazioni senza liberalizzazioni. Pochi privati che si spartiscono la torta con lo Stato che, invece di fare il regolatore esterno, gioca la partita sotto varie vesti: con spa appositamente create, come nel caso Scabec, la società campana dei beni culturali; partecipando ad associazioni, come Civita; attraverso società municipali, come nel caso Zetema, che gestisce 12 musei capitolini, di proprietà del Comune di Roma e con Albino Ruberti, di Civita, come amministratore delegato.
Tanti giri di valzer, dove imprenditori e amministratori pubblici ballano tutti insieme, cambiando partner a ogni nuovo ballo. Quello che, con linguaggio tecnico, si chiama cross-directorship. Proprio l’Antitrust, infatti, rileva che, in Italia, si creano continuamente situazioni “di monopolio o di ingiustificato vantaggio competitivo a favore di imprese che, grazie alla proprietà pubblica delle stesse potrebbero essere avvantaggiate nell’assegnazione dei servizi aggiuntivi in musei e siti anch’essi di proprietà pubblica”.
La creazione di società miste, infatti, è l’escamotage attraverso il quale si cooptano i privati e si procede ad affidare i servizi senza bandire alcun pubblico incanto, il solo strumento in grado di confrontare offerte e produrre l’abbassamento dei costi. La giustificazione è che un dato Ente appalta a se stesso un certo lavoro pubblico. è proprio il caso, documentato dall’Antitrust, della Scabec, o della Zetema, sulla quale si espresse negativamente il Tar del Lazio, nel 2006, proprio con riferimento ad un ricorso in seguito ad un affidamento diretto. Il caso campano della Scabec, d’altronde, è eloquente e potrebbe spiegarci perché la Regione non controlli l’effettiva organizzazione del bookshop Electa. Regione ed Electa, infatti, non sono regolatore e regolato, ma soci della stessa Scabec dove, oltre al 51% di proprietà della Regione, figurano la stessa Electa e la Pierreci.
Quando Electa e Pierreci non occupano “il mercato” tramite Scabec - allorquando, cioè, lo Stato non appalta direttamente (anche) a se stesso la gara - comunque vincono il bando sotto forma di Ati (associazione temporanea d’imprese): Electa, Pierreci e Civita lavorano insieme nei principali musei campani, come Capodimonte, San Martino, Sant’Elmo e l’Archeologico di Napoli.
Non a caso, due anni fa, il presidente Napolitano inaugurò personalmente il Museo Archeologico dei Campi Flegrei presso il castello di Baia, insieme a Bassolino. Quel museo sarebbe dovuto essere il fiore all’occhiello della gestione Scabec-Regione Campania, a seguito dell’accordo di programma firmato pochi mesi prima da Bassolino e Bondi.
Oggi, a distanza di due anni, verifichiamo personalmente la situazione: cinquanta stanze su cinquantadue sono chiuse, nel castello fa freddo perché non c’è l’allaccio elettrico e non c’è un piano di sicurezza omologato.
Inoltre, non c’è personale sufficiente per tenere aperte anche le terme di Baia. Ma perché lo Stato, dopo aver “liberalizzato” i mercati, esce dalla porta e vi rientra dalla finestra attraverso le spa? Le Spa statali rappresentano un’occasione di spesa che può servire a consolidare il potere del politico di turno, al di fuori dei controlli ai quali sono sottoposti gli organismi di diritto pubblico.
Nelle spa pubbliche si fanno infornate di assunzioni senza concorso, per gli amici degli amici e, qualora il meccanismo delle assunzioni sia esplicitamente bloccato dalla legge costitutiva della società - il meccanismo delle consulenze è assolutamente incontrollabile.
I beni culturali, oggi, versano in una condizione di “fallimento del mercato” e di cronico conflitto d’interessi. A peggiorare la situazione è intervenuta, dal 2008, la nomina del governo a Direttore generale dei musei italiani del Cavalier Mario Resca, ancora attualmente legato, a vario titolo, ad aziende in conflitto d’interesse con la sua carica pubblica, come Eni, McDonald’s, Fiat e, ancora una volta, Mondadori, per la quale è consigliere. E se il mercato non funziona e si determinano delle situazione dominanti, dove forti gruppi vincono tutto, per consolidare questi privilegi c’è sempre il trucco delle “proroghe infinite”. In Italia, ci sono attualmente circa cinquanta proroghe delle concessioni, e poco importa che le Authority abbiano precedentemente consigliato alle amministrazioni di riscrivere i contratti, al fine di far realmente funzionare il mercato. Nonostante la legge comunitaria 2004 (la 62/2005), recependo le direttive Ue, abbia chiaramente negato l’istituto della proroga automatica. Ecco che mala gestione e spregio delle regole la fanno da padroni.
Circola in rete un brano di Minima Moralia di Adorno. «La bugia ha il suono della verità, e la verità il suono della bugia. La verità - che vorrebbe ribellarsi - non reca solo il marchio dell'inverosimile, ma è altresì troppo debole, troppo povera per potersi affermare». Sicuramente giusto, ma anche espressione di uno stato d'animo, che a me ricorda «Sulle scogliere di marmo» di Ernst Junger, l'élite assediata dalla plebe. Il narcisismo della rassegnazione è il peggiore. Bisogna sfidare la fidelizzazione pro Berlusconi operata dai Tg Rainvest, rientrando dentro la politica, spiegando le conseguenze dell'amore proclamato.
La parte del programma di Emma Bonino per il Lazio forse più debole è (purtroppo) quella per la cultura. Poiché penso sia centrale - in generale e soprattutto nel Lazio - vorrei provare a migliorarla, impegnandomi fin da ora a collaborare alla sua realizzazione. Bisogna partire da un'intenzione chiara che la riassuma. Roma non è mai riuscita ad affermarsi come capitale effettiva d'Italia. «Capitale corrotta nazione infetta», o «Il Marziano a Roma» o «La Dolce vita» piuttosto. In che modo Roma può finalmente assumere questo ruolo (sarebbe necessario contro il vento leghista)? Già Quintino Sella parlava di Università principalissima. La capitale dovrebbe essere il valore aggiunto fondamentale per la cultura del paese. Questo significa tutt'altro che unificarla, piuttosto bisogna promuovere la diversità e il conflitto delle opinioni dentro la Costituzione.
Oggi l'Italia, al contrario, è spaccata tra senso comune orientato dalla tv controllata da Berlusconi e la strisciante depressione sgomenta delle élite culturali che scoprono la perdita di autorevolezza. Roma ha oggi tre Università pubbliche e numerose private; è la sede del Cnr; di un'azienda fondamentale per la formazione culturale italiana come la Rai. Se questa ricchezza oggettiva facesse sistema con il resto del Lazio (e, perché no, con le regioni confinanti, come l'Abruzzo e l'Umbria). E soprattutto con la Campania; penso al possibile passaggio di Bagnoli dall'Italsider all'industria dell'audiovisivo, ad un terzo polo televisivo...).
Condizione fondamentale è l'autonomia, dallo stesso potere politico, delle istituzioni culturali (Teatro di Roma, Teatro dell'Opera, Auditorium, Festa del Cinema, Sistema Bibliotecario, Azienda Palaexpò, Macro, Maxxi, Rai, editoria, etc.). La cultura, settore ad alta intensità di occupazione e insieme segmento alto, immateriale per definizione, della domanda di servizi, legato a questioni fondamentali come lo spazio pubblico e la governance delle grandi città, all'integrazione ed all'uguaglianza dei diritti degli immigrati, della formazione e dell'innovazione, può dimostrare, come e anche più di una diversa gestione della sanità pubblica, i vantaggi una democrazia fondata sulla separazione dei poteri, rispetto al presidenzialismo. Si tratta di due culture diverse: una che persegue il controllo e la fusione (Rainvest, basta quest'esempio), la chiusura dei piccoli e la censura; l'altra che ritiene essenziale essere sempre sottoposta alla libera critica di tutti. Se considerassimo cinema, tv, teatro, libri, audiovisivi, rete, università, centri di ricerca come le tante parti di un unico progetto nel segno della produzione di immaginario, esteso fino ai musei, ai musei aperti che sono le città del Lazio - tutte, per ragioni diverse, fino alle città di bonifica del fascismo, città d'arte; all'altro, il grande museo aperto che è il territorio; ai paesaggi del Lazio (coinvolgendo altre figure professionali come gli architetti, gli storici, i paesaggisti, i sociologi, gli urbanisti, nuove forme di comunicazione come i flash mob o il teatro di paesaggio), che grande possibilità di sviluppo avrebbe il Lazio! Quanti nuovi posti di lavoro, così, si potrebbero creare!
Questo sogno -come i sogni di tanti altri che seguitano a credere che politica e cultura siano due facce dello stesso progetto - passa per il voto di domenica e lunedì di Emma Bonino, che ha la bella faccia di una che almeno ti sta a sentire. Forse non lo sa, ma l'ascolto è il requisito fondamentale della democrazia, secondo Sofocle dell'Edipo a Colono. Mi fido davvero; e mi auguro che a fidarci saremo la maggioranza.
Uno scempio ambientale nel cuore del Parco naturale del Sile, istituito dalla Regione Veneto vent’anni fa su un territorio di oltre quattromila ettari a cavallo delle province di Padova, Treviso e Venezia? La denuncia, partita dall’associazione Un’altra Treviso, è stata raccolta dai sei deputati radicali che ne hanno fatto oggetto di una interrogazione alla ministra dell’Ambiente Prestigiacomo sottolineando che è la seconda volta che si tenta di trasformare l’area degli ex mulini Mandelli in un complesso di edifici residenziali (condomini e villette) e ricavando nella circostante zona verde un giardino per i nuovi abitanti. Che cosa è il Parco del Sile? Nel sito del parco si sottolinea che “il clima mite dell’area, la navigabilità delle acqua, la vicinanza con il mare, la copiosità di risorgive e la ricchezza boschiva del territorio”, senza contare i “numerosi reperti di una importante cultura palafitticola”, fanno del parco stesso la mèta di tanti visitatori ai centri visita per la scelta degli itinerari, per l’educazione ambientale, per recarsi nei punti di maggiore interesse ambientale e faunistico.
Ebbene, invece di “proteggere, salvaguardare, valorizzare, mantenere e tutelare il suolo e il sottosuolo, la flora e la fauna del Sile” (scopo dichiarato nella legge istitutiva), l’Ente Parco avvia “progetti di recupero” che in realtà sono piani di edificazione veri e propri: il caso degli ex mulini Mandelli ne è la prova. Sottolinea ancora l’associazione Un’altra Treviso: «Siamo indignati nel constatare che ad avviare l’iter per la cementificazione delle rive del Sile non siano state le richieste dei costruttori ma lo stesso Ente Parco attraverso lo strumento della variante al piano ambientale che a tutto dovrebbe servire meno che a portare a nuove edificazioni lungo le sponde del fiume». Ma il bello è che, come si è accennato, quello in corso è il secondo tentativo di fare degli ex mulini il trampolino per scempiare proprio le rive dello fiume. Già allora, quattro anni fa, si sostenne trattarsi di un “progetto di recupero”.
Ma allora si era fatto di peggio: nella richiesta avanzata dall’Ente Parco alla regione Veneto – è scritto nell’interrogazione – si affermò che il percorso tecnico-amministrativo era stato “individuato di concerto con il Comune di Treviso”. Tuttavia l’assessore all’urbanistica Marton e il presidente della commissione urbanistica Zampese hanno sostenuto che l’amministrazione comunale non sapeva nulla del progetto. Eppure in quel tentativo la giunta di Treviso dimostrò zelo e solerzia degni di miglior causa: la richiesta dell’Ente Parco, infatti, era stata protocollata in municipio il 10 agosto 2006 e inoltrata allaregione appena una settimana dopo, proprio sotto ferragosto! E allora due domande dei parlamentari alla ministra Stefania Prestigiacomo: di quali elementi dispone il suo dicastero? E quali iniziative intende assumere anche in considerazione della presenza, in prossimità dell’area del Parco naturale del Sile, di siti di interesse comunitario e di zone di protezione speciale?
Una telefonata al 1515, da parte di numerosi cittadini allarmati, il sopralluogo della Guardia Forestale, guidata dal comandante provinciale Vincenzo Stabile, il sequestro dell’area e la denuncia alla Procura del responsabile del procedimento. Ieri è stata una giornata da dimenticare per Bagnolifutura, la società di trasformazione urbana partecipata dal Comune di Napoli, dalla Provincia e dalla Regione e incaricata della bonifica dell’area ex Italsider. In via Cocchia gli uomini della Forestale hanno constatato che erano stati già tagliati 250 alberi trentennali - pini domestici, pini d’Aleppo ed eucalipti - per un’area di disboscamento pari a 7500 metri quadri. «I funzionari di Bagnolifutura», dice il capitano Stabile, «non sono stati in grado di esibire alcuna autorizzazione. Avrebbero dovuto chiederla alla Soprintendenza, come prevede la legge 42 del 2004».
Le prime segnalazioni su quel che stava accadendo in via Cocchia risalgono al 18 marzo. Vincenzo Bellopede, consigliere della Municipalità per i Comunisti italiani, aveva scattato anche una foto. «Tutto in regola», aveva detto all’epoca e ripete oggi Bagnolifutura. «L’area in oggetto— sostiene— è destinata dal Piano Urbanistico non a verde ma ad edificazioni. E’ stata venduta al Consorzio costituito da Camera di Commercio e Centro di competenza Amra che ivi costruiranno il Polo Tecnologico dell’Ambiente».
Aggiunge: «Nell'area di Bagnoli sono già sorti circa 30 ettari di Parco dello Sport nei quali vi è un’estesa diffusione di piante e verde pubblico e proprio negli ultimi giorni è stato dato il via alla gara per la progettazione esecutiva, realizzazione e gestione per i primi tre anni del primo lotto di un Parco Urbano che, solo per quanto riguarda l'area di proprietà di Bagnolifutura, avrà un’estensione di 120 ettari». Inoltre,«l'area nella quale si è proceduto all'abbattimento dei pini è stata recentemente interessata da carotaggi e attività di bonifica comprendenti anche movimentazioni di mezzi pesanti che hanno inevitabilmente creato a molti di questi alberi seri problemi, anche di sicurezza. Pertanto si è deciso di intervenire rapidamente a tutela della pubblica incolumità». Troppo rapidamente, verrebbe da dire alla luce del sequestro operato ieri dalla Forestale.
Una figuraccia che si sarebbe dovuta evitare, quella di una società pubblica, dove il rispetto delle regole dovrebbe essere Vangelo, pescata ad abbattere in clandestinità 250 alberi come il peggiore dei costruttori abusivi. Tanta fretta si spiega— secondo indiscrezioni interne alla società— con la richiesta da parte dell’acquirente dei suoli di disporre quanto prima dell’area senza quei pini che intralciavano il costruendo Polo Tecnologico e dell’Ambiente.
Il passo avanti è qualche ora indietro: lo sversamento iniziò, hanno scoperto i carabinieri, alle 2.30 e non, come si pensava in una prima fase, tra le 3.30 e le 5. Certa la data (la notte tra lunedì 22 e martedì 23 febbraio), certo il luogo (l’ex azienda petrolifera, oggi deposito di idrocarburi, «Lombarda Petroli», a Villasanta, in provincia di Monza), e adesso certa anche la collocazione temporale, per il resto, delle tonnellate di olio combustibile e gasolio un mese fa finite nel Lambro e nel Po rimane da scoprire quasi tutto.
Il ministero dell’Ambiente deve ancora emanare l’ordinanza sul post-disastro ecologico, che porterebbe una dote iniziale di 12 milioni di euro e farebbe scattare, con la nomina di un commissario, un piano d’azione generale di bonifica, risarcimento per enti e ditte fin qui intervenute, e monitoraggio su pesci, uccelli, piante.
I controlli
Le stime parlano di 1.800 tonnellate di gasolio e 800 di olio combustibile cadute nei due fiumi. Delle 2.600 tonnellate, ne risultano recuperate 2.200, acquisite da raffinerie per il riutilizzo. L’enorme quantità di idrocarburi è stata fatta volontariamente fuoriuscire dalle cisterne della Lombarda Petroli, che, dopo due controlli dell’Arpa (l’azienda regionale protezione ambiente) l’8 e il 30 gennaio del 2009, nei dodici mesi successivi non è più stata visionata. I controlli spettavano all’Asl, l’Azienda sanitaria che dipende dalla Regione.
Il capo del personale
Le cisterne sono state aperte. Da chi? Un operaio? Per quale motivo? Vendetta? La Lombarda Petroli è un’azienda in progressiva dismissione. Occupa una vasta area obiettivo immobiliare degli Addamiano, noto gruppo di costruttori che nell’area e negli immediati dintorni vuole edificare una cittadella con case e negozi chiamata Ecocity. Alla Lombarda Petroli sono rimasti dieci operai, cinque dei quali in mobilità. Dicono che il direttore generale, in più ideatore del progetto di una centrale termica sempre sull’area dell’ex ditta petrolifera, è molto temuto dai dipendenti, o forse è a loro molto inviso; i rapporti sono conflittuali.
La Lombarda Petroli è sotto sequestro. È in corso la bonifica, vi partecipano gli stessi operai. I Tagliabue, i proprietari, gli «Onassis della Brianza», tacciono. Giuseppe, l’amministratore delegato, è l’unico indagato, dalla Procura di Monza, per aver violato la direttiva Seveso, che regolamenta i doveri delle aziende con oltre 2.500 tonnellate di idrocarburi. La Lombarda Petroli, con note al ministero dell’Ambiente nel gennaio 2009, ha dichiarato l’uscita dalla direttiva Seveso. Mentendo. «Sotto la direttiva», sottolinea Legambiente, «in Lombardia restano 287 aziende. A rischio: i controlli sono inadeguati».
Specie a rischio
Pierluigi Viaroli insegna Ecologia all’università di Parma. Invita a considerare come, in quei giorni, Lambro e Po erano gonfi d’acqua, e potrebbero esserci state esondazioni con idrocarburi depositatisi sugli argini. Nei campi, in questi giorni, le rane di Lataste (specie inserita nella lista degli animali a rischio) stanno deponendo le uova. Le rane sono una specie tipica dell’area del Po, è il loro mondo. Potrebbero trovarsi a procreare in aree contaminate. Dice Andrea Agapito, responsabile acque del Wwf, che «serve l’individuazione di alcune specie "bersaglio" per valutare come le sostanze inquinanti sono entrate nella catena alimentare».
I ritardi
«Siamo le vittime» ripetono dal Gruppo Addamiano. Un loro progetto immobiliare, a Desio, fuori Milano, sta subendo forti rallentamenti. Colpa della crisi, dello stallo del mercato immobiliare. Non girano soldi. La Addamiano Costruzioni, la società «storica» del Gruppo, provvede alla realizzazione degli appalti. Nell’ultimo bilancio che abbiamo potuto leggere (31 dicembre 2008), c’erano un patrimonio netto di 10.963.772 euro e debiti quasi tre volte tanti: 28 milioni di euro. Prima dei conti economici, i carabinieri vogliono capire i ritardi dei soccorsi e le responsabilità (altri indagati in arrivo?). Torniamo infatti al 23 febbraio. Alle 8.30 (sei ore dopo lo sversamento di olio e gasolio) i tecnici del depuratore San Rocco (gestito da Brianzacque) si accorgono di un’anomalia negli impianti, per la presenza di idrocarburi.
Alle 8.53 l’Arpa avvisa la Provincia di Monza che a sua volta attiva il gruppo sommozzatori della Protezione civile di Milano. Alle 10.25 la Protezione civile lombarda viene avvisata dello sversamento di idrocarburi nel depuratore San Rocco. Le 10.25: otto ore dopo. La dichiarazione della Regione dello stato d’emergenza, che prevede una mobilitazione diversa, più massiccia in uomini e mezzi della Protezione civile, con operatori professionisti anziché pensionati volontari, arriverà soltanto l’indomani mattina. Cioè più di un giorno dopo le 2.30 di quella notte.
«Come è diventata questa nostra Milano? Triste. Molto triste. Infelice. Camminando per strada, mi sono messa a guardare le facce della gente. Erano tutti di cattivo umore. Molti parlavano al cellulare. Avevano l´espressione del viso tirata. È la Milano del grande mercato delle volumetrie». Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente onorario del Fai, il Fondo per l´ambiente italiano, denuncia la sua grande preoccupazione per il futuro della città, parlando dritto al cuore dei milanesi. Lo fa ricordando la Milano scomparsa, quella della borghesia di una volta, capace di grandi opere pubbliche e impegno civile. Mentre oggi ci si preoccupa solo di soddisfare gli appetiti del mercato e gli interessi dei grandi speculatori.
A dibattere del nuovo Pgt, il Piano di governo del territorio, ieri sera, nei saloni del Fai di Villa Necchi Campiglio, il circolo milanese di Libertà e Giustizia ha chiamato urbanisti, architetti, economisti e avvocati appassionati di difesa del paesaggio. Tutti terrorizzati da un piano che, come ha sintetizzato meglio di ogni altro l´architetto Luca Beltrami Gadola, è «uno dei peggiori che si potesse immaginare».
«La verità è che nessuno ha ancora capito, dietro alla grande quantità di numeri e di dati che riempiono la montagna di pagine del Piano di governo del territorio, quale idea di città si nasconda - spiega Stefano Pareglio, docente di Economia ambientale alla Cattolica ed esponente di Libertà e Giustizia. - Non è disegnato un profilo esplicito del futuro di Milano. Vengono indicate tante cose che possono succedere. Ma non si sa bene quale sarà l´esito finale e neppure quali saranno i passaggi intermedi».
Mentre l´avvocato Ezio Antonini, uno dei garanti del Fai, ha definito il Pgt di Milano niente altro che «lo strumento operativo di una grande commissione di affari»: «Ormai i consiglieri della maggioranza di Palazzo Marino non rappresentano più la comunità dei cittadini milanesi, ma solo affari privati. Ciascuno di loro ha presentato più di 50 emendamenti che riguardano semplicemente loro clienti. A questo siamo arrivati».
Un piano che tutto affida al mercato, mentre gli strumenti di controllo sono volutamente deboli per garantire al mercato di esprimersi con tutta la sua forza. «Nelle culture vetero socialiste si dava ai piani il compito dirigistico di organizzare lo sviluppo delle città - commenta Pareglio. - Oggi tante cose sono cambiate. Però questo Piano sembra in qualche modo rinunciare a una funzione di controllo pubblico per assecondare esclusivamente gli interessi privati».
Domenica sfideranno il divieto. I cicloamatori che protestano contro il divieto d’accesso all’alzaia del Naviglio, nel tratto tra Turbigo ed Albairate. I sindaci della zona hanno annunciato che non manderanno i vigili a multare i trasgressori. «Così perdiamo anche i tanti turisti del fine settimana».
«Mandare i vigili a multare la gente che passeggia sulla pista ciclabile del Naviglio Grande? Ma non scherziamo, non lo farò mai. L'alzaia va riaperta subito, una chiusura totale non è pensabile » . Osvaldo Chiaramonte (Pdl), sindaco di Bernate Ticino, si ribella all' idea di un Naviglio «blindato». E non è l'unico: domenica prossima alle 10 proprio dal ponte di Bernate partirà una biciclettata di protesta promossa con un tam tam sui social network dai frequentatori dell'alzaia. Ciclomatori, podisti, ma anche amanti delle passeggiate. E poi i membri di associazioni ambientaliste e storiche. A piedi o sulle due ruote, sfideranno il divieto di circolazione e lamulta di 51 euro, percorrendo il tratto di un chilometro e mezzo tra Bernate e Boffalora sopra Ticino. Lì si terrà un'assemblea che dovrebbe stabilire altre forme di mobilitazione.
Il divieto di accesso all'alzaia del Naviglio, nel tratto di quindici chilometri fra Turbigo e Albairate, è stato deciso dal Parco del Ticino, che gestisce la ciclabile per conto della Regione. L'ente è stato da poco condannato a pagare 500 mila euro di risarcimento alla famiglia di una donna di 71 anni, che nel 2002 cadde nel Naviglio dopo uno scontro con un tredicenne in sella a un'altra bicicletta e annegò. Il Tribunale civile di Milano ha dichiarato il Parco e il tredicenne corresponsabili della sua morte e ha dichiarato la pista ciclabile è “insicura”, perché senza protezioni. Il Parco dovrà prendere provvedimenti. Nel frattempo, il sentiero è chiuso fino a nuovo ordine.
Un Naviglio off limits ha anche un risvolto economico. Negli ultimi anni, proprio grazie a una vasta campagna di promozione turistica del Parco del Ticino, lungo il canale sono nati punti di noleggio delle biciclette, gelaterie, ristori, bed and breakfast. E la risposta dei turisti non si è fatta attendere, con migliaia di presenze, anche dall'estero, soprattutto nella stagione estiva.
«Nel fine settimana da aprile a settembre noleggiamo 50 biciclette al giorno. Per questo, ho da poco investito 12 mila euro per cambiare tutto il parco bici. Adesso invece ricevo le telefonate di disdetta, per paura delle multe» sintetizza Michele Calcaterra, 45 anni, titolare del negozio «Doctor Bike» a Boffalora.
Della stessa idea Domenico Finiguerra (centrosinistra), sindaco di Cassinetta di Lugagnano: «La chiusura è un grave danno. La Regione dovrebbe stanziare subito i 5 milioni di euro necessari per mettere a norma la ciclabile. Otto anni fa sono stati stanziati e mai utilizzati 226 milioni di euro per costruire la superstrada tra Magenta e la tangenziale ovest. Basterebbe usare una parte di questi. Sarebbe la dimostrazione che alla mobilità e al turismo sostenibile ci tengono davvero».
postilla
Immaginiamoci, che so, una interruzione per frana di un tratto stradale qualunque: quanto tempo passa secondo voi prima che venga stanziata la cifra necessaria e ripristinato il percorso? Questione di giorni, al massimo. E la strada di cui si parla nell’articolo, in più, rappresenta l’UNICO PERCORSO POSSIBILE per attraversare alcuni territori, nonché tratto essenziale di una rete sviluppata per centinaia di chilometri. Praticamente, un’autostrada, e che autostrada, di mobilità sostenibile, in grado con pochissimi accorgimenti, e se valorizzata da piani e programmi coerenti, di iniziare concretamente un’evoluzione del territorio dalla centralità assoluta del trasporto privato su gomma e relative infrastrutture, dispersione insediativa, inquinamenti, consumo di suolo ecc., verso una rete più articolata, e adeguata alle prospettive che si delineano col cambiamento climatico, la crisi energetica e compagnia bella.
Ma chi comanda dentro il cosiddetto “ambaradan” (definizione del leghista Davide Boni) dei parchi non vuole, o non può, fare il suo mestiere, ovvero partecipare a questo percorso, investendo quelle esigue cifre che giustamente Domenico Finiguerra paragona alle altre, e che altre, destinate a una discutibilissima grande opera nel segno della solita centralità automobilistica.
È un piccolo esempio, enorme nei danni, ma piccolo perché miserabile, di cosa succede quando il gioco si fa duro e i duri cominciano a giocare. Gli stessi duri che stanno gestendo l’operazione Expo, e si risciacquano la bocca ad ogni piè sospinto con fantastici (indiscutibili, a parole) progetti di rilancio dell’agricoltura, di sviluppo urbano sostenibile ecc. ecc. Ne leggiamo ogni giorno, di queste cose, e anche grazie al coinvolgimento di persone serie nel progetto, finiscono quasi quasi per convincerci. E poi, dopo una condanna a pagare 500.000 euro (il prezzo di una villetta con gardino nani inclusi) si chiudono senza passare dal via chilometri e chilometri di pista ciclabile?
Ma ci facci il piacere! Direbbe il compianto principe De Curtis (f.b.)
si veda anche il commento sul sito di Domenico Finiguerra
L’ispirazione l’ha presa dall’architettura lombarda, stile gotico ed edifici gemelli. Il Duomo e piazza Duca d’Aosta, ma anche la Besana e l’Ospedale Maggiore, rivisti però con lo sguardo di oggi. Un colpo d’occhio su una lunga stecca di vetro con arcate lungo i Bastioni, che di notte s’illumina quasi fosse un edificio-lanterna urbana. A Porta Volta il piccolo Beaubourg di Milano dovrà diventare la sede della fondazione Feltrinelli e della casa editrice. È stato firmato da Jacques Herzog, archistar svizzero già nel team dell’Expo e autore di opere note come lo stadio-nido di Pechino. Il cantiere partirà nel 2011, completato l’iter burocratico, per arrivare entro il 2013 a quella che il sindaco Moratti chiama «cittadella della cultura».
La zona interessata, 17mila metri quadri, è un’area tra i viali Pasubio e Crispi di proprietà Feltrinelli, e una tra viale Montello e Porta Volta del Comune. Dietro i caselli daziari, che verranno riqualificati, e su quel che resta delle Mura spagnole, l’architetto svizzero ha progettato tre edifici gemelli alti sette piani, in vetro e cemento, a riprodurre l’antica cinta muraria ma con il profilo a punta del Duomo. Il primo ospiterà la nuova sede della Fondazione Feltrinelli e il suo patrimonio di circa 200mila volumi, 17.500 riviste italiane e straniere e 4.500 opere rare, con libreria e giardino, auditorium e spazi polifunzionali per il pubblico. Il secondo edificio, il più grande, sarà occupato dagli uffici della casa editrice, mentre per il terzo, di proprietà comunale, non è chiaro ancora se Palazzo Marino intenda venderlo o trasferirvi alcuni uffici amministrativi. Un progetto anche verde, con un parco, un boulevard alberato e un belvedere, per cui il Consiglio di zona uno, settimana scorsa, aveva espresso parere negativo ma solo perché «servono più parcheggi e il silos in costruzione in viale Montello deve integrarsi con il nuovo complesso», chiede la presidente di zona Micaela Goren Monti.
La famiglia Feltrinelli cerca di realizzarlo da anni, il suo Beaubourg, che si sbloccherà definitivamente se la giunta tra un mese e mezzo ne approverà il piano integrato d’intervento. «Un punto di forte aggregazione culturale soprattutto per i giovani», ha spiegato Carlo Feltrinelli, presidente della Fondazione. Conferma anche l’architetto Herzog: «Questo edificio raccoglie lo spirito della storia di Milano, diventerà un luogo per tutti i milanesi». Una ricucitura di una striscia irrisolta, per il sindaco Moratti: «Restituisce alla città un’area dismessa ed è un ottimo esempio della Milano del futuro».
Nota: qui una scheda del progetto scaricata dal sito del Comune (f.b.)
CAGLIARI. Su Tuvixeddu le aspettative sono tante: sia alla Regione che al Comune, che a livello imprenditoriale. A questo punto tutti hanno interesse a chiudere la partita: gli ambientalisti per la realizzazione di un grande parco, la Regione e il Comune per evitare di venire dissanguati da un contenzioso tanto incerto, quanto aspro. E l’imprenditore perchè, probabilmente, stanco da una vicenda che lo ha certamente spossato, e di cui non vede ancora la fine.
Quindi che cosa capiterà, adesso, su (e per) Tuvixeddu? Dopo l’ordine del giorno unitario del consiglio regionale, che stimola «all’acquisizione al patrimonio pubblico» gran parte del colle, ieri mattina il primo passo del consiglio comunale con il soprallugo della commissione alla Cultura a Tuvixeddu. I consiglieri hanno visitato sia la parte di Sant’Avendrace, che i lavori della lottizzazione, che la necropli. «Abbiamo cercato di capire - sottolinea Maurizio Porcelli, Forza Italia, presidente dell’organismo consiliare - sin dove si estende l’area della zona archeologica, soprattutto in rapporto ai ritrovamenti delle nuove sepolture, fatti in questi ultimi dieci anni». Il Comune, assieme alla Regione e alla Coimpresa ha firmato nel 2000 l’accordo di programma per la lottizzazione integrata: un parco di ventuno ettari per la necropoli e quattrocento appartamenti da realizzare in via Is Maglia, a lato di Tuvixeddu (circa duecentosessanta) e di Tuvumannu.
Ma ora dopo anni di contenzioso, di carte bollate e di battaglie ambientaliste per la valorizzazione del colle anche come patrimonio paesaggistico, si è arrivati alla recente decisione della Regione: per la realizzazione di un parco archeologico e ambientale. «Ora dobbiamo assumerci la responsabilità di presentare una legge istitutiva per stabilire i confini del parco», spiega Chicco Porcu, consigliere regionale del Pd, relatore della mozione del centrosinistra che ha dato poi luogo all’ordine del giorno unitario. «Solo in questo modo, con una legge specifica - continua Porcu - potremo, tra le altre cose, mettere in bilancio la cifra necessaria».
Ieri, inoltre, il senatore Roberto Della Seta (Pd) e il deputato Fabio Granata (Pdl, vice presidente della commissione Cultura della Camera) hanno accolto con «grande soddisfazione» il «sì» del consiglio regionale all’ordine del giorno «che impegna la Regione a lavorare per la creazione sul colle di Tuvixeddu di un parco archeologico che metta la parola fine a ogni ipotesi di nuova cementificazione». Secondo i parlamentari «è un’ottima notizia per la città di Cagliari e per tutti coloro che hanno a cuore la salvezza di questo patrimonio culturale prezioso per la Sardegna e per il Paese». In pratica «la sentenza del Consiglio di Stato dei giorni scorsi ( che impone una motivazione più dettagliata prima dell’autorizzazione paesaggistica, indispensabile per ogni concessione edilizia - ndr) segna una nuova vittoria contro i propositi di cementificazione di Tuvixeddu. Ora è importante che tutti i soggetti coinvolti in questa vicenda, dalla Regione allo stesso ministero dei Beni Culturali, facciano la loro parte per concretizzare quanto prima il sogno di vedere tutelato una volta per tutte il colle di Tuvixeddu. Per Cagliari, per la sua identità e anche per il suo futuro, il parco archeologico è molto meglio di qualche colata di cemento».
Da parte sua la commissione comunale, spiega Porcelli, «ha chiesto al soprintendenza ai beni archeologici un incontro per verificare meglio quale è la situazione dei ritrovamenti archeologici legati alla necropoli». Va anche detto che «il sopralluogo a Tuvixeddu era stato fissato da prima della decisione della Regione - prosegue Porcelli - ed era stata chiesta dal collega Salvatore Mereu. Poi il quadro è cambiato. Ora si tratta di capire come dovrà muoversi il Comune». A questo punto, sottolinea Gian Mario Selis (consigliere comunale del Pd e componente della commissione Cultura), «bisognerà istituire un tavolo con tutti gli interessati: Regione, Comune e Coimpresa. Altrimenti si potrebbe rischiare di inoltrarci in una strada con altri mille ritardi».
Cerchiamo di capire che il parco archeologico serve innanzitutto per conservare e - con garbo – per consentire a chi vuole di visitare, imparare e ammirare. Non è una Villa Comunale né un Parco Robinson né una Disneyland. Se abbiamo compreso che la storia è utile alla civiltà dobbiamo imparare a rispettarla nei suoi elementi, a cominciare dal suolo in cui ha impresso la sua orma.
Il Comitato Iris, organizzatore dell’incontro odierno [l’incontro si è tenuto il 19 febbraio 2010 – ndr], ha voluto associare la presentazione del libro di Luigi De Magistris Giustizia e potere, con la denuncia della speculazione immobiliare che si sta perpetrando in una delle poche aree verdi rimaste in ambito urbano. In uno dei residui “cunei verdi” che, nel progetto di città stellare voluto dal grande urbanista Luigi Piccinato, avrebbe dovuto connettere con funzioni ecologiche e ricreative il “Parco delle Mura”, che avvolge il nucleo centrale della città storica, con gli spazi aperti del territorio agricolo periurbano e con le reti ecologiche territoriali.
Il tema dunque da affrontare è quello del rapporto oggi esistente tra giustizia e pianificazione urbana e territoriale, ovvero dell’evidente crescente conflitto tra le esigenze degli abitanti, tra la loro richiesta di una migliore qualità urbana e di una migliore qualità della vita e la soverchiante influenza della speculazione fondiaria e delle lobbies immobiliari nelle scelte strategiche di trasformazione del territorio. Un tema che si connette strettamente a quello del sempre più stretto intreccio tra politica e mondo degli affari, della assenza di trasparenza nella gestione degli appalti e della spesa pubblica.
Il “caso Bertolaso” scoppiato in questi giorni, è da questo punto di vista esemplare ed istruttivo. Da molte parti si è tentato di ridurre lo scandalo degli appalti gestiti dalla Protezione Civile ad un problema di ordinario malcostume, da sempre assai diffuso tra i pubblici funzionari. La fornitura di escort, auto di lusso, ville e le assunzioni di parenti da parte delle imprese affidatarie degli appalti, sarebbe insomma un qualcosa in più, ma non sostanzialmente differente dalle bottiglie e dai panettoni natalizi. Peccatucci e birbonate, come ama definirli il nostro Presidente del Consiglio.
Ma se non ci si sofferma ai soli fatti di costume (pur gravi nella loro entità e per la loro diffusione), non è possibile non accorgersi che dall’inchiesta dei giudici di Firenze sulla gestione delle opere connesse al G8 della Maddalena, ai Mondiali di Nuoto del 2009 ed alle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, emerge uno spaccato desolante della ben collaudata struttura di potere e del livello di corruzione che caratterizza da molti anni buona parte dell’attività imprenditoriale del nostro paese nel settore dei lavori pubblici. Dal 2001 ad oggi, cioè da quando con una apposita legge alla Protezione Civile sono state assegnate anche le competenze relative ai “grandi eventi” (che molto spesso di grande hanno solo il nome), le ordinanze straordinarie del capo del governo (in precedenza una o al massimo due ogni anno) sono state oltre 500, consentendo anche per opere di ordinaria amministrazione la deroga rispetto a tutte le normative di legge sugli appalti. In virtù di dette ordinanze una ristretta cerchia di politici (Berlusconi e Letta in primo luogo) e di alti funzionari della Protezione Civile e del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ha potuto gestire direttamente una spesa di oltre 10 miliardi di euro, avendo di fatto la possibilità di pilotare gli appalti verso le imprese amiche.
La sistematica elusione delle regole della libera concorrenza, favorita dall’accentramento dei poteri e dall’elevato grado di discrezionalità consentito nella selezione delle imprese, è giunta a tal punto da dover essere ufficialmente denunciata persino da Paolo Buzzetti, presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (ANCE), che si è pronunciato contro il disegno di legge che voleva trasformare la Protezione Civile in una società per azioni. Come ha scritto Alberto Statera, i fatti di questi giorni hanno fatto emergere “un’appaltopoli che, in nome dell’emergenza, non ha l’eguale nella storia della Repubblica, neanche in quella della prima, quando almeno i potentati del mattone si riunivano in una cupola per spartirsi gli appalti” (La Repubblica, 11 febbraio 2010).
Di fronte al termitaio scoperchiato dall’indagine giudiziaria sorge una prima spontanea domanda. Era proprio necessario attenderel’intervento della Magistraturaed occorreva essere messi a conoscenza delle intercettazioni telefoniche effettuate dai giudici per accorgersi che la “politica del fare”, caratterizzata da una costante deroga alle norme di legge e dall’assenza di idonei controlli, stava favorendo la corruzione ed una sempre più organica collusione tra funzionari di stato, società finanziarie ed imprese?
In realtà da tempo si erano manifestati chiari indizi e segnali allarmanti di quanto sta avvenendo nel settore degli appalti pubblici: segnali che evidentemente si è fatto finta di non vedere. Come ricorda nel suo libro-intervista Luigi De Magistris, nell’ultimo Rapporto dell’Unione europea sulla corruzione (Rapporto Greco) l’Italia viene indicata come uno tra i paesi a più alto rischio, mentre nella Relazione della Corte dei Conti europea sull’esercizio finanziario 2008 sempre il nostro paese è al primo posto tra le nazioni che hanno utilizzato in modo non regolare i finanziamenti della Comunità, con grave danno erariale e con evidenti indici sintomatici di dolo. Rilievi che trovano puntuale conferma nelle cifre riportate nel rapporto presentato nei giorni scorsi dal Procuratore Generale presso la Corte dei Conti italiana, che ha denunciato una crescita – nel corso del 2009 – del 229% della corruzione nel nostro paese, indice, come osserva Aldo Schiavone, «... di una nazione in via di dissolvimento morale, ormai in balia di una disastrosa deriva di comportamenti» (La Repubblica, 18 febbraio 2010).
Ma anche nello specifico delle grandi opere del G8 alla Maddalena non era difficile cogliere alcune evidenti anomalie ben prima che i giudici indagassero. I costi dell’albergo (ex Ospedale) affidati all’impresa di Valerio Carducci ed allo studio Archea dell’architetto Casamonti (sembra quale risarcimento per il mancato appalto dei lavori relativi al Teatro della Musica di Firenze, assegnato ad una società controllata dagli onnipresenti Anemone di Grottaferrata) sono lievitati in corso d’opera da 59 a 73 milioni, con un costo unitario di 3.842 euro/mq, un record mondiale mai raggiunto neppure nelle fantascientifiche architetture del Dubai!
Di fronte all’avviso di garanzia, Bertolaso è caduto dalle nuvole, ammettendo che sì, forse, qualcuno dei suoi collaboratori aveva tradito la sua fiducia. Ma già nel giugno 2009, nel suo libro “Il termitaio”, Alberto Statera – riprendendo un’indagine di Fabrizio Gatti pubblicata sull’Espresso del dicembre 2008 – aveva descritto le connessioni d’affari esistenti a Grottaferrata tra la società degli Anemone e la signora Rosanna Thau, moglie di Angelo Balducci, il plenipotenziario del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, buon amico di Gianni Letta, Altero Matteoli e Francesco Rutelli, incaricato della gestione di molti degli appalti affidati agli Anemone ed autore dell’ordinanza che aveva consentito la realizzazione, sulle rive del Tevere, in un’area demaniale preclusa ad ogni tipo di costruzione, dell’ormai famoso “Salaria Sport Village”.
Politica, economia e comitati d’affari
Nel suo libro De Magistris descrive in particolare la realtà calabrese, che l’ha visto protagonista come magistrato. Una realtà, scrive De Magistris, dove «se controlli la spesa pubblica, controlli il ganglio decisivo di tutta l’economia»; dove «... pezzi importanti della politica, delle istituzioni, della magistratura, dell’imprenditoria, si vedono insieme e decidono le sorti della Regione»; dove, in una logica di reciproci favori, è fondamentale “essere amico” e far parte di circoli esclusivi di professionisti, quali quelli dei Lions o dei Rotary, o gravitare nell’orbita della massoneria od anche dell’OpusDei, di Comunione e Liberazione, della Compagnia delle Opere; dove gli imprenditori si sono trasformati in “prenditori” e dove regna una “borghesia mafiosa”, una “mafia dei colletti bianchi”, per la quale è essenziale un rapporto privilegiato con la politica.
Ma, ci chiediamo, questa “borghesia mafiosa” e questa economia inquinata caratterizzano solo le regioni del sud del nostro paese o non riflettono piuttosto – sia pure in forme diverse e con tassi meno elevati di corruzione e criminalità – una più generale deriva della politica e dell’economia italiana e dello stesso Veneto?
Da questo punto di vista, ritengo non sia improprio leggere la resistibile ascesa di Berlusconi e del berlusconismo quale compiuta espressione del crescente potere di una borghesia che organicamente rifugge dalle regole della libera concorrenza e che cerca rifugio nei settori protetti dell’economia e nelle concessioni di stato. Una borghesia parassitaria che opera di fatto in regime di monopolio, usufruendo – anche nei periodi di crisi – di una rendita di posizione (a scapito ovviamente delle tariffe e dei prezzi richiesti all’utenza): telecomunicazioni, energia elettrica, autostrade, trasporti aerei e ferroviari, speculazione immobiliare e appalti pubblici. Il che, tra l’altro, spiega la decisa propensione dei programmi governativi verso le grandi opere faraonicheda affidare, con meccanismi di “general contract” o di “project financing”, a cordate di imprese e società finanziarie, spesso appositamente costituite con amici ed amici degli amici, dove pubblico e privato, controllori e controllati confondono i propri ruoli. Il che spiega perchè si stiano progettando il Ponte sullo stretto di Messina e la TAV di ValSusa, piuttosto che realizzare le essenziali infrastrutture ferroviarie e viarie necessarie alla vita di quei territori, o si voglia resuscitare il fantasma delle centrali nucleari anziché promuovere la sperimentazione e la diffusione delle risorse energetiche rinnovabili.
Appalti ed urbanistica contrattata nel Veneto
Le collusioni tra politica e mondo degli affari trovano un ulteriore fondamentale punto di incontro nell’urbanistica. Su questo le vicende venete degli ultimi anni forniscono ampia materia di riflessione.
Un tempo – ai tempi di tangentopoli – l’espressione “urbanistica contrattata” era sinonimo di accordi sottobanco tra amministratori corrotti e proprietari di aree. Oggi invece la pratica dell’urbanistica contrattata è stata nobilitata entrando ufficialmente a far parte integrante degli strumenti di piano e della legislazione. Tra la fine degli anni ‘90 ed i primi anni 2000 si è registrato un crescente utilizzo dei cosiddetti Programmi complessi (variamente denominati) in deroga alle previsioni di PRG, consistenti quasi sempre in programmi costruttivi predisposti da società private che, in cambio di volumetrie edificabili non previste dai piani urbanistici, si dichiarano disponibili a cedere al Comune una quota parte di aree e/o di spazi edificati. Con l’articolo 6 della nuova legge urbanistica regionale, la n. 11 del 2004, la Regione Veneto fa esplicito invito ai privati a partecipare all’iter formativo dei nuovi piani urbanistici, sollecitandoli a presentare progetti ed iniziative “di rilevante interesse pubblico” che attraverso la formula degli “accordi tra soggetti pubblici e privati” possano divenire “parte integrante dello strumento di pianificazione” cui accedono.
E’ scontato che quando nella legge si parla di “privati” si fa riferimento ai potenti gruppi imprenditoriali e finanziari che traggono profitto dalle trasformazioni territoriali e non certo alla stragrande maggioranza dei cittadini nè al mondo dell’associazionismo ambientalista, la cui partecipazione alle scelte urbanistiche viene genericamente richiamata nei primi articoli della legge, ma – in assenza di norme specifiche e di modalità codificate – quasi mai tradotta in pratica. Il che rende estremamente pertinente la distinzione che De Magistris fa tra giustizia e legislazione, denunciando il grave pericolo in cui incorre la democrazia quando la legge viene assoggettata agli interessi di singoli e/o di potenti lobbies economiche. «La giustizia – afferma De Magistris – è qualcosa di universale... I poteri spesso sfruttano illegittimamente il diritto per raggiungere una falsa giustizia. L’uso illegittimo del diritto è uno dei più pericolosi strumenti delle forme di autoritarismo, che hanno spesso utilizzato le norme per raggiungere obiettivi illegali».
Ma quali sono nel Veneto questi poteri forti che condizionano di fatto il destino delle nostre città e del nostro territorio? Una sia pur sintetica analisi delle vicende urbanistiche e degli appalti pubblici degli ultimi anni ne fa emergere alcuni tra i più influenti.
Un primo eclatante esempio è senza dubbio costituito dalle vicende connesse al MOSE (paratie mobili) di Venezia, un’opera che si prevede verrà completata nel 2012 per un importo complessivo di spesa di 4,7 miliardi di euro, sulla cui effettiva utilità da più parti, da sempre, sono stati sollevati molti dubbi. Tutto ha inizio con la seconda legge speciale per Venezia del 1984, voluta da De Michelis, che prevedeva la possibilità di affidare in concessione unica ad un unico soggetto – in deroga a tutta la legislazione sui lavori pubblici – gli studi, le progettazioni e le opere per la salvaguardia della città storica e della laguna. Venne a questo fine costituito il “Consorzio Venezia Nuova”, nel quale – agli inizi – la parte del leone era svolta da società collegate alla Fiat (l’Impresit poi trasformatasi in Impregilo). Defilatasi la Fiat per ragioni connesse alle vicende interne al gruppo finanziario, dominante nel Consorzio divenne la presenza dell’impresa di riferimento del governatore Galan, la Mantovani spa, di cui è proprietario Romeo Chiarotto e di cui è presidente Piergiorgio Baita, soprannominato “Mister Appalto”. A fianco della Mantovani troviamo altri ricorrenti nomi dell’imprenditoria italiana e veneta, quali la Società Condotte, l’Astaldi, la Mazzi ed anche – in una logica di più o meno equa spartizione politica degli appalti – alcuni consorzi di cooperative bianche e rosse.
Il potere del Consorzio Venezia Nuova (presidente e direttore Giovanni Mazzacurati, vicepresidente Alessandro Mazzi) negli anni è progressivamente cresciuto, compenetrandosi con le istituzioni che governano la città e la provincia, nonché con le fragili strutture operative del Magistrato alle Acque (organo decentrato del Ministero delle Infrastrutture) che ne dovrebbe controllare l’attività. Di fatto non vi è scelta strategica per il destino di Venezia e del suo territorio che non sia oggi condizionata dagli interessi e dalle politiche del Consorzio, che – attraverso due società a lui riconducibili, la Palomar e la Thetis – si è anche candidato alla lucrosa gestione e manutenzione delle paratie mobili, per le quali è prevista l’astronomica cifra di 30 milioni di euro all’anno. Per chiudere il cerchio dei controllori e dei controllati, il Consorzio Venezia Nuova è di fatto anche il finanziatore del Corila, ovvero del Consorzio, in cui sono coinvolte le Università di Venezia e di Padova ed il CNR, incaricato delle attività di ricerca e di monitoraggio dei lavori nella laguna veneta.
Ritroviamo l’impresa Mantovani quale protagonista di molti dei grandi appalti pubblici del Veneto: dalla bonifica delle aree inquinate di Porto Marghera, al Passante di Mestre, al nuovo Ospedale di Zelarino a Mestre. La realizzazione di quest’ultima opera (258 milioni di euro) costituisce il primo project financing in partnership pubblico-privata d’Italia: un progetto in cui sono confluiti 100 milioni di finanziamenti pubblici, mentre la restante parte della spesa è stata finanziata da privati (in prevalenza istituti bancari). Alle imprese private, oltre alla progettazione ed esecuzione delle opere, è stata affidata in concessione per 24 anni la gestione (di fatto in regime di monopolio e quindi con una seria ipoteca sulla qualità ed economicità dell’attività svolta) di molti spazi e servizi dell’ospedale, dalla manutenzione degli impianti e delle apparecchiature elettromedicali, alla gestione amministrativa e tecnica della radiodiagnostica, dalla lavanderia alla pulizia dei locali, dalla gestione del verde all’asporto rifiuti, dalla gestione della mensa e dei parcheggi (a pagamento) alla locazione degli spazi commerciali presenti nella struttura.
Nel Consorzio di imprese (Veneta Sanitaria Finanza di Progetto) concessionario della realizzazione e gestione dell’ospedale, oltre alla Mantovani figurano l’Astalti spa (già vista nel Consorzio Venezia Nuova), la Mattiolispa (che fa capo alla Compagnia delle Opere), la Gemmo spa e lo Studio Altieri. Due società vicentine, la Gemmo spa e lo Studio Altieri, che figurano anche in molti dei grandi appalti pubblici regionali affidati con quello che Alberto Statera definisce il “sistema Sartori”, dal nome di Lia Sartori, soprannominata “Madame Richelieu”, ex socialista vicentina, compagna di Vittorio Altieri (deceduto qualche tempo fa), per lungo tempo assessore regionale alla viabilità ed ai trasporti, considerata la mente del governatore Galan nel campo dei lavori pubblici. Un sistema d’appalto dove l’elevato punteggio attribuito alla “qualità estetica” dei progetti presentati consente la massima discrezionalità nella selezione delle imprese.
Con il “sistema Sartori” sono stati affidati i lavori per l’ampliamento della Fiera di Vicenza (67 milioni), per i nuovi ospedali dell’Alto Vicentino (143 milioni) e della Bassa Padovana (120 milioni), per il degassificatore (300 milioni) e la piattaforma al largo di Porto Levante (250 milioni), per la ferrovia Mestre-Adria (21 milioni). Un appalto, quest’ultimo, gestito dalla Società Sistemi Territoriali della finanziaria pubblica “Veneto Sviluppo”, della quale fino a qualche mese fa era presidente Irene Gemmo, ed aggiudicato alla Gemmo spa, di cui la stessa Irene Gemmo è titolare con i fratelli. Un conflitto d’interessi che ritroviamo anche nell’appalto dei lavori della Fiera di Vicenza (di cui la Gemmo risultava socia sia come impresa che come Veneto Sviluppo) affidati alla Gemmo ed allo studio Altieri. Sempre alla Gemmo spa, quale società mandataria, sono stati aggiudicati i lavori della tramvia Mestre-Venezia-Marghera ed i lavori impiantistici del nuovo Teatro La Fenice di Venezia.
Questo per il passato, ma ulteriori grandi affari si preannunciano con gli indirizzi del Piano Territoriale Regionale di Coordinamento (PTRC) adottato dalla Giunta regionale lo scorso anno e con la candidatura di Venezia alle Olimpiadi del 2020. Dai documenti del nuovo PTRC emerge infatti la volontà di considerare il Passante di Mestre quale infrastruttura portante per la costruzione di una megalopoli di 1 o 2 milioni di abitanti. Secondo Paolo Feltrin, uno degli ideologi del piano, il nuovo Passante di Mestre «... potrebbe essere interpretato come una nuova, più ampia cinta muraria, il nuovo confine di una diversa città con ambizioni di carattere regionale».
Concrete iniziative orientate in questa direzione sono da tempo state avviate e fanno in particolare capo ai due progetti di “Veneto City” a Dolo e del “Quadrante Tessera” o “Marco Polo City” in prossimità dell’aeroporto di Venezia. Il primo promosso da Giuseppe Stefanel e Luigi Endrizzi che, dopo aver acquistato a valore agricolo 560 mila mq di terreno, hanno proposto la realizzazione di un megacentro direzionale e commerciale di 2 milioni di mc, offrendo alle istituzioni locali l’opportunità di usufruire in quota parte dei benefici economici derivanti dal cambiamento di destinazione d’uso dei suoli (si calcola che, con la nuova destinazione d’uso, il valore dei terreni aumenterebbe di quasi sei volte). Il secondo sostenuto dall’immobiliare del Casinò di Venezia e dalla società aeroportuale SAVE, di cui è presidente e socio Enrico Marchi, altro fedelissimo di Galan. Anche qui un’urbanizzazione di circa 200 ettari di terreni agricoli, nella quale collocare alberghi, centri commerciali, fitness center e quant’altro (20 mila alloggi per gli atleti, qualora Venezia divenisse sede dei giochi olimpici).
Al Quadrante Tessera si connetterebbero la realizzazione di una terza pista aeroportuale ed il progetto di unaSublagunare, ovvero di un collegamento metro tra l’aeroporto ed il centro storico di Venezia (che oltre alle stazioni insulari richiederebbe diverse uscite di sicurezza in mezzo alla laguna). Un progetto in project financing (350 milioni di euro la spesa prevista) messo a punto dai soliti noti: Mantovani spa, Studio Altieri e Net Engineering. Per completare il quadro, va anche ricordato che Brunetta, candidato sindaco di Venezia per il PdL, ha persino proposto l’edificazione sulle sponde della laguna affinché anche Mestre conquisti il suo Waterfront.
I progetti connessi al nuovo Passante di Mestre sono testimonianza del fatto che la realizzazione di nuove autostrade e superstrade non è mai disgiunta dalla promozione di nuove estese cementificazioni del territorio attraversato. Tant’è che, in una norma del nuovo PTRC, la Regione avoca direttamente a se la possibilità di predisporre specifici “progetti strategici” per un raggio di due chilometri in corrispondenza di tutti i caselli autostradali e delle stazioni ferroviarie, ovviamente con possibilità di deroga nei confronti delle previsioni dei piani urbanistici dei Comuni e delle Province e di deroga dei limiti previsti dalla Legge 11/2004 in relazione al consumo di superficie agricola (SAU). Le stesse nuove superstrade (GRA di Padova, camionabile dell’Idrovia Padova-Mare, Nuova Romea, ecc) costituiscono d’altra parte ghiotte occasioni per stipulare redditizi accordi tra pubbliche amministrazioni e privati, ai quali affidare in concessione la realizzazione e la gestione dell’opera. Ne è un esempio la recente presentazione, da parte delle imprese Mantovani, Pizzarotti, Cordioli e CIS (Compagnia Investimenti e Sviluppo, di cui è vicepresidente Lia Sartori), di un project financing per la Nuova Valsugana (duramente contestato da sindaci e cittadini), si sostiene quale risarcimento per la perdita dell’appalto relativo ai lavori della Pedemontana che ha seguito di un ricorso al TAR sono stati affidati ad un gruppo di imprese spagnolo.
All’ombra del Santo
Anche a Padova le potenti lobbies del mattone e della proprietà fondiaria hanno fatto sentire la propria influenza. Basti pensare alle varianti di piano appositamente approvate per la realizzazione dell’IKEA (studio Endrizzi) in prossimità del casello di Padova Est o per la costruzione di 135 appartamenti in via Canestrini, in prossimità del parco IRIS, in un’area precedentemente destinata a verde pubblico (Cooperative La Traccia e L’Operatore collegate alla Compagnia delle Opere).
Un analogo preoccupante tentativo di modificare le previsioni di piano vi è stato con la presentazione, da parte della società Valli, di un Piano di Recupero Urbano (PIRUEA) che nel cuore del quartiere Arcella, in aree destinate a verde pubblico e servizi, pretendeva di poter costruire due torri e vari fabbricati (per un totale di 34 mila mc) da destinare a residenza ed attività commerciali, offrendo in cambio al Comune la cessione di alcuni locali per le attività del Consiglio di Quartiere. Il piano venne adottato dalla Giunta, ma non fu fortunatamente mai approvato dal Consiglio, in ragione soprattutto della consultazione popolare nel frattempo indetta tra gli abitanti del quartiere, che a grande maggioranza bocciarono l’operazione immobiliare.
Una smania edificatoria che ha interessato tutti i comuni dell’area metropolitana e della provincia di Padova, con effetti devastanti quali quelli facilmente immaginabili che vi sarebbero se il Comune di Vigodarzere approvasse il progetto presentato in questi giorni, su incarico delle proprietarie, da Giuseppe Capocchin, presidente dell’Ordine degli Architetti, per l’urbanizzazione delle aree limitrofe alla Certosa, complesso monastico cinquecentesco sulle rive del Brenta, che costituisce uno dei più pregevoli beni storici del nostro territorio. Un progetto in variante di PRG, che prevede di trasformare 80 mila mq di terreno agricolo in aree residenziali, per un totale di 100 mila mc di costruzioni (più di cento villette). Con il ricavato le contessine prevedono di poter restaurare il convento di loro proprietà, destinandolo a bed & breakfast, offrendo quale contropartita al Comune un contributo di 250 mila euro e la cessione di 18 mila mq di terreno per ampliare gli impianti sportivi comunali.
Una perversa logica di accordi pubblico-privati che sta alla base anche del progetto di autosilos per 600 posti auto previsto nell’area dell’ex Foro Boario di Prato della Valle (che rimarrà in concessione ai privati per 45 anni). Una logica che si prevede di utilizzare anche per il nuovo ospedale cittadino, localizzato nei pressi dello stadio Euganeo, con il rischio che – come qualcuno ha già proposto – le aree delle cinta bastionata cinquecentesca, su cui insistono le cliniche del vecchio ospedale, vengano “valorizzate urbanisticamente” per consentire al concessionario privato, partner del project financing, di coprire parte dei costi del nuovo insediamento.
La logica dell’accordo con i proprietari di aree è implicita anche nella metodologia della “perequazione urbanistica” introdotta nel PRG di Padova – in anticipo rispetto alle norme della legge regionale 11/2004 – con apposita Variante del 2001, parzialmente modificata nel 2004. A giustificazione della nuova disciplina l’Amministrazione comunale evidenziò il fatto che negli ultimi anni sempre più esigue sono state le risorse di bilancio utilizzabili per l’acquisizione dei terreni destinati a verde pubblico e servizi e che le più recenti sentenze della Corte Costituzionale hanno di fatto equiparato i costi dell’esproprio ai valori di mercato ed hanno reso obbligatorio l’indennizzo (dopo cinque anni) dei vincoli urbanistici preordinati all’esproprio. Per poter acquisire gratuitamente le aree destinate ai servizi (standard urbanistici) non vi sarebbe dunque altra soluzione che quella di consentirne, in quota parte, l’edificazione ai privati.
Uno strumento, quello della perequazione, indubbiamente efficace per porre rimedio ai sempre più ridotti trasferimenti di risorse finanziarie concessi dallo stato ai comuni. Ma anche un’arma a doppio taglio, che se mal utilizzata non salvaguardia certo l’interesse pubblico. E’ stato questo, a nostro giudizio, il caso della Variante del 2001, che ha riconvertito più di 4 milioni di mq di aree destinate a verde pubblico in aree di perequazione urbanistica, aumentando di oltre 2,6 milioni di mc la capacità edificatoria del PRG, senza uno straccio di disegno urbano in grado di individuare le effettive convenienze pubbliche e senza alcuna relazione con le reti del trasporto pubblico. Con questa operazione si sono cancellati in un colpo solo i pochi parchi di valenza urbana e territoriale previsti a Padova (Basso Isonzo e Terranegra) ed i sette “cunei verdi” di cui abbiamo accennato all’inizio (tra i quali le aree limitrofe al parco IRIS, rimaste ancora in parte inedificate dopo la lottizzazione operata dalle cooperative della Compagnia delle Opere in variante di PRG). Nelle aree sottoposte a perequazione l’iniziativa è stata lasciata ai privati, che ovviamente stanno presentando piani urbanistici attuativi in cui dominano le villette e le palazzine residenziali, lasciando al Comune uno spezzatino di aree verdi, delle quali non potrà assicurare la manutenzione e che quindi diverranno di fatto – anche se non di diritto – di esclusivo uso privato. Anziché concentrare l’edificazione in poche aree, ottenendone in cambio ampi spazi liberi per la formazione di veri parchi urbani e per la costruzione di una rete di verde urbano priva di soluzioni di continuità (perequazione ad arcipelago), si sta dando vita ad una edificazione a bassa densità, vantaggiosa per i privati (che pubblicizzeranno la vendita di “case immerse nel verde”), ma che determina anche un elevato consumo di suolo e perpetua la tradizionale crescita a macchia d’olio della città.
Quali alternative
Giustamente De Magistris ritiene che per determinare un’inversione di tendenza, per riaffermare i principi della democrazia e delle giustizia sociale, sia oggi necessaria una vera e propria rivoluzione culturale, che sappia porre al centro della riflessione politica la questione morale, la formazione di una nuova etica pubblica, la difesa dei diritti civili e dei beni comuni. Una rivoluzione che dovrà partire dalla nostra capacità d’informare e di proporre alternative credibili e che non potrà non porre la questione della costruzione dal basso di un nuovo modo di fare politica e della formazione di una nuova classe politica.
Una rivoluzione che, ritengo, debba affrontare anche lo specifico della pianificazione urbana e territoriale e delle modalità con cui nel nostro paese si affidano e si gestiscono gli appalti pubblici. Richiedendo la trasparenza dei procedimenti e l’efficacia dei meccanismi di controllo, ma soprattutto esigendo che le scelte strategiche di trasformazione urbana ed i piani urbanistici attuativi siano costruiti con la partecipazione attiva dei cittadini assicurando la salvaguardia degli interessi collettivi, del paesaggio e dell’ambiente.
Saranno le indagini fiorentine e, soprattutto, i processi che ne scaturiranno a spiegarci se il singolare connubio tra Protezione Civile e Beni Culturali abbia davvero generato corruzione. L’interrogativo più importante, tuttavia, non riguarda il frutto di quel rapporto, bensì il rapporto stesso.
Cosa c’entrano, infatti, i Beni culturali con la Protezione civile?
Evidentemente persuaso dell’inadeguatezza delle leggi ordinarie, o dei funzionari che devono applicarle, il ministro Bondi ha affidato ad alcuni commissari la gestione di importantissime amministrazioni: dalle aree archeologiche di Roma e Pompei, alla realizzazione della Grande Brera e (fino all’altro ieri) dei Nuovi Uffizi.
Lo stile, ed in alcuni casi anche le persone, dei commissari hanno evidenti legami con la «cultura del fare» propugnata da Guido Bertolaso: e non a caso molti sostengono che il ministero destinato a quest’ultimo sarebbe stato proprio quello per i Beni e le attività culturali. Anche la creazione di una direzione generale per la Valorizzazione dei beni culturali affidata a Mario Resca (già amministratore delegato di Mc Donald’s Italia) si inquadra perfettamente in questo stile apparentemente efficientista.
E anche se ora (ma solo per cause di forza maggiore) la guida dei Nuovi Uffizi torna alla gestione della Soprintendenza, il vento che spira da Roma rimane quello di un interventismo centralista ansioso di controllare, e possibilmente spremere direttamente, l’immenso patrimonio monumentale.
Da parte sua, il ministro Bondi ha ragione a ricordare che «in Italia esiste da anni una potente lobby dei servizi aggiuntivi». Egli allude alle società e alle cooperative che hanno in concessione molti dei servizi erogati da musei, ivi comprese le mostre e l’editoria scientifica e didattica promossa da queste istituzioni.
Tuttavia, l’obiettivo non può essere semplicemente quello di sostituire i concessionari attuali con altri più graditi: al contrario, lo Stato dovrebbe riappropriarsi della titolarità della politica culturale, che non può e non deve essere appaltata a privati che hanno il legittimo fine del lucro.
Il problema è che da tempo i governi hanno cessato di pensare alla cultura come ad un servizio gratuito e indipendente da offrire ai cittadini (al pari della scuola o della sanità), ritenendo piuttosto che il patrimonio culturale pubblico debba non solo automantenersi, ma anzi generare un reddito, e che dunque esso debba essere gestito non da uomini di cultura, ma da uomini di impresa.
Ed è proprio per questo che le scelte di Bondi non sono un fulmine a ciel sereno: al contrario, esse sono il logico completamento di una politica dei Beni culturali ormai assai ben radicata, e del tutto bipartisan. La parola chiave di tale politica è «eventi», anzi meglio: Grandi Eventi. Per animare un marketing capace di «vendere» i beni culturali, è necessario dirottare i pochissimi fondi su grandi mostre, acquisti-simbolo e restauri-spettacolo, rinunciando così, inevitabilmente, alla manutenzione ordinaria del patrimonio diffuso.
Un caso simbolo di questa perversa dinamica è stato l’invio del David di Donatello da Firenze alla Fiera di Milano: cioè lo sradicamento di un singolo «capolavoro», che è stato isolato dal suo contesto culturale ed artistico per essere usato come fondale di un evento commerciale. E chi aveva finanziato il restauro del bronzo del Bargello, aprendo così la strada all’«evento»? Guarda caso, la Protezione Civile.
Da parte sua, il Ministro per i Beni culturali difese la scelta in questi termini: «La movimentazione di alcuni capolavori simbolo, come il David, è una scelta che il ministero sta perseguendo con coraggio e ostinazione per avvicinare ampi strati della popolazione al nostro enorme patrimonio artistico». «Movimentazione», «popolazione»: perfino la deriva lessicale tradisce l’identificazione tra politica culturale e gestione dei Grandi Eventi.
Il caso del Donatello è significativo anche per il silenzio, anzi per l’attiva complicità, del Polo Museale fiorentino. Se il bilanciamento dei poteri funzionasse, gli storici dell’arte o gli architetti delle soprintendenze dovrebbero costituire un argine che faccia valere le ragioni della tutela — non solo materiale, ma anche culturale — delle opere d’arte. Al contrario, i soprintendenti (sentendosi, a torto, dei meri esecutori tecnici delle volontà politiche) assecondano, e addirittura cavalcano vistosamente, la politica degli «eventi culturali». Ma se i soprintendenti si trasformano in organizzatori di eventi e in manager dei beni culturali, possiamo davvero stupirci se qualcuno decide di sostituirli direttamente con commissari scaturiti dalla Protezione Civile, o dal mondo delle imprese?
Proprio gli storici dell’arte non dovrebbero dimenticare che alla copia si finisce sempre per preferire l’originale.
Si vola alto a Pavia. L’urbanistica svettante attende solo l’arrivo delle cicogne. E’ un attimo per loro spostarsi dall’Oasi di Sant’Alessio con Vialone (nano) all’oasi pavese con Vialone (gigante). Qualche giorno fa è stato annunciato l’arrivo del grattacielo. Le torri medievali sono a rischio, e noi - ottimi manieristi - simuliamo la competitività medievale costruendo grattacieli nel quartiere Ovest, area ex Neca. Li costruirà Caltagirone, ricevuto in Comune qualche mese fa. Li progetterà Tekne e Fuksas.
Il primo sta lavorando anche al Broletto. Il tutto legato al sistema fiera milanese. Il nuovo sistema fiera, che comprende, in vista dell’Expo2015, anche la nostra cittadina. Cittadina che punta in alto. Chi guarda al Pirellone non può che avere quello sguardo. In mezzo al quartiere di villette nuove di zecca, spiccherà il grattacielo. Chi ci abiterà, secondo l’assessore all’urbanistica, dovrà essere contento di tornare a casa. Ai piani altissimi il Pm10 potrebbe essere ad una percentuale minore. Aspettiamo le cicogne per verificare. Magari i contenti tornano a casa da Milano, dove di condomini alti ce ne sono troppo pochi. Tornare a casa... ma non venire a lavorare. Perché a Pavia, a parte il pubblico impiego, di lavoro non ne ha da offrire, ma di case sì. E se ne costruiscono ancora per “attirare abitanti” (assessore Fracassi). Se le giunte di centrosinistra hanno trasformato Pavia in un dormitorio, quella di centrodestra ne prende atto e, soddisfatta che il grosso del lavoro se lo sia sobbarcato qualcun’altro, lo rifinisce a modo suo.
Che dire poi della giustificazione apparentemente saggia: grattacieli per non consumare suolo. Come se fossero necessari, si adduce la motivazione più à la page. Non farli sarebbe stato meglio. Ma questo non lo possono dire. E salta agli occhi una prima, clamorosa, contraddizione. Nell’autunno scorso, il Consiglio comunale ha deliberato una lottizzazione alla Vernavola. Non per costruire grattacieli, per carità, ma palazzine (due? sei? mah). Ho sbirciato le carte che ho potuto avere. Niente male come affare. Nel bel mezzo di uno dei luoghi più belli del Parco del Ticino e Parco Visconteo, soggetta a vincoli sovraordinati (Tavola 23 Prg), si concede il permesso a costruire. Dopodiché si sono detti "basta con il consumo di suolo", è l'ora di costruire grattacieli. E piace, piace anche l’idea già in essere in molte metropoli: i giardini pensili.
Spostare pezzo per pezzo la Vernavola sui tetti dei grattacieli in costruzione nelle aree dismesse potrebbe essere un’idea originalissima, un colpo di genio insuperabile: compensare e perequare la lottizzazione nei parchi con i giardini e gli orti sui tetti dei grattacieli. Peccato che Pavia non sia una metropoli, peccato che Pavia abbia molto terreno agricolo intorno, peccato che potremmo goderci i nostri parchi se solo fossero tutelati, peccato che non siamo a Chicago. Perché qualche amministratore ho l’impressione sia convinto di star a governare Chicago. Ricordiamocelo prima che il vialone nano venga allagato sui tetti a terrazza dei grattacieli della ex Necchi, della ex Snia, della ex Neca.
Dopo la Corte Costituzionale e il TAR Sardegna anche il Consiglio di Stato con la recente sentenza su Cala Giunco, mette la sua parola ed emette il suo giudizio sulla Pianificazione Paesaggistica della Sardegna.
Oltre 100 ricorsi in questi due anni dall’approvazione del PPR, con impegnati i migliori avvocati sulla piazza non sono bastati per demolire e neppure scalfire uno dei più rilevanti lavori di pianificazione territoriale della Regione Sarda. Lo stuolo di detrattori e politici che si sono cimentati in questo tempo, compreso l’ormai patetico Presidente del Consiglio dei Ministri, nel ricercare una sola prova dell’illegittimità e della inadeguatezza del Piano sono rimasti “in braghe di tela” anche se la protervia di una politica arrogante e populista non consentirà loro di far propria una buona ragione per stare definitivamente zitti.
Il Consiglio di Stato dunque conferma le conclusioni del Tar Sardegna, afferma sostanzialmente che il PPR è un atto costruito correttamente, è assolutamente in linea con le norme statali di “riforma economico sociale” e trova una sua concreta legittimazione nelle riconosciute competenze della Regione Sardegna in materia di paesaggio.
Dunque potremo dire serenamente: avanti il prossimo (ricorso!).
Nonostante questa sequenza di legittimazioni e conferme, l’attuale Giunta regionale persevera nell’accanirsi contro, seguendo il suo unico filo conduttore populistico e demagogico, giustificando persino con il cosiddetto Piano Casa la necessità di smantellare l’ingombrante Piano Paesaggistico. Ma qui viene il bello. La recente sentenza del Consiglio di Stato infatti, senza volerlo ed indirettamente, anticipa il giudizio di illegittimità costituzionale del Piano casa presentato da Cappellacci affermando in maniera chiara ed incontrovertibile che la deroga a norme di salvaguardia derivanti dall’applicazione del Codice dei beni Culturali non è ammessa e dunque questo prodotto di “pubblicità istituzionale” della Giunta è illegittimo.
Lo aveva anticipato il Prof. Settis in un chiaro intervento che commentava le diverse norme che le regioni stavano preparando ed approvando in materia, ma nel caso Sardegna le cose sono diverse e per certi versi assai più originali. Infatti essendo la Sardegna l’unica regione dotata di un Piano approvato ai sensi del decreto legislativo 42/2004, sul suo territorio si applicano le norme di salvaguardia contenute negli articoli 146 e 156 del decreto stesso, con la conseguenza che una legge regionale, di rango inferiore a quella statale, non può derogare ai limiti ed alle previsioni contenute nel Piano Paesaggistico nel senso che il “legislatore statale conserva il potere di vincolare la potestà legislativa primaria della regione speciale attraverso l’emanazione di leggi qualificabili come riforme economico-sociali”.
Ecco perché il Partito democratico ha voluto contrapporre una sua proposta di Piano Casa, esclusivamente per dimostrare: 1) che quello della Giunta regionale non parla di case ma di tutt’altro; 2) che qualunque provvedimento riguardi il governo del territorio in Sardegna deve fare i conti con la coerenza alle norme sovra ordinate; 3) che per fare politiche di rilancio della casa bisogna parlare di residenza, di prima casa e di risorse pubbliche vere e mirate ad assicurare un accesso più consistente al bene primario dell’abitazione.
Sappiamo che i figli politici “dell’utilizzatore finale nazionale” andranno avanti a testa bassa e per la loro strada, tuttavia ci incontreranno in Consiglio regionale e faremo fino in fondo la nostra parte per far vincere le ragioni del diritto e del buon senso e poi, se questo non sarà sufficiente, avvertiamo fin d’ora, siamo pronti a cimentarci, per un ennesimo scontro, nei tribunali della Repubblica ovviamente per vincere ancora una volta. Sarà l’ulteriore prova che una politica che non ascolta “inciampa”.
Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it
Vivo a Milano dalla nascita, 54 anni fa, e sono sconcertato dallo stato in cui versa oggi la nostra città. È in atto la cementificazione di ogni minimo spazio disponibile, al solo beneficio, a mio parere, di chi sul cemento si arricchisce. Parlo della ex Fiera, nella quale ci hanno fatto credere sarebbero sorti tre grattacieli e ci è stato taciuto il volume di milioni di metri cubi di cemento adibito a edilizia residenziale a prezzi stratosferici. Parlo delle ex Varesine, dove mi dicono sorgerà il nuovo centro direzionale e una torre di 37 piani per centinaia di inquilini. Innumerevoli persone in più graviteranno perciò nella zona. Ma lo sanno i nostri amministratori che uno a casa e al lavoro ci deve arrivare e ne deve anche uscire? Con quale incremento di traffico, tutto ciò?
Parlo della torre che sta sorgendo in via Lomazzo, ex Sole 24Ore. Sedici piani più non so quanti sotterranei, in una via a senso unico, già oggi paralizzata da ingorghi nelle ore di punta. Parlo della neonata Torre della Regione, per far posto alla quale è stato abbattuto un bosco che, per volontà testamentaria del donatore, doveva rimanere tale. Non si poteva costruire la «reggia del governatore» in periferia? Anche qui lavoreranno migliaia di dipendenti. Ma davvero si crede che questi abitino tutti in zona stazione Centrale? Nessuno si è mai chiesto perché la Défense di Parigi è sorta dov’è?
Parlo del Portello, dove palazzoni a vetri per uffici e abitazioni stanno venendo su a grande velocità. Dove è in costruzione un tunnel che, dalle autostrade nord porterà direttamente... Già, dove porterà? Molto probabilmente a un semaforo contro il quale si inviperiranno migliaia di automobilisti ogni mattina, bloccati nel tunnel. Una volta si diceva che bisognava tenere le auto fuori dalla città, incrementando il mezzo pubblico. Ma allora perché fare un tunnel che ne faccia entrare migliaia ogni mattina?
Francesco Tricoli
Tenere le auto fuori dalla città? Era un’aspirazione, però tramontata. Nemmeno l’Ecopass è riuscito a scoraggiare il traffico privato. E come potrebbe, del resto, vista la vita cui sono costretti— ne abbiamo parlato tante volte in questa rubrica— gli sfortunati pendolari? A noi già adesso sembra di essere seppelliti dal traffico e non voglio pensare a cosa sarà domani.
Un intreccio di incarichi, consulenze, nomine, collaborazioni tra i Beni culturali e la Protezione civile. Per una pioggia di milioni
È l'asse delle consulenze. A un capo c'è il ministero dei Beni culturali (Mibac) di Sandro Bondi. All'altro c'è la Protezione civile di Guido Bertolaso. I due estremi sorreggono una rete di incarichi, collaborazioni e nomine distribuite in un arcipelago di più o meno famosi. Presi singolarmente, sono contratti nell'ordine di decine o, più di rado, centinaia di migliaia di euro. Bisogna fare i conti con le ristrettezze dei tempi e con le rivalità interministeriali. Bisogna considerare l'occhio censorio di Giulio Tremonti e l'operazione trasparenza lanciata dal ministro per la Funzione pubblica Renato Brunetta. Per non parlare delle rituali proteste della Corte dei conti. Eppure il flusso di denaro pubblico distribuito in forma privata segue il suo corso. Per evitare impicci è sufficiente non rispondere alle interrogazioni parlamentari dell'opposizione o ritardare la messa on line di una tabella.
Il comparto consulenze del Mibac, ad esempio, non brilla per essere troppo aggiornato. Dal sito del ministero mancano gli incarichi assegnati di recente da Mario Resca, direttore generale alla valorizzazione del patrimonio del ministero nonché uomo forte di Cultura Spa, la nuova società di diritto privato ricavata dalle ceneri della scatola vuota Ales alla fine di gennaio, a insaputa del Parlamento e del titolare delle partecipazioni di Stato, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti.
Al momento, Resca avrebbe concesso contratti per 500 mila euro. Fra i beneficiari certi ci sono tre delle principali società di consulenza internazionali. Si tratta di Roland Berger, Price Waterhouse Coopers e Boston Consulting group con un finanziamento di 100 mila euro per una. Questi advisor hanno il compito di tracciare le linee guida sull'impiego di centinaia di milioni di euro di fondi. Magari valutando la possibilità, molto concreta, che Resca, commissario ai lavori della Grande Brera, si trovi in conflitto di interessi rispetto ai suoi numerosi incarichi privati: consigliere dell'Eni, della Mondadori, presidente di Confimprese, l'associazione che tutela gli interessi delle catene commerciali.
Nello stesso modo, non c'è ancora traccia sul sito del Mibac degli incarichi attribuiti ai tre nuovi consiglieri ingaggiati dall'ex commissario straordinario della Cirio. Si tratta di Claudio Strinati, già soprintendente al Polo Museale romano, di Giuliano Urbani, presidente del museo della Scienza e della tecnica di Milano e titolare del ministero dei Beni culturali dal 2001 al 2005, e di Paolo Peluffo, già responsabile stampa al Quirinale con Carlo Azeglio Ciampi e consigliere della Corte dei conti con la responsabilità delle relazioni esterne.
Proprio l'area della Corte dei conti sembra interessata in modo particolare dal gioco strategico delle consulenze. Dai documenti della presidenza del Consiglio risulta che il 15 gennaio la dirigente del Mibac Marina Giuseppone è stata indirizzata a un incarico di consulenza, studio, ricerca e supporto degli uffici di diretta collaborazione del ministro Bondi. La dottoressa Giuseppone, che nel 2005 era stata incaricata presso il dipartimento Prevenzione e Comunicazione del ministero della Salute, è figlia di Vittorio Giuseppone, magistrato che lavora alla Corte dei conti per l'ufficio di controllo legittimità sui servizi alle persone e beni culturali. Appunto la sezione che vigila, fra l'altro, sulle attività del Mibac.
Anche il capo di gabinetto Nastasi, del resto, è figlio di un giudice della magistratura contabile, Enrica Laterza. Il suo è lo stipendio più alto dello staff (187 mila euro) mentre Marina Giuseppone, che è a quota 141 mila euro annui, si troverà a lavorare fianco a fianco con una folta pattuglia di consiglieri del ministro. Alcuni, come i giornalisti Angelo Lorenzo Crespi, ex direttore del 'Domenicale' di Marcello Dell'Utri, e Raffaele Iannuzzi ('L'Occidentale'), ex pupillo di Gianni Baget Bozzo, sono consulenti a pagamento (60 mila per il primo e 35 mila euro per gli altri due, rispettivamente). Altri lavorano a titolo del tutto gratuito come Maurizio Costanzo, Sabino Acquaviva e Raffaele Iannuzzi detto Lino, ex parlamentare (nessuna parentela con il suo omonimo). Fra i consulenti impiegati con la formula del rimborso missioni, c'è la docente di Archeologia dell'università di Padova Elena Francesca Ghedini, sorella di Nicolò, deputato e principale consigliere legale di Silvio Berlusconi.
Il gabinetto e le direzioni generali del ministero sono di sicuro i più promettenti sotto il profilo degli incarichi. Ma anche il fronte di Cinecittà rimane effervescente, a dispetto di un contesto economico piuttosto mediocre e delle restrizioni imposte da Tremonti. La nuova holding creata con la fusione fra Cinecittà e Istituto Luce ha presentato una lista della spesa a fine 2009 con oltre 3 milioni di euro distribuiti fra amministratori fra i quali i nuovi vertici Luciano Sovena (142 mila euro di emolumenti), Roberto Cicutto, il vicedirettore del 'Giornale' Nicola Porro. L'autonoleggio con conducente per il presidente della spa statale è costato da solo 31 mila euro. Fra i nomi di spicco nella lista degli incarichi c'è l'ex lobbista di Sky Tullio Camiglieri retribuito con 29 mila euro per "formulare una proposta di riforma strategica del gruppo pubblico cinematografico" e "assistenza nella realizzazione di una giornata celebrativa dei diritti umani". Il giovane fratello di Piero Marrazzo, Giampiero, ha preso invece appena 12 mila euro per servizi di ufficio stampa. Una consulenza fra le più consistenti (200 mila euro) è toccata a Comunicare organizzando, la società di mostre d'arte ed eventi che gestisce il complesso del Vittoriano in piazza Venezia.
A capo della holding da 15 milioni di euro di ricavi annui ci sono Alessandro Nicosia, da sempre vicino ai due ex sindaci di Roma Francesco Rutelli e Walter Veltroni. Nicosia amministra il suo gruppo in partnership con la moglie Maria Cristina Bettini, cugina del fedelissimo veltroniano Goffredo. Fra i committenti di Comunicare organizzando c'è anche Arcus, la società che gestirà per conto di Mibac e ministero delle Infrastrutture 100 milioni di euro di fondi. Il presidente di Arcus, Salvatore Italia, ha presentato le sue dimissioni a Bondi martedì 2 marzo. Formalmente, l'amministratore di area Alleanza nazionale adduce motivi personali. In realtà, è da mesi che si sente parlare di un suo allontanamento per contrasti con il capo di gabinetto di Bondi. E chi si mette contro Nastasi, si mette contro il ministro.
Nastasi è stato, nello scorso luglio, uno dei presenti all'inaugurazione dei concerti di Campi Sonori, organizzati in Abruzzo dalla Protezione Civile e conclusi dall'esibizione di Claudio Baglioni, il 29 gennaio scorso alla caserma della Guardia di finanza di Coppito in Abruzzo. Nelle zone del terremoto si sono esibiti gratuitamente anche Ennio Morricone, Claudio Muti, Nicola Piovani, Gilberto Gil e Renzo Arbore. Lo show di un mese fa a Coppito ha posto fine alla prima fase del progetto. Finiti i concerti, rimarrà il workshop musicale e multimediale per gli studenti aquilani.
L'iniziativa di Campi Sonori è stata patrocinata dalla Protezione civile assieme a Rai educational, al Festival del cinema di Venezia e ad alcune case di produzione cinematografica, ed è stata affidata a Co2-The crisis opportunity, una onlus specializzata in comunicazione sociale fondata da una pattuglia di giovani. C'è Giulia Minoli, 28 anni, figlia del direttore di Rai educational e neo-presidente del museo di Rivoli Giovanni. Minoli junior è nipote di Ettore Bernabei e fidanzata di Salvo Nastasi, che ha incominciato la sua carriera al Mibac come direttore generale per lo spettacolo dal vivo, con la benedizione di Gianni Letta. La rappresentante di Co2 in Abruzzo è stata Sara Tardelli, figlia della leggenda juventina Marco ed esordiente qualche anno fa proprio nei programmi di Rai educational. Fondatori sono inoltre Simone Haggiag, rampollo della famiglia azionista di Cinecittà Studios, la società con Luigi Abete e Diego Della Valle che ha in affitto i teatri di posa del cinema statale, e Daniele Ciccaglioni, figlio del proprietario delle diciannove librerie romane Arion.
I progetti della onlus contemplano anche Pompei Viva, un altro workshop musicale in collaborazione con la Protezione civile e con la Soprintendenza archeologica di Napoli e Pompei, dove è commissario Marcello Fiori, ex vicecapo di gabinetto di Francesco Rutelli e braccio destro di Bertolaso. Co2 ha un ruolo organizzativo anche in Napoli teatro festival, con il supporto della Farnesina, e due anni fa ha messo in piedi il Palermo Sole Luna festival in collaborazione con la Regione siciliana e con la direzione generale cinema del Mibac, allora retta dall'altro uomo di Letta Gaetano Blandini, che in ottobre si è trasferito alla Siae.
Da Faq (Frequently asked questions) del Pgt. «Va poi menzionata la trasformazione verso una distinzione sempre più labile tra servizi pubblici e servizi privati. … È il mondo della scuola … dei mercati … del concetto di "tagesmutter" … dell’esteso universo della sussidiarietà. … Siamo abituati a vivere in un mondo in cui la nostra domanda di servizi è soddisfatta dal soggetto pubblico alle sue varie scale. Per una serie di motivi troppo lunghi (da trattare in questa sede) il modello esistente non è più in grado di funzionare in maniera soddisfacente. … "
Precedentemente avete usato il termine "sussidiarietà". Che cosa si intende con questo?".
La maniera più semplice per spiegare che cosa è la sussidiarietà può essere facendo qualche esempio. A Milano c’è una carenza cronica di asili nido. Nel contempo sappiamo che una grande quantità di mamme si auto organizza usando il meccanismo del sopracitato "tagesmutter" (madre di giorno: donne che accudiscono a un gruppo di bambini - n. d. r.). Queste mamme stanno fornendo un servizio prezioso alla città.. .. La sussidiarietà non è un prodotto. Si tratta piuttosto di un metodo per affrontare i bisogni concreti della persona e della comunità....».
e ANCORA. «La sussidiarietà non è l’unica risposta possibile. Se le organizzazioni della società civile non sono in grado di soddisfare i requisiti stabiliti dal Comune, quest’ultimo interviene fornendo direttamente il servizio. Si tratta di una risposta residuale, basata sulla convinzione secondo cui la risposta sussidiaria dovrebbe essere privilegiata ove possibile. …. Da questo punto di vista, è un ribaltamento completo rispetto alla maniera tradizionale di guardare ai servizi. Non si parla più di "scuole", quanto piuttosto alla necessità di soddisfare il bisogno di "istruzione". Non è detto che la maniera tradizionale di rispondere a questi bisogni … sia l’unica maniera possibile o la migliore».
Ho riportato questa lunga citazione dal Pgt perché il lettore potesse ben capire di cosa parliamo. Se, come si è gridato, i vecchi piani regolatori erano "vittime" di un’ideologia (si dice di sinistra) qui siamo allo tsunami ideologico e non abbiamo bisogno di altra conferma. La dottrina politica di Cl, che in Lombardia ha la sua culla, è chiara: da un lato si chiudono i rubinetti verso le istituzioni pubbliche - scuole, sanità, assistenza sociale - poi si elargiscono contributi alle strutture "accreditate" che, privatamente, offrono quei servizi che il pubblico strangolato non riesce più a offrire. Ma perché parlarne nel Pgt?
La ragione è semplice: in altra parte si dice che i volumi edificati destinati ai servizi - pubblici o privati (sussidiari) che siano, tra i quali anche scuole, asili, spazi commerciali e via discorrendo - non costituiscono cubatura ai fini urbanistici, dando una spinta alla sussidiarietà: gli accrediti arriveranno poi. Io credo che una riflessione vada fatta proprio mentre celebriamo il 150° anniversario dell’unità d’Italia e parliamo di Costituzione: quell’unità e questa Costituzione si reggono anche sul principio di una scuola pubblica, uguale per tutti. La scuola di Formigoni ci riporta all’Ottocento, tre secoli fa, e anche questo Pgt ne è uno strumento.
I lavori di scavo al Foro della Pace sono stati bloccati. Ferme anche le indagini nei cantieri della villa dei Quintili sull’Appia e in altri siti della Regina Viarum. E nessuno più che riversi nel grande archivio telematico le centinaia di schede di scavo redatte su carta per catalogare il tesoro venuto alla luce nel centro storico e nel suburbio.
Non bastano i tagli che il governo ha imposto ai Beni culturali. Ora ad affossare l’archeologia romana ci si è messa la burocrazia interna. Che ha messo alla porta un centinaio di archeologi collaboratori: quegli studiosi che costituiscono la forza lavoro senza la quale la macchina ministeriale, depauperata dal blocco delle assunzioni, si ferma. E questo perché la Soprintendenza archeologica speciale di Roma ha rimandato indietro «quasi un milione di euro di fondi già impegnati nel 2009 in contratti, affidamenti e collaborazioni esterne», denuncia nell’interrogazione alla Camera la parlamentare pd Manuela Ghizzoni.
Un milione dimenticato. Mentre la società ministeriale Arcus spa ne destina uno e mezzo (nei prossimi tre anni) per "le attività culturali al Complesso monumentale del Vittoriano" facendo passare come beneficiario il Commissario straordinario per l’area archeologica di Roma e Ostia. Più un altro milione per Ostia antica. E niente per l’area archeologica centrale.
A bloccare i fondi della Soprintendenza ci sarebbe il cosiddetto "decreto Brunetta" che, in nome della trasparenza, ha limitato al 30 per cento del bilancio gli stanziamenti previsti per le consulenze esterne. Ma lo stop sul 2009 è arrivato dagli uffici amministrativi a gennaio. Quando proposte e contratti degli esterni erano stati già accettati e vistati dai vari funzionari della Soprintendenza che operano sul territorio. In molti i casi i lavori erano già stati avviati. Lavoro gratuito, scoprono adesso. «La nostra paura è che il problema si riproporrà anche nel 2010», dice Giorgia Leoni, presidente della Confederazione italiana archeologi. Tanti gli Indiana Jones con la partita iva a Roma. Erano la maggior parte dei 5000 che nel 2008 parteciparono all’ultimo concorso nazionale, dopo 25 anni, per 30 posti da archeologo. Requisiti: laurea, specializzazione e dottorato. Super esperti e precari a vita. Ora anche senza stipendio.
Rita Paris, responsabile dell’Appia e della Catalogazione, dà una speranza ai collaboratori: «Attenzione, tutti i lavori per i quali vi erano le proposte non rientrano nelle "consulenze". Redigere inventari, catalogare, fare assistenza nei cantieri di scavo: si tratta di attività istituzionali della Soprintendenza che vengono date all’esterno per mancanza di personale. Siamo stati fermi un anno. Speriamo di riuscire a recuperare nel 2010». Avverte Rossella Rea, responsabile del Colosseo: «Al Foro della Pace il blocco dello scavo archeologico sta creando problemi e ritardi anche alla metro C». Il marciapiede di via dei Fori imperiali deve essere smantellato per lasciare il posto al cantiere dell’omonima stazione. «E per questo - spiega la Rea - abbiamo studiato un percorso pedonale alternativo: una passeggiata suggestiva e inedita sopra il Foro della Pace e dietro Massenzio». Ma gli scavi sono fermi.