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Soru: «Doveva essere un regalo a qualche amico» Sanna: «Davano il via alla cementificazione»

CAGLIARI. Il dibattito di ieri in consiglio regionale ha riacceso l’attenzione sulle coste e sul tipo di lottizzazioni possibili, con forti divisioni all’interno della maggioranza, come annunciato anche nel sito di Paolo Maninchedda (Psd’az, presidente della commissione Bilancio). Alla fine ieri sera l’assemblea, a voto segreto, ha bocciato l’intero provvedimento. Uno schiaffo potente per un piano che Renato Soru aveva detto essere un «regalo» a qualche amico. «Se non fosse stato respinto - spiega Gian Valerio Sanna (Pd), già assessore regionale all’Urbanistica e agli enti locali - questo piano avrebbe resuscitato tutta una serie di interventi edilizi sulle coste. E mi riferisco a Costa Turchese per il nord Sardegna e a Cala Giunco (la lottizzazione che fa capo a Sergio Zuncheddu, editore de L’Unione Sarda e di Videolina - ndr): le modifiche inserite in queste nuove norme avrebbero rimosso il vincolo paesaggistico legato alle opere di urbanizzazione. Sarebbero potute rientrare in gioco anche vecchie ipotesi come quella dei Benetton su Teulada e di Ligresti presso Villasimius». Il provvedimento, sottolinea Mario Bruno, capo gruppo del Pd, «non rappresentava gli interessi dei sardi ma andava incontro solo a esigenze speculative di pochi».

L’attenzione era rivolta in particolare verso il comma 18 dell’articolo 1 delle proposte, che avrebbe eliminato il limite posto dalla norma precedente alle lottizzazioni sulle coste. Questa infatti permette di realizzare gli interventi edilizi nei Comuni ancora privi di Puc solo nel caso di lottizzazioni approvate e convenzionate prima dell’approvazione del piano paesaggistico regionale (Ppr), ma a patto che avessero avviato le relative opere di urbanizzazione. Il comma «incriminato», se fosse passato, avrebbe cassato il vincolo cronologico legato all’approvazione del Ppr. In questo quadro anche Cala Giunco, ottantunomila metri cubi da realizzare nella zona tra lo stagno di Notteri e Porto Giunco, sarebbe tornata d’attualità dopo il «no» ricevuto recentemente dal Consiglio di Stato. «Uno dei motivi di questa sentenza - sottolinea Stefano Deliperi, responsabile del Gruppo di intervento giuridico - è proprio la mancanza di urbanizzazione. Mentre il comma 18 avrebbe riaperto il discorso. Anche se, a mio parere, sarebbe stata una norma impugnabile in quanto in contrasto col Codice Urbani in rapporto ai vincoli paesaggistici. E l’avremmo subito impugnato».

Secondo il presidente regionale di Legambiente Vincenzo Tiana, «il paradosso di queste modifiche al cossidetto "piano casa" è che sono state presentate perchè in campo nazionale si è fatto osservare che vi erano aspetti in contrasto con le norme paesaggistiche. Invece proprio queste sarebbero state peggiorate». Claudia Zuncheddu (La Sinistra, Rossomori) sottolinea il pericolo scampato e parla di «grosse lobby che altrimenti sarebbero riandate alla carica delle coste con vecchi e nuovi progetti turistici». Lo stesso timore anche da parte di Massimo Zedda (La Sinistra) che giudica «questo provvedimento un tentativo di appoggio ai grossi gruppi edilizi che hanno interessi aperti sulla costa».

Scontro (ennesimo) tra Letizia Moratti e Roberto Formigoni sull’Expo. Tema (cruciale): il destino dei terreni su cui avverrà l’esposizione universale del 2015. Il sindaco di Milano li vuole in comodato d’uso a un prezzo simbolico, il presidente della Regione li vuole comprare. Che senso ha questa nuova contesa, che divampa mentre se ne va, sconfitto, l’amministratore delegato di Expo Spa Lucio Stanca e arriva, come direttore generale, il manager Giuseppe Sala?

La vicenda delle aree inizia nel 2007, quando vengono scelti per l’esposizione i terreni a nord di Milano incastrati tra l’autostrada per Torino e quella dei Laghi, nei Comuni di Pero e Baranzate. Un postaccio, dove nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di costruire niente. Ma la bacchetta magica dell’Expo può fare miracoli: portare strade e linee di metrò, zone verdi e corsi d’acqua. Insomma, valorizzare quelle aree agricole e renderle appetibili.

Di chi sono, quei terreni? Al 70 per cento della Fiera di Milano, controllata dalla Regione e tradizionale feudo degli uomini di Comunione e liberazione. Al 30 per cento del gruppo Cabassi. Nel 2007, il piano (esplicitato dal contratto firmato allora dal Comune di Milano, dalla Fiera e da Cabassi) era di dare le aree in concessione alla società Expo per sette anni (2010-2017), al termine dei quali Fiera e Cabassi se le sarebbero riprese, trovando la gradita sorpresa di poterci costruire sopra: 600 mila metri quadri secondo il contratto, gonfiabili fino a 1 milione di metri quadri secondo una clausoletta ("zona di trasformazione speciale") inserita nel nuovo Piano di governo del territorio in approvazione a Milano.

Era un piano perfetto: da una parte Comune e Regione non avrebbero speso un euro per le aree, dall’altra i proprietari avrebbero fatto bingo. Soprattutto la Fondazione Fiera, pesantemente in rosso, avrebbe risolto tutti i suoi problemi, per la gioia di Formigoni e di Cl. Ma il piano è saltato. La crisi, infatti, ha prosciugato i soldi pubblici che dovevano arrivare all’Expo e ha reso incerti gli investimenti immobiliari: perché costruire, con il rischio di non riuscire a vendere? Letizia Moratti ha allora accettato di presentare un "concept plan" leggero, progettato dall’architetto Stefano Boeri con Richard Burdett, Jacques Herzog, William Mc Donough e Joan Busquets. Un grande parco botanico planetario, con le coltivazioni, le serre, le biodiversità, i climi del mondo e le loro tipicità alimentari.

A questo punto, Formigoni non ci sta. Vuole riprendere in mano la guida dell’operazione. Vuole acquistare le aree. Con una mano paga (quella della Regione Lombardia), con l’altra incassa (quella della Fondazione Fiera). Quelle aree agricole, non edificabili, oggi valgono poco o niente. La Regione sarebbe disponibile a pagarle ben oltre il loro valore attuale (i proprietari chiedono almeno 200 milioni, Formigoni ne propone 160). Poi, dopo l’Expo, il grande parco che dovrebbe restare come regalo alla metropoli meno verde d’Europa sarebbe almeno in parte edificato. Un bel quartiere residenziale, che renderebbe la Fondazione Fiera un soddisfatto e ricco operatore immobiliare. Quanto al tema dell’Expo 2015, "Nutrire il pianeta, energia per la vita", resterebbe un buon proposito, ma a nutrirsi sarebbero i soliti noti.

Neanche gli stadi dei Mondiali forse c’erano riusciti: il nuovo porto turistico di Imperia, fortissimamente voluto da Claudio Scajola, sarebbe costato cinque volte più del previsto. È scritto nel documento della Commissione di Vigilanza e Collaudo finito alla Procura di Imperia. “È necessario – scrivono i tecnici – osservare che l’ultimo certificato di pagamento emesso stima in 145,8 milioni il costo delle opere marittime, valore assolutamente non congruo rispetto al progetto approvato, il cui costo in fase di progettazione era stato stimato in maniera considerevolmente inferiore (29,3 milioni)”.

La colata di cemento

I riflettori si accendono ancora una volta su quest’opera faraonica: 1.440 posti barca più 117 appartamenti. Il tutto realizzato dall’Acquamare di Francesco Bellavista Caltagirone (non indagato), noto anche per aver partecipato alla cordata Alitalia sponsorizzata dal Governo. L’Acquamare a sua volta detiene il 33 per cento della società Porto di Imperia spa. Un altro terzo è del Comune di Imperia. L’ultima fetta è in mano a imprenditori locali tra cui risultava anche Pietro Isnardi, consuocero di Alessandro Scajola, fratello dell’ex ministro, ma soprattutto suocero di Marco Scajola, fino a pochi mesi fa vicesindaco della città.

Il nuovo scalo è forse la più grande colata di cemento in una Liguria dove i porticcioli – benedetti da centrodestra e centrosinistra – sono stati il cavallo di Troia per milioni di metri cubi di costruzioni. Proprio quel porto di cui Angelo Balducci era stato nominato commissario. E la presenza nella Riviera dei Fiori di uno dei protagonisti delle indagini sulla Cricca sta attirando sul progetto l’attenzione delle procure. Non soltanto di quella imperiese. Gli investigatori stanno valutando molti elementi, “come il mancato svolgimento di gare di evidenza europea”.

Caltagirone, Scajola e Fiorani

Ma il mega-porto, perfino nella Liguria scajolizzata, aveva suscitato perplessità già prima che arrivasse il cemento. Così qualcuno ricorda quel volo in elicottero compiuto nel 2003 per visionare dall’alto le opere. A bordo, oltre a Bellavista Caltagirone, c’erano Scajola e Gianpiero Fiorani che nel cemento ligure sognava di investire cento milioni. L’episodio, nonostante le inchieste sulle scalate bancarie dell’estate 2005 (Francesco Bellavista Caltagirone partecipò all’operazione Antonveneta attraverso Hopa, ma non fu indagato), fu presto dimenticato. Nel 2006 ecco il taglio del nastro dei cantieri, presenti Scajola e il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando. Soltanto la Cgil, guidata allora da Claudio Porchia, tentò di sollevare la questione. Scajola replicò: “Caro Porchia, non sei il sindaco di Imperia, sei il capo di un gruppo parassitario che non conta un tubo e non prende un voto”. L’ex ministro si beccò una querela, ma invocò l’immunità parlamentare. Le ruspe andarono avanti, nonostante un’inchiesta per le variazioni in corso d’opera (ammesse dagli stessi costruttori) per un enorme capannone portuale. Una situazione paradossale: per autorizzare la costruzione era necessaria una variante dello stesso comune che è proprietario di un terzo della società. Per non dire dell’ipotesi di una condanna: il Comune rischiava di pagare, attraverso la società, una sanzione a se stesso. Alla fine, però, è giunta la contestata richiesta di archiviazione. Basta? Neanche per sogno, perché qui si affaccia Balducci. All’inizio del 2008 gli enti pubblici dovevano nominare la Commissione incaricata di verificare la conformità del porticciolo alla concessione demaniale. Bisognava esaminare le opere a mare realizzate, ma soprattutto andavano stabiliti gli oneri che il concessionario doveva pagare allo Stato. Una verifica amministrativa, ma anche contabile, su cui puntavano gli occhi Bellavista Caltagirone e Beatrice Cozzi Parodi (sua compagna e socia, soprannominata “Nostra Signora dei porticcioli”). La prassi, in questi casi, è che si scelga un membro dell’amministrazione. Invece venne designato anche Balducci. Chi lo scelse? Tutti puntano il dito sull’allora sindaco di Imperia, Luigi Sappa (Pdl), vicino a Scajola (è stato poi scelto dal Pdl come presidente della Provincia di Imperia). Balducci venne nominato presidente della Commissione, ma dopo un paio di mesi si dimise.

Intanto i lavori procedevano: nel 2009 ecco l’inaugurazione del molo lungo, presenti Scajola e Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset. Adesso, però, l’ultima tegola: il parere dei tecnici della Regione Liguria. Che non usano mezzi termini: “Il concessionario non ci ha fornito la documentazione necessaria per svolgere pienamente i propri compiti… nonostante richieste in tal senso siano state espresse e reiterate più volte”. E il documento conclude: “La Commissione ritiene che il comportamento del concessionario costituisca una violazione degli obblighi previsti”. La Commissione così sospende la propria attività chiedendo alle autorità di “valutare l’opportunità di procedere all’avvio del procedimento di decadenza della concessione”. Firmato: ingegner Roberto Boni, il tecnico indicato dalla Giunta Burlando che negli ultimi anni ha mostrato cautele sul progetto.

La concessione e le accuse

Il ritiro della concessione sarebbe un terremoto. La Porto di Imperia Spa replica alle accuse:“Le osservazioni sono incongruenti e fuorvianti, nonché destituite di fondamento. Abbiamo sempre fornito tutte le informazioni utili, l’assistenza necessaria e la massima disponibilità per i controlli a cui la Commissione è tenuta per legge”. E i costi cresciuti di 110 milioni? “L’aumento è dovuto a una maggiore qualità, bellezza e durata dell’opera. La spesa resta a carico della Acquamare, gli enti pubblici non pagheranno un euro”. Tutti tranquilli? Niente affatto. Giuseppe Zagarella e Paolo Verda, consiglieri comunali del Pd, da anni si oppongono al porticciolo: “Adesso devono essere fornite alla Commissione tutte le carte richieste sulle spese sostenute e la loro fatturazione. La società cui sono rivolte le fatture è partecipata dal Comune. Abbiamo paura che un terzo dei costi aggiuntivi, cioè quasi 40 milioni, possano essere a carico dei cittadini”. Anche di questo si occuperà la Procura.

Più volte proposto, altrettante volte ricacciato indietro, subissato dalle proteste di tutte le associazioni che tutelano il patrimonio artistico, torna l’archeocondono, la norma che depenalizza il possesso illecito di un bene archeologico in cambio di una modesta multa. Al momento circolano almeno due bozze di un articolo diviso in 11 commi intitolato «Disposizioni in materia di emersione e catalogazione di beni archeologici, nonché revisione delle sanzioni penali», entrambe maturate in ambienti parlamentari del Pdl. Modifiche sono ancora possibili, ma un punto in comune le varie versioni dell’articolo ce l’hanno: finire dentro la manovra finanziaria (all’interno del maxi emendamento con le modifiche che il governo presenterà) e giungere in porto blindate e sicure. In sostanza chiunque detenga un reperto mai denunciato, in Italia o all’estero, e dunque in violazione della legge, può ottenere dallo Stato una «concessione in deposito» della durata di trent’anni, rinnovabili, e può anche trasferirlo in eredità. Il tutto dichiarando il possesso e pagando una somma che si aggira intorno a un terzo del valore di quel bene.


Non è la prima volta, dunque, che si attenta a uno dei pilastri della tutela in Italia, introdotto dalla legge del 1909 e poi sempre confermato, quello per cui solo lo Stato può fare o autorizzare scavi e tutto ciò che viene rinvenuto è di sua proprietà. Qualcosa di diverso c’è, però, fra queste proposte di sanatoria e le precedenti. In quelle era previsto che si diventasse proprietari del bene. Stavolta si parla di un deposito (anche se non viene esplicitamente vietata la vendita). E poi più alta è la multa: nel 2004 si tentò di far passare un emendamento alla Finanziaria, firmato da Gabriella Carlucci e da altri suoi colleghi, che fissava il pagamento al 5 per cento del valore. Adesso, inoltre, si aggiunge che la Soprintendenza può contestare la valutazione fatta e chiedere un’integrazione.
Ma la sostanza è chiara, stavolta come allora. Il fine, dichiarano i proponenti, è quello di far emergere un patrimonio sommerso e di consentirne la catalogazione. Eppure il punto cruciale è un altro: in cambio di pochi spiccioli, che poco ristoro potrebbero portare al bilancio dello Stato e persino alle esangui casse dei Beni culturali, tutti quelli che possedevano al 31 dicembre 2009 un bucchero etrusco o un’anfora greca, recuperati chissà come, non saranno più punibili.
Anche se hanno violato l’articolo 712 del codice penale, che persegue chi ha acquistato oggetti di dubbia provenienza.

«Ottime notizie per tombaroli, depredatori e trafficanti di antichità, collezionisti finti e mercanti disonesti», scrisse su queste pagine Salvatore Settis quando venne presentato l’emendamento Carlucci. 
«Dopo aver mortificato il settore dei beni culturali in ogni modo e aver messo sul lastrico la cultura italiana, ora il ministro tenta di far cassa, letteralmente raschiando il barile», sostiene l’ex ministro Giovanna Melandri. E conclude: «Come dice un vecchio proverbio: al peggio non c’è mai fine».

«Il Parco Sud non è un totem» e il sacrilegio è la sua contemplazione: «Gli atteggiamenti ideologici impediscono i necessari adeguamenti». Il presidente della Provincia, Guido Podestà, mette al bando i «pregiudizi» e sul tavolo i progetti: strade, piste ciclabili, magari scuole, cascine da ristrutturare o ampliare, sicuramente «la prosecuzione della tangenziale esterna Est con il completamento dell’anello esterno» della gemella Ovest, la bretella mancante, «un’infrastruttura indispensabile». Podestà illustra la road map all’assemblea di Assimprendil, da presidente del consiglio direttivo del Parco, precisa che il Comune «ha le sue prerogative» nella stesura del nuovo Piano di governo del territorio, ma lancia un messaggio e sembra rassicurare i costruttori: «Insediamo una commissione per riflettere su un’esperienza che ha vent’anni». Un annuncio che preoccupa gli ambientalisti: «Podestà dà picconate al Pgt. Salvaguardiamo il nostro monumento all’agricoltura». Così Matteo Mauri, capogruppo provinciale Pd: «Il Parco Sud è un polmone verde il cui pregio e la cui bellezza vanno tutelati dall’edificazione indiscriminata».

È un’area di 47 mila ettari, nei confini di 61 Comuni, ingloba abbazie, castelli e casali. Nel 1990, l’atto fondativo. Ieri, la svolta programmatica. Il Parco Sud, sostiene Podestà (rinominato ieri anche presidente della Permanente), «dev’essere interpretato dal punto di vista della valorizzazione del verde, della destinazione agricola, ma dev’essere più penetrabile e fruibile da parte dei cittadini. Certi adeguamenti sono possibili senza tradirne la natura, anzi investendo per confermarla». Linee guida: «Consumare meno territorio possibile», «riutilizzare le aree dismesse», «evitare posizioni preconcette». Il presidente della Provincia lo ribadisce anche a proposito del nuovo termovalorizzatore: meglio fuori dal Parco, alla periferia Sud-Est. Detto questo: meglio farlo.

«Podestà apre al cemento e difende gli interessi immobiliari», attacca Damiano Di Simine, presidente di Legambiente: «Il Parco non sarà un totem, ma staremo a vigilare perché non venga abbattuto: il progetto della nuova tangenziale Ovest, ad esempio, massacrerebbe il pezzo di Pianura padana più bello della Provincia». Marco Parini, neopresidente di Italia Nostra, chiederà presto un incontro a Podestà: «Il Parco Sud può essere fonte di rilancio economico e turistico per i Comuni, ma ne va conservata la vocazione agricola e il valore paesistico. Apriamo il confronto ed evitiamo danni».

Marco Magnifico è il vicepresidente esecutivo del Fai: «Siamo tutti preoccupati. Io, la signora Giulia Maria Mozzoni Crespi, la presidente Ilaria Buitoni Borletti. Solo dieci giorni fa Podestà aveva assicurato: "Il Parco rimarrà intonso". Ora, queste curiose dichiarazioni: il presidente della Provincia sembra aver cambiato idea dopo le esternazioni di qualche immobiliarista. Ci auguriamo che torni sui suoi passi: il Parco agricolo è una risorsa da preservare».

Dal Borromini ai suini. Dai suini alle bietole. Che male c´è? La «Beni Culturali Spa» non si formalizza tra siti storici, musei, opere d´arte, statue, dipinti, archeologia e porcilaie. E persino campi di bietole per produrre agroenergia, nuova passione del direttore dei Musei Mario Resca. Attraverso le sorelline culturali Arcus Spa e Ales Spa, società pubbliche ma di diritto privato, si tratta di spendere centinaia di milioni di denaro pubblico in deroga, senza controlli di legittimità del Parlamento e della Corte dei Conti, in ossequio alla religione berlusconiana del fare e fare in fretta. Fare che? Soprattutto fare affari.

Come nel modello Protezione Civile Letta-Bertolaso. E come in quello dell´ex ministro Pietro Lunardi, che pare si sia portato via un palazzo nel centro di Roma a un quarto del suo prezzo, complice l´eccellente dominus vaticano Crescenzio Sepe, cardinale nella manica di Papa Wojtyla, ma esiliato subitaneamente a Napoli da Papa Ratzinger.

Per merito degli antichi predecessori Gregorio XV e Innocenzo X, fu il Borromini verso il secondo decennio del 1600 a disegnare la facciata del palazzo di Propaganda Fide a Roma in piazza di Spagna, la cui ristrutturazione a spese dell´Arcus, secondo i magistrati di Perugia avrebbe prodotto per riconoscenza la proprietà di un palazzetto vista Montecitorio all´ex ministro Lunardi, detto El Talpa per la sindrome incontrollabile che ha di progettare, ben retribuito con denaro pubblico, tunnel ferroviari e autostradali in tutta Italia, attraverso le sue società di famiglia. Non si sa bene invece chi fu a mettere in campo i suini, che pure hanno la loro indubitabile valenza culturale. Infatti la società di diritto privato Arcus, posseduta dal Tesoro italiano e controllata dai Beni Culturali, ha finanziato per 500 mila euro la Fondazione Pianura Bresciana per un risolutivo convegno sulle cinque razze autoctone di maiali. Cinque le razze suine? Forse sono anche di più. Ma accontentiamoci e rendiamo grazia al generoso ministero dei Beni Culturali.

Un deputato dell´opposizione, Vincenzo Vita, ha provato a chiedere conto del singolare finanziamento culturale, tra i tanti, al governo. Ma, come al solito, nessuno se lo è filato. La cultura è cultura, mica vorremo imbrigliarla in una storia di maiali. Così come sacrosanti sono i milioni distribuiti al Santuario della Madonna di Pompei, alle monache Clarisse di Santa Rosa, alla Fondazione Aquileia. O all´Università di Padova, dove opera, superba scienziata, la dottoressa Ghedini. Ghedini? Ghedini chi? Ma sì, è proprio lei, la sorella dall´avvocato onorevole del premier Niccolò Ghedini, l´ex giovane di studio che arrancava un po´ lento, come ricordano i suoi ex colleghi, nell´ufficio del principe del Foro di Padova Piero Longo e che oggi produce a getto continuo leggi dello Stato per conto del premier. Leggi che, con tutta la buone volontà, non passano neanche la prima prova di ragionevolezza e di costituzionalità. È lei, Elena Francesca Ghedini, archeologa, accreditata di scienza ben superiore a quella fraterna, ad assurgere a consigliere del ministro Bondi per le aree archeologiche, al Consiglio superiore dei Beni Culturali e ad ottenere fondi cospicui per le sue legittime esigenze di ricercatrice. Esaudita.

Arcus, fiore all´occhiello di quella che i vecchi funzionari esautorati dei Beni Culturali chiamano il braccio operativo della «Banda Bondi», ha una sorellina che si chiama Ales, che la prossima settimana, si impossesserà di fatto dei servizi museali, governando gli appalti per un business da 100 milioni l´anno, che le aziende operanti nel settore museale giudicano uno scippo. Di nascosto, con un emendamento al decreto sugli enti lirici, il governo ha abrogato la gestione integrata dei 190 musei, che avrebbe consentito l´accesso dei privati ai servizi e che ora lascia tutto nelle mani della Beni Culturali Spa, evoluzione della Protezione Civile Spa bloccata in extremis, pronta per intercettare «in deroga» anche i due miliardi e mezzo di euro di fondi europei per i beni e il turismo culturale.

Grande polmone finanziario dell´Italia berlusconiana del «fare», mondata da ogni controllo di legittimità, in onore di una suprema deroga appaltatrice, per teatri da ricostruire, zone archeologiche da ripulire, siti d´arte da salvare, monumenti da sbiancare, palazzi da ristrutturare, statue da rigenerare, quadri da restaurare, biblioteche da puntellare, musei da gestire, biglietterie, librerie, bar e ristoranti da affidare possibilmente agli amici e agli amici degli amici, la Beni Culturali Spa era pronta, con i buoni uffici di Gianni Letta, a un luminoso destino. Ma incalzato dalle inchieste sui fasti della coppia Lunardi - Sepe, il ministro Bondi, che al ministero impersona il ruolo del passante impegnato da par suo nella poesia e nell´esegesi poetica del Capo, ha bloccato i residui pagamenti per il palazzo di Propaganda Fide e ha appena nominato il nuovo presidente di Arcus. Gli innumerevoli rilievi della Corte dei Conti raccontano di spese per centinaia di milioni a pioggia, in modo opaco, in incarichi e consulenze clientelari e favori vari.

Quasi una scienza, ormai, certificata nella sua sofisticazione dalle gesta del cardinale Sepe e dall´ex ministro Lunardi. El Talpa ha cercato di difendersi con un´intervista - manifesto che dovrà restare nei libri di storia nei secoli dei secoli: «Che male c´è? », si è chiesto. Che male c´è per un uomo di Stato se, di questi tempi, favorisce se stesso e gli amici, approfittando del proprio potere pro tempore? Ma non speriate che le notizie un po´ nefande siano finite qui.

Dobbiamo riferirvi ancora delle bietole che, tra musei e razze suine, aleggiano quotidianamente nel ministero di via del Collegio Romano. Sì, perché il direttore generale del ministero Mario Resca, intimo di Berlusconi, ex amministratore delegato di Mc Donald´s Italia, santificato dal «Foglio» di Giuliano Ferrara in un ditirambo come un superbo benefattore dell´umanità, si è fissato che vuole produrre energia alternativa dalle bietole negli ex zuccherifici italiani. Ma non con i soldi suoi - cosa di cui gli sarebbero tutti grati - ma con quelli pubblici dei bieticoltori (centinaia di milioni, in gran parte fondi europei). I quali, alquanto incavolati, tramite la Coldiretti, spogliata surrettiziamente dei fondi Finbieticola, hanno appena fatto ricorso alla Corte dei Conti.

I ricorrenti sperano di vedere presto il deus ex machina della cultura condannato, perché, al di là degli scopi istituzionali, sta distraendo nel progetto di agroenergia tanti soldi loro, in combutta con Giuseppe Grossi, re delle bonifiche ambientali, finito in carcere con l´accusa di aver triplicato i costi della bonifica milanese di Santa Giulia, e Giancarlo Abelli, re della sanità lombarda. In tandem con Resca nelle multiformi attività viene dato anche Salvo Nastasi, giovane capo di gabinetto della Banda Bondi al Collegio Romano e pluricommissario in deroga a teatri e musei. Piccoli potenti crescono.

La città ducale perde i suoi simboli e viene asfaltata per far posto a megasupermercati. Il potere politico è la proiezione di un’imprenditoria senza scrupoli

Parma. Fra 22 anni sparirà il formaggio italiano più venduto nel mondo. La febbre del mattone seppellisce l’erba dalla quale nasce il parmigiano-reggiano. A tavola grattugeremo cemento. L’erba è il petrolio di questa pianura. Dalle sue virtù nasce un formaggio che non ha bisogno di coagulanti, formalina indispensabile ai grana padani. Regalo della natura sul quale è cresciuto il benessere. Ecco l’allarme: ogni giorno nella provincia di Parma scompare un campo da calcio. Case, palazzoni, capannoni. L’allarme non viene da un ambientalista rompipalle: catastrofe annunciata da Andrea Zanlari, presidente della Camera di Commercio di Parma e da Alfredo Peri, assessore regionale a Bologna. “Non è più possibile che siano i comuni a gestire in solitudine l’espansione edilizia erodendo i terreni agricoli per fare soldi col pronto cassa delle urbanizzazioni”. Perché dirlo proprio a Parma? Perché la città della grazia è ormai simbolo della città mattone. E 90 anni dopo ricomincia con le barricate. Un torrente divideva la borghesia dei palazzi, città padrona, dai figli del popolo guidati da Guido Picelli: nel 1922 riesce a non far passare i ponti alle camicie nere di Italo Balbo. E quando Mussolini al potere “riqualifica“, sventrando, i quartieri dei ribelli e Balbo torna vincitore dalla trasvolata americana, viene accolto da scritte beffarde: “Hai attraversato l’Atlantico ma la Parma (il torrente) no“. Il municipio della destra (municipio della “città cantiere“) insiste nella riqualificazione; tornano le disobbedienze. Civili, ma tenaci. Commercianti e abitanti non accettano i progetti decisi dalla giunta dei mattoni, o “dei mercatini“ come ironizza chi ha i negozi svuotati dalla febbre degli ipermercati: nelle periferie spogliano il centro storico come nella Parigi di 30 anni fa. Ma la Parigi pentita rimedia. Per rianimarla, Chirac e Sarkozy favoriscono il ritorno delle botteghe nelle strade dalle quali la speculazione le aveva strappate: agevolazioni fiscali, mutui straconvenienti, “Parigi non può diventare un museo. Il commercio aiuta a vivere assieme. Vi aspettiamo“.

ASSALTO SENZA FRENI DEI GRANDI CENTRI COMMERCIALI

Luca Vedrini, Confesercenti, protesta con documenti che fanno rabbrividire. A Parma i negozi aprono e chiudono dopo 3 anni. I bar muoiono a 5. E la tradizione delle gestioni familiari naufraga in catene senza sapore: stesse vetrine da Palermo ad Aosta. Tra iper e super-mercati aperti, che stanno aprendo o in costruzione o progetti approvati, la città andrà a far spesa nei 410 mila metri quadrati delle scansie fiorite nelle new town di plastica dove cambiano le abitudini sociali e si dissolvono i rapporti umani. Non più cittadini, solo clienti. Ogni parmigiano (dai neonati agli ottuagenari) avrà a disposizione 2 metri quadrati di roba da comprare nelle cattedrali dell’illusione. “Primi in Italia, forse record in Europa“: Vedrini allarga le braccia. L’invasione dei prati continua: caffè, ristoranti e malinconici cubi di cemento delle multisale di cinema dove brillano i neon della Parma Ohio, sobborgo commerciale di Chicago. Negli anni ’60 le cucine di Salvarani avevano invaso l’Italia e ravvivato un tessuto artigianale che ormai chiude bottega. Trionfa l’Ikea, rifiutata a Bolzano: “I nostri artigiani difendono la cultura sociale della città. L’Ikea vada a Brescia, Verona, Innsbruck. Noi non la vogliamo”. E attorno al compra-compra fioriscono quartieri artificiali. Chi abita la “vecchia città“ per andare al cinema deve prendere l’automobile ma le nebbie dell’inverno scoraggiano un terzo dei parmigiani sopra i 60 anni. Chiuso per “riqualificazione“ il mercato storico della Ghiaia, cuore della città. Commercianti dispersi. Dopo quattro anni buona parte non riapre. Chi è fallito, chi ha scelto altri mestieri. Per la seconda volta in meno di un secolo il comune brucia la tradizione con l’orrore di una pensilina per corriere, ala bollente del tetto che taglia i palazzi armoniosi una volta affacciati sulle bancarelle. Ma gli anni Venti erano anni sfiniti dalla Prima guerra mondiale, treni asmatici, niente automobili. Chissà perché gli assessori e i sindaci della nuova distruzione non hanno fatto un salto almeno a Verona, Padova, Trento, per imparare come restaurare senza cancellare come pretendono i grandi affari delle grandi imprese. E allora avanti. Chi fa la spesa per mettere a tavola la famiglia scopre che frutta, formaggi, uova e carne si vendono sottoterra. Caverna nel condomino dei parcheggi vero motivo della distruzione. Il potere politico è la proiezione di un’imprenditoria che sceglie sindaci e amministratori. Trasforma i signori nessuno nei protagonisti quotidiani di giornali e tv. Ubaldi (primo sindaco della destra) è stato un prodotto Parmalat. La poltrona a Vignali, successore che considerava Ubaldi maestro di politica e di vita, viene disinvoltamente annunciata dal presidente degli imprenditori due mesi prima della formazione delle liste elettorali. Insomma, comando io. Fuori dalle tv locali, l’ex Ubaldi dimenticato insorge: forse invidia per il figlioccio ormai odiato ma appoggiato a Roma dal Letta conte zio. E gli appalti consolano la generosità.

Per dodici anni i parmigiani hanno bevuto, distratti. La crisi e una certa arroganza li ha svegliati. Comitati di madri e nonne sfilano con cartelli che chiedono di non accendere alle porte della città il termovalorizzatore dalle polveri sottili. Proteste che turbano chi produce cose da mangiare e teme la speculazione della concorrenza: quel fumo di immondizia che avvolge cibi prelibati, scuole, asili, cresce a due passi dalla Barilla e dalle industrie di conserve, spina dorsale della food valley. Sfilano i senza casa in una città che ha 12 mila vani vuoti eppure continua a costruire, prati immacolati invasi dalle gru. E immensi parcheggi si allargano nel niente. Varianti urbanistiche e piani decisi nelle stanze dei soliti bottoni per fare cassa: la trappola delle urbanizzazioni.

IL GIGANTISMO DELL’EX SINDACO ELVIO UBALDI

Cambiano solo i figuranti politici. Parma ha 170 mila abitanti, ma il vecchio sindaco Ubaldi, filosofo della città cantiere, ripeteva che gli abitanti dovevano essere 400 mila. Come, non lo ha mai spiegato. Intanto gli scavi continuano. E Parma finirà per importare i “regianito”, patetica imitazione dei formaggiai argentini. La crisi ha sepolto il metrò destinato a bruciare un secolo di bilanci. Mancavano 50 milioni di passeggeri e l’impresa Pizzarotti, che è un’impresa seria, si è ben guardata dall’accettarne la gestione: noi scaviamo, i treni li fate correre voi. Treni ridicoli in un posto che in 15 minuti si attraversa pedalando, eppure giornali e tv (proprietari gli stessi imprenditori) ne esaltavano la meraviglia. Per un secolo sei ponti hanno unito la città vecchia e nuova scavalcando il torrente. Sono diventati sette per far girare la tangenziale: ponte De Gasperi inaugurato da Andreotti, voluto dall’ex Ubaldi innamorato di un certo ponte sul Reno. La maestosità della mini copiatura fa un po’ ridere: unisce 30 metri, sassi ed erbe dieci mesi l’anno. Adesso il fascino del mistero dell’ottavo ponte. Aggancia un quartiere da riqualificare a prati dove non c’è niente. Se il ponte Sud celebra De Gasperi, il ponte Nord dovrebbe riconoscere lo slancio di chi lo costruisce: ponte Pizzarotti. Bellissima azienda, impresa di dimensione europea che non trascura la città dove ha radici. Sta per trasformare il palazzo del ‘200 che raccoglie i documenti dell’archivio di Stato, archivio dei ducati: residence, negozi, mentre gran parte delle carte preziose finisce nei capannoni di periferia.

L’opposizione degli intellettuali di Monumenta perde l’ultima battaglia e il“restauro“ si farà. Restauro di Pizzarotti anche nel palazzo del governatore mentre nella nuova stazione sotterranea arrivano i binari Pizzarotti dell’Alta velocità. Con qualche dimenticanza: le scale mobili non sono previste. Si consigliano i treni a viaggiatori palestrati e senza valigie. L’ottavo ponte nasce da un progetto fatto e rifatto, tanto chi paga siamo noi. Il primo prevedeva un corridoio di palazzi con dentro la strada. L’ultimo è una galleria con qualche insediamento. Da un passaggio all’altro spunta il nome dell’architetto Guasti, impresa di costruzione di famiglia, senatore di Berlusconi e assessore all’urbanistica nella giunta Ubaldi. L’opposizione tenace del consigliere Marco Abbondi, agita il conflitto di interessi. Roba da ridere nell’Italia del Cavaliere. La sorpresa è sapere chi ha comprato quei prati e quale nuova città sta per nascere. Già approvato un ipermercato Pizzarotti Coop7 pendant area Nord dell’iper Coop7 Pizzarotti area Sud. Pronto nel cassetto il progetto dello stadio rifiutato diciotto anni fa da Calisto Tanzi: non se la sentiva di costruire un campo da Serie A ammortizzando la spesa con 22 mila vani: “Non posso inventare una città con la scusa di un campo da calcio”. Morale superata. Le nuove città corona nascono per l’intuizione di imprenditori ai quali va il merito di indovinare con anticipo dove chi governa vuole allargare le case. Intanto Pizzarotti Coop 7 regala una complanare o il terreno nel nuovo centro sportivo polivalente dove è previsto un campo da golf. Il Sole 24 Ore fa sapere che i tagli della crisi colpiranno Parma più di ogni altra città. Dove li trovano i soldi per feste e opere nuove? Giorgio Pagliari, guida dell’opposizione, spiega i girotondi dei conti comunali. Entrate messe in bilancio quando non si sa se arriveranno. Soprattutto le scatole cinesi della vendita virtuale di beni comunali a società delle quali il comune è proprietario. E uomini fidati vegliano nelle poltrone di comando. Insomma, rosso che cambia nome ma resta pubblico rosso. “Se fossimo di fronte a una Spa potremmo parlare di situazione prefallimentare”. Adesso i tagli di Roma, eppure l’imperativo non cambia: costruire senza smettere mai. Con forzature che svergognano la tradizione etica di Parma. Si è venduto il nome di Mario Tommasini per giustificare l’immenso ghetto per anziani che cancella erba e vigne della campagna attorno. Persone ammucchiate come legna, espulse dalla “loro” città. Tommasini è stato l’assessore che ha aperto i manicomi di Franco Basaglia, chiuso brefotrofi e diviso la sinistra col progetto di case per giovani e anziani, stessi palazzi nei vecchi quartieri. Vivere assieme per non morire.

GLI ANZIANI SPINTI AI MARGINI DELLA CITTÀ

Bruno Rossi, già direttore della Gazzetta di Parma, presidente della fondazione che ricorda Tommasini, non sopporta la mistificazione dell’assessore Lasagna. Per il momento è la sola voce sopportata quando denuncia l’imbroglio: “Sarebbe piaciuto a Tommasini? Progetto che convoglia un gran numero di anziani e li spinge ai margini della città? Credo che questa domanda sia al limite del blasfemo”. Lasagna era un giovane rampante del Pd, passato al centrodestra: irresistibile fascino della poltrona di assessore. E cominciano altri dubbi: Pizzarotti Coop7 è un legame ripetuto da imprese e cooperative che assieme “riqualificano“ questa e altre città. Perplessità che attraversa la sinistra e i cooperanti della tradizione. Amara la risposta di Sergio Caserta, che ha realizzato progetti di sviluppo e ha fatto parte della giunta e del consiglio nazionale della Lega Cooperative: “Grandi aziende cooperative emiliane hanno sposato il capitalismo edilizio. Stravolgono le città, cambiano la vita della gente. A Vicenza una grande Coop di Bologna è interessata alla costruzione della base Usa contro la quale si mobilita l’intera popolazione. La Costituzione attribuisce alle cooperative un ruolo di pubblica utilità. È questa l’utilità? Non si viola la Costituzione? Tra la sinistra politica e il movimento cooperativo i legami restano stretti, tecnologie e strategie sostituiscono l’ideologia. A beneficio di chi?”.

La presenza delle Coop, protagoniste della regione, garantisce la tutela degli interessi collettivi. Lo prevede la Costituzione, articolo 45: “Definisce con chiarezza la natura economico-sociale dell’impresa cooperativa a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata”. Articolo che limita il carattere dell’impresa cooperativa e la distingue da ogni altra impresa. Il codice civile completa la definizione precisando il fine mutualistico senza scopo di lucro come causa del contratto sociale. Giorgio Caserta è un cooperatore che ha realizzato progetti di sviluppo nel Sud ed è entrato nel Consiglio Nazionale della Lega Cooperative. Si tormenta per i decreti del governo Berlusconi che ne stravolgono l’identità e l’invito di Innocenzo Cipolletta, (Confindustria) a confluire nel grande alveo dell’impresa privata. Caserta resta critico: “La cooperazione non è contro il mercato ma nel mercato con una propria fisionomia... Non serve una cultura da capitalismo d’assalto che gioca con le regole di mercato in punta di codice in un sistema di alleanze che non guarda troppo per il sottile”. Parole che coinvolgono le grandi coop emiliane: “Hanno sposato il capitalismo dell’edilizia, stravolgono le città, cambiano la vita della gente“. Ricorda l’insensatezza del Metro di Parma e discute sul metro di Bologna “che sconvolge il sottosuolo in una città con una rete di canali sotterranei“. E poi l’allargamento della base Usa di Vicenza: ”La CCC fa davvero gli interessi della popolazione in rivolta”?

Il grande privato di Parma si chiama Pizzarotti, impresa seria, moderna, dimensione internazionale con la formidabile intuizione del prevedere dove i politici locali decideranno un giorno di allargare strade e palazzi. Parma ha 180 mila abitanti, ma il primo sindaco della destra che ha inventato la Città Cantiere - Elvio Ubaldi - aveva annunciato di voler allargare il tessuto urbano a 400 mila persone.

Gigantismo che prevede un metrò patetico in un posto che da attraversare in bicicletta, forse non ridicolo nella prospettiva dell’allargamento. Appalto metrò vinto da Pizzarotti-Coop7. Pizzarotti Coop7 restaurano il palazzo governatore monumento della piazza centrale. Incarico di ristrutturare l’Ospedale Vecchio, ormai archivio di stato costruito 800 anni fa. Trasformazione che prevede residence, negozi, tante cose, soprattutto l’esilio nei capannoni di periferia dei documenti che raccontano la vita politica e culturale di un ducato.

Avete visto il film di Nicola Dell'Olio,

Le radici del "sistema Bertolaso" affondano nella terra del Giubileo, l’Anno Santo aperto nel 1994 e celebrato a Roma nel 2000, il padre dei Grandi eventi della modernità italiana. E il parcheggio della collina di Santo Spirito al Gianicolo, con le sue devastazioni archeologiche, le elusioni dei pareri degli uffici scomodi, la mancanza di un controllo su appalto e cantiere e (pure) un probabile falso storico, diventa l’opera che segna la nascita della turbo Protezione civile applicata all’ordinario. Il battesimo, appunto, del "metodo Bertolaso".

Nel suo ufficio deserto - la nazionale italiana sta giocando contro la Slovacchia – l’ex soprintendente ai Beni archeologici Adriano La Regina, nel Duemila granitico oppositore «della coppia Rutelli-Bertolaso» (il sindaco di Roma e il vicecommissario straordinario di Governo per il Giubileo), estrae da un dossierone nove pagine intestate ai Beni culturali.

È la sua relazione, inedita, con la quale il 22 novembre 1999 dichiarava un falso tutta la costruzione amministrativa che aveva definito l’area del futuro parcheggio del Gianicolo «nello Stato Vaticano», «sito in territorio vaticano», «in territorio vaticano». La copia che allunga, in particolare, è quella inviata all’attenzione del dottor Guido Bertolaso: «Ma lui è andato avanti senza colpo ferire, un caterpillar».

Citando libri di toponomastica antica, Patti lateranensi del 1929 e concordati dell’85, La Regina a pochi giorni dall’apertura della Porta Santa smontò l’architrave che aveva portato lo Stato italiano a finanziare per metà un parcheggio da 85 miliardi di lire che avrebbe dovuto ospitare, su sei piani, 90 pullman e 750 auto.

Per realizzare quell’autorimessa per pellegrini nel cuore della Roma oltretevere - nei dieci anni a seguire resterà quotidianamente deserta - gli operai di Impregilo e Dioguardi costruzioni sventrarono una collina rimuovendo 200 mila metri cubi di terra. Il progetto nel 1992 era stato bocciato dal severo soprintendente e, allora, nell’aprile ´97 il Comune di Roma scelse la strada dello «spostamento toponomastico» per saltare il visto archeologico, realizzare l’opera e inaugurare la futura strategia della "Protezione civile stazione appaltante": l’elusione dei controlli. Il Vaticano, d’altronde, in una lettera dedicata al parcheggio del Gianicolo aveva chiesto esplicitamente «l’esonero da controlli e approvazioni da parte della autorità italiane».

Si legge ora nella relazione La Regina: «Il provveditorato alle Opere pubbliche ha sempre dichiarato negli atti ufficiali che il parcheggio si trovava su territorio vaticano mentre si trova su territorio dello Stato italiano». Ancora, «il danneggiamento di beni di interesse storico o artistico appartenenti all’Italia, ancorché di proprietà della Santa Sede, non è considerato ammissibile da alcuna norma o trattato». Lo spianamento giubilare regalò, infatti, «l’asportazione incontrollata dei livelli archeologici e dei resti antichi nell’area del giardino del collegio di Propaganda Fide» - gli Horti di Agrippina, si teorizza - «e la distruzione di alcuni tratti di mura del Bastione di Santo Spirito realizzati da Antonio da Sangallo il giovane».

Su quel danno «rilevante e irreversibile per la conoscenza della topografia antica di una parte di Roma», nello scavalco del millennio si cementificò l’intesa di un blocco di funzionari pubblici che, cresciuti all’ombra dei 2.578 miliardi di lire stanziati per il Giubileo e sotto la spinta delle necessità del Vaticano, nei dieci anni a seguire avrebbero gestito 13 miliardi pubblici in libertà.

Attraverso la Protezione civile. Il sottosegretario Guido Bertolaso, abbiamo visto, nel Duemila era il braccio operativo di Rutelli. Angelo Balducci nel 1998 fu nominato provveditore alle Opere pubbliche del Lazio dopo la sconfitta rutelliana sul sottopasso di Castel Sant’Angelo (fermato proprio dal sovrintendente La Regina). Balducci, allora tra i più feroci sostenitori della demolizione della "domus" neroniana in nome del parcheggio, oggi è in carcere per associazione a delinquere nell’inchiesta grandi appalti.

Nel novembre del 1997, riannodando i fili, era diventato segretario generale del Giubileo Crescenzio Sepe: oggi è indagato per corruzione. All’ingegner Claudio Rinaldi, altro funzionario delle Opere pubbliche ora sotto inchiesta per corruzione, in quegli anni fu affidato il cantiere Tor Vergata, la grande adunata giovanile attorno a Papa Wojtyla. Ettore Figliolia era il consulente legislativo del commissariato guidato da Rutelli: diventerà capo dell’ufficio legislativo della Protezione civile. E di Francesco Silvano, l’amico che avrebbe girato a Bartolaso il pied-à-terre in affitto di via Giulia, all’epoca si ricordano lettere minacciose scritte al Comune per conto del Vaticano: bisognava accelerare la "pratica parcheggio".

La lettera che inchioda il Vaticano e Arcus porta la data del 16 dicembre del 2005. Monsignor Francesco Di Muzio, allora capo dell’amministrazione di Propaganda Fide, scrive a Francesca Nannelli, responsabile del procedimento per il finanziamento erogato alla Curia dalla società Arcus Spa, di proprietà del Tesoro ma controllata dai ministeri dello Spettacolo e delle Infrastrutture. Il carteggio tra Arcus e Vaticano che Il Fatto Quotidiano pubblica in esclusiva documenta i retroscena inediti e le bugie pubbliche raccontate per giustificare un contributo relativo al palazzo di Piazza di Spagna.

Quello stabile è la sede della Congregazione che oltre a occuparsi dell’evangelizzazione dei popoli nel mondo è dedita anche a una frenetica attività immobiliare nella Capitale. Ora la storia del contributo ha attirato l’attenzione della Procura di Perugia. I magistrati che stanno indagando sulla cricca dei lavori pubblici, hanno iscritto nel registro degli indagati il ministro delle infrastrutture dell’epoca, Piero Lunardi, e l’allora Prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, Crescenzio Sepe, per corruzione. L’ipotesi dei pm Sergio Sottani e Alessia Tavernesi è che esista una relazione tra l’acquisto nel 2004 di un palazzo nel centro di Roma per “soli” 3 milioni di euro (ne valeva il doppio) da parte della famiglia Lunardi e il contributo di 2,5 milioni erogato nel 2005 di concerto con il dicastero delle Infrastrutture, retto in quel periodo dallo stesso Lunardi.

I magistrati ieri hanno preso contatto con il legale del cardinale Crescenzio Sepe perché vogliono interrogarlo per chiarire il giallo del finanziamento che era stato oggetto di polemiche e servizi televisivi di Rai e Mediaset e poi di un’inchiesta interna della Corte dei Conti. Allora, l’unica voce che si ostinava a denunciare lo scandalo di un finanziamento statale che fino a quel momento sembrava ammontare solo a 2,5 milioni di euro, pagati per un’opera pubblica mai realizzata, era quella del segretario generale della Uil per i beni culturali: Gianfranco Cerasoli. Ora quella tesi coincide con l’ipotesi investigativa dei pm perugini: il contributo sarebbe stato erogato da Arcus nonostante i lavori previsti nella convenzione tra la società del Tesoro e Propaganda Fide non sono mai stati realizzati.

La lettera di monsignor Angelo Di Muzio e il carteggio che pubblichiamo (comprendente anche una missiva firmata dal successore di Sepe, il cardinale Ivan Dias) sembrano confermare la tesi dell’accusa. Nella convenzione del 2005, il finanziamento statale è legato inscindibilmente ai lavori futuri per la realizzazione di una Pinacoteca e di un percorso museale che sarebbe stato fruibile dalla cittadinanza italiana. Mentre nelle lettere riservate tra Vaticano e Arcus il medesimo finanziamento è finalizzato a coprire le spese già sostenute da Propaganda Fide per un restauro che nulla ha a che vedere con la Pinacoteca. Monsignor Di Muzio, un personaggio legato all’Opus Dei e molto influente nella Curia, ex braccio destro dell’attuale arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe e ben inserito anche nei ministeri grazie anche ad Angelo Balducci, scrive ad Arcus: “restituisco la bozza della convenzione con apportate piccole modifiche. In particolare segnalo che sarebbe opportuno che il finanziamento venga erogato secondo le scadenze indicate in bozza, in considerazione del notevole esborso sino ad ora sostenuto dalla Congregazione per l’avanzato stato dei lavori”.

La lettera è anomala per tre elementi. Non è normale che il soggetto finanziato da una società pubblica (solo formalmente privata come è la Spa Arcus) si permetta di dettare i tempi e le scadenze dei pagamenti al finanziatore. Inoltre Propaganda Fide non fa mistero di avere bisogno di un ingente pagamento in tempi brevi perché c’è stato “un notevole esborso per l’avanzato stato dei lavori”. La terza anomalia è che il soggetto che dovrebbe sorvegliare il corretto uso dei soldi pubblici è inquilino del sorvegliato. Infatti Francesca Nannelli abita in uno dei palazzi più belli di Propaganda Fide, in via del Governo vecchio, a due passi da Piazza Navona. Il nome della signora Nannelli era già emerso nelle cronache quando si era scoperto che l’appartamento (nel quale convive con il subcommissario della ricostruzione in Abruzzo, Luciano Marchetti) era stato ristrutturato da Diego Anemone e figurava nella sua lista.

A parte l’innegabile conflitto di interessi, anche i tempi non tornano: il decreto ministeriale che approva il programma di Arcus con il finanziamento di Propaganda Fide viene firmato dal ministro Buttiglione e dal collega Lunardi il 20 luglio del 2005. Il 29 novembre 2005 il consiglio di Arcus approva e appena 16 giorni dopo Propaganda Fide già parla di “avanzato stato lavori” e chiede un pagamento immediato per “l’esborso notevole già sostenuto”. Ancor prima che il contratto tra Arcus e Vaticano sia firmato. Nella sua mail, Di Muzio chiedeva all’inquilina di Propaganda Fide un’accelerazione dei pagamenti. Nella convenzione firmata il 23 dicembre del 2005 tra il direttore generale di Arcus Ettore Pietrabissa e il cardinale Sepe, Propaganda Fide ottiene un trattamento di lusso: un milione e mezzo di euro entro 30 giorni dalla firma, solo “previa comunicazione dell’effettivo avvio delle attività”; altri 500 mila euro entro 90 giorni salvo un generico “monitoraggio” di Arcus. Solo il restante mezzo milione di euro è legato alla “verifica dell’effettiva conclusione positiva delle attività connesse al progetto”.

Nell’articolo 6 della convenzione tra Arcus e Propaganda Fide, che Il Fatto Quotidiano ha ottenuto in copia, è previsto come termine del progetto il 31 dicembre del 2006. L’articolo 8 prevede che il finanziamento sia revocato in caso di utilizzo “per finalità diverse” oppure qualora il contraente “non completi il progetto nei termini”. Ancora oggi, quattro anni dopo i termini della convenzione, la Pinacoteca aperta al pubblico, prevista come ragione del finanziamento con i soldi dei contribuenti italiani, non esiste. Nel 2009 la trasmissione Presa diretta di Rai tre mostrò l’inadempimento di Propaganda Fide con le sue telecamere. Immediatamente Arcus pubblicò un comunicato nel quale si sosteneva che del “finanziamento complessivo di euro 2,5 milioni a oggi sono stati condotti e terminati i lavori pari a euro 2 milioni regolarmente rendi-contati. Fanno eccezione le sole attività relative alla Pinacoteca che non hanno ancora visto l’avvio.

Il relativo finanziamento”, sosteneva Arcus nel settembre del 2009, “di euro 500 mila (a saldo dell’intero finanziamento di 2,5 milioni) verrà erogato solo a seguito della positiva conclusione dei lavori”.

Il comunicato di Arcus presenta due incongruenze importanti e sembra nascondere la verità per annullare l’impatto negativo delle inchieste televisive. Innanzitutto il finanziamento previsto nella convenzione del dicembre 2005 era stato erogato interamente, come provato da un documento in possesso del Fatto Quotidiano: una lettera firmata dal cardinale Ivan Dias, nella quale il prefetto di Propaganda Fide e successore di Sepe, scrive al direttore generale di Arcus Ettore Pietrabissa: “mi pregio di comunicarLe che questa Congregazione ha ricevuto l’importo di 2,5 milioni di euro quale contributo relativo al primo finanziamento”. Tutto il contributo, quindi.

Ed ecco la seconda incongruenza: al contrario di quanto sostenuto allora ufficialmente da Arcus e Propaganda Fide, il contributo complessivo era di 5 milioni di euro, spalmati in due anni: 2005 e 2006. Anche perché la novità del doppio contributo (con una seconda convenzione stipulata nel 2007) è stata rivelata da Arcus solo pochi giorni fa. E i sospetti aumentano. Perché quando le tv si occuparono della Pinacoteca fantasma, Arcus e Propaganda Fide sostenevano la tesi del “finanziamento complessivo di 2,5 milioni erogato solo in parte”? Forse perché questa tesi era l’unica che non imponeva una seconda domanda: perché - se Propaganda Fide non aveva rispettato la prima convenzione - era stata pagata interamente e finanziata per altri 2,5 milioni di euro nel 2007? A queste domande risponderanno i pm di Perugia. Intanto il segretario dei radicali Mario Staderini chiede al ministero e alla Corte dei Conti di agire per l’integrale restituzione del finanziamento a causa dell’inadempimento contrattuale.

la Repubblica ed. Milano

Ligresti: ecco la Milano che sogno

di Franco Capitano

La Milano che sogna Salvatore Ligresti? Tanti grattacieli, perché «questa è l’unica città in Italia che abbia le caratteristiche per fare i grattacieli», un tunnel sotterraneo «come a Parigi», nuovi quartieri in fondo a via Ripamonti, parco Sud, dove lo stesso Ligresti è proprietario di ampie aree. Il costruttore siciliano ha spiegato le sue idee sullo sviluppo urbanistico della città ieri, all’uscita da Mediobanca. E sull’Expo, ha detto, «io sto con la Moratti: basta litigi, c’è posto per tutti».

Eccola, la Milano di Salvatore Ligresti. Meglio: la Milano che il costruttore siciliano vorrebbe. La Milano dell’Expo, perché Ligresti sta con la Moratti, e lo dice senza mezzi termini. Una Milano con tanti grattacieli, un lungo tunnel sotterraneo che la attraversi da capo a piedi, e tanti nuovi quartieri costruiti ai margini della città, sfruttando aree dismesse e terreni incolti. E non terreni scelti a caso, perché i terreni sui quali Ligresti vorrebbe costruire sono proprio i suoi, quelli «in fondo a via Ripamonti» (cioè in pieno Parco Sud, dove costruire, in teoria, non si può, ma su questo sorvola volentieri) dove possono nascere «nuovi quartieri completi che devono avere le scuole per i bambini perché - sottolinea - bisogna eliminare le differenze di classe, le scuole per i nobili, i bambini devono crescere assieme».

Spregiudicato immobiliarista a caccia di nuovi affari o nobile propugnatore dell’eguaglianza sociale? Ligresti, all’uscita di Mediobanca, la spiega così: «Io vengo dal popolo, dalla Sicilia, ho fatto gradino su gradino, ma lo possono fare anche gli altri». Dura poco, perché un secondo dopo Ligresti torna a parlare di grandi affari. Si chiede «perché proibire che la città si espanda?». E punta l’indice contro la burocrazia «troppo lenta e complicata», con «commissioni che si riuniscono e poi si riuniscono ancora e poi cambiano i componenti e si ricomincia daccapo: è impossibile. Ci vogliono regole chiare e definite».

Qualche idea sulla città del futuro, in ogni caso, Ligresti l’ha ben chiara in mente: Milano, dice, «è l’unica città in Italia che abbia le caratteristiche per fare i grattacieli. Certamente ci vuole anche la collaborazione dell’amministrazione che, assieme a grandi gruppi come banche e assicurazioni, può portare avanti i grandi progetti». Proprio la fotografia di Citylife, il grande progetto nato dalla collaborazione tra Fiera, Comune e grandi compagnie assicurative, tra cui - guarda caso - la Fondiaria Sai del gruppo Ligresti. E il traffico? Nelle grandi città, spiega Ligresti, fare un tunnel «per disintossicare il traffico è normale. Guardate Parigi che ne è piena».

Insomma: costruire, costruire, costruire. La cornice giusta? Ligresti non lo dice in modo diretto, ma si capisce bene cosa intenda quando lancia il suo appello: «L’Expo è un grande progetto, aiutiamo il sindaco Moratti a portarlo avanti. La Moratti si è data un sacco da fare. Adesso che c’è l’autorizzazione uniamoci, non perdiamo tempo a litigare, facciamo cose positive, c’è posto per tutti».

Il Corriere della Sera ed. Milano

Nel paese di Berlusconi un grattacielo come il Pirellone bis

di Andrea Senesi

Trentasei piani per 160 metri d’altezza. In pratica quanto il Pirellone bis, la futura casa della Regione Lombardia. Siamo in piena Brianza, a casa di Silvio Berlusconi. Perché la torre che lotterà per il primato del cielo lombardo col futuro Pirellone 2 nascerà nel Comune di Arcore. Nella zona industriale del paese, quasi al confine con Villasanta. A fianco di una fabbrica di camicie e a pochi chilometri da villa San Martino, la residenza del premier, il gioiello neoclassico che fu del conte Casati Stampa con i suoi giardini all’inglese e le sue cento stanze.

Trentasei piani per 160 metri d’altezza, e qualcuno giura che in realtà sarebbero pure di più. In pratica quanto il Pirellone bis, la futura casa della Regione Lombardia. Siamo in piena Brianza però, siamo a casa di Silvio Berlusconi.

Perché la torre che lotterà per il primato del cielo lombardo col futuro Pirellone formigoniano nascerà nel Comune di Arcore. Nella zona industriale del paese, quasi al confine con Villasanta. A fianco di una fabbrica di camicie e a pochi chilometri da villa San Martino, la residenza del premier, il gioiello neoclassico che fu del conte Casati Stampa con i suoi giardini all’inglese e le sue cento stanze.

E dire che Silvio Berlusconi non è esattamente un fan dello «sviluppo urbanistico verticale». Un paio d’anni fa, per dire, promise le barricate di fronte alla torre storta di Daniel Libeskind destinata a svettare nell’area della vecchia Fiera. «Ho visto progetti di grattacieli elaborati da architetti stranieri, storti e sbilenchi, in totale contrasto con il contesto milanese. Spero non sia questa l' idea moderna di Milano, altrimenti la protesta sorgerà spontanea e giusta. E io mi metterò alla testa di questa protesta», ebbe a dire allora il premier.

«Per essere dritta la nostra torre è dritta», giura ora chi ha visto il rendering depositato negli uffici del Comune di Arcore. «Il punto semmai è un altro», spiega l’assessore del Pdl, l’architetto Claudio Bertani: «Il punto è che non abbiamo ancora deciso cosa fare. Stiamo discutendo in questi mesi il nostro piano di governo del territorio e ci siamo trovati tra le mani questa richiesta così "folle". Chiaramente ne abbiamo parlato subito col sindaco e in giunta, però la decisione la prenderemo solo dopo aver sentito Provincia e Regione».

L’assessore, passato lo choc iniziale, s’è fatto possibilista: «In fondo non si tratta di residenza. Sono strutture commerciali e ricettive, oltre a una clinica sanitaria. Dal punto di vista dell’impatto sul territorio non credo che sarebbe un disastro. Vedremo, ma senza pregiudizi».

Anche l’opposizione è incredula. Chi c’è davvero dietro il progetto-choc? Il maxi-grattacielo è arrivato negli uffici del Comune giusto un mesetto fa. Regolarmente protocollato. Nero su bianco, in attesa di via libera. La società che ha chiesto il permesso di costruire è una semplice Srl, la Smeraldo, che farebbe capo, assicurano in paese, a uno dei più importanti commercialisti della zona.

Secondo Fausto Perego del Pd (e a sua volta ex assessore in Comune) «meglio comunque le due maxi-torri che l’altro progetto che è uscito fuori negli ultimi mesi. E cioè la cosiddetta Milano 4 che l’immobiliare di famiglia del premier vorrebbe realizzare proprio qui ad Arcore».

«La maxi-torre— racconta ancora Perego — ha una forma triangolare, come una gigantesca punta protesa verso l’alto e con le superfici dei due lati un po’ bombate». I grattacieli in realtà sarebbero addirittura due. «A fianco del gigante, ne è previsto un altro un po’ più piccolo e dalla forma più convenzionale». Centoventi metri o su di lì.

«Milano 4, la Cascinazza, il Pgt di Monza: è chiaro che la Brianza è ormai al centro degli appetiti degli immobiliaristi», attacca Giuseppe Civati, consigliere regionale del Pd: «Non vorrei che Arcore dopo essere diventata la capitale politica del Paese diventasse ora la capitale del cemento».

la Repubblica

Stanca lascia, per l’Expo incubo fallimento

di Alessia Gallione



MILANO - Expo prova a voltare pagina. E, dopo 27 mesi dalla vittoria di Parigi che decretò il trionfo di Milano sulla città turca Smirne, tenta di uscire dalla pericolosa paralisi. Ma nel giorno delle dimissioni dell’amministratore delegato Lucio Stanca, l’uomo voluto da Silvio Berlusconi alla guida dell’evento che abbandona l’incarico dopo un anno di polemiche e scontri all’interno del centrodestra, torna l’allarme sui finanziamenti che dovranno mettere le gambe al progetto del 2015. Perché il problema rimane sempre lo stesso: la mancanza di certezza sui fondi. Una preoccupazione espressa anche dal consiglio di amministrazione della società di gestione, che ha rimandato la discussione sui tagli al budget del 2010: impossibile fare previsioni senza sicurezze per il futuro. E, soprattutto, con un articolo della manovra che riduce all’osso la capacità di spesa della spa. Ecco la presidente Diana Bracco: «Ci preoccupa il drastico contenimento dei costi che ci viene dalla manovra finanziaria». Per la fine di luglio è stata convocata un’assemblea che dovrà chiedere ai soci - se necessario - un’altra ricapitalizzazione. Ma adesso la grande paura di trovarsi di fronte a un fallimento si sta facendo concreta. Nessuno lo dice apertamente, ma tanti iniziano a temere che su Expo possa davvero calare il sipario.

È di nuovo bufera ai vertici. Un secondo divorzio che per Paolo Glisenti, il braccio destro del sindaco-commissario Letizia Moratti che fu costretto all’addio un anno fa, non sarà l’ultimo: «La situazione è ingestibile. Succederà ancora», dice. E il Pd parte all’attacco: «Il centrodestra sta dando uno spettacolo vergognoso che riguarda tutto il Paese - dicono la presidente del gruppo Anna Finocchiaro e i senatori Marilena Adamo e Luigi Vimercati - Tremonti riferisca in Senato prima dell’esame della manovra: il governo vuole ancora realizzare Expo? Ci sono i soldi promessi per le opere necessarie?».

Quando fu nominato il 9 aprile di un anno, sembrava che le guerre all’interno di Expo fossero finite e, dopo mesi di stallo, potesse partire la fase di realizzazione. Eppure anche Lucio Stanca, da manager «con ampie autonomie gestionali» si è ritrovato all’angolo. Quattordici mesi di liti e un rapporto sempre più difficile con lo stesso centrodestra che lo ha lasciato solo spingendolo all’addio. Stretto tra la crisi, gli scontri sempre più accesi all’interno della maggioranza e le polemiche sul suo doppio incarico (e doppio stipendio) come parlamentare e ad, alla fine ha lasciato. Le sue dimissioni - anche da consigliere - sono arrivare ieri mattina, prima che iniziasse il cda a cui non ha preso parte. Quattro pagine per ripercorrere i traguardi raggiungi - il dossier di registrazione al Bie di Parigi - e i motivi dell’addio. Dalle contestazioni arrivate dalla presidente Bracco e lette come «un’improvvisa e infondata contestazione del mio operato» fino all’articolo 54 della manovra con cui di fatto il governo lo ha commissariato: «In un contesto - dice - in cui recenti provvedimenti hanno limitato sostanzialmente i miei poteri e dall’altro lato rimangono insolute alcune questioni di fondo».

A spiegare il cambio è la Moratti, che ringrazia Stanca: «Ora si conclude una fase e se ne apre una nuova, più operativa». Per il post-Stanca ci si affida a un manager come Giuseppe Sala, il direttore generale del Comune. È lui l’amministratore delegato in pectore, anche se bisognerà aspettare almeno il prossimo cda convocato per il 20 luglio per sciogliere le riserve. Un mese che servirà a Sala anche per avere quelle rassicurazioni sulla solidità finanziaria necessarie per accettare l’incarico. Perché chiunque si troverà alla guida della macchina del 2015 si troverà ad affrontare anche una serie di nodi difficili da sciogliere.

Il budget complessivo era già stato ridotto di un miliardo (da 4 a 3) e anche i fondi stanziati dal governo rimangono bloccati: oltre 40 milioni di euro solo per i primi due anni di vita della spa. È già partito un piano di tagli che prevede anche licenziamenti del personale, ma a preoccupare è la manovra che limita al 4 per cento le spese per la società. «Poco», lo giudica Diana Bracco, che chiede di aumentarlo almeno al 7%. Prima di novembre, poi, Milano dovrà presentarsi al Bie per la registrazione ufficiale e, prima di allora, le aree di Rho-Pero dove sorgeranno i padiglioni dovranno essere acquisite. Ma quel milione di metri quadrati rimane di proprietà di Fondazione Fiera e Gruppo Cabassi. Regione Lombardia, Comune e Provincia dovrebbero acquistarli, ma la strada è ancora lunga. E le casse degli enti locali sempre più vuote.

E Prodi accusa: "Ora solo veleni dal trionfo su Smirne al disastro"

di Marco Marozzi

BOLOGNA - «Che figuraccia. Mamma mia, che disastro». Romano Prodi commenta il «disastro» dell’Expo di Milano subito dopo aver assistito al disastro della Nazionale di calcio. Le parole valgono doppio. «Che tristezza» dice il Professore nel suo studio di via Santo Stefano, nel cuore di Bologna, dove sta preparando le sue lezioni per l’università di Shanghai. Corso estivo, si parte domenica per la Cina.

Un altro clima lo attende. Da un Expo terremotato a Milano, a un Expo super decollato a Shangai. Eppure in Cina l’Italia ha mandato all’inaugurazione «solo» il ministro Stefania Prestigiacomo e a maggio a Roma all’insediamento del nuovo ambasciatore cinese, Ding Wei, non c’erano le cariche istituzionali italiane. «Ho sempre pensato che la Cina sarebbe stato presto una protagonista della politica e dell’economia mondiale. Questo mi è stato regolarmente rimproverato dagli attuali governanti. Quindi non mi stupisco rispetto a due episodi che rappresentano la continuazione di una linea passata e che riflettono la scarsa comprensione che essi hanno del ruolo della Cina nel mondo. Secondo una recente indagine della Bcc, l’Italia è tra i paesi occidentali quello che ha la percezione peggiore nei confronti della Cina».

Prodi parla di Cina per parlare di Italia. Di una «scarsa comprensione» che si risolve in un «disastro». E’ lontanissimo quel 31 marzo 2008 in cui Milano batté Smirne a Parigi 86 a 65. L’Expo 2015 sarebbe stato nella capitale lombarda, il sindaco Letizia Moratti si sperticò in lodi per Prodi, premier sconfitto e dimissionario che però fra i suoi ultimi atti si impegnò a fondo per l’Expo a Milano. Poi? «Attorno all’Expo è andata in scena una lite continua fra strutture di potere» ripete da tempo l’ex presidente del Consiglio. L’indice è puntato su tutti: Moratti, Formigoni, Lega, Pdl, liti «su tutto» nel governo.

«Milano - ricorda l’ex premier - la spuntò su Smirne grazie a un grande gioco di squadra del sistema-Italia che poi è saltato». Letizia Moratti un anno dopo la vittoria, sempre a Parigi, annunciò che Prodi, D’Alema, Al Gore, altri grandi nomi sarebbero stati nel Comitato d’onore dell’Expo. Con la benedizione di Berlusconi. «Veramente, pensavo di esserci già da almeno un anno, dal 2008» ride Prodi. «Invece dopo la vittoria non ho avuto più avuto notizie né alcun aggiornamento sui lavori».

«La questione non è mai stata il comitato d’onore, ma un percorso condiviso che consentisse di portare in porto un evento di tale portata» è il commento di Prodi. «Gli unici aggiornamenti sull’Expo di Milano li ho avuti recandomi all’estero per il mio lavoro. E non mi hanno fatto per niente piacere. Molti di quelli che a Parigi ci avevano dato il voto, mi chiedevano preoccupati che cosa stesse succedendo, come mai la macchina non si fosse ancora messa in moto. Verso di loro, io ed altri del mio governo ci eravamo spesi in prima persona». E i turchi? «Lasciamo perdere i loro commenti».

E adesso cosa si augura? «L’Expo riguarda l’interesse nazionale. Per questo, il mio augurio è che si raggiunga un’intesa. Non solo sugli aspetti immobiliari. Sui contenuti».

Il Corriere della Sera ed. Milano

L’addio di Stanca: «Mancata la fiducia»

di Elisabetta Soglio

Lucio Stanca non è più amministratore delegato di Expo e il Comune ha avviato le procedure per il bando che sostituirà il rappresentante del Comune nel cda. L’ad se ne va accusando la Bracco di aver leso la sua immagine e di aver sempre condiviso le scelte fatte nei 14 mesi precedenti. La Bracco non risponde, ma ammette il timore per i conti: «Ci preoccupa il drastico contenimento dei costi inserito nella manovra». In corsa per il dopo-Stanca resta il dg del Comune, Giuseppe Sala, che però ha posto condizioni ai soci e non si è ancora confrontato con i rappresentanti del Tesoro. Il dopo-Stanca è già cominciato. Il Comune ha avviato ieri le procedure per indire il bando, che ufficialmente dovrebbe essere aperto all’inizio della prossima settimana, per nominare il proprio rappresentante nel consiglio di amministrazione di Expo al posto di Lucio Stanca.

L’amministratore delegato uscente di Expo, infatti, non si è presentato ieri alla riunione del cda, facendo recapitare alla presidente Bracco una lettera di quattro pagine in cui ha motivato le sue «irrevocabili dimissioni» accolte dal consiglio di amministrazione. Dimissioni accolte dal cda: Stanca ha però incassato il plauso del presidente Roberto Formigoni, («Un gesto di grande dignità»), del sindaco Letizia Moratti («Ringraziamo Stanca per il lavoro importante che ha fatto. Ora si conclude una fase, se ne apre una nuova, una fase più operativa»), del presidente della Provincia, Guido Podestà («A lui il grazie mio personale per il significativo e determinante impegno profuso nei 14 mesi di attività per Expo»).

Come prevede lo statuto, i poteri vengono così trasferiti allo stesso cda, in attesa che la governance venga definita. La presidente Diana Bracco, che ha scelto di stare lontana dalla polemica con Stanca, ha garantito che «entro l’estate» il cda verrà completato. L’ipotesi che continua a circolare, e che era stata discussa anche dai vertici del Pdl milanese e lombardo, è quella di nominare un direttore generale cui delegare tutti i poteri dell’ad e di scegliere un manager. Il nome che circola è quello dell’attuale dg del Comune, Giuseppe Sala, che però ha già chiarito ai soci pubblici che lo hanno interpellato le sue condizioni, di autonomia e possibilità di manovra. Amonte, però, non risulta che Sala abbia ancora avuto un contatto con il rappresentante più importante della società che gestisce Expo, cioè il governo: e pare che questo passaggio sia imprescindibile anche in vista di una eventuale accettazione dell’incarico.

Al sindaco Letizia Moratti si aprirà poi il problema della successione di sala in una fase decisamente delicata visto che la campagna elettorale è di fatto cominciata e bisogna tirare le somme del lavoro svolto in questa legislatura. Proprio per evitare scossoni, il sindaco potrebbe decidere di affidarsi a uno dei due attuali vice di Sala, l’ingegner Antonio Acerbo che lavora in Comune fin dai tempi della giunta Albertini e che, tra l’altro, aveva gestito con il vicesindaco la ristrutturazione della Scala.

Torniamo ad Expo. La presidente Bracco ha ammesso al termine di cinque ore di cda la «grande preoccupazione per le implicazioni della manovra finanziaria che ha un articolo, il 54, dedicato all'Expo e ci preoccupa il drastico contenimento dei costi». C’è poi il problema del 4 per cento imposto dal governo come percentuale massima di finanziamenti, utilizzabile per le spese correnti. «Come azienda industriale, se fai il 7 per cento sei bravo. Ma questa è una impresa diversa e il 4 per cento è francamente poco», ha aggiunto la Bracco.

Ancora più schietto Leonardo Carioni, nel cda in rappresentanza del Tesoro: «I problemi di oggi riguardano i terreni e soprattutto i bilanci perché i soci, ad esclusione di Tremonti e Formigoni, hanno più volte fatto sapere di non avere i soldi sufficienti » . Gil risponde Matteo Mauri, responsabile nazionale pd di Expo: «Leonardo Carioni, con la schiettezza che gli è solita, alza il velo di ipocrisia che da sempre avvolge Expo. I soldi non ci sono, le aree nemmeno e le idee sono poche e confuse».

Il nuovo cosiddetto Piano di governo del territorio che la Giunta Moratti vorrebbe fare approvare e sulla discussione del quale, per ora, il Consiglio comunale è arenato, è la quintessenza del piano - non piano.

Non solo perché consente quantità assurde di nuovi volumi edilizi, che basterebbero per cinquanta o cento anni di futuro sviluppo edilizio ( sempreché la domanda si mantenga), perché non programma niente in termini di mix tra funzioni economiche e residenza, lasciando che il mercato faccia di volta in volta, con buona pace dell’efficienza e della vivibilità dei nuovi futuri insediamenti, o perché da un colpo al cerchio del trasporto pubblico disegnando ( sulla carta) un profluvio di nuove linee e un colpo alla botte promuovendo il nuovo tunnel automobilistico Rho - Linate.

E’ la quintessenza del non- piano per unaragione assai più profonda e radicale.

Undici anni fa un collega del Politecnico inaugurava la nuova fase dell’urbanistica milanese “self - service”, quella dei Piani integrati di intervento, sulla base di una precisa ipotesi di lavoro: che il problema centrale della città fosse quello di fluidificare il mercato immobiliare, di eliminare cioè lacci e lacciuoli per gli operatori immobiliari, nella convinzione che, tagliato questo nodo, la macchina della crescita economica e sociale della “Grande Milano” sarebbe ripartita da sola a pieno regime. In buona sostanza l’attuale PGT non fa che assumere ed amplificare al massimo questa ipotesi strategica fino al punto da travolgere, in omaggio ad essa , le ultime residue garanzie ( gli standard urbanistici, il parco sud ed altro ancora).

In questo modo il Comune ripete, sia pure in tutt’altri termini, un errore di miopia strategica analogo a quello commesso all’epoca della formazione del Piano regolatore attuale.

Allora, tra il 1976 e il 1980, dunque dopo la crisi petrolifera che pure avrebbe dovuto essere chiaro preannuncio della imminente crisi della vecchia industria europea, il “nuovo” PRG si cullava ancora nella mitologia industrialista, senza curarsi di affrontare il nodo vero, del riuso razionale e sistematico del patrimonio di aree industriali ormai condannate.

Oggi, con il mercato immobiliare in evidente crisi , con una competizione economica internazionale sempre più dura tra sistemi paese e sistemi città e con uno stato finanziariamente sempre più povero, il nuovo PGT continua a baloccarsi nella vecchia e cuccagnosa idea del mattone motore universale.

Trascurando con ciò tutti i nodi veri.

Qualche esempio dei nodi veri.

Non si può più vivere in un’area metropolitana senza progetto di sistema, con centinaia di Comuni costretti a improvvisare ciascuno la sua musica, con una moltiplicazione delle spese e dello sciupio di territorio, e con la parallela, drammatica carenza dei servizi di natura intercomunale, a partire da quelli del trasporto pubblico.

Non si può lasciare sostanzialmente intatto il nodo delle grandi inefficienze del sistema infrastrutturale ( l’energia, gli aeroporti, il trasporto delle merci) e sperare che la macchina economica continui lo stesso a girare felice.

Non si possono nemmeno lasciare languire o morire i pochi progetti di rilancio dei fattori di competitività urbana ( la biblioteca europea, il sistema museale, una attenzione specifica, che non è mai esistita, sul potenziale rappresentato dalle strutture dell’università e della ricerca.)

E infine, e soprattutto, non si può non vedere che la qualità e la vivibilità urbana sono considerate, oramai a livello mondiale e non solo europeo, uno dei fattori importanti per la cattura di quelle funzioni rare che, sole, possono garantire la sopravvivenza di qualche vantaggio per le nostre economie in crescente difficoltà. Per garantire ciò il mattone deve essere a servizio della qualità, e non viceversa.

Nel PGT presentato l’impostazione è l’esatto opposto. Non si tratta dunque di emendarlo, nella speranza di ottenere qualche sconto: per il bene della città va rifatto, per riempirlo dei contenuti che mancano e per capovolgerne la logica ispiratrice.

Non passa giorno senza che si sappia di nuovi tagli all'Expo e che il sindaco Moratti e Lucio Stanca annuncino «risparmi» anche per il nuovo masterplan presentato al Bie a maggio. Che la crisi avrebbe costretto a rifare più volte i conti dell' Expo era prevedibile e quando, più di un anno fa, pubblicammo la petizione contro «l'Expo dei padiglioni», la intitolammo «Milano Expo 2015: città sostenibile dopo la crisi».

Ritenevamo che l'Expo fosse l'occasione per avviare Milano e la Lombardia verso la sostenibilità sociale, ambientale, energetica e dei trasporti, utilizzando grandi edifici e siti già disponibili nel territorio. La crisi planetaria costituiva l'inconfutabile motivazione per ottenere dal Bie di abbandonare la formula della manifestazione luna park e proporre una Expo diffusa e sostenibile. E ciò sarebbe ancora possibile assicurandosi la partecipazione dei vari Paesi senza sprechi sia per loro che per noi.

Ormai il sito Expo ce lo dobbiamo tenere. Ma poiché il suo ruolo sarà molto ridimensionato, è necessario promuovere un fuori Expo, analogo a quello che si realizza ogni anno durante il Salone del Mobile, di cui si avvantaggino Milano e la Lombardia. Ma dato che l'Expo dura sei mesi e non sei giorni, il fuori Expo dovrà essere organizzato con tutt'altro impegno. Ci vuole una strategia per preparare il territorio alla pacifica invasione di milioni di visitatori; dovremo offrire, soprattutto ai giovani, una esperienza di vita sostenibile, consentendo loro di sperimentare concretamente come sia possibile nutrire l'umanità, salvaguardando l'ambiente, disciplinando i consumi, risparmiando energia ed evitando gli sprechi.

Il taglio dei finanziamenti non sarà il peggiore dei mali se la manifestazione sarà accompagnata da una Expo diffusa e sostenibile che estenda la partecipazione alle componenti sociali e imprenditoriali, offrendo l'occasione di far conoscere le eccellenze della Lombardia, con duraturi vantaggi anche per il turismo. Regione e Provincia di Milano dovrebbero promuovere questa componente della manifestazione con maggiore determinazione. Vedremo se Formigoni, che ha già annunciato per settembre la seconda edizione degli Stati generali dell'Expo, mobiliterà il potente apparato di cui dispone.

Come Politecnico di Milano, con il contributo della Fondazione Cariplo Area Ambiente, abbiamo avviato un progetto di Expo diffusa e sostenibile (Eds) per mettere in rete le varie iniziative che si stanno avviando da parte di soggetti sia pubblici che privati con l'obiettivo di favorire le possibili sinergie a vantaggio della qualità delle ricadute territoriali. Ma con questi chiari di luna è impensabile fare affidamento su finanziamenti pubblici. Tutte le iniziative di Expo diffusa e sostenibile dovranno essere autosufficienti, avere una reale fattibilità imprenditoriale e interpretare il tema Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita in tutte le sue possibili declinazioni, lasciando nel territorio una solida eredità in grado di configurare, fin da ora, l'armatura della futura metropoli sostenibile.

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E Bondi "commissaria" la Arcus: bloccati i fondi per Propaganda Fide

Corrado Zunino, la Repubblica, 23 giugno 2010

Di prima mattina, lunedì mattina, il ministro Bondi ha chiamato il direttore generale di Arcus e, preoccupato dalle notizie che stavano salendo di quota sui finanziamenti pubblici concessi dal dicastero dei Beni culturali ai siti del Vaticano, sulle inchieste della Corte dei Conti e della Procura di Perugia sul palazzo di Propaganda Fide in Piazza di Spagna, a Roma, ha chiesto un rapporto dettagliato sull’attività dell’azienda privata controllata dal ministero del Tesoro che in sei anni ha speso – investito, sostiene il suo direttore generale, Ettore Pietrabissa – mezzo miliardo di euro. Ecco, quattro finanziamenti di Arcus – voluti e sottoscritti nel tempo dai ministri Lunardi, Rutelli, Buttiglione e quindi dallo stesso Bondi – erano stati indirizzati su opere del Vaticano.

La Corte dei conti, contestando l’attività generale di Arcus, aveva segnalato diverse incongruità proprio sui finanziamenti per progetti religiosi. E i magistrati di Perugia avevano contestato la corruzione all’ex ministro delle Infrastrutture, Pietro Lunardi, e all’ex prefetto di Propaganda Fide, Crescenzio Sepe, mettendo a fuoco proprio il finanziamento da 5 milioni per il palazzo di Propaganda Fide: finanziamento di Stato alla Chiesa, apparentemente illegittimo, concesso secondo l’accusa in cambio di benefici personali a Lunardi, che a inizio Duemila aveva comprato un palazzetto di proprietà proprio di Propaganda Fide. Lunardi acquistò i tre piani (occupati da otto persone) in via dei Prefetti – dietro Montecitorio – per 4,16 milioni. Gli inquirenti ritengono che per quei 720 metri quadrati il valore di mercato, in realtà, fosse almeno il triplo.

Studiata la relazione degli uffici di Arcus, il ministro Bondi si è accorto che dei 5 milioni pubblici dati per la ristrutturazione del palazzo borrominiano di piazza di Spagna, 500 mila euro dovevano essere ancora erogati. E lunedì ha chiesto che l’ultima tranche del finanziamento fosse fermata, almeno fino a quando non sarà inaugurata la pinacoteca interna e garantita la sua apertura al pubblico (oggi è stata annunciata per il prossimo venti ottobre). Di più, gli stessi uffici tecnici hanno segnalato al ministro che il finanziamento per il cortile dell’Università Pontificia Gregoriana doveva essere completato: agli 800 milioni concessi nel 2009 doveva essere aggiunto un milione per la stagione in corso. All’interno della struttura erano stati recuperati resti romani. Anche questo finanziamento è stato congelato. E poi il ministero dei Beni culturali è intenzionato a rivedere gli appalti sottoscritti con il Vaticano per ottenere condizioni migliori per lo Stato. Innanzitutto, i siti ristrutturati dovranno essere accessibili al pubblico (cosa, ad oggi, non prevista).

La Procura di Perugia, che in questi giorni ha sul tavolo il dossier sulla società privata controllata dal Tesoro, vuole capire alcune questioni controverse. Ed è probabile che nei prossimi giorni interrogherà i dirigenti di Arcus per chiedere, per esempio, perché nell’appalto tipo non era prevista una data di chiusura dei lavori, perché nel progetto iniziale di ristrutturazione del palazzo di Propaganda Fide non si fa cenno ad alcuna pinacoteca, perché nella prima fase dei lavori compare l’architetto Angelo Zampolini, il contabile delle tangenti dell’imprenditore Diego Anemone. E ancora, perché la direttrice dei lavori in piazza di Spagna, Francesca Nannelli, compagna del vice commissario dell’Aquila Luciano Marchetti, distaccata dai Beni culturali di Firenze ad Arcus, è affittuaria di un appartamento di Propaganda Fide nel centro di Roma (in via del Governo Vecchio).

Tutti corrono alla cuccagna Arcus

Stefano Sansonetti, ItaliaOggi, 24 giugno 2010

Chissà se il ministro dei beni culturali, Sandro Bondi, sa che tra i beneficiari delle erogazioni della Arcus spa c'è addirittura l'Associazione nazionale magistrati. Per carità, lo scopo è assolutamente ammirevole, trattandosi della «riqualificazione ambientale in un sito confiscato alla mafia nel territorio di Ciaculli a Palermo». Ma resta il fatto che la società ha già predisposto un finanziamento pubblico di un milione di euro che finirà dritto dritto all'Anm.

Certo è che a scorrere l'interminabile lista di interventi finanziati per il triennio 2010-2012 dalla Arcus, che opera sulla base di decreti interministeriali firmati dai dicasteri dei beni culturali e delle infrastrutture, si scopre veramente di tutto. E non manca qualche sorpresa, soprattutto alla luce del coinvolgimento della società (al 100% del ministero dell'economia) nella vicenda che vede indagato per corruzione il cardinale Crescenzio Sepe, all'epoca dei fatti responsabile di Propaganda Fide. Dall'elenco, approvato con un decreto interministeriale del 1°dicembre del 2009, emerge chiaramente che i finanziamenti della spa finiscono spesso dalle parti del Vaticano. Nel prossimo triennio, per esempio, sono già stati predisposti 1,5 milioni di euro (1 milione per il 2010 e 500 mila euro per il 2011) che serviranno a restaurare i cortili interni della Pontificia università gregoriana, la stessa che in passato ha beneficiato di versamenti per un altro milione di euro.

Oltre a questi, come emerso dalle cronache di questi giorni, erano arrivati dalla spa pubblica 2,5 mln per la ristrutturazione della sede di Propagande Fide. Ristrutturazione che poi non sarebbe intervenuta. Nella lista, inoltre, compaiono finanziamenti per 9 tra diocesi e arcidiocesi. In tal senso il gettone più corposo, ovvero 1 milione e 850 mila euro, è stato assegnato all'arcidiocesi di Altamura per il restauro della cattedrale di Gravina. Ma ci sono anche 800 mila euro destinati all'arcidiocesi di Napoli, ben conosciuta da Sepe, per attività del suo museo. A seguire ecco venir fuori 700 mila euro per la diocesi di Tivoli, 300 mila per la diocesi suburbicaria di Porto Santa Rufina, 500 mila per la diocesi di Palestrina, 400 mila per la diocesi suburbicaria di Albano e così via. Poi è il turno delle parrocchie. Gli stanziamenti della Arcus ne aiuteranno 8, con il gettone più ricco, 1 milione di euro, destinato alla parrocchia S.Maria della Scala in S.Fedele di Milano.

Curioso notare che dalla lista spuntano fuori anche finanziamenti diretti a enti che, sulla base degli elenchi inseriti in un primo momento nella manovra dal ministro Giulio Tremonti, avrebbero dovuto non godere più di sovvenzioni pubbliche. È il caso della Scuola archeologica di Atene, a cui sono stati destinati 500 mila euro, dell'Istituto Luigi Sturzo, che avrà 300 mila euro, e della fondazione Giorgio Cini, che incasserà 450 mila euro per il restauro del cenacolo palladiano nell'isola di san Giorgio Maggiore. E c'è addirittura un ente palesemente considerato inutile, e quindi soppresso dalla Finanziaria, come l'Ente teatrale italiano, a cui nel 2010 l'Arcus darà 1 milione e 290 mila euro. Tra le pieghe si possono anche scorgere 500 mila euro per la Comunità ebraica di Pisa.Insomma, il tutto vale 200 mln fino al 2012. Che si aggiungono ai 250 mln di valore dei 360 progetti deliberati a fine 2009. Per un totale di 450 milioni di euro.

Nello scorso numero abbiamo analizzato il problema dei residui passivi del Mibac. Quest’enorme questione non esaurisce però il tema della gestione delle risorse. L’altra faccia della medaglia è l’efficienza della spesa e la dolorosa impressione è che le inadeguatezze in entrambi i settori si sommino.

Tutti abbiamo letto sui principali quotidiani della nomina a direttore dei lavori (29 milioni di euro) per i Nuovi Uffizi di una persona, diciamo, inadeguata. Riproponiamo alcuni brani delle intercettazioni alla “cricca”. Salvatore Nastasi, capo di Gabinetto del Mibac ad Angelo Balducci: “Mi sembra una buona squadra”, commentando compiaciuto gli incarichi (Mauro Della Giovampaola soggetto attuatore, Enrico Bentivoglio, responsabile unico del procedimento, Riccardo Miccichè, direttore dei lavori) per i Nuovi Uffizi. Ma lo stesso Fabio De Santis, Provveditore alle opere pubbliche della Toscana (colpito in seguito da un ordine di custodia cautelare), non ne è convinto. “Non ci posso credere (ride). Quando lo vedo (Nastasi, Ndr) gli dico ‘siamo proprio dei cazzari, guarda, siete proprio dei cazzari, andate in giro a rompere il c...”. De Santis racconta di averlo fatto presente a Nastasi durante un viaggio in treno: “Quando stavamo soli gli ho detto ‘Salvo (Nastasi, Ndr) ma siamo sicuri di quel siciliano?”. “Sì, non ti preoccupare, poi c’ho un fatto personale che tu non c’hai’ “.

Ora, comprendiamo il desiderio del Ministro Bondi di non veder lordata la sua onestà, ma non volendo ricorrere al “non poteva non sapere”, ci vediamo costretti a chiedere chiare e inequivocabili delucidazioni sulla vicenda. Se è vero, come ci piace credere, che il Ministro è all’oscuro del “fatto personale” al quale si riferisce il potente Nastasi, non possiamo esimerci dal ribadire l’inopportuna e rischiosa acquiescenza del titolare del Mibac verso colui che da più parti viene definito il vero Ministro. Ricordiamo, inoltre, che il pluricommissario Nastasi (aspirante collaudatore per 750mila euro in quel di Venezia) è già stato più volte al centro di intercettazioni telefoniche, che ne hanno evidenziato la propensione alla concretezza. Si può capire che un poeta preferisca non occuparsi di lordure e di materie economiche, tuttavia tra i doveri di un Ministro, ahinoi, ci sono anche queste bassezze. Se l’esemplare Cavaliere, a malincuore, denuncia le malefatte del suo ex ministro Scajola e si lamenta della propensione affaristica di molti dei suoi seguaci, non potrebbe il fido Bondi seguirne le orme? Quiz per i lettori: “Dobbiamo mettere Elisabetta Fabbri, nominata Commissario dal Ministero perchè è donna, perchè risponde, è sveglia, è fuori dai giri nostri, è una brava professionista, non ha mai tradito in nessun senso, ascolta le cose che gli si dicono”. Chi ha detto una simile frase? a) don Vito Corleone nel Padrino parte II b) Tony Montana in Scarface c) Edoardo Nottola in Mani sulla Città? Nessuno dei tre. Queste parole sono di Nastasi, riportate nelle intercettazioni su altri affari toscani della “cricca”, quelli riguardanti i lavori per il Maggio fiorentino (del quale il capo di Gabinetto è stato commissario). Tutti noi parliamo molto liberamente nelle conversazioni private e forse è illegittimo trovarne traccia su un quotidiano. Tuttavia, il gergo usato evidenzia una mentalità e un modo di concepire l’azione di governo agli antipodi con qualunque corretta amministrazione della cosa pubblica, più adatti forse alla gestione di Cosa nostra.

Questi episodi (al di là dell’opportunità per il Ministro di continuare il rapporto fiduciario con il suo capo di Gabinetto, senza dover attendere conferme su eventuali responsabilità penali) evidenziano il grumo di opachi interessi che si addensa attorno agli appalti sui Beni culturali. Questo settore, fino a oggi, da parte di costoro che avrebbero dovuto indagare, i magistrati, e controllare, i Ministri, ha goduto di una considerazione e di un giudizio influenzati da una sorta di soggezione. Quasi come se gestire restauri, ristrutturazioni e interventi di tutela sul nostro patrimonio artistico comportasse un salvacondotto di merito e costituisse di per sè un lavacro nel quale le coscienze si mondavano da qualunque tentazione di sottrarre pubblico denaro. Così in questo porto franco della cultura hanno proliferato e proliferano corruzione, sprechi, abusi tali da infliggere colpi mortali alla più grande ricchezza di cui dispone l’Italia.

Come e più di quanto deve succedere in altri campi, nei beni culturali è necessario voltar pagina. Devono essere introdotti criteri scientificamente corretti per stabilire le priorità di intervento. E parimenti a quel che scrivevamo sull’amministrazione delle Soprintendenze, nelle quali servirebbe una conduzione manageriale, anche la “lista della spesa” dovrebbe esser compilata con un metodo di conservazione programmata, basata sull’analisi dello stato dei luoghi. Non è possibile continuare ad affidare i destini del nostro patrimonio artistico alle simpatie, i gusti, le relazioni, e ai vantaggi del portafoglio del funzionario di turno, troppo spesso concentrato solo a ingraziarsi il politico distratto.

La società pubblica Arcus è diventata protagonista delle cronache giudiziarie per il finanziamento da 2,5 milioni elargito alla curia di Propaganda Fide diretta dal cardinale Crescenzio Sepe quando il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi con una mano firmava il via libera al pagamento di un progetto poi non eseguito e con l’altra comprava a prezzo stracciato dalla stessa Propaganda Fide di Sepe un palazzetto nel centro storico di Roma per 3 milioni di euro. Per scoprire questo moderno esempio di carrozzone pubblico non c’era però bisogno dell’indagine di Perugia né dell’iscrizione tra gli indagati del cardinale Sepe e di Lunardi. Arcus ha elargito e stanziato poco meno di 500 milioni di euro dalla sua nascita nel 2004, senza soluzione di continuità tra centrodestra e centrosinistra. La sua missione è “di sostenere in modo innovativo progetti importanti e ambiziosi concernenti il mondo dei beni e delle attività culturali, anche nelle sue possibili interrelazioni con le infrastrutture strategiche del Paese”.

L’arte del business

L’oggetto sociale abbastanza fumoso e la possibilità di elargire soldi senza gara per spettacoli, arte, restauri e mostre ne ha fatto un poderoso strumento clientelare in mano ai politici che volevano favorire i propri collegi elettorali, gli amici, i familiari e anche i parroci. Arcus è di proprietà del ministero dell’Economia al 100 per cento mentre il coordinamento sulla sua azione è rimesso ai Beni culturali retti da Sandro Bondi, che talvolta opera di concerto con le Infrastrutture di Altero Matteoli. In tempi di tagli di bilancio la Arcus Spa è diventata, come la Protezione civile, un canale privilegiato per dare soldi, consulenze e incarichi di ogni tipo. La Corte dei Conti nel 2009 ha condannato il suo ex presidente Giorgio Basaglia per una consulenza legale ridondante e le trasmissioni televisive Le Iene e Presa diretta, avevano già raccontato i rapporti incestuosi tra Arcus, politica e Vaticano che albergavano dietro il restauro del palazzo di Propaganda Fide a piazza di Spagna ora finito nel mirino della Procura di Perugia.

Le vere autorità di controllo sulla società in questi anni sono state più le trasmissioni televisive che le istituzioni come la Corte dei Conti e l’Autorità di vigilanza dei lavori pubblici. Il giudice della Corte dei Conti Mario Sancetta, ha scritto il regolamento di Arcus quando era al ministero con Lunardi e oggi è indagato per altre storie nell’indagine sulla cricca. Mentre nelle intercettazioni del Ros di Firenze spunta il nome di Arcus. Lo fa proprio un consigliere dell’Autorità Garante dei Lavori Pubblici. Si chiama Alessandro Botto, già consigliere di Stato e segretario generale dell’Agcom, non chiede maggiori controlli. Anzi, telefona a Fabio De Santis (che poi sarà arrestato) per chiedere di intervenire tramite il “capo”, cioè Angelo Balducci, per avere da Arcus un finanziamento. E ovviamente il beneficiario non era Botto stesso ma una chiesa, quella di Santa Maria in Aquiro. “Interessava a un amico parroco”, dice Botto oggi al Fatto in un amen, aggiungendo subito “ma non è mai stato approvato”. Vaticano, soldi pubblici e politica. È questo il mix che spesso si trova dentro le pratiche della società dello spettacolo. Un caso esemplare è lo stanziamento di mezzo milione di euro a beneficio della società “I borghi Srl” che gestisce l’Auditorium della Conciliazione a Roma. L’immobile è di proprietà del Vaticano che lo affitta ai Borghi, finanziata dallo Stato con Arcus. Quando ottiene il contributo, la Srl cattolica vanta tra i suoi soci due politici di destra e sinistra: Lorenzo Cesa, che poi diverrà segretario Udc e Francesco Artenisio Carducci, allora responsabile cultura della Margherita di Rutelli e ora transitato al centrodestra.

I soliti noti

Anche l’ascesa della professoressa Francesca Elena Ghedini, archeologa e sorella del più famoso onorevole-avvocato Nicolò si intreccia con quella di Arcus. La responsabile del dipartimento archeologia dell’Università di Padova ha ricoperto il ruolo di consigliere della società dal 2003 al 2006. Ma non è stata solo membro dell’organo decisionale di Arcus, la sua attività pubblica di archeologa ha beneficiato di milioni di euro di contributi. Ovviamente non privatamente come Cesa e soci ma in qualità di archeologa dell’università. Sul sito della sua facoltà si legge nel curriculum che “è codirettore degli scavi di Nora (dal 1990), direttore degli scavi sulla Via Annia (Roncade, Treviso) (dal 2000) e condirettrice del progetto Aquae Patavinae”. Ebbene Arcus ha stanziato più di due milioni per questi scavi. Nell’ordine: 200 mila euro per l’Università di Padova proprio per il progetto in Sardegna “area archeologica di Nora”; altri 800 mila euro sono partiti per “la valorizzazione dell’antica strada romana via Annia”, destinati alla Regione Veneto; altri 435 mila euro sono andati all’università di Padova per il progetto “Aquae Patavinae” che si sommano a un milione e 160 mila euro concessi per il medesimo progetto al comune di Montegrotto e alla Regione Veneto. A chi criticava queste scelte, Arcus ha risposto con un comunicato pubblicato sul sito Internet: “Noi che abbiamo avuto l’onore e il piacere di interagire con la professoressa Ghedini per motivi professionali e istituzionali, non possiamo non testimoniare della sua caratura morale e scientifica che, unitamente ad una grande passione per la ricerca, per la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, per l’innovazione, ne fanno una persona capace di dare grande lustro al nostro Paese”. Un lustro costoso, però.

La Confederazione Italiana Archeologi manifesta profonda preoccupazione per il contenuto del comma 12 dell’articolo 6 della Legge Finanziaria 2010, che taglia i fondi per le missioni dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Nell’ambito della gestione della tutela del patrimonio archeologico, il personale tecnico delle soprintendenze non potrà più utilizzare mezzi privati per effettuare sopralluoghi nei cantieri e ispezioni sul territorio, per i quali dovrà usufruire esclusivamente mezzi pubblici.

“Il provvedimento contenuto nella Finanziaria - dichiara il Presidente Giorgia Leoni – è l’ennesimo attentato alle soprintendenze e al sistema di gestione della tutela del territorio. Le soprintendenze, che già operano con personale ridotto ai minimi termini a causa dei tagli agli organici e della esiguità di turn over, gestiscono territori molto vasti e complessi dal punto di vista geografico. I siti archeologici non sono sempre lungo strade statali o provinciali servite dai mezzi pubblici e i cantieri da sorvegliare sono spesso in aree non ancora urbanizzate, in campagna, in montagna...non raggiungibili con autobus, tram o treni.”

“Il taglio porterebbe delle conseguenze gravissime – continua il Presidente Giorgia Leoni – e mette a forte rischio la tutela del patrimonio archeologico e del paesaggio del nostro paese, specie in un momento in cui tornano a paventarsi proposte di condono edilizio.

In che modo si pensa che si potrà continuare a fare tutela? Forse dal finestrino di un autobus?”

La Confederazione Italiana Archeologi chiede un intervento urgente al ministro Bondi affinché si adoperi e interceda sul Governo, come già fatto per ridurre i tagli agli istituti di cultura, per ottenere una deroga alla Finanziaria che permetta al Ministero e alle soprintendenze di tutelare il patrimonio archeologico e il paesaggio del nostro paese nel rispetto del compito istituzionale affidato loro dalla Costituzione.

Nell’autunno del 2003 la facciata del palazzo di Propaganda Fide in piazza di Spagna viene completamente avvolta da un ponteggio esterno. «Manutenzione provvisoria e restauro» si legge sulla targa che segnala lo stato dell’opera. Il progettista è l’architetto Angelo Zampolini, che sette anni dopo diventerà noto per essere l’uomo di fiducia di Diego Anemone, il custode di molti dei suoi segreti. L’impresa a cui sono affidati i lavori è la ditta Carpineto, che in una recente informativa del Ros viene definita «vicina» ad Angelo Balducci, ex Provveditore alle Opere Pubbliche.

«Incongruo»

È solo l’inizio di quegli interventi che nel 2005 beneficeranno di un finanziamento statale da 2,5 milioni di euro, sul quale anche alcuni organi di controllo avevano sollevato molte perplessità. Il primo allarme, infatti, arrivò dalla Corte dei conti, sollecitata da una denuncia del sindacalista della Uil Gianfranco Cerasoli. L'iscrizione nel registro degli indagati del cardinale Crescenzio Sepe, presidente di Propaganda Fide del 2000 al 2006, e dell’allora ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, è stata decisa dalla Procura di Perugia dopo l’acquisizione di una relazione della Corte dei conti nella quale si definisce «incongruo» e «non motivato» lo stanziamento della cifra, destinata a un palazzo extraterritoriale, essendo di proprietà del Vaticano. La stranezza di quella vicenda, e il fatto che i lavori non ebbero mai fine, hanno convinto i pubblici ministeri di essere in presenza di una contropartita concessa da Lunardi - firmatario del decreto insieme all’ex ministro della Cultura Rocco Buttiglione - in cambio dell’acquisto a prezzi decisamente vantaggiosi di una palazzina di Propaganda Fide in via dei Prefetti, a Roma. L’andamento di quel restauro ha sempre avuto una sorte accidentata. Il primo ponteggio venne smontato nel febbraio 2004. I lavori ripresero nell’estate del 2005, sempre con lo stesso progetto, dopo che all’interno degli «interventi in materia di spettacolo ed attività culturali» previsti per il varo di Arcus, la spa governativa che si occupa di edilizia culturale, venne deciso uno stanziamento di 2,5 milioni di euro per il restauro del palazzo. Cambiò la ditta appaltante, con l'ingresso della Italiana Costruzioni.

La Corte dei conti

Il totale delle spese previste per un secondo blocco di 26 lavori deliberato da Arcus era di 24,70 milioni di euro. La voce più alta nel capitolo riguardante gli ultimi 13 interventi previsti era proprio quella relativa alla palazzina del Vaticano. Al secondo posto, i lavori per la Metropolitana di Napoli, nelle stazioni Duomo e Municipio (1.5 milioni). In una relazione sul funzionamento generale di Arcus, la Corte dei conti critica pesantemente l’assenza di un regolamento attuativo, previsto in origine ma mai redatto. In questo modo, scrivono i giudici, le scelte non vengono mai fatte da Arcus, ma direttamente dai vertici dei ministeri, senza la necessità di alcuna spiegazione. «Il soggetto societario in mano pubblica è stato trasformato in un organismo che in concreto ha assolto prevalentemente una funzione di agenzia ministeriale per il sostegno finanziario di interventi, decisi in via autonoma dai ministri e non infrequentemente ed a volte anzi dichiaratamente, indicati come integrativi di quelli ordinari, non consentiti dalle ridotte disponibilità correnti del bilancio». La mancata esplicitazione della logica delle decisioni operate «dai ministeri e non da Arcus», scrive nel 2007 la Corte dei Conti, «avrebbe portato a decisioni apparentemente non ispirate a principi di imparzialità e trasparenza».

Il sospetto

L’episodio della palazzina di piazza di Spagna viene considerato importante perché fa emergere il contesto di presunte reciproche utilità tra il ministro e il religioso. Ma all’esame degli investigatori c’è la gestione complessiva del nutrito comparto immobiliare di Propaganda Fide ai tempi in cui la congregazione era presieduta dal cardinal Sepe. Tra il 2001 e il 2005 molti appartamenti e palazzi di Propaganda Fide vennero ristrutturati proprio da Diego Anemone. Nei giorni scorsi i carabinieri del Ros di Firenze hanno acquisito dal ministero delle Infrastrutture altri appalti e stanziamenti decisi da Lunardi, per verificare se tra quelle carte non vi sia qualche altra utilità fatta giungere tramite Balducci e il ministero a Propaganda Fide. Inoltre sarebbero in corso accertamenti sull’assunzione di un nipote del cardinal Sepe presso l’Anas, azienda pubblica dipendente dalle Infrastrutture. Candidamente, Lunardi ha raccontato che a gestire gli immobili della congregazione era Balducci insieme a Pasquale De Lise, ex presidente del Tar laziale, recentemente nominato presidente del Consiglio di Stato, e al genero di quest’ultimo, l’avvocato Patrizio Leozappa. Gli investigatori avevano già segnalato in una informativa gli «stretti contatti» tra Balducci e De Lise, senza ulteriori precisazioni. In una conversazione del 4 settembre 2009 l’alto magistrato chiama Balducci e gli accenna al fatto che, su input di Leozappa, si è anche «occupato» - le virgolette sono dei carabinieri del Ros - di un provvedimento di rigetto del Tar del Lazio che avrebbe favorito il Salaria Sport village, la struttura riconducibile a Diego Anemone dove Guido Bertolaso avrebbe usufruito di alcune prestazioni sessuali. È un provvedimento per il quale Leozappa incassa i complimenti telefonici di Anemone, per poi replicare: «Io il mio lo faccio». Neppure il nome di Leozappa è inedito. Appare nell’inchiesta fiorentina sulla presunta cricca, perché lavora spesso con l’avvocato d’affari Guido Cerruti, scelto da Balducci per aiutare l’imprenditore Riccardo Fusi in un suo contenzioso con lo Stato e arrestato lo scorso marzo.

Il magistrato

L’ultimo nome noto ricorrente in questa nuova fase dell’inchiesta perugina è quello di Mario Sancetta. Il regolamento di Arcus del quale la Corte dei conti lamenta la mancanza era stato affidato in origine proprio a lui, magistrato di quell’organismo, attuale presidente di sezione, indagato a Perugia per corruzione. Gli investigatori si stanno rileggendo alcune intercettazioni riportate in una informativa del Ros dello scorso settembre. Il 25 giugno 2009, Sancetta è al telefono con Rocco Lamino, socio del Consorzio Stabile Novus, di cui faceva parte anche Francesco Piscicelli, l’imprenditore che rideva la notte del terremoto dell’Aquila. Sancetta si lamenta dell’atteggiamento inconcludente che hanno nei suoi confronti Lunardi e «il cardinale», identificato poi come monsignor Sepe, perché «non sufficientemente solleciti al soddisfacimento di richieste di commesse» che il magistrato gli avrebbe fatto pervenire. «Non è che sia molto conclusivo, sto’ cardinale - dice -. Io spero allora di incontrarlo, così gli do sto’ depliant… perché l’altra volta gli diedi tutto quel fascicolo che non serve a niente, insomma… come pure ora devo vedere la prossima settimana a coso… Lunardi… anche lui, perché lui mi ha obbligato… ma la gente si piglia le cose degli altri e non gli fa niente… quella è una cosa indegna». Il canovaccio si ripete in altre telefonate, nelle quali Sancetta accenna alla possibilità di sfruttare il suo rapporto con Lunardi per far avere a Lamino qualche commessa da parte di Impregilo («Ma non so se dargli fiducia…») oppure nell’ambito dei lavori post terremoto, magari facendo leva sul fatto che l’ex ministro ha ancora un procedimento pendente presso la Corte dei conti. «Con Lunardi - dice - c’abbiamo una questione ancora in sospeso».

ROMA— Domani la Regione Lombardia potrebbe dare il via libera alla terza pista di Malpensa. Ed è inutile aggiungere che gli ambientalisti sono furibondi. Le motivazioni delle loro rimostranze sono note: l’ampliamento dell’aeroporto, uno dei più problematici d’Italia, comprometterebbe il parco del Ticino, riducendo ancora le aree naturali. Meglio, secondo un documento congiunto di Wwf e Fondo per l’ambiente italiano, sarebbe investire dei soldi per migliorare i collegamenti pubblici, ridefinire un piano aeroportuale per tutto il Nord Italia, ormai pieno zeppo di scali, e magari risolvere la vecchia faccenda delle due piste troppo vicine senza farne una terza. Perché Malpensa ha una particolarità tutta sua: le due piste sono state costruite troppo vicine, fatto che rende praticamente impossibile, in base alle norme internazionali, il loro utilizzo simultaneo.

Difficile dire come si potrebbe tecnicamente rimediare a questo problema senza fare un nuovo nastro d’asfalto. Ma al di là delle pur importanti questioni ambientali (la Lombardia è un’area altamente urbanizzata e il consumo del territorio ha raggiunto ormai livelli inaccettabili, come nel resto del Paese), la decisione che la Regione si appresta a prendere desta molti interrogativi.

Sappiamo che la terza pista di Malpensa è il pilastro del mastodontico piano di sviluppo (1,6 miliardi di euro entro il 2020) della Sea, la società pubblica guidata da Giuseppe Bonomi. Piano che guarda fra l’altro all’Expo 2015, evento dai contorni ancora molto fumosi, ma saldamente, con i suoi 15 miliardi di euro di investimenti, nelle mani delle forze politiche (il Pdl, con derivazioni cielline, e la Lega Nord) che controllano gli enti locali della Lombardia. Piano che soprattutto dovrebbe servire a dare un’identità all’aeroporto che sta a cuore soprattutto alla Lega Nord, partito che ha in quella zona il suo storico bacino politico-elettorale.

Una decina d’anni fa era stato immaginato per quello scalo un futuro da hub, cioè da base operativa per l’Alitalia alleata della olandese Klm. Poi l’operazione è saltata e Malpensa è rimasta in una specie di limbo, condizionato di volta in volta dagli umori della politica. Finché la compagnia di bandiera ha deciso di mettere definitivamente nel cassetto il progetto, tirando anche un respiro di sollievo: se è vero che mantenere un numero rilevante di voli su Malpensa costava almeno 200 milioni di euro l’anno.

Allora si è pensato che potesse diventare un quartier generale per le compagnie, come la tedesca Lufthansa, vogliose di fare concorrenza all’Alitalia, alla quale nel frattempo era stato consegnato il monopolio della rotta Milano Linate-Roma Fiumicino. Insomma, una specie di spina nel fianco della Cai.

Anche quel disegno ha incontrato però non poche difficoltà, segnalate per esempio dalla decisione, presa a febbraio dalla compagnia germanica, di sospendere la linea Malpensa-Fiumicino, giudicata «poco conveniente». Il fatto è che lo scalo varesino si trova pure in una posizione infelice: sempre più assediato da altri aeroporti che succhiano traffico all’aera più ricca d’Italia. Né la lieve ripresa dei passeggeri registrata nei primi mesi di quest’anno ha potuto compensare il crollo del 19% accusato nel 2008 e quello ulteriore di oltre l’8% nell’anno seguente. Vedremo ora quali altri risultati darà la strategia di «Airport driven hub» (parole di Bonomi).

Ma non è forse legittimo chiedersi se il progetto della terza pista non risponda più a un’esigenza della politica che a quelle dei viaggiatori?

Cosa sta succedendo alla Villa Reale di Monza?

Stanno succedendo diverse cose dal cui svolgimento dipende il futuro anche a lunga scadenza della Villa. Anzitutto la nascita del consorzio tra gli enti proprietari (Comune di Monza, Comune di Milano, Regione Lombardia, Stato), uno strumento invocato da anni per snellire la gestione del patrimonio di Parco e Villa. Il consorzio nasce monco (non ha ancora aderito il Comune di Milano) e con uno statuto che penalizza Monza, la quale vede una sua rappresentanza inferiore alle quote di proprietà. Tuttavia la nascita del consorzio è un passo importante e occorreranno alcuni anni prima di poter dare un giudizio equilibrato sulla sua efficacia. In secondo luogo il concorso bandito da Infrastrutture Lombarde (braccio operativo della Regione Lombardia) per identificare un gestore privato della Villa per ben 30 anni. E qui le cose si complicano: perché creare un consorzio per la gestione della Villa per poi cercare un privato che la gestisca? È evidente a chiunque che c’è un passaggio di troppo e che se si voleva far gestire la Villa a un soggetto privato ciò poteva essere fatto direttamente dai proprietari, senza creare un consorzio che rischia di essere inutile e privo di reale potere. Non ci vedo molta logica in questi passaggi.



In che condizioni è oggi la Villa?

Le condizioni della Villa oggi sono grosso modo simili a quelle degli ultimi dieci anni. Il primo piano nobile del corpo centrale è interamente restaurato, mentre permane lo stato di abbandono del secondo piano nobile e di tutta l’ala nord. Ci sono state lodevoli iniziative di apertura al pubblico della Villa nelle ultime estati, ma ancora limitate e poco incisive (pare non si riesca a far aprire al pubblico gli appartamenti della regina Margherita e di re Umberto) e nel 2009 la Villa ha ospitato il forum dell’Unesco sulla cultura, un evento che tuttavia non ha coinvolto la città ed è rimasto interamente confinato agli addetti ai lavori.

Ci parli del bando di Infrastrutture Lombarde?

Ormai, dopo l’intervento del dirigente di Infrastrutture Lombarde al consiglio comunale di Monza, i contenuti del bando sono chiari. Il bando prevede di identificare un soggetto privato che restauri e gestisca la Villa per 30 anni, a fronte di un esborso iniziale di 5 milioni di euro (altri 18 li metterà la mano pubblica) e di un canone annuo di 30mila euro. Si fanno poi precise previsioni sulla destinazione d’uso di alcune parti della Villa: l’intero piano terra verrebbe ad ospitare non meglio precisati “negozi” e “laboratori”, mentre il Belvedere verrebbe trasformato in un ristorante. Nulla si dice sulle modalità dell’intervento di restauro né sulle attività che dovrebbero svolgersi in Villa e a chiunque appare evidente che sarà il privato a cercare il modo migliore di tutelare i propri interessi e investimenti.

Che rischi si corrono?

Per capire quello che accade oggi occorre tornare indietro di qualche anno e cioè al cosiddetto progetto Carbonara, vincitore del concorso internazionale bandito dalla Regione Lombardia sulla base di un dettagliato documento preliminare. Pochi lo sanno, perché si trattava di un progetto oggettivamente imbarazzante e che perciò venne quasi secretato, ma il progetto Carbonara prevedeva la trasformazione della Villa in un colossale residence di lusso al secondo piano nobile e nell’ala Nord, mentre le stanze piermariniane del primo piano nobile sarebbero diventate uffici di rappresentanza del governatore regionale. Con in più l’idea – buffa di per sé ma perfettamente compatibile con l’impostazione del progetto – della beauty farm nei giardini reali. Insomma, è allora che nasce la strategia di rinunciare al ruolo prettamente storico-culturale della Villa in favore di una Villa “produttrice di reddito”. Quello che accade oggi è solo la logica conseguenza di quella sciagurata impostazione. Per “produrre un reddito” conviene la si affidi ad un privato che sappia fare bene il suo mestiere e chiudere un occhio (e magari due) sulla destinazione culturale del complesso. E qui faccio una previsione: il privato manterrà intatto il primo piano nobile – già restaurato - destinandolo alla più svariate attività convegnistiche e di rappresentanza, mentre darà seguito al progetto Carbonara sul secondo piano nobile, trasformandolo in hotel di lusso, col ristorante annesso nel Belvedere, negozi al piano terra e magari anche la beauty farm. Tutto ciò verrà giustificato dalla necessità di rientrare nei costi e non è impedito dal bando. E così la Villa verrebbe trasformata in un gigantesco chateau relais sul modello francese per ricconi desiderosi di un prestigioso soggiorno: una fine molto triste e contro la quale occorre battersi con ogni mezzo.

La presenza del privato è indispensabile?

La domanda è mal posta. In tutto il mondo civile i privati vengono chiamati a collaborare alla gestione di patrimoni artistico-storici laddove ne nasca la necessità. Ma sempre in posizione subordinata e dipendente dalla mano pubblica, che ha come compito istituzionale la tutela del patrimonio storico-artistico nazionale. Qui invece le parti si sono invertite e la filosofia del bando di Infrastrutture Lombarde è quella di “toh, prenditi questa cosa, fanne quello che vuoi, basta che mi paghi il canone a fine anno”. Tanto per chiarire: è mai possibile che il bando - in molte parti assai dettagliato - non intervenga nel merito della gestione della Villa, indicando e specificando le attività che vi si dovrebbero svolgere, le destinazioni d’uso, le finalità dell’intervento sotto il profilo culturale? Nulla è detto di tutto ciò. Tutto è lasciato alle scelte e alla volontà del privato. E in questo quadro appare sconcertante anche la clausola del bando che prevede che gli enti pubblici proprietari possano impiegare la villa 36 giorni l’anno per loro scopi: come a dire, per un mese l’anno cerchiamo di fare qualcosa noi in Villa, per i restanti 11 tu privato hai mano libera.



Cosa pensi delle manifestazioni delle scorse settimane all'interno e nel cortile?

Sono sempre stato favorevole a che la Villa e il suo cortile ospitassero manifestazioni musicali, cinematografiche o altro. È un modo concreto per farla vivere. Però anche qui occorre capire che un conto è se queste manifestazioni sono a compendio di un progetto culturale di una Villa viva e aperta al pubblico, un conto se la Villa deve solo servire da muta scenografia ad un concerto che potrebbe anche svolgersi altrove. A questo proposito sarei molto favorevole a spettacoli son et lumière, che potrebbero collegare una manifestazione spettacolare con la storia della Villa stessa e attirare molto pubblico.

Davvero l'ISA è incompatibile con il futuro della Villa?

Se parliamo in generale niente impedirebbe in linea di principio che un complesso come la Villa ospiti in una sua porzione secondaria una struttura educativa per di più di tipo artistico. E che potrebbe peraltro collaborare fattivamente ad una positiva gestione della Villa progettandone l’immagine coordinata, il materiale informativo, fotografico, filmico, ecc. A mio parere occorrerebbe però che l’ISA diventasse davvero una scuola d’eccellenza, a numero chiuso e con esame d’ammissione attitudinale e magari chiamata nominativa degli insegnanti. Tutto ciò per valorizzarne gli scopi e la funzione, giustificando la sua permanenza negli attuali spazi. Non so dire se ciò sia possibile stante l’ordinamento scolastico vigente, ma certo sarebbe una prospettiva interessante ed affascinante.

postilla

privatizzazione dello spazio pubblico aggravata: suona come un reato, e lo è, soprattutto da parte di chi il “pubblico” dovrebbe rappresentarlo perché a ciò delegato dal voto popolare, e invece ritiene che il proprio mandato sia far rendere la bottega, e magari far qualche piacerino agli amichetti più uguali degli altri. Già si è detto e stradetto del discutibile modello di riqualificazione urbana in cui con la scusa di bonifiche ambientali, sicurezza, economicità gestione e compagnia bella, si producono tessuti urbani di fatto meno permeabili delle attività ex nocive che vanno a sostituire, e accessibili solo a chi paga: proprietario o cliente che sia. Almeno però (non è una scusante, ma facciamo conto che lo sia per scopi retorici) lì c’è un investimento, le aspettative di resa, il rischio, il fatto che in fondo la città si riqualifica, magari i posti di lavoro ecc. ecc.

Ma nel caso di un monumento storico, pubblico da sempre (o quasi), con una collocazione prestigiosa, centrale, perfetta per funzioni di alto profilo culturale e rappresentativo … farne l’ennesimo baraccone “esclusivo” per shopping, massaggi, insomma quella roba che si vede nei film coi nababbi evasori asiatici-caucasici persi nei vapori o spupazzati da geishe plurilaureate poliglotte … quello è spudoratezza pura. Ovvero la cosa a cui stanno cercando di farci abituare, facendo la classica faccina come il culo e spiegandoci pazienti che è il mercato. Concetto cangiante il cui senso è deciso volta per volta, arbitrariamente, da lorsignori, of course (f.b.)

Alcuni professori e ricercatori della facoltà di architettura milanese fondavano, anni fa, il gam, Gruppo Albero Milano. Lo scopo: studiare la possibilità di una vasta piantumazione in strade, viali, piazze e altri spazi pubblici o di uso pubblico che parevano attendersela dal dopoguerra e invece erano stati dimenticati dal Comune a un destino di aridità e squallore; pervenire a progetti particolareggiati caso per caso e coordinarli in un programma generale urbano, una specie di piano di attuazione la cui attendibilità sarebbe derivata dalla correttezza dell’analisi diretta nei luoghi; proporre il piano e i progetti ai tecnici del settore comunale competente per parchi, giardini, verde alberato, ai fini di una seria valutazione economica e di una progressiva realizzazione. Ci furono diversi incontri con i funzionari, specie con l’ingegnere capo, furono illustrati i progetti. Sembrava, al gruppo, relativamente facile discutere di alberature in una città che contava solo 160.000 piante, circa un decimo di pianta per cittadino residente e poco più di un ventesimo per persona presente nella giornata lavorativa. Al contrario, il gruppo dovette presto verificare che le proposte provocavano poco meno che terrore nel reparto comunale che avrebbe dovuto, per così dire, amare il verde per obbligo. Per i funzionari ogni albero vecchio o nuovo pareva un disturbo, una pratica burocratica pesante, una preoccupazione. Meno alberi meno problemi. Del resto, allora, non era gran che forte la richiesta di una maggior sensibilità ambientale degli amministratori pubblici da parte di abitanti o movimenti organizzati. Con una sola eccezione: Italia Nostra, grazie alla quale la città aveva ottenuto due nuovi parchi, il «Bosco in città» (area di via Novara), 120 ettari, e, nelle vicinanze, il «Parco delle cave», 121 ettari, entrambi recupero di spazi a gerbido o agricoli degradati. Il gam, nell’imbarazzo di un dialogo difficile, dovette ripiegare i progetti e rinunciare all’impresa.

Ricordo questo episodio di quasi vent’anni fa mentre a Milano si disputa intorno agli alberi soprattutto a causa della ormai famosa richiesta di Claudio Abbado, come un contratto, 90.000 piante in città in cambio del suo ritorno per dirigere qualche concerto. La discussione si è impantanata sulla questione se e come inserire, in base a un disegno di Renzo Piano accordato col maestro, qualche pianta in piazza Duomo (48 carpini, lato opposto alla chiesa) e filari in via Orefici, piazza Cordusio, via Dante (doppio filare), Largo Beltrami/Castello. Poi, fra presunte difficoltà tecniche e, addirittura, deprimenti contestazioni dei costi dell’équipe di Piano, si è fermata e il programma è stato accantonato. Si tratta, occorre rilevarlo, di soli 217 alberi a fronte dei 90.000 richiesti, per la posizione dei quali non c’è uno straccio di previsione da parte del municipio. E, ricordando le analisi del gam, sarebbero miriadi i luoghi urbani pronti per cambiare, grazie a intense alberature, la loro, è il caso di dire, natura. Alcuni urbanisti (etiam ego) hanno sempre sostenuto che un progetto di grande verde basato su vaste piantumazioni a filari e a macchie rappresenta forse la metà del valore di un buon piano regolatore.

Intanto il programma comunale relativo ai deprecati parcheggi sotterranei, dopo le demolizioni di non si sa quanti alberi con le opere già eseguite, comunque una quantità e una qualità altissime, ne prevede ora altre in piazze per le quali si stenta a credere che possa succedere. Come in piazza Lavater, spazio noto per essere folto di vecchi celtis (bagolari) bellissimi circondati da case tutte rilevanti per qualità architettonica. Aveva ben accertato il gam. L’albero è odiato dagli amministratori pubblici e, se è per questo, non è amato dalla maggioranza dei cittadini. Eppure una proposta di 90.000 piante non è certo utopica. Il numero è troppo piccolo perché rappresenti un ribaltamento di una condizione di penuria ora incancrenita. Per il Comune sono ottime false soluzioni come l’alberello, misero e triste, impiantato, invece che nel suolo, in vasi o vasoni sproporzionati dove lo impedisce il solettone del parcheggio sotterraneo. Accade in tutti i casi di ripristino dopo la costruzione dei silo costati la perdita di alberi veri: le solette e lo scarso strato di terra (dove è finito il vecchio obbligo dei due metri di spessore?) permettono, se non l’impiego di vasi, solo l’impianto di essenze a crescita bloccata. I risultati sono orribili. Vedere, ad esempio, oltre a via Vittor Pisani per i vasi, piazzale Dateo e piazza Risorgimento sulla direttrice Monforte, uno dei primari assi storici di penetrazione verso il cuore della città, con i loro rattrappiti alberini.

Un piano regolatore delle alberature in una città come Milano dovrebbe puntare su una dotazione di almeno un albero per abitante, che significa aggiungerne almeno un milione agli esistenti (ora 170.000). È la misura che pressappoco preventivava il gam.

Intanto il Comune, maestro di odio del verde, ha reso difficile la vita a Italia Nostra nella gestione unitaria del Parco delle Cave (davvero un’oasi incredibile nella disastrata Milano) tanto da costringerla a rinunciare. Sappiamo quale sarà la trasformazione: diverse e spezzettate aree concesse ad associazioni enti società che privatizzeranno gli spazi, recintandoli, costruendo casotti. Sarà quasi impossibile l’uso pedonale e ciclistico libero, aperto, sicuro.

Postilla sulle potature milanesi

Gli alberi dei viali hanno vita grama. Già riescono a difendersi con difficoltà dagli scarichi degli automezzi grazie alla loro capacità di assorbire anidride carbonica e di produrre ossigeno. Non possono invece difendersi dalle potature perpetrate dagli addetti del Comune, dei quali devono sopportare la perversa vocazione a maltrattarli, a toglier loro la parte più bella e utile, la chioma. Arthur Young (Bradfield – Suffolk, 1741-1820, scrittore, saggista, conoscitore di agricoltura, economia, problemi sociali) «condannava duramente la pratica di sfrondare il tronco lasciando soltanto un ciuffo di rami sulla cima dell’albero» (Keith Thomas, L’uomo e la natura, 1983, Einaudi 1994, p. 280). Questa è la brutta consuetudine milanese. Tagliano continuamente i rami bassi e a media altezza ingigantendo il timore di intralcio al passaggio degli autobus, riducono la figura della pianta a quella di uno scopino per la polvere. Di autobus ne potrebbero passare tre o quattro sovrapposti. (Milano, 17 maggio 2010)

Per il tema delle alberature nell’hinterland milanese vedi il mio Utopia metropolitana, 15 marzo 2003.

La Villa Reale di Monza? “La stanno regalando ai privati”. Una delle dimore storiche più importanti del nord Italia sarà gestita per trent’anni da un’azienda privata. L’allarme è stato lanciato da alcuni politici lombardi del Pd. Si sono convinti che la privatizzazione sarà il futuro di Villa Reale, dopo aver ascoltato le parole di uno degli uomini più potenti del gruppo ciellino che attornia il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni: il grande capo di Infrastrutture Lombarde, Antonio Rognoni.

È successo la settimana scorsa nel consiglio comunale di Monza. Rognoni è stato interrogato dai consiglieri durante un’audizione che aveva per tema, appunto, il futuro della Villa Reale. Dopo anni di incuria e abbandono, la Villa sarà finalmente restaurata. Chi la rimetterà a nuovo? Lo deciderà una gara realizzata da Infrastrutture Lombarde, l’azienda controllata dalla Regione che fa da stazione appaltante. Per ora partirà la riqualificazione del primo lotto, 9 mila metri quadrati del corpo centrale, cortile, primo piano, piano nobile, belvedere, in cui saranno realizzati spazi per mostre ed eventi, laboratori, bookshop, caffè, ristorante. Costo: 23 milioni di euro. Chi ce li mette?

E qui arriva il bello, ovvero il brutto, della storia. La Villa Reale dovrebbe essere curata da un consorzio di gestione di cui fanno parte il Comune di Monza, il Comune di Milano, la Regione Lombardia, il ministero dei Beni culturali. Diciamo dovrebbe, perché il Comune di Milano non ha mai formalizzato il suo ingresso nel consorzio e non ha mai pagato neppure un euro di spese, comportandosi come un condomino che neppure risponde alle lettere dell’amministratore. Il ministero di Sandro Bondi ha promesso un milione di euro, ma finora nessuno ha visto un centesimo. Il Comune di Monza ha la guida del consorzio, affidata al sindaco della città Marco Mariani, ma non ci ha messo i soldi.

Gli unici che si sono dati da fare sono stati gli uomini della Regione. Hanno stanziato 20 milioni e affidato a Infrastrutture Lombarde la guida della ristrutturazione. Con un’ideona: far pagare almeno una parte dei lavori ai privati, che ci metteranno 5 milioni di euro (sui 23 totali) e in cambio avranno per trent’anni la gestione della Villa Reale. A un canone irrisorio (30 mila euro all’anno, più uno 0,5 per cento del fatturato). Lo ha confessato Antonio Rognoni durante la sua audizione. Così gli enti pubblici, i Comuni di Monza e Milano, la Regione e il ministero, saranno di fatto esautorati dalle decisioni su come utilizzare la Villa Reale.

“È l’unica soluzione possibile”, replica il sindaco Mariani, “che un privato ci guadagni dalla gestione è tutto sommato una cosa normale”. Reagisce Roberto Scanagatti, capogruppo del Pd al Comune di Monza: “La realtà ha superato i nostri peggiori timori. Rognoni ha confermato che in cambio della propria quota, i privati gestiranno per i prossimi trent’anni il corpo centrale della Villa, il più pregiato”. E Giuseppe Civati, consigliere regionale del Pd, aggiunge: “Il consorzio avrà pochissimi margini per decidere l’offerta culturale e museale di uno dei complessi monumentali più importanti della Lombardia. È una svendita ai privati orchestrata da Formigoni”.

Un decreto interministeriale a doppia firma del 20 luglio 2005 fa comprendere perché Propaganda Fide, la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, il ministero degli Esteri del Vaticano, a Roma sia diventata l’immobiliare dei potenti e, lo sta srotolando ogni giorno l’inchiesta sulla Protezione civile, un luogo di scambio di beni e utilità, un centro primario d’affari per l’imprenditore Diego Anemone, l’ancora di salvezza per gli alibi domiciliari di Guido Bertolaso. In quel decreto, licenziato da Pietro Lunardi, allora ministro delle Infrastrutture, e Rocco Buttiglione, ministro dei Beni culturali per un anno e nove giorni nel Berlusconi Ter, si approvò il largo programma d’intervento speciale di Arcus, società per azioni nata per sveltire le questioni dell’edilizia culturale, rapidamente trasformatasi in una "protezione civile" per gli appalti nei musei, nei siti archeologici, nelle chiese.

Già. Nel lungo elenco che accompagnò il decreto - 87 lavori sparsi in Italia, 51 milioni e 900 mila euro di finanziamenti, in buona parte elargizioni ad amici del centrodestra – c’erano anche luoghi sacri. Alla riga 29 del Piano interventi di Arcus, società privata di Stato, si prevedeva il finanziamento del restauro del palazzo seicentesco realizzato da Bernini e Borromini, oggi allocato in piazza di Spagna 48. Restauro del palazzo più realizzazione di una pinacoteca: 2,5 milioni di euro pubblici. Il palazzo, però, cresceva in territorio vaticano, lo ricordano l’insegna e la bandiera. Ma i buoni rapporti tra il Governo Berlusconi e la struttura allora guidata da Monsignor Crescenzio Sepe si scoprono, oggi, leggendo le carte della magistratura di Perugia.

L’anello di congiunzione tra i laici ministeri e l’ente di evangelizzazione era al solito Angelo Balducci, allora gentiluomo del Papa e uno dei tre gestori del patrimonio immobiliare di Propaganda Fide (duemila appartamenti nella capitale). Come è noto, Balducci era anche il più importante funzionario italiano del mattone pubblico, aveva saldato un rapporto oltretevere grazie al grande cantiere del Giubileo del Duemila e, come ha raccontato a "Repubblica" Pietro Lunardi, era l’omo di fiducia del ministro delle Infrastrutture, il "tecnico" che gli suggeriva il ristrutturatore edile (Anemone) per le sue tenute di campagna e gli forniva l’elenco delle case di Propaganda Fide da cui scegliere la dimora romana (sarà in via dei Prefetti, un palazzo di tre piani acquistato dal ministro Lunardi per la metà del suo valore). In quelle stagioni anche al consigliere politico di Lunardi, Vito Riggio, oggi presidente dell’Enac, fu assegnata una "casa Fide": era in via della Conciliazione 44, immobile di pregio normalmente destinato all’alloggio dei cardinali.

Ma perché Propaganda Fide a partire dal Duemila ha organizzato una rutilante attività immobiliaristica d’élite? Perché ha voluto consegnare appartamenti di lusso ai potenti d’Italia a prezzi scontati? Gli inquirenti, nell’interrogatorio che nei prossimi giorni si svolgerà a Perugia, chiederanno all’ex ministro Lunardi anche dell’eventuale rapporto tra i suoi beni privati e i decreti firmati, innanzitutto quello che ha stanziato 2,5 milioni per restaurare il palazzo di piazza di Spagna (la pinacoteca è annunciata pronta per il prossimo ottobre). Successivamente, Arcus - con ministro Sandro Bondi - avrebbe finanziato il restauro dei cortili interni della Pontificia università gregoriana di Roma: 1,5 milioni tra 2010 e 2011 (nonostante lo Stato fosse già intervenuto con 899.944 euro presi dai fondi dell’8 per mille).

È interessante notare come il capo dell’Ufficio legislativo di Lunardi, colui che avrebbe dovuto emanare il regolamento Arcus, era Mario Sancetta, oggi indagato per corruzione nell’"inchiesta Anemone". Il Consiglio di amministrazione di Arcus negli anni 2004-2008 era invece composto, tra gli altri, da Elena Francesca Ghedini, sorella dell’avvocato-deputato Pdl, destinataria di diversi finanziamenti per il suo dipartimento di Archeologia dell’Università di Padova, ed Ercole Incalza, oggi responsabile della struttura di missione del ministro Altero Matteoli, noto per l’appartamento romano comprato alla figlia grazie a un contributo dell’architetto Zampolini. Ecco, Zampolini, mancava lui per colorare questo estratto anemoniano in territorio vaticano. Nel 2003, come ricorda il sindacalista Uil Gianfranco Cerasoli, gli venne affidata la facciata dell’oratorio borrominiano: la Sovrintendenza lo fermò. Sulla ristrutturazione, ora, si è aperta un’inchiesta della Corte dei conti.

Di chi è Milano? Chi la sente propria al punto da volerla difendere dai troppi profittatori? Di sicuro non se ne sente interprete e paladina l'attuale classe politica. Chi ama questa città mai avrebbe varato il piano dei parcheggi sotterranei. E le presunte buone intenzioni stanno a zero di fronte ai catastrofici risultati. Il tour delle macerie e degli ingombri da piazza Novelli alla Darsena, da piazza Sant'Ambrogio a piazza XXV aprile, da via Gavirate a piazza Meda stringe il cuore fra esercizi commerciali vuoti e altri con le serrande abbassate. Quanti hanno proposto e accettato che interi quartieri venissero dissestati senza porsi il problema dei disagi sicuri e degli intoppi probabili è risultato nei fatti un nemico di Milano.

Ma alle sue sorti paiono insensibili anche gli abitanti: la presunta società civile— per valutarla basta aver partecipato a una sola assemblea di condominio — avrebbe punito con il voto i responsabili dello sfascio urbano, al di là di ogni considerazione ideologica. Invece sembriamo più interessati all'elevazione di sottotetti e di mansarde, all'invasione abusiva di ogni spazio, allo sberleffo di regole e leggi. Si ha l'impressione che tanti, dopo aver riservato ogni energia alla guerra quotidiana in strada, fra soprusi di ogni tipo, siano alla fine talmente esausti da subire le soverchierie dei propri rappresentanti. D'altronde li abbiamo eletti noi: quanto meno siamo corresponsabili delle scelte che ci si ritorcono contro.

Milano vive fra annunci roboanti e realtà assai modeste. Da quanti anni vengono ripetute le promesse sulla cittadella della giustizia, sul polo museale, sulle due nuove metropolitane? I turbamenti dell’amministratore delegato dell'Expo prevalgono sulle sorti della stessa Esposizione universale, che dovrebbe costituire una straordinaria opportunità, ma ogni giorno sembra allontanarsi. Da molti interventi traspare la preoccupazione di non farcela, in parecchi emerge quasi il disappunto di aver ottenuto la designazione: sono bastati trenta mesi per trasformare una strepitosa vittoria, che aveva fatto parlare di sistema Paese, in una possibile iattura. Eppure Milano ha sempre vinto le sfide cominciando dalla ricostruzione della Scala nel '45. In dieci anni furono approntati oltre sessanta chilometri di linee metropolitane. Già allora risaltavano condotte spregiudicate, però qualcosa rimaneva alla comunità.

Oggi fra tangenti celate nei pacchetti di sigarette e atteggiamenti di ordinaria soverchieria maschilista s'avanza una generazione di mezze calzette. La corruzione dilaga e ai milanesi restano in mano solo le promesse del sindaco, degli assessori, dei consiglieri di ambo gli schieramenti. Spesso si vantano di essere prestati alla politica, ma che rimpianto per quei bei professionisti di una volta. E che rimpianto per quei bei milanesi di una volta capaci di eleggere chi sapeva soddisfare i bisogni dei concittadini, oltre ai propri.

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