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Il Giornale dell'Arte, maggio 2017.

Il 6 aprile scorso è entrato in vigore - tramite decreto (DPR 31/2017) - il "regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata".Si tratta di un provvedimento che incide direttamente sull'attuazione del Codice dei Beni culturali e, nello specifico, sul procedimento di autorizzazione paesaggistica, vale a dire il nulla osta che gli organi territoriali di tutela, le Soprintendenze, devono concedere per poter effettuare qualsiasi intervento di trasformazione territoriale in aree sottoposte a tutela

Anche se l'amministrazione delegata al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche è, ai sensi del Codice, la regione che, come è ormai prassi consolidata, può delegare il compito ai Comuni, il parere delle Soprintendenze è vincolante ed è stato spesso causa fra le principali di contenzioso - sia che sia concesso o che sia negato - da parte sia di privati o amministrazioni richiedenti che di cittadini, comitati e associazioni difesa del patrimonio, sull'altro versante.

È indubbio infatti che l'autorizzazione paesaggistica costituisca a tutt'oggi lo strumento principale di tutela del territorio da parte dello Stato e per questo sia divenuta spesso oggetto di aspro confronto fra chi la ritiene un potere eccessivo nelle mani di funzionari tecnici (i 'burocrati' oggetto di strali in particolare da parte di coloro che rivendicano sempre e comunque il primato della politica) e chi invece ne vorrebbe rafforzare l'attuazione soprattutto in termini di maggiori risorse da attribuire a chi la esercita, vale a dire le Soprintendenze.

Il nuovo regolamento si inserisce in questo dibattito proseguendo in una linea di modifica e semplificazione del Codice dei beni culturali (2004), linea che nel settore della tutela paesaggistica, è in pratica iniziata immediatamente dopo l'emanazione della seconda e ultima tornata di modifiche al testo, avvenuta nel 2008.

Già nel 2010, infatti, con un precedente decreto (DPR n. 139) era stata emanata una prima tornata di semplificazioni per interventi di lieve entità e in questi anni numerosi sono stati i provvedimenti, della più varia natura, ma in particolare quelli mirati alla ripresa economica o ad incentivare un generico 'sviluppo', che hanno inciso sul provvedimento di autorizzazione paesaggistica (circoscrizione dei tempi concessi per l'emanazione del provvedimento e dispositivo del silenzio/assenso).

Questa progressiva compressione delle soglie temporali e delle modalità di intervento rientra peraltro nel filone della "semplificazione amministrativa", vera e propria parola d'ordine delle ultime stagioni politiche così come questo regolamento che stabilisce un lungo elenco di interventi per i quali l'autorizzazione non è più richiesta (31) e un altro ancor più lungo (42 casi) in cui è sufficiente ;un'autorizzazione semplificata, appunto.

Se molti dei casi elencati possono rientrare nella sfera - pur pericolosa - del buon senso (opere che non alterino l'aspetto esteriore di edifici ovviamente non vincolati, oppure interventi antisismici o di consolidamento che non comportano modifiche alle caratteristiche morfotipologiche, ai materiali di finitura, o alla volumetria o altezza dell'edificio), in altri casi le interpretazioni si possono prestare a più di una ambiguità. Ad esempio, nel caso dei dehors - strutture che sempre più pesantemente incidono sull'aspetto e la vivibilità di vie e interi isolati dei nostri centri storici - la differenza che distingue quelli che non necessitano di alcuna autorizzazione da quelli che prevedono la procedura semplificata rischia di essere molto sottile nella pratica.

L'esempio dei dehors, poi si ben si presta ad una critica complessiva sulla ratio di normative così concepite: se infatti un singolo intervento può avere un'incidenza modesta sull'insieme dell'ambiente urbano - aspetto che ne giustifica l'inserimento in un provvedimento come questo - è la somma dei singoli che fa la differenza. Vale a dire che una strada o piazza invasa da decine di dehors - ciascuno di per sé di 'lieve' impatto - muta radicalmente nel suo uso urbano e si configura, nell'insieme, come un'operazione di perdita dello spazio pubblico, sempre più minacciato nelle nostre città e per questo tanto più prezioso.

L'esempio vale per altri casi dell'elenco, dagli arredi urbani alle installazioni di microeolico, ai pannelli solari, all'apertura o chiusura di finestre e verande... e potremmo continuare sino ai casi più eclatanti come la realizzazione di parcheggi per i quali la derubricazione a interventi di lieve entità (B.11) sembra davvero eccessiva.

La logica dell'elenco, insomma, rischia di essere molto miope e pericolosa quando impiegata su organismi così delicati come i centri storici o comunque su aree sottoposte a tutela paesaggistica.

Solo una pianificazione urbanistica e territoriale consapevole dei valori della tutela potrebbe superare l'impasse e le lacune determinate dalla somma di interventi puntuali e dal frazionamento di provvedimenti singoli e ignari di un contesto non solo geografico-culturale, ma sociale ampio. Quella pianificazione che, però, nel nostro paese appare sempre più residuale, se a dieci anni dall'emanazione del Codice che prevedeva la copianificazione paesaggistica solo tre regioni - Puglia, Toscana e, da pochissimo, il Piemonte cui si può aggiungere il decreto salvacoste in Sardegna - vi hanno ottemperato.

In quanto strumento normativo, un regolamento è di per sé utile in quanto cerca di eliminare spazi di ambiguità applicativa (anche se non sempre ci riesce, come nel nostro caso), ma dovrebbe essere accompagnato da procedure di controllo e monitoraggio sulla sua efficacia e soprattutto sulla sua adeguatezza al contesto organizzativo. In un momento così delicato come è quello attuale, infatti, in cui la riorganizzazione del Mibact, soprattutto per quanto riguarda gli organi di tutela territoriali, è ancora in una fase di assestamento e in taluni territori le carenze di organico sono tali da rendere molto complesso l'esercizio delle normali attività (gli architetti delle Soprintendenze sono attualmente poco più di 500 sull'intero territorio nazionale), l'ennesima decurtazione dei temp operativi (solo 10 giorni sono concessi al Soprintendente per emanare una valutazione negativa circostanziata) rischi di creare smagliature ripetute all'impianto della tutela e uno stravolgimento complessivo di intere aree urbane e non, dato dalla sovrapposizione non sufficientemente governata di innumerevoli interventi di "lieve" entità.

Nel dibattito sul destino degli ex scali ferroviari c'è un grande assente: l 'obiettivo di un più alto livello di«convivenza civile, nel cui manifestarsi rifulgano tre elementi: la coesione sociale; le relazioni virtuose che promuovono la crescita umana e culturale dei singoli come della collettività; e un abitare condiviso». Arcipelago Milano, 9 maggio 2017

Sul recupero delle aree degli scali ferroviari sono già emerse diverse indicazioni utili a meglio definire, dal punto di vista della Pubblica amministrazione, i termini del nuovo Accordo di Programma: una riforma del trasporto su ferro così da rimettere a sistema la mobilità urbana e regionale; il perseguimento di una stretta connessione fra accessibilità e destinazioni funzionali; il conseguimento di complessità nelle attività e nella popolazione insediabile.

Eppure, più complessivamente, si sta facendo strada un’idea cardinale: le aree degli ex scali sono un’occasione straordinaria per riattrezzare la città e il contesto metropolitano con una ricaduta che investe l’intera regione.

Questo porta subito in evidenza una contraddizione sul piano strategico: operazioni come quella di buttare denaro pubblico nella voragine dell’area ex Expo (oltretutto mettendo a repentaglio il destino di Città Studi) e la stessa Città della Salute avrebbero richiesto una rigorosa verifica a tutto campo sull’impiego delle risorse della collettività e sul convogliamento delle stesse energie private.

In questi mesi sono emerse questioni tutt’altro che peregrine e dalla soluzione tutt’altro che scontata: di chi è l’effettiva proprietà delle aree (Maria Agostina Cabiddu et alii)? E poi, quanto delle plusvalenze conseguite nella trasformazione spetta al Comune (vedi l’articolo di Roberto Camagni e Alberto Roccella su ArcipelagoMilano del 12 aprile 2017)?

Su questi nodi si può disquisire e dividerci; ma è difficile non convenire che siamo di fronte a una grande questione politica. Più che mai il Comune è chiamato a decidere se intende guidare il processo e controllarne gli sviluppi o se, come è accaduto nella trasformazione delle grandi aree dismesse degli ultimi tre decenni, delega di fatto questo compito agli operatori immobiliari.

Il bilancio di cosa sia disceso da questa delega assume i contorni di un grande fallimento: un campionario di errori o comunque di occasioni mancate sul fronte della messa a frutto delle potenzialità per la città (fallimenti solo in parte mascherati dai successi registrati sul piano dell’investimento immobiliare). Non c’è tempo qui per un’analisi nel merito, ma un fatto è certo: il recupero di grandi aree comporta un’operazione complessa in cui concorrono insieme la fondazione di parti di città e la riqualificazione del più ampio comparto urbano interessato.

Su entrambi i versanti, a Milano come in molte altre città, gli operatori immobiliari si sono dimostrati inadeguati, se non del tutto disinteressati. L’intervento privato, ancorché di grande portata, è stato capace di sfruttare parassitariamente la città esistente (e in particolare le economie esterne da questa espresse), ma non di promuovere valori urbani che non siano quelli del lievitare dei prezzi a mq. Il risultato è uno scambio decisamente asimmetrico in cui nel rapporto pubblico/privato la città ha fatto la parte della benefattrice, senza esserne adeguatamente ripagata in termini di avanzamento della qualità urbana.

Nel dibattito, pur ricco, che si è sviluppato fin qui sulla questione del recupero degli Scali ferroviari a Milano la qualità urbana, in specie l’urbanità che ne è il culmine, è la grande assente. Eppure, in fatto di trasformazioni urbanistico-architettoniche, nel processo di programmazione, progettazione e realizzazione un posto non secondario dovrebbe spettare alla promozione di questa qualità che rappresenta il punto più alto raggiunto dalla civilizzazione.

L’urbanità ha a che vedere con la convivenza civile. Nel suo manifestarsi rifulgono tre elementi: la coesione sociale; le relazioni virtuose che promuovono la crescita umana e culturale dei singoli come della collettività; e un abitare condiviso che si fa carico dell’habitat, con attenzione alla difesa/incremento delle risorse per il vivere e alla cura dei luoghi.

Accanto alle infrastrutture primarie (trasporti, telecomunicazioni, fognatura, acqua, gas etc.) e alle infrastrutture cosiddette secondarie (i servizi sociali ai vari livelli di utenza, a cui andrebbero aggiunte le attività culturali in senso lato), va introdotta la nozione di infrastrutture della socialità riconoscendo il ruolo che gli spazi aperti pubblici (strade, piazze, verde etc.) e i rapporti fra spazio pubblico e spazio privato possono assolvere nel favorire le relazioni di prossimità e in generale la qualità urbana di una formazione insediativa.

La costituzione delle infrastrutture della socialità dipende molto, anche se non esclusivamente, dai seguenti fattori: la scelta appropriata delle destinazioni d’uso e l’istituirsi di sinergie fra le attività; l’instaurarsi di una stretta relazione fra spazi pubblici e privati e l’esaltazione della loro mutua appartenenza, in un equilibrio sempre da ritrovare fra relazione e difesa; la qualità degli spazi aperti pubblici e la loro capacità nel fare da connessione e da legante tra gli organismi edilizi; il definirsi di luoghi dotati di “bellezza civile” (nozione che traggo da Giambattista Vico), in particolare di bellezza dialogica, ovvero di bellezza che nasce dall’interazione (qualità in cui le città italiane sono state maestre).

Questo porta a riconoscere le potenzialità dello spazio pubblico quale sede basilare delle infrastrutture della socialità, rispetto a cui le infrastrutture primarie dovrebbero svolgere un ruolo di servizio (esattamente il contrario di quanto accade con la piastra dell’area Expo), mentre le infrastrutture secondarie (nel senso estensivo sopra indicato) dovrebbero costituirne i capisaldi.

A ben guardare, negli interventi di recupero delle aree dismesse realizzati a Milano da Bicocca a Citylife, passando per Porta Nuova, un’evoluzione c’è stata: dall’imitazione della città ottocentesca (assai inferiore al modello) si è assistito all’avanzare di gated communities camuffate.

Tre potenti fattori spingono in questo senso: la predilezione degli operatori immobiliari per i grandi complessi edilizi in cui si combinano autoreferenzialità ed esibizionismo, a discapito di una complessità che si affida a interventi minuti e integrati all’insegna della misura e dell’affabilità; l’adozione di tecnologie costruttive che finiscono per ridurre la stessa architettura (per come l’abbiamo conosciuta fin qui) a un ruolo ancillare nella configurazione degli edifici: un ruolo prossimo a quello del disegno delle carrozzerie automobilistiche; e, motore primo, l’inseguimento esclusivo della massimizzazione della rendita immobiliare con tutto quello che consegue (selezione funzionale e sociale, aumento dei processi di specializzazione e segregazione etc.).

Se le decisioni sul riassetto urbanistico-architettonico delle aree degli scali fossero lasciate agli operatori immobiliari, il piatto è già servito: grandi complessi per lo più sviluppati in altezza (grattacieli per uffici sigillati e torri residenziali di lusso, con boschi verticali o meno, su palafitte o meno) e aree verdi anche in grande quantità ma scarsamente infrastrutturate e poco frequentate e per questo destinate a diventare poco sicure: una ricetta di matrice lecorbuseriana che è tra i modi inventati nella modernità per dire addio alla città. Il verde è importante ma va visto come teatro di relazioni, intessuto di articolazioni, di attività e di presenze che arricchiscano di opportunità l’impiego del tempo libero.

Se non si cambia rotta, lo scenario prossimo venturo è già disegnato: solitudini che si giustappongono a solitudini; estraneità conclamate, quasi urlate, con gli abitanti e i city users orfani del carattere accogliente e ospitale degli interni urbani che ha caratterizzato i momenti migliori della storia della città.

So bene che i media fanno il tifo per quel tipo di scenario e che più di un amministratore pubblico non fa nulla per evitarlo, ritenendo esaurito il proprio compito nell’innescare la trasformazione il prima possibile. Dopotutto, le conseguenze – fratture nel corpo sociale, lacerazioni nel tessuto urbano, accentuazione dei problemi di sicurezza – si faranno sentire sul lungo periodo e nessuno sarà chiamato a risponderne.

Se avesse invece consapevolezza della portata in gioco, chi ha responsabilità di governo della cosa pubblica potrebbe evitare il disastro ponendo precise condizioni perché la trasformazione, oltre che sui principi richiamati all’inizio, sia imperniata sulle infrastrutture della socialità. Come? Puntando essenzialmente su due elementi: la creazione di complessità funzionale e sociale favorendo sinergie e l’instaurarsi negli spazi aperti pubblici di interferenze nei modi d’uso e nelle presenze così da favorire, con la socialità, il naturale presidio dei luoghi urbani; il rinnovarsi di una stretta relazione fra spazi aperti pubblici, spazi collettivi e spazi privati che, architettonicamente interpretata, faccia da principio fondante dei luoghi del convivere: della loro vitalità e della loro bellezza.

Per concludere, a Milano nei prossimi decenni occorre puntare sul “ring degli scali”: un sistema forte e riconoscibile di luoghi a elevata qualità relazionale e di grande bellezza civile, capaci di innervare di linfa vitale interi comparti urbani, periferici e no. Si tratta di un’operazione complessa ma che va introdotta e regolata nell’Accordo di Programma al pari delle altre questioni strategiche da cui molto dipende il futuro della città.

Se la via Alessandrina sarà demolita, il progetto Fori - voluto da Cederna e Petroselli per ridare un altro volto alla città - sarà cancellato.

Stanno demolendo la via Alessandrina. È il colpo di grazia al Progetto Fori, la più straordinaria proposta di rinnovamento dell’urbanistica romana messa a punto fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso. L’essenza del progetto è l’eliminazione della via dei Fori Imperiali, la strada voluta da Benito Mussolini per collegare piazza Venezia al Colosseo e, sul piano retorico, per collegare l’impero romano al nascente impero fascista.

La prima idea di eliminare la strada era stata di Leonardo Benevolo che, in un libro del 1971, aveva suggerito di cancellare tutte le manomissioni operate ai danni del centro storico di Roma dopo l’unità d’Italia. Fu poi l’allora soprintendente archeologico Adriano La Regina che, nel denunciare i danni prodotti dal traffico ai monumenti romani, propose prima di eliminare le auto dalla via dei Fori Imperiali e subito dopo di demolire la stessa strada. La proposta fu raccolta dal sindaco Giulio Carlo Argan, da Antonio Cederna, Italo Insolera e da un grande numero di studiosi e intellettuali non solo italiani.

Ma a imporre il Progetto Fori al centro del dibattito politico, urbanistico e culturale fu Luigi Petroselli, sindaco dal settembre 1979 quando Argan si dimise. L’esordio di Petroselli in materia di archeologia fu lo smantellamento di via della Consolazione che da un secolo separava il Campidoglio dal Foro romano. Subito dopo il comune eliminò il piazzale che separava il Colosseo dall’arco di Costantino e dal resto del complesso Foro-Palatino. Si ricostituì così l’unità Colosseo-Foro Romano-Campidoglio e la continuità dell’antica via Sacra. Ma Petroselli voleva anche che la storia dell’antica Roma non fosse patrimonio solo degli studiosi e dei ceti borghesi ma di tutto il popolo di Roma, anche di quello più sfavorito. Perciò l’elaborazione del progetto fu accompagnata dall’esperienza delle domeniche pedonali di via dei Fori cominciata senza grande clamore nel febbraio del 1981, e continuata nelle domeniche successive, con crescente partecipazione popolare, nello stesso clima festoso dell’Estate romana di Renato Nicolini.

Ma improvvisamente, il 7 ottobre del 1981, solo due anni dopo la sua elezione, Petroselli morì, a quarantanove anni. Con lui cominciò a morire anche il Progetto Fori. Dopo di lui, tutti gli amministratori degli ultimi trent’anni hanno continuato a evocare il Progetto Fori, che non aveva però più niente a che fare con l’idea geniale e originaria di Adriano La Regina, Antonio Cederna e Luigi Petroselli di demolire la strada fascista e ricostituire l’unitarietà dell’area archeologica (Foro Romano e Fori Imperiali), non più intesa come monumento né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come spazio pedonale nel cuore della città moderna.

Non è possibile adesso – in questo momento di emergenza determinato dai lavori di smantellamento della via Alessandrina – riprendere il dibattito sui necessari aggiornamenti all’originario Progetto Fori. Interessa solo ricordare che negli ultimi anni si è realizzata un’ampia convergenza sul fatto che nulla impedisce di mettere mano allo smontaggio della via dei Fori Imperiali, sapendo che per le esigenze transitorie di ordine logistico fra piazza Venezia e largo Corrado Ricci si può utilizzare la via Alessandrina, l’unica strada storica sopravvissuta alla tabula rasa voluta da Benito Mussolini.

Chiediamo pertanto alla sindaca Virginia Raggi e al ministro Dario Franceschini di provvedere immediatamente alla sospensione dei lavori di demolizione della via Alessandrina e al ripristino del precedente stato di fatto.

Alberto Asor Rosa
Piero Bevilacqua
Anna Maria Bianchi
Pier Luigi Cervellati
Filippo Coarelli
Vittorio Emiliani
Vezio De Lucia
Maria Pia Guermandi
Adriano La Regina
Paolo Maddalena
Tomaso Montanari
Rita Paris
Edoardo Salzano
Enzo Scandurra
Walter Tocci
Fausto Zevi

Associazione Bianchi Bandinelli, Comitato per la Bellezza, Emergenza Cultura

«Siamo sicuri che uno dei principali problemi della nostra crisi democratica non sia proprio questa inesorabile distruzione del “pubblico”, e la conseguente, selvaggia privatizzazione di funzioni vitali?» la Repubblica, 6 maggio 2017 (c.m.c)

La cosiddetta “manovrina”, e cioè le disposizioni urgenti in materia finanziaria decise dal governo, che il parlamento dovrà poi convertire in legge, si dice motivata dalla «straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure finanziarie e per il contenimento della spesa pubblica ». La ricetta è quella che conosciamo ormai da quasi trent’anni: la progressiva autoriduzione dello Stato, sia al centro che negli enti locali.

Come è ben noto, non è un processo solo italiano. Luciano Gallino ha scritto che il primo articolo della «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali», in Europa, prescrive che «lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio».

Quali siano, in concreto, i frutti di questa lunga dissoluzione lo constatiamo attraverso le cronache più recenti. E sono frutti che non riguardano le nostre economie, ma le nostre democrazie: le Ong (indegnamente bersagliate dagli imprenditori della paura) ci stanno ricordando con forza e fermezza che si trovano in mare a fare il lavoro che dovrebbero fare gli Stati. E in Italia, da una parte priviamo di mezzi le forze dell’ordine, dall’altra armiamo le mani dei cittadini, spingendoli di fatto a difendersi da soli.

Ebbene, siamo sicuri che uno dei principali problemi della nostra crisi democratica non sia proprio questa inesorabile distruzione del “pubblico”, e la conseguente, selvaggia privatizzazione di funzioni vitali?
La domanda diventa stringente quando si leggono le voci della spesa ministeriale che risultano ridotte nelle tabelle accluse alla suddetta manovra del governo Gentiloni. Accanto ai tagli a fronti strategici come le «politiche per il lavoro» o l’«amministrazione penitenziaria», spiccano riduzioni che assomigliano a suicidi: per esempio i 5.996.000 euro tolti al diritto allo studio universitario in un Paese che è penultimo in Europa per numero dei laureati. O i 5.799.000 euro tolti alla «ricerca scientifica e tecnologica applicata e di base».
Lasciano di stucco anche i tagli al ministero per l’Ambiente. Davvero possiamo permetterci di sottrarre anche solo 2.762.000 euro ai pochissimi destinati alla «tutela del territorio»? Proprio là dove dovremmo avere la forza di innescare una grande impresa neokeynesiana che finanzi l’unica opera utile, e cioè la rimessa in sesto del territorio, siamo invece ridotti a sottrarre alla nostra stessa sicurezza qualche spicciolo.

E poi c’è la cultura, tradizionale vittima sacrificale. L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli ha spiegato in un suo libro assai istruttivo ( La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica e su come si può tagliare, 2015) perché «spendiamo troppo in quasi tutti i settori tranne cultura e istruzione». Evidentemente il governo Gentiloni non è d’accordo, e taglia 5,455 milioni alla voce «tutela del patrimonio culturale » (già allo stremo). E non basta: ci si accanisce togliendo 220.000 euro (!) alla tutela archeologica, 599.000 alla tutela e valorizzazione dei beni archivistici, 992.000 alle martoriate biblioteche, 552.000 alla tutela delle belle arti e tutela e valorizzazione del paesaggio. Il ministro Padoan ha dichiarato che non si tratta di tagli lineari, ma selettivi.

Il che pare in effetti innegabile, visto che lo stesso decreto stabilisce (all’art. 22, comma 6) che i supermusei, i cui direttori e consigli scientifici sono stati scelti e nominati direttamente dalla politica, possono «avvalersi, in deroga ai limiti finanziari previsti dalla legislazione vigente, di competenze o servizi professionali nella gestione di beni culturali». In altre parole, mentre la tutela del territorio viene tagliata (così da dare il colpo di grazia alle morenti soprintendenze), si incrementa invece la discutibile attività promozionale di questi musei, dove ormai non si produce più conoscenza, ma si fa solo marketing.

Quando Barack Obama si rifiutò di tagliare la spesa per la ricerca e l’istruzione, spiegò che non si poteva sperare di far ridecollare un aereo buttandone fuori bordo il motore. Il punto è che forse noi non abbiamo ben chiaro quale sia, il nostro motore.

Una riflessione critica sul modello negoziale milanese relativo ai grandi progetti di trasformazione urbana: un modello condizionato dal capitalismo finanziario immobiliare. Sintetica analisi comparativa sull’esperienza francese dove è la regia pubblica che detta le condizioni al privato


Come ha efficacemente sottolineato Giancarlo Consonni in un articolo pubblicato su la Repubblica del 13 aprile scorso dal titolo Tutti i rischi di eventopoli:la Milano da bere, il capoluogo lombardo sta subendo un bombardamento di messaggi trionfalistici sulle sue magnifiche sorti che meriterebbe una quotidiana azione di disvelamento. Fra i cittadini attenti sono comunque in molti a non cadere nella trappola mediatica, anche se il messaggio ridondante che arriva, anche dai quotidiani di diffusione nazionale e dalla televisione, continua a prediligere un racconto incantatore.

Quali sono gli attori che supportano questa narrazione effimera, accattivante e per molti aspetti lontana dalla realtà? Quale strategia è sottesa all’enfasi, davvero stucchevole, sul rango europeo o addirittura mondiale del capoluogo lombardo (un déjà vu inquietante rispetto alla “Milano da bere” degli anni ’80 che tutti sappiamo come si è conclusa)? In ultima istanza: chi comanda (o meglio, continua a comandare) a Milano grazie anche al supporto di questo stile argomentativo? Chi sono i suoi principali, e spesso entusiasti, supporter?

Chi comanda a Milano senza discontinuità l’abbiamo già capito da molto tempo: la finanza immobiliare. È attorno a questo indomabile impero che ruota il sistema decisionale milanese. E sono numerosi i complici, ben identificabili e davvero censurabili. Fra questi, spiccano alcuni attori che, in teoria, dovrebbero avere a cuore il bene comune della città (e di tutti i suoi cittadini).

Il primo, e principale, è rappresentato dall’amministrazione municipale. È dagli anni ‘90 che, malgrado il mutare delle maggioranze, il governo locale condivide, e facilita, una trasformazione della città che asseconda gli obiettivi e le strategie dei grandi gruppi privati e del settore finanziario/immobiliare. Questa strategia è contrabbandata, e questo appare davvero inaccettabile, per ‘rigenerazione urbana’ con un promesso benefico effetto sui consumi di suolo, ampiamente contraddetto in realtà dalle dinamiche attuali e prevedibili nell’hinterland.

Le cose non sono cambiate con i governi di ‘sinistra’. Lo ha immediatamente dimostrato, nella disillusione di molti suoi elettori, la giunta Pisapia approvando in gran fretta nel 2012 un Piano di Governo del Territorio affollato di interminabili chiacchiere retoriche, già compilate da Masseroli/Moratti - nel loro PGT adottato ma non approvato -, e attuato attraverso regole iperflessibili (ricordiamo, in particolare, il principio di ‘indifferenza funzionale’ e il modello della ‘perequazione estesa’’) che hanno rappresentato un vero e proprio regalo alla speculazione immobiliare.

Lo sta dimostrando la giunta attuale. Giuseppe Sala, un personaggio apparentemente gioviale e talora anticonformista(1) sta assecondando, con il suo profilo basso, tutti i progetti di trasformazione attualmente proposti dai privati. Chi invece si espone in prima linea è il suo assessore all’urbanistica, Pierfrancesco Maran il quale, anziché adoperarsi, forte delle deleghe che gli sono state affidate, per arginare le mire speculative degli attori privati, sta di fatto ripercorrendo un modello di mero marketing urbano, ormai più che obsoleto e abbandonato da decenni nelle grandi città europee: un modello attento solo alla immagine esterna della città, agli annunci pubblicitari, alla continua evocazione dei grandi progetti in cantiere - qualsiasi ne sia il contenuto -, a una modalità di comunicazione sui media enfatica e ridondante, alla sponsorizzazione di manifestazioni culturali effimere ma di garantito successo mediatico.

Continua comunque a mancare, dopo decenni di deregolazione urbanistica, una valutazione degli effetti a scala municipale – e a scala metropolitana – dei grandi progetti già realizzati; e, a maggior ragione, di quelli prevedibili con la realizzazione dell’accozzaglia di progetti di rigenerazione urbana oggi in discussione. Manca insomma totalmente, in attesa che partano i lavori per il nuovo PGT, una valutazione complessiva degli effetti prodotti sul territorio milanese (e metropolitano) dal PGT approvato dalla giunta Pisapia, da misurare, come si fa nelle migliori pratiche internazionali, attraverso indicatori di prestazione di efficacia, sostenibilità, equità, vivibilità e, oggi più che mai, accoglienza.

Considero dunque le attuali iniziative urbanistiche del Comune di Milano più che desuete, perché improntate a un modello di marketing urbano che ha goduto di un transeunte fascino nelle città europee soltanto negli ormai lontani anni ’80.

Come giudicare altrimenti il questionario enfaticamente somministrato ai cittadini sul sito dell’Assessorato all’Urbanistica e contrabbandato come iniziativa partecipativa preliminare all’elaborazione del nuovo PGT (2)? Il questionario (3) appare incomprensibile ai più per il linguaggio che utilizza - anche se familiare a chi ha insegnato al Politecnico…. Il suo obiettivo è meramente retorico, sia per i quesiti complessi somministrati all’incauto cittadino volonteroso, sia perché si configura come un episodio una tantum che non prelude all’avvio di procedure formalizzate e continue di ascolto.

Sarebbe stato molto più utile per coinvolgere i cittadini presentare una disamina attenta dei risultati ottenuti con il ‘vecchio’ PGT, evidenziandone successi e limiti, e individuando possibili alternative qualitative e scenariali per il nuovo PGT, sulle quali invitare i cittadini ad esprimere le loro valutazioni e le loro priorità.

E ancora: come giustificare l’artificio di aver sbandierato come un grande evento partecipativo la presenza di migliaia di visitatori alla mostra dei progetti per gli scali ferroviari? L’evento, intitolato con la consueta enfasi “Gli scenari per immaginare il futuro della città”, ha in realtà presentato i progetti per il riuso degli scali elaborati da cinque affermati studi di architettura (su incarico non del Comune ma di FS Sistemi Urbani).

Sulla scelta ampiamente discutibile della giunta Pisapia di porre ai voti un Accordo di Programma per gli scali ferroviari quando era ormai in scadenza di mandato – un accordo clamorosamente bocciato dal consiglio comunale nel dicembre 2015 - è stato già scritto molto, soprattutto su Arcipelago Milano (e i contributi più interessanti sono stati pubblicati su eddyburg).

Si concedevano a FS Sistemi Urbani indici volumetrici elevatissimi e spalmabili indiscriminatamente su aree che rappresentano l’ultima occasione per realizzare progetti di vera mixité: progetti di intensificazione e non di mera densificazione. Stupisce però che la esposizione dei progetti, con i loro rendering mistificatorî, sia stata ampiamente pubblicizzata sul sito del Comune, anche incorrendo in un imbarazzante ‘lapsus freudiano’(4).

Tutto ciò dà l’impressione di una decisione ormai presa, di un accordo lieto fra l’amministrazione e una azienda pubblica che agisce da privato, nel quale il ruolo di regolatore e di decisore ultimo, che dovrebbe essere in capo al governo locale, si è, come ormai da decenni avviene, completamente affievolito. Ancora più inquietante è il sospetto che, nella più totale mancanza di trasparenza e di procedure di evidenza pubblica, ai cinque studi di architettura incaricati da FS Sistemi Urbani per suggerire visioni progettuali per il complesso degli scali sia già stata garantita la progettazione di singoli scali, come si scopre da un articolo pubblicato dal Journal of the American Institute of Architects che dà per scontato l’incarico a MAD Architects per la progettazione esecutiva dello scalo di Porta Genova (5).

Ma vi è un secondo attore sul cui comportamento vorrei avanzare una perentoria riflessione critica, perché pare a me sommamente censurabile il ruolo che, da qualche anno a questa parte, sta giocando sul tavolo delle decisioni che contano nella trasformazione di Milano: il sistema universitario milanese. Ne sono protagonisti soprattutto alcuni atenei e, in particolare, alcuni accademici in posizione apicale. È una pratica, quella del coinvolgimento degli atenei milanesi, che non esito a definire, in taluni casi, come ‘collusiva’, sottolineando al proposito che agli accademici spetterebbe il compito precipuo di elaborare il pensiero critico più avanzato sulla società e sulla città e, soprattutto, spetterebbe loro il compito eminente di ‘guardiano culturale dei beni comuni’.

Invece, a Milano non vi è strumento urbanistico, progetto di rigenerazione, ma anche occasione speculativa promossa dal capitalismo finanziario/immobiliare (6)che, soprattutto negli anni recenti (quelli della ‘sinistra al governo’), non siano stati legittimati anche ricorrendo a esimi consulenti del Politecnico di Milano; in particolare, al suo ex rettore (Giovanni Azzone) e relativo prorettore (Alessandro Balducci), e a docenti appartenenti all’area urbanistica /progettuale: dal supporto tecnico-scientifico al PGT adottato dalla giunta Pisapia (un piano fotocopia di quello approvato dalla Giunta Moratti), al coinvolgimento diretto nel progetto per il riuso dell’area exEXPO, alla presidenza della società titolare dell’area(7), al progetto per ridefinire il futuro di Città Studi, colpita dalla decisione, dissennata e comprensibile solo in termini immobiliari, di trasloco della facoltà scientifiche della Università Statale.

In questo caso è intervenuto il rettore della Statale Gianluca Vago intenzionato a deportare tutte le facoltà scientifiche di Città Studi nelle aree exEXPO, grazie anche al sostegno dei contributi finanziari erogati dal governo centrale (8). Anche se la decisione sembra ormai presa, il progetto sta incontrando, a differenza degli scali ferroviari che sono costituiti da siti prevalentemente in abbandono, l’opposizione dei residenti e degli studenti di Città Studi; un movimento nato dal basso che ha già dato luogo a un comitato preparato, agguerrito e in rapida crescita: il Comitato “Salviamo Città Studi”).

Il terzo soggetto, sempre più influente nella capitale della moda e del design, è ovviamente rappresentato dalle archistar, abilissime nel catturare il supporto osannante e martellante dei media. Quante volte abbiamo letto e visto, sui quotidiani più diffusi e in televisione, le meraviglie del Bosco Verticale dello studio Boeri e associati? Dal 12 al 17 giugno prossimi, è in programma a Milano la “Prima settimana dell’architettura”: una manifestazione ‘diffusa’ - come è d’obbligo oggi dichiarare, in ossequio al principio, più evocato che agìto, del rilancio delle periferie - guidata da Stefano Boeri, il quale ha dichiarato al Sole 24Ore: «C’è stato un cambiamento spettacolare della città – Prada, Feltrinelli, City Life (sic!), Porta Nuova (sic!) – ed è avvenuto con qualità elevate e in un periodo molto breve»(9).

E gli ‘urbanisti’? Salvo rare e qualificate eccezioni, sembrano una ‘specie in estinzione’, sempre al seguito del potere, e persino un po’ patetica nel rimpiangere, nel caso rarissimo in cui ciò rischi di verificarsi, le occasioni perdute: per la finanza immobiliare naturalmente(10).

Ciò che conta, insomma, per tutti gli attori sinteticamente evocati qui sopra, non è interrogarsi davvero sul futuro della metropoli lombarda, ma assecondare, sempre e comunque, decisioni prese altrove: nelle segrete stanze di chi decide della città col mero scopo di incrementare rendite e profitti privati.

Che cosa hanno guadagnato e possono guadagnare la città e la cittadinanza da tutte queste violente trasformazioni, al di là di uno skyline più ‘moderno’? Come si comportano in altri paesi più attenti ai beni collettivi? Può forse essere utile rammentare a tutti noi urbanisti, e soprattutto a chi decide del destino della città (perché di questo si tratta, considerando la rilevanza dei progetti di trasformazione in discussione), come si articola il processo decisionale relativo ai progetti negoziati di trasformazione urbana in Francia: un processo normato da leggi nazionali e periodicamente aggiornato sulla base delle trasformazioni economiche e politiche e di un costante affinamento critico.

Concluderò quindi questa mia riflessione con un cenno, sia pure sintetico e schematico, alle procedure, rigidamente strutturate, adottate in quel paese, per la realizzazione dei progetti di trasformazione urbana qualora si realizzino in deroga agli strumenti urbanistici vigenti e attraverso il partenariato pubblico/privato: attraverso le Zones d’Aménagement Concerté (ZAC).

Cosa è una ZAC. La procedura di Zac si applica a 3 categorie di interventi: viabilità primaria e secondaria; servizi pubblici di rilevanza locale e sopralocale; interventi del privato da immettere sul mercato (abitazioni, terziario,…); ma si prevede sempre anche una quota rilevante di HLM (abitazioni in affitto per gruppi a basso reddito).

I plusvalori fondiari e immobiliari devono essere ripartiti equamente fra pubblico e privato; mentre i costi delle infrastrutture e dei servizi pubblici sono completamente a carico del privato.

I vantaggi pubblici ottenuti con la procedura di ZAC, rispetto a quelli ricavati dalla fiscalità urbanistica ordinaria, sono elevati perché garantisce un recupero molto più significativo dei costi relativi alla realizzazione di servizi e infrastrutture grazie agli accordi su misura realizzati da un attore pubblico in posizione di forza (nella SEM, la società di economia mista che presiede a ogni ZAC, la partecipazione pubblica - fra il 51% e l’85% del capitale - garantisce che in seno al consiglio di amministrazione, di cui fanno parte anche gli amministratori locali, vi sia uno stretto controllo della corrispondenza del progetto agli interessi della collettività).

L’evoluzione della ZAC. Nel corso del tempo, la procedura della ZAC è più volte stata riformata in coerenza con le riforme urbanistiche nazionali.

1967: le ZAC vengono istituite con la «Loi d'orientation foncière» del 30 dicembre1967 (strumenti cardine della pianificazione urbanistica sono il POS - il nostro PRG- e lo SDAU - Schema direttore intercomunale). Le ZAC devono essere inquadrate dallo SDAU : devono cioè essere compatibili con le strategie indicate dal piano di area vasta.

1982/83: si approva la legge sul decentramento che conferisce ampia autonomia decisionale ai comuni anche in materia urbanistica. Lo SDAU diventa opzionale e, come conseguenza, le ZAC vengono ‘municipalizzate’. I Comuni ne faranno un uso disinvolto: grande fortuna dei progetti in deroga - più del 50% dei progetti realizzati negli anni ‘80 nelle maggiori agglomerazioni urbane; proliferazione eccessiva di ZAC di piccola dimensione promosse dalle amministrazioni locali che interpretano il decentramento in chiave deregolativa; spreco di risorse pubbliche dedicate al marketing territoriale, specialmente nei comuni di corona metropolitana afflitti dalla deindustrializzazione.

2000: con la riforma della legge urbanistica approvata dal governo Jospin (Solidarité et Renouvellement Urbain/ SRU del 13 dicembre 2000), vengono corrette alcune distorsioni verificatesi negli anni ’80/’90. La procedura di ZAC torna a essere subordinata a un quadro di coerenza territoriale complessivo predisposto dal piano direttore intercomunale (SCOT: Schéma de la Cohérence Territoriale), riformato in termini più cogenti rispetto allo SDAU; e agli obiettivi di fondo del riformato piano urbanistico comunale (PLU/Plan Locale d’Urbanisme).

La procedura di ZAC oggi. La realizzazione di una ZAC prevede due passaggi obbligatori attraverso i quali devono emergere con chiarezza e trasparenza i vantaggi pubblici offerti dal progetto: dossier de création; dossier de réalisation; inoltre, è fatto obbligo di realizzare in primo luogo i servizi e le infrastrutture pubbliche; successivamente si può procedere al completamento del progetto; la ZAC, una volta approvata, viene incorporata nel piano urbanistico comunale: il progetto, il suo mix funzionale non saranno più modificabili.

Dossier de Création. La legge SRU ha soppresso il PAZ (Plan d’aménagement de zone) sostituendolo con il PADD: Projet d’aménagement et de développement durable. Nel PADD il dossier de création deve essere costituito da: una relazione di presentazione del progetto; una valutazione di impatto ambientale corredata da una sintesi accessibile al più ampio pubblico; un piano particolareggiato con la precisa delimitazione dell’area; il modello finanziario e di attribuzione di competenze per la realizzazione delle opere; il regime fiscale prescelto (Taxe Locale d'Equipement – i nostri oneri di urbanizzazione - o regime di partecipazione negoziata: quasi sempre preferito); il cronoprogramma dei lavori. E’ inoltre obbligatorio attivare procedure di coinvolgimento pubblico (abitanti, associazioni, interessi organizzati). Quanto al perimetro: una ZAC può costituirsi in qualsiasi porzione del tessuto consolidato di un comune, se dotato di un POS o un PLU. Il dossier de création è approvato dall’organo deliberante dell’ente pubblico che ha preso l’iniziativa del progetto.

Dopo il dossier de création, si passa alla fase realizzativa. E’ necessaria la acquisizione al pubblico dei terreni, dato che il progetto richiede una ricomposizione delle parcelle e la realizzazione in primis di servizi e infrastrutture. L’«acte de création» ha dunque affetti sul regime fondiario, anche in assenza di un diritto di prelazione. I proprietari di suoli nelle aree sottoposte alla ZAC beneficiano di un «droit de délaissement» per la cessione delle loro proprietà (entro 1 anno). Se non si perviene a un accordo di cessione amichevole con la proprietà, si può ricorrere all’esproprio.

Dossier de réalisation. Definisce le condizioni economiche, tecniche e finanziarie necessarie per la progettazione e l’infrastrutturazione della ZAC. Approvato dall’organo deliberante della collettività locale, o dal Prefetto, deve essere sottoposto a procedure di evidenza pubblica, così come il dossier de création. Con la SRU, il dossier de réalisation ha assunto un peso rilevante. Deve infatti includere: il progetto dettagliato dei servizi pubblici da realizzare; il programma complessivo delle nuove costruzioni; la previsione delle modalità di finanziamento. Queste ultime sono indicative, devono essere spalmate nel tempo, devono essere basate su una realistica ipotesi previsionale di entrate e spese.
Le spese di acquisizione e aménagement dei terreni devono in linea di principio essere compensate dalle entrate ottenute dalla vendita dei lotti costruiti. Si devono evidenziare gli impegni rispettivi degli operatori privati e quelli a carico della amministrazione locale, oltre che i rischi eventuali per quest’ultima. Quanto alle modalità di realizzazione di una ZAC, l’amministrazione locale può realizzare direttamente il progetto, assumendosene i rischi finanziari; oppure ricorrere alla Concession d’Aménagement, che è il modello preferito: chi realizza possono essere delle agenzie pubbliche, delle strutture ibride come le SEM o delle imprese private

In estrema sintesi, tutti i grandi progetti di rigenerazione urbana sono in Francia affidati a una salda e inaggirabile (incontournable) regia pubblica e a processi di coinvolgimento civico strutturati e continui. Niente dunque hanno a che vedere con le effimere, pubblicitarie e opache iniziative milanesi che vengono promosse per legittimare (e velocizzare) le decisioni in merito ai progetti di trasformazione/rigenerazione urbana.

Forse gli amministratori pubblici di ‘eventopoli’, della sedicente ‘metropoli globale milanese’, dovrebbero guardarsi un po’ attorno, anziché continuare ad assecondare, con il supporto dei loro corifei, la privatizzazione delle politiche urbanistiche e, quindi, della città.

note

1) E’ del 21 aprile il suo sostegno alla manifestazione in favore del consumo libero di marjuana!
2) Si veda a questo proposito la critica ironica e puntuale di Marianella Sclavi, “Piano di Governo del Territorio: casalinga di Voghera dove sei? L’apprendista stregone nel castello dei questionari”, arcipelagomilano.org, 4 aprile 2017.
3) Il questionario è stato pubblicato sul sito del Comune di Milano il 27 marzo; termine ultimo per le risposte il 14 aprile!
4) Una gaffe dell’ufficio stampa del Comune di Milano, il quale il 3 aprile pubblica un post in cui si scrive che è l’amministrazione ad “aver selezionato” i cinque studi di architettura che stanno propinando ai milanesi le visioni progettuali per gli scali ferroviari. Subito dopo, alla domanda di un lettore attento (“ma i progetti non sono stati elaborati per un committente esterno, vale a dire la FS Sistemi Urbani?”), l’ufficio stampa censura la frase incauta, con tante scuse!
5)“MAD architects will construct Scalo Porta Genova for events, performances, and markets to encourage social interaction”. Si veda Carodine V. (2017), “Scali Milano, MAD Architects”, Architects, Journal of the American Institute of Architects, 12 aprile.
6) Perché di questo oggettivamente si tratta: anche quando sono gli attori pubblici i proprietari delle aree, è la logica speculativa che prevale – esempio paradigmatico l’uso e il riuso delle aree dedicate all’EXPO.
7) Arexpo s.p.a. è partecipata da Fondazione Fiera Milano con una quota del 27,66%, Comune di Milano e Regione Lombardia, che detengono ciascuno il 34,67%. Quote minori sono possedute dalla Città Metropolitana di Milano (2%) e dal Comune di Rho (1%).
8) Vago gode inoltre del pieno sostegno del governo regionale; infatti, ha nominato nell’aprile 2016 come direttore amministrativo dell’Università Statale, Walter Bergamaschi, già direttore generale dell’assessorato alla Sanità.
9) Luca De Biase, “La città del futuro possibile”, Il Sole24Ore, 16 aprile 2017.
10) Si veda al proposito la riflessione preoccupata e volutamente banale di Federico Oliva su arcipelagomilano.org del 20 settembre 2016 dal titolo “Scali ferroviari: il meglio è nemico del bene. Non buttare via il lavoro fatto”. Si tratta di una riflessione critica in merito all’intenzione espressa dalla giunta Sala appena insediata di rivedere l’ADP sugli scali ferroviari bocciato dal consiglio comunale precedente, che termina con questa frase a dir poco di ovvia saggezza e sconfinata furbizia: “Concludendo, non vorrei che alla fine di un lungo e faticoso percorso, il presunto meglio (tutto ancora da definire) fosse nemico del bene, come spesso accade nelle vicende urbanistiche nostrane”.





















il Sole24ore, 4 maggio 2017 (p.s.)

Il ddl Concorrenza approvato ieri dal Senato della Repubblica con il voto favorevole dell'aula (158 favorevoli contro 110 contrari) sulla questione di fiducia posta sul maxi-emendamento presentato dal Governo ha introdotto con gli articoli 176 e 177 la modifica all'articolo 68 del Codice dei Beni culturali (Codice Urbani 2004) sulla circolazione internazionale delle opere d'arte.

L'articolato ai commi 176 e 177 recepisce l'emendamento Marcucci 3, che modifica la temporalità del vincolo cioè della dichiarazione di interesse culturale da parte del Ministero dei Beni culturali, attraverso il Direttore Regionale e la Sovrintendenza. Per favorire la circolazione dell'arte contemporanea, la soglia temporale per il vincolo delle opere in possesso di privati, infatti, viene spostata da 50 a 70 anni dalla data della creazione dell'opera in caso di artista defunto (nelle norme Ue sono 100 anni e la Germania ha appena introdotto i 70 anni), pur garantendo la possibilità al Ministero di vincolare anche le opere di oltre 50 anni e di autore non più vivente, se d'interesse culturale eccezionale per il patrimonio italiano. Infatti in caso di autocertificazione finalizzata all'esportazione di un'opera, il competente Ufficio Esportazione può dichiarare l'interesse culturale nel termine perentorio di 60 giorni dalla presentazione della dichiarazione.

Il valore dell’arte. La riforma introduce le soglie di valore, pari a 13.500 euro, anche in Italia come in Europa al di sotto delle quali i beni culturali e anche le opere con più di 70 anni e di autore non più vivente potranno uscire dall'Italia liberamente, sulla base di una autocertificazione: questo significa che gli uffici esportazione e i collegati uffici delle soprintendenze dovranno sapere valutare la congruità del valore delle opere dichiarato in uscita dal nostro paese.

Sebbene i promotori abbiano insistito per l'adeguamento alle soglie già previste dal Regolamento (CE) n. 116/2009, il Ministero, cautamente, ha propeso per l'introduzione di una soglia unica per le diverse categorie di beni culturali di € 13.500, di molto inferiore alle soglie previste dal Regolamento (CE) n. 116/2009. Infatti la soglia dei 13.500 euro rappresenta il valore più basso in Europa: in Francia per i dipinti è di 150mila euro, 180mila sterline nel Regno Unito e 300mila euro in Germania, naturalmente dall'applicazione della soglia restano esclusi reperti archeologici, archivi, incunaboli e manoscritti.

I criteri. La riforma assegna al Mibact entro 60 giorni dall'entrata in vigore del ddl la revisione con decreto dei criteri previsti dalla Circolare del 1974 per le esportazioni ed estensione degli stessi criteri per le dichiarazioni di interesse culturale (c.d. notifica); e introduce un “passaporto” per le opere su modello francese, di durata quinquennale, per agevolare l'uscita e il rientro delle stesse nel e dal territorio nazionale.
«La norma favorisce la circolazione all'estero delle opere non vincolate nel pieno rispetto della tutela del nostro patrimonio e introduce misure come il passaporto e il registro informatico» aveva scritto giorni fa il ministro della cultura Dario Franceschini. «La nuova disciplina lascia inalterato il sistema di tutela del patrimonio culturale di proprietà privata che continuerà a richiedere, per poter vincolare un'opera, la sussistenza di un interesse culturale particolarmente importante e la piena autonomia tecnico scientifica dell'amministrazione nel riconoscerlo».

I promotori. La proposta di riforma sulla disciplina della circolazione dei beni culturali promossa dal Progetto Apollo è stata approvata l’8 giugno 2016 dalla Commissione Industria del Senato e inserita nell'emendamento n. 52.0.46, testo 3, a firma di Marcucci, Scalia, Fabbri, Lanzillotta, Valentini, (c.d. emendamento “Marcucci-ter”) al disegno di legge n. 2085/2016 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), discusso e approvato ieri in aula al Senato.

Il testo dell'emendamento è il risultato di un lungo confronto (e mediazione) tra i promotori del Progetto Apollo e numerosi esponenti delle principali forze politiche, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT).

Le critiche. Ma non tutti son d'accordo sul nuovo articolato: durante la discussione in aula ci sono stati interventi critici sulla riforma della circolazione dei beni culturali da parte dei senatori Michela Montevecchi (M5S), Miguel Gotor (MDP, i “fuoriusciti dal PD”) e Walter Tocci (PD).
«Gravi profili di criticità, favoriscono i mercanti d'arte e le case d'asta, ma diminuiscono le tutele e le protezioni dei beni culturali di origine privata che sono ridotti al loro solo valore di mercato» ha dichiarato in una nota Miguel Gotor (Mdp), auspicando che la Camera «possa correggere e migliorare quanto deliberato dal Senato sotto il vincolo della fiducia».

Critico anche il Movimento 5 Stelle che scrive sul sito: «Il PD ha usato il ddl Concorrenza per indebolire i vincoli che sino ad oggi hanno permesso di tutelare le nostre opere d'arte, in particolare quelle del Novecento, e di non svenderle all'estero». Anche Italia Nostra il mese scorso aveva lanciato un appello « per non svendere la cultura italiana».

Resta ora l'ultima lettura, di mera ratifica, da parte della Camera dei Deputati, che ha già inserito il ddl nel calendario di massima dell'aula a partire dal 29 maggio prossimo.

Demolire la via Alessandrina, l’unica strada storica sopravvissuta alla tabula rasa mussoliniana capace di risolvere i problemi di traffico in alternativa alla via dei Fori imperiali, impedisce di smontare quest'ultima e perciò di realizzare il progetto Fori.

Stanno demolendo la via Alessandrina. È il colpo di grazia al Progetto Fori, la più straordinaria proposta di rinnovamento dell’urbanistica romana messa a punto fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso. Il progetto consiste, in primo luogo, nell’eliminazione della via dei Fori Imperiali, la strada voluta da Benito Mussolini, “dritta come la spada di un legionario”, per collegare piazza Venezia al Colosseo e, sul piano retorico, per collegare l’impero romano al nascente impero fascista.

La prima idea di eliminare la strada era stata di Leonardo Benevolo che, in un libro del 1971, aveva suggerito di cancellare tutte le manomissioni operate ai danni del centro storico di Roma dopo l’unità d’Italia. Fu poi l’allora soprintendente archeologico Adriano La Regina che, nel denunciare i danni prodotti dal traffico ai monumenti romani, propose prima di eliminare le auto dalla via dei Fori Imperiali e subito dopo di demolire la stessa strada. La proposta fu raccolta dal sindaco Giulio Carlo Argan, da Antonio Cederna, Italo Insolera e da un grande numero di studiosi e intellettuali non solo italiani.

Ma a imporre il Progetto Fori al centro del dibattito politico, urbanistico e culturale fu l’elezione a sindaco nel settembre 1979 di Luigi Petroselli, quando Argan si dimise. L’esordio di Petroselli sui problemi dell’archeologia fu lo smantellamento di via della Consolazione che da un secolo separava il Campidoglio dal Foro romano. Subito dopo il Comune eliminò il piazzale che separava il Colosseo dall’arco di Costantino e dal resto del complesso Foro-Palatino. Si ricostituì così l’unità Colosseo-Foro Romano-Campidoglio e la continuità dell’antica via Sacra. L’azione di Petroselli era collocata in uno spazio politico-concettuale più ampio di quello urbanistico e cioè di accorciare le distanze fra il mondo marginale delle periferie e la città riconosciuta come tale, e perciò voleva che anche la storia dell’antica Roma non fosse patrimonio solo degli studiosi e dei ceti borghesi ma di tutto il popolo di Roma, anche quello più sfavorito. Perciò l’elaborazione del progetto fu accompagnata dall’esperienza delle domeniche pedonali di via dei Fori cominciata senza grande clamore nel febbraio del 1981, e continuata nelle domeniche successive, con crescente partecipazione popolare, nello stesso clima festoso dell’Estate romana.

Ma improvvisamente, il 7 ottobre del 1981, solo due anni dopo la sua elezione, Petroselli morì, a quarantanove anni. Con lui cominciarono a morire il Progetto Fori e l’immaginazione al potere. Con la scomparsa del sindaco, veli sottili di opportunismo e di circospezione avvolsero lentamente il progetto, i tempi si prolungarono all’infinito. Il parco archeologico centrale a mano a mano ha perso senso. In verità tutti gli amministratori degli ultimi trent’anni hanno continuato a evocare il Progetto Fori, che non aveva però più niente a che fare con l’idea geniale e originaria di Adriano La Regina, Antonio Cederna e Luigi Petroselli di demolire la strada fascista e ricostituire l’unitarietà dell’area archeologica (Foro Romano e Fori Imperiali), non più intesa come monumento né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come spazio pedonale nel cuore della città moderna.

Non è possibile adesso – in questo momento di emergenza determinato dallo smantellamento della via Alessandrina, mentre è in corso una mobilitazione di intellettuali – riprendere il dibattito sui necessari aggiornamenti all’originario Progetto Fori. Interessa solo ricordare che negli ultimi anni si è realizzata un’ampia convergenza sul fatto che nulla impedisce di mettere mano allo smontaggio della via dei Fori Imperiali, sapendo che per le esigenze transitorie di ordine logistico fra piazza Venezia e largo Corrado Ricci si può utilizzare la via Alessandrina, la via Alessandrina, l’unica strada storica sopravvissuta alla tabula rasa voluta da Benito Mussolini. Che oggi la sindaca Raggi e il ministro Franceschini stanno cancellando. Definitivamente cancellando il Progetto Fori e la più bella idea per l’urbanistica di Roma da quando è capitale d’Italia.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto


Un marziano si domanderebbe: che nesso logico ci può mai essere tra la sopravvivenza di un giornale in crisi, una speculazione immobiliare, una religione molto praticata, il capo di un partito politico e il sindaco di una città? Mboh, strani questi terricoli. il Fatto quotidiano online, 28 aprile 2017

La moschea di Firenze non s’ha da fare. O almeno non nell’ex caserma Gonzaga, la stessa a cui è interessato il gruppo Pessina, editore dell’Unità, il giornale del Pd. A deciderlo, però, non è stato il sindaco di Firenze Dario Nardella, cui formalmente spetta amministrare il Comune ma – a stare alle dichiarazioni – l’ex inquilino di Palazzo Vecchio, Matteo Renzi. A inizio aprile, infatti, Nardella comunica che una parte della struttura verrà concessa come moschea temporanea, dando a 30 mila musulmani un luogo di preghiera per il ramadan (26 maggio-24 giugno). Un modo “per evitare di avere centri abusivi in città” e, nelle intenzioni del sindaco, per poi destinare lo spazio a una moschea stabile. Passano pochi giorni e interviene Renzi: “Tecnicamente e giuridicamente non si può fare lì. Forse non è stato neppure Nardella a pensare quella soluzione. La partita è chiusa”. Nardella ne prende atto, spiega che la sua era solo “una proposta, un’ipotesi, non una decisione già presa” finendo preso in giro dalle opposizioni in Comune.

Il vincolo “giuridico” di cui parla l’ex premier è presto spiegato. L’ex Caserma è passata dal demanio al Comune, che si è impegnato a valorizzarla. A inizio 2015 arriva un bando per destinare parte dell’area di 53 mila metri quadri ad housing sociale. Si presentano Investire Immobiliare, società del gruppo Nattino e la Pessina Costruzioni, dell’omonimo gruppo da 400 milioni di fatturato: progetti che mettono insieme una parte a edilizia residenziale per le fasce deboli e un’altra a servizi e commerciale.

Ieri l’ad di Pessina, Guido Stefanelli (che guida anche l’Unità) ha confermato al Corriere fiorentino che la società è ancora interessata: “Mi auguro proprio che la Moschea non la facciano lì”. Nello stesso periodo del bando la Pessina si aggiudicava (maggio 2015) l’appalto per la costruzione dell’ospedale di La Spezia e trattava l’acquisto de l’Unità, oggi in forte perdita. Nei giorni scorsi un’inchiesta di Report ha sollevato dubbi che l’investimento nel giornale sia valso come tornaconto, grazie al rapporto con l’ex premier, per appalti e affari. La società ha smentito e annunciato querela.

A Bologna la rigenerazione si fa congli sgomberi: la minacciata chiusura di XM24, spazio sociale autogestito è l'episodio centrale della ristrutturazione fisica e sociale della Bolognina: un quadrante della città che continua a far gola alla speculazione. In calce il link all'appello.

Mentre negli uffici regionali si confeziona il quadronormativo che la legittima e promuove, la “rigenerazione” si propone nelle vestidi gentrification e displacement alla Bolognina, unquartiere di Bologna già noto per altre rinunce identitarie della sinistra. Un’area(la “città della ferrovia” nel Piano Strutturale Comunale del 2008) che,seppure con molto fumo progettuale, errori reiterati e sinora palese insuccesso,è stata scelta come campo esemplare di applicazione del nuovo ciclo delneoliberismo immobiliare che si autodefinisce “rigenerazione” e passaattraverso la riconquista di luoghi centrali da parte della rendita fondiaria,dopo gli anni di esilio a mangiar campagne. Manovre di cui la nuova legge urbanisticaregionale vuole essere il manifesto esplicativo (a cui eddyburg ha dedicato molte paginedi critica e approfondimento).

Ma per rigenerare prima bisogna sgombrare, XM24 come le caseoccupate. Eliminare quegli indecorosi segni di autogestione, di libertàd’espressione, di socialità aperta e non filtrata, di anarchia praticata.Pulire, abbellire, far lievitare le potenzialità speculative. E così espelleregli abitanti attuali.
XM24 esiste dal 2002 come “spazio pubblico autogestito” inun’area a ridosso della stazione ferroviaria un tempo sede del mercatoortofrutticolo, data regolarmente in concessione dal comune. Concessione cheora non intende rinnovare. Quindici anni in cui oltre ad iniziative proprie,organizzate dai collettivi che hanno sede nello spazio, XM24 ha ospitato leattività di centinaia di gruppi e collettivi nazionali ed internazionali. (unpo’di storia qui, ripresada Wu Ming)

XM24 non è soggetto facile da difendere, si tratta dicollettivi anarchici che concedono ben poco all’affabulazione an/estetizzanteoggi in voga. Ma si tratta di ragazzi colti, lucidi, capaci di analizzarecriticamente il presente e di creare momenti importanti di proposta, socialitàe multietnicità (dalle feste e i mercatini, ai corsi di italiano, ai seminaritematici; vi invito a visitare il loro sito).Doti rare che la città pubblica dovrebbe invece favorire e incoraggiare.

E’ importante opporsi all’intenzione del comune di nonrinnovare la convenzione. “Perché XM24 da 15 anni offre uno spazio persocializzare anche a chi non ha un euro, perché a XM24 può fare sport chi nonha i soldi per andare in palestra, perché a XM può mettere su una band anchechi non ha i soldi per pagare una sala prove, perché a XM puoi partecipare,proporre, collaborare a presentazioni di libri, dibattiti, spettacoli senzabisogno di pagare un centesimo. Perché se sei un migrante a XM puoi impararel’italiano anche se non hai i soldi per un corso di lingue. Perché a XM puoivedere un concerto a prezzi popolari. Perché a XM24 si condivide, non sispecula....”, sta scritto in un volantino della campagna I love XM24 - ed è tutto vero.

Ma la Bolognina continua a far gola agli speculatori.Nonostante i fallimenti clamorosi delle Officine Minganti, una vecchia fabbricatrasformata in centro commerciale (con investimento Coop Adriatica), troppopretenzioso in un’area, il quadrante Bolognina Est, con i redditi più bassidella città e la più alta presenza etnica, in particolare cinese, conattitudini di consumo modeste e comunque proprie. Una riqualificazione che èrimasta isolata in un contesto che, malgrado le aspettative, non è cambiato el’ha vanificata.

Anche sul versante Ovest sinora gliesperimenti di valorizzazione si sono rivelati rovinosi: la Trilogia Navile unprogetto sovradimensionato, incappato in ripetuti fallimenti delle impresecostruttrici, è stato risucchiato nel buco nero delle narrazioni iperreali,nell’universo parallelo dei sogni degli immobiliaristi. Oggi si presenta comeun gigantesco relitto mai ultimato, un mostro residuato come spauracchio afutura memoria. Un fondale postapocalittico agli orti di XM24 che verso serabrulicano invece di umanità.

Nel medesimo comparto l’unico progetto realizzato è la nuovasede municipale, trasferita qui nel 2008 dall’antico Palazzo d’Accursio dellapiazza Maggiore. Un’operazione della galassia che si muove entro il Consorzio CooperativeCostruzioni, a cui il comune di Bologna versa infatti cospicuo canone d’affitto.

Una bizzarra interpretazione rovesciatadel neoliberismo, in cui sul pubblico gravano gli oneri mentre i privati fannobusiness. Sarebbe interessante almeno avere dati sull’efficacia funzionale diquesta scelta addensativa della tecnostruttura, che non ha comunque liberatogli spazi centrali. L’edificio, progettato da Mario Cucinella, se sotto ilprofilo estetico divide le opinioni dei bolognesi, sul versante dell’ecologiaha perso la grande opportunità di diventare un esempio istituzionale dirisparmio e di efficienza energetica, è anzi particolarmente insalubre edenergivoro.

Ma se ragioniamo di opportunità perse, per capire lepulsioni che agitano la Bolognina dobbiamo ricordare il grande buco progettualedella stazione ferroviaria che non a caso, la semiotica non inganna, si ètrasformato in quell’enorme sarcofago sotterraneo grigio(-sporco) multipianoche è la stazione di Bologna.

Fin dal concorso di idee lanciato nel 1983, il criterio difondo fissato dai bandi è la definizione di una nuova centralità attorno allastazione che diventi area di connessione tra il centro storico, a Sud verso lecolline, e la Bolognina, a Nord verso la pianura. La distanza in linea d’aria èquella del fascio dei binari, passante in direzione est-ovest; quella intermini cronometrici è enorme, solo un ponte (di fine ‘800) per unire. La cittàè insomma divisa in due parti, quella storica di impostazione medievale e quellaottocentesca dell’espansione extra moenia avviata appena prima che la ferrovia venissecostruita. Il mandato del bando è la ricucitura, ne fioriscono progetti distraordinaria inventiva che tuttavia vengono presto dimenticati. Anche quasi 15anni dopo, quando il comune affida a Ricardo Bofill il compito di progettare lanuova stazione, i prerequisiti rimangono i medesimi, tant’è che l’architettocatalano disegna, oltre che l’interramento dell’alta velocità che poi si èrealizzato, un montante che sovrappassa i binari e connette le due sponde dellacittà. La parte di superficie del suo progetto, colpevoli i due grattacieli,rimane vittima di un referendum cittadino, che premia il mantenimento dellavecchia stazione ma indica anche la necessità di un nuovo concorso di idee,vinto a quel punto, intanto è passato un altro decennio o quasi, da ArataIsozaki. Anch’egli stila un progetto tutto incentrato sulla ricucitura, che siva ad aggiungere alla lista degli irrealizzati. Quante energie creativesprecate per finire in una catacomba che mette in tensione la nostra fiducianelle tecniche!
Questa schematica cronistoria per dire che la consapevolezzadella distanza tra Bologna-città e Bolognina-periferia è ben presente sin daglianni ’80. Oggi accentuata da una voragine le cui connessioni di mobilitàsembrano un labirinto punitivo immaginato in una notte di sballo da urbanistiubriachi. E’ vero, impiego solo un’ora per andare a Milano, ma quanto tempo miserve per raggiungere la stazione? Come sempre la ‘modernità’ si scontra con inostri ritardi.

Ma il quartiere Bolognina, malgrado la confusioneprogettuale e gli errori esecutivi, è in una posizione perfetta per larivalorizzazione, o rigenerazione che dir si voglia. Tanto più in questa fasein cui la città s’è scoperta turistica e ha voglia di allargare il raggio deibenefici economici che ne derivano oltre le soglie del centro storico. Il che puòessere un bene a patto non avvenga a scapito del costo della vita, e dunque degliabitanti e dei fruitori abituali.

Gli sgomberi degli edifici occupati hanno mostrato il voltoduro e poliziesco dell’amministrazione comunale, che non ha saputo rispondereall’emergenza abitativa se non con la cacciata delle famiglie.
Politiche di aggressione delle fasce sociali più deboli cheverranno replicate contro XM24 se non ci mobilitiamo per difendere questospazio di autogestione giovanile, che è allo stesso tempo un modo per proporre un’ideadi città come luogo di vita e di condivisione, e non come terreno dispeculazione.

Il documento allegato è un primo momento di aggregazione e di denuncia, se lo condividi puoi firmarlo e diffonderlo.

«In Spagna si sta affermando il neomunicipalismo, ovvero l’idea di ripartire dalla città, Barcellona è l’esempio più grande. Ma l’obiettivo è far nascere una rete europea delle città ribelli». MicroMega online, 21 aprile 2017 (c.m.c.)

Il 24 maggio del 2015 in diverse città spagnole delle liste civiche nate dal basso vincono le elezioni comunali. A Madrid, Barcellona, Saragozza, Cadice, Pamplona, Santiago de Compostela, La Coruña, Badalona i cittadini entrano per davvero nelle istituzioni con progetti di rottura rispetto al passato. Esperienze diverse in contesti urbani diversi. Grandi metropoli e piccoli capoluoghi di provincia. Ma con un punto in comune: cambiare la Spagna e chiudere con i quarant’anni di bipartitismo PP-PSOE, partendo dalla partecipazione della cittadinanza e dallo strettissimo legame con i movimenti sociali presenti sul territorio. Sono passati quasi due anni da quel giorno e la scommessa neomunicipalista, che ha ottenuto importanti risultati nelle città in cui governa, guarda già oltre il municipalismo.

Il neomunicipalismo è figlio del movimento del 15M, gli Indignados, che hanno invaso le piazze spagnole nel maggio del 2011. La reazione alla grande crisi, che stava distruggendo, con le contro-riforme del governo Zapatero e poi del governo Rajoy, il fragile Welfare state spagnolo, è stata imponente e ha permesso la politicizzazione di una nuova generazione che negli anni della bolla immobiliare viveva per lo più nell’apatia politica. Il triennio 2011-2013 è stato quello delle grandi manifestazioni, delle Mareas in difesa della sanità e dell’educazione pubblica, del radicamento degli Indignados nei quartieri delle città, della lotta contro gli sfratti portata avanti dalla Plataforma de Afectados por la Hipoteca (Pah), di cui Ada Colau, attuale sindaca di Barcellona, era la portavoce.

La disoccupazione aveva toccato i drammatici record greci (27%), le famiglie che avevano perso la casa erano oltre 500mila, i giovani che emigravano circa 100mila l’anno. Il sistema spagnolo, nato con la transizione dalla dittatura franchista alla democrazia, era entrato in cortocircuito: non si trattava solo di una crisi economica e delle sue tragiche conseguenze sulla popolazione, ma di una crisi sociale, politica, istituzionale, territoriale e culturale.

Partecipazione, trasparenza e confluencia
È in questo contesto che nasce la scommessa neomunicipalista. E il caso di Barcellona è senza dubbio quello più emblematico. Nei mesi in cui a Madrid un gruppo di giovani professori universitari lancia Podemos con l’obiettivo di presentarsi alle elezioni europee del maggio 2014, nel capoluogo catalano una dozzina di attivisti con alle spalle le lotte dei primi anni Duemila, in cui Genova, il movimento no global e l’esperienza dei dissobedienti italiani sono stati riferimenti costanti, capisce che la sfida dev’essere lanciata a livello locale. L’obiettivo non è il Parlamento europeo e nemmeno quello spagnolo o quello catalano, ma la città di Barcellona.

Nel giugno del 2014 si presenta un manifesto, Guanyem Barcelona, ossia Vinciamo Insieme Barcellona, con cui si invita la cittadinanza a partecipare. Ci si dà poco più di due mesi di tempo per raccogliere 30mila firme. Se non si ottengono, non si fa nulla. Non ci sono i partiti, non ci sono le fantomatiche quote. Sono mesi di assemblee pubbliche in tutti i quartieri della città, in cui si ascoltano le persone, soprattutto quelle più colpite dalla crisi e dalle politiche di austerity. Di firme se ne raccolgono molte di più ben prima della scadenza prevista. Inizia così un progetto che oggi è una solida realtà che governa la seconda città della Spagna e che passerà a chiamarsi Barcelona en Comú.

Il resto è storia ed è ormai conosciuto. L’attento e faticoso lavoro per costruire una confluencia con le formazioni politiche della sinistra catalana che decidono di sommarsi a questo progetto: Iniciativa per Catalunya Verds (ICV), Esquerra Unida i Alternativa (EUiA), Podemos, Equo, Procés Constituent. In una confluenza non si ragiona per quote come in una coalizione, ma secondo la logica “una testa un voto”. Non è facile, ma ci si riesce: nasce un nuovo soggetto politico in tutto e per tutto, un nuovo spazio dove le regole sono diverse. Ma fin da subito c’è l’elaborazione di un codice etico, con cui si limitano mandati e stipendi, e di un programma, costruito insieme alla cittadinanza. Infine, e solo come ultimo passaggio, c’è la creazione di una lista con una candidata che nessuno mette in discussione: Ada Colau. Il tutto, è bene ricordarlo, con processi di votazione, sia presenziale sia on-line gestiti da una società che, a differenza del Movimento 5 Stelle, non ha collegamenti con i vertici politici della formazione.

Dal maggio del 2015 si è fatto molto, per quanto gli ostacoli e le difficoltà siano state tante. Innanzitutto perché governare in minoranza non è facile. Il sistema politico spagnolo è diverso da quello italiano, non c’è il ballottaggio e la lista vincente non ottiene la maggioranza assoluta nel consiglio comunale. Barcelona en Comú ha 11 consiglieri su 41: per arrivare ai 21, che significano la maggioranza, la strada è impervia, tenendo poi conto che la frammentazione politica è notevole con ben sette formazioni spaccate non solo sull’asse destra/sinistra, ma anche su quello indipendenza catalana sì/no. Nella primavera del 2016, dopo una consultazione tra gli iscritti a Barcelona en Comú, si è arrivati a firmare un accordo con i socialisti che sono entrati nel governo.

La maggioranza è ancora lontana, ma senza dubbio è stato un passo avanti, non scevro da dubbi e critiche. Ma le difficoltà sono poi nel reale potere dei Comuni in Spagna dopo la ricentralizzazione portata avanti dai governi del PP negli ultimi anni con la scusa degli sprechi delle amministrazioni locali: con la legge Montoro, i Comuni, oltre ad essere stritolati dalle politiche di austerity, non possono nemmeno spendere a fini sociali l’eventuale avanzo di bilancio. Infine, rimane la vexata quaestio della relazione tra movimenti e istituzioni: il rischio, sempre presente, è quello di una istituzionalizzazione del progetto una volta dentro il palazzo.

Due anni di governo

I primi mesi di governo sono stati difficili anche per la dura campagna di stampa dei grandi mass media. “Non sono capaci di fare politica. Non sanno gestire un’amministrazione. Non è gente preparata”, si ripeteva continuamente. Dopo due anni ci si rende conto che non è stato così. I bilanci dei Comuni, non solo quello di Barcellona, ma anche degli altri governati da liste neomunicipaliste, non sono più in rosso, come in passato. Ed anzi si è ridotto il debito creato dalle destre: a Madrid, in solo un anno e mezzo, Manuela Carmena ha ridotto di quasi 2 miliardi di euro il debito del Comune sui quasi 6 miliardi che si era trovata quando è stata eletta. Le radicali misure di trasparenza, insieme alla limitazione degli stipendi, ha dato i suoi frutti. E allo stesso tempo si sono aumentate le politiche sociali.

A Barcellona si sono finanziate fin da subito le mense per gli studenti, si sono investiti 150 milioni di euro in un Piano per i quartieri, si sono costruiti nuovi asili e si sono rimunicipalizzati quelli che erano stati privatizzati, si è avviato un piano per ricollocare le famiglie sfrattate e un piano di costruzione di case popolari, oltre ad obbligare le banche a mettere sul mercato gli appartamenti sfitti a canone sociale e a multare quelle che si negano. Si sono poi fatte pressioni sulle grandi compagnie di acqua, luce e gas per evitare che alle famiglie a rischio povertà vengano tagliati i servizi durante l’inverno. Si è avviata la costruzione della prima impresa di energia elettrica comunale – sarà la più grande di tutta la Spagna – che a breve potrà servire 20mila cittadini e di un’impresa di onoranze funebri comunale che ridurrà di circa il 50% i costi rispetto a quelle private esistenti attualmente.

Si sono potenziati i trasporti pubblici, sia il metro che gli autobus, si stanno costruendo 62,5 km in più di piste ciclabili in tutta la città e si è avviato l’esperimento delle superilles – ossia, spazi in cui si vieta la circolazione di veicoli – con l’obiettivo di trasformare Barcellona in una città ambientalmente sostenibile. Si è lavorato poi molto sul grande problema del turismo e della conseguente gentrificazione – Barcellona riceve oltre 27 milioni di turisti l’anno –, approvando il PEUAT, un piano comunale che proibisce la costruzione di nuovi hotel in tutto il centro cittadino, e multando con 600mila euro AirBnB che mantiene sul suo portale annunci di appartamenti senza licenza. Il tutto sempre con la partecipazione della cittadinanza: il nuovo Programa de Actuación Municipal (PAM) è stato elaborato grazie a 430 assemblee nei quartieri e alla piattaforma web decidim.Barcelona (“decidiamo.Barcellona”), tramite cui si sono raccolte oltre 10mila proposte fatte da associazioni attive nella città o da singoli cittadini, che sono state votate da più di 130mila persone.

Se ciò non bastasse, tante sono state le battaglie ancor più direttamente politiche che sono state fatte: per la chiusura dei CIE, scontrandosi con il governo spagnolo; per una memoria storica democratica, recuperando la storia degli sconfitti troppo spesso dimenticati dalle istituzioni; per la femminilizzazione della politica, che va ben al di là delle sole “quote rose” e riguarda tutti gli ambiti della vita istituzionale e non. E poi la questione dei rifugiati e dell’accoglienza in un’Europa sempre più chiusa nella sua fortezza, divorata da nazional-populismi xenofobi: nel settembre del 2015 Ada Colau ha lanciato la proposta delle Ciudad Refugio, le città rifugio, permettendo così la creazione di una rete di “città ribelli” che in tutta la geografia spagnola lavora con altre priorità, mettendo in comune nuove esperienze e nuove pratiche.

Oltre il Comune

Il Comune, però, non è l’unico obiettivo di un progetto politico che guarda oltre le frontiere della città. E questa è la grande forza del neomunicipalismo di Barcelona en Comú. Il Comune è il primo step, un livello in cui la distanza tra governanti e governati è minore, in cui il contatto con la cittadinanza e con il tessuto associativo è sempre presente, in cui le battaglie che si portano avanti hanno una ricaduta immediata.

Ma bisogna andare oltre. In primo luogo, per quanto riguarda il caso di Barcellona, la realtà catalana, ma poi anche la Spagna e l’Europa. Perché? Lo ha spiegato recentemente Ada Colau: “«Non è un caso che il municipalismo sia sempre più presente. È stato un errore democratico non considerare le città come degli attori politici. E si sta dimostrando che se vogliamo migliorare e approfondire la democrazia, le città non possono solo amministrare perché dobbiamo affrontare le grandi sfide globali che ci pongono gli Stati: il cambio climatico, la mobilità, il problema della casa, la disuguaglianza, le migrazioni… Le grandi sfide globali hanno luogo nelle città e non si tiene conto politicamente delle città. I Comuni devono avere più voce e più voti, più capacità di decisione e più peso politico».

Dopo oltre un anno di riunioni e di incontri pubblici in tutta la geografia della Catalogna, è nato lo scorso 8 aprile il nuovo soggetto politico catalano che segue il modello di Barcelona en Comú. «L’apparizione di questo spazio politico ha molto a che vedere con la crisi politica in cui viviamo, la nostra democrazia non funziona come dovrebbe e molte persone hanno deciso di implicarsi e corresponsabilizzarsi per migliorare le forme di fare politica», queste sono state le parole di Ada Colau l’8 aprile. Il nome del nuovo partito non è ancora stato stabilito, probabilmente sarà quello di Catalunya en Comú o di En Comú Podem, che è il nome della coalizione che ha vinto le elezioni politiche generali in Catalogna sia a dicembre 2015 che a giugno 2016, mandando al Parlamento di Madrid ben 12 deputati guidati dallo storico e attivista Xavier Domènech.

Si tratta di una confluenza che riunisce, nonostante i dubbi e le frizioni con un settore del Podemos catalano, le stesse formazioni che hanno dato vita a Barcelona en Comú e che è nato con un processo partecipativo chiamato Un País en Comú (“Un Paese in Comune”): un programma e un codice etico costruiti con la cittadinanza in un contesto estremamente complesso come quello catalano, con la questione dell’indipendenza – difesa dall’attuale governo regionale – sempre sulle prime pagine di tutti i giornali. Rompere il frame indipendenza sì/indipendenza no con un programma centrato sulle politiche sociali, sui beni comuni e sulla difesa di un referendum non sarà facile per il nuovo soggetto politico lanciato da Ada Colau. Vedremo i primi risultati in autunno, quando molto probabilmente si terranno le elezioni regionali anticipate.

Ma non c’è solo il livello catalano che è indispensabile per dare respiro ai Comuni “ribelli”, facendo pressioni sul governo regionale e su quello nazionale per modificare leggi e politiche restrittive. La sfida neomunicipalista guarda molto più in là dei Pirenei. C’è l’Europa, in primo luogo, ma in realtà c’è tutto il mondo. Lo si fa con umiltà e senza fretta, seguendo la massima “andiamo piano perché andiamo lontano”. All’interno di Barcelona en Comú, che è un partito “pesante”, e non “leggero” come Podemos, vi è infatti una commissione internazionale che lavora da oltre un anno a una mappatura dei progetti neomunicipalisti esistenti in tutto il globo: da liste civiche nate dal basso che governano alcune città, grandi come Napoli o la cilena Valparaíso o piccole come l’inglese Frome, a progetti che hanno fatto il salto alla politica e che si trovano ora all’opposizione in Comune, come Coalizione Civica a Bologna, Buongiorno Livorno o Ciudad Futura a Rosario in Argentina, fino a movimenti con un’agenda municipalista che non hanno ancora deciso di presentarsi a delle elezioni in Italia, Francia, Polonia, Stati Uniti, Germania, Grecia, Danimarca e un’infinita di altri paesi. L’obiettivo è quello di creare una rete municipalista internazionale.

Per questo i prossimi 9-11 giugno si terrà a Barcellona un incontro internazionale chiamato Fearless Cities, città senza paura, a cui parteciperanno centinaia di progetti neomunicipalisti provenienti da tutto il mondo, per condividere pratiche e tessere relazioni in vista di quello che sarà il nuovo step di questa scommessa: riportare la politica tra le persone, renderla partecipativa, promuovere politiche di accoglienza, rompere le gabbie delle leggi di bilancio schiave dell’austerity. O come ha detto recentemente Ada Colau: «considero che il municipalismo è essenziale per migliorare la nostra democrazia. Questo è il secolo delle donne e il secolo delle città. E il luogo migliore per vivere questo momento politico così appassionante è il municipalismo, che non è altro che l’amministrazione più vicina alla cittadinanza».

«Un rapporto sullo stato dell’economia sociale e solidale porta alla luce cifre ed esperienze che fanno della capitale catalana un interessantissimo esempio di come al giorno d’oggi proposte di modelli alternativi al neoliberismo non solo siano possibili, ma già in atto».comune-info, 24 aprile 2017 (c.m.c.)



A Barcellona, ​​più di 4.700 iniziative socio-economiche si ispirano ai valori della cooperazione, dell’orizzontalità e dell’autogestione. Sono l’espressione dell’economia sociale e solidale catalana, esperienze che allo stesso tempo si configurano come pratica economica e come movimento sociale.

Nel 2016 Anna Fernàndez e Ivan Miró pubblicano un rapporto sullo stato dell’economia sociale e solidale a Barcellona, portando alla luce cifre ed esperienze che fanno della capitale catalana un interessantissimo esempio di come al giorno d’oggi proposte di modelli alternativi al neoliberismo non solo siano possibili, ma già in atto. Gli autori presentano un lavoro di ricerca che ha fatto emergere una realtà che a Barcellona è radicata da molto tempo e che conta oltre 4.700 iniziative socio-economiche, pari al 2,8% del totale delle imprese registrate, distribuite nei differenti quartieri della città (vedi cartografia). Un insieme di realtà dove trovano lavoro più di 53.000 persone, pari all’8% dell’occupazione totale e che partecipa al 7% del PIL della città. Ma di preciso di cosa stiamo parlando?

L’economia sociale e solidale nei quartieri di Barcellona

Senza entrare nel dibattito sui concetti, per il quale si rimanda al documento prodotto da RIPESS nel 2015, riportiamo integralmente la definizione che il volume dà riprendendola da una proposta di legge redatta nel 2015 dalla rete di economia solidale catalana, la XES Catalunya: «[…] si definisce l’economia sociale e solidale come un insieme di iniziative socio-economiche i cui membri, in modo associativo, cooperativo, collettivo o individuale, creano, organizzano e sviluppano democraticamente e senza dover necessariamente avere scopi di lucro, processi di produzione, di scambio, di gestione, di distribuzione delle eccedenze, di sistemi monetari, di consumo e di finanziamenti di beni e servizi volti al soddisfacimento dei bisogni. Promuovono relazioni di solidarietà, cooperazione, reciprocità, basate sul dono e la trasformazione egualitaria della economia e della società; hanno come finalità la promozione del bien vivir e la sostenibilità e la riproduzione della vita di tutta la popolazione».

Riportare la vita al centro e ripartire dalle relazioni

Si tratta di un paradigma che, contrapponendosi a quello dominante, rimette al centro la vita umana e le relazioni, ponendo l’accento sulla necessità di portare sullo stesso piano produzione e riproduzione. Produrre per rispondere alle necessità umane nel riconoscimento del ruolo fondamentale che ha il processo di riproduzione. Si tratta di un modello socio-economico che mette in secondo piano la formalizzazione giuridica delle entità, raccogliendo al suo interno realtà di differente tipo. La prima parte del lavoro di Fernàndez e Mirò illustra in maniera dettagliata e con dati alla mano la pluralità delle esperienze che compongono il panorama dell’economia sociale e solidale barcellonese: cooperative di lavoro, di servizi, di consumatori e di utenti; cooperative per l’abitare e per la formazione; le mutue e i servizi bancari e di credito che promuovono la finanza etica; il terzo settore sociale e imprese per l’inserzione e l’avviamento al lavoro; gruppi di consumo, orti urbani e banche del tempo; forme di autogestione comunitaria di strutture ed edifici pubblici e altri ancora.

Risulta evidente come non siano la forma giuridica o il settore di riferimento a determinare quali siano le esperienze afferenti all’economia sociale e solidale, quanto piuttosto un insieme di criteri che spaziano dall’equità di genere alla sostenibilità ambientale, dalla democraticità dei processi decisionali alla [re]distribuzione egualitaria della ricchezze e altri ancora. Certo non sempre è facile stabilire un confine netto tra chi è dentro e chi è fuori, ma trattandosi di pratiche che hanno l’ambizione di trasformare la società in cui intervengono, si tratta di percorsi e processi sempre perfezionabili e in continuo mutamento. Una questione, quest’ultima, messa in luce anche da un’altra esperienza del panorama catalano volta alla mappatura delle realtà dell’economia solidale del territorio. Si tratta del Pamapam, una pratica di collaborative mapping realizzata dalla ONG Setem Catalunya su base volontaria per intervistare, conoscere e, successivamente, mappare pratiche solidali.

Verso un nuovo modello di città: cooperativa, solidale e per il bene comune

La seconda parte del volume è dedicata alla configurazione dello spazio urbano di Barcellona con un approfondimento su alcuni suoi quartieri emblematici che, provenendo da traiettorie storico-culturali nonché socio-economiche differenti, sono oggi protagonisti nella definizione di un modello di spazio urbano che si ponga come alternativo a quello dominante. Quest’ultimo ha dato alla luce un modello di città che già nell’89 fu definito da David Harvey “entrepreneurial city” (città imprenditoriale), così indicata per l’accumulazione del capitale con i conseguenti fenomeni di privatizzazione e mercificazione di risorse pubbliche, esclusione di intere fasce della popolazione, finanziarizzazione della rendita urbana e depauperamento del patrimonio storico-culturale nonché dell’ambiente stesso.

Fernàndez e Mirò mostrano come nei differenti quartieri sia in atto una – riprendendo le parole di Lefebvre – produzione sociale dello spazio urbano volta ad affermare pratiche collettive e solidali, nel perseguimento del bene comune. Così sta accadendo alla Barceloneta, quartiere con un forte passato cooperativo e che oggi soffre una forte pressione turistica, o a Sants, quartiere di tradizione operaia dove si incontrano pratiche di autogestione di aree ed edifici dismessi minacciati da progetti immobiliaristi.

Gli autori hanno messo in luce i punti di forza e di debolezza di un fenomeno che a Barcelona sta crescendo in maniera esponenziale. Ne è un dato chiaro anche la costituzione del Commissionat de Economía Cooperativa, Social i Solidaria i Consumo da parte della sindaca Ada Colau, eletta nel giugno del 2015 con la piattaforma cittadina nata con il nome di Guanyem Barcelona – Vinciamo Barcelona – e oggi conosciuta come Barcelona en Comú. La giunta comunale dichiara così apertamente qual è il modello socio-economico che intende perseguire, un modello improntato proprio al paradigma dell’economia solidale.

Articolo pubblicato anche su Labsus – Laboratorio per la Sussidiarietà

la Repubblica, Roma, 23 aprile 2017

LA post-verità di Dario Franceschini è che l’autonomia del Colosseo non avrebbe ricadute sul governo del patrimonio culturale della Capitale. Ma basta ricordare che giustificò proprio con la sottrazione di quegli introiti l’introduzione del biglietto al Pantheon per capire che non è vero. Come dimostra anche l’aggressiva operazione con la quale il ministro ha sfilato al Comune le Scuderie del Quirinale, siamo di fronte ad una precisa strategia: fare del Collegio Romano il vero centro decisionale della politica culturale romana. Se si aggiunge il fatto che la moglie di Franceschini guida l’opposizione pd in Campidoglio ce n’è abbastanza per innescare uno scontro frontale.
La disarticolazione del patrimonio culturale romano in più centri decisionali e la sostanziale demolizione della soprintendenza sono destinati a incidere in negativo su ogni progetto di fruizione integrata. Lo “scippo” del Colosseo è la pietra tombale sul progetto di Antonio Cederna: un unico parco civico e archeologico che unisse l’Appia ai Fori senza soluzione di continuità. È dunque naturale che il sindaco reagisca.
La stragrande maggioranza della comunità scientifica dell’archeologia e della storia dell’arte si è pronunciata (con documenti ufficiali delle varie consulte) contro la riforma Franceschini, giudicata il punto più basso della storia della tutela nell’Italia unita. Il patrimonio è stato diviso in una good company (grandi musei e grandi monumenti) che mercifica in modo cinico e anticulturale ciò che gli è affidato, e nella bad company del territorio, delle biblioteche e degli archivi. La politica ha colonizzato gli organismi scientifici secondo il modello Rai, e la ricerca è ormai fuori dall’agenda. Infine, appare fuori controllo l’uso spregiudicato di un precariato senza diritti, travestito da volontariato.
L’M5S ha partecipato alla mobilitazione contro tutto questo sfilando lo scorso 7 maggio nella manifestazione romana del coordinamento Emergenza Cultura. E il vicesindaco Luca Bergamo ha dichiarato: «Basta con lo sfruttamento intensivo del nostro patrimonio a meri fini di biglietteria ». Se questo ricorso non è una lite per la cassa, ma il primo passo verso una politica culturale alternativa, allora si potrebbe aprire uno scenario di grandissimo interesse.
Riferimenti

Abbondanti materiali sul "progetto Fori" sono raggiungibili digitando le parole nel "cerca" presente in ogni pagina del sito. Una presentazione del progetto Fori è raggiungibile qui

il Fatto Quotidiano online, 22 aprile 2017 (c.m.c.)

Il Ponte di Messina è “un’ipotesi reale“. A riaprire la discussione sulla realizzazione, pochi giorni dopo il no deciso del ministro per le Infrastrutture Graziano Delrio, è un altro componente del Governo Gentiloni. Per il ministro per la Coesione territoriale Claudio De Vincenti «quello che sicuramente si deve fare è una velocizzazione infrastrutturale del passaggio tra Calabria e Sicilia. E il Ponte è il progetto più avanzato». Quasi non fossero ministri dello stesso governo.

Sarà l’aria di Messina o di Palermo, divise dall’antica rivalità. Di fatto Delrio, in visita nel capoluogo di provincia, aveva confermato lo stop a ogni velleità pontiera perché «la priorità del Sud è l’alta velocità». Zittiti così Lupi e Alfano (Ap) e i loro out out sul tema, archiviata la solenne promessa di Matteo Renzi, a maggio e ancora nello scorso autunno, con allegati 100mila posti di lavoro. «La concessione del Ponte è stata caducata». Ca-du-ca-ta: cioè interrotta, fatta cadere. Quattro sillabe, quelle pronunciate dal ministro delle Infrastrutture, che chiudono ufficialmente il capitolo. Forse. Perché ecco che da Palermo, stavolta, il progetto “caducato” torna miracolosamente in piedi, con la promessa di trovare ancora le gambe per camminare e unire così la Sicilia all’Italia.

L’annuncio, stavolta, è per bocca di un altro ministro del governo Gentiloni che evidentemente non ha parlato né col premier né con quello delle Infrastrutture. De Vincenti è reduce da una giornata palermitana dove ha incontrato Rosario Crocetta e il sindaco metropolitano Leoluca Orlando. A metà pomeriggio di un giorno non caldissimo ma assolato (17 gradi) se ne esce così: «Il Ponte è un’ipotesi reale. Bisogna velocizzare il passaggio infrastrutturale tra Calabria e Sicilia e l’ipotesi fin qui più sviluppata, anche progettualmente, è quella del Ponte di Messina». Difficile conciliare questa visione con quella del collega. «Il problema – aveva appena detto Delrio – non è il ponte ma avere un collegamento ferroviario adeguato tra la Sicilia e il resto d’Italia, ci siamo soffermati sul Ponte ma ci siamo dimenticati di considerare che bisogna prima programmare l’alta velocità tra Roma e Reggio Calabria».

Dunque il ministro delle Infrastrutture pensa ai binari, quello della coesione al cemento. A dire il vero lo stesso Delrio ha cambiato diametralmente idea rispetto a se stesso. Lo scorso ottobre aveva stragiurato che il Ponte si faceva. C’erano perfino i soldi. «Il Ponte non è una cattedrale nel deserto ma è parte essenziale del corridoio Napoli-Palermo. Oggi per andare in treno da Roma a Palermo ci vogliono dieci ore e mezza. Con il Ponte e tutto il corridoio scenderemo a sei ore. Naturalmente si tratta di coinvolgere i territori con il dibattito pubblico, di limitare l’impatto ambientale e anche i costi». Nella stessa intervista il cronista fa notare che un anno prima Delrio la pensava diversamente, quando del Ponte diceva «Ho sempre sostenuto che abbiamo altre priorità». Ennesima inversione a U sul ponte che non c’è.

Va detto che le giravolte intorno al ponte fanno parte di una telenovela che impegna la politica da 150 anni perché dell’opera si è iniziato a parlare fin dal 1866, durante il governo Ricasoli. Lo Stato inizia a spenderci i soldi nel 1981, con Forlani e Spadolini e la costituzione della società Stretto di Messina Spa. Fu cavallo di battaglia per Berlusconi, che a Porta a Porta lo magnificava ancora nel 2004 e con tanto di plastico. Poi motivo di scorno per Mario Monti, che nel 2012 lo bloccò ma solo in parte, tenendo in piedi il baraccone societario per evitare costose penali per il disimpegno dal progetto.

Intanto solo in consulenze e studi il fantasma del Ponte riusciva a costare agli italiani reali 600 milioni di euro, buona fetta di quegli 6-8,5 miliardi – una manovra finanziaria di tutto rispetto – che servirebbero per realizzarlo (forse). Ma che nessuno trova. Così il Ponte resta diletto e dannazione di chi governa. Lo fu per i romani, che immaginavano un collegamento stabile tra Calabria e Sicilia, ma con un ponte su barche. Ne parla Plinio il Vecchio agli inizi del primo secolo d.C. Duemila e 17 anni dopo ancora ne parlano, spinti dal sonno della ragion politica che si trastulla nell’allucinazione eterna del Ponte dei Ponti. Mentre quelli veri che già ci sono, dal Cuneese alla Brianza, si sgretolano e crollano miseramente.


«Ospiterà da giugno a settembre l’opera rock firmata da Franco Migliacci e 4 premi Oscar La struttura è alta 14 metri». Articolo di Cecilia Cirinei e commento di Tomaso Montanari. il manifesto, 21 aprile 2017 (c.m.c.)

IL KOLOSSAL SU NERONE DIVIDE ROMA
“NO AL MAXI PALCO SUI FORI IMPERIALI”
di Cecilia Cirinei

Una struttura di grande impatto visivo, 36 metri di larghezza, 27 di profondità e 14 di altezza, è comparsa da due giorni nell’area di Vigna Barberini all’interno del sito archeologico del Palatino. È il palco che ospiterà, dal 1 giugno al 10 settembre, il musical “Divo Nerone — Opera Rock”. Ci sono già anche le 480 poltrone della platea, l’impianto audio e delle luci. Presto arriverà la scenografia e le tre file di gradinate.

E la città si divide fra favorevoli e contrari a questo maxi allestimento ideato da Franco Migliacci che mette insieme quattro premi Oscar: Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo, Gabriella Pescucci e Luis Bacalov con la regia di Gino Landi, e che potrà ospitare 3025 spettatori. I biglietti sono già in vendita e la stima attuale è che il 50% sia già stato prenotato (prezzi da 45 a 180 euro).
Il palco spacca Roma ma il progetto del musical su Nerone, proprio nell’area dove viveva nell’antica Roma, ha il patrocinio del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini che ha visto un anno e mezzo fa le scenografie di Dante Ferretti e che è favorevole a utilizzare i monumenti come cornici di eventi. Oggi, per esempio, si terrà al Colosseo un concerto di musica rinascimentale.

Per Francesco Prosperetti, Soprintendente all’area archeologica di Roma «Vigna Barberini, nel contesto dei palazzi e dei Fori imperiali, è vicina ai resti della camera da pranzo di Nerone, la Coenatio Rotunda, ma di nessun impatto sul contesto delicatissimo del Palatino. Il canone d’uso dell’area è di 250 mila euro, molto di più dei 100 mila pagati dal Teatro dell’Opera a Caracalla, ed è importante che alla Soprintendenza andrà anche il 3% dell’incasso dei biglietti. Servirà proprio per il recupero della Coenatio. Nella fase finale verranno messe tende e veli che mitigheranno l’impatto. Posso aggiungere che ho visto le prove e mi sembra un musical di alta qualità».

Decisamente contrario Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza: «Siamo alla follia. Sono convinto che si possono usare le strutture antiche, ma quando già ci sono, come il teatro di Ostia antica. Costruire ex novo in un luogo delicato come Vigna Barberini per ospitare ogni sera 3000 spettatori non sta né in cielo né in terra».

Per molti tour operator questo musical farà aumentare il pernottamento dei turisti, facendolo passare da 2 a 3 notti. «Ci siamo tuffati in questa avventura per realizzare il sogno di riunire 4 premi Oscar — racconta Cristian Casella che rappresenta la Nero Divine Ventures Spa — e per proporre alla città un evento internazionale. Dante Ferretti ha creato una scenografia straordinaria».

L’amarezza di Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza: “È una follia”.

UN SUPERPALCO SUI FORI
L'ULTIMA FOLLIA DI NERONE
di Tomaso Montanari

«Non serve a niente assoggettare il nostro passato alle logiche del presente».

I Fori come palcoscenico per spettacoli blockbuster? La vera antichità come fondale del kitsch di un musical su Nerone? Difficile spiegare perché non è una buona idea, nel momento in cui il Ministero per i Beni culturali investe quasi venti milioni di euro pubblici per trasformare il Colosseo stesso in una location per eventi e il comune di Verona vuole coprire l’Arena, trasformandola in una specie di palasport di lusso. Eppure, no: è una pessima idea.

In una società dello spettacolo in cui tutto – a partire dalla politica – è fiction, in cui tutto è intrattenimento, in cui tutto parla alla pancia è vitale salvare quei pochi luoghi in cui si può sviluppare una conoscenza critica e razionale del reale. Leon Battista Alberti diceva che l’arte è una finestra sul mondo reale: noi stiamo trasformando il patrimonio culturale in uno specchio che rimanda ossessivamente l’immagine del nostro presente. In Italia abbiamo un enorme privilegio: le nostre città ci mettono a contatto con il passato, cioè con un altro modo di vivere, e di pensare.

Se mascheriamo quel passato assoggettandolo alle logiche del presente, non ci serve a niente. Ma se ci educhiamo a leggerlo, a comprenderlo e ad amarlo per quello che è, può darci la forza di capire – diciamolo con Gramsci – «che non tutto ciò che esiste è naturale che esista». È sempre stato così: la conoscenza del passato aiuta a costruire un futuro diverso dalla continuazione del presente. Se oggi non ne siamo più capaci è anche perché pensiamo che il modo migliore per “valorizzare” i Fori sia farci un musical su Nerone. Senza l’incendio, speriamo.

Una risposta per punti ad una lettera del ministro Franceschini in merito al provvedimento sulle esportazioni delle opere d’arte dall’Italia che è prossimo ad essere discusso dal Senato. la Repubblica articolo9 blog autore, 19 aprile 2017 (c.m.c.)

Qualche giorno fa il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini ha risposto con una lettera al direttore ad un mio articolo su Repubblica.

Non ho avuto la possibilità di replicargli sul giornale. Lo faccio dunque ora: perché il provvedimento sulle esportazioni delle opere d’arte dall’Italia, che era l’oggetto del nostro scambio di vedute, è prossimo ad essere discusso dal Senato.

E lo faccio con una certa larghezza: eccezionale per un post di un blog. Ma l’unico modo di replicare efficacemente al cumulo di post-verità (ora è di moda chiamarle così) su cui si basa la narrazione del ministro è smontarne gli ‘argomenti’ pezzo a pezzo.

1. Quali associazioni?

Franceschini afferma testualmente che il testo della norma in questione è “frutto del lavoro di Parlamento, Governo e associazioni”.

L’uso, furbescamente generico, della parola «associazioni» per indicare i soggetti portatori di interessi con i quali il Governo (cioè il ministro stesso) ed il Parlamento (cioè il senatore Andrea Marcucci, primo firmatario del testo dell’articolo in questione) hanno lavorato per mettere a punto il testo dell’articolo 68 del disegno di legge sulla concorrenza, potrebbe lasciar intendere, al lettore distratto, non informato o semplicemente in buona fede, che si tratti delle associazioni che si occupano della tutela del patrimonio storico ed artistico nazionale (come sarebbe naturale attendersi dal ministero che di tale tutela è tenuto ad occuparsi per mandato istituzionale).

E invece no: le associazioni di cui parla il ministro sono quelle professionali dei mercanti d’arte, delle case d’asta, dei trasportatori professionali di opere d’arte, dei legali che li affiancano: è questa la compagnia (riunita in una sorta di cartello, l’Apollo 2) con la quale il ministro ha discusso della modifica delle norme sull’esportazione di opere d’arte dall’Italia.

E tutto ciò proprio nello stesso momento in cui gli uffici del ministero da lui diretto denunciavano l’ennesimo caso di esportazione irregolare e di vendita truffaldina, presso la sede di una grande casa d’aste, addirittura di un bene artistico di proprietà dello Stato. Ebbene, la casa d’aste, nonostante fosse stata avvertita, ha proceduto comunque all’aggiudicazione dell’opera d’arte e solo l’intervento coordinato degli Uffici ministeriali, dei carabinieri del Comando tutela patrimonio culturale, dell’avvocatura dello Stato e della magistratura, e le perplessità del cliente che si era aggiudicato l’oggetto in sede d’asta, ha finora impedito che l’aggiudicazione andasse ad effetto.

Al momento sono in corso le azioni legali e la vicenda avrà una sua soluzione nelle aule di giustizia. Della vicenda si sono occupati i giornali, ma evidentemente questo non è bastato ad indurre il ad interrompere i rapporti con chi stava, in quello stesso momento, trafficando con opere d’arte italiane, addirittura di proprietà dello Stato, illecitamente sottratte alle raccolte cui appartenevano ed illecitamente esportate e messe poi sul mercato.

E dunque vin da chiedersi: ma il ministro Franceschini con chi sta? Sta con gli uffici del suo Ministero che difendono il patrimonio culturale o con i mercanti che spingono perché di quello stesso patrimonio venga liberalizzata totalmente la vendita all’estero?

2. Chi è in ritardo?

Franceschini sostiene poi che il provvedimento «affronta gli annosi problemi del ritardo delle procedure … e della frequente eterogeneità nelle decisioni sull’autorizzazione all’esportazione di opere d’arte».

Ebbene, se il ministro fosse capace di autocritica farebbe bene a ripensare alla cervellotica riforma che ha messo in piedi, moltiplicando a dismisura i posti di livello dirigenziale generale per distribuire stipendi a persone che finora poco o nulla di buono hanno prodotto, al di là delle narrazioni trionfalistiche, e che invece non ha previsto l’unica vera struttura che in un Paese come l’Italia sarebbe davvero servita: una Direzione generale preposta al coordinamento degli uffici di esportazione, che avrebbe potuto organizzarne il lavoro e renderlo il più possibile omogeneo, evitando che i cittadini maturassero la convinzione che la tutela è un fatto episodico, che dipende dalle valutazioni soggettive dei funzionari che lavorano nei vari uffici. Invece, e sembrerebbe quasi che si sia voluto approfittare dell’occasione, si è preferita la politica del ‘tana liberi tutti’.

3. Cosa potrà uscire se passa la legge?

Il Ministro poi continua il suo intervento affermando che «Anche con la nuova disciplina nessun bene vincolato potrà uscire in via definitiva dal Paese né potranno uscire le opere incluse nelle collezioni dei musei: le novità riguardano solo le opere di proprietà privata non vincolate».

L’affermazione corrisponde al vero solo per quello che riguarda le opere incluse nelle raccolte dei musei pubblici. Ma per le altre opere, di proprietà privata, anche se vincolate, ed anche se raccolte in collezioni, il discorso è molto diverso.

Infatti oggi possono essere vincolate, anche al momento in cui sono presentate per l’esportazione, le opere d’arte realizzate da artisti non più viventi e che hanno più di cinquanta anni, se presentano interesse storico od artistico particolarmente importante, (così come previsto dall’articolo 10, comma 3, lettera a) del Codice dei Beni culturali), e possono essere vincolate anche le opere che, a prescindere dall’epoca della loro realizzazione, (e quindi anche se hanno meno di cinquanta anni), siano particolarmente significative a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere (articolo 10, comma 3, lettera d) del Codice). Ma a seguito delle modifiche che la nuova normativa apporta allo stesso articolo 10, [introducendo, proprio dopo la lettera d) di cui ora abbiamo parlato, una lettera d-bis)], accadrà che, per intanto, potranno essere oggetto di esame, anche all’esportazione, per valutarne l’eventuale interesse particolarmente importante, ai fini dell’imposizione del vincolo, le sole opere d’arte che siano state realizzate da un artista non più vivente e che abbiano più di settanta anni. Invece le opere che abbiano fra i cinquanta e i settanta anni, ovvero siano state realizzate da un artista ancora vivente, possono essere vincolate solo se «presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione».

Innanzitutto l’innalzamento della soglia temporale in presenza della quale gli uffici dell’amministrazione possono legittimamente procedere al vincolo delle opere d’arte sottrae alla possibilità di tutela molta parte delle opere d’arte prodotte negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, le quali potranno essere vincolate solo se ne dimostrerà l’interesse eccezionale. E c’è una vera perla: secondo la nuova disposizione che si intende inserire all’articolo 10, anche gli oggetti di interesse archeologico, non potranno essere vincolati se realizzati da artista ancora vivente (magari richiamato fra noi con una seduta spiritica!) o se eseguiti da meno di cinquanta anni (a cosa ci si riferisce? al periodo di tempo decorso dalla scoperta?). E comunque, se ricompresi fra i cinquanta ed i settanta anni (ancora una volta non è dato capire se, per gli oggetti archeologici, ci si intenda riferire all’epoca della loro scoperta, o a cosa), potranno essere vincolati solo se di valore eccezionale (non in sé, ma) per l’integrità e la completezza del patrimonio nazionale. Un incredibile pasticcio.

Inoltre tale nuova disposizione contrasta con quanto previsto alla precedente lettera d) dello stesso articolo 10, a termini della quale è oggi possibile vincolare un oggetto d’arte, a prescindere dall’età che esso ha, se è particolarmente significativo (anche se non eccezionale) per la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, ecc. Ebbene, come convive tale disposizione – che naturalmente può applicarsi anche con riguardo alle opere di arte contemporanea – con la nuova previsione, che esclude la possibilità del vincolo per opere, o per le collezioni di opere, che abbiano meno di cinquanta anni, e, se ricomprese fra i cinquanta e i settanta anni, lo ammette sole se gli uffici riescono a dimostrare che esse, opere singole o collezioni, sono eccezionali? I contenziosi, come è agevole immaginare, sono serviti su un piatto d’argento. E sullo stesso piatto è servita l’opportunità, ai proprietari di opere d’arte o di collezioni formate da opere d’arte che hanno meno di settanta anni, ma più di cinquanta, e che sono state vincolate, magari in occasione della loro presentazione ad un ufficio esportazione per essere autorizzate all’uscita dal territorio nazionale, di richiedere la revisione del vincolo, posto che nessuna di tali opere e/o collezioni è stata vincolata in quanto giudicata di interesse eccezionale, per la semplice ragione che tale soglia di interesse, ai fini dell’imposizione del vincolo, non era finora richiesta.

E sarà oggettivamente difficile non accogliere le richieste di revisione dei vincoli esistenti, che i privati potranno formulare, all’indomani dell’approvazione della riforma, ai sensi dell’articolo 128 del Codice dei beni culturali. Alla luce di quanto esposto, tre sono le possibili ragioni che hanno indotto il Ministro a scrivere la frase sopra riportata: o ha mentito, sapendo di mentire; o, benché i fidi collaboratori gliel’abbiano spiegata, non ha capito la portata effettiva della proposta di cui si è attribuita la paternità (leggi: Governo) ed il merito, in uno con il Parlamento (leggi: Marcucci); oppure i fidi collaboratori che hanno scritto il testo a braccetto con i mercanti d’arte gli hanno mentito, nascondendogli la vera portata della modifica alle regole della tutela che la nuova disposizione arreca. Sarebbe bello avere una risposta puntuale.

4. Ce lo chiede l’Europa?

Il Ministro, in apertura della sua lettera, ha parlato di fantomatici ritardi accumulati dall’Italia nell’allinearsi “a quanto avviene in tutta Europa” in materia di esportazione di opere d’arte. E anche qui viene il dubbio che il ministro sia vittima del suo stesso storytelling. Egli sembra infatti ignorare che non c’è alcun ritardo da parte dell’Italia rispetto a presunti obblighi di allineamento a immaginari parametri europei.

Il Trattato istitutivo della Comunità europea, nella versione consolidata attualmente vigente, stabilisce infatti, agli articoli 28 e 29, che sono vietate, fra gli Stati membri, restrizioni quantitative, rispettivamente, all’importazione ed all’esportazione, o misure equivalenti, ma con riguardo alle ‘merci’. Al successivo articolo 30 dello stesso Trattato è tuttavia chiarito che «Le disposizioni degli articoli 28 e 29 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi … di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale…»

È la cosiddetta ‘eccezione culturale’, che ha consentito al nostro Paese, ed in genere ai Paesi del sud Europa – i ‘produttori’ di patrimonio culturale –, di mantenere ognuno la propria legislazione in materia di esportazione di opere d’arte, in genere più restrittiva, sia pure in forme diverse, rispetto a quella dei Paesi dell’Europa del nord. La detta norma è tuttora in vigore e perciò non si capisce a quali ritardi il Ministro abbia inteso porre rimedio, né si capisce perché (e grazie a chi) si sia convinto che, in materia di esportazione di opere d’arte ci dovremmo allineare al resto d’Europa essendo invece molto più avanzati, e avendo ottenuto la vittoria dell’eccezione culturale.

Come gli capita spesso, Franceschini si è dimenticato di un dettaglio: l’articolo 9 della Costituzione, che obbliga lo Stato repubblicano a tutelare il patrimonio storico ed artistico della Nazione.

Sempre in nome di un presunto allineamento a non meglio precisate norme UE, il Ministro afferma, poco dopo, che «Come già avviene in Europa, viene introdotta , con esclusivo riferimento all’esportazione, una soglia di valore, di 13500 euro. Al di sotto di tale soglia, anche le opere con più di 70 anni e di autore non più vivente potranno uscire dall’Italia senza autorizzazione; ma ciò potrà avvenire solo a seguito della dichiarazione dell’interessato, verificata dagli uffici che, se lo riterranno, potranno apporre il vincolo». E poi prosegue, per magnificare ulteriormente quello che evidentemente ritiene un suo grande successo politico: “Come ben chiarito … [la soglia di 13500 euro] è il valore più basso in Europa (in Francia 150000 euro, in Germania 300000 euro)e dall’applicazione della soglia restano comunque esclusi reperti archeologici, archivi, incunaboli, manoscritti”.

Questa prosa asseverativa, scritta stando, idealmente, a gambe larghe, con le mani a pugno sui fianchi, il petto in fuori ed il mento proteso in avanti, non tiene affatto conto della banale verità poc’anzi rammentata: l’Italia, in materia di tutela si è finora avvalsa di quella eccezione culturale. Viceversa, aver voluto collegare la libera esportabilità degli oggetti d’arte ad una soglia di valore economico, ha fatto saltare, una volta e per sempre, la ragion d’essere di detta eccezione culturale, basata, appunto, sul valore storico degli oggetti stessi e sulla loro idoneità ad essere strumenti per la promozione dello sviluppo della cultura nel Paese di appartenenza, e quindi sulla possibilità di vietarne l’esportazione. Ma ora basta: è arrivato l’ultraliberista Dario Franceschini. E l’unico valore che viene riconosciuto è quello economico.

In pratica il ministro è riuscito nell’impresa, andando contro corrente sia rispetto alle normative plurisecolari emanate dagli stati preunitari, sia rispetto alle disposizioni emanate, in più di un secolo, dalla legislazione di settore dello Stato unitario, di parificare, finalmente, le opere d’arte a qualsiasi altra merce di cui possiamo essere esportatori. Un risultato epocale, non c’è che dire.

5. Autocertificazione = bomba libera tutti.

Il valore economico delle opere d’arte da esportare non è soggetto ad una certificazione resa da un soggetto indipendente, ma è dichiarato dallo stesso mercante d’arte interessato alla loro esportazione. E se il valore così autocertificato è inferiore ai 13500 euro, il mercante non deve neppure presentare l’oggetto d’arte all’ufficio di esportazione: si limita a inserirlo in un apposito elenco sul suo registro informatico e può esportarlo in qualunque momento a meno che il Soprintendente, mosso da curiosità, consultando sul suo computer il registro del mercante, non gli chieda di presentare quel determinato oggetto in ufficio per una verifica dell’autodichiarazione.

Quindi a decidere se un oggetto d’arte può o no uscire dall’Italia sarà d’ora in poi il mercante d’arte: salva la facoltà di un controllo, sporadico ed episodico, da parte dell’ufficio di esportazione.

Infatti già la legge sulle autocertificazioni stabilisce espressamente che il controllo sulle dichiarazioni rese dai privati su fatti a loro noti non può che essere ‘a campione’ e nella nuova previsione normativa è scritto espressamente che il Soprintendente può richiedere un controllo (solo) per “taluna delle cose” inserite dal mercante nell’elenco degli oggetti di valore inferiore ai 13500 euro. E non basta. Per blindare ulteriormente la libera esportabilità, da parte dei mercanti d’arte, degli oggetti che essi stessi certificano essere di valore inferiore ai 13500 euro, è prescritto che qualora questi oggetti vengano sottoposti a verifica (rigorosamente a campione, in base a quanto fin qui detto) e, secondo il Soprintendente, la loro esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni ma sia inferiore ai settanta anni, potranno essere sottoposti a tutela solo se «presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione», in base all’espresso richiamo alle condizioni di vincolo stabilite dalla nuova previsione aggiunta all’articolo 10 del Codice, e il detto vincolo dovrà essere dichiarato «dal competente organo centrale del Ministero», organo centrale che, in assenza di ogni indicazione specifica nell’attuale assetto organizzativo del Ministero, deve ritenersi che sia il Direttore generale per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio. Senza che siano ovviamente indicati tempi e modalità sia per l’inoltro della proposta di vincolo al detto organo centrale da parte degli uffici di esportazione, sia per la partecipazione dei privati controinteressati al detto procedimento. Ogni precisazione, sotto il profilo procedurale ed organizzativo, è rinviata ad un successivo decreto ministeriale. Chi vivrà vedrà.

Nulla si dice per gli oggetti di valore inferiore ai 13500 euro e realizzati da oltre settanta anni circa le condizioni e le modalità per la loro sottoposizione a vincolo: è da pensare che per tali oggetti il livello di interesse necessario e sufficiente per la tutela, e la competenza ad emanare il relativo provvedimento, siano rimasti quelli finora richiesti, ma le disposizioni sono scritte in modo tale che non c’è da giurarci. Insomma un pastrocchio.

Ma il ministro è orgoglioso di un tale ‘capolavoro’. Ed infatti la lettera a Repubblica si chiude con una autocelebrazione, sulle sorti magnifiche e progressive del ministero negli anni felici della gestione franceschiniana:«… l’Italia … è tornata ad essere paese guida nel mondo per la tutela come hanno dimostrato gli ottimi risultati del G7 cultura di Firenze».

Quali risultati? Ma è chiaro: quelli dello storytelling, della postverità, della narrazione.

«Beni immobiliari indisponibili. Il collegio del Lazio rigetta l’accusa di danno erariale formulata contro le associazioni e adottata dal Campidoglio. Le organizzazioni sfrattate dagli immobili capitolini potrebbero fare causa al Comune». il manifesto, 19 aprile 2017 (c.m.c.)

Gli spazi sociali romani sotto sfratto hanno vinto una battaglia fondamentale, forse decisiva, nella guerra dei Commons: il presidente della Corte dei Conti del Lazio ha detto no. Con le sentenze depositate ieri riguardanti due dei 20 casi attualmente pendenti sui 230 complessivi, quelli delle associazioni «Agorà 80» e «Anche tu insieme», il collegio giudicante per la Regione Lazio ha detto no al procuratore Guido Patti, colui che ha montato un castello accusatorio pesantissimo contro i dirigenti capitolini che hanno gestito in passato il patrimonio non disponibile del Comune di Roma in concessione per usi sociali e culturali.

Ha detto che il danno erariale semplicemente non c’è, non sussiste, sfilando la pietra angolare di tutto il castello, in quanto la tesi del procuratore contabile è che quelle concessioni, in parte scadute, in parte mai del tutto regolarizzate, o che comunque presentano dei vizi formali, avrebbero dovuto pagare un canone di mercato per l’intero periodo di usufrutto.

Hanno vinto i dirigenti e gli avvocati, tra cui i bravissimi Pino Lo Mastro e Stefano Rossi, ma anche diverse avvocatesse giovani e agguerrite, che il 6 aprile scorso avevano sostenuto 8 ore di dibattimento, duettando fino allo sfinimento con un Patti glaciale, inflessibile, che aveva manifestato gli unici segni di emotività rivolgendo battute verso il pubblico delle associazioni presenti in aula: «Vi siete portati la claque». Ricambiato da una risata fragorosa di tutta l’aula quando, excusatio non petita, aveva affermato di non avere intenti persecutori verso le associazioni.

Hanno vinto le associazioni, che possono essere più fiduciose nel fatto che le richieste di risarcimenti milionari a loro rivolte da parte del Comune non abbiano alcuna conseguenza. E anzi, rischiano di mettere in una posizione legale molto scomoda l’amministrazione capitolina. Se infatti le sentenze saranno confermate in appello e se faranno giurisprudenza, come è assai probabile, visto il peso della giudice che l’ha emessa, la presidente Piera Maggi, e visto che i due casi giudicati coprono un po’ tutte le fattispecie, il Comune si troverà con centinaia di intimazioni emesse verso le associazioni prive di ogni base legale. Con il rischio di trovarsi presto a parti invertite, inseguito da centinaia di cause civili intentate dalle associazioni contro il Campidoglio per la definizione del giusto canone e per richieste di risarcimenti in ragione di provvedimenti infondati e vessatori, soprattutto da parte di chi, per la minaccia subita, ha già lasciato gli spazi.

Sono già tre le associazioni che stanno avviando cause civili per la definizione del giusto canone, tra cui la «Mario Mieli», che quasi certamente vinceranno così che il Comune dovrà cominciare a perdere soldi in spese legali. Ma sono ben più ingenti i danni attuali e potenziali che sta già scontando la collettività per le azioni amministrative ispirate dagli insensati criteri della procura contabile, e assecondate altrettanto scriteriatamente dal Comune, dirigenza e giunta messi insieme. Se ne può avere un’idea prendendo il caso del Sant’Egidio, che ha lasciato i locali di Nuova Ostia in cui operava a causa delle diffide al rilascio del Comune con richiesta di risarcimento parametrato sul canone di mercato. In quel caso i danni sono 4 in uno. La perdita di un presidio di legalità e welfare in un quartiere con enormi fragilità sociali; le mancate entrate del canone di concessione, seppur non altissimo; i danni legati al degrado in cui sta rapidamente cadendo lo spazio che naturalmente è già stato occupato da “senza tetto”, e infine il rischio di una causa da parte di Sant’Egidio per tutta questa vicenda.

Nelle sentenze, si motiva l’annullamento del danno erariale sostenendo, come già spiegato dal manifesto, che l’irregolarità formale della concessione non può essere parametrato sul valore di mercato semplicemente perché si tratta di patrimonio classificato come indisponibile, e cioè vincolato a usi sociali e istituzionali, e perciò non poteva in ogni caso essere messo a reddito, neanche se le associazioni senza titolo fossero state sfrattate dai dirigenti, come avrebbe voluto Patti, non a caso accusato dalla rete di organizzazioni (oltre 50) di «abuso della funzione inquirente», nell’esposto presentato alla Corte dei Conti.

Ora le associazioni attendono che il Comune non solo revochi in autotutela tutte le diffide, ma che provveda rapidamente a verificare il valore sociale delle attività svolte negli spazi in concessione. E, contestualmente alla restituzione agli usi collettivi degli spazi inutilizzati o affidati ad associazioni inesistenti, immediatamente regolarizzi, con tante scuse, tutte le associazioni. E senza bando, come è nelle sue prerogative. Checché ne dica Patti.

la Repubblica, 19 aprile 2017

QUANDO ponti, cavalcavia e viadotti non vengono spazzati via dalle scosse di terremoto o dalle bombe d’acqua dei nostri torrenti impazziti ma semplicemente vengono giù da soli, per di più con una frequenza impressionante, c’è da domandarsi a quale punto di degrado sia arrivata in Italia la gestione della cosa pubblica. Sei crolli in meno di tre anni, due dei quali solo negli ultimi 4 mesi, con il loro corredo di morti e feriti. Insieme al calcestruzzo armato delle nostre opere pubbliche si sbriciolano anche la credibilità e il senso civico di un paese che non impara mai dal suo passato, che dopo lo sgomento momentaneo, invece di capire e correggere gli errori compiuti, torna a paralizzarsi nel consueto rimpallo di responsabilità. È la stessa Italia che realizza opere ardite e gigantesche all’estero, che crea il terzo ponte sul Bosforo, che allarga il canale di Panama. La stessa Italia che in soli otto anni, tra il ’56 e il ’64, costruisce l’Autostrada del Sole, assicurandole un alto livello di qualità. Oggi quell’Italia non è in grado di programmare neppure la manutenzione di quello che ha costruito negli ultimi anni. Il ponte crollato sulla A14 nei pressi di Ancona è di appena un mese fa. Preceduto da altri cinque incidenti ravvicinati. Casi sempre più frequenti, che avranno anche cause diverse e diverse responsabilità. Ma che hanno in comune il marchio dell’incuria, del disinteresse, dell’ignavia.

C’è innanzitutto una ragnatela di competenze e di veti in cui gli stessi attori di queste vicende si sono ormai persi. Il tratto crollato ieri è targato Anas, che tuttavia si occupa solo di 25 mila chilometri di strade italiane, mentre la maggior parte delle arterie fa capo ai Comuni, alle Regioni e alle Province. Ma nel caso di ponti e viadotti, i confini non sono più così chiari. Ricordiamo ancora, dopo l’incidente di Lecco, le infinite discussioni tra Provincia e Anas per stabilire chi avesse la competenza. E ci sono poi le lungaggini dei provvedimenti che dovrebbero finanziare la manutenzione. Come il contratto di programma con i 5 miliardi per l’Anas, rimasto fermo per mesi.
Ma non è solo un problema di cortocircuiti burocratici. Inaugurare una nuova opera, soprattutto se di un certo rilievo, assicura ai politici, governativi o locali che siano, un ritorno in termini di consenso (almeno nel breve periodo) sicuramente più ricco di quello che accompagna un’opera di manutenzione. Poco importa ricordare che il calcestruzzo di cui sono fatti ponti e viadotti non ha una vita eterna. Che senza interventi, quella miscela di cemento, acqua, sabbia e ghiaia, armata con sbarre di ferro e acciaio, dopo una ventina di anni comincia a dare evidenti segnali di cedimento. Soprattutto poi se nel tentativo di risparmiare tempo e denaro, si riduce la sezione dei tondini di ferro oppure si usa sabbia di mare invece che quella di fiume. In quei casi, opere anche recenti rischiano di sgretolarsi in un attimo. E qui entriamo nei territori della corruzione e del malaffare, di cui è tristemente lastricata la storia delle opere pubbliche italiane.
Malaffare a parte, c’è una domanda, tra le tante, che bisognerebbe porre all’Anas e al governo. Da chi sono pagati i collaudatori di ponti e viadotti, dall’ente appaltante o dalla società che ottiene l’appalto? La risposta dovrebbe essere ovvia, ma solo in teoria: nello scandalo del Mose di Venezia, con il suo corredo di corruttele, chi collaudava l’opera era ricompensato dalla società realizzatrice. E sappiamo a quali disastri può condurre il conflitto di interessi.

Emergenza Cultura online, 19 Aprile 2017 (c.m.c)

L’elezione di Venzone, in Friuli, a borgo più bello d’Italia è una potente iniezione di fiducia in noi stessi. Chi oggi ha meno di sessant’anni forse non sa che nel 1976 Venzone non esisteva più, raso al suolo da un terremoto. Dopo la terribile scossa del 6 maggio (che provocò 47 morti e gravi danni), ce ne fu una, fatale, il 15 settembre.

Poteva essere la fine di Venzone: c’era chi proponeva di ricostruirlo altrove, in forma moderna. E già dopo il 6 maggio le ruspe avevano inflitto danni irreparabili alle macerie degli edifici storici.

Ma lo shock di settembre provocò una straordinaria mobilitazione, culturale e civile: si costituì un Comitato di coordinamento per il recupero dei Beni culturali, e i cittadini chiesero di riavere Venzone «com’era e dov’era». E così fu: il sindaco requisì l’intero centro storico, che fu ricostruito come un unico organismo, un’unica opera pubblica. Il Duomo fu ritirato su con le sue stesse pietre, ricollocate ad una ad una, lasciando bene in vista i segni della devastazione.

Il libro che, meglio di ogni altro, racconta questa storia è “Le pietre dello scandalo”, scritto a più mani, uscito nel 1980 in una collana diretta da Corrado Stajano e nato «dalla convinzione, o dalla speranza, che il tentativo di salvare, per quanto era possibile, l’identità del Friuli distrutto dai terremoti del 1976, la lotta condotta per difendere da un’altra violenza, quella delle ruspe, beni che non andavano annientati, il lavoro fatto per impedire in particolare la cancellazione del centro storico di Venzone, svolto da un gruppo di volontari, possa servire come chiave di lettura non solo di quanto avviene nell’Italia dei terremoti, delle frane, delle alluvioni, della speculazione proterva, ma anche di quanto, in condizioni di “normalità”, dovrebbe essere cambiato per una reale salvaguardia del patrimonio storico-artistico italiano».

La scelta di Venzone come borgo più bello d’Italia dimostra oggi che non si trattava di un’utopia, ma di un progetto che potrebbe essere esteso a tutta l’Italia. Una lezione terribilmente attuale: visto che non decolla ancora, nel cratere dell’Italia centrale, la ricostruzione degli edifici storici.

A tutt’oggi i cantieri riguardano non più del 20 per cento di un patrimonio culturale che non riesce ad essere soccorso da «un ministero dei Beni culturali drammaticamente sprovvisto di mezzi e di persone. Al di là della facile propaganda e delle narrazioni rassicuranti, sono i crolli stessi degli edifici, uno dopo l’altro, a raccontare un’altra storia» (sono parole dello storico dell’arte Andrea De Marchi).

I cittadini di Amatrice hanno scritto un’accorata lettera aperta in cui denunciano che «stiamo perdendo, come Italiani, un pezzo della nostra storia, stiamo perdendo un pezzo dell’Italia». Eppure sarebbe possibile salvarlo: facendo come a Venzone. Così che, tra quarant’anni, il borgo più bello d’Italia possa essere uno di quelli che oggi è raso al suolo. Non è impossibile, dipende solo da noi.

Lo sfruttamento economico del nostro patrimonio culturale si arricchisce di nuove figure e di nuovi strumenti che, guarda caso, nei giorni scorsi, con il benestare di Regione Toscana e Comune, si sono dati convegno proprio a Firenze per celebrare la cosiddetta “Rigenerazione urbana a base culturale”.

Non ci vuol molto per capire che si tratta dell’ennesima trovata per giustificare e rilanciare il saccheggio del patrimonio storico, artistico e architettonico, di proprietà pubblica, da parte di società che fanno del suo sfruttamento il principio motore di una nuova fase di rilancio della redditività immobiliare ed economica.

Definiscono Cultural Real Estate questa attività. La cultura viene trasformata in elemento trainante della speculazione immobiliare. Il recupero degli immobili dismessi dovrebbe consentire di realizzare «valorizzazioni immobiliari-culturali capaci di generare valore, reddito e occupazione», ciò nella speranza di accontentare tutti, anche se in maniera profondamente sperequata e distruttiva di valori ambientali e sociali consolidati nel tempo.

Sono messi a valore non solo gli asset tangibili quali edifici, opere, musei, ma anche quelli che sono definiti asset intangibili, «espressioni identitarie ed eredità del passato da trasmettere alle generazioni future, quali le arti dello spettacolo, l’artigianato, il paesaggio».

In altri termini, concorrono alla formazione del valore non solo le qualità intrinseche del manufatto edilizio ed architettonico, ma anche le reti di relazioni, il savoir faire collettivo, la stessa costruzione sociale dell’intorno territoriale del manufatto acquisito, che fa di quel patrimonio un unicum irripetibile e per di più sottratto alla comunità locale.

La cosa che più irrita non è solo l’espropriazione del bene pubblico ma anche la sussunzione delle stesse forme di vita, della presenza fisica degli abitanti, del loro agire quotidiano, alla determinazione del profit speculativo. È una nuova forma di vassallaggio territoriale e culturale nei confronti dei ricchi di turno.

Ormai è un dato di fatto che investire in cultura conviene: è stato calcolato che la designazione a patrimonio culturale di un edificio ne incrementa il prezzo del 15% circa, mentre il valore delle abitazioni presenti in aree di interesse storico-culturale gode di un premio del 25%.

Alle incertezze del ciclo edilizio tradizionale, le società di Cultural Real Estate Development puntano proprio sull’acquisizione di immobili fortemente caratterizzati in senso storico e culturale per assicurarsi una stabilizzazione del rendimento economico. Sono investimenti unici, destinati a una categoria di clienti particolarmente ricchi che non conoscono i morsi della crisi e delle bolle immobiliari. E l’Italia ha un ricco bottino di cui i Developers vorrebbero appropriarsi: è il paese con il più alto numero di siti Unesco, ben 51, più della Cina (50) e più della Spagna (45). Cosa desiderare di più!

Sono pronti a scendere in campo investitori internazionali del calibro di Fondi sovrani, Banche di sviluppo, Compagnie di assicurazioni e Fondi pensione per finanziare campagne di acquisizione senza precedenti.

«Ci muoviamo nel solco di un approccio economico e finanziario al bene culturale, lo trattiamo come se fosse un asset economico e finanziario considerando il cash flow e la redditività presente e futura in relazione alla commercializzazione di beni e servizi che gli ruotano attorno»: questo è il freddo e utilitaristico linguaggio con cui gli operatori del settore si occupano di quel patrimonio culturale, intendendo con culturale monumenti, edifici, palazzi, tessuti urbani, che si è sedimentato nel corso dei secoli e che ora ci viene sottratto. Inaridito nelle sue funzioni e nella sua ricchezza di relazioni, viene banalmente consumato e ne viene precluso il suo valore di trasmissione della memoria collettiva per le generazioni future.

Sono gli stessi Cultural developer a riconoscere che si muovono su di un terreno accidentato «perché il patrimonio culturale costituisce un bene pubblico puro inalienabile (dello Stato o degli enti locali) e il rischio finanziario ha bisogno di garanzie». La certezza dell’investimento viene loro garantita dalle recenti politiche del Mibact di smantellamento della funzione di tutela costituzionale dei beni culturali, subordinata alla loro valorizzazione mercantile. A sottolineare questa nuova connotazione del Ministero è lo stesso Franceschini quando ricorda di essere a «capo del principale Ministero economico italiano»!

Non solo, ma è messa profondamente in discussione anche la cultura urbanistica di questi ultimi anni, che in parte ha saputo innovarsi e che ancora può proporre dispositivi di contenimento delle spinte speculative. Amministratori pubblici e addirittura esponenti dell’Istituto Nazionale di Urbanistica fanno a gara nel depotenziare gli strumenti urbanistici attuativi in favore di dubbie e generiche modalità puntuali di gestione del territorio, che perdono di vista la direzione pubblica delle trasformazioni e la visione sistemica della complessità dei fatti territoriali.

Non è un caso che durante quel consesso sia stato annunciato l’accordo con la famiglia Lowenstein per la trasformazione della Villa Medicea di Cafaggiòlo, al centro della tenuta di 385 ettari nei pressi di Barberino del Mugello. Patrimonio Unesco, progettata da Michelozzo e celebrata da Lorenzo il Magnifico si trasformerà in un resort “acchiapparicchi” con tanto di distruzione di valori ambientali, culturali e sociali. Comuni e Regione, servizievoli, si sono subito dichiarati disponibili a modificare i propri strumenti urbanistici, mentre sarà proposta anche una variante al PIT per gli impatti paesaggistici e l’aumento delle volumetrie.

Che non si venga a raccontare la favola dei posti di lavoro, perché tanto sappiamo che investimenti del genere sono ad alta intensità di capitale con basso ritorno di occupati, per lo più impiegati in forme precarie e stagionali!

Il presidente Rossi dichiara di essere soddisfatto e ricorda che «stavolta siamo riusciti a mettere d’accordo anche i comitati».

Al suo posto non sarei così sereno, vorrei ricordargli che invece esiste, per fortuna, un vasto fronte di comitati, di associazioni, di reti locali e di saperi istituzionali consapevoli del fatto che, ricordando Calvino, l’inferno dei viventi è qui e ora. Distinguere l’inferno da ciò che non è inferno è il nostro compito.

«Gli "eventi" sono come dei tappeti volanti su cui la città prende il volo. Ma per chi ha responsabilità di governo è pronta un'insidia». la Repubblica online, ed. Milano, 13 aprile 2017
Milano migliore città d'Italia nella classifica "Cities of Opportunitiy". Milano con un incremento annuale di turisti più del doppio di quello di Roma. Milano attrattiva per gli investimenti stranieri. Milano locomotiva in un Paese che arranca. Gli eventi - Salone del mobile, Tempo di libri, settimana della moda eccetera - sono un ottimo combustibile per la locomotiva, soprattutto per quella mediatica.

Il bombardamento non dà tregua e, nell'euforia, è pronto l'ologramma di una Milano da bere 2 (anzi, 2.0): un totem per nuove danze tribali di cerchie ristrette (gli addetti ai lavori e gli appassionati del genere). Intendiamoci: prendere di mira gli eventi è come sparare sulla Croce Rossa. Ogni evento è una boccata di ossigeno, comunque confortevole per un corpo in asfissia. Il problema è un altro. Nell'immaginario alimentato dai media gli "eventi" sono come dei tappeti volanti su cui la città prende il volo; da cui il sogno di alcuni: dare continuità così da passare da un tappeto all'altro in una sorta di galleggiamento sulla realtà.

Per chi ha responsabilità di governo è pronta un'insidia. La concatenazione degli eventi distrae l'attenzione dei cittadini e allenta la pressione delle aspettative sul "palazzo": si forma una cortina fumogena dietro cui il manovratore può sentirsi protetto e alla fine consegnato a un ruolo di super manager al servizio della macchina- eventi. È una trappola da cui i primi a prendere le distanze dovrebbero essere proprio gli amministratori pubblici. La concatenazione serrata di eventi è la soluzione per i problemi della metropoli milanese?

O non piuttosto un modo per nascondere sotto il tappeto (volante o meno) lo stato della cose? La realtà vede incursioni del capitale finanziario che non ha alcun interesse ad attrezzare la "locomotiva", ovvero a mettere la metropoli milanese nelle condizioni di reggere la sfida della competizione internazionale e, insieme, di affrontare la questione sociale. Questione che, più che mai, ha nella carenza di lavoro il punto centrale. Se pure non mancano segnali positivi, persiste infatti una condizione drammatica, segnata da una crisi che, per quanto riguarda le opportunità di lavoro, non passa. È in primo luogo di questo che dovrebbero preoccuparsi coloro che hanno la responsabilità della cosa pubblica. Si sa: è complicato e poco remunerativo sulla breve distanza, ma le difficoltà non possono disarmare la politica: gli amministratori non possono ridursi al ruolo di promotori del fare per il fare, lasciando al mercato ogni decisione e regolazione.

Ma c'è qualcosa di più: gli eventi hanno via via affermato uno stile che la politica ha finito per mutuare: un modo di affrontare le scelte che bada più alla ricaduta mediatica che alla sostanza. Si veda la vicenda del riuso degli scali ferroviari. La sequenza logica vorrebbe che la pubblica amministrazione indicasse gli obiettivi strategici per la città e agisse di conseguenza. Obiettivi che non possono escludere la triade coesione sociale, qualità urbana, rafforzamento delle potenzialità strutturali dell'economia. Invece Palazzo Marino si pone nella veste di chi vuole indistintamente attrarre investimenti, dove l'afflusso di capitali è giudicato positivamente in sé, a prescindere dalla ricaduta sulla città.

Accade così che, da decenni, a Milano le scelte di trasformazione urbana siano demandate ai cosiddetti operatori mentre il Comune si è ritagliato un ruolo di facilitatore che arriva fino a quello di banditore, con la spettacolarizzazione dei progetti di

trasformazione sfornati dalle archistar. Un modello di gestione che tratta i cittadini come pubblico incolto e impotente: da avvolgere con la melassa della partecipazione ma da isolare quando, come a Città Studi, mostra piena consapevolezza dei valori urbani e competenza su ciò che li minaccia. Insomma il pericolo non sono gli eventi concatenati, ma l'eventopoli: una dinamica che consegna allo spettacolo l'assalto e il disfacimento stesso della città.

«Mentre sugli scali ferroviari siamo chiamati a dilettarci fra architetture ardite, rendering trompe-l’oeil e pecorelle urbane, i termini economici dell’accordo di programma che il Comune vuole “completare entro l’estate 2017” restano alquanto oscuri». arcipelagomilano.org, 12 aprile 2017 (m.c.g.)

Mentre sugli scali ferroviari siamo chiamati a dilettarci fra architetture ardite, rendering trompe-l’oeil e pecorelle urbane, i termini economici dell’accordo di programma che il Comune vuole “completare entro l’estate 2017” restano alquanto oscuri. Una meritoria iniziativa di dibattito pubblico della Casa della Cultura del 27 marzo scorso sul tema "Il recupero degli scali ferroviari: chi ci guadagna?" ha consentito di fare qualche chiarezza sui vistosi limiti dell’Accordo di Programma: quello bocciato in Consiglio comunale nel dicembre 2015 e riproposto fin qui come base di discussione senza indicazione alcuna sul suo aggiornamento.

L’Accordo di programma del 2015 è assi diverso rispetto alle precedenti stesure del 2005 e 2007: come ha mostrato Giorgio Goggi al convegno, esso non prevede più il totale reinvestimento dei plusvalori emergenti sulla rete ferroviaria da parte di FS, mutando in maniera sostanziale la filosofia di fondo in senso privatistico. Non vogliamo qui entrare su problemi più generali, ma solo attrarre l’attenzione sui vantaggi finanziari che al Comune spetterebbero e sulle procedure che occorre riportare su binari giuridicamente corretti.

Il testo dell’Accordo non considerava che, già prima della sua sottoscrizione, avvenuta il 18 novembre 2015, da parte dei rappresentanti del Comune, della Regione e di Ferrovie, il Testo Unico in materia Edilizia era stato modificato dal cosiddetto decreto Sblocca Italia (settembre 2014), il quale aveva introdotto una innovazione di grande portata istituzionale ed economica in tema di oneri dovuti per il rilascio del permesso di costruire: un “contributo straordinario”, in aggiunta ai tradizionale oneri, da pagare in caso di varianti urbanistiche, pari ad almeno il 50% dei plusvalori generati dalla variante stessa (1).

Questa innovazione è applicabile all’Accordo di programma per gli scali ferroviari, che è stato fin dall’inizio concepito in variante alla pianificazione urbanistica comunale. La mancata considerazione dell’innovazione nel 2015 è dipesa, presumibilmente, dalla circostanza che il testo dell’Accordo era stato formato già prima del 2014 e ci si era dimenticati di adeguarlo alla novità legislativa allora intervenuta. Ma oggi non è possibile continuare a dimenticarsi di quella novità, assai rilevante per l’Accordo. In mancanza dell’Accordo di programma, per le aree degli scali ferroviari il PGT consente esclusivamente interventi di manutenzione o ampliamento di impianti strumentali all’esercizio ferroviario (art. 8, comma 4, delle norme di attuazione del documento di piano del PGT). È dunque certo che l’Accordo di programma configura una variante urbanistica e che pertanto è soggetto alla disciplina introdotta nel 2014.

Il testo dell’Accordo non fa menzione di questa disciplina, ma ne adombra suggestivamente il contenuto indicando che, oltre ai normali oneri (i famosi 50 milioni anticipati da FS), si riconoscerà al Comune il 50% su eventuali plusvalenze. Ma il testo costruisce una definizione del tutto fantasiosa e fuorviante del computo di tali plusvalenze: esse risulterebbero dalla differenza fra “i valori di cessione delle aree (…) e i valori netti contabili delle aree al momento delle cessioni delle stesse (VNC)” (art. 14.5.a dell’AdP).

Questa definizione dei valori netti contabili (cioè in sostanza del valore economico dell’intero programma di trasformazione urbana) è quella che vige nella tassazione statale dei redditi di impresa e dei capital gain, ma non ha nulla a che fare con quella che governa la tassazione locale delle trasformazioni urbane, che fa riferimento alle plusvalenze realizzate grazie alla variante rispetto alle vigenti disposizioni di piano in materia di usi del suolo e volumetrie costruibili (2).

Attraverso opportune rivalutazioni dei cespiti fondiari e immobiliari prima della loro vendita, ogni impresa potrebbe sempre azzerare le plusvalenze ai fini del contributo da pagare al Comune! Questa indicazione dell’AdP ha già fuorviato in modo sostanziale quel poco di dibattito politico sull’economia dell’Accordo (il M5S ha addirittura presentato una interrogazione parlamentare sui valori delle aree nel bilancio FS, una questione che appare invece irrilevante per il caso milanese).

A quanto corrisponderebbe l’onere per Ferrovie derivante dalla vigente legislazione sugli oneri urbanistici? Una valutazione cautelativa di larga massima – effettuata partendo dalla destinazione attuale dei suoli nel PGT di Milano e scontando tutte le previsioni di costi indicate nell’allegato finanziario dell’AdP – presentata da Gabriele Mariani alla citata conferenza della Casa della Cultura e da cui non abbiamo motivo di discostarci dopo ripetute riflessioni, indica il valore delle plusvalenze complessive realizzabili dal programma in un miliardo di euro e il conseguente pagamento al Comune in 500 milioni (da aggiungere agli oneri tradizionali). C’è all’evidenza una certa differenza rispetto ai 50 milioni promessi, per cui è lecito parlare di penalizzazione dell’interesse pubblico.

La giustificazione che l’AdP implicitamente fornisce si lega al dettato dell’art. 31.3 delle norme di attuazione del Piano delle regole, che rinvia per le destinazioni e le volumetrie delle aree ferroviarie proprio all’Accordo di programma (già a quel tempo avviato). Ma quella disposizione non muta il carattere di variante della pianificazione comunale dell’Accordo stesso, come riconosciuto in più punti dallo stesso testo dell’Accordo. L’Accordo di programma deve dunque rispettare la norma statale introdotta nel 2014 sul contributo dovuto al Comune per il plusvalore derivante dalle variazioni di piano.

Infine: nel documento del Comune di Milano del novembre 2016 sulle linee di indirizzo per rilanciare l’Accordo di programma non si fa menzione di un elemento cruciale. Il vecchio Accordo è decaduto per la sua mancata ratifica da parte del Consiglio comunale entro il termine di trenta giorni dalla sua sottoscrizione, e con tale bocciatura ha cessato di generare aspettative di automatico recepimento del PGT vigente. È ben possibile riavviarlo, facendo salve molte analisi e molti accordi (non quelli finanziari però!); ma esso avrà bisogno di avere una esplicita accettazione, ancora una volta come variante totale.

L’AdP ora in discussione è un nuovo Accordo, del tutto distinto da quello bocciato. C’è la possibilità di ripensarlo, anche interpretando le ragioni della precedente caduta: nelle volumetrie, che in una città già densa paiono eccessive, nella visione che deve aprirsi alla città metropolitana e negli obblighi delle parti. In particolare occorre chiarire entità e qualità degli investimenti di Fs sulla rete, anche considerando che una parte rilevante sarà realizzata a fronte di oneri dovuti, evitando che si addossino al programma piccoli investimenti, casuali, che Fs deve effettuare comunque per fornire un servizio adeguato (come si fa nell’AdP).

Il Comune dovrà pensare attentamente a firmare impegni penalizzanti per le sue finanze, trascurando l’innovazione introdotta nel 2014 che impone di riservare al Comune almeno la metà del plusvalore generato dalla variazione di pianificazione insita nell’Accordo di programma. Gli amministratori che non ne tenessero conto si esporrebbero a responsabilità amministrativa patrimoniale nei confronti del Comune, per aver omesso un’entrata doverosa. E l’intera procedura giuridico-urbanistica-fiscale dovrebbe essere improntata a nuovi criteri di trasparenza, data la natura pubblica di tutti i partner e la natura di beni di interesse comune che queste aree posseggono.

Politecnico di Milano e Università Statale di Milano

1) L’art. 18, comma 4, del testo unico dell’edilizia (d.P.R. 380/2001), come modificato dall’art. 17 del decreto Sblocca Italia (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. in l. 11 novembre 2014, n. 164) stabilisce che «L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni in relazione: (…) d-ter) alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso. Tale maggior valore, calcolato dall’amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest’ultima al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l’interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l’intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche.»

2) Nel caso del Comune di Roma, in cui il contributo straordinario è nato giuridicamente, le plusvalenze sono infatti computate proprio così.

Emergenza cultura online, 12 aprile 2017

Si è infine sentita la la voce del ministro che su Repubblica (6 aprile) mette anche la sua firma sotto questo articolo 68 infilato da un emendamento corsaro, in senato, seconda lettura, nel disegno di legge per la concorrenza e il mercato (per promuovere concorrenza e mercato). Appunto “per favorire la circolazione dell’arte contemporanea”, che non sembra propriamente compito del ministro per i beni culturali, “la soglia temporale per il vincolo, dice, è portata a 70 anni”. Ma il ministro non dice, forse perché non lo ha inteso, che quel limite dall’arte contemporanea è stato esteso per trascinamento, ben oltre il fine, a ogni specie di beni del cui interesse culturale si possa discutere, beni immobili compresi, ben fermi lì dove stanno.

E garantisce che l’art. 68 “è frutto del lavoro di parlamento, governo e associazioni”, non certo quelle per la tutela che dovrebbe sentire più vicine, ma il gruppo di interesse formato dai mercanti d’arte all’insegna, come si è letto, di “Apollo 2”, assistiti da professionalità di eccellenza che, non smentita, si è presa il merito di aver dettato testualmente la nuova disciplina Parla di governo, il ministro, non specificamente del suo mibact, al quale si addicono modi di iniziativa del tutto diversi per promuovere la riforma di ben nove ed essenziali articoli del codice dei beni culturali. E nella stesura di questo articolo 68, che mal si armonizza nel testo del disegno di legge, si stenta francamente a riconoscere il contributo del ministero per i beni culturali, mentre integralmente risultano soddisfatte le rivendicazioni tradizionali della lobby degli antiquari, anche al costo di cancellare un principio generale fermissimo fin dalla legge Rosadi, quello per cui sono sufficienti cinquant’anni dalla esecuzione del bene perché possa essere espressa una valutazione critica sicura sul suo interesse culturale.

E’ vero che questo principio aveva subito una singolare eccezione nel 2011, con il dichiarato proposito di “riconoscere massima attuazione al federalismo demaniale” e così spostare a ritroso fino a settant’anni lo spazio temporale di libera disponibilità al trasferimento dei beni immobili dello stato ai comuni, fuori da ogni controllo della istituzione di tutela. La modifica al codice dei beni culturali andò oltre questo dichiarato fine e introdusse la nuova regola per tutti i beni immobili appartenenti non solo agli enti pubblici, ma pure a quelli ad essi assimilati dall’art.10 comma 1 del codice, enti ecclesiastici e persone giuridiche private, le fondazioni innanzitutto, senza fine di lucro. Uno strappo nel tessuto coerente e compatto della tutela che certo, per la irragionevole disparità di trattamento (in ragione della natura del bene, mobile e immobile, e per la titolarità proprietaria), si espone a rilievi di legittimità costituzionale. Un rischio che si è voluto evitare nella disciplina dei controlli all’esportazione – uscita dei beni culturali e quindi ne è risultato elevato generalmente alla soglia dei settant’anni, per beni immobili e mobili, di appartenenza pubblica e privata, il tempo per così dire di attesa. E così si pensa di aver messo al sicuro da ogni dubbio di costituzionalità anche lo sgarro del federalismo demaniale. Ma è un colpo grave alla consistenza stessa del patrimonio storico artistico della nazione, una ulteriore amputazione per corrispondere alle rivendicazioni del mercato antiquariale.

Nell’elenco dei “tipi” di bene culturale dell’art.10, comma 2, del “codice” l’art.68 introduce una singolare nuova categoria di beni – lettera d-bis – in ragione dell’interesse “eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione” che in quell’elenco non trova una autonoma obbiettiva caratterizzazione intrinseca, riflettendo soltanto il grado elevato dell’interesse culturale richiesto, particolarmente importante per i beni di appartenenza privata (tributo al terribile diritto di proprietà privata), mentre un non qualificato interesse è requisito sufficiente per la tutela del bene pubblico. E’ il consecutivo comma 5 che dà ragione di questa nuova anomala categoria di beni per i quali, siano mobili o immobili, di appartenenza pubblica o privata, vale la più breve soglia temporale dei cinquant’anni. Insomma è il recupero estremo ed eccezionale dello spazio di tempo, prospettiva a ritroso, cui da oltre un secolo si è fatto costante e generale riferimento per il riconoscimento del bene culturale. Ma a ben vedere è la spia di irragionevolezza della discriminazione e dello stesso allungamento dei tempi a settant’anni. Il diverso grado dell’interesse (particolarmente importante, eccezionale) non può dare giusto motivo alla diversa disciplina dei tempi di riconoscimento e il più breve termine, solo eccezionalmente ammesso, sufficiente per consentire l’apprezzamento al riguardo, non può non valere generalmente per il riconoscimento del bene culturale. Questione di legittimità costituzionale non certo infondata. Ma la ragione della invenzione di questa nuova categoria di beni culturali si deve esclusivamente trovare nella copertura alla innovazione della disciplina dell’esportazione tutta orientata alla facilitazione della circolazione dei beni che costituiscono l’oggetto del mercato dell’arte. Su questa nuova categoria si fonda il dispositivo, in realtà meramente virtuale, che dovrebbe contenere gli effetti estremi dell’ampia apertura all’esportazione, essendo dato al soprintendente il potere di negare l’autorizzazione pur nel difetto del requisito del minimo valore o del mancato raggiungimento della soglia dei settanta anni (sempre che sia stata superata quella dei cinquanta) se avrà rilevato nello specifico bene a lui presentato per il vaglio all’uscita quell’eccezionale interesse. Ma non basta il suo giudizio per fermarlo, perché, deviazione dall’ordine normale delle competenze, la questione sarà decisa dal “competente organo centrale del ministero” (il direttore generale deve intendersi). Procedimento anomalo e attardante che scoraggia l’esercizio della eccezionale facoltà.

Nella modifica dell’art. 63 del “codice” sta il cuore di questa obliqua riforma e la fonte della sua ispirazione. L’art.63 ha origine, come è ben noto, in una lontana disposizione del t. u. delle leggi di pubblica sicurezza (1931) sul commercio dell’usato, che fu ripresa in funzione dell’esercizio della tutela nel testo unico del 1999 in materia di beni culturali e ambientali. Si vuole dunque oggi che già nella bottega dell’antiquario si formi e si consolidi la qualificazione degli oggetti del suo commercio, secondo due distinti elenchi (del registro tenuto in formato elettronico), quello dei beni che, se se ne volesse programmare l’esportazione, dovranno essere presentati al soprintendente; e quello dei beni che ne sono invece esenti secondo un attestato rilasciato in modalità informatica (dallo stesso soprintendente deve intendersi). Ed è poi il consecutivo art. 65 contestualmente modificato che fissa la disciplina della esenzione. Certo, al soprintendente è data la facoltà di richiedere la presentazione del bene incluso nell’elenco (da lui consultabile, dice l’articolo, in tempo reale) dei beni esenti , ma dovrà sbrigarsi perché l’elenco riguarda le vendite e dunque il bene già è passato nella disponibilità dell’acquirente che è fornito dell’attestato rilasciato in modalità informatica e, se è questa la sua intenzione, lo potrà liberamente esportare.

Insomma un sistema di massima garanzia per l’antiquario e per il suo acquirente, cui corrisponde per contrappasso un debolissimo presidio della tutela, valendo paradossalmente il sistema informatico di libero accesso al registro come presunzione di conoscenza da parte del soprintendente, i cui uffici, specie dopo la recente riforma dell’organizzazione, stanno in drammatico affanno. L’art.65 riformato ci dice infine quali beni debbono essere iscritti nell’elenco dei beni esenti, che sono quelli “il cui valore sia inferiore ad euro 13.500” e considera l’ipotesi di uscita definitiva del bene a richiesta del possessore che, deve intendersi, non sia già fornito dell’attestato rilasciato in via informatica se lo ha acquistato dall’antiquario e il soprintendente non abbia allora richiesto la fisica presentazione. La facoltà per il soprintendente di richiedere la presentazione del bene non sembra neppure contemplata se è il possessore ad accedere all’ufficio di esportazione con la istanza di esenzione dalla autorizzazione, perché l’onere di provare che il bene rientra “nelle ipotesi per le quali non è prevista l’autorizzazione” è adempiuto attraverso l’autocertificazione, “ai sensi del testo unico di cui al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445”, che ha valore di prova fino a querela di falso, il soprintendente la deve assumere come fondata e solo se avrà individuato in quel bene l’interesse “eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della nazione” potrà avviare il procedimento di dichiarazione che si concluderà, come già si è dato atto, entro sessanta giorni “con decreto del competente organo del ministero”. Non è neppure il caso qui di insistere sull’assurdo parametro del valore commerciale in funzione del riconoscimento dell’interesse culturale (in linea di granitico principio mai condizionato dall’apprezzamento economico) quando in ogni caso del tutto arbitraria è la determinazione del limite convenzionalmente assunto. Ma il valore commerciale non è certo un dato obbiettivamente misurabile e stabile, affidato come è all’imponderabile umore del mercato e dunque è espressione di un apprezzamento soggettivo che, come tale, non può razionalmente costituire (così per altro la stessa indicazione del tempo di esecuzione dell’opera, spesso opinabile) oggetto della formale certificazione presidiata dalla presunzione legale di verità.

Ben sappiamo che la inconsulta riforma di organizzazione della trama diffusa della tutela con l’accorpamento delle soprintendenze e la creazione dei poli museali (destinazione preferita dei funzionari storici dell’arte) ha messo in grave crisi l’esercizio della funzione di “dogana” e converrà allora, recondita consapevolezza, formalizzare con questo articolo 68 dello statuto di mercato e concorrenza la resa definitiva alla vivacità del mercato.

la Repubblica online, blog "Articolo 9".6 aprile 2017

La Grecia aveva detto no. No ai 56 milioni offerti da Gucci per sfilare sul Partenone. Il perché l'aveva spiegato bene un poeta greco, Pantelis Boukalas:

«Il Partenone è parte del patrimonio culturale dell’umanità non solo perché è bello, ma perché è un luminoso simbolo di democrazia. L’ultimo tentativo di umiliarlo è stata una richiesta della casa di moda Gucci di tenere una sfilata di moda sull’Acropoli, usandolo come sfondo. L’argomento a favore sarebbe che ciò promuoverebbe la libertà dell’espressione artistica e l’innovazione creativa. Questa artificiosa giustificazione non riesce a spiegare perché la libertà artistica dovrebbe passare attraverso la sottomissione di uno dei più grandi simboli dell’umanità a interessi commerciali. Il valore simbolico del Partenone è stato minacciato anche quando è stato recentemente chiuso al pubblico in occasione della visita del presidente americano Barack Obama, ma il danno sarebbe esponenzialmente più grande se il monumento fosse usato come fondale di un evento commerciale. L’argomento che esso beneficerebbe dell’enorme compenso o della pubblicità dell’evento è solo il travestimento di un cinismo abbietto».

Ora Gucci ha vinto: giocando in casa, cioè a Firenze. E ha risparmiato 54 milioni: per due milioncini tondi la sfilata rifiutata da Atene si farà nelle sale della Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Cioè nel museo più sputtanato d'Italia, tra addii al celibato di milionari, prestiti imposti dalla politica, mostre di stilisti.

«Sputtanato»: questa è la parola giusta. Perché è chiaro che non si tratta di un progetto culturale, ma di prostituzione. Durante la conferenza stampa fiorentina il ceo di Gucci ha chiarito come stanno le cose, ironizzando in modo sciacallesco sul disastro della Grecia: «Evidentemente il bilancio greco è più solido di quello italiano...». Dunque, ecco come stanno le cose: prostituzione per povertà.

E ci volevano un direttore tedesco e un consiglio scientifico muto come una sfinge per raggiungere questo mirabile risultato.

Infine, l'immancabile benedizione del ministro Dario Franceschini: «anche la moda è parte del patrimonio culturale e della storia del nostro Paese dove il gusto, l'eleganza e l'educazione al bello fanno parte del nostro quotidiano. Il legame tra moda e arte è sempre stato molto stretto e ha spesso favorito occasioni di incontro suggestive e uniche. Come avviene oggi con un marchio prestigioso dello stile italiano che decide di investire in modo significativo su una grande istituzione culturale nel pieno rispetto della sua missione ... Ritengo molto positivo che queste due eccellenze, parti integranti della cultura e della creatività, stiano dialogando con sempre maggior coraggio».

Ciascuna delle affermazioni di questo vaniloquio, semicolto e in malafede, si può smontare e rovesciare nel suo contrario. L'educazione al bello è sempre stata congiunta all'educazione al giusto: qua siamo di fronte a grandi multinazionali che usano i beni comuni come location per vendere meglio i loro prodotti. Proprio i luoghi che ci dovrebbero liberare dal dominio incondizionato del mercato vengono sottomessi ed umiliati. E non è vero che la moda fa parte del patrimonio culturale come i musei: sono cose del tutto diverse. E la principale differenza sta nel vaglio del tempo: la Galleria Palatina accoglie opere che hanno superato un giudizio plurisecolare. Che senso ha metterle sullo stesso piano dell'ultimo modello di Gucci?

È una sorta di autoglorificazione del presente, che si arrampica sulle spalle del passato: autopromozione a buon mercato, attraverso un falso storico. E se a Pitti troviamo gli stessi abiti che popolano le vetrine delle strade che abbiamo percorso per raggiungere il museo, che cosa abbiamo fatto? In gioco non c’è la dignità dell’arte, ma la nostra capacità di cambiare il mondo. Il patrimonio culturale è una finestra attraverso la quale possiamo capire che è esistito un passato diverso, e che dunque sarà possibile anche un futuro diverso. Ma se lo trasformiamo nell’ennesimo specchio in cui far riflettere il nostro presente ridotto a un’unica dimensione, quella economica, abbiamo fatto ammalare la medicina, abbiamo avvelenato l’antidoto. E quale «dialogo» ci potrà mai essere tra i vestiti di Gucci e le pale d'altare di Andrea del Sarto, o le Madonne di Raffaello?

La Grecia ha un bilancio messo peggio del nostro. Ma noi abbiamo perso la dignità, grazie ad una classe politica abissale e a un ceto di intellettuali servile fino al grottesco. E ora anche grazie al patrimonio culturale più sputtanato del mondo.

la Repubblica, 5 aprile 2017

I detrattori lo chiamano “Svendiarte”. I fautori, al ministero dei Beni culturali, parlano di “facilitazione”. Ora, alla Camera, all’interno della Legge 2085 per il mercato e la concorrenza – su cui è stata posta la fiducia – si vota anche per il fantomatico articolo 68: che riguarda la circolazione internazionale delle opere d’arte. La soglia temporale perché un bene possa essere dichiarato culturale passa dai cinquanta ai settanta anni (come era già per i beni immobili pubblici). Si introduce poi un tetto di valore economico: 13.500 mila euro. Opere del valore uguale o inferiore potranno essere esportate dall’Italia senza autorizzazione, anche se realizzate più di settant’anni fa da un autore scomparso. Nascerà un registro informatico e un passaporto per favorire la circolazione. Da cui restano esclusi, però, reperti archeologici o provenienti da monumenti smembrati, così come i manoscritti o i testi a stampa più antichi
Tutto bene così? No, perché basterà una semplice autocertificazione con cui il proprietario potrà dimostrare di rispettare i parametri per portare i suoi beni oltre confine. Ed è su questo punto più fragile che i nemici della nuova normativa danno battaglia. Italia Nostra ha lanciato un appello e inviato una lettera al presidente della Repubblica, chiedendo lo stralcio dell’articolo 68. «È una legge fatta apposta per il mercato dell’arte. A perderci sono lo Stato e il nostro patrimonio – dicono dall’associazione – Significa mettere su piazza i tesori artistici del Novecento, regalandoli ai mercanti internazionali».

Nel mirino c’è anche il gruppo di interesse Apollo 2, che rappresenta case d’asta, antiquari e galleristi e che avrebbe ispirato la norma. Dal ministero smentiscono: «Con Apollo 2 abbiamo dialogato come con tante realtà, ma gli antiquari sperano da anni nella liberalizzazione del mercato
tourt court e chiedono la libera circolazione di opere antiche anche di duecento anni. Tutto ciò che è bene vincolato non potrà mai uscire dallo Stato. Un’opera di Lucio Fontana del 1961, quindi realizzata meno di settant’anni fa, sarà bloccata lo stesso per il suo interesse culturale: ci sarà una norma di salvaguardia. Con questo provvedimento snelliamo le procedure: oggi per portare all’estero una collezione di Oscar Mondadori storici ci si deve rivolgere alle autorità. Si arriva ad eccessi assurdi»
Ma non è rischioso affidare tutto a un’autocertificazione, permettendo che opere denunciate a un valore basso possano essere rivendute all’estero a prezzi clamorosi? Al Mibact c’è chi dice che la nuova legge scontenta i funzionari che prima avevano il potere di decidere sulle esportazioni: «C’è un giro molto intrecciato di interessi – dice una fonte che vuole rimanere anonima – anche di quelli che fanno l’expertise delle opere. Alcuni soggetti saranno costretti a prendere meno decisioni. Ci sarà comunque chi vigilerà. La norma non è mai pericolosa, semmai sono gli individui che devono applicarla bene. La legge favorirà il mercato? Tra i parametri europei di valore delle opere è stato scelto quello più basso: la soglia di 13.500 euro ». In Francia, in effetti, si possono esportare opere che valgono fino a 150mila euro; in Germania il tetto è di 300mila per beni da esportare all’interno dell’Unione Europea e 150mila per quelli extra Ue. «Ma se adottassimo anche noi la soglia di 150mila euro, come pure qualcuno vorrebbe fare, dal nostro Paese uscirebbe di tutto – spiega il presidente di Italia Nostra Marco Parini – Non possiamo paragonarci a un altro Stato: nessuno può vantare lo stesso patrimonio. Eppure oggi i beni culturali vengono ridotti a merce. Un articolo che li disciplina è stato discusso all’interno della Commissione Industria, non in quella Cultura, tra provvedimenti pensati per i taxi. Si favorisce l’aspetto mercantile».
Qualcuno, in verità, applaude. «Sì, una norma del genere può dare una piccola mano al mercato che ha vissuto un’annata non delle migliori – precisa Mauro Stefanini, presidente dell’Associazione nazionale gallerie d’arte moderna e contemporanea – Permettere a un’opera che ha meno di settant’anni di uscire dall’Italia significa promuovere la conoscenza dell’arte contemporanea all’estero. Alzare le barricate è assurdo. Con una soglia di 13.500 euro dire che il patrimonio è tutelato è dire poco».
Chi conosce bene il mercato del contemporaneo sa però che un provvedimento del genere non può incidere più di tanto: «Tredicimila euro? È la cifra che può valere un capolavoro tutto da scoprire. Il mercato dell’arte in Italia è frenato dalla burocrazia – spiega Alessandro Rabottini, direttore della fiera Miart, che ha appena chiuso la sua ventiduesima edizione – Si tende a proteggere il nostro patrimonio, ma poi i musei italiani non sono messi in condizione di fare nuove acquisizioni per mancanza di budget. E i collezionisti non dialogano con le nostre istituzioni: non cedono opere in comodato d’uso perché non possono usufruire di seri sgravi fiscali. In Italia manca ancora un sistema virtuoso dell’arte». E forse anche un tavolo lungo abbastanza per far accomodare tutti i soggetti che dovrebbero tentare di costruirlo.

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