Nuova attenzione per il Colosseo assediato dal traffico e afflitto da problemi di manutenzione è stata manifestata in questi giorni da autorità governative e cittadine. Questo lascia ben sperare nella disponibilità di maggiori finanziamenti e nell’attuazione di nuovi interventi. Se ne avverte infatti la necessità per garantire la conservazione del monumento e per assicurargli la possibilità di sostenere il crescente afflusso di visitatori e di raggiungere le condizioni di decoro che esso merita. Sono compiti non facili se si considerano la mole, la vetustà, le menomazioni inferte all’anfiteatro nel corso dei secoli da parte di eventi naturali e dall’uomo. Il compito più delicato consiste però nel porre attenzione a quanto vi è ancora da studiare riguardo ai caratteri strutturali, funzionali ed alle trasformazioni subite dall´edificio nel tempo.
Allo studio, alla manutenzione ed all’agibilità del Colosseo si è provveduto per molto tempo quasi esclusivamente con una liberalità della Banca di Roma, ora UniCredit Banca di Roma, la quale con una convenzione stipulata nel 1994 assegnò alla Soprintendenza 40 miliardi di lire per attività riguardanti il Colosseo. Quell´importo, rivalutato, corrisponde oggi a circa 30 milioni di euro. Per circa dieci anni tale disponibilità ha consentito di tenere aperto il Colosseo, garantendone tra l’altro il funzionamento quotidiano, i lavori necessari per la sua completa apertura, l´adeguamento alle norme di sicurezza, la videosorveglianza interna, le biglietterie automatizzate, gli ascensori per il pubblico. Si riuscì a ripristinare una porzione del piano ligneo dell’arena, individuando e seguendo l’antico schema costruttivo, per rendere praticabile lo spazio su cui si eseguivano i combattimenti gladiatorii e le altre rappresentazioni anfiteatrali. Un lavoro assai rilevante, di carattere sperimentale, fu eseguito poi sulla facciata del Colosseo, nella parte prospiciente la via dei Fori Imperiali, per l’ampiezza di tre fornici e per l´intera altezza dell’edificio, al fine di individuare i criteri più efficaci e meno aggressivi per la ripulitura delle superfici dalle incrostazioni accumulatesi nel tempo e in parte dovute all’inquinamento atmosferico. L’intervento aveva anche la finalità di ottenere una stima reale dei costi per la ripulitura di tutto il monumento. Queste attività furono studiate con grande perizia scientifica e poi dirette da architetti, archeologi e restauratori della Soprintendenza con la partecipazione di numerosi tecnici esterni. A tutti si deve anche lo svolgimento di ricerche e la predisposizione di progetti per interventi da eseguirsi successivamente, come le cancellate esterne del monumento. Di queste sono stati realizzati prototipi in ferro battuto sulla base delle tracce e degli incassi lasciati nei travertini dai cancelli antichi per riproporne la forma e per determinarne i costi.
Il programma degli interventi finanziati dalla Banca di Roma prevedeva tra l’altro indagini su aspetti statici, architettonici nonché di ordine storico e archeologico la cui conduzione fu affidata ad una commissione costituita da rappresentanti delle Facoltà di Ingegneria, Architettura e Lettere delle tre università di Roma, che per anni hanno dedicato la loro attenzione allo studio del Colosseo. A tal fine furono eseguiti sondaggi intesi a verificare la situazione idrogeologica, il rischio sismico con numerose altre ricerche che consentirono di acquisire un’ingente mole di informazioni e di formulare indicazioni sugli interventi necessari per la conservazione del monumento. Indagini furono svolte anche con la collaborazione di istituzioni scientifiche, quali l’Istituto Archeologico Germanico, a cui si deve la ricostruzione del sistema di elevazione degli animali feroci dai sotterranei al piano dell´arena mediante ascensori e botole che si aprivano sul pavimento ligneo.
La convenzione con l’UniCredit Banca di Roma è ancora attiva: l’erogazione delle somme ha infatti proceduto secondo i tempi necessari allo svolgimento di indagini minuziose, alla realizzazione di interventi conservativi molto complessi, all’esecuzione di lavori sperimentali, agli studi per la ricostruzione del piano dell’arena, alla progettazione per il delicato inserimento di impianti e strutture di servizio, come gli ascensori per il pubblico, senza offesa per l’integrità fisica del monumento e per i suoi caratteri formali. I risultati sono ben evidenti, a cominciare dai travertini della facciata ripuliti dalle incrostazioni nere dell´inquinamento senza cancellare patine e variazioni cromatiche dovute all’azione del tempo ed alla storia del monumento. Il criterio adottato dovrebbe costituire un modello alternativo alla pratica della drastica rasura a cui sono periodicamente sottoposti i travertini delle chiese romane per finalità del tutto estranee alla loro conservazione. La perdurante disponibilità dei fondi concessi dall’UniCredit Banca di Roma a puro titolo di liberalità, di cui restano ancora da impegnare almeno tre milioni e mezzo di euro, rende anche evidente l’attenzione con cui sono stati impiegati i finanziamenti. Su nessun monumento antico è possibile eseguire lavori ingenti in tempi brevi senza fare più danno che bene.
Il Mezzogiorno alle volte deve piangere se stesso. Come prova la storia di ordinaria follia che qui raccontiamo. L´Auditorium progettato e donato da Oscar Niemeyer a Ravello, inaugurato il 30 gennaio è stato utilizzato un solo giorno (il 7 maggio) e rischia di restare chiuso sine die. Il Comune, che ne è proprietario, non ha né le risorse né le professionalità per gestirlo.
Tuttavia, rifiuta di darlo in comodato alla Fondazione Ravello, di cui esso stesso fa parte. Così un capolavoro architettonico, realizzato con i fondi europei per 18 milioni di euro, sembra condannato a rimanere, se non una ennesima cattedrale, una preziosa cappella, abbandonata nel deserto culturale del Sud.
I lettori di questa rubrica forse ricorderanno le polemiche che divisero le organizzazioni ambientalistiche su questa iniziativa: a favore Legambiente e Wwf, contraria Italia Nostra, secondo uno spartiacque che si richiamava all´eterna querelle tra innovatori e tradizionalisti. Noi in questo caso parteggiammo per i primi, ricordando l´errore commesso negli anni Sessanta dai conservatori (al di là di ogni distinzione politica) impedendo la costruzione di una casetta di Wright sul Canal Grande e dell´ospedale di Le Courbusier alle Fondamenta Nuove. A Ravello sembrava che gli innovatori avessero, questa volta, avuto alla fine la meglio.
Per valorizzare turisticamente, durante tutto l´anno, un luogo così raro, nel 2002 la Regione Campania, la Provincia di Salerno, il Comune di Ravello e la Fondazione Monte Paschi di Siena avevano creato la Fondazione Ravello affidandole, per Statuto, il compito di «promuovere e coordinare iniziative culturali, scientifiche ed artistiche che facciano dei siti storico-artistici di Ravello la sede di manifestazioni di prestigio nazionale ed internazionale». Da allora la Fondazione ha rinnovato e potenziato il Festival musicale e intrapreso altre iniziative collegate al nuovo Auditorium, adatto a "destagionalizzare" il turismo e capace di ospitare gli spettacoli anche nei mesi freddi.
Ora, si dà il caso che, quando il progetto dell´Auditorium fu varato, il Comune era amministrato dalla lista "Insieme per Ravello". La lista civica all´opposizione – "La Campana" – era invece contraria. I partiti di destra, centro e sinistra sono frantumati e fanno parte, mischiati, delle due liste.
Alle elezioni del maggio 2006, per 14 voti, ha vinto "La Campana", storica avversaria dell´Auditorium: il quale, per ironia della sorte, si è trovato a dipendere proprio da chi, fin dall´inizio, lo aveva avversato. Così, quando la costruzione dell´Auditorium è arrivata quasi alla fine, la querelle si è spostata sul problema della gestione, e dopo estenuanti trattative si è approdati a un "atto di comodato" sottoscritto dal sindaco (2 ottobre 2009), grazie al quale la gestione dell´Auditorium veniva affidata alla Fondazione.
Risolto il problema? Tutt´altro. La firma del sindaco doveva essere convalidata dal consiglio comunale, ma il vice-sindaco avversava l´atto di comodato, definendolo «carta straccia». Così, dopo l´inaugurazione (29-31 gennaio 2010), gestita dalla Fondazione, l´Auditorium è rimasto chiuso e ora tutto legittima il timore che tale resterà a tempo indeterminato. Per essere valorizzato, sarebbe invece necessario elaborare tempestivamente la pianificazione delle iniziative concertistiche ed altre, selezionare il direttore e formare il personale, mettere in gara l´affidamento dei servizi, ecc.
Ravello ha la duplice fortuna di possedere uno splendido Auditorium e di essere socio di una Fondazione capace di gestirlo in modo eccellente. Ma il 22 aprile scorso il consiglio comunale ha bocciato l´atto di comodato già sottoscritto dal sindaco. Il sindaco stesso ha votato contro il documento che recava la sua firma. Oggi il capolavoro di Oscar Niemeyer, costato alla Fondazione dieci anni di impegno, all´Unione Europea 18 milioni di euro, alle maestranze tre anni di lavoro, è chiuso. E non sappiamo per quanto tempo lo resterà.
Il giornalismo italiano a volte deve piangere se stesso. Certamente alcuni giornalisti ignorano la coerenza. Ha senso criticare l’abusivismo edilizio e l’illegittimità urbanistica, che certamente – come spesso ci ricorda la Repubblica - dominano in vaste zone del Mezzogiorno, e poi trascurare il fatto che le critiche all’Auditorium di Ravello sono nate in primo luogo per l’illegittimità di quell’intervento, in palese contrasto col piano paesaggistico approvato con legge dalla Regione Campania (lo abbiamo dimostrato per tabulas in questo sito, e non solo)? Ha senso criticare ogni giorno l’arbitrio dei governanti, così diffuso ai nostri giorni, e poi trascurare il fatto che quell’intervento illegittimo è avvenuto solo perché un “Governatore” l’ha imposto contra legem? Che un giornalista trascuri di considerare le ragioni di merito per cui un “generatore di traffico” posto in quel luogo sia devastante per l’intera area della penisola amalfitana può non stupire: giornalisti capaci di comprendere il territorio ne sono rimasti pochi, e Antonio Cederna è solo un ricordo. Né stupisce che un giornalista non riesca a distinguere un’opera di Oscar Niemeyer da quel discutibile edificio, progettato dall’architetto Zeccato. Ma potrebbe evitare di affermare che Niemeyer ha “donato” l’auditorium, quando esso è stato progettato dal Comune sulla base di un suo schizzo e pagato dal contribuente.
Commentando l’articolo di un altro giornalista della Repubblica (Giovanni Valentini, 5 dicembre 2004) scrivevamo allora che egli, nel difendere l’Auditorium dalle critiche dimenticava, tra l’altro, «che l'unico motivo di opposizione non era "l'impatto ambientale", ma una serie molto più ricca di ragioni. Tra queste la palese illegittimità dell'intervento. L'illegittimità era già stata rilevata dal TAR in occasione della presentazione del nuovo PRG, che difatti non fu mai approvato. Ne ha preso atto di nuovo il TAR alla deliberazione del progetto. La ripetuta pronuncia del TAR è stata convalidata in prima istanza dal Consiglio di Stato, che ha negato al Comune la sospensiva». Concludevamo dicendo che l’illegittimità dell’intervento era stata «implicitamente riconosciuta da quanti (Bassolino, Di Lello) hanno dichiarato che cambieranno la legge pur di far fare l'auditorium. Se la legge non mi va bene la ignoro, la scavalco, e se non mi riesce ne faccio un'altra che mi vada bene. E' un bell'esempio che i pubblici poteri danno, in una regione infestata dalla camorra!»
Che oggi quell’esempio sia stato seguito dalla maggioranza dei governanti è evidente a tutti. Chi oggi giustamente protesta farebbe bene a verificare la coerenza delle sue posizioni.
Per l’amministrazione regionale è la terza batosta nel giro di un anno e segue di pochi mesi la sentenza definitiva con cui il Consiglio di Stato ha bocciato i vincoli disposti per notevole interesse pubblico sull’area circostante al sito archeologico. La legge 45 stabilisce che il provvedimento cautelare trimestrale ora cassato dai giudici di piazza del Carmine non è ripetibile, quindi l’ordinanza firmata ieri mattina dalla seconda sezione presieduta da Rosa Panunzio - consigliere Tito Aru, relatore Antonio Plaisant - dovrebbe chiudere la contesa almeno sul fronte amministrativo. I legali della Regione - Roberto Murroni, Giampiero Contu, Paolo Carrozza e Vincenzo Cerulli Irelli - hanno prodotto in aula il decreto del 12 settembre col quale il sovrintendente ai beni architettonici e paesaggistici Fausto Martino ha annullato due nullaosta concessi dal comune di Cagliari al gruppo Cualbu per l’edificazione di parte delle aree. I giudici l’hanno però ritenuto irrilevante ai fini del giudizio, trattandosi di un’iniziativa esterna alla Regione assunta in autonomia dal ministero dei Beni Culturali e comunque del tutto slegata dal provvedimento di inibizione. Fra l’altro si trattava di copie dei documenti originali, prive delle firme del responsabile del procedimento e del sovrintendente. E’ passata al contrario la linea dei difensori del gruppo Cualbu - Antonello Rossi e Pietro Corda - e di quelli del comune di Cagliari (Ovidio Marras, Marcello Vignolo, Massimo Massa e Carla Curreli) per i quali l’iniziativa cautelare non si reggeva su alcun presupposto: «Il provvedimento cautelare impugnato - hanno scritto i giudici nell’ordinanza - non è assistito da elementi idonei sul piano motivazionale e istruttorio a comprovare la sussistenza di concrete ragioni di urgenza correlate alla protezione degli interessi paesaggistici affidati alle cure della Regione».
La Regione quindi non avrebbe più alcuno strumento per intervenire con provvedimenti di chiusura dei cantieri, che a questo punto restano di competenza del ministero dei Beni Culturali. E’ stato infatti il Consiglio di Stato, nella sentenza di fine luglio, a confermare la possibilità che le sovrintendenze decidano di imporre un nuovo vincolo sull’area oggi edificabile. Un’ipotesi sollecitata nei giorni scorsi anche da Italia Nostra, che ha inserito Tuvixeddu fra i dieci siti italiani di assoluta importanza culturale minacciati dall’aggressione del cemento. E’ poi del 12 settembre scorso il decreto firmato firmato dal sovrintendente ai beni architettonici e paesaggistici Martino, che rilevate una serie di vizi procedurali nei nullaosta paesaggistici concessi dal comune a Coimpresa li ha ritenuti illegittimi. Se le valutazioni di Martino dovessero essere estese all’insieme del quadro autorizzativo in possesso del gruppo Cualbu per Tuvixeddu i cantieri potrebbero essere nuovamente chiusi. Ma a questo punto, con la Regione ormai inerme dopo la sequenza di sconfitte davanti ai giudici amministrativi, tutto dipende dalle decisioni dello Stato.
Ma lo Stato prepara nuovi vincoli
C’è però un’altra speranza all’orizzonte della Regione e delle associazioni ambientaliste che vorrebbero proteggere la necropoli punica di Tuvixeddu dal cemento: il sovrintendente regionale ai beni architettonici e paesaggistici Fausto Martino ha avviato il procedimento per la dichiarazione di interesse culturale di una parte dell’area interessata agli interventi di Coimpresa.
Si tratta del giardino e delle pertinenze di villa Muscas, dove il piano del gruppo Cualbu sostenuto dal comune di Cagliari prevede la realizzazione di un ristorante e di uno spazio ricreativo. Il sito era già protetto dal vincolo indiretto ed è piuttosto lontano dalla zona dei ritrovamenti archeologici. Se però il Ministero deciderà, come l’iniziativa di Martino fa prevedere, di imporre un vincolo diretto per notevole interesse culturale per Coimpresa sarebbe una complicazione in più. In un raggio di cento metri dal villino sarebbe vietata qualsiasi trasformazione, di conseguenza il progetto dovrebbe essere in parte rivisto. Per Martino «la villa e il parco sono tra gli ultimi esempi che segnano il prestigio di una classe dirigente ottocentesca cui vanno ascritte le trasformazioni che faranno di Cagliari una città europea».
Intanto nell’accesissimo dibattito che circonda le vicende politico-giudiziarie legate a Tuvixeddu interviene anche l’assessore regionale ai lavori pubblici Carlo Mannoni, che parla del decreto di annullamento dei nullaosta comunali firmato da Martino: «Mi permetto di invitare addetti e non addetti ai lavori a leggere e rileggere quel decreto - scrive Mannoni - vi troveranno un pezzo della storia di Cagliari, anche recente, dove qualche "cattivo" è ora meno cattivo e dove qualche "buono" è ora forse molto, molto meno buono di prima. Ritengo, però, che siano importanti, in questo decreto, non tanto l’annullamento dell’atto autorizzativo comunale le cui gravi patologie sono ben evidenziate, quanto le motivazioni che lo Stato, quello con la esse maiuscola nella veste del suo Soprintendente regionale, ha posto a base dello stesso provvedimento. Motivazioni che coincidono con quelle contenute nell’atto di indirizzo su Tuvixeddu da me indirizzato l’11 gennaio 2007 come assessore regionale ad interim dei beni culturali, ai dirigenti responsabili in materia paesaggistica. Con tale atto mettevo in evidenza come il colle di Tuvixeddu-Tuvumannu venisse definito dal Ppr area di notevole interesse pubblico e perciò "funzionale alla predisposizione di programmi di conservazione e valorizzazione paesaggistica" ed invitavo gli stessi dirigenti, ai sensi del Codice Urbani, a ordinare la sospensione dei lavori "in quanto capaci di pregiudicare il bene paesaggistico per il quale il Ppr della Regione prevede il recupero o la riqualificazione".
1. Limiti inevitabili ma contenibili di un piano comunale in un’area metropolitana – Unprogetto di PGT che elude i problemi del “quadro metropolitano”
1. Ingeneroso e non corretto sarebbe attribuire al Comune di Milano la responsabilità, nella sua interezza e fors’anche in larga parte, della omissione di una efficace aggressione dei complessi problemi di inquadramento metropolitano della sua pianificazione comunale od addirittura della mancanza di una pianificazione territoriale-urbanistica relativa all’intera area metropolitana della quale il Comune egemone stesso (il cui territorio non risulta però molto esteso) costituisce il nucleo centrale.
Corretto appare evidenziare, in apertura del presente breve documento, la rilevanza che sembra sia da attribuire ad “attenuanti” da riconoscere al Comune di Milano quanto al tema “quadro metropolitano”.
Pare sufficiente ricordare
- che, per varie ragioni, sfocata ormai purtroppo risulta la prospettiva della creazione della “città metropolitana” pur prevista dalla Costituzione solo di recente, in seguito alla riforma del suo titolo V intervenuta nel 2001
- che sia la maggioranza sia l’opposizione hanno alcuni anni orsono in vario modo “remato contro”, quando è stata decisa la creazione della provincia di Monza (il cui territorio arriva a qualche chilometro di distanza dai confini del Comune di Milano)
- che tale sviluppo non ha certo reso più probabile la soluzione del problema del “governo metropolitano milanese”.
Si possono subito aggiungere cenni
- ai limiti della possibile “supplenza” della Regione che è chiamata ad esercitare i suoi poteri di pianificazione territoriale al fine di affrontare alcuni dei problemi in considerazione che non sono, però, solo dell’area metropolitana milanese, ma della più vasta regione metropolitana costituita da parte rilevante della Lombardia
- nonché ai limiti di una possibile parziale supplenza della Provincia, che, in base alla L.r. n. 12/2005, può, come è noto, esercitare solo poche funzioni di pianificazione territoriale utili a fini di governo dell’area metropolitana.
Le doverose constatazioni testè indicate non consentono, però, di giustificare la disattenzione per i problemi del “quadro metropolitano” che caratterizza il progetto di piano in esame e che, a maggior ragione, desta perplessità se si considera la prospettiva dell’Expo 2015.
Non difetta, in verità, nella relazione illustrativa del documento di piano il riconoscimento della necessità di affrontare alcuni problemi che si pongono a livello di “regione metropolitana” (indicata rilevando che essa va, da un lato, da Orio al Serio a Malpensa e, dall’altro, da Como a Lecco) ed altri problemi che si pongono a livello di area metropolitana milanese (della quale risulta evidenziata l’impianto storicamente radiale).
Viene correttamente affermata “la necessità di ripensare urbanisticamente Milano entro un assetto metropolitano vasto” e più volte risulta evidenziato (per quanto superfluo) che “ non c’è un confine urbanistico tra la città di Milano e i comuni limitrofi”.
All’enunciazione del tema dell’inquadramento metropolitano non fa seguito, però, lo svolgimento del tema stesso.
Non si riscontra neppure l’indicazione di tentativi esperiti in applicazione del principio di copianificazione o solo del principio di collaborazione con gli altri enti interessati e di alcune possibili soluzioni mediante il ricorso a c.d. azioni di “governance metropolitana”.
In particolare, da un angolo di visuale attento alle suddette esigenze di inquadramento è da richiamare l’attenzione su un aspetto da considerare più problematico di altri, quello relativo al sistema infrastrutturale della mobilità, per evidenziare che non sembra sufficientemente affrontato il tema delle relazioni di scala metropolitana; ciò a fronte del previsto rilevante incremento delle funzioni urbane.
Deboli appaiono le scelte relative al rafforzamento del rapporto con il contesto metropolitano (si ha nella sostanza la sola conferma di progetti in corso) e il disegno di nuove linee di forza (LDF), prevalentemente previste dentro i confini comunali, non accompagnato dall’indicazionedella capacità di spesa alla quale fare riferimento per asserire la sostenibilità delle trasformazioni urbanistiche programmate.
Ancora più debole appare l’ipotesi di un tunnel stradale che desta rilevanti perplessità sotto l’aspetto infrastrutturale (ancora più traffico in centro città) e sotto il profilo urbanistico (invasività delle uscite nel tessuto urbano) e appare finanziariamente di dubbia credibilità, perché nebulosa risulta l’ipotizzata soluzione mediante ricorso a project financing.
2. É configurabile un condivisibile disegno di rilevanza strategica?
A tal proposito sia, in primo luogo, consentito rilevare che il disegno di rilevanza strategica del Comune egemone dell’area metropolitana del quale trattasi dovrebbe comunque presentare, per ovvie ragioni, respiro metropolitano.
Difficilmente concepibile era ed è per lo stesso un disegno di rilevanza strategica di angusto respiro comunale.
A tale conclusione si deve pervenire a maggior ragione in quanto, come è già stato rilevato, ristretto risulta il territorio del Comune di Milano ed elevata è la complessità territoriale – urbanistica dell’area metropolitana in cui esso ricade.
In ogni caso è da rilevare, pur evidenziando il già sopra indicato quadro di difficoltà, che sarebbe stato comunque possibile individuare alcuni obiettivi di una pianificazione angustamente comunale suscettivi, però, della qualificazione di “rilevanza strategica”.
E, però, da un angolo di visuale attento, in particolare, al documento di piano non sembra che detti obiettivi siano facilmente individuabili e che possa essere asserita la riconoscibilità di un “progetto di sviluppo”.
Ciò vale a meno che non si ritenga che siano da assumere a tale rango quelli che vengono indicati come “elementi di innovazione” che caratterizzano lo strumento urbanistico in considerazione ed a loro volta risultano caratterizzati, come infra si vedrà, dalla manifestazione di un elevato “favor” per le scelte che il mercato vorrà fare.
Quando si discute dei possibili obiettivi di rilevanza strategica di un piano urbanistico, la mente non può non correre, in primo luogo, alle grandi trasformazioni e, quindi, agli ambiti di trasformazione individuati con il documento di piano.
Essi, cadendo in una enfatizzazione, sono stati con il documento stesso indicati come “motore” per lo sviluppo della città.
Occorre chiedersi cosa si intende per “sviluppo della città” e se sia credibile l’affermazione secondo cui gli ambiti stessi “costituiscono le aree strategiche per il rinnovamento dell’intero tessuto comunale, i nodi della rete infrastrutturale e ambientale, in grado di riqualificare ampie aree oggi degradate e dismesse e di restituire alla città spazi oggi interclusi e “sottratti” al godimento della città”.
Certo la mera previsione della possibilità di realizzare negli ambiti di trasformazione determinate quantità di Slp e della possibilità di trasferire in alcuni (in parte da quelli di essi ricadenti nel parco agricolo sud) ulteriore superficie lorda di pavimento non fa di per sè configurare, insieme alle previsioni contenute nelle varie schede ad essi relative, un disegno strategico.
Ciò anche perchè molte scelte, come già si è detto e infra meglio si vedrà, risultano del tutto rimesse al mercato.
In particolare da un angolo di visuale attento agli ambiti di trasformazione
- si osserva che molti giochi risultano già fatti in attuazione del documento di inquadramento previsto dalla l.r. n. 9/99, che ormai da parecchi anni trova applicazione e che, di recente, è stato oggetto di modifiche
- che con il documento di piano si ha, rispetto al documento di inquadramento, una evidente conferma metodologica
- che inquietanti possono risultare alcune scelte adombrate per gli scali ferroviari che costituiscono le poche residue occasioni di riqualificazione di parti abbastanza estese della città sicuramente da non perdere
- che da un angolo di visuale attento alle previsioni di sviluppo e alla loro sostenibilità è da aggiungere che condivisibile appare la seguente affermazione fatta, in linea teorica, in tema di consumo di suolo, densità e dotazione di servizi: “la discriminante principale per occuparsi di sostenibilità fin dalla scala urbanistica, come dicono gli inglesi, è non consumare green field e preoccuparsi, invece di edificare nuove parti di città sul “brown field” vale a dire sulle aree insalubri sugli scali ferroviari in disuso e o sulle aree industriali dismesse o in procinto di esserlo”.
- che però, occorre chiedersi se non siano da considerare contrastanti, in modo stridente, con detta affermazione l’individuazione, in un parco che è e dovrebbe rimanere agricolo, di c.d. “ambiti di trasformazione peri-urbana”, e la loro inaspettata conformazione edificatoria con l’attribuzione di un indice di edificabilità, che, data anche la localizzazione degli stessi, non appare certo basso (0.20 mq per mq) e che si prevede venga, almeno in parte, in loco utilizzato (non certo ai soli fini previsti dal piano territoriale del parco stesso).
Inoltre, sempre quanto alla sostenibilità, ci si chiede quante e quali attente verifiche siano state fatte con rifermento alle densificazioni (solo alcune delle quali non si dubita possano risultare opportune) che, in parte, conseguirebbero al trasferimento su alcune superfici di diritti edificatori attribuiti ad aree destinate a verde pubblico ed anche a detti ambiti ricadenti nel parco agricolo sud Milano.
Alle considerazioni sopra svolte occorre aggiungere che la possibilità di individuare, se non un disegno strategico, alcuni obiettivi di rilevanza strategica non sembra si possa riscontrare neppure da un angolo di visuale attento alla “città pubblica” ed alla politica dei servizi, con riferimento alla quale è anche necessario esprimere i rilievi che infra verranno in breve esposti.
3. Quali sono gli elementi di maggiore innovazione caratterizzanti il progetto in esame – Eccessi di benevolenza per il mercato e di “delega” allo stesso
Gli elementi di innovazione individuabili fanno configurare un disegno unitario
- insuscettivo, a nostro avviso, come già si è detto, dell’assunzione al rango di disegno di rilevanza strategica
- e che, pur tuttavia, è un disegno politico amministrativo che merita una attenta considerazione.
Detto disegno unitario sembra sia da individuare se, al contempo, si considerano
- la scelta di omettere, nella sostanza, qualsiasi previsione relativa alle funzioni insediabili e, quindi, di operare non al fine di promuovere mirate scelte polifunzionali, ma di consentire al mercato di fare pressoché liberamente opzioni;
- la scelta di liberalizzare le densificazioni e non solo di limitarsi ad incentivarne alcune considerate opportune in relazione ad un progetto di sviluppo;
- quella avente ad oggetto l’attribuzione di un indice unico, acriticamente deciso, con riferimento a qualsiasi ambito territoriale, e in applicazione del quale si avrebbero trasferimenti di superfici lorde di pavimento che risulterebbero tutti consentiti senza la prescrizione della applicazione di coefficienti di ponderazione relativi alle funzioni che vengono insediate e alle localizzazioni che in concreto vengono promosse;
- quella di offrire spazi alla società civile ed anche al mercato, per quanto riguarda la creazione di servizi alle persone, ben oltre il limite conseguente ad una corretta applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale.
La “filosofia urbanistica” che fanno configurare tali scelte (il coordinamento tra le quali risulta agevolmente individuabile) è quella di una grande apertura nei confronti del mercato, che sembra spinta oltre il limite al di là del quale si potrebbe molto probabilmente avere, di fatto, una compressione del ruolo della pianificazione.
Al mercato indubbiamente occorre, in sede di esercizio delle funzioni di pianificazione urbanistica, prestare molta attenzione, ma occorre anche evitare che si configuri una sostanziale “concessione” al mercato stesso di larga parte del ruolo della pianificazione. Oltretutto amare esperienze maturate negli ultimi tempi suggeriscono di evitare una qualsiasi “beatificazione del mercato”.
Da un angolo di visuale attento allo sviluppo urbanistico-edilizio non pare, infatti, che le sue performance siano da considerare eccelse.
Auspicabile deve essere considerato (se ne conviene) il superamento di inutili e giustamente vituperati “lacci e lacciuoli” da urbanistica c.d. veterodirigistica, non anche il passaggio ad una politica urbanistica contraddistinta da un sostanziale abbandono del metodo della pianificazione.
Certamente si può confidare nella volontà del Comune di Milano di evitare detto abbandono.
E, però, per il momento, per evidenziare alcuni degli inconvenienti cui, a nostro avviso, potrebbe dar luogo l’applicazione del “modello” caratterizzato dai suddetti elementi di innovazione e di parziale “abdicazione” preso in esame, di seguito, al contempo, si svolgono brevi considerazioni e si formulano alcuni interrogativi.
a) Poiché al contempo opportune appaiono scelte di pianificazione attente al perseguimento di obiettivi di polifunzionalità o mixité funzionale ed il soddisfacimento di esigenze di flessibilità, può non essere assunta come una inevitabile dannazione un preciso calcolo della capacità insediativa.
Dai documenti del progetto di PGT - che pur, quanto alle funzioni da insediare si rimette, quasi del tutto e comunque troppo al mercato - si desume che sono previsti 1.787.000 abitanti teorici (Milano oggi ne conta quasi 1.300.000). Un quarto dell’intero territorio comunale dovrebbe essere investito da grandi trasformazioni insediative per 12 nuovi milioni di mq di slp e una quantità almeno doppia di slp sembra che potrebbe essere realizzata nella città esistente.
Ne risulta un dimensionamento che appare quasi incredibile, in particolare se si considera l’attuale fase di rallentamento del mercato immobiliare, e si confrontano i dati con quelli degli ultimi quindici anni (un periodo ritenuto notoriamente eccezionale sotto il profilo dello sviluppo nel corso del quale sono stati programmati, e non tutti realizzati, poco meno di 5 milioni di mq).
Si tratta comunque di quantità da considerare cospicue, soprattutto perché prive di adeguate e proporzionate compensazioni (servizi ed infrastrutture).
b) Occorre comunque chiedersi che senso possa essere riconosciuto ad un’azione di pianificazione che non risulti contraddistinta anche da previsioni, sia pur non rigide ma di massima, relative alle varie funzioni insediative. In assenza di dette previsioni, stante l’impossibilità di considerare tutte alla stessa stregua le funzioni, quale credibilità è da riconoscere alle risultanze di verifiche di sostenibilità non solo ambientale ma anche urbanistica (in merito si richiama incidentalmente il documento sulla VAS che questo Istituto ha approvato e diffuso nello scorso autunno e che al presente viene allegato)?
c) In assenza delle suddette previsioni di massima quali credibili riferimenti sono possibili per la politica dei servizi (e per il piano dei servizi)?
d) Certo, anche in considerazione della crisi dello “stato sociale” e con esso del welfare urbano, sono più di ieri da favorire apporti, oltre che della società civile e del volontariato, anche del mercato alla soluzione dei problemi relativi ai servizi alle persone.
Occorre, però, chiedersi se non sia eccessiva la delega che, per quanto riguarda i sevizi stessi, fa configurare il progetto di PGT e più precisamente il progetto del piano dei servizi con il quale il Comune (vedi art. 8 delle NTA del PS) si spingerebbe a riconoscere, anche agli operatori privati (oltre che a soggetti del mondo del volontariato etc.) che realizzano i servizi, diritti edificatori suscettivi di trasferimento.
É da considerare sempre giustificata l’attribuzione di tale premio che sembra ispirato da un eccesso di benevolenza per il mercato così come, peraltro, almeno in parte, la decisione di gettare la spugna quanto alla disciplina delle funzioni?
Forse non si cade in una esasperazione polemica se si asserisce che, dato il suddetto premio, oltre misura favorite potrebbero risultare alcune iniziative private aventi ad oggetto servizi alle persone (quali cliniche etc.) ed al contempo potrebbero invece risultare insufficienti quelle aventi ad oggetto altri servizi.
Ci si chiede inoltre se, almeno in parte, non venga gettata la spugna anche quanto a distribuzione territoriale dei servizi e razionalità degli investimenti, con conseguenze non esplorate sui costi di gestione nel lungo periodo.
e) Non sono certo da manifestare pregiudizi negativi per “densificazioni” che in determinate realtà sono anche da promuovere per contenere il consumo di suolo. E, però, occorre chiedersi se sia il caso di rimettere per molte zone agli operatori privati ed al mercato ogni decisione, così trascurando, anche, le esigenze di una disciplina tipo-morfologica e di tutela di valori paesaggistici urbani. Si torna a ripetere che al mercato vanno lasciati spazi, anche ampi, ragionevolmente individuati e non vanno, però, date acriticamente deleghe in contrasto con il metodo della pianificazione.
Per usare termini cui è stato ricorso da chi ha redatto il progetto ci si chiede
- quando sono da “valorizzare le aree porose” ed a quali condizioni,
- quando è da considerare ragionevole promuovere “isole piene”
- ed ancora a quali condizioni “consolidare ed irrobustire i nodi” e dar luogo alla “crescita della città nella città”?
Ci si deve limitare ad attendere risposte dal mercato che, come si è detto, non va trascurato e, però, neppure beatificato?
Non saranno in qualche caso da paventare quelli che, forse peccando di un eccesso polemico, in un documento sulla politica urbanistica del Comune abbiano tempo addietro indicato come sviluppi da “costipazione urbanistica”?
f) Quanto alla disciplina tipo-morfologica ed alla tutela dei valori paesaggistici, da un lato, occorre riconoscere l’approfondimento delle analisi effettuate (che non risulta però pienamente soddisfacente per quanto riguarda gli ambiti urbani a disegno urbanistico riconoscibile) e, dall’altro, sono da lamentare un deficit di “indirizzi specifici” atti ad orientare la qualità degli interventi a tutela dei valori paesaggistici ed i limiti che presentano le regole tipo-morfologiche relative ai suddetti ambiti a disegno riconoscibile e agli ambiti di rinnovamento urbano.
4. Il modello perequativo prescelto ed i suoi limiti
All’espressione di apprezzamento per la decisione comunque di applicare il principio della perequazione che appare doverosa occorre aggiungere la seguente manifestazione di perplessità per i limiti che il modello prescelto presenta.
a) In primo luogo non è dato riscontrare elementi di giudizio atti a far affermare che ricorre in modo certo l’ipotesi di scelte perequative al servizio della pianificazione e più precisamente al servizio di un progetto di sviluppo.
In casi quali quello in esame, stante l’impossibilità di affermare il testé indicato rapporto di servizio, sono da manifestare preoccupazioni per le distorsioni delle scelte e del processo di pianificazione che l’applicazione del modello perequativo potrebbe indurre.
b) Quanto all’ambito di applicazione del modello, sembra sia da lamentare
- da un lato l’esclusione dallo stesso delle aree destinate a “servizi alle persone” che (se non già di proprietà pubblica), sembrerebbe si voglia riservare a iniziative dei privati ed evitare che, in forza di scelte perequative – compensative, possano divenire oggetto di acquisizione indolore da parte dell’Amministrazione (vedi a tal proposito i rilievi già sopra formulati).
- e, dall’altro, l’esclusione delle aree già di proprietà pubblica cui ben anche può ritenersi sia, nell’interesse pubblico, opportuna l’attribuzione di diritti edificatori utilizzabili anche al fine del perseguimento di obiettivi di edilizia residenziale sociale.
c) Contraddistinta da sommarietà appare la previsione (apparentemente semplice e naturale) di un indice unico, che in quanto tale, date le diversità che presentano varie parti del tessuto urbano, finisce con l’essere un indice da perequazione zoppa.
In altri termini non è stata considerata l’esigenza di quella che, ricorrendo ad un apparente ossimoro, può essere indicata come una differenziazione dell’indice unico da prevedere in relazione alla necessaria constatazione di diverse situazioni omogenee (ad esempio zone periferiche e zone semicentrali).
d) Occorre anche rilevare la semplicità o sommarietà che contraddistingue la normativa che disciplina l’applicazione di detto modello perequativo.
In breve l’utilizzazione dei diritti edificatori attribuiti alle aree che rientrano nell’ambito di applicazione del modello viene disciplinata omettendo di dare un qualsiasi rilievo
- alle funzioni per le quali essi vengono utilizzati,
- alla localizzazione delle slp da esse derivanti
- ed alla provenienza delle slp stesse.
Tale rilievo è da considerare relativo anche (si badi bene) al contemplato trasferimento di diritti edificatori conseguenti all’indice generosamente ed inaspettatamente attribuito ad alcune parti del Parco sud agricolo (che è il solo diverso dal c.d. indice unico).
A causa della testé denunciata carenza della normativa succulente potrebbero comunque risultare, per alcuni operatori, le operazioni di trasferimento di diritti volumetrici.
Non si dubita dell’opportunità di semplificare le normative, ma forse, per quanto riguarda la disciplina del modello perequativo del quale trattasi, può essere affermato che si è configurato un eccesso di semplificazione che si auspica venga superato.
e) Inoltre è da osservare che non risultano, in alcun modo, indicate le ragioni per le quali il Comune di Milano non ritiene di esercitare la facoltà concessa dal primo comma dell’art. 11 della L.r. n. 12/2005, quella di prevedere l’obbligo delle cessione, con le convenzioni relative a piani e programmi urbanistici interessanti ambiti di trasformazione aventi c.d. rilevanza territoriale, oltre che delle aree relative a standard o cd dotazioni urbanistiche, anche di aree per c.d. “compensazioni urbanistiche”, la cui utilizzazione a fini di rilevante interesse pubblico perseguiti con la politica dei servizi potrebbe risultare importante.
g) Considerati i suddetti limiti si deve ritenere che, in sede di redazione del progetto del PGT, si sia caduti in una enfatizzazione quando (vedi pag. 172 della relazione) è stato scritto quanto segue: “l’introduzione della perequazione urbanistica consente di ripensare alla città in relazione a considerazioni precise di sostenibilità ambientale e morfologica a partire da diritti certi e da valutazioni più precise di natura economica finanziaria”. Incidentalmente ci si chiede in particolare quali siano state le “... considerazioni precise di sostenibilità ambientale e morfologica...” fatte ai fini della disciplina relativa all’applicazione del modello perequativo suddetto.
5. Le scelte relative all’edilizia residenziale sociale
Ingeneroso e non corretto sarebbe non riconoscere che, in sede di redazione del progetto del PGT, alle esigenze di edilizia residenziale sociale è stata prestata attenzione.
Diverse sono le disposizioni che risultano inserite al fine di promuovere interventi appartenenti a detta categoria.
Occorre, però, paventare che a una nozione che già forse è divenuta molto ampia di edilizia residenziale sociale si venga ad aggiungere, per quanto riguarda il Comune di Milano, una nozione ancora più ampia, ovverosia quella in base alla quale sono da assumere come interventi di ERS (vedi art. 9 delle NTA del piano delle regole) quelli che “... assolvono ad esigenze abitative – di durata indeterminata o a carattere temporaneo – di interesse generale per aumentare l’offerta di servizi abitativi a prezzi inferiori al mercato risultanti da appositi atti deliberativi comunali di carattere programmatico o specifico”.
Tale rinvio, senza (nella sostanza) reti, può destare, per ovvie ragioni, qualche preoccupazione. Inoltre è da osservare che comunque sembra si faccia esclusivo affidamento, ai fini del perseguimento degli obiettivi di edilizia residenziale sociale, su iniziative private e, quindi, ancora una volta su un’intensiva applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale.
A tal proposito si osserva che occorre non dimenticare
- che il mercato non è solidale
- che non si può far dipendere dalle iniziative degli operatori privati (che nell’attuale fase potrebbero non risultare numerose) il perseguimento di obiettivi di grande rilevanza sociale, quali quello dell’edilizia abitativa per le fasce sociali più deboli.
Inoltre occorre ricordare che, in modo virtuoso, i Comuni possono e, a nostro avviso, debbono, per quanto possibile, contribuire al perseguimento dell’obiettivo della creazione di alloggi destinati all’affitto permanente a canone sociale (sicuramente suscettivi dell’assunzione ad ogni effetto tra i servizi pubblici) mediante l’acquisizione indolore, ricorrendo alla “leva urbanistica”, di aree da utilizzare o far utilizzare per interventi aventi detta finalità.
É sicuramente da lamentare che con il progetto di piano del quale trattasi, da un lato, sia stato deciso di non esercitare la suddetta facoltà di chiedere cessioni di aree per la cd compensazioni urbanistiche, in applicazione del già sopra richiamato primo comma dell’art. 11 della L.r. 12/2005, e, dall’altro, sia stato omesso di prevedere l’obbligo, almeno nel caso degli ambiti di trasformazione di maggiore rilevanza, della cessione gratuita al Comune di aree per interventi di edilizia residenziale sociale in applicazione del comma 258 dell’art. 1 della L. n. 244/2007. Si ricorda che scelte in tal senso non possono certo considerarsi risolutive degli assillanti problemi che si pongono in materia di edilizia residenziale sociale, ma si aggiunge che esse possono valere al fine di creare piccoli demani utili per perseguire gli obiettivi dell’housing sociale (latamente inteso).
Non trattasi certo di scelte cui non attribuire rilevanza e da considerare come optional, a maggior ragione dopo l’abbandono del modello espropriativo già da tempo di fatto intervenuto.
Si confida conclusivamente in revisioni ed integrazioni del progetto di PGT tali da superare parte rilevante dei rilievi sopra espressi e da far escludere la ricorrenza di un’ipotesi di piano che dice di non voler essere un piano.
Sono allegati al documento altro documento sulla VAS relativa al PGT e alcuni contributi personali dei seguenti componenti del Consiglio Direttivo della Sezione: D’Agostini Sergio, Imberti Luca, Pareglio Stefano, Pogliani Laura, Ranzani Piero, Vascelli Vallara Umberto, Vitillo Piergiorgio.
Detti allegati sono consultabili su www.inu.it
Il teatro della gens Flavia è un colosso malato, il tempo, l’inquinamento, l’assurdo traffico che lo circonda come un micro-terremoto continuo e costante, lo hanno reso fragile, a rischio. Per salvarlo è pronto un piano da 23 milioni di euro, soldi italiani e anche giapponesi sembra, per provare a togliere il colore del buio dalle pietre bianche, a 18 anni dal primo grande tentativo di restauro, finanziato nel 1992 dalla Banca di Roma.
Quattro giorni fa, proprio accanto ai resti di una bellissima statua equestre di recente ritrovata ed esposta, il distacco di cinquanta centimetri di malta romana ha fatto tornare alto l´allarme sulle condizioni del Colosseo, la paura che qualcosa di peggio possa accadere nel monumento più visitato del mondo. Ma l’intero cuore monumentale della città eterna è a rischio, divorato dallo smog e dalle polveri corrosive, da quell’effetto "antropico" che vuol dire passaggio, mano e calore dell’uomo. Sono a rischio la Domus Aurea e le Mura Aureliane, il Palatino e i Fori, ma anche, ricorda Giuseppe Proietti, soprintendente ai Beni Archeologici di Roma, «gli antichi acquedotti romani, chilometri e chilometri di resti da mettere in sicurezza, quei ruderi che ci sembrano belli e suggestivi, ma in realtà versano in condizioni drammatiche, e in alcuni punti minacciano ferrovie e abitazioni». Una scacchiera difficile dove i monumenti sono gestiti dallo Stato e le "aree" che li circondano dal Comune di Roma, dal Campidoglio, con una mai risolta querelle di responsabilità che di fatto ha lasciato che il traffico continuasse ad assediare capolavori delicatissimi, patrimonio dell’umanità.
Bisogna allora salire sul secondo corridoio del Colosseo per ritrovare la luce, ma lo sguardo subito viene ferito da gigantesche reti metalliche color ruggine che proteggono l’anello esterno, mentre le teche di una bella mostra sui gladiatori sono così sporche che si fa fatica a vedere l’interessante ricostruzione di abiti ed armi che racchiudono. Ancora più scarno è il bookshop, pochi libri, pochi titoli, anche i gadget sembrano poveri, e nonostante tutto la gente di mette in fila, compra, spende. Ma è da qui, dal corridoio più alto finora visitabile, che si vedono i restauri in corso finanziati dalla soprintendenza, e che porteranno alla fine dell’estate all’apertura del terzo anello, e di una parte dei sotterranei.
E infatti basta seguire gli sguardi dei visitatori per capire che sono i corridoi e i sotterranei dell’antica cavea a catturare l’attenzione, là dove si svolgevano le lotte dei gladiatori, e gli animali sbucavano nell’arena larga 3.357 metri quadrati da botole interrate, attraverso un ardito e complesso sistema di ascensori. Un circo inaugurato nell’80 d. C. dall’imperatore Tito, con ottanta giorni di feste e giochi venatori e i cui effetti speciali sono stati restituiti soltanto forse da Ridley Scott, con la descrizione delle venationes, vere e proprie danze di morte tra uomini e animali, vietate poi, nell’era cristiana, dall’imperatore Teodorico.
Ma il Colosseo, grande vecchio dell’arte mondiale, ha bisogno di attenzioni e di cure permanenti. Già oggi la manutenzione ordinaria costa circa 700mila euro l’anno, ma sono questi fondi, spiega Adriano La Regina, a lungo soprintendente ai Beni Archeologici di Roma, «che dovrebbero essere raddoppiati e mantenuti costanti». «Il Colosseo - dice La Regina - soffre dei suoi quasi duemila anni di Storia, ha bisogno di un monitoraggio incessante, molte volte ci siamo trovati di fronte ad episodi gravi che ci hanno costretto a chiudere intere parti del monumento. Ricordo un episodio davvero drammatico, quando nella parte che si affaccia su Colle Oppio sembrava che stessero crollando alcuni pilastri... Fummo costretti a chiudere, consolidare. Certo, oltre alla vecchiaia, ci sono i mali di sempre che affliggono il Colosseo, lo smog che corrode i travertini e deturpa l’ambiente tutto intorno, e che per decenni ha fatto sì che il Colosseo, oltre ad essere il simbolo di Roma, fosse anche uno gigantesco spartitraffico...».
Adesso, sembra, l’area intorno all’anfiteatro Flavio dovrebbe finalmente diventare una sorta di archeo-isola, anche se non ancora quel giardino archeologico immaginato e sognato da ambientalisti come Antonio Cederna. «Uno degli interventi più urgenti per il Colosseo - aggiunge Adriano La Regina - è la ripulitura. Un’opera già iniziata con i restauri degli anni Novanta e di cui sono visibili alcuni spicchi più chiari degli altri. L’altro intervento fondamentale, per l’estetica del monumento, sarebbe la sostituzione delle cancellate. Allora fu necessario costruirle in quel modo, ma oggi non sono più accettabili. Ma forse, prima di tutto, se davvero si riuscisse a creare un’isola pedonale attorno a tutta l’area monumentale centrale, sarebbe un risultato straordinario».
Certo è difficile pensare ad una "zona franca" con il volume di auto che assedia Roma. E che violenta con il rumore anche i visitatori del Colosseo, almeno nei corridoi esterni. All’interno invece è come se il frastuono venisse assorbito, i simboli e i fantasmi del passato sono forti e potenti, gli spettacoli, le belve, ma anche la via crucis, le croci di ferro, la Roma cristiana, e poi l’abbandono, l’anfiteatro che viene saccheggiato, il primo terremoto che nel 1349 ne mina le fondamenta, papa Sisto V che nel 1550 trasforma il Colosseo in una filanda. Le prime campagne di scavo che nell’Ottocento svelano la presenza degli ipogei. I visitatori passeggiano, con le audioguide nelle orecchie, sono migliaia in queste primavera tardiva che spesso promette pioggia, i ragazzi delle scuole si fanno le foto con il telefonino, i portatori di handicap possono salire con i loro ausili fino al secondo anello e da qui vedere le rovine. Tra le cui pietre cresce una vegetazione antica, dove i botanici trovano ancora tracce di piante esotiche, altrove scomparse. Un altro segreto, tra i tanti, del Colosseo.
Un tunnel di quattro chilometri sotto il parco cintato più grande d’Europa. È l’idea del Consorzio che gestisce il polmone verde di Monza e la Villa Reale per mettere in comunicazione le grandi arterie viarie a est e a ovest della Brianza. Nei giorni scorsi l’ente ha depositato nelle stanze del Comune la delibera per lo studio di fattibilità. Il progetto è affidato alla Sembenelli Consulting di Milano, azienda specializzata nella realizzazione di gallerie urbane. Gli ambientalisti però sono già sul piede di guerra.
Oggi l’unica via di collegamento tra la tangenziale est da una parte e la statale 36 dall’altra è rappresentata da viale Cavriga, che taglia in due l’oasi. Strada ad una sola corsia per senso di marcia, aperta solo dalle 8 del mattino alle 8 della sera. Una striscia d’asfalto lunga due chilometri, intasata ad ogni ora del giorno, che è uno degli incubi degli automobilisti brianzoli. L’opera di interramento prevede l’ingresso da porta Villasanta per poi sbucare in superficie all’altezza del Rondò dei Pini, due chilometri oltre le mura del Parco, proprio dove oggi si sta realizzando l’altra galleria, la più lunga d’Italia in ambito urbano, sulla Valassina.
La prima fase dei lavori prevede l’aggiornamento dei dati del traffico, fermi a metà degli anni Novanta, e la proiezione di quelli di attraversamento del tunnel. «Questo permetterà di formulare ipotesi di introito dell’esercizio tramite l’applicazione di pedaggi» si legge nella delibera del Consorzio. In un secondo momento verrà varato il progetto definitivo con il tracciato esatto della galleria, l’indicazione di una serie di parcheggi sotterranei e il sistema di svincoli ai due ingressi. «Il traffico locale e quello di attraversamento oggi sono insostenibili - dice il sindaco di Monza, Marco Mariani - un intervento del genere risolverebbe la situazione» Aggiunge l’assessore al Parco, Pierfranco Maffè: «Ogni azione utile a togliere le macchine da viale Cavriga è ben accetto. Certo, i costi sarebbero alti». In disaccordo Bianca Montrasio, presidente del comitato che difende l’area: «Scavare sconvolgerebbe l’ecosistema di una zona preziosissima: ci sarebbero sicuramente più danni che vantaggi».
Gentile signora Bossi Fedrigotti, ieri ho preso il Passante ferroviario alla stazione di Segrate per recarmi alla Fiera a Rho. Ho parcheggiato l'auto nel parcheggio della stazione e ho incontrato un conoscente che molto spiritosamente o tragicamente mi ha salutato: «Dr Livingstone, I presume» come se ci fossimo incontrati sulle rive del lago Tanganika. Infatti eravamo ai bordi di un lago nel bel mezzo del parcheggio. Una situazione da safari, ma non c'è da ridere. Poi mi sono avventurato verso il treno e ho potuto constatare lo squallore assoluto della struttura, incluso il sottopassaggio, autentico invito a nozze per aggressori e stupratori. Me lo immagino al crepuscolo. Le gentili signore sono avvisate. La stazione, diciamo così, di recente costruzione è immersa nella desolazione, senza indicazioni.
Solo recentissimamente hanno messo un baracchino per i biglietti. I nostri splendidi artisti di strada hanno decorato ogni spazio imbrattabile. A causa del lago Tanganika nel parcheggio, acqua alta trenta centimetri almeno, metà dello stesso è inutilizzabile, vedi foto allegata scattata oggi che non piove. Tutto questo avviene alle porte di Milano, in un comune che ospita due grandi quartieri residenziali, «Milano Due» e «Milano San Felice», di pregio e quindi ricchi, la più grande casa editrice italiana, la sede italiana della più importante società di software del mondo, e molto altre aziende del settore alta tecnologia. Non è un comune sottosviluppato, sembra. Ligio ai dettami del «Corriere» — non inquinare— ho rinunciato all'auto e ho preso il Passante, tra l'altro molto comodo. All'arrivo alla stazione di Rho, altra desolante constatazione. La stazione è nuovissima, ci piove dentro che è un piacere, metà dei tapis roulant sono «fuori servizio». Cento vetrine di negozio inutilizzate accrescono l'atmosfera di sciatta provvisorietà. La prossima volta uso l'auto. Luigi Rancati
Ho ammirato, incredula, la foto allegata: lei non esagera, c'è un vero grande lago al centro del parcheggio. E posso immaginare che con la pioggia di questi giorni il volume dell'acqua sia ulteriormente aumentato. Tra poco potrebbero arrivare i pescatori... Sullo squallore delle stazioni del passante sia di Segrate che di Rho sono arrivate varie segnalazioni già parecchi mesi fa: la sua nuovissima cronistoria ci conferma che, purtroppo, nulla è stato intrapreso per migliorare la situazione. Le risparmio il troppo abusato ritornello sull'impressione che simili contesti potrebbero fare ai visitatori dell'Expo, ma riconosco che la domanda è quasi inevitabile.
Chissà che cosa deciderà il Governatore “contadino”. Luca Zaia deve ancora mostrare la sua idea del nuovo Veneto, deve far capire se intende proseguire sulla strada del predecessore, che sarà pure ministro delle Politiche Agricole, ma ha cementificato la sua terra. Sulla scrivania di Zaia presto arriverà un progetto che cancellerà 460 ettari di campi e modificherà per sempre la campagna veronese: l’autodromo di Motorcity, un progetto lanciato anni fa dalle società di Chicco Gnutti e Gianpiero Fiorani… sì, proprio i furbetti del quartierino. L’autodromo sarà una delle più grandi opere del Veneto, insieme con il passante di Mestre e il Mose. Finora la Lega si è astenuta, ma adesso tocca a lei decidere.
Siamo a Vigasio e Trevenzuolo, in provincia di Verona. A centocinquanta chilometri da Monza e Imola, due circuiti storici che in questo periodo non se la passano troppo bene. Già, l’industria automobilista è in crisi, la Formula 1 annaspa e punta sull’Asia dove girano soldi e fioriscono piste su isole artificiali. Ebbene, che cosa si fa in Veneto? Un autodromo lungo 5,2 chilometri per oltre un miliardo di investimento. Ma il punto è soprattutto un altro, andate a Vigasio per rendervene conto. A nord nelle giornate terse vedete le Alpi, a est il cielo sbianca verso la Laguna. Intorno è pianura a perdita d’occhio, quella terra spessa, scura che imbeve ogni cosa del suo colore. Siamo al confine tra Veneto e Lombardia, dove la Lega affonda le sue radici, rurali più che metropolitane. Ora, però, all’immagine che avete davanti sovrapponetene un’altra: quella del futuro autodromo elaborata nel “rendering” degli architetti (www.motorcityvr.it). Ecco, al posto della campagna comparirà il serpente d’asfalto della pista. Ma il grosso del progetto, e dell’affare, sta nel centro commerciale da 769 mila metri quadrati, nel parco tematico da 350 mila metri quadrati (il doppio della vicina Gardaland), nel polo tecnologico (268 mila metri quadrati), in alberghi, ristoranti e immancabili case. Poi caselli, strade e metropolitane. Insomma, cemento. “È un progetto colossale che rischia di stravolgere i nostri paesi, di Vigasio e Trevenzuolo, che saranno divorati da Motorcity, diventeranno un’appendice della pista”, sospira Cesare Nicolis. La sua storia racconta tante cose del Veneto di oggi che ha il record dei cantieri, ma anche dei comitati. Nicolis è un ex dirigente di banca, uno che sa maneggiare bilanci e che a 59 anni ha deciso di andare in pensione per dedicarsi alla sua terra. Nel suo archivio conserva migliaia di pagine con la strana vicenda Motorcity.
Dall’inizio, quando si fece una gara tra i Comuni del Veneto per aggiudicare il progetto. Vinsero Vigasio e Trevenzuolo. È il luglio del 2004 quando Earchimede e Draco vengono indicate come società realizzatrici dell’opera. Dietro il progetto si intravvedono Emilio Gnutti, Hopa, la Popolare di Lodi guidata da Gianpiero Fiorani e Unipol, insomma, i protagonisti delle scalate dell’estate 2005. Il sogno di Gnutti, che divide il cuore tra finanza e motori, si realizza. Intanto, però, il progetto cambia faccia: intorno alla pista crescono i palazzi. Il resto della storia è scritto nelle visure camerali di Motorcity: i furbetti vanno a gambe all’aria e così l’autodromo passa in altre mani. Oggi a tenere le redini sono le cooperative. Ma della società fanno parte anche enti locali. Perfino la Regione Veneto. Amministrazioni che con una mano firmano gli atti societari e con l’altra le autorizzazioni a costruire. E il progetto va avanti, nonostante i dubbi. Lo stesso Giancarlo Galan, allora Governatore, disse: “Quel progetto non mi convince”. Ma intanto la Regione dà via libera. Nonostante le ombre delle valutazioni di impatto ambientale. Carte che forse gli abitanti di Vigasio e Trevenzuolo non conoscono. La società realizzatrice promette che a Motorcity arriveranno fino a 106.483 persone nei giorni feriali; nei giorni festivi si toccheranno 180.995 presenze. Molti visitatori, soldi, certo, ma anche inquinamento. E nel giugno 2008 l’Arpav mette nero su bianco le sue cautele: “La valutazione dell’impatto riguardo al Pm10 appare fortemente sottostimata. Dalle nostre stime l’aumento di traffico – anche realizzando sistemi di trasporto come la metropolitana – comporta un aumento delle emissioni di sei volte”. Parliamo di particolato, di polveri sottili, quegli inquinanti che se finiscono nei polmoni provocano tumori. Che minacciano soprattutto anziani e bambini. Il progetto, però, va avanti. A trainarlo è la promessa dei posti di lavoro. Motorcity, sono certi gli investitori, “darà occupazione a 15 mila persone”. Possibile. Difficile dire se il calcolo tenga conto dei posti di lavoro che si perderebbero nell’agricoltura, oppure a Monza, Imola o Gardaland. La popolazione di Vigasio è divisa. E anche la politica. Il centrodestra è favorevole (nella società siedono anche ex amministratori del Pdl), mentre il centrosinistra è contrario. Beppe Grillo e i suoi meet up si sono battuti contro la pista. Alle elezioni di Vigasio, a marzo, vince il Pdl (41,4%), viene riconfermato il sindaco Daniela Contri che non ha mai fatto mistero delle sue simpatie per Motorcity (che tra l’altro risanerà le casse pubbliche con gli oneri di urbanizzazione): “È’ una grossa opportunità per il Comune e i proprietari dei terreni. Oggi c’è una distesa di granoturco, di polenta… tiriamo via la polenta… l’agricoltura non ha grandi prospettive”. Maurizio Fontanili, presidente della Provincia di Mantova (Pd), contro Motorcity invece sta combattendo da anni: “Siamo una delle zone più fertili d’Italia, qui si alleva il 17 per cento dei suini, si produce il 23 per cento di Grana Padano. Vi rendete conto dell’impatto che avrebbero sulla nostra terra centomila persone al giorno?”. Mantova, però, è in Lombardia. A pochi passi da Motorcity, ma oltre la linea invisibile che divide le regioni. Insomma, rischia di dover subire le decisioni prese a Venezia. Ora tutto è appeso a un ricorso al Tar presentato da Mantova. Alla linea che prenderà Zaia. Cesare Nicolis intanto si guarda intorno, guarda il paesaggio o forse immagina il panorama futuro, con i campanili della campagna veneta affiancati dalle torri dell’autodromo
L’economista Marco Vitale si sente «l’uomo più infelice del mondo, e lo sa perché?».
Dica, professore.
«Perché Milano, città che amo profondamente e dalle enormi potenzialità, è governata in modo pessimo. E non parlo solo di ordinaria amministrazione: per dire, le buche o il traffico caotico. Ciò che manca è un pensiero, un’idea forte, un impegno profondo per rilanciare davvero la capitale morale».
E gli Stati generali promossi da Letizia Moratti dove li mettiamo?
«Ma non scherziamo: li hanno fatti per mettersi d’accordo tra di loro in questa fase finale di mandato: ma sono inutili, perché questi non sono capaci di fare niente».
Manca un’idea, lei dice. Ma non c’è l’Expo?
«Una buona intuizione, poi si è visto che disastro hanno combinato: litigi nella maggioranza e fra istituzioni, un anno di paralisi, e meno male che Tremonti ha impedito alla Moratti di gestire tutto da sola».
Non salva niente di questo sindaco?
«Che cosa dovrei salvare? Una politica ridotta, come ha spiegato Guido Martinotti a Repubblica, a marketing e comunicazione? Una volta i politici non sapevano parlare, facevano e basta. Adesso hanno imparato l’importanza della comunicazione e fanno solo quello. L’ho scritto nel mio libro "Passaggio al futuro, oltre la crisi attraverso la crisi": qua ci si riempie la bocca di riforme senza risolvere i problemi, e questa liturgia senza fede purtroppo viene seguita anche nella pragmatica Milano. Quando poi fanno qualcosa è pure peggio».
A che cosa si riferisce?
«Prenda il Piano di governo del territorio: è impantanato e comunque, se dovesse passare così com’è, sarebbe un disastro».
Perché?
«Troppo sbilanciato sul lato degli interessi immobiliari, che hanno ormai assunto un peso schiacciante. Non esiste più una visione del bene comune, e questo è l’effetto di un’altra grave stortura».
Quale?
«A Milano lo strapotere non viene esercitato dai partiti, ma dalle sette. La prima è Cielle, centro di potere straordinario. Per diventare primario devi essere ciellino: alla faccia dell’apertura che ha sempre caratterizzato l’anima vera di questa città».
Un quadro a tinte fosche. E l’opposizione?
«Sì, buonanotte».
Prego?
«Non esiste, io non la vedo né la sento. Sta lì, attorcinata attorno a se stessa, chiusa nelle sue stanze a baloccarsi di primarie senza occuparsi dei problemi veri della gente».
L’anno prossimo si vota per il sindaco, chi dovrebbe candidare il centrosinistra?
«No guardi, è proprio questo l’errore. A sinistra devono capire che prima bisogna costruire un progetto credibile e una squadra che lo possa realizzare. Il candidato viene dopo. La smettano di cercare l’oggetto misterioso e si diano da fare. L’uomo che ha amministrato meglio Milano si chiamava Radetzky, lui sì che amava la città. E il miglior "sindaco" è stato Sant’Ambrogio. Purtroppo non ci sono più».
Opposizione bocciata, dunque.
«Assolutamente sì. Ha tagliato i ponti con la città, riducendosi a fare discorsi tipici delle oligarchie burocratiche. Per non parlare dei patti che ha contratto...».
Può spiegare, professore?
«Se Cielle fa quello che vuole, è anche grazie all’accordo di ferro stipulato con la Lega delle Cooperative: una mano lava l’altra, e gli interessi veri della città vanno a farsi benedire».
Pareva tutto facile, sulla carta. Chi mai poteva opporsi all’idea di usare meglio tanti beni statali a volte abbandonati passandoli a Regioni, Province e Comuni? È vero o no, come spiegò Giulio Tremonti, che «c’è un enorme patrimonio ed è una pazzia che sia gestito da un ufficio a Roma dove non sanno quanto vale» e dunque «è giusto che lo Stato abbia beni nazionali e simbolici ma non che faccia la mano morta al contrario su beni che hanno senso se gestiti localmente»? Macché: il «federalismo demaniale» sta incontrando obiezioni maggiori del previsto. E non solo delle opposizioni, degli ambientalisti o dei guardiani di quello che Croce chiamava «il volto della patria».
Alcuni si chiedono fino a che punto lo Stato possa trasferire agli enti locali spiagge, caserme, stazioni, terreni o edifici vari senza intaccare quel patrimonio che è la vera garanzia di «ultima istanza» per l’immenso debito pubblico. Altri, come uno studio del Servizio bilancio della Camera, confermando il rischio di «affievolire gli strumenti di garanzia dello Stato», segnalano che il passaggio «a titolo non oneroso» di tanta ricchezza immobile potrebbe impedire di destinare all’abbattimento del debito i proventi delle dismissioni visto che lo Stato è obbligato a farlo ma gli enti locali no. Altri ancora, come il direttore dell’Agenzia del demanio Maurizio Prato, ammettono scetticismo sui tempi: è plausibile che entro 30 giorni ogni amministrazione dica esattamente quali beni vuole mantenere e che entro 180 giorni arrivi il primo decreto della presidenza del Consiglio con l’elenco dettagliato di questi beni da «restituire», dicono i leghisti, al territorio? Per non dire dei contrasti tra le Regioni, che vorrebbero rastrellare tutto e redistribuire, e gli altri enti che vorrebbero al contrario che questa «restituzione» fosse diretta e senza intermediari. Insomma: un caos. Sul quale ha gioco facile chi chiede, sia a sinistra sia nella maggioranza, di veder bene i conti prima di sbagliare il passo.
Al di là degli aspetti tecnici, sui quali Calderoli è convinto di trovar la quadra («Se il debito degli enti locali rientra nel debito pubblico generale, allora anche il patrimonio degli enti locali rientra nel patrimonio pubblico») c’è qualcosa di fondo che non è chiaro: siamo sicuri che non saranno tolti al demanio certi gioielli di famiglia? Certo, il governo ha giurato che non verranno smistati i beni culturali. Ma resta quel dubbio sottolineato dal presidente stesso del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici Franco Karrer al Sole 24 Ore: «Finora, valorizzare ha voluto dire dismettere » . Cosa che Vittorio Emiliani ha tradotto brusco così: i Comuni, «indebitati dalla demagogica soppressione dell’Ici sulla prima casa, saranno portati a vendere il prima possibile».
Una forzatura polemica? Sarà... Ma è difficile immaginare un Comune con l’acqua alla gola che, potendo dire «questo lo voglio, questo no», si faccia carico di un pezzo di patrimonio da valorizzare investendo soldi che non ha. Più facile che punti a prendere tutto ciò che può sfruttare o vendere per fare cassa. La domanda chiave è: sfilati al demanio statale, tutti quei beni resteranno inalienabili e cioè di proprietà dei cittadini italiani per essere dati solo «in gestione» agli enti locali? O potranno essere ceduti anche a «fondi comuni di investimento» in cui gli enti locali possono essere soci di minoranza di privati che cercano solo l’affare? Le risposte finora non sono state nette. E finché il nuovo testo non sarà definito, come dice Italia Nostra, «è difficile scartare i peggiori sospetti».
Un Palazzo Marino bis, o torre Moratti. Il Comune ha scartato le alternative— acquisti d’uffici, traslochi— e deciso di realizzare il suo grattacielo in zona Garibaldi, una sede di 35 mila metri quadri per 1.600 dipendenti di fronte al Pirellino di via Gioia. Un’operazione da 100 milioni di euro finanziata dalla cessione di altri immobili, dall’anagrafe di via Larga a via San Tomaso, a largo Treves, ancora non s’è deciso quali: «Con i ricavi supereremo i costi di costruzione — stima l’assessore allo Sviluppo del Territorio, Carlo Masseroli — risparmiando anche sulle spese di gestione delle vecchie sedi», qualcosa come 50 milioni l’anno più altri 20 di manutenzione straordinaria. Bando e concorso di progettazione saranno pronti a luglio, Palazzo Marino selezionerà dieci architetti per il confronto di idee e sceglierà la migliore a marzo 2011. Due gli obiettivi: chiudere i cantieri nel 2013 e «superare il Pirellone bis di Formigoni». È una battuta, Masseroli, questa sfida ad alta quota? «Vedremo».
Il Comune completa il mosaico Milano Porta Nuova, il piano di riqualificazione del quartiere Isola-Garibaldi-Varesine: «Vogliamo contribuire al laborioso travaglio della città». Inaugurato e quasi pronto Palazzo Lombardia, la macchina dei lavori privati sta rispettando i tempi e consegnerà i primi edifici nel 2011: la torre di Cesar Pelli sul podio di fronte alla stazione (grande quanto piazza della Scala, 7.500 metri quadri) e gli uffici Varesine. «Questa è una delle prime cinque grandi opere in corso in Italia» dice Manfredi Catella, ad di Hines Italia, società capofila nel progetto: «Porta Nuova rappresenta, da sola, il 10 per cento del volume delle costruzioni in Lombardia». In numeri: 1,2 miliardi di investimenti (300 milioni appaltati negli ultimi sei mesi), 600 operai che saliranno a 2 mila nel 2011, altri 10 mila nell’indotto. «Abbiamo vissuto un 2009 difficile, ma procediamo a ritmi serrati, fiduciosi, in controtendenza rispetto al mercato».
I cantieri sono blindati, gli operai entrano col badge, sorvegliati, i tornelli sembrano quelli di San Siro, il lavoro nero sta fuori, alla porta. Dentro, si lavora a un quartiere «aperto» alla città, «interamente permeabile». Rampe e scale mobili introducono alla piazza circolare, sollevata a sei metri d’altezza, bagnata dalle fontane e impreziosita da un porticato in legno, vetro e metallo disegnato da Pelli (è previsto anche un ascensore panoramico); l’arrampicata alla torre maggiore ha raggiunto quindici piani su 32; nei giardini in via De Castillia è in costruzione il Laboratorio dell’arte, la nuova «stecchetta» degli artigiani; in via Confalonieri sono state gettate le basi del Bosco verticale progettato da Stefano Boeri (opere edilizie da maggio) e delle residenze convenzionate col Comune (3.500 euro al metro); mentre lo scheletro del grattacielo Solaria (143 metri) prende forma nel metallo. Hines ha iniziato la vendita del secondo lotto di alloggi: «Le richieste superano l’offerta». Trenta sono già stati assegnati, ne restano altri 370: il costo medio, 9 mila euro al metro.
Per capire se l’attuale maggioranza ricandiderà nel 2011 il sindaco uscente, bisognerà sfogliare la margherita fino all’ultimo petalo. Per capire quale candidato metterà in campo l’opposizione, bisognerà attendere almeno l’autunno. La città verrà colta impreparata dalla campagna elettorale, e sarà chiamata a decidere in base a una "scelta di campo": modalità logora, dietro la quale si nasconde spesso la mancanza di idee. Per questo è necessario aprire fin d’ora il dibattito, chiedendoci in che direzione orientare il futuro di Milano. Di certo, Milano non può affidare il proprio futuro (solo) all’Expo.
Anche perché l’Expo, al di là della retorica, è sempre più confinato nel recinto espositivo, non avendo accolto i ripetuti inviti a sperimentare un modello diffuso, a basso costo, basato sulla riqualificazione di strutture esistenti. Un’Expo volta soprattutto alla realizzazione di opere infrastrutturali, non tutte indispensabili all’evento, un’Expo che reperirà le risorse necessarie alla realizzazione del sito consegnando nelle mani degli enti locali la "valorizzazione" immobiliare, fin qui sdegnosamente negata.
Il futuro di Milano non può essere devoluto neanche al nuovo piano di governo del territorio. Che non decolla perché non risponde neppure agli interessi degli operatori; o almeno, della maggior parte di essi. Pensato prima e durante la crisi, appare ora inadatto, poiché prevede di realizzare i servizi pubblici impiegando le risorse generate dalle trasformazioni private, oggi al palo. Un piano introflesso su Milano, che liberalizza il mercato edilizio rinunciando in larga misura a controllarne gli esiti. Un piano che non aggredisce il problema prioritario: l’inquinamento atmosferico e i danni che determina alla salute. Come dimostrano le difficoltà delle due linee di metropolita in cantiere, la mancanza di una politica della mobilità su area vasta, la costruzione di parcheggi sotterranei in pieno centro, l’abbandono dell’Ecopass e il lancio del bike-sharing senza piste ciclabili.
Vi sono quindi molte buone ragioni per sostenere che né i grandi eventi, né la programmazione ordinaria hanno davvero coinvolto i cittadini. Ecco dunque un possibile obiettivo per i candidati sindaci: ricostruire una dimensione comunitaria, che valorizzi il capitale sociale di Milano. Una città colta, ricca di università, aperta all’Europa, capitale del terzo settore, attiva nel volontariato, non può essere gestita come un’azienda (tanto meno come un condominio), né governata da un’oligarchia. Milano gioca il proprio futuro sulle competenze delle persone che la abitano e sulla coesione sociale. Come raggiungere questo obiettivo? Qui si può solo suggerire il punto di partenza: ascoltare le voci di Milano, per censire le aspettative, conoscere ciò che già avviene, per scoprire le molte energie che chiedono di offrire il proprio contributo. Ascoltare chi costruisce ogni giorno un pezzo della nostra comunità può aiutare a rendere questa città più moderna, più dinamica, più accogliente.
Cerco le buone notizie, per non passare come l’eterno pessimista. Questa settimana ne avevo trovata una: il sindaco Moratti annuncia un grandioso piano per rimediare alle buche delle strade. Una buona notizia? No. Pessima: la definitiva attestazione di una città che va a rotoli. Se scorrete ogni tanto le cronache di altre città d’Europa, quelle alla quali Milano indica spesso se stessa quale esempio, non avrete mai incontrato la notizia di un sindaco che deve "decretare" lo stato di calamità delle sue strade ed emettere una "grida" al riguardo.
Nelle città normali, e Milano non lo è, la sistemazione delle strade è un fatto di ordinaria manutenzione, routine, come lavarsi i denti il mattino. Per capire l’anomalia v’invito a osservare con attenzione le poche notizie di cronaca dall’estero che le televisioni nazionali, ormai dedite solo al gossip o ai minuti particolari degli sgozzamenti domestici, pur sempre passano sui nostri video: le strade e le piazze delle città europee si presentano bene, ben tenute e senza buche, non sono inutili selve di pali, i marciapiedi sembrano puliti e sgombri da autovetture.
Se poi avete la fortuna di viaggiare all’estero, meglio se in automobile e alla fine dell’inverno quando gelo e pioggia hanno dato il meglio di sé, non siete costretti alla gimcana tra una buca e l’altra per evitare di rimetterci le sospensioni e, se siete in moto, di franare a terra con quel che ne consegue. A Milano è tutto diverso. L’inverno passa, l’asfalto di pessima qualità si sbriciola, i chiusini stradali sprofondano e l’asfalto se ne viene via: lungo le rotaie dei tram si aprono solchi profondi e micidiali.
È il momento della grande rivincita dei villani in Suv che finalmente provano l’emozione del fuoristrada e il piacere di affrontare le pozzanghere come nei Camel Trophy, per la gioia dei pedoni innaffiati da capo a piedi. Il sindaco vuol provvedere: ha aperto gli occhi. La prossima "grida" sarà sulla carta igienica delle scuole e degli asili comunali.
Notizia numero 2: gli alberi di Abbado. Siamo a livello pollaio. Che cosa dobbiamo aspettarci ancora dalla fertile mente dalla nostra Minerva di Palazzo Marino in trepida attesa degli sponsor, la mitica figura entrata nell’olimpo cittadino? È ora delle grandi innovazioni istituzionali: niente elezioni, facciamo delle primarie per un sindaco sponsor all’insegna del vecchio proverbio "a caval donato non si guarda in bocca". Notizia numero tre: la Beic – Biblioteca europea di informazione e cultura – quella che doveva nascere a Porta Vittoria, non si farà più. L’assessore Masseroli sta già pensando a un riassetto urbanistico della zona. Si nutrivano speranze di trovare i soldi per la Biblioteca tra gli stanziamenti per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. Pure di questo nulla, dell’Unità d’Italia alla Lega non importa un fico secco e l’ultimo baluardo della cultura milanese a seguire. In questa tragicommedia dello scambio di ruoli di plautina memoria ecco dunque la Lega nei panni del Barbarossa: «... la primavera in fior mena tedeschi / pur come d’uso. Fanno Pasqua i lurchi / ne le lor tane e poi calano a valle." (G. Carduci – Il parlamento). Alberto da Giussano chi lo fa? Con la primavera arriva la Lega: i barbari.
Da nord a Sud, da Est a Ovest, nell´hinterland di Milano il premier Silvio Berlusconi ha impiantato una colonia di uomini di fiducia capaci di mandare in porto progetti edilizi in grado di modificare in profondità il tessuto urbano in cui sono inseriti. Tra gli arruolati spicca, da tempo, il geometra Francesco Magnano, da ieri sottosegretario nella giunta regionale del Formigoni IV. È al nome del factotum di Idra, l’immobiliare di famiglia del presidente del Consiglio, che sono legate le operazioni più importanti.
Arcore, Macherio, Monza, Segrate, i vertici del quadrilatero in cui il Cavaliere ha rinchiuso le sue fortezze. L’ultimo intervento, in ordine cronologico, è quello in riva al Lambro, da realizzare ad Arcore, alle spalle di Villa San Martino, residenza brianzola del Cavaliere. Milano 4: un investimento da 220 milioni di euro, 25 palazzine da quattro piani ciascuna, pari a 150mila metri cubi di volumi edificabili. Tutto all’interno di un parco regionale, oggi sottoposto a vincolo ambientale.
Per superare l’evidentemente resistibile ostacolo, lo scorso 2 febbraio Magnano e il pidiellino Antonino Brambilla, per l’occasione nella doppia veste di assessore al Territorio della Provincia di Monza e consulente di Idra, si sono presentati dal sindaco del Comune brianzolo per ottenere la concessione edilizia. Arriverà in cambio di 20 milioni di euro in oneri di urbanizzazione. «Al Comune di Arcore non è stato depositato alcun progetto», si è affrettato a precisare ieri Magnano, davanti ai microfoni, ai margini della cerimonia di presentazione della nuova giunta. Eppure il sogno di Milano 4 marcia spedito, sottotraccia. Tanto che in municipio circola una dettagliata proposta di intervento con cifre, metri e destinazione degli edifici della nuova cittadella.
Un punto d’onore per Berlusconi, che a Monza, sull’area della Cascinazza, ha dovuto fare un passo indietro, e che ora non è più disposto a tollerare altri ritardi. Al punto da schierare l’esperto numero uno della sua galassia per gli affari edilizi, il geometra nato a Brancaleone nel 1949, trapiantato a Macherio.
È proprio in Brianza che l’imprenditore del Biscione e Magnano si conoscono nel maggio del 1990, pochi giorni dopo la seconda vittoria del Milan berlusconiano in Coppa dei Campioni. L’occasione arriva con la compravendita dei terreni attorno a Villa Belvedere, 286mila metri quadri. Nella trattativa tra il proprietario, Augusto Erba, e Idra si inserisce proprio Magnano. È Sergio Roncucci, dirigente dell’allora Finivest e consulente di Idra, a contattarlo. Il geometra, che gode di ottime credenziali tra i funzionari dell’ufficio tecnico comunale, fa valutare i terreni 575 milioni di lire. In realtà verranno versati altri 4 miliardi e 400 milioni in nero sul conto di Erba, che poi mettendosi in regola con un condono fiscale farà venire a galla la verità.
Per Idra arriveranno le accuse di frode fiscale, appropriazione indebita e falso in bilancio. Dalle prime sarà assolta, per la terza scatta la prescrizione. In quei giorni, però, l’operato di Magnano è considerato eccellente. Promosso sul campo, la regia indiretta dell’affare, e di quelli futuri, è affidata alle sue mani. La consulenza gli frutta 300 milioni del vecchio conio.
Niente prebende ma un incarico diretto per Paolo Romani, sottosegretario alle Telecomunicazioni e luogotenente di Berlusconi nella giunta di Monza, con l’incarico di assessore all’Urbanistica fino a gennaio. Il progetto originario prevedeva la nascita di Milano 4 all’ombra della regina Teodolinda, sull’area della Cascinazza. Una zona di 723mila metri quadri considerata inedificabile dal Pai (Piano di assetto idrogeologico) perché bastano due gocce d’acqua per mandarla a mollo. Nell’ottobre del 2007 la Istedin di Paolo Berlusconi, proprietaria dei terreni, cede tutto a Brioschi sviluppo Immobiliare e Axioma Real Estate per 40 milioni di euro, con la promessa di un’integrazione di 60 milioni nel caso fosse modificata la destinazione d’uso. Variante certificata dal Pgt firmato dal sottosegretario alle telecomunicazioni e ribattezzata dai monzesi la "Variante Romani" [vedi estratto allegato f.b.].
A Segrate, dove già esiste Milano 2, si gioca la partita del Golfo Agricolo: 657mila metri quadri dove il senatore Gianpiero Cantoni, appoggiato da Dell’Utri, vuole realizzare un golf circondato da case e da un centro commerciale. «Per i lavori di realizzazione girano i nomi di aziende vicine a Berlusconi», denuncia Fernando Cristofori, capogruppo dell’opposizione di centrosinistra. Come andrà a finire a Segrate lo si vedrà. Certo è che né televisioni, libri, giornali e neppure la politica hanno distolto il tycoon di Arcore dal suo primo amore: il mattone. Perfino all’Aquila, dove ha scelto anche le piastrelle dei pavimenti, ne sanno qualcosa.
Acquedotti e vestigia, pianure a verde, olivi, pini, casali, molti abbandonati, intorno a Roma si stendono campagne morbide e antiche che, nell’ 800, facevano sognare paradisi in terra (ignorando la povertà) a stuoli di pittori del nord. Per la sua commistione di antico e natura l’Agro romano che dal mare ai monti avvolge la capitale è un territorio che uno Stato sano preserverebbe come uno scrigno: sia per attirare gli stranieri innamorati dei paesaggi italiani ancora integri, sia per foraggiare con verdure, frutta, carni e formaggi il buon appetito degli abitanti della capitale. È invece un territorio che ha sofferto molte invasioni di cemento e altre ancora, e potenzialmente non meno devastanti, ne deve temere adesso. Non a caso qualche domenica mattina fa nel quartiere del Casilino hanno sfilato cittadini con un’idea chiara in testa: «Vogliamo il parco, no alla cementificazione selvaggia». Protestavano affinché gli oltre 140 ettari di agro romano del comprensorio non vengano sventrati da edifici, palazzoni, strade, affinché il verde e l’archeologia si salvino. Questa urgenza la «manifesta» con chiarezza un libro che l’esito del voto laziale rende ancora più utile: è Il riscatto dell’agro. L’agricoltura a difesa del paesaggio (172 pagine con foto, Minerva). L’ha curato per il precedente assessorato all’agricoltura della Regione uno dei nostri editorialisti, Vittorio Emiliani, e attraverso saggi di più autori su più discipline e foto racconta quel territorio, il suo sogno di bellezza, le ferite, gli sventramenti, i pericoli che corre.
L’ACCELERATORE SULL’EDILIZIA
Roma, ricorda Emiliani, era il più vasto comune agricolo d’Italia, oggi non più. Dal 2000 al 2007, registra il curatore, la città ha premuto sull’acceleratore «della nuova edilizia, fra l’altro tutta di mercato». Per più ragioni. Tra le principali: i Comuni italiani sempre più in affanno possono usare quanto ricavano dagli oneri di urbanizzazione per ogni tipo di spesa quando con la legge Bucalossi del 1977 erano obbligati a reinvestirli e a non alterare il suolo; per di più, la mazzata, senza più l’Ici sulla prima casa le amministrazioni hanno un bisogno estremo di raccattare soldi e far costruire è il sistema in teoria più diretto. Esiste, è vero, l’emergenza- casa. La vivono per primi sulla pelle i giovani precari, gli anziani, gli immigrati, le famiglie con redditi modesti. Si costruisce per loro dunque? Emiliani snocciola un dato che chiarisce come sia un pretesto: gli alloggi sfitti, vuoti o usati precariamente sono ben 245mila, e non solo nel centro.
Un dato. Nel suo saggio Francesco Erbani, giornalista, registra come nella provincia romana dal 1990 al 200 le aziende agricole siano scese da 72 mila a 60 mila e gli ettari coltivati da248 mila a 193 mila ettari (meno 22%). Ritiene che la lobby edilizia condizioni il Campidoglio chiunque sia il sindaco. Alla giunta Veltroni imputa il milione e 300 mila metri cubi costruiti nell’area di Caltagirone a Tor Pagnotta.
Segnala allarmato il progetto di un’autostrada fra Roma e Latina «che intaccherebbe gravemente la riserva naturale di 6 mila ettari di Decima Malafede». E ricorda che la giunta comunale di Alemanno vuole trasformare i casali abbandonati in abitazioni, con, annesse, «isole ecologiche per il deposito temporaneo di rifiuti ingombranti, di fatto ancora discariche, legali, ma discariche ». «Ci sono ben 200 casali abbandonati – osserva l’ex assessore all’agricoltura Daniela Valentini – Alemanno ha avviato una battaglia per recintarli e costruire. Altro invece andrebbe fatto e lo avevamo proposto per recuperarli senza devastazioni: invece di villette a schiera ristrutturiamoli e trasformiamoli in servizi di qualità per la metropoli, dagli asili a centri di accoglienza per malati. Avevamo stanziato due milioni di euro per i privati affinché li ristrutturino creando servizi partendo dall’agricoltura: era una risposta avanzata, così l’agro romano rimane intatto e diventa vivo. L’idea di Alemanno è invece spregiudicata e devastante, dice di costruire perché mancano le case». Con la sintonia politica con la Regione, la strada per costruire è spianata.
Una volta, l’urbanistica di rito ambrosiano funzionava così: l’operatore privato (il Ligresti di turno) comprava a quattro soldi un’area agricola; l’amministratore pubblico (il comune) la toccava con la bacchetta magica di una variante di piano e questa diventava edificabile; il costruttore costruiva, ci faceva su un guadagno stratosferico e ringraziava, con una bella stecca, la mano di chi aveva agitato la bacchetta magica. Oggi, nell’era di Roberto Formigoni e dell’Expo, il rito ambrosiano cambia. Fa tutto lui, Formigoni: il venditore, il compratore, lo speculatore immobiliare. Il presidente della Regione Lombardia ha deciso infatti di acquistare l’area su cui si terrà l’Expo 2015. A vendere è la Fondazione Fiera (ente pubblico della Regione, in mani cielline). A comprare, e pagare, è Finlombarda (finanziaria pubblica della Regione, in mani cielline). A operare e far costruire sarà Infrastrutture lombarde (altra azienda regionale, sempre in mani cielline). Insomma: Formigoni stabilisce il prezzo, lo fa pagare, agita la bacchetta magica che permetterà di costruire, e poi nel 2015, a Expo fatto, rivenderà a prezzo maggiorato e incasserà.
“L’Expo sarà fatto con investimenti pubblici e quindi tutti i vantaggi andranno al pubblico”, garantisce. Staremo a vedere. Intanto un paio di cose sono certe: il sindaco di Milano, Letizia Moratti, è stato del tutto esautorato dall’affare Expo (“Scacco alla Regina” si dice fosse il nome in codice dell’operazione di Formigoni); e l’amministratore delegato della società di gestione dell’Expo, Lucio Stanca, è stato addirittura umiliato (ha cercato invano per settimane i soldi per comprare le aree e ora si deve fare da parte). Trionfa Formigoni, che diventa il vero regista della partita da qui al 2015. E gongola Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia che ha negato finora i soldi a Letizia Moratti e a Lucio Stanca e ora brinda a champagne perché ci pensa Roberto, “uno di noi” (come diceva il suo slogan elettorale). Felice anche la Lega, che all’Expo non ha mai creduto troppo. “È una soluzione che dà alla società la possibilità di lavorare meglio”, ha dichiarato Leonardo Carioni, il leghista che rappresenta il ministro Tremonti nel consiglio d’amministrazione della società guidata (per ora) da Stanca. Sarà presto sostituito?
Chissà. I rumors danno in arrivo, come suo sostituto, Luigi Roth, di fede ciellina e obbedienza formigoniana, che era ai vertici della Fiera. La Regione (e il comune, se vorrà rientrare nella partita e se troverà i soldi per una quota più piccola) diventano direttamente operatori immobiliari. Comprano un’area che ora è a verde agricolo e inedificabile. La pagheranno (ma a debito) a un prezzo ben più alto del valore agricolo (la cifra che gira è attorno ai 200 milioni di euro). Si assumono tutti i rischi di un imprenditore privato, in tempi grami, di crisi nera. E sperano domani, a Expo finito, di rientrare rivendendo i gioielli. Cioè la possibilità di costruire sull’area. Quanto? L’indice d’edificabilità indicato è 0,6 ossia un totale di 600 mila metri quadri. Ma il nuovo piano di governo del territorio (Pgt) in approvazione a Milano innalza l’indice a 1 per questa che considera “zona di trasformazione speciale”: dunque si potrà costruire ben 1 milione di metri quadri, e con un mix funzionale libero, a gentile discrezione degli operatori. È il rito ambrosiano 2.0.
«Io, Abbado, il verde e un’idea per la città
Il sogno è finito. Peccato»
di Renzo Piano
Le città sono immobili. Talvolta bellissime, ma immutevoli come la pietra di cui sono fatte: sono i suoni, gli odori, la gente e gli alberi ad animarle. Tutto ciò che è effimero e cambia le rende sempre nuove ed inattese, le tiene vive. Mi chiedo cosa sarebbe a Parigi Place des Vosges senza i suoi tigli.
Ci passo sotto tutte le mattine andando in studio, scandiscono il passare del tempo e il susseguirsi delle stagioni: è una delle tante cose che gli alberi fanno in una città. Mi domando se continuerei lo stesso a passarci ogni mattina, oppure se cambierei strada per incontrare altri alberi. Un delicato gioco d’equilibrio, un’alchimia tra durevole e passeggero; forse è questo il segreto di una città felice?
Sono architetto, e naturalmente sono innanzitutto sedotto dalla città costruita: la sua è una bellezza edificata dal tempo. È il tempo che rende le città così complesse e così ricche, specchio come sono di infinite vite vissute tra le loro mura. Le città belle sono una delle più straordinarie e complesse invenzioni dell’uomo, veri monumenti allo stratificarsi del tempo. Ma sono gli alberi a scandire il tempo che ha reso belle queste città. Sono loro la finestra aperta sul ciclo della natura, che poi è anche il ciclo non eterno della nostra vita. E ci ricordano che anche noi facciamo parte della natura, con tutte le conseguenze del caso. Per questo guardare un albero in un dialogo silenzioso è una piccola ma profonda seduta di autoanalisi. Un momento di silenzio e di meditazione, una breve pausa dedicata allo spirito. Con gli alberi si stringe un patto di complicità contro il tempo che passa. Si scambiano promesse alla fine di ogni stagione, e ci si dà appuntamento al ritorno di quella successiva.
Piantare gli alberi in città è un gesto d’amore, ma è anche un gesto generoso che altri godranno dopo di te. Nel farlo sai che solo tra cinquant’anni quell’albero sarà adulto e svolgerà la sua straordinaria missione. Se ne era già accorto Cicerone quando scriveva «Serit arbores, quae alteri saeclo prosint» (i vecchi piantano alberi che gioveranno in un altro tempo).
Niente di nuovo, ma non bisogna dimenticarlo. Sembra un gesto umile e semplice ma è un gesto carico di significato e di fiducia nel futuro. Ci sono alberi antichissimi, come il pino di Matusalemme in California o l’abete rosso Old Tjikko al confine tra Svezia e Norvegia, che sono cresciuti quando l’uomo non aveva ancora inventato la ruota. Neppure il deserto del Sahara esisteva, e l’Europa del Nord era mezza coperta dai ghiacciai.
Italo Calvino, cresciuto col padre botanico sulle alture di Sanremo, fa vivere la sua intera vita al giovane Barone Rampante sugli alberi di Valle Ombrosa, in Liguria, per ribellione e per scelta poetica. Ed il giovane Barone vive, si innamora, milita e viaggia sino in Spagna senza mai scendere dagli alberi. Straordinaria metafora della magia degli alberi, che anche in città rappresentano una parentesi di trascendenza...
Ma la città ha bisogno di alberi anche per una ragione molto più pratica e concreta. C’è un effetto termico detto effetto città per cui la pietra, i mattoni e l’asfalto si infuocano d’estate elevando la temperatura media di 4/5 gradi.
Questo effetto è enormemente mitigato da un importante presenza di alberi e dal loro fogliame. L’ombra sotto gli alberi non crea solo uno straordinario spazio urbano e sociale, ma abbassa anche la temperatura in modo considerevole. Gli alberi contribuiscono anche a modificare l’umidità relativa verso un maggior conforto fisico. Infine collaborano, come è noto, all’assorbimento del CO2 emesso dal traffico.
Per fare un esempio, 100mila alberi compensano lo smog prodotto da 5.000 automobili.
Se vogliamo quindi che le città diventino luoghi più vivibili, e che non facciano pagare un eccessivo prezzo al loro essere luoghi di vita associativa e di scambio, allora hanno anche bisogno degli alberi che così assumono un ruolo tutt’altro che decorativo.
Ho lavorato su questo tema, come architetto e urbanista, in molte città in giro per il mondo, fianco a fianco con straordinari botanici e uomini di scienze.
Mi sono sentito dire che gli alberi in un contesto urbano hanno bisogno di terra per le radici, e gliela abbiamo data. Mi sono sentito dire che gli alberi in città soffrono, e abbiamo trovato il modo di farli stare bene. D’altronde, se soffrono gli alberi figuriamoci la gente e i bambini. Mi hanno fatto notare che alcuni alberi provocano allergie, e abbiamo selezionato piante che non emettono pollini. E poi che perdono le foglie, e bisogna raccoglierle: giusto. E poi che coprono le insegne dei negozi: vedete voi. E infine, che rubano spazio ai parcheggi per le automobili. E su questo hanno ragione: gli alberi prendono inevitabilmente il posto dei parcheggi e del traffico automobilistico.
Ma è proprio quello che ci vuole: questo è l’aspetto più importante, nella visione umanisticamente corretta delle nostre città nel futuro. Occorre assolutamente salvarle dal traffico e dall’enorme quantità di parcheggi che le stanno soffocando. Più parcheggi si fanno e più traffico si attira, come la fisica insegna. Alcune città più dotate di trasporti pubblici l’hanno capito: a Londra è vietato costruire parcheggi in centro, a Stoccolma per disincentivare l’uso dell’auto una fermata del tram non è mai più lontana di trecento passi, e se il mezzo non arriva entro venti minuti il passeggero mancato ha diritto al taxi gratis. Occorre mettere tutte le risorse per costruire trasporti pubblici e dotare le nostre città di parcheggi di cintura. È chiaro che gli alberi in città hanno un ruolo importante in questa visione. C’è chi, cinicamente, dice che questo non avverrà mai. Scommettiamo che sì? È ormai inevitabile: spendiamo meno in parcheggi e sottopassi, e investiamo nel traffico pubblico.
E poi costruiamo una cintura verde come baluardo alla crescita scriteriata ai bordi delle città, rinforziamo i parchi urbani, cogliamo ogni possibile occasione di riconversione industriale o ferroviaria per aumentare gli spazi verdi e sfruttiamo ogni occasione ragionevole per dotare di alberi le strade, le piazze, i viali dei centri urbani. Così salveremo le città. Insomma, bisogna piantare alberi nelle città, e bisogna farlo con le Soprintendenze, perché si deve valutare ogni volta il rapporto sottile tra la città costruita, storia e monumento, e l’effimero degli alberi che cadenzano le stagioni. Gli alberi così fragili e vulnerabili diventano testimoni di una rivoluzione che è ormai irrinunciabile. Cito ancora Calvino, che nelle Città invisibili ci esortava a riconoscere in ogni città, anche la più brutta, un angolo felice. E in un angolo felice c’è sempre un albero.
Così quando Claudio Abbado, con la sua ormai famosa richiesta di remunerare «in natura» il suo ritorno alla Scala, mi chiese di aiutarlo a piantare alberi a Milano risposi con entusiasmo. Non solo perché c’e un nesso tra gli alberi e la musica (ambedue nel segno della leggerezza, del momentaneo e del passeggero) ma anche perché sono metafora di una visione diversa del futuro nostro e delle nostre città bellissime. Certi progetti hanno bisogno di un grande disegno e non sempre le amministrazioni ne sono capaci. Ho pensato che con gli alberi a Milano si potesse ricreare quell’equilibrio che è il segreto di una città felice. Anche perché si sta preparando all’Expo 2015, proprio sul tema della natura e della sostenibilità. Purtroppo devo prendere atto che la città di Milano non intende proseguire su questa strada. Peccato.
Il divorzio di Milano dagli alberi di Piano
di Stefano Bucci
MILANO— Il divorzio c’è stato, indubbiamente. Da una parte il maestro Claudio Abbado e i suoi novantamila alberi come compenso per tornare a dirigere alla Scala dopo 24 anni d’assenza (appuntamento già fissato il 4 e il 6 giugno) affiancato da Renzo Piano, l’uomo del Beaubourg e dell’Auditorium di Roma, che quegli stessi alberi avrebbe dovuto collocare (i primi avrebbero dovuto essere 220 frassini lungo l’asse via Dante-Castello-Cordusio). Dall’altra, il Comune di Milano (con tutti i suoi tecnici) da sempre assai critico, più o meno velatamente, nei confronti del progetto di Piano.
Ieri, a quanto pare, lo stop definitivo che ha portato Piano a dire: «Non ci sono più le condizioni per andare avanti». E questo perché, secondo il Comune, il progetto (che avrebbe dovuto prendere il via nella primavera 2011 e concludersi nel 2015) potrebbe essere realizzato solo trovando gli sponsor, «una ricerca di cui si dovrebbero però occupare direttamente» (per l’appunto) Piano, Abbado e il loro Comitato (dove compaiono il giurista Guido Rossi, l’ingegner Giorgio Ceruti, l’architetto Alessandro Traldi, il paesaggista Franco Giorgetta, la coordinatrice Alberica Archinto).
Piano, a questo punto, avrebbe dunque detto basta. Anche se il Comune non sembra così drastico: «Il progetto è davvero troppo oneroso, la situazione economica attuale non lo permette e non vogliamo esporci a facili critiche». Ma, allo stesso tempo, il sindaco di Milano Letizia Moratti si dice «disponibile a piantare quei 150 alberi destinati al "cuore" della città» ( una piccola parte della tranche iniziale di 3.500 tra centro e periferia). Per Piano il gran rifiuto del Comune è colpa di una visione deformata di questo progetto inteso solo «da un punto di vista semplicemente decorativo». Mentre per lui si tratta di qualcosa che contribuisce a migliorare la qualità generale di vita di Milano (seguendo, secondo un’idea da tempo a lui cara, quello che già hanno fatto città come Londra, Stoccolma, la stessa New York).
Appunto per questo Piano avrebbe voluto partire proprio dal centro: «Dove lo smog colpisce di più, dove l’aria è irrespirabile, dove la gente ha soltanto voglia di andare via, di scappare». I contrari hanno sempre visto in quegli stessi alberi (tutti da piantare per terra, nessuno nei vasi) un elemento che avrebbe rovinato la prospettiva della città. Mentre molti commercianti vedrebbero negativamente quelle chiome verdi che potevano oscurare le insegne e i tecnici parlano di troppo poco spazio tra le radici e i «sottoservizi» (metropolitana e altro). Tutto questo proprio nell’anno in cui la giapponese Sejima, direttrice della Biennale di Venezia, propone una mostra per «analfabeti dell’architettura», magari quegli stessi analfabeti che si ricordano con entusiasmo di una Piazza Santo Spirito a Firenze, di un Prato della Valle a Padova e di tutte quelle belle piazze e strade d’Italia piene d’alberi.
postilla
Se è consentito ai comuni mortali di esprimere modeste opinioni su alte sensibilità urbane ed estetiche, che di solito sfuggono al terrigno uomo della strada e della periferia, direi che si può trarre un insegnamento positivo da tutta quanta la vicenda: il Doppio Brodo Archistar stavolta invece di bollire l’opinione pubblica ha cucinato gli incolpevoli protagonisti. Che, speriamo proprio, da persone intelligenti quali sono potrebbero anche trarne altrettanto intelligenti conseguenze. Ovvero che la loro sensibilità, attenzione alla storia, all’estetica, al quadro internazionale ecc. ecc. risulta del tutto sprecata (per usare un eufemismo) in un contesto dove riflessioni e proposte del genere servono nel migliore dei casi come pudica foglia di fico per nascondere altre vergogne. Ad esempio che quella passeggiata di alberi cascava nel nulla strategico, era un gioiello della corona senza corona, buttato lì sulla pelata di un re nudo da far pena. Che va guardato per quello che è.
Insomma, forse in altri contesti si può forzare un pochino, e raccontare per le riviste di viaggi che tutto lo sviluppo della città si deve al grande architetto che ha firmato il museo, o la fontana nella piazza. Ovviamente non è vero: alla base di tutto ci sono anni di strategie, di sforzi collettivi, di piani e progetti coordinati. A Milano, l’unica strategia che emerge la leggiamo a pezzi e bocconi sui giornali da parecchi anni, almeno quando qualche cronista riesce a orecchiare particolari fra un consiglio di amministrazione e una sagrestia brianzola. Vada in pace, architetto Piano, guarderemo da qui volentieri - con un po' di invidia - le cartoline dei suoi progetti in altre città che li sanno digerire meglio (f.b.)
Le mani di Roberto Formigoni sull´Expo. Sarà la Regione, infatti, ad acquistare i terreni attualmente di Fondazione Fiera e gruppo Cabassi. La proposta del governatore, che dribbla i dubbi sulla compravendita manifestati dal ministro Giulio Tremonti, è stata formalizzata ieri nell´incontro tra i soci di Expo 2015. Il sindaco Letizia Moratti potrà partecipare, ma di fatto è stata messa nell´angolo. Come l´ad Lucio Stanca, che potrebbe essere affiancato presto da un direttore generale.
Roberto Formigoni dribbla i dubbi del ministero dell´Economia sull´acquisto delle aree e mette le mani sull´Expo 2015. Sarà la Regione attraverso Finlombarda, oppure una newco composta da Regione, Comune e Provincia a comperare i terreni attualmente di Fondazione Fiera e del gruppo Cabassi dove si svolgerà la manifestazione nel 2015. La proposta è stata formalizzata ieri dal governatore all´incontro tra i soci di Expo 2015 spa, in cui si doveva scegliere tra l´ipotesi di acquisire il solo diritto di superficie dell´area o quella dell´acquisto vero e proprio. Si è scelto per la seconda. «La soluzione preferibile - spiega Formigoni - per superare l´impasse cui la società di gestione ha cercato di porre rimedio in questi mesi. Eravamo pronti a farlo da soli, ma ben venga la partecipazione degli altri soci pubblici anche con quote differenti. Lavoreremo in tempi strettissimi perché le idee le abbiamo chiare. Tutti i cittadini devono sapere che l´Expo sarà fatto con investimenti pubblici e quindi tutti i vantaggi andranno al pubblico. Questo spazza via ogni ipotesi o sospetto di un vantaggio privato». La nuova società, infatti, avrà solo il compito di acquistare le aree, che naturalmente aumenteranno di valore dopo la manifestazione del 2015.
Il sindaco Letizia Moratti non sembra preoccupata dai vincoli posti al suo bilancio dal patto di stabilità: «L´acquisto da parte degli enti pubblici - dice - è un segnale importante perché gli enti pubblici avranno poi anche i vantaggi delle eventuali plusvalenze rispetto agli investimenti che verranno fatti». Lucio Stanca, amministratore delegato della società di gestione dell´Expo, è soddisfatto anche se ora non sarà più lui a trattare. «Un´ottima soluzione - commenta - molto più lineare e istituzionale». Anche se in realtà la sua idea iniziale era che fosse la società di gestione ad acquistare le aree. Persino il presidente della Provincia Guido Podestà, che in mattinata si era improvvisamente convertito all´ipotesi dell´acquisto del solo diritto di superficie, nel pomeriggio corregge il tiro: «Siamo disponibili a partecipare con una quota ancora da definire».
Il ministero dell´Economia ufficialmente tace, anche se la proposta di Formigoni di fatto lo solleva dalle spese per l´acquisto dei terreni. Il suo rappresentante nel cda di Expo 2015 spa, Leonardo Carioni, della Lega, non sembra avere dubbi: «È una soluzione che dà alla società la possibilità di lavorare meglio». Anche i vertici della Fondazione Fiera sembrano soddisfatti e aspettano di incontrare al più presto chi tratterà per il Pirellone. Sanno di poter contare finalmente su un acquirente con un portafoglio più ricco di Comune e Provincia.
Chi attacca l´operazione senza mezzi termini è, invece, l´opposizione di centrosinistra. «Con questa mossa di Formigoni la Moratti non toccherà più palla e il governatore sarà l´unico regista dell´Expo» incalza Matteo Mauri del Pd. Gli fa eco il deputato Vinicio Peluffo: «Per un problema politico tutto interno al centrodestra, vale a dire il disinteresse del governo a investire sulla società di gestione, siamo di fronte all´ennesima scelta che moltiplica le spese e fa perdere tempo nel decidere chi fa cosa».
Resta ancora da capire quando Berlusconi firmerà la lettera di garanzia dei finanziamenti, che la società di gestione dovrà presentare con il dossier definito di candidatura al Bie a Parigi entro il 30 aprile. «Il presidente la dovrebbe firmare proprio in queste ore» assicurava ancora ieri la Moratti. Mentre Formigoni preferiva non sbilanciarsi e aggiungeva prudentemente: «Lo dice lei».
La sindrome da grattacielo non perdona. Adesso anche il sindaco Moratti vuole il suo per gli uffici del Comune e dice di volerlo per razionalizzare le membra sparse dell´amministrazione. Io mi domando sempre perché si è dimenticata l´origine tutta newyorchese dei grattacieli. Due furono sostanzialmente le ragioni: la limitata superficie dell´isola di Manhattan e la convinzione delle grandi Compagnie che l´addensare tanti colletti bianchi facilitasse gli scambi interpersonali e aumentasse la produttività del lavoro intellettuale, soprattutto quello di modesto livello.
Insomma, eravamo in un momento nel quale la maggior parte delle persone comunicava guardandosi in faccia: c´erano, in assai parziale alternativa, prima il telegrafo, poco dopo il telefono e poi la posta pneumatica per trasferire documenti al posto di solerti fattorini. Questa seconda ragione è ovviamente sfumata perché i sistemi di comunicazione attuali hanno annullato le distanze e lasciando in campo solo drammaticamente il fattore tempo personale e in particolare quello che impieghiamo per andare da casa al lavoro. Il concentrare i luoghi di lavoro, ma anche di residenza, in aree limitate, ossia fare i grattacieli, è una soluzione a questo problema o il suo contrario?
Per Manhattan resta ormai prevalente il valore simbolico: chi vuol contare nel mondo della finanza e degli affari vuole essere a New York e meglio ancora se a Manhattan. Così anche per Londra e in parte per Parigi. Per le città asiatiche c´è il fenomeno dell´imitazione simbolica e per Tokio un po´ di tutto. E Milano? Milano fa un po´ ridere.
Il solo grattacielo fatto, a uso uffici, è l´esplicitazione della sindrome da faraone di chi ci amministra, la sua piramide; per il resto le abitazioni in costruzione sono case molto alte ma non certo grattacieli: aspettiamo Citylife e le sue torri residenziali, quelle che Libeskind definisce la sua utopia di una Milano «verde e senza motori». Ha solo però sbagliato il sito per la sua utopia, perché il sottosuolo di Citylife è tutto un parcheggio e sarà l´unico insieme di edifici collegato direttamente con l´autostrada. Quanto al verde è inutile ripetere che saranno giardini condominiali, come la favola di liberare spazi al piede dei grattacieli.
Siamo solo vittime di provincialismo culturale e della sindrome del grandioso. Ma tornando al tema: perché fare grattacieli a Milano? Manhattan con i suoi grattacieli ha dato la risposta a una domanda pressante a cavallo di due secoli e poi, tracciata la via, si è innestato un meccanismo difficile da fermare che aveva però alla sua base un forte impulso del potere economico e dei suoi simboli. A Milano non è così, dopo la scomparsa del produttivo vediamo migrare altrove anche il potere economico, perché quest´ultimo è figlio ormai degenere della politica e la politica, quella vera, si fa a Roma con il pieno consenso della Lega.
Qui si tratta solo di vani gesti simbolici perché ormai non ci resta che fare da curiosi spettatori ai convegni sul lago di Como e poco altro. Forse i grattacieli li facciamo per quello: speriamo nelle giornate limpide di riuscire a vedere i grandi a Cernobbio, perché l´Appennino e la curvatura della terra non ci permettono di vedere fino a Roma.
Febbraio 2010: sulle pagine del Corriere di Siena, per chi ha l’occasione di sfogliarle, capita di imbattersi in titoli come “il cemento che piace agli enti locali” (23 febbraio, a firma Sonia Maggi), “Qual è l’interesse pubblico?” e “Bagnaia, chiesti i danni al sindaco” (12 marzo, si fa riferimento all’interrogazione della consigliera di Rifondazione a Sovicille, Angela Bindi, nonché al ricorso al TAR da parte della Agricola Merse s.p.a.), e ancora “Bagnaia, il parere dei tre Comuni” (14 marzo). L’ultimo articolo, che reca il sottotitolo “Massima attenzione ad un intervento imprenditoriale di qualità”, e riporta la posizione ufficiale dei Comuni interessati, è anche reperibile nella rassegna stampa fornita dalla Provincia di Siena nel suo sito on-line: gli altri no, si trovano solo nella versione cartacea, che può consultare solo chi vive o lavora a Siena. Nella censura ricade anche un comunicato della sezione senese di Italia Nostra, del 22 marzo, che neppure il Corriere di Siena ha voluto pubblicare. Sul caso di Bagnaia, evidentemente i nervi sono un po’ scoperti.
La storia è lunga: nel 2000 la Soc. Agricola Merse s.r.l., di proprietà Monti Riffeser, firma un protocollo d’intesa con i Comuni di Murlo, Sovicille e Monteroni d’Arbia, tutti in provincia di Siena, per un piano di sviluppo turistico nella tenuta di Bagnaia, che si estende appunto sui tre comuni. Il piano prevede il completamento delle strutture già avviate intorno al nucleo della fattoria di Bagnaia, in comune di Murlo, con un centro congressi e un albergo a cinque stelle, e inoltre una serie di interventi fra cui un campo da golf di 18 buche con annesso albergo, ancora un altro albergo con centro congressi sulla Siena-Grosseto, una beauty farm. Nel piano sono previsti anche la conversione al biologico delle produzioni agricole e alcuni interventi di miglioramento ambientale.
Siamo pochi chilometri a sud di Siena, dove il pian di Rosia raggiunge il corso della Merse e si accosta ai poggi di Murlo. La fitta rete di canali testimonia l’importanza delle opere di bonifica in quello che era il punto più delicato dell’idrografia senese. Sull’altra sponda del piano, oltre il crinale di San Rocco a Pilli, si disegna il profilo di Siena. Le altre sponde collinari, a ovest e a sud, ospitano nuclei storici di grande pregio come Orgia, Stigliano, Torri e Rosia, da una parte, e le Stine, Grotti e Radi dall’altra. Tanto per dire che non siamo in una parte qualsiasi di un territorio qualsiasi.
Il piano del 2000 viene in parte realizzato, ma già nel 2006 si rende necessaria una variante, che viene ratificata in un nuovo protocollo d’intesa, auspice l’Amministrazione Provinciale di Siena. La variante riguarda l’assetto agricolo, con la rinuncia all’indirizzo biologico perché “non conveniente”, ma soprattutto riguarda la destinazione degli interventi turistico-ricettivi: non solo alberghi ma RTA (Residenze Turistico-Alberghiere) o addirittura CAV (Case Appartamenti Vacanze). La differenza non è da poco: se le prime, le RTA, non possono (almeno in teoria) essere frazionate e messe in vendita, le seconde nascono già come seconde case, al pari di qualsiasi insediamento residenziale. Cambiano anche le tipologie: da strutture a schiera, a volume compatto con resede unitario, si passa alla disseminazione delle villette e relativi giardinetti.
Così circa 65.000 mc di nuove costruzioni si vengono ad aggiungere ai 90.000 mc già disponibili per ristrutturazioni edilizie a destinazione turistica. Senza contare i volumi interrati che contribuiscono insieme al campo di golf al rimodellamento completo di tutta la morfologia collinare. Da notare che fra le integrazioni del 2006 c’è anche lo spostamento di una delle strutture ricettive previste, che ricadeva nell’area della bassa Merse, compresa in un SIC (Sito di interesse comunitario) verso l’area già interessata dal previsto campo da golf , ossia “antropizzata”, dice la relazione dell’azienda. Come dire: rispettiamo “i forti connotati naturali” del fondovalle, e carichiamo ulteriormente di nuovi volumi le colline …
Il documento è datato 19 gennaio 2006. L’unica reazione, in febbraio, sembra essere quella del gruppo consiliare di Rifondazione Comunista alla Provincia di Siena, che interroga in proposito il presidente (firmatario dell’atto integrativo del protocollo) e mette in dubbio la correttezza delle procedure previste rispetto alle direttive regionali. Ma è solo in settembre che la stampa sembra accorgersi della portata degli interessi in gioco. Il 10, domenica, e di nuovo il 13, mercoledì, le pagine toscane di Repubblica ospitano due ampi servizi di Maurizio Bologni sul caso di Bagnaia, con foto dei luoghi (e della signora Marisa Monti Riffeser) e titoli molto significativi: “Da albergo a case in vendita. Business immobiliare, la Provincia di Siena dice sì”, e ancora: “Bagnaia, violata la legge regionale” (virgolettato, attribuito a Rifondazione) e sotto “L’opposizione prepara osservazioni alle varianti e ricorsi al Tar”, dove per opposizione si intende sempre il solo PRC.
Attenzione alle date: siamo ai primi di settembre 2006, e solo pochi giorni prima si era aperto il caso di Monticchiello con il celebre articolo di Alberto Asor Rosa sulle pagine culturali di Repubblica. In quel particolare clima anche le denunce fatte ormai da qualche mese riemergono finalmente in tutta la loro rilevanza: “Bagnaia equivale a Monticchiello”, si legge su Repubblica. E sotto l’occhiello “le reazioni”, nel secondo intervento, lo stesso giornale riporta le interviste con il senatore Boco e il consigliere regionale Erasmo D’Angelis con un titolo che rincara la dose, “modello toscano al capolinea: nell’urbanistica serve una nuova fase”. A riguardare oggi quelle pagine ci si rende conto di quanto sia mutato in seguito l’atteggiamento istituzionale. A quel tempo sembrava possibile un dialogo, c’era la disponibilità a rivedere qualche aspetto della gestione del territorio: poi, a partire dai primi mesi del 2007, le pubbliche amministrazioni, Regione in testa, si sono arroccate sulla difensiva, mentre la denuncia di emergenze urbanistiche e ambientali non faceva che estendersi a tutta la Toscana.
La linea fissata nel protocollo di gennaio non poteva non essere rivista, o almeno ritoccata: nel febbraio 2007 i tre Comuni sottoscrivono un accordo esecutivo nel quale si stabilisce che “laddove in luogo delle strutture alberghiere fossero realizzate case ed appartamenti per vacanze” andava prevista una riduzione complessiva del 15 % dei volumi. Ma intanto la procedura va avanti, lentamente come in tutti i casi in cui le regole urbanistiche devono essere piegate alle urgenze politiche, col risultato di ingarbugliare ulteriormente la già complicata matassa delle normative. Contro la variante allo strumento urbanistico di Murlo (l’unico comune che dispone di un Regolamento Urbanistico) interviene in novembre il WWF con una circostanziata osservazione, nella quale si rileva anche la totale mancanza di valutazioni di impatto. Sovicille e Monteroni arrivano all’adozione del Piano Strutturale molto più tardi, rispettivamente nel febbraio e nel giugno 2008, dopo mesi di varianti e varianti di varianti al vecchio PRG, sempre in base all’ art. 40 della legge 5/95.
Si arriva dunque all’adozione di nuovi strumenti urbanistici quando ormai si è formato un nuovo contesto legislativo: quello della nuova legge per il governo del territorio, approvata nel gennaio 2005 (LR 1/05), e del Piani di Indirizzo Territoriale, PIT, adottato in aprile e approvato in luglio 2007. Già in aprile i sindaci dei comuni della Toscana ricevevano una circolare della Direzione Generale delle politiche territoriali e ambientali relativa alle misure di salvaguardia, ossia alle conseguenze immediate dell’adozione del PIT. In presenza di piani attuativi non ancora convenzionati, “nel caso in cui il Comune stia formando il Piano Strutturale ed esso non sia stato ancora adottato – recita la circolare – il Comune procede ad effettuare la valutazione integrata di tali piani attuativi”. Se compatibili, questi piani faranno parte del Piano Strutturale a tutti gli effetti. Di solito ci vuole poco a stendere una “valutazione integrata” per dimostrare che va tutto bene. Ma nel caso di Sovicille il PS, redatto dall’arch. Giovanni Cardellini, conferma sì le previsioni della variante al PRG approvata a suo tempo per Bagnaia, ma richiede anche ulteriori precisazioni che riguardano fra l’altro la tipologia architettonica (compatta e non dispersa), nell’ambito di un progetto unitario “che consenta di controllare il migliore inserimento nel paesaggio”.
Il PS viene adottato in febbraio 2008. In quel momento tutti gli occhi sono puntati sull’eventuale ampliamento dell’aeroporto di Ampugnano, contro il quale si stanno mobilitando Comitati, Rete e Associazioni, ma la proprietà Monti Riffeser non tarda a far sentire la propria voce. In agosto l’avvocato Arizzi incaricato dalla Agricola Merse s.p.a. invia una nota al sindaco di Sovicille nella quale si sostiene che “[…] c) il testo del PS adottato dal Comune di Sovicille è del tutto compatibile con quello della predetta variante” e che “d) il Comune di Sovicille potrà e dovrà quindi introdurre il testo di cui sopra nella vigente strumentazione urbanistica locale” (sottolineatura mia). L’avvocato trasmette anche in allegato un’ampia relazione illustrativa che l’azienda ha predisposto, “pur non essendovi tenuta” (ci tiene a precisare).
E veniamo dunque alla Relazione sugli interventi attuati, che comprende la Cronologia sugli [sic!] interventi in corso di realizzazione e da realizzare. Nella premessa si ricorda che il primo Protocollo d’intesa era stato firmato nel 2000, ma si giustificano le successive variazioni di programma: “Il modificarsi in questi ultimi anni in modo rilevante della domanda turistica ha indotto la proprietà a valutare meglio la coerenza degli interventi ancora da attuare con le evoluzioni e prospettive del mercato turistico”. Di qui la necessità di “rimodulazioni”, che del resto sono quelle già stabilite nel successivo Protocollo del 2006, rispetto al quale si richiede tuttavia “una maggiore flessibilità delle norme affinché queste non limitino gli insediamenti realizzabili alla sola tipologia alberghiera”. Si allegano “a titolo puramente indicativo” due schemi planimetrici della lottizzazione che si vorrebbe realizzare intorno al podere San Giovanni: si tratta di dodici doppie villette, che comunque vengano distribuite non possono che rivelare la propria natura di case vacanza, casualmente disposte in un contesto collinare che non viene neppure visualizzato.
Ormai non si può più nascondere il fatto che la proprietà è orientata a realizzare case e appartamenti per vacanze, ossia le famigerate CAV sulle quali il Comune non sembra avere intenzione di cedere, sostenuto anche da una delibera della Giunta Regionale (n. 289 del 2007) nella quale si legge che “le case per vacanze per quanto riguarda la disciplina urbanistica non rientrano nella destinazione turistico ricettiva, ma in quella residenziale”. Ma l’azienda non ci sta: nel gennaio 2009 l’avv. Arizzi presenta ricorso al TAR per conto dell’Agricola Merse, sostenendo fra l’altro che “i Comuni di Monteroni e Sovicille hanno da tempo adottato il PS nel quale per le aree interessate dal protocollo è esplicitamente prevista anche la possibilità di realizzare CAV”.
La Regione, almeno come struttura tecnica, non può che venire in aiuto del Comune di Sovicille, e lo fa con una Integrazione all’osservazione che era stata trasmessa al Comune (nel maggio 2008) a proposito del PS adottato. La nota, trasmessa dalla Direzione Generale delle politiche territoriali e ambientali, a firma dell’arch. Renato Faltoni, è estremamente interessante. Cito: “A seguito di approfondimenti e nello spirito di collaborazione cui all’art. 27 della L.R. 1/05, si ritiene necessario integrare l’osservazione al Piano Strutturale presentata da questo Ente, relativamente alle previsioni turistico-ricettive in loc. Bagnaia”. “Gli interventi – prosegue la nota – si collocano in territorio rurale, nell’ambito di beni costituenti il ‘patrimonio Collinare’ del PIT”. Quindi si precisa che le CAV sono assimilate a civili abitazioni e pertanto “non possono essere realizzate in aree nelle quali non è ammessa la destinazione d’uso residenziale”. Queste, cioè le zone residenziali, sono localizzate dal PS di Sovicille esclusivamente in aderenza e a completamento dei nuclei insediativi esistenti, anche perché “il PIT disincentiva lo sviluppo residenziale in ambiti collinari”. Ed è ancora al PIT che la nota fa riferimento quando sostiene che gli interventi nel settore residenziale non possono garantire l’opzione strategica relativa “al progressivo superamento dei fenomeni di rendita connessi all’utilizzo delle risorse territoriali”.
La nota è molto chiara, e non fa che ribadire orientamenti già espressi in sede regionale e comunale. Prudentemente, l’estensore la definisce “Integrazione” alla precedente osservazione, perché sa che i tempi per le osservazioni sarebbero abbondantemente scaduti. Per l’Agricola Merse, invece, si tratta proprio di una “Osservazione tardiva”: così in una nota inviata il 26 marzo al Sindaco e per conoscenza alla Regione. E’ evidente che siamo in un impasse. La proprietà ha avuto sempre, fin dal 2000, ampie rassicurazioni sulla volontà politica di consentire la realizzazione del progetto turistico di Bagnaia, in particolare da parte del Presidente della Provincia Fabio Ceccherini. Eppure le regole fissate dalle stesse forze politiche in Regione ne intralciano la realizzazione. Che fare?
Qui arriva il colpo di genio con il quale si apre l’ultimo atto dell’operetta. L’iniziativa non poteva che passare direttamente ai politici. L’assessore regionale Riccardo Conti, o chi per lui (il servizio di Sonia Maggi sul Corriere di Siena attribuiva l’iniziartiva al sindaco di Sovicille Alessandro Masi), promuove un nuovo strumento, del quale ancora non si era sentito parlare: il Protocollo d’intesa istituzionale. Non si tratta di un accordo fra privati e amministratori, ma di un atto firmato da sindaci, presidente della Provincia e assessore della Regione, che si impegnano a sostenere un progetto privato. Ma la novità non è soltanto procedurale, è soprattutto lessicale. E perché? Perché quelle lottizzazioni che si vogliono realizzare a Bagnaia non sono residenze più o meno mascherate, che diamine, ma fanno parte di un progetto di “Comunità turistica”, per il quale tutte le istituzioni interessate manifestano un genuino “interesse pubblico”.
Ebbene sì. L’atto firmato il 14 dicembre 2009 dall’assessore Conti, dal presidente della Provincia Bettini e dai tre sindaci recita testualmente: “Le Pubbliche Istituzioni che sottoscrivono il presente protocollo d’intesa convengono di individuare l’intera tenuta di Bagnaia, come perimetrata negli strumenti urbanistici generali dei tre Comuni, quale ambito unitario intercomunale con carattere di comunità turistica. In tale ambito saranno previste strutture turistico-ricettive e residenze a vocazione turistica, oltre alla funzione residenziale insediata nel patrimonio edilizio esistente, o già convenzionato. Le nuove volumetrie residenziali saranno funzionalmente e strettamente integrate alle strutture turistico-ricettive e alle relative attrezzature (convegnisti che, sportive, di benessere e termali) e la loro collocazione risponderà ai principi insediativi richiamati dal PIT e PTC, nonché dalla normativa regionale di settore”. Amen.
Da sempre, e oggi più che in passato, la città è stata, ed è, il luogo dei conflitti, dove si esercitano concretamente i diritti e i doveri, si misurano le differenze, si osservano le condizioni di miseria insieme all'ostentazione delle ricchezze, il luogo della politica, delle convivenze, più o meno pacifiche, il luogo, in ultima analisi, dove si svolge la vita reale e quotidiana delle persone, come si dice, in carne ed ossa, dove si partecipa alla vita collettiva e tuttavia si consumano solitudini.
Quella di Roma è una storia particolare. Una città che vive in simbiosi con le sue periferie (senza periferie non ci sarebbe Roma); una città che ne ospita un'altra (il Vaticano); una città soffocata da un passato glorioso tanto che essa somiglia - è stato detto - alla sua autopsia; una città che non è mai stata moderna, che anzi ha resistito con tenacia a qualsiasi tentativo di modernizzazione (perfino la metropolitana a Roma fa fatica a realizzarsi). La città dell'incanto e del disincanto; città astuta e sorniona; città che assorbe nel suo grande ventre (della storia) qualsiasi innovazione piegandola ai suoi ritmi lenti e sonnacchiosi, dove il vissuto è sempre più ricco del pensato, e del progettato.
A James Joyce, dice Ferrarotti, questa città faceva venire in mente un tale che sbarca il lunario, dietro compenso, esibendo il cadavere della nonna. A differenza di altre città, la "romanità" è una caratteristica incerta. Il dialetto romanesco, a parte certe folkloristiche rappresentazioni, è sparito da tempo; l'accento si rileva con difficoltà: borza anziché borsa, le doppie ridotte a una consonante forse per pigrizia o per risparmiare parole.
Senza indugiare a sentimentalismi o romanticismi, si potrebbe anche dire che Roma è una città mistero. Mistero poiché sono stati in molti, da Goethe, a Simmel fino a Pasolini, a tentare di afferrarne l'anima, a descriverne l'immensa complessità e poliedricità. Descrizioni attente, dettagliate, curiose, che tuttavia quasi mai, se non a tratti, se non per una parziale sintesi, riescono ad essere esaustive. Questa città appare inafferrabile, indicibile: non appena tenti di descriverne un aspetto, appare subito la sua faccia opposta: generosa ma anche cinica, bellissima e tragica, seducente e traditrice, puttana, è stato detto, come si addice a chi si concede facilmente ma, subito dopo la seduzione, per abbandonare il sedotto al proprio destino.
Non è, non lo è mai stata, una città veramente moderna. Una città industriale, per esempio, come Milano o Torino. E neppure mai è diventata, nonostante la sua gloria, una delle città mondiali, come Parigi, Londra, New York. Pare quasi che la sua immensa fama le abbia riservato un destino a parte, una condanna alla solitudine dei suoi antichi fasti, una grande nobile decaduta che non si mescola con le altre, stizzosa e fiera ma anche miserabile e cialtrona.
E tuttavia, nel quindicennio di amministrazioni di sinistra questa sua poliedrica narrazione è stata semplificata riducendola a quella di una città in attesa di modernizzazione. Roma sempre in "ritardo" rispetto alle altre grandi metropoli mondiali.
Una lettura condivisibile solo se si resta alla superficie del problema. In realtà, semplificante, mutilante, manipolante. L'ambiguità di aver dato come implicito un valore assolutamente positivo e progressivo al concetto di modernizzazione. Esso, infatti, è definito in un quadro dominato, cito Cassano, «da un ottimismo storico che vede lo sviluppo come un gioco libero ed aperto, nel quale tutti possono entrare con la speranza di partecipare ai suoi benefici, ma anche di scalare le posizioni e risalire le gerarchie». Nel caso romano c'era un secondo motivo di ambiguità. Il cosiddetto sviluppo conseguente alla modernizzazione riguardava sostanzialmente il centro storico (eventi, notti bianche, festival, ecc.) nella falsa convinzione e presunzione che esso fosse cuore e motore della città. Ma a chi spettava colmare questo cosiddetto "ritardo" e in quale modo?
Qui è nata quella sorprendente invenzione veltroniana chiamata "Modello Roma" che in poco tempo non solo è stata propagandata come una politica locale destinata a riscuotere un grande successo, ma che, successivamente, si è tentato di esportare a livello nazionale come esempio di una alleanza virtuosa tra amministrazioni pubbliche e privati in grado di superare i tradizionali e nefasti impedimenti del passato. Questa invenzione magica, lo sappiamo, è stata letteralmente battuta alle elezioni amministrative del 2008 con la sconfitta della candidatura di Rutelli, successore designato personalmente dal Grande Inventore Veltroni.
Ora quella politica, la modernizzazione, viene impugnata dal sindaco Alemanno quasi senza soluzioni di continuità, come a dimostrare che essa non è né di destra né di sinistra, ma una sorta di necessità storica che ci consente di tenere il passo con chi è più avanti di noi. È singolare che gli ideologi della politica comunale di Veltroni accusino il nuovo sindaco di avergli rubato le idee, anziché chiedersi come mai una politica urbana di sinistra sia stata accolta così favorevolmente da una amministrazione di destra. È così che per decidere il destino di questa città vengono chiamate le più celebri archistar del mondo (Piano, Fuksas, Calatrava, ecc.), come se la città, questa città poi, fosse un insieme di architetture sparse e poi nient'altro. La spettacolarizzazione è figlia diretta della modernizzazione: basta un giro di manovella, un pifferaio magico e la realtà si trasforma: anziché miserie e povertà ecco i grattacieli, la nuvola, lo stadio del nuoto: tutti saremo più felici e meno poveri.
E le periferie? Se mi si consente un'analogia direi che è come nelle ferrovie: l'importante è che Freccia Rossa possa arrivare da Roma a Milano prima dell'aereo, poi la moltitudine dei treni pendolari può anche attendere. Un vero progetto moderno dovrebbe gettare le basi per una città dell'accoglienza. Del profugo, dell'esule, del barbone, del discriminato, del diseredato, dell'immigrato, del diverso. Una città delle differenze.
Diceva Brecht: beato quel popolo che non ha bisogno di eroi e... aggiungo io, nemmeno di archistar.
Il crollo di una volta traianea della Domus Aurea, nel centro di Roma e a pochi metri dal Colosseo, appare sempre più come una sorta di maledizione del suo ideatore e primo inquilino, l’imperatore Nerone. Ma da quando un pezzo della Roma antica si è sbriciolata (e i cosiddetti esperti parlano di almeno altri centocinquanta ambienti archeologici della struttura che non sono stati impermeabilizzati e che potrebbero cadere da un giorno all’altro), è trascorsa solo questa manciata di giorni di aprile. Al capezzale della Domus Aurea sono subito accorsi il commissario straordinario Luciano Marchetti, quello per l’intera area archeologica romana Roberto Cecchi, il sovrintendente dei Beni culturali di Roma Umberto Broccoli e persino Francesco Giro, unico sottosegretario di Sandro Bondi al Mibac e grande appassionato del passato remoto della Capitale.
Tutti allarmati, un po’ fatalisti e determinati (a parole) a trovare rimedi al più presto. “Mah, qui staremo chiusi almeno quattro-cinque anni”, allarga le braccia uno dei custodi della Domus Aurea. Abbiamo allora il tempo per attraversare il cuore di Roma. E scoprire che, probabilmente, sessanta mesi neanche saranno sufficienti. Colpa dei sovrintendenti, in teoria messi tutti insieme appassionatamente da alcuni accordi tra il sindaco di Roma e il ministro dei Beni culturali che finora hanno prodotto solo l’illuminazione dei Fori imperiali per il Natale di Roma 2009 e qualche altro piccolo evento prontamente e frettolosamente concluso? No, c’è dell’altro.
Il freno a mano tirato per i grandi resti archeologici di una Capitale che non ha trovato nel bilancio del proprio comune neanche i soldi per tappare le buche nelle strade del centro storico, si chiama – banalmente – “scoordinamento”. Gli studiosi (e i burocrati ) del comune di Roma non sanno che cosa fanno i loro colleghi del ministero. Tanto che quando lo scorso 7 aprile il sindaco Alemanno annuncia nuovi interventi dell’architetto Richard Meier sulla propria Teca dell’Ara Pacis, scoppia una lite furibonda tra comune di Roma (sovrintendente, Umberto Broccoli) e ministero dei Beni culturali (soprintendente ai Beni architettonici, Federica Galloni). Lei accusa lui, davanti a telecamere e cronisti, di non essere stata invitata, se non all’ultimo minuto, all’iniziativa del Campidoglio. Il sottosegretario Francesco Giro non si ritrova neanche il cartellino sul tavolo dei relatori, i burocrati dei due schieramenti si salutano a denti stretti.
Questione di galateo istituzionale non rispettato? Macché. Il più recente crollo nella Domus Aurea – riaperta nel 1999 da Walter Veltroni, allora ministro dei Beni culturali, e Francesco Rutelli, all’epoca sindaco di Roma, sbarrata nuovamente nel 2005 a causa di gravi infiltrazioni d’acqua, quindi riaperta nel gennaio 2006, di nuovo chiusa per precauzione nel dicembre 2008 e infine restituita in parte al pubblico – va attribuito anche al fatto che comune di Roma e Mibac non si parlano. Non è, però, solo un problema di funzionari che non funzionano. La cosiddetta competenza della Domus Aurea è del ministero.
Ma quella dei giardini che la circondano e dell’intero Colle Oppio è del comune. Se allora il Campidoglio decide di proteggere, ad esempio, alcune aree della Domus di Nerone ma non informa dettagliatamente il ministero, ecco che scoppiano non solo tubature o sacche d’acqua, ma anche tante, italianissime, polemiche. Per capire meglio questo meccanismo perverso e grottesco basta spostarsi di qualche centinaio di metri e raggiungere, a pochi metri dalla Bocca della Verità, l’Arco di Giano e, quasi di fronte, il tempio di Ercole vincitore. Sono gioielli architettonici straordinari: ma non si possono visitare. Perché – anche qui – le strutture sono dello Stato e i giardini che le circondano sono di competenza comunale. Perché lì sotto corrono le alimentazioni di acqua e corrente elettrica. Risultato: alte cancellate ne nascondono la vista. E i turisti (almeno quelli più appassionati) si appoggiano alle grate come detenuti in attesa dell’ora d’aria. Oppure rinunciano, guadagnando a piedi quel Colosseo dove lo spettacolo più frequente è quello di un gruppo di figuranti-centurioni sempre in litigio tra loro per guadagnarsi (letteralmente) la foto con il turista più sprovveduto.
“Forse non c’è più modo d’illudersi su di una seria opportunità di vedere pianificata e programmata una politica di salvaguardia monumentale a Roma. Questo ultimo crollo, in qualche modo annunciato può infatti non essere incidentale. Si sapeva delle intense piogge, dei cedimenti parziali, di una sostanziale povertà strutturale e delle condizioni geologiche del complesso che circonda l’antica Velia”, ragiona Michele Campisi, architetto e studioso, esperto di Italia Nostra. E ancora: “Forse una legge regionale a riordino dei molteplici ambiti che per virtuali opportunità si sono oggi prodotti potrà almeno consentire la necessaria riflessione sul tema”. Come dire: così non si può proprio andare avanti.
Altri esempi? Eccoli. La Villa Adriana di Tivoli, a ridosso della quale d’estate si organizzano alcuni concerti e qualche happening teatrale, ha mosaici e pavimenti che rischiano ogni giorno di scomparire un po’. Incuria, il famoso conflitto di competenza tra governo e istituzioni locali, alcuni episodi di turismo selvaggio la stanno distruggendo.
E allora? In attesa che il dialogo tra sordi venga riaperto – magari con stanziamenti di fondi che non si fermino agli annunci in pompa magna – occorrerà accontentarsi del cartello esposto tranquillamente alle Terme di Traiano, proprio sopra la Domus Aurea. C’è una mappa e persino una legenda. La quale indica al punto 6, “Crolli strutture pertinenti al settore occidentale delle Terme”. Insomma, a quei disastri non si è posto rimedio e allora tanto vale segnalare i crolli nelle cartine ufficiali. Diventeranno anche loro reperti archeologici?
La Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici del Veneto Orientale ha «immobilizzato» 500 milioni di cantieri. Una raffica di stop per centinaia di pratiche urbanistiche. con il comune leghista che grida allo scandalo. Peccato che si tratti di rifare Dubai nel Golfo di Venezia. Grattacieli, residence, parchi divertimenti, campi di golf e una valanga di centri commerciali a tema. Tutto affastellato direttamente a 300 metri dall'Adriatico. Si chiama Jesolo City Beach 2012. Si traduce nel solito business immobiliare. Architetti di fama mondiale a beneficio della facciata. Dietro, una colata di cemento in versione turistica. Sulla patina dei cataloghi, Jesolo Lido si propone di diventare come Miami. Troppo, davvero. Perfino nella brochure degli affari e della politica veneta, capace di vendere il sacco di 100 chilometri quadrati di campi, boschi e paludi sparite dal 2001 al 2009 come «sviluppo del territorio».
A colpi di carta bollata.
Ma qui la Soprintendenza ha tirato il freno a mano. Adesso è guerra a colpi di carta bollata. Nel silenzio (quasi) totale dell'informazione. E nel disinteresse, finora, del neo-governatore Luca Zaia. In gioco i super-cantieri che «completano» opere gigantesche già avviate. Sono una ventina di insediamenti già lanciati nella pubblicità turistica. Si «spaccia» per acquisita la Jesolo del futuro: 96,5 chilometri quadrati di territorio urbanizzato con 5.200 tra appartamenti, ville; villaggi e campeggi più 391 hotel con 82.000 posti letto complessivi. Un elenco di lavori impressionante. Un mega-cantiere più grande dell'Expo di Milano anticipa lo schema tanto in voga delle «Olimpiadi del cemento» che da Tessera dilagano verso Padova (governata da Flavio Zanonato, il Formigoni del Veneto) e Treviso (controllata da decenni dalla Lega svezzata dallo sceriffo Gentilini). E' il «modello veneto» piegato agli interessi immobiliari: l'ultima frontiera per far schei (e magari riciclarne altri) .
A Jesolo, il braccio di ferro che oppone Soprintendenza e Comune leghista vale mezzo miliardo di euro, una cifra che parla da sola. Nel luogo in cui servono 15 mila euro al metro quadro per qualsiasi posto fronte mare. Un'anomalia clamorosa nel mercato immobiliare dell'intero Nord Est che, forse, dovrebbe interessare la Guardia di finanza. Il dettaglio dei progetti eclatanti è altrettanto impressionante. Fronte Mare Hotel: resort con annesso centro congressi da 650 posti e un centro benessere spalmato su 1.600 metri quadri. Sorgerà a due passi da piazza Drago, il «cuore» della movida estiva. Lo hanno disegnato Alberto Montesi e Alessandro Costanzia per conto della Edilbeton di Trento. Ma le betoniere sono pronte anche a gettare l'Isola Blu a 150 metri dall'arenile: «Un arcipelago di servizi» ammiccano i pubblicitari alle prese con il camuffamento del centro commerciale di 80 mila metri quadri con parcheggio interrato per 2 mila auto progettato da Bruno Dolcetta. E poi Laguna Park, realizzato da Giampaolo Mar e Toni Follina, giusto in fianco al nuovo terminal degli autobus. Sono 150 mila metri quadri con vele colorate come biglietto da visita per i visitatori.
Progetti a ciclostile.
Tutte idee clonate, ambienti artificiali stile Emirati arabi. Nessuna, in ogni caso, compatibile con la tutela dei 300 metri di rispetto demaniale. Si progetta con il ciclostile: a beneficio di gru e cantieri, impresette in sub-fornitura, banche a caccia di società immobiliari. In un contesto turistico che non solo d'estate a volte diventa base operativa di traffici con radici in ogni sponda dell'Adriatico. Forse, varrebbe la pena metterci sopra una lente d'ingrandimento. Ma la Jesolo del futuro viaggia a testa bassa. In Veneto è l'unica piazza che non risente della crisi del settore. Merito di Exotic Village, ispirato ad un'oasi del deserto del Sinai con dune finte, palmizi decorativi e caravanserragli per turisti-beduini. Cascina del Mar, invece, si propone come fedele copia dei borghi mediterranei, con variazioni botaniche conseguenti a giustificare un'altra dose di cemento. Gli architetti dello studio Lesuisse (già all'opera nella riqualificazione della Costa Smeralda ai tempi dell'Aga Khan) spiegano: «Plasmiamo la cubatura con la creta. L'obiettivo è rispettare la natura: fondersi e mimetizzarsi. I bambini lì devono poter giocare a nascondino». I portoghesi Goncalo Byrne e Joao Nunes si cimentano, invece, con il “torrone” al limite del canale. Il progetto Merville-Casa del parco significa 22 piani di un mega-grattacielo innestato in una pineta di 50 mila metri quadri.
La skyline di Jesolo Lido sarà come quella di New York: in piazza Drago, nuovo centro della cittadina balneare, sono previsti 71 mila metri cubi di costruzioni mastodontiche quasi fossero le Torri Gemelle del turismo. Ma non basta ancora, perché Giampaolo Pighin e Giorgio Rizzi hanno progettato la nuova darsena per il diporto con alle spalle l'immancabile golf club autografato da Giampaolo Mar. La passeggiata nel futuro ex-lungomare di Jesolo Lido prosegue già con altre due megatorri. Si avanza, con immutato furore urbanistico fra il mini grattacielo Tahiti e ll village commissionato a Richard Meier. Subito dietro, una «città della musica» e l'ipercity che però si chiama più gradevolmente «parco commerciale”. Insomma, il cemento dilaga senza freni alimentando una voracità immobiliare senza precedenti. Con la benedizione della Lega di governo, e in nome della tradizione che vuole Jesolo Lido come il mare d'estate di mezzo Veneto. Eppure, ci sarebbe la concorrenza di Bibione e Caorle. Senza dimenticare che dal vicino Friuli anche Grado e Lignano Sabbiadoro attirano il turismo garantendo tranquillità e uno specchio di laguna ancora naturale.
Ma in municipio il Carroccio di Jesolo è pronto alla guerra pur di far marciare il federalismo urbanistico su misura delle agenzie immobiliari. L'intervento della Soprintendenza diventa letteralmente intollerabile. «Un problema di ordine burocratico minaccia 500 milioni di euro in investimenti - tuona il vice sindaco e assessore all'urbanistica Valerio Zoggia - Così si rischia di dover sentire la Soprintendenza anche per installare un condizionatore o cambiare gli infissi di una struttura nella fascia dei 300 metri dal mare». Per l'amministrazione comunale, invece, è tutto già urbanisticamente compromesso come si evidenzia nel ricorso al Consiglio di stato. In municipio sostengono proprio la necessità di recuperare pezzi di territorio «irrimediabilmente degradato». Nel Veneto che ha appena girato pagina in Regione, ecco la declinazione dell'autonomismo immobiliare, con Jesolo in prima linea contro le invasioni della Soprintendenza che finiscono per «paralizzare lo sviluppo di un'intera città a vocazione turistica».
La città vacanza
Da Kenzo Tange a Jorge Haider
Jesolo, 25.029 abitanti, d'estate diventa la Rimini dell'Alto Adriatico. Il turismo, di fatto, è la spina dorsale dell'economia fin dagli anni Trenta. Oggi, la spiaggia più estesa d'Italia (15 chilometri di sabbia finissima) risulta puntellato da oltre 400 alberghi, 15 mila case-vacanza, 7 campeggi e 5 maxi discoteche. Demograficamente, si tratta di un comune a crescita zero. Eppure nel Duemila aveva già messo in cantiere 6 milioni di metri cubi di cemento che equivalgono alla capacità insediativa di circa 50mila abitanti. Oggi, all'ordine del giorno ci sono gli interventi in variante al masterplan firmato da Kenzo Tange, che per aveva già immaginato lo sviluppo della city-beach con tratto ben diverso. A Jesolo la Lega Nord ha fatto breccia fin dall'inizio. Il braccio politico delle gru è il sindaco Francesco Calzavara, classe 1964. Pilota professionista dal 1977 al 1983, poi gestore delle piste da kart del Triveneto e imprenditore con la Motorpoint. Nel 1993 salta sul Carroccio: assessore al turismo (due volte) nella giunta del leghista Renato Martin (ora nelle file del Pdl), viene eletto sindaco nel 2002. Due anni prima il municipio veneziano era rimbalzato nelle cronache nazionali per l'imbarazzante consegna delle chiavi della città a Jorge Haider, governatore della Carinzia con passato nazista. Da sempre lesolo si gioca il primato balneare del Nord Est, cullandosi con i record di visitatori di Aqualandia, primo parco acquatico italiano, e il Lungomare delle Stelle autografato da Sophia Loren, Gina Lollobrigida e Alberto Sordi. Dal 2007 il palazzo del Turismo di Jesolo ospita le finali di Miss Italia nel Mondo e la fase conclusiva del concorso Miss Padania, in diretta concorrenza con Salsomaggiore.
Il video promozionale dell'iniziativa immobiliare: vedere per credere!
C'era una volta l'urbanistica. Quella scienza inesatta perché politica che disegnava le città sulla base delle esigenze economiche e sociali di chi le abitava, cercando di armonizzare il progetto architettonico con il contesto ambientale. Quel faticosissimo esercizio prima intellettuale e poi materiale attraverso cui i governi territoriali dialogando o confliggendo con i cittadini hanno trasformato le città, a volte con successo più spesso malamente, assumendosene tuttavia la responsabilità culturale e politica nel confronto con i propri cittadini.
La nobile funzione pubblica di regolare lo sviluppo urbano piegandolo all'urgenza dei bisogni collettivi sembra definitivamente estinta. Forse era inevitabile, troppo generosa negli intenti, ingenua come sono ingenui i buoni sentimenti che rifuggono dall'acidità di un reale contraddittorio e indomabile; ma anche debilitata dal suo eccesso di illuminismo, di quella volontà di ordinare ciò che di per sé è disordinato: un po' come mettere le mutande al mondo.
Sia come sia, pietà l'è morta.
I funerali si sono celebrati a Roma, giovedì e venerdì scorso, guarda caso tra le navate di un tempio dell'architettura contemporanea, l'Auditorium di Renzo Piano. E' stata una cerimonia fastosa, in cui il verbo architettonico ha raggiunto il popolo dei muratori, e una manciata di chierichetti-amministratori a scodinzolare e gongolare. Si doveva ragionare intorno al futuro della capitale, che è la città più grande e complessa e maltrattata d'Italia, e ciascuno ha tratteggiato il proprio. Bello, brutto, così così, non importa. Si trattava solo di sventolare suggestioni e proiettare visioni.
E' stata una narrazione molto coinvolgente, contrappuntata da torri da erigere e muretti da abbattere, sviluppi abitativi verticali e sistemi fognari orizzontali, nuvole sognanti e lampioni lampanti, abbattimenti ricostruzioni riconversioni, piazze piazzette fontanelle, alziamo qua, prendiamo lì, l'austerità ottocentesca, la marmellata novecentesca, la periferia chissenefrega. Ecco il futuro di Roma. Pezzi e pezzetti, strapuntini sparsi, un po' di monumentalità architettonica. Uno slancio creativo decontestualizzato e indifferenziato, stagliato su una modestissima panoramica dell'esistente che oltretutto fa anche un po' schifo.
Qualcuno in città aveva sospettato che la conferenza urbanistica (urbanistica?) di Alemanno sarebbe stata una vetrina infiocchettata, uno specchio delle vanità politiche della destra che si sente ormai padrona. L'avevano pure dichiarato comitati, movimenti, associazioni, sindacati, Municipi ed esclusi vari, qua e là, senza tuttavia ricevere riscontri significativi: c'era il timore di apparire ostili alla contemporaneità più o meno progressista, di prendersela con Calatrava, Fuksas, Piano, Meier e tutti gli altri (ma siamo matti?). Be' è stata perfino peggio. Ma non per ciò che si è proposto, che si è ipotizzato, per le nuove idee che pure sono affiorate. Ma per la semplice ragione che è andata perduta un'occasione di progettare organicamente la città, di comporre un minimo di quadro urbanistico che delinei ciò che bisogna fare di Roma. Insomma, una conferenza urbanistica senza urbanistica.
Che il sindaco Alemanno non abbia minimamente idea di come andare avanti, di come gestire la città e di come prefigurarla, è cosa nota a tutti, perfino a lui. Ed è per questo che l'incontro fieristico che si è svolto all'Auditorium l'aiuta in questa sua strutturale inconcludenza. Nessun intento pianificatorio, un po' di progetti disaggregati ed episodici e l'imminente trasferimento dei beni demaniali di cui far mercimonio. Quanto al piano regolatore approvato due anni fa, basta continuare a far finta di niente, magari implementarlo di cubature se il mercato lo ritiene necessario, accoglierne qualcosa di conveniente, e per il resto è carta straccia.
Ormai nessuno più a Roma si arrocca intorno a quel piano, che sappiamo non essere indenne da numerose e pesanti incongruenze, esito di un compromesso politico tra urbanistica negoziata e urbanistica partecipata. Ma è tuttavia un tentativo di coordinare lo sviluppo futuro della città sulla base di un ragionamento e di un senso: condivisibile o meno, si configura come una pianificazione organica. Prevede che la città cresca intorno a uno schema policentrico, conferma la vincolistica sul sistema dei parchi e sull'Agro romano, prefigura un consistente intervento risanatore sui tessuti urbani intermedi, e così via.
Ma è proprio questa «pretesa» di determinare il dove e il cosa che la destra romana (la destra tutta) vuole definitivamente superare e liquidare. Intanto, facendo capire che Roma è nata e cresciuta così, con un esteso centro storico congestionato da funzioni urbanistiche pesanti, e così deve restare; con la conseguenza che tutto il resto fino all'estrema periferia continuerà a essere un gigantesco contenitore di case d'abitazione sovraccaricato di traffico e sottodimensionato di servizi. L'idea insomma di alleggerire la città storica, e finalmente riconsegnarla al suo ruolo di bene culturale «naturale», per trasferire più in là le grandi attività e i poli funzionali, e così dare slancio urbanistico alle periferie, viene di colpo affondata. Eppure, senza voler ricorrere ad argomentazioni disciplinari, chiunque, anche in Campidoglio, sarebbe in grado di elaborare questa semplice equazione a saldo zero.
E' che la cultura del sindaco e dei suoi è un po' limitata. Preferiscono che tutto resti com'è, perché intervenire è difficile e perché in fondo è meglio non scombinare troppo, vivacchiando alla giornata e passando la nottata. Per il resto, godiamoci quanto altri hanno realizzato, completiamo quel ch'è già in corso, magari ritocchiamo e così facciamo finta di avere qualche idea, e poi domani è un altro giorno.
Si pensava che il peggio fosse l'urbanistica contrattata con il mercato. Ma nessuno pensava che saremmo arrivati all'urbanistica del chissà chi lo sa.