Là dove c’era la spiaggia Torre Mozza,
resta lo spazio per una sola fila di ombrelloni
di Francesca Lenzi
In tre anni persi quattro metri di arenile: le barriere non reggono
PIOMBINO. Nei punti più larghi raggiunge a fatica i 20 metri di profondità. Ma è l’eccezione. Lo spazio medio ormai si aggira intorno alla metà: in alcuni casi la spiaggia sparisce del tutto, coperta dalle onde, o impedita dal crollo di un albero, piegato da una mareggiata e finito sulla sabbia. Siamo a Torre Mozza, una delle spiagge della costa est piombinese sulla quale l’azione erosiva del mare mostra in maiera più chiara i propri devastanti effetti. Soprattutto dalla parte verso Follonica.
Volgendo lo sguardo in quella direzione, subito a lato del torrione che dà il nome alla località, la spiaggia è solo uno stretto cordone di sabbia. La riduzione dell’arenile non è certo cosa nuova. I tanti bagnanti che da anni frequentano la zona sembrano essere d’accordo nel ricordare una costante attività di erosione che ha portato Torre Mozza all’aspetto attuale. Certo è che ormai, di fronte alla modesta striscia di rena, ogni ulteriore sottrazione, benché minima, rappresenta un evidente e doloroso guaio.
Esemplare è il caso del bagno “Torre Mozza Beach” che si estende per 240 metri su un’unica fila di ombrelloni. I clienti hanno l’indubbio vantaggio di una vista mare affascinante e libera, ma i problemi che la situazione crea ai gestori non sono pochi: «Ogni sera dobbiamo togliere le sdraio per evitare che il mare durante la notte se le porti via. È un grande impegno di energie e di denaro. Ogni anno è peggiore del precedente. In tre stagioni se ne saranno andati 4 metri di spiaggia».
Per cercare di ridurre l’azione dell’acqua si è provveduto con la costruzione di una barriera in muratura e l’introduzione ad argine di nasse contenenti grosse rocce. Purtroppo in diversi punti la parete è crollata, trascinando parte del terreno retrodunale, mentre non tutte le recinzioni hanno retto.
La sistemazione del muro e il rifacimento delle reti faranno parte di un intervento già predisposto. È ormai imminente infatti il piano definitivo per il ripristino del sistema dunale della costa est piombinese, risultato del finanziamento della Regione e che interesserà 6 chilometri di litorale. Riguardo alla questione più complicata di un eventuale ripascimento, non esistono al momento previsioni di interventi in mare.
Nonostante la situazione non certo rosea, nella più larga considerazione a livello regionale, Torre Mozza non risponde ad uno stato di urgenza erosiva tale da valutare un’operazione simile.
È in atto però un monitoraggio costa per controllarne lo sviluppo, ed eventualmente concepire un progetto operativo da avviare in un secondo tempo. Non solo nell’ambito di Torre Mozza, ma in relazione ai vari tratti della costa est più gravemente colpiti dall’erosione.
Porti, non villaggi: stop a Talamone
di Carlo Bartoli
Ancora alta tensione nel Pd, il coordinatore Sani attacca la Regione «L’assessore Marson sbaglia, però la costa va protetta dalle speculazioni»
Piombino sì, Talamone no. Livorno sì, Cecina nì. Il dibattito sui nuovi porti turistici e sul pericolo di cementificazione della costa, è incandescente e da Luca Sani, coordinatore della segreteria regionale del Pd, arriva una rimessa a punto della posizione del Pd toscano, che molti osservatori avevano giudicato in rotta di collisione con l’assessore regionale Marson che ha il sostegno del presidente Enrico Rossi. Da Sani arriva un netto no a un neocentralismo regionale, ma anche un’apertura a ridiscutere progetti particolarmente invasivi.
Tra giunta regionale e Pd si è sfiorata la guerra. Come mai?
«Discutere del governo del territorio come dei porti turistici è necessario, ma sarebbe opportuno che, prima che sulle pagine dei giornali, il dibattito si svolgesse nelle sedi appropriate. Altrimenti si rischia di promuovere discussioni estive autoreferenziali, mentre la pianificazione urbanistica ha bisogno di confronto e concertazione. Per questo è positivo l’invito del presidente Rossi ad aprire a settembre un confronto di merito».
Quello dei nuovi porti turistici è un tema delicatissimo. Come mai?
«Non comprendo i pregiudizi ideologici nei confronti di un certo tipo di nautica. Se a Livorno si è favorito l’insediamento dei cantieri Azimut nell’ex area Orlando, è evidente che va prevista la realizzazione di porti in grado di accogliere anche i grandi yacht».
Non nutre alcun dubbio sui progetti presentati?
«Al Pd non piacciono le lottizzazioni immobiliari camuffate da porto turistico. Se a Piombino si è definito un progetto sostenibile, scongiurando appetiti immobiliari e tenendo conto delle reali esigenze della nautica, la stessa cosa va fatta anche nei casi in cui la cubatura residenziale rischia di essere debordante. Come era, e forse è ancora, nelle intenzioni della giunta di centrodestra di Orbetello, per il nuovo porto di Talamone».
Non vorrà criticare solo l’unico porto promosso da un Comune di centrodestra?
«Noi vogliamo che vengano realizzati porti e non villaggi e se si sono previsti migliaia di metri cubi di residenziale è bene parlarne. Facciamo pure una riflessione sulle strutture a terra. Ho fatto l’esempio di Talamone perché lì c’è il rischio di snaturare un ambiente di grande pregio. Se ci sono altri casi Talamone è giusto discuterne. L’attuale Pit dà, comunque, grandi garanzie. Il progetto del nuovo porto di Cecina, datato 13 anni fa, ad esempio, non sarebbe proponibile oggi. Sulla portualità serve un confronto a cui partecipino tutti i protagonisti della filiera nautica».
Non pensa che la Marson rischi di soccombere sotto il fuoco amico?
«Sulle politiche di governo del territorio, il ritorno a un neocentralismo regionale non è garanzia di maggior qualità urbanistica o tutela ambientale: molti degli interventi edilizi su cui in questi anni si è discusso sono il residuo delle pianificazioni sbagliate adottate ai tempi della famigerata Crta, molto spesso modificate al ribasso. Per questo, non servono le fughe in avanti dell’assessore Marson, anche perché rischiano di legittimare gli stessi comportamenti da parte di altri amministratori».
A chi si riferisce?
«Al caso dell’Alta velocità e dell’aeroporto a Firenze. L’invito del presidente Rossi ad aprire un confronto servirà anche a ribadire le scelte infrastrutturali fondamentali che sono Tirrenica, Due mari e Alta velocità. Anche su questo, occorre una visione di insieme lontana da localismi e da protagonismi mediatici».
Resta l’incubo cemento
CAPALBIO. Le associazioni ambientaliste, dopo l’incontro con il sindaco di Capalbio, Luigi Bellumori, confermano gran parte dei loro dubbi in merito al rischio-cementificazione in una delle spiagge maremmane più incontaminate [vedi il comunicato stampa in calce].
Pur considerando positivo il confronto, viene sottolineata negativamente «la volontà, ribadita dal sindaco, di concedere al privato interventi ad alto reddito/rendita quali il porto turistico al Chiarone e il nuovo villaggio turistico, per ottenere in cambio finanziamenti per la sistemazione idrogeologica del Fosso Chiarone e delle aree circostanti».
Le associazioni, in una lettera firmata tra gli altri da Alberto Asor Rosa, Vittorio Emiliani e Gianni Mattioli, ripetono «la necessità di preservare un patrimonio ormai unico alla fruizione corretta dei cittadini attraverso il mantenimento dell’ampia fascia di spiaggia libera e pensando, assieme al Wwf, gestore della riserva naturale del Lago di Burano, a forme più ampie di turismo naturalistico al di fuori della stagione estiva».
“E certo, adesso dobbiamo andare via noi per infilarci qui i padovani!”, dice Ovidio, uno dei protagonisti del bellissimofilm documentario di Mossa e Trentin, Furriadroxus, mentre prepara i pomodori seccati da un sole che i padovani, mischineddus, non vedono mai. Non ci credeva, Ovidio, che i padovani sarebbero arrivati, sembrava impossibile a lui che non sapeva neanche “dove fosse la costa smeralda”. Invece i padovani, aiutati dai sardi, sono riusciti a portare la costa smeralda in casa sua. Continua la vita di sempre, Ovidio, coltiva pomodori con sapore di pomodoro, si occupa delle vacche e delle pecore. Ma gli si legge in faccia che è ancora vivo solo perchè è testardo. E troppo arrabbiato. E’ anche diffidente e se la prende troppo, Ovidio.
Eppure il “Resort di Capo Malfatano si inserisce con un progetto di raffinata sensibilità in un ambiente di selvaggia bellezza”, con “l’hotel a 5 stelle articolato su più edifici, la SPA, i ristoranti, il centro sportivo, le piscine, le ville con grandi giardini si adeguano al paesaggio naturale con colta semplicità, sviluppandosi al massimo su due livelli e assecondando i movimenti dolci del terreno”. Lui non ha venduto, non è voluto andare via, ma ora vede il suo orto concluso circondato da un cantiere che ha sconquassato la sua terra e devastato la “selvaggia bellezza” costruendo le prime tredici ville. E non lo consola neanche un poco pensare che “forme e materiali sono ripresi dalla tradizione e rimodellati in una modernità fondata nel tempo con eleganza e linearità minimale”. E’ ingrato, Ovidio e non ha un moto di orgoglio neanche quando gli dicono che “dal punto di vista architettonico il riferimento preminente è il furriadroxiu e comunque gli esempi degli edifici colonici del paesaggio agrario”. Sarà perchè non è mai stato in costa smeralda e non conosce il mondo, ma lui proprio non riesce a vedere nessuna affinità tra le ville con “zone living” che “si protendono verso la natura godendo di ampie vedute” e il suo furriadroxu, fatto con la terra dove è nato e che non ha alcun bisogno di “protendersi” perchè è parte della natura. E gli sfugge persino la somiglianza tra la sua vasca in pietra per abbeverare le bestie e la piscina - di cui, ovviamente, è dotata ogni villa - che “si misura con l’essenzialità del paesaggio Malfatano”.
Ma Ovidio non è solo. Anche noi abbiamo imparato ad essere diffidenti, soprattutto quando sentiamo che “la scelta dei materiali ed il progetto del verde confermano una rilettura attenta del territorio, accompagnata dalla grande attenzione al rispetto ambientale”. E allora vediamolo nel dettaglio questo vero progetto di sviluppo sostenibile, raro esempio di “complesso eco-compatibile”. Non è complicato. Prevede di riversare 150.000 metri cubi di cemento su 700 ettari di territorio assolutamente intatto, uno dei più tutelati dal Piano Paesaggistico Regionale. Il progetto è andato avanti solo perchè l’art. 15 delle norme di attuazione, purtroppo, per i comuni dotati di piano urbanistico, fa salvi gli interventi approvati e con convenzione efficace alla data di adozione dello stesso Piano Paesaggistico. Lo “spezzettamento” degli interventi - tecnica consolidata in Italia ma in contrasto con la normativa europea - ha evitato la procedura di valutazione d’impatto ambientale. Il Comune di Teulada ha fatto il resto, rilasciando i nulla osta per i singoli comparti edilizi, perchè i progetti presentati sono compatibili con i valori tutelati. Alberghi, ristoranti, piscine, ville e centro sportivo non contrastano con la “presenza di risorse e caratteristiche ambientali che includono paesaggi agropastorali e naturali ed una eredità culturale ad essi legata e rappresentata dal furriadroxius”. E si integrano perfettamente con la “permanenza del sistema insediativo rurale diffuso dei Medaus e Furriadroxius come testimonianza di un modello storico-consolidato dell’abitare”. Eppure il Piano Paesaggistico Regionale individua il più grande fattore di rischio proprio nella “vulnerabilità del patrimonio insediativo rurale dei Medaus e dei Furriadroxius, dovuto a fenomeni di abbandono o riconversione a fini turistico ricettivi incoerenti con i caratteri insediativi e paesaggistici tradizionali”. Ma questo progetto piace tanto al Consiglio comunale che ha anche approvato alcune modifiche di destinazione d’uso, autorizzando l’incremento della funzione residenziale fino al 25 per cento, nonostante Teulada abbia quasi la metà delle abitazioni - circa duemila - vuote.
Pazienza per il Sindaco che mira ad avere un paese fantasma e una popolazione formata da soli camerieri e giardinieri, ma la Soprintendenza? Come sempre, inspiegabilmente, anche per l’organo di tutela nulla osta alla costruzione: gli interessi economici, ancora una volta, possono devastare il nostro paesaggio e distruggere il patrimonio culturale in barba all’articolo 9 della Costituzione.
Si deve riconoscere che non è facile resistere ai “padovani” e ad un intervento tanto eco-compatibile da vincere addirittura il “Mattone d’Oro”. Orgogliosa promotrice del progetto è la società S.I.T.A.S. S.r.l., insieme alla Sansedoni S.p.A., ai Benetton - i grandi ambientalisti - con la società Ricerca Finanziaria, al Gruppo Toti e infine, al Gruppo Toffano di Padova. L’immancabile Mita Resort s.r.l. dei Marcegaglia gestirà i due alberghi a cinque stelle composti da 300 stanze.
Intanto, la campagna pubblicitaria è già iniziata. E i premiati distruttori, con involontaria ironia, ci comunicano che “la grande comodità che offre Capo Malfatano è di essere fuori dal mondo, in un habitat dominato dal sentore mielato delle essenze mediterranee, dal sole e dal grande orizzonte libero del mare nel magico distacco dal quotidiano occidentale più frastornante”.
Chissà se Ovidio se n’è accorto.
Maria Paola Morittu è Referente Regionale per la pianificazione territoriale di Italia Nostra, e ha frequentato tutte le sessioni della Scuola di eddyburg. Le descrizioni del progetto e degli interventi edilizi sono riprese dal sito del Gruppo Toti e da quello della Sansedoni S.p.A. dove sono visibili anche le orrende simulazioni
Dopo due anni di governo della città è venuto il momento di tentare un primo bilancio sull'urbanistica romana ispirata dal sindaco Alemanno. Siamo infatti ormai di fronte ad un quadro abbastanza chiaro che consente una lettura attendibile almeno sotto due ordini di considerazioni: l'orizzonte culturale con cui si affrontano le trasformazioni urbane e i soggetti a cui sono state affidate le chiavi della città.
Riguardo al primo punto non c'è dubbio che la nuova amministrazione abbia estremizzato oltre misura la cultura dei grandi eventi che sembra ormai l'unica possibilità di governo delle città italiane. Cancellata l'urbanistica, e cioè la modalità con cui un'intera comunità tenta di delineare un futuro possibile, le prospettive urbane sono affidate alla prospettiva dei grandi eventi.
Tutte le energie della città sono dunque concentrate sul progetto Millennium, e cioè per la preparazione alla candidatura ai giochi Olimpici del 2020. I giochi invernali di Torino, l'expo di Milano, solo per fare due esempi, sono ormai le uniche ricette che un sistema politico in profonda crisi è capace di pensare.
Di fronte a malesseri urbani sempre più acuti e generalizzati - dopo venti anni di dominio neoliberista non c'è infatti nessuno che possa affermare che le condizioni di vita delle nostra città siano migliorate - la soluzione è quella di fornire dosi industriali di ossigeno al malato. Senza riflettere che gli effetti sono letali. A Torino il fiume di denaro pubblico utilizzato non ha prodotto alcun risultato e anche il bilancio economico è fortemente negativo. Il Sole 24 ore del 7 aprile ci racconta poi che per i giochi Olimpici del 2004 Atene ha speso 11 miliardi per opere faraoniche oggi inutilizzate e destinate anche «a parziale demolizione», mentre gli introiti hanno coperto solo il 20% delle spese.
Ma il fatto grave è che nel caso romano l'orizzonte del grande evento non si limita alla candidatura olimpica. È divenuta prassi quotidiana. Invece di interrogarsi fino in fondo sui modi per uscire dalla crisi economica in cui versa la città, alleviata soltanto dalla presenza ancora estesa della pubblica amministrazione o del settore delle comunicazioni, si sceglie il modesto diversivo della Formula 1 automobilistica all'Eur. Nessuna città al mondo può vivere dell'effimero, tanto meno Roma, eppure si veicola una proposta inutile soltanto per ingraziarsi alcuni gruppi mediatico-finanziari e la lobby degli albergatori.
Si strizza l'occhio al turismo effimero anche con la proposta di un ridicolo parco a tema sulla «Roma imperiale». Le altre grandi città del mondo fanno a gara per rendere sempre più accoglienti i maggiori elementi di richiamo storico e culturale. Da noi si assiste impassibili al crollo della Domus Aurea e si pensa di richiamare turisti con una cittadella di cartapesta. Ma anche qui non è soltanto insipienza di qualche assessore (che pure c'è): è l'adempimento al patto scellerato con i padroni della aree ancora libere. L'eterna spinta all'espansione urbana e alla speculazione edilizia.
E anche la realizzazione di infrastrutture considerate «normali» negli altri paesi, diventa veicolo di straordinarietà. Il progetto della linea «D» (Talenti-Eur) fu affidata da Veltroni al potente gruppo Condotte. Oggi si vorrebbe cancellare l'opera: il risarcimento per la società affidataria ammonterebbe a oltre 400 milioni. Niente male per i cantori del «non ci sono i soldi». Il prolungamento della linea «B» (Rebibbia-Casal Monastero) è stato incardinato sulla cessione di una serie di aree pubbliche: i privati attuatori finanzieranno la metropolitana costruendo su quelle stesse aree. È il modello della «cattura del valore» di quella vergognosa vicenda della Quadrilatero Umbria-Marche. A Parigi in tre anni hanno realizzato una nuova linea tranviaria con progetto, soldi e regia pubbliche. Da noi per realizzare tre chilometri di metro si svende il territorio e si alimenta la speculazione immobiliare.
Ma a chi volete che importino queste considerazioni oggettive? Viviamo nell'era del dominio mediatico e i principali quotidiani romani (Messaggero e Tempo) sono in mano a proprietari di vasti terreni da valorizzare e società che vivono anche di appalti pubblici. E questo gruppo di comando non fa sconti: avendo contribuito generosamente all'elezione di Alemanno, oggi presenta il conto. Questa tragica subalternità dei poteri pubblici verso i potentati economici svela il suo volto non solo nei casi appena narrati, ma anche nella vicenda Acea, dove Francesco Gaetano Caltagirone sta imponendo i suoi disegni anche a costo di privatizzare un'azienda costruita in decenni di giganteschi investimenti pubblici e di competenze tecniche. Così, mentre ci continuano a dire che non ci sono soldi per soddisfare l'immenso arretrato di infrastrutture e di servizi delle città, dietro al proscenio si apparecchia un lauto pranzo fatto di immensi finanziamenti pubblici che andranno nelle mani di pochi.
Ecco perché le amministrazioni pubbliche sono obbligate a percorrere la strada dei grandi eventi: le possibilità del governo quotidiano sono state ridotte al lumicino e le risorse vengono erogate a patto che la regia dell'operazione sia «fuori scena», facilmente indirizzabile verso esiti -e quadranti urbani- che interessano i soliti noti. Ripeto, questa strada rovinosa non è stata inventata da Alemannno. Non c'è soltanto il precedente rutelliano della fallita candidatura alle olimpiadi del 2004, ma identico problema si pone per tutte le città italiane. Si ottengono finanziamenti soltanto se la regia sta in mano ai Bertolasi di turno o delle tante società di scopo create in questi anni per togliere trasparenza all'azione delle pubbliche amministrazioni. È la crisi della democrazia reale. E infatti il recente incontro con le grandi star dell'architettura si è svolto senza che ci fosse la minima possibilità per la società civile di esprimersi. È una società rigidamente divisa quella che si afferma: pochi controllano ogni centro decisionale. Gli altri hanno solo il diritto di abitare in squallide periferie.
Ma proprio qui si rintraccia il punto debole dell'azione di Alemanno che non tarderà a produrre i suoi effetti. Due anni fa sono state come noto le periferie a tributare il successo del centro destra. Dopo due anni, proprio grazie al trionfo della cultura dell'evento straordinario da affidare agli eterni padroni della città eterna, nelle periferie si respira un'aria sempre più preoccupante.
Si è compreso che non solo nulla è cambiato ma che il destino di ulteriore marginalizzazione è scritto nei rapporti di sudditanza economica che nessuno osa più mettere in dubbio. Un solo esempio. A Casal Monastero estrema periferia a nord della città la precedente amministrazione aveva pensato bene di portare la qualità urbana che manca attraverso il trasferimento degli autodemolitori ubicati nell'area di Cinecittà! Quell'insensato progetto è stato confermato e verrà attuato nelle prossime settimane. Così dopo aver condannato la precedente, le periferie volteranno inevitabilmente le spalle anche a questa amministrazione.
Ecomostri
Salento da salvare
di Stefano Miliani
Un’autostrada che fa tabula rasa di olivi secolari per 5 minuti di meno. 7 chilometri rovineranno il “Tacco d’Italia”
Muretti a secco in pietra su zolle dure, olivi antichi ed enormi, un territorio di lieve ondulazione dove l’odore de mare e della terra si confondono e si compenetrano, dove i paesi in cui d’estate e a Natale torna chi è andato altrove, sono collegati da un reticolo di strade e stradine. L’immaginario un po’ da cartolina eppure non lontano dalla realtà assegna questo scenario al «Tacco d’Italia»: a quel Salento che da un po’ di anni s’è conquistato una reputazione da meta paesaggisticavacanziera grazie a più varianti (umane, non urbanistiche): da un lato un risveglio culturale maturato intorno alla riscoperta della «pizzica» e delle tradizioni con i suoi addentellati culturalturistici, dall’altro grazie a un territorio parzialmente ben conservato e comunque, laddove non ferito, unico (e che ha peraltro affascinato più registi). Salvo mutamenti (non inversioni) di rotta, però, il paesaggio ultimo salentino verrà ferito gravemente da un’autostrada con un viadotto sproporzionato e una rotonda stradale a dir poco troppo invadente.
Un progetto, in origine pensato per comprensibili ragioni di sicurezza stradale lungo un tragitto segnato da troppi incidenti, raddoppia la statale 275 (la strada che porta da Lecce all’estrema punta del «Tacco»), nel tratto a sud di Maglie alle porte di Santa Maria di Leuca. Per l’ultimo tratto il piano ha incontrato forti contestazioni e diviso gli animi. Il Tar ha bocciato gli ultimi ricorsi del Comune di Alessano e di associazioni ambientaliste. Salvo copertura dei finanziamenti incompleta l’Anas avvierà i lavori nel 2011.
E mentre sul sito www.sos275.it l’omonimo comitato raccoglie firme per una petizione popolare, lotta per soluzioni più compatibili Luigi Nicolardi, sindaco di Alessano, paesino 11 chilometri a nord di Santa Maria di Leuca. Architetto, 50 anni, descrive allarmato lo scenario prossimo venturo: «I nuovi 7 chilometri dell’ultimo tratto dall’intersezione con la provinciale 210 a Santa Maria di Leuca taglieranno in due l’ultima propaggine delle serre salentine. Per realizzarli costruiranno un viadotto lungo 500 metri con 13 coppie di piloni alti 12 metri: avrà bisogno di essere preceduto e seguito da due terrapieni di altri 500 metri ciascuno, creando alla fine una piccola montagna larga 30 metri e lunga un chilometro e mezzo.
Non bastasse questo scempio, per collegare la nuova autostrada a 4 corsie con la 274, che porta a Gallipoli, costruiranno una rotatoria immensa che creerà una sorta di terra di nessuno e in un’area di alto valore archeologico. Tutto questo per 7 chilometri. Realizzate le 4 corsie, si risparmieranno 5 minuti». A quale prezzo? Almeno un centinaio di milioni di euro, indica Nicolardi, forse qualcosa di più. E con effetti paradossali, segnala l’architettosindaco in carica dal 2001 e che nel 2011 lascerà: «Per arrivare a Santa Maria di Leuca avremo 16 corsie: le 2 dell’attuale 275, le 2 della Jonica (la 274), le 2 della litoranea da Otranto, le strade e stradine di penetrazione intercomunali, infine le nuove 4». Sedici corsie, utili per una città media.
Il progetto approvato nel marzo 2006 è nato in casa del centrodestra, il Pdl locale lo difende e attacca Nicolardi, in realtà non ha un’etichetta politica univoca e spacca le popolazioni, come dividerà le serre salentine, perché la 275 è chiamata anche la strada della morte per i suoi incidenti fatali. «La verità è che questi 7 chilometri di autostrada devasteranno il territorio. Ma abbiamo bisogno di una vera stradaparco che, invece di avere svincoli e quel viadotto, sia “a raso”, cioè a livello del terreno, abbia 2 corsie e piste ciclabili. Abbiamo la controproposta concreta, non siamo per il no integrale, siamo per una modifica. La sicurezza stradale è essenziale, ma uccide soprattutto la velocità, e se ora distruggiamo il territorio, diamo anche un colpo mortale al turismo». A riprova ricorda che il primo tratto dell’autostrada, da Scorrano a Montesano, non ha incontrato proteste. Attraversa un territorio già urbanizzato e con industrie, dal traffico pesante: allarga quanto già esiste. È nuovo invece il tratto da Montesano a Santa Maria di Leuca.
Chi lo difende teme anche di perdere finanziamenti. Non sono spiccioli: l’ex governatore Fitto il 31 luglio 2009 aveva fatto fare una delibera al Cipe il Comitato interministeriale per la programmazione economica da 135 milioni, cui ne ha aggiunti 152 la Regione Puglia portando l’intero appalto a quasi 288 milioni. Già, la Regione non può tirarsi fuori. La giunta Vendola è contraria? «Sì, ricorreremo al Consiglio di Stato risponde l’assessore regionale ai trasporti Guglielmino Minervini . Quest’opera, nata male e gestita peggio, è figlia del suo tempo. Come Regione, insieme a Vendola abbiamo cercato di mitigare l’impatto ambientale per la fragilità del territorio formalizzando delle prescrizioni all’Anas, che l’Anas non ha considerato. Il 6 agosto abbiamo rispedito loro una proposta per un tavolo tecnico. Per noi i margini per migliorare il progetto ci sono, la matassa è aggrovigliata, se non si vuole pregiudicare la disponibilità finanziaria, dobbiamo cogliere questa opportunità nata con una filosofia sbagliata». Una filosofia, anzi un’ideologia del costruire ovunque che in Italia ha fatto danni inestimabili, ai paesaggi e a chi ci vive, e che ferirà gravemente il lembo finale delle ineguagliabili serre salentine.
La bellezza della Puglia vale meno del cemento?
di Beppe Sebaste
Se i cittadini si rendessero conto della loro fame di bellezza ha scritto lo psicologo James Hillman ci sarebbe ribellione per le strade». Ma c’è un partito trasversale del cemento che della politica e dell’economia della bellezza, nella sua miopia o cecità, proprio non si cura. È un tema ovunque attuale, ma ora riguarda la meravigliosa bellezza del Salento, in particolare le cosiddette Serre salentine che da Specchia si avvicinano al capo di Leuca, la terra dei due mari. Il progetto di superstrada già finanziato dal governo (come fu per la ridicola metropolitana a Parma, poi abbandonata), in nome di un’inutile velocità disprezza e rischia di devastare un territorio, già amato dai turisti, che aspetta solo di essere valorizzato per quello che già è, senza abbellimenti né soprattutto omologarsi a modelli importati.
Cammino nell’ultima propaggine delle serre salentine, tra olivi secolari, lecci, macchia mediterranea, piante di mirto e carrubo; costeggio muretti a secco, pietre che cantano e testimoniano una cultura millenaria sedimentata in una placida e laboriosa bellezza, come la terra rossiccia sotto i piedi. Cammino sotto il cielo azzurro sui sentieri di campagna tra Alessano, San Dana e Gagliano del Capo alla mia destra la morbida collina in cui sorgeva un villaggio messapico, e oggi lo stupendo borgo di Montesardo.
Percorro il tragitto virtuale di quell’ultimo pezzo di superstrada che violenterà questa bellezza, e sento angosciosamente incombere sulla testa il peso virtuale del viadotto, 26 piloni di cemento per 12 metri di altezza, più 1 km di terrapieno che cancellerebbe, oltre a tremila alberi di ulivo, l’identità di questo paesaggio. Che cancellerebbe la ragione stessa per cui io e tanti altri ci troviamo qui, in Salento, turisti e amatori, in una terra stupenda la cui identità è inseparabile dal valore della lentezza. È qui che la regione Puglia, il Comune di Alessano e l’Università del Salento hanno realizzato un «Ecomuseo del Paesaggio», valorizzando i caratteri identitari del territorio col recupero di memorie orali, la Storia e le storie, insieme a visioni, odori, sapori.
A che vale arrivare 5 minuti prima a Santa Maria di Leuca, spendendo 100 milioni di euro per 7 devastanti chilometri? Ci pensino, il partito del cemento e i suoi padrini. Abbiamo smarrito la percezione e la consapevolezza dei luoghi, delle pietre, degli alberi, della terra stessa su cui stiamo camminando.
Belle immagini dei paesaggi salentini le trovate sui siti di Bruno Vaglio, di terrarossa, e cercando su Goggle.
La recente polemica tra la Corte dei conti e la Protezione civile sulla gestione dell’emergenza a Pompei dimostra due cose: la prima è il fallimento di tutte le riforme della pubblica amministrazione degli ultimi anni; la seconda è che l’emergenza è diventata il modo ordinario per spendere soldi pubblici in deroga alla legislazione vigente. Ma andiamo con ordine. Da sempre in caso di catastrofi naturali, terremoti, inondazioni, epidemie ecc. è possibile spendere soldi pubblici per fronteggiare il pericolo immediato e per assistere e mettere al sicuro le popolazioni colpite.
È evidente che i controlli sulle spese effettuate in queste circostanze non possono che essere successivi all’effettivo impiego dei fondi che certo non può attendere i tempi lunghi della contabilità di Stato. La sostanza dell’emergenza, dunque, dal punto di vista dell’amministrazione, consiste nella deroga alle procedure ordinarie giustificata dalla straordinarietà degli eventi. Insomma accade nel pubblico quello che accade normalmente in una famiglia quando si trova a dover affrontare una malattia, un incidente, un evento imprevisto che costringa a mettere mano al portafoglio per poter fronteggiare la situazione. Ma chi decide se un evento è straordinario oppure no? Nel caso di terremoti o di altre catastrofi è del tutto intuitivo. Il problema nasce quando l’emergenza è costituita dalla necessità di realizzare un evento considerato straordinario nei tempi rapidi legati a scadenze non rinviabili. In questo caso è l’amministrazione pubblica che valuta di non essere in grado di rispettare i tempi e di raggiungere gli obiettivi con le procedure ordinarie.
Così il ricorso alle procedure derogatorie è andato via via estendendosi, di pari passo con il giudizio negativo dell’amministrazione su se stessa e sulle proprie capacità. Ecco la spiegazione del primo punto. Le riforme della Pubblica amministrazione degli ultimi anni tra cui le famose leggi Bassanini - che, come affermato dallo stesso autore, furono concordate parola per parola con Franco Frattini, già Consigliere di Stato ed esperto di riferimento di Forza Italia - non hanno affatto restituito efficienza ed efficacia all’azione amministrativa ordinaria. Tanto che gli eventi affidati all’amministrazione straordinaria sono andati col tempo aumentando di numero e di importanza fino a ricomprendere una regata velica internazionale, i mondiali di nuoto o una visita del Papa, cioè eventi che in altri tempi sarebbero stati normalmente affidati alle amministrazioni pubbliche competenti per materia e territorio.
Ma l’estensione del giudizio negativo dell’amministrazione su se stessa è andata al di là di ogni immaginazione comprendendo situazioni di grave degrado, di incuria e di abbandono provocate dall’inefficienza della stessa amministrazione. È così che nasce il caso di Pompei dove la Pubblica amministrazione, nonostante le numerose riforme, non è stata in grado di proteggere e valorizzare ed offrire in condizioni decenti agli italiani e ai turisti di ogni parte del mondo uno dei siti archeologici più importanti e più visitati del pianeta. Lo strumento cardine della legislazione sulla Protezione civile è quello della deroga alla legislazione ordinaria che restituisce efficacia e rapidità alla spesa pubblica.
Ma se si autorizza la Protezione civile a intervenire con procedure straordinarie anche per porre rimedio ai disastri provocati dall’inefficienza di un altro ramo della stessa pubblica amministrazione, quale sarà il prezzo finale che il Paese dovrà pagare all’incapacità di realizzare una seria riforma della macchina burocratica?
Val Badia. Prosegue il viaggio del Fatto Quotidiano nei luoghi simbolo delle vacanze a rischio cementificazione. Dopo l’autostrada tirrenica in Maremma, ecco le Dolomiti, tra piccole ferite già consumate e colossali scempi già progettati.
L’Antersasc. Pochi lo conoscono: devi salire quassù per sentire il silenzio delle Dolomiti, perché ogni luogo ha un suo silenzio, diverso da tutti gli altri. Ti arrampichi su per la Val Badia, abbandoni l'auto a Juel e poi lentamente ti incammini. Sali e a ogni passo lasci un pezzo dei rumori che porti con te: prima il grido delle auto che arrancano in salita, poi le suonerie dei cellulari (“assenza di campo”), le voci delle persone, le campane dei paesi in lontananza attutite dai prati. Alla fine resta il calpestio dei tuoi passi che ti viene dietro come se ti inseguisse. Allora ti puoi fermare e chiudere gli occhi: non senti più nulla. Eccolo, il silenzio delle Dolomiti, umido come il bosco di larici e cirmoli che hai intorno, morbido di muschio. Freddo dell'aria che scende dalle vette. Per questo chi conosce le Dolomiti sale all'Antersasc: non per raggiungere una meta, ma per allontanarsi da qualcosa. Allora immaginatevi la sorpresa quando, mesi fa, avviandosi per il sentiero ci si è imbattuti in una strada. Non una piccola traccia, ma una sterrata larga oltre 3 metri che saliva per più di un chilometro e mezzo (ma diventeranno due e mezzo). Ai lati decine di larici secolari abbattuti e poi quella ruspa gialla su per il bosco e una scia di terra scoperchiata. Anche il silenzio era scomparso.
Il funerale di una montagna
No, questa non è la storia di uno scempio edilizio da milioni di metri cubi che stravolge una regione, come quelli della pianura veneta o delle coste liguri. Una strada lunga due chilometri e mezzo può sembrare, forse è, una piccola cosa. Ma di sicuro è anche un segno, perché siamo nel cuore del parco Puez-Odle, uno dei più intatti e selvaggi delle Alpi. Ai piedi delle Odle, quei massi alti centinaia di metri che sembrano caduti dal cielo per piantarsi dritti nei prati.
Una ferita per le Dolomiti, una delle tante, però. Così da queste parti qualcuno ripete sempre più spesso un nome: Dresda. Ma che cosa c'entra la Germania con i Monti Pallidi al confine fra Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli? “Dresda era stata inserita nell'elenco dei beni patrimonio dell'Umanità, poi si è deciso di costruire un ponte sull'Elba per collegare le due parti della città. E l'Unesco ha ritirato il riconoscimento”, racconta Michil Costa, albergatore di Corvara. Aggiunge: “Se continuiamo così anche le Dolomiti perderanno il titolo che hanno conquistato appena nel 2009”.
Da mesi Michil non pensa ad altro, a quella strada che sale tra larici e prati al “suo” Antersasc. Appena può, con Giovanna Pedrollo, si arrampica su per la montagna per fotografare il cantiere. Costa non è tipo da arrendersi, ha un carattere pirotecnico, così le sta tentando tutte perché quella strada sia fermata e diventi un caso. In Alto Adige, ma non solo. “Abbiamo lanciato delle iniziative, magari provocatorie, ma non vogliamo mancare di rispetto a nessuno”, racconta Michil. Si riferisce a quei necrologi comparsi sui giornali altoatesini: “Resterai sempre nei nostri cuori per tutto quello che ci hai dato e che hai fatto per noi, Munt de l'Antersasc”. Poi la cerimonia funebre: decine di persone in corteo al passo delle Erbe, turisti e la gente della Val Badia e della Val di Funes. “Un'iniziativa di dubbio gusto”, l'ha bollata qualcuno. Chissà, una cosa però è certa: da giorni in Alto Adige non si parla d'altro.
Una strada, ma per chi?
Vero, non è tutto bianco o nero, qui non si tratta di una colata di cemento per riempire le tasche dei soliti noti: “Abbiamo approvato il progetto perché il percorso consentirà di raggiungere una malga altrimenti abbandonata. Le nostre montagne sono così belle perché sono abitate. Oggi non possiamo più pretendere che i contadini portino a spalla il sale per gli animali o la legna per riparare la malga”, racconta Luis Durnwalder, presidente della Provincia di Bolzano. Ma più d'uno solleva dei dubbi: “Si spendono centinaia di migliaia di euro pubblici per costruire una strada che ha un impatto devastante sul paesaggio”, attacca Andreas Riedl, direttore della federazione Protezionisti sud-tirolesi. Aggiunge: “Non solo la Provincia ha dato il via libera al taglio di decine di larici secolari, ma lo ha anche finanziato (il primo tratto del percorso, circa un chilometro e mezzo, è costato 116mila euro, il secondo deve ancora essere realizzato)”. Durnwalder replica: “L'abbiamo pagata noi perché è una strada forestale”. Ma soprattutto c'è di mezzo un parere negativo degli stessi uffici provinciali: “La commissione Tutela del Paesaggio aveva dato parere negativo. Nonostante la bocciatura, il presidente Durnwalder ha deciso di andare avanti lo stesso”, ricorda Michil Costa. E domanda: “Ma voi credete davvero che quella strada dove passano anche i camion servirà soltanto per una malga? Vedrete, poi magari nascerà un ristorante, e alla fine ci passeranno decine di auto”. La Provincia invece giura: “La strada servirà soltanto per i trattori. Quella resterà una malga”.
Marmolada, il gigante ferito
Chissà quante persone ogni anno salivano all'Antersasc. Poche. Ma quella strada non riguarda soltanto loro. Ora tutti – i turisti, ma soprattutto la gente di qui – si chiedono dove stiano andando le Dolomiti. E allora la storia non riguarda soltanto le Odle, ma anche il gigante dei Monti Pallidi. La Marmolada, che riconosci subito per quella vetta che arriva alle nuvole. Un gigante, però, ferito, con quel ghiacciaio che ogni anno si ritrae. Chissà se sia per il “global warming” oppure per quei pali della funivia piantati nel ghiaccio. Adesso ai suoi piedi hanno addirittura deciso di costruirci un residence. Lo chiamano così, ma è molto di più: un palazzo da 100 appartamenti con intorno 54 chalet, il centro benessere, quello per congressi, piscine coperte, saloni, negozi, palestre. Secondo i primi calcoli, il complesso dovrebbe contare quasi 90.000 metri cubi di nuove costruzioni (e pensare che la Regione gli ha già dato, nel 2007, una bella sforbiciata). Ai tre abitanti di Malga Ciapela si aggiungeranno novecento persone.
Ma ormai qui i progetti fioriscono più delle stelle alpine: si parlava di realizzare una pista, con tanto di tunnel scavato nella roccia, per collegare la Marmolada e il San Pellegrino anche se i comuni di Falcade (Belluno) e Soraga (Trento) l'hanno bocciata. A promuoverla, come il resort della Marmolada, la famiglia Vascellari, signori degli impianti di risalita veneti alla guida degli industriali bellunesi. E c’è il progetto di un impianto che dovrebbe collegare Cortina con San Vigilio di Marebbe (ai margini della zona vincolata) e il Sella Ronda, il giro del Sella che ogni anno attira mezzo milione di sciatori: “Cortina è isolata, bisogna collegarla alla Val Badia, sarebbe per tutti un’occasione unica. Si potrebbero fare sessanta chilometri con gli sci ai piedi”, già sogna Mario Vascellari che fa parte anche del Consorzio ampezzano che gestisce gli impianti a fune. Peccato che di mezzo ci siano gli alpeggi vergini del Col di Lana.
A Sappada (Belluno) invece dovrebbe essere realizzato un nuovo albergo da 180 stanze. In Alta Badia gira da tempo l’idea di un rifugio fu-turistico firmato dal designer Ross Lovegrove. Sembra una navicella spaziale in mezzo ai prati. “Per non parlare delle nuove piste alla porte delle Dolomiti, nella zona di Folgaria, che spazzeranno via tanti pascoli e la memoria della Prima guerra mondiale”, racconta Luigi Casanova di Mountain Wilderness. “Chissà che cosa dirà l'Unesco”, dicono gli ambientalisti. Bisogna agitare lo spauracchio di una bocciatura internazionale, perché da soli le nostre montagne non riusciamo a difenderle.
Trenta milioni di spesa per una metropolitana che non vedrà mai la luce. Succede a Parma dove il Comune ha rinunciato ad un progetto approvato e finanziato. Sullo sfondo i movimenti di una cricca molto sospetta.
A Parma la procura apre un’inchiesta sul caso del metro leggero, opera prima progettata, poi finanziata dal governo, ma che non verrà mai realizzata. L’indagine punta su possibili appalti truccati e all’ipotesi di danno allo Stato ad opera del Comune di centrodestra. E sullo sfondo di una storia complicatisisima si muove anche un personaggio di primo piano del caso Anemone, Ettore Incalza. Il contestato progetto voluto dall’ex sindaco Elvio Ubaldi, e poi scartata dal suo successore e delfino Pietro Vignali, sembrava ormai essere una pratica archiviata. Invece nei mesi scorsi la Finanza aveva sequestrato documenti al ministero delle Infrastrutture, nel Comune e nella sede della società MetroParma e si era accorta che più di 30 milioni di fondi pubblici saranno comunque spesi per finanziare un progetto che non vedrà mai la luce. Questo perché l’iter dell’opera era già molto avanzato quando Vignali ha gettato la spugna e si è «accontentato» di incassare 80 milioni invece dei 190 previsti per una grande opera sulla quale, da anni, si scontrano l’opposizione di centrosinistra da una parte e le amministrazioni di centrodestra dall’altra.
L’epilogo nella primavera scorsa con un niente di fatto avallato dal ministero. A farne le spese sarà soprattutto la ditta appaltatrice, la Pizzarotti, che incasserà “solo” i 22 milioni della penale, mentre gli altri finanziamenti andranno a coprire le spese sostenute da MetroParma (circa 12 milioni), società costituita per seguire l’iter progettuale. La procura vuole capire se le somme, che verranno rimborsate, sono state gonfiate e se gli incarichi sono stati assegnati regolarmente. Diversi i filoni di indagine, in particolare quello del ruolo ricoperto da Incalza, già coinvolto nel caso Anemone, per due anni dirigente di MetroParma e al tempo stesso consulente del ministro parmigiano Lunardi. «Incalza è diventato amministratore di MetroParma due settimane prima dell’approvazione del progetto definitivo – ha spiegato l’avvocato Arrigo Allegri che ha presentato cinque esposti alla Corte dei Conti – da un lato era consigliere di Lunardi, dall’altro amministratore di MetroParma», sottintendendo con questo un possibile conflitto d’interessi. «Quando Lunardi ha cessato l’incarico di ministro nel 2006 – ha aggiunto Allegri – Incalza è diventato capo della struttura tecnica di missione che per il ministero delle Infrastrutture era chiamata ad approvare i progetti, rimanendo in carica fino al 2008 nella duplice veste di “controllore e controllato”». E questo fino all’aggiudicazione degli appalti per la realizzazione della metro a Pizzarotti, Coopsette e Ccc. Un’ambiguità dei ruoli che potrebbe aprire scenari nuovi e su cui la procura indaga anche se per ora nessuno ha ricevuto avvisi di garanzia e le ipotesi di reato non sono così nitide.
Incalza, un passato socialista e oggi braccio destro di Altero Matteoli, avrebbe acquistato una casa a Roma grazie agli assegni di Anemone. Le indagini della Guardia di Finanza hanno accertato che nel luglio del 2004, una provvista di 520 mila euro messa a disposizione da Anemone e trasformata da Zampolini in 52 assegni circolari dell'importo di 10mila euro ciascuno, pagò l'acquisto di oltre la metà dell'appartamento che Incalza volle per la figlia e suo marito a Roma, in via Gianturco 5: cinque vani con cantina al secondo piano di un palazzo a ridosso del Lungo Tevere a pochi minuti da piazza del Popolo.
Qui l’articolo di Andrea Bui per eddyburg
Gli scavi di Pompei sicuramente necessitano di interventi, ma non tali da chiamare in causa "calamità naturali" o "grandi eventi". Eppure per l'area archeologica lo scorso anno è stato dichiarato lo stato di emergenza, permettendo così alla Protezione civile di emettere delle ordinanze senza il preventivo controllo della Corte dei Conti. La magistratura contabile è intervenuta oggi con una delibera nella quale ribadisce i propri dubbi sulla considerazione di quegli atti come attinenti a una calamità o un grande evento e sulla loro conseguente esclusione dal controllo. Anche se alla fine alza le mani perché parecchie di quelle delibere sono ormai in esecuzione e quindi il controllo "preventivo" di fatto non è più possibile.
Il governo ha sempre difeso invece la scelta di sottoporre gli scavi alle delibere della Protezione civile, che possono derogare dalle leggi ordinarie, chiamando in causa addirittura la pericolosità del Vesuvio, "vulcano ancora attivo". La Corte dei Conti già in passato era intervenuta più volte per contestare la decisione di escludere dalle normali procedure di controllo eventi che poco hanno a che fare con le grandi calamità. Fu il caso per esempio della Vuitton Cup, considerata grande evento e per questo esclusa dai controlli preventivi. E queste come molte altre sono poi finite in una vasta inchiesta che ha preso di mira la Protezione civile e, in particolare, la gestione Bertolaso 1 di emergenze, catastrofi e appalti.
Anche sulla storia degli scavi di Pompei la Corte torna a ribadire che "il dipartimento della Protezione civile non può svolgere qualsiasi attività" ma solo quelle "finalizzate alla tutela dell'integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell'ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi o da altri grandi eventi, che determinano situazioni di grave rischio".
La Corte dei Conti prende allora in considerazione le delibere della Protezione civile, una per una, per sottolineare come in molti casi non rispondano a quei criteri di "grave danno o rischio" che possano giustificare la deroga alla normativa vigente. La Corte contesta, per esempio, l'esclusione dai controlli delle decisioni che riguardano "le opere di manutenzione straordinaria per consentire la piena fruizione dei beni archeologici" o "il piano per garantire l'ordinato svolgimento delle attività commerciali" o "l'organizzazione dei servizi di guida ai turisti" o le modalità di sponsorizzazione. Tutte cose che infatti non sembrano rispondere a quei requisiti di pericolosità o emergenza.
Il governo ha sempre difeso la scelta di sottoporre gli scavi di Pompei a questo regime adducendo tra le motivazioni anche il fatto che "il Vesuvio è un vulcano ancora attivo e pericoloso", come si legge nella stessa delibera della Corte dei conti diffusa oggi che cita appunto anche le controdeduzioni dell'amministrazione. "Pur dando atto che la situazione dell'area archeologica e delle zone circostanti presenta aspetti di criticità - replica la Corte alle considerazioni dell'amministrazione - non sembra che sia possibile ritenere giustificato l'intervento del dipartimento della Protezione civile per iniziative che non possono certo inquadrarsi nel concetto di tutela dell'integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dall'ambiente dal rischio di gravi danni".
Ma alla fine, in un certo senso, la Corte si vede costretta ad arrendersi: "Non può ignorarsi - si legge nella deliberazione - che, di fatto, tutti i provvedimenti di cui è stata chiesta (inutilmente) la trasmissione al controllo preventivo di legittimità hanno già compiutamente esaurita la propria operatività, sicché occorre domandarsi se in tali circostanze abbia ancora senso sottoporre in via postuma quegli atti a un controllo che, per definizione, dovrebbe essere preventivo".
Sul commissariamento di Pompei, in eddyburg:
La fine dei commissari e il naufragio del Mibac
Contro la politica dell’emergenza
L’indiscreto fascino dell’emergenza
Il testo integrale della delibera della Corte dei Conti
Un’abbuffata di cemento. Associazioni ambientaliste Rete dei comitati per la difesa del territorio, Legambiente, Wwf, Comitato per la bellezza, movimento ecologista Terra di Maremma, nonchè singoli esponenti del mondo della cultura e dell’ambientalismo definiscono così il protocollo d’intesa fra il Comune di Capalbio e la Provincia per la sistemazione e valorizzazione della fascia costiera. E dicono: «Con questo piano si stravolge l’assetto paesaggistico, naturalistico e urbanistico della fascia costiera di Capalbio, una delle più integre dell’intera Toscana». Troppe le domande alle quali non c’è ancora risposta, per gli ambientalisti. Che riguardano tutto il piano che interessa la fascia costiera.
Il protocollo d’intesa quindi, per i firmatari del documento, non può passare così come è stato presentato. «Si prevede la costruzione di nuovi casali fra la strada litoranea e il mare ma non solo - dicono - la realizzazione di nuovi parcheggi anche in area dunale sia a Macchiatonda che alla Torba, un nuovo villaggio turistico e un porto al Chiarone, la concessione di nuovi stabilimenti balneari a Macchiatonda e alla Torba, la rettifica della strada provinciale costiera». Interventi che sono stati decisi, dicono, senza alcuna partecipazione pubblica e sostanzialmente in contrasto con il piano strutturale e che porterebbero a gravi conseguenze anche sul turismo che si basa proprio sulla conservazione e la difesa di un territorio ancora esente da pesanti speculazioni immobiliari. Un documento che analizza punto per punto le diverse criticità e che chiede al Comune, alla Provincia e alla Regione un approfondito confronto.
Non convince il piano per il recupero dei poderi alla Sacra. «Se si tratta del completamento dell’appoderamento previsto dalla stessa Sacra negli anni ’30 del secolo scorso - dicono - allora è cosa ben diversa con la costruzione di nuovi edifici abitativi e annessi agricoli, con il conseguente evidente stravolgimento del carico insediativo e dell’attuale assetto urbanistico della fascia costiera a valle della Litoranea e non solo». Anche sul porto turistico al Chiarone, per gli ambientalisti mancano garanzie. Perché ancora, i posti basrca non sono stati definiti. E sempre al Chiarone, non sono ancora state definite le volumetrie del villaggio che sorgerà dietro la duna. Stesso discorso vale per il nuovo parcheggio a Macchiatonda, nelle adiacenze dell’antica Dogana. Opposizione anche al nuovo stabilimento balneare a Macchiatonda, che comporterebbe un’ulteriore urbanizzazione della costa.
Caro direttore,
conosco la zona cosiddetta della "ferrovia" (piazza Garibaldi e dintorni) da molti anni. La "abito" da sempre, si può dire, per lavoro e la attraverso come tutti per gli spostamenti cittadini e no. In questi anni, è stato possibile osservare come questo spazio urbano sia diventato sempre più un raccoglitore di una umanità complessa, sofferente, povera e vulnerabile. E mi meraviglia che i discorsi sulla riqualificazione della zona siano solo incentrati sulla tematica del commercio e del parcheggio, quasi si trattasse di uno spazio bianco nel quale disegnare a mano libera. Senza cioè ragionare sulle vite che questi luoghi non si limitano ad attraversarli per prendere un treno.
Provo a essere più chiaro prendendo spunto da un antropologo noto a tanti, Marc Augé che ha definito come non-luoghi quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Sono tra gli altri dei non-luoghi, nella definizione di Augè, le strutture necessarie per la circolazione delle persone e dei beni, quegli spazi in cui le persone si incrociano senza entrare in relazione sospinte dal desiderio di consumare o di muoversi. Da qui viene da dire che la zona della ferrovia è invece un luogo abitato da identità precise che non hanno relazioni solo perché espulse dagli altri spazi della città o perché ai margini del tessuto produttivo e commerciale.
Oggi la zona non è più popolata solo dai senza fissa dimora, da donne e minori stranieri condannati alla prostituzione, tossicodipendenti e parcheggiatori abusivi. Una nuova umanità ha preso vita tra le bancarelle che si affollano nella piazza e nelle sue strade laterali. I migranti si sono organizzati qui in mercati etnici altrove impossibili e sono nati anche negozi e attività da loro gestiti direttamente.
Qui dormono i senza fissa dimora che non trovano accoglienza da parte dei servizi sociali, così come vengono a "farsi" i tossicodipendenti che non hanno alternativa. Le badanti, che rendono possibile l’assistenza ai nostri anziani, altrimenti condannati all´abbandono, hanno la ferrovia come punto di incontro il giovedì e la domenica. Vengono qua perché per molte di loro la città non offre altri spazi e altri luoghi.
Ma tra le bancarelle di ieri è possibile anche riconoscerne di nuove, molte gestite da italiani. Uno di questi, un conoscente di vecchia data che sapevo impegnato in un’attività commerciale "strutturata", mi ha candidamente raccontato del suo fallimento, causa crisi, e del suo tentativo di ripartire. E anche lui riparte da qui, da questo posto che sembra non avere limiti ad accogliere chi è espulso dagli altri luoghi della città.
Ora mi chiedo se è possibile pensare a dare un volto nuovo a questa città e a questa zona, senza pensare di dare una risposta alle vite che la abitano e una difesa alla loro vulnerabilità. Possiamo spostare questo disagio, nasconderlo in qualche altra periferia o raccoglierlo con qualche retata dei vigili urbani. O potremmo, forse, con una diversa politica della città, che rifiuti l’idea della urbanistica della separazione e che non voglia nascondere con una mano di vernice i problemi della città.
In questo caso si può proprio dire che il cuore batte dove il dente duole. E duole molto a Ponte San Pietro, nel Bergamasco, dove si cerca di salvare un’area verde e una villa settecentesca, oppure a Pavia, con la bella piazza Castello che rischia di subire l’oltraggio di un parcheggio interrato, o ancora a Lonate Pozzolo, su cui incombe il progetto della terza pista di Malpensa, da fare sconvolgendo un’antica strada nella foresta. E per Milano c’è Villa Litta ad Affori da tener presente, con la sua meravigliosa biblioteca rionale insediata in stanze affrescate e magistralmente restaurate, in cui ci si sente protagonisti di un altro tempo, mentre gran parte del resto dell’antico palazzo è in condizioni di incomprensibile abbandono.
A metà del cammino i risultati sono parziali ma già interessanti, e si può comunque continuare a votare fino al 30 settembre per esprimere un’opinione e far sentire la propria voce. Sono 11mila le segnalazioni che riguardano la Lombardia arrivate al Fai per il censimento «I luoghi del cuore», 60mila a livello nazionale. E nella nostra regione i luoghi più amati da salvaguardare sono non solo quelli che piacciono per la loro bellezza ma soprattutto quelli minacciati da speculazioni che rischiano concretamente di stravolgere e snaturare per sempre siti storici e ambientali. I cittadini non vogliono e lo dicono così, mandando una segnalazione al Fai, impegnato nella quinta edizione del censimento.
Fino ad ora nella classifica lombarda al top delle segnalazioni si trovano l’Isolotto e l’area di Villa Mapelli Pozzi a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo: il primo «Luogo del cuore», una delle ultime aree verdi del Comune, dove fioriscono otto specie di orchidee spontanee e si vorrebbero edificare 38 villette, ha raccolto 1.691 voti; il secondo, villa settecentesca che rischia di essere compromessa da un insediamento commerciale di 9mila metri quadrati, 1.668. Ma c’è anche, al terzo posto con 1.398 segnalazioni, il castello Visconteo di Pavia, di fronte al quale si vuole costruire un parcheggio interrato di tre piani. Mentre al quarto - 1.166 voti - c’è una strada poco conosciuta, antico collegamento tra Lonate e la frazione Tornavento, che si immerge in una foresta ancora intatta dove i mezzi a motore non hanno accesso: è via Gaggio, che potrebbe essere spazzata via dalla terza pista del vicino aeroporto.
Al quinto posto della classifica arriva anche Milano - 781 voti - con Villa Litta Modignani ad Affori, patrimonio cittadino da salvaguardare che necessita di interventi di recupero urgenti. E un altro scempio che potrebbe avvenire è la distruzione del romantico paesaggio di brughiera (gli inglesi se lo terrebbero ben stretto) compreso tra Senna Comasco, Capiago, Cantù e Orsenigo. Destinato a sparire se venisse realizzata la variante fuori terra del secondo lotto della nuova tangenziale di Como, dicono i cittadini, che hanno segnalato la volontà di mantenere intatto questo luogo naturale.
Chi vuole votare il "suo" posto del cuore lo può fare fino alla fine di settembre compilando le cartoline nelle sedi Fai o nelle filiali di Intesa San Paolo, partner in questa avventura, e imbucandole; ma anche visitando il sito, oppure con Messenger e su Msn.
Vittorio Sgarbi, Andrea Carandini ed altri fans del direttore generale per la valorizzazione dei beni culturali, Mario Resca, ci spiegano in questi giorni perché i Bronzi di Riace possono viaggiare.
Essi si guardano bene, tuttavia, dallo spiegare per quale ragione dovrebbero farlo. Ma è proprio quello il punto. Il problema vero del circo delle mostre-evento non è quello della tutela delle opere, che si può e si deve assicurare caso per caso respingendo sia le impuntature dei conservatori, sia gli (assai più frequenti) abusi dei politici. Il problema vero è quale sia lo scopo, il beneficio, il senso ultimo di questa insensata «circuitazione di opere-icona» (eloquentissima perla di burocratese made in Resca).
Se i Bronzi di Riace partissero domani per un tour mondiale non ci sarebbero vantaggi per la conoscenza (si tratterebbe di un’operazione di marketing, non dell’occasione per rendere accessibile ad un vasto pubblico i risultati di una ricerca scientifica) e non ci sarebbero vantaggi per l’educazione pubblica (il concetto stesso dell’ostensione del singolo «capolavoro assoluto» è profondamente diseducativo e culturalmente desertificante).
Se poi il problema è che i visitatori a Reggio Calabria sono pochi, come si può affrontarlo mandando i Bronzi in tournée, piuttosto che — per dirne una— rifacendo la Salerno-Reggio? E chi può davvero pensare che se, poniamo, un canadese vedesse i due Atleti a Toronto, il giorno dopo correrebbe a comprare un biglietto per la Calabria? Il punto non è, dunque, stabilire se i Bronzi siano fragili o meno, ma comprendere che la costruzione del futuro non può passare attraverso la cannibalizzazione di un passato glorioso.
«Le spese di queste disposizioni saranno pagate dal territorio, che continua ad essere oggetto di autentici attentati. Penso all’imminente piano casa: chi potrà seguire le attività dei cantieri e assicurare che non vengano distrutti beni archeologici? Non siamo più in grado di svolgere il compito istituzionale per il quale siamo stati assunti. Cioè vigilare perché il patrimonio non visibile, quello ancora interrato, non venga cancellato o danneggiato... La prospettiva è il blocco totale del nostro lavoro».
A parlare, con evidente emozione nella voce, è Giorgia Leoni, presidente della Confederazione italiana archeologi, trecento iscritti tra i circa 30.000 professionisti che si calcola svolgano questo lavoro in Italia in modo continuativo (mancano cifre ufficiali poiché non esistono albi professionali). L’universo dei Beni culturali e la salvaguardia dei nostri tesori storico-culturali e paesaggistici si scontra ancora una volta con i tagli della Finanziaria. I funzionari del ministero assunti come archeologi e incaricati in massima parte di funzioni ispettive (anche qui si tratta di trecento persone) rischiano di non poter più lavorare. Né potranno farlo i loro collaboratori. In base all’articolo 6, comma 12, della legge vengono aboliti i rimborsi della benzina per gli spostamenti con mezzi privati per raggiungere i cantieri da controllare: grandi opere come le metropolitane urbane o la Tav, oppure piccoli interventi di privati nelle zone agrarie, i nuovi impianti eolici che presto dilagheranno in Puglia o in Molise, gli interventi per la viabilità (autostrade e strade provinciali o comunali).
Al taglio dei rimborsi segue anche un’altra precisazione: non sarà riconosciuta alcuna indennità di responsabilità civile nel caso di incidenti, se qualche funzionario dovesse comunque usare la propria automobile. Dunque nessuna copertura assicurativa. Spiega ancora Giorgia Leoni: «In teoria dovremmo usare i mezzi pubblici. Cioè tram, treni e bus. Non c’è problema se si deve raggiungere una zona urbana. Penso ai cantieri della metropolitana a Roma, per esempio, o a quelli milanesi, napoletani, fiorentini. Il nodo è tutto quel vastissimo territorio nell’interno della Penisola che costituisce il cuore del nostro paesaggio. Lì i cantieri agirebbero indisturbati senza le nostre ispezioni, che possono essere concordate o improvvise proprio per scongiurare guasti, vandalismi, ruberie, occultamenti. Non parliamo di clamorose cifre. I rimborsi, nella media, non superano i 20-30 euro mensili per funzionario». Immaginando, per abbondanza, più di 50 euro al mese per 300 funzionari, non si superano i 200 mila euro annui.
È stato il segretario generale del ministero Roberto Cecchi il 28 luglio a vietare i rimborsi. La prima circolare metteva ufficialmente al riparo i dipendenti dei Beni culturali da quelle restrizioni («questa amministrazione ha necessità di continuare a svolgere, senza interruzioni le proprie funzioni, previste da norme di rango costituzionale e ordinario, di tutela e salvaguardia del patrimonio culturale soprattutto attraverso lo svolgimento di una puntuale e intensa attività ispettiva di vigilanza e controllo estesa a tutto il territorio nazionale. Tale attività, considerate le esigenze di necessità e urgenza degli interventi ispettivi di verifica, che non possono sempre essere effettuati con le automobili di servizio, e tenuto conto dell’inaccessibilità di molti luoghi del territorio da parte dei mezzi di trasporto pubblico, viene effettuata anche mediante l’utilizzo del mezzo proprio da parte del personale preposto»). Seguiva la raccomandazione di ricorrere alle auto private solo in «caso di urgenza e con autorizzazione». Ma il 28 luglio, con poche e secchissime righe, lo stesso Cecchi ha sospeso la circolare vietando di fatto i rimborsi e l’uso dei propri mezzi, togliendosi però la soddisfazione di ricordare che a suo avviso la conversione in legge della Finanziaria non aveva alterato l’articolo 6 comma 12 che esenta dal divieto di rimborso chi ha compiti ispettivi. Voci interne al ministero assicurano che Cecchi sarebbe stato autorevolmente e insistentemente «convinto» dai vertici politici (lo stesso ministro Sandro Bondi?) a fare marcia indietro per evitare l’ennesima collisione col ministro per l’Economia, Giulio Tremonti.
Sta di fatto che fino a pochi giorni fa Cecchi, come dimostra la sua prima circolare, sottoscriveva un testo che, letto oggi, appare come un pieno sostegno alle rivendicazioni degli archeologi.
La categoria è compatta, preoccupatissima. E sempre meno motivata: i trecento archeologi ministeriali hanno un’età media elevatissima (53 anni) e chi va in pensione non viene sostituito pe r mancanza diturn over. La retribuzione, al massimo della carriera di funzionario (dirigente diventa solo chi è sopr i nt e ndent e ) non s uper a i 1.700 euro netti nonostante laurea, specializzazioni, dottorati e mille responsabilità sia tecniche che civili (non è facile decidere la sospensione di un lavoro in un cantiere, occorre una relazione approfondita e scientificamente ineccepibile, pena i ricorsi al Tar).
Avverte Rita Paris, archeologa della Soprintendenza speciale archeologica di Roma, direttore del museo di Palazzo Massimo ma anche responsabile della tutela dell’area dell’Appia Antica: «Siamo costretti a incrociare le braccia, la nostra categoria smetterà semplicemente di lavorare. Prendiamo il mio caso. Io devo controllare continuamente il funzionamento e il lavoro del personale alla Villa dei Quintili, a Cecilia Metella, a Capo di Bove. E poi ci sono i cantieri, inclusi quelli stessi della Soprintendenza sui quali vigilare. Non potremo più farlo: anche mettendo da parte i rimborsi, senza la copertura assicurativa io arriverei in macchina come un clandestino. Usare i mezzi pubblici è impensabile, in quelle zone archeologiche non esistono. La situazione è gravissima. Ma evidentemente così non appare ai vertici del mio ministero...».
Archeologi, architetti e storici dell’arte da oggi non possono più utilizzare l’auto propria per seguire scavi e cantieri sparsi nel territorio. Il soprintendente di Roma Giuseppe Proietti li ha avverti: «Stop a rimborsi e alla copertura di responsabilità civile». Impossibile perfino chiamare i cellulari. E per la tutela ora è notte fonda.
La circolare del 28 luglio del soprintendente archeologo di Roma è la stessa che hanno dovuto diramare i suoi colleghi dei Beni artistici e degli Architettonici. La manovra finanziaria del governo li obbliga a fermare i sopralluoghi. «Il patrimonio così è messo nelle mani di speculazioni, scavi clandestini, tombaroli: viene impedita la tutela così come la prescrive la Costituzione» afferma il segretario della Uil Beni culturali Gianfranco Cerasoli.
«Anche volendo, non possiamo prendere la nostra auto perché non c’è più la copertura assicurativa. E come potremo più raggiungere Villa dei Quintili o i mausolei vicini a via di Fioranello?» si chiede Rita Paris, responsabile per lo Stato dell’Appia Antica. «Ora ci aspettiamo che il ministro Bondi permetta alle soprintendenze di tornare a funzionare», spiega l’archeologa che è anche direttrice di palazzo Massimo. «Grazie all’impegno di tutti, alle mostre e alla pubblicità - racconta - in un anno abbiamo aumentato del 60% gli ingressi al museo. Ma come potremo andare avanti se ci è impedito di fare gli straordinari, anche non pagati?».
Stefano Musco copre con una segretaria e due assistenti un territorio di 15.700 etteri tra V, VII e VIII Municipio. «In quest´area vivono 431.500 persone: più alta è la densità abitativa più forti le trasformazioni» spiega l’archeologo. Come seguirle se la soprintendenza non ha auto di servizio? «Non lo so, non posso più usare la mia auto per controllare ad esempio gli straordinari scavi di Gabii» dice sconsolato. Nella città romana sulla Prenestina (25 chilometri dal centro) il mezzo pubblico arriva a 3 chilometri. Poi bisogna andare a piedi. «E per parlare con i miei collaboratori dall’ufficio non posso neanche più chiamarli al cellulare» racconta Musco. Sono 6000 i siti archeologici censiti nell´Agro romano. Da oggi sono irraggiungibili dai funzionari (1.700 euro al mese il loro stipendio). Ma anche sotto il Colosseo non si ride: Piero Meogrossi, responsabile del procedimento per la ricerca degli sponsor, dovrà andare a caccia di soldi usando il telefonino privato.
Per Tuvixeddu si ricomincia daccapo: il Consiglio di Stato ha bocciato in serie tutte le argomentazioni del comune di Cagliari e della Nuova Iniziative Coimpresa e accogliendo per la prima volta la tesi dell’Avvocatura dello Stato, della Regione e di Italia Nostra ha disposto che l’amministrazione regionale e la Sovrintendenza ai beni archeologici di Cagliari e Oristano elaborino una «documentata relazione accompagnata da apposita cartografia ed eventuale corredo fotografico» che serva a spiegare in base a quali «presupposti o sopravvenienze» la giunta regionale abbia indicato l’area del colle punico come «caratterizzata da preesistenze con valenza storico-culturale». I giudici di palazzo Spada, rompendo una sequenza di decisioni negative per chi ha a cuore le sorti dell’area sepolcrale punico-romana minacciata dal cemento, vogliono sapere nei dettagli su quali basi il piano paesaggistico regionale varato dalla giunta Soru abbia inserito Tuvixeddu fra le aree di pregio culturale e dove si trovino i nuovi ritrovamenti di tombe che l’avvocatura dello stato e la Regione, nel ricorso firmato dagli avvocati Vincenzo Cerulli Irelli e Giampiero Contu, giustificherebbero la revisione dell’accordo di programma del 2000, quello che ha dato il via libera all’edificazione del colle. La Regione e la Sovrintendenza - è stabilito nella decisione della sesta sezione del Consiglio di Stato - hanno sessanta giorni di tempo per depositare nella segreteria di palazzo Spada le relazioni richieste. Il contenuto dei documenti sarà poi trattato in udienza pubblica il 26 gennaio 2011. A quel punto i giudici - presidente Severino, consiglieri Paolo Buonvino (relatore), Rosanna De Nictolis, Maurizio Meschino e Carlo Polito - avranno in mano quanto serve a decidere se aveva ragione l’amministrazione Soru oppure la strana coppia comune di Cagliari-Nuova Iniziative Coimpresa.
Il centro della controversia è nella stretta sostanza questo: dal 1997, la data in cui venne imposto il primo vincolo diretto sull’area sepolcrtale, al 2006 quando Soru cercò di bloccare il progetto Coimpresa, sono intervenute nel sito storico modificazioni tali da giustificare nuovi vincoli oppure aveva ragione l’ex sovrintendente archeologico Vincenzo Santoni - poi finito a giudizio per tentato abuso d’ufficio - per il quale nulla è cambiato? Con l’ordine di esaminare scientificamente lo stato dei luoghi a Tuvixeddu il Consiglio di Stato sembra voler mettere finalmente un punto fermo sulla questione, andare a fondo e vederci chiaro. Una scelta annunciata all’indomani dell’udienza romana del 16 giugno scorso, quando secondo indiscrezioni l’orientamento dei giudici sembrava essere quello di compiere un sopralluogo a Cagliari. Di certo questo nuovo clamoroso pronunciamento, per quanto ancora interlocutorio, apre scenari inediti sull’annosa questione di Tuvixeddu: per la prima volta viene messo un autorevole punto interrogativo sul contenuto - finora considerato sacro - dell’accordo di programma del 2000, per la prima volta superano il diaframma del formalismo giudiziario amministrativo le ragioni degli ecologisti, delle associazioni culturali, degli intellettuali che da anni denunciano come il progetto Coimpresa rappresenti una seria minaccia per l’integrità del paesaggio storico e ambientale di Tuvixeddu. Un’integrità difesa dal Ppr e dal Codice Urbani, arrivati dopo l’accordo di programma ma finora ignorati nella sequenza di giudizi.
Comunque sia il Consiglio di Stato non si accontenta del faldone di documenti prodotti dalle parti in causa e vuole andare a fondo. Partendo certamente anche dalla clamorosa richiesta di archiviazione firmata dal pubblico ministero Daniele Caria, che nel valutare l’insussistenza dei principali aspetti penali della vicenda ha confermato con indagini approfondite quanto l’amministrazione Soru con l’avvocato Vincenzo Cerulli Irelli ha sostenuto nelle fasi del giudizio. Ma soprattutto quanto Sardegna Democratica attraverso l’avvocato Giampiero Contu ha proposto ai giudici di Roma con un intervento ad adiuvandum che contiene ampi stralci del provvedimento della Procura: dal 2000 ad oggi sono cambiate le norme che tutelano il paesaggio, è il Codice Urbani a stabilire esigenze di difesa molto pi rigorose. A Tuvixeddu poi sono state scoperte 1166 sepolture antiche che non erano note dieci anni fa, quando venne firmato l’accordo di programma sul piano di Nuova Iniziative Coimpresa. Se il ricorso della Regione - cui si sono affiancati Italia Nostra con l’avvocato Carlo Dore e Sardegna Democratica - venisse accolto il piano paesaggistico regionale imporrebbe la propria prevalenza sul futuro del colle cagliaritano: al di là dei prossimi giudizi sulla validità delle autorizzazioni, attorno alla necropoli non si potrebbe più mettere in piedi un solo mattone.
QUANTI stracci dovranno volare prima che qualcuno sancisca che della truffa perpetrata ai danni dei residenti a Santa Giulia non ci sono colpevoli? Quante prese di distanza? Quanti scaricabarile? Quanta ipocrisia nell’ennesima tragicommedia all’italiana? Ve li ricordate i nostri amministratori ai vari Mipim di Cannes (Marché international des professionels de l’immobilier, per chi non ama gli acronimi) dove presentavano trionfanti le penne del pavone e dove il progetto Santa Giulia era uno dei fiori all’occhiello? Quanto si è scritto e stampato a spese nostre dagli enti pubblici per fare pubblicità ai privati... «I progetti in corso sono tutti caratterizzati da una particolare attenzione al verde, che costituisce il trait d’union degli interventi tesi a trasformare Milano in una nuova città, più vivibile e dalla forte vocazione europea. I nuovi quartieri di Garibaldi Repubblica, del Portello, di Santa Giulia sono intersecati da parchi pubblici e dotati di collegamenti veloci di trasporto pubblico. La qualità è anche il parametro con cui Milano sta attuando una nuova politica per la casa, che vedrà la realizzazione, su aree di proprietà pubblica, di nuovi alloggi destinati all’edilizia residenziale a canone sociale e moderato».
Questo è quello che il sindaco Letizia Moratti scriveva in un delizioso opuscolo edito congiuntamente da Camera di Commercio, Provincia e Comune di Milano. Leggo però sempre più spesso che non possiamo lasciar cadere l’occasione dell’Expo 2015 perché faremmo una cattiva figura internazionale. Ma proprio questa sarebbe la cattiva figura che fa traboccare il vaso? E queste dei grandi progetti sbandierati ai quattro venti e finiti a Santa Giulia in un confronto tra magliari cosa sono? Certo nulla rispetto a quel che combina il presidente del Consiglio, ma Milano non era la capitale morale?
Lasciatemi dire una cattiveria: sarei curioso di sapere che risultati darebbero dei sondaggi e delle analisi fatte oggi in tutte le ex aree industriali, come la Fiera a Rho-Pero. Chissà mai? A pensar male si fa peccato ma... E dove sono realmente finite le fidejussioni che la legge prevede per tutti gli adempimenti connessi all’attività edilizia? Non bisognerebbe citare i latini ma "sed quis custodiet ipsos custodes?" (ma chi custodisce i custodi?), si domandava Giovenale nel I secolo dopo Cristo.
E pensare che si era indotto a scrivere per l’indignazione nei confronti dei costumi del suo tempo: oggi non gli mancherebbe la materia perché viviamo in un Paese sì di arroganti ma contemporaneamente di volutamente irresponsabili. Da quanto tempo qualcuno non si alza in piedi e dice: «È vero, ho sbagliato, mi sono ciecamente fidato e questa non è una scusa valida. Anche se materialmente non ho commesso nulla, chiedo scusa a tutti e mi dimetto irrevocabilmente». Che gioia sarebbe per le nostre orecchie. E se a fare questo bel gesto fosse qualche presidente di banca? «Signori soci, a Santa Giulia abbiamo dato credito a chi non lo meritava e lo sapevamo, me ne vado con una raccomandazione: adesso non facciamo altri "pasticci" per salvare i nostri compensi e i denari di e correntisti». Forse anche qualche funzionario di cooperativa dovrebbe recitare il mea culpa: le cose viste dall’elicottero son belle, ma sotto?
l’Unità
Sì ai bungalow del premier
«Ughetto» amplia villa Certosa
di Giacomo Mameli
Si poteva dire di no all'ampliamento di una megavilla nota in tutto il mondo per molte e squallide cronache piccanti e per modeste vicende politiche? Si poteva dire di no a una reggia costruita nella baia di Porto Rotondo tra il 1984 e il 1985 dal più inquisito faccendiere d'Italia e da lui, dal “recidivo Flavio Carboni, nato a Sassari il 14 gennaio 1932, nullatenente” venduta “in contanti” al presidente del Consiglio in carica, al padrone di tv e giornali, di squadre di calcio e assicurazioni, di panfili e colossi immobiliari? Gli si poteva dire di no negli stessi giorni in cui il premier, in insolita veste paterna, gongolava per una figlia neolaureata in una università privata magna cum laude? Certo che non gli si poteva rovinare la festa. Timbri apposti con la velocità delle fibre ottiche da funzionari non fannulloni. E “nel pieno rispetto delle leggi vigenti”. Anche perché la giunta regionale sarda del sempre meno sorridente Ugo Cappellacci aveva predisposto le scappatoie giuste per i potenti. Ed ecco il via alla costruzione di “due corpi di fabbrica per complessivi 800 metri cubi” pari a cinque bungalow superaccessoriati, fra i 32 e i 45 metri quadrati ciascuno, rifiniti di tutto punto. Così si conviene a chi primeggia in galanterie ospitando il premier russo Putin e consorte, il presidente Medvedev e signora, qualche parvenu dell'Europa dell'Est patito di nudismo, o il colonnello Gheddafi che abbandona il solleone del deserto libico per oziare davanti al blu smeraldo del mare e ai graniti di Punta Lada.
Silvio Berlusconi, a tempo di record, ha avuto dalla Regione Sardegna l'okay per l'ampliamento di una villa di 2.800 metri quadrati inserita in un parco sconfinato oggi di 50 ettari. Un ok siglato dalla commissione paesaggistica nominata dal governo di centrodestra a guida Cappellacci e dal suo assessore all'Urbanistica, Gabriele Asunis, uno dei personaggi finiti nell'inchiesta sull'eolico in Sardegna. Quell'Asunis che al telefono, parla amorevolmente col Flavio Carboni assolto per i suoi presunti rapporti con la banda della Magliana, ora in carcere per i traffici e lo “squallore” della P3. E non gli lesina l'uso di aggettivi del cuore, quelli che si usano per figli e mogli, nonni e zii, “caro e carissimo”, e al quale si manda ripetutamente via cavo “un forte abbraccio”. Il ligio assessore all'Urbanistica nominato per cancellare le regole varate dal centrosinistra guidato da Renato Soru poteva far dire di no a chi aveva acquistato Villa Certosa da Carboni, il “caro” signore che ostenta amicizie tanto potenti da poter far incontrare Cappellacci perfino “con i vertici dell'amministrazione americana”? Non è stato Carboni – riverito nei palazzi della Regione sdraiata a destra a organizzare il convegno (18-19 settembre 2009) al Forte Village di Pula per parlare ufficialmente di federalismo fiscale ma sospettano i giudici romani – per siglare il lerciume sull'eolico in Sardegna? E Cappellacci (anche lui – prima della scottatura e del pentimento dà sempre del “caro” e “carissimo” a Carboni) poteva negare la compartecipazione della Regione? Spicciolo più, spicciolo meno, è stata di 134 mila e 372 euro la somma che Pasquale Lombardi, il geometra accreditato come giudice tributario, oggi in carcere con Carboni e soci, ha dichiarato di aver impiegato per il summit delle tresche. Chi ha pagato? 50mila euro li ha certamente messi Cappellacci, pardon, la Regione che snobba i disoccupati della Vinyls e dell'Eurallumina. Gli altri 75mila l’instancabile «Flavio», tessitore di affari col coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini. Così tutto torna. Fra amici ci si intende. E poiché gli amici crescono è bene ampliare Villa Certosa. Acquistata 25 anni fa (da Carboni) per un miliardo e mezzo di lire con 28 stanze e 12 bagni. Oggi il prezzo è schizzato a 35 milioni di euro. E poi dicono che chi ci governa non sa fare i conti. Quelli propri.
la Nuova Sardegna
I bungalow a Villa Certosa saranno cinque,
coro di critiche al premier
di Mauro Lissia
«Questo episodio, l’uomo più ricco d’Italia e capo del governo italiano che chiede e ottiene di allargare la propria villa in Sardegna, è una nuova conferma del livello barbarico in cui è precipitata l’Italia»: parole di Edoardo Salzano, urbanista pianificatore di fama internazionale, padre indiscusso del piano paesaggistico regionale. Salzano è sconcertato: «La norma sul piano-casa è stato un fallimento a livello nazionale, è incredibile poi che alcune regioni l’abbiano applicata ancora prima che diventasse legge. Purtroppo la prima è stata la Toscana, amministrata dal centrosinistra. Ed è stata una decisione difficile da comprendere». Salzano però insiste sul caso sardo: «Questo fatto dimostra quanto Berlusconi tenga alla sua villa e spiega perchè il presidente del consiglio si sia impegnato così a fondo per sostenere la candidatura dell’amico Ugo Cappellacci».
L’ex assessore regionale all’urbanistica Gianvalerio Sanna ha la carta bollata sulla scrivania: «Sull’ampliamento di villa Certosa il parere della commissione al paesaggio conta soltanto come un parere, ma se l’ufficio regionale per la tutela del paesaggio darà il nullaosta all’intervento, che è l’atto rilevante, ricorreremo al Tar perchè si verificherà una chiarissima violazione del piano paesaggistico regionale». Sanna si era già fatto sentire nell’aula del consiglio quando, a maggio scorso, sono uscite sulla Nuova Sardegna le prime indiscrezioni sull’istanza di accesso al piano-casa presentata dall’Idra Immobiliare di Silvio Berlusconi: «Ho chiesto che gli atti mi venissero trasmessi immediatamente, perchè mi pare evidente che se l’amministrazione Cappellacci ha elaborato un secondo piano casa l’ha fatto perchè il primo era illegittimo. Poi si è rivelato illegittimo anche il secondo...». Sugli aspetti politici il giudizio è scontato: «Manca persino il pudore - taglia corto Sanna - ma ormai non c’è più da stupirsi di nulla, basta guardarsi intorno e vedere a quale punto è il nostro paese grazie a questi governanti».
Sulla stessa linea l’ex presidente della Regione Renato Soru: «Non ho commenti su questa vicenda, posso solo dire che difenderemo il piano paesaggistico in ogni sede, come abbiamo fatto finora». Anche Francesco Pigliaru, ex assessore regionale alle finanze e docente di economia, fa fatica a trovare le parole giuste per una valutazione dei fatti: «Il piano casa va nella direzione esattamente opposta a quella giusta, fa costruire di più anzichè di meno. Il fatto che ad avvantaggiarsene per primo sia Berlusconi è la conferma di quanto quella norma sia sbagliata». Indignazione anche a Italia Nostra, dove la responsabile giuridica Maria Paola Morittu appoggia pienamente l’idea di un ricorso ai giudici amministrativi: «Se riscontreremo profili di illegittimità lo presenteremo subito, questo è certo. Perchè abbiamo di fronte l’ennesima dimostrazione di come chi governa badi ai propri interessi piuttosto che al bene comune». La dirigente dell’associazione culturale contesta anche l’opportunità del piano-casa: «Le domande all’esame della commissione sono state soltanto trentacinque, il che la dice lunga sulla necessità di questa norma regionale, costata lunghissime discussioni e sedute del consiglio regionale a discapito di problemi reali della Sardegna. Non so, è una cosa talmente vergognosa che non si trovano parole sufficienti a esprimere il disappunto».
Caustico il commento di Stefano Deliperi, responsabile del Gruppo di intervento giuridico: «Nessuna sorpresa, ormai in questo paese quando si fa una legge si sa già in partenza chi sarà l’utilizzatore finale. In questo caso poi si tratta di una vera legge-porcata, destinata ad alimentare gli interessi di pochi e ben identificati speculatori. Ma come tutte le cose elaborate in fretta si è rivelata un fallimento totale. Doveva servire a chi ha già volumetrie e cantieri pronti, alla fine è servita soltanto a Berlusconi». Parla di fallimento anche Vincenzo Tiana, presidente regionale di Legambiente: «Ci siamo battuti contro il piano-casa e i fatti dimostrano che eravamo sulla strada giusta, quella legge è un disastro ed è stata pensata soltanto per alcune persone. Che altro potrei aggiungere? E’ una cosa deprimente, se ci saranno gli estremi ricorreremo al Tar».
Intanto si apprende che i bungalow progettati dalla società Idra Immobiliare per Villa Certosa sarebbero cinque, tra i 32 e i 45 metri cubi, per un totale di 800 metri cubi. Il piano-casa prevede la possibilità di aumentare la volumetria concessa del dieci per cento.
L’Italia dei valori: legge ad personam,
non c’è limite alla vergogna
I Verdi preparano il ricorso al Tar
«Presenteremo un ricorso al Tar Sardegna per chiedere che venga annullata l’autorizzazione paesaggistica rilasciata al presidente del Consiglio per l’ampliamento di Villa Certosa e la costruzione di numerosi bungalow»: lo dichiara il presidente nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli.
È una delle reazioni politiche a livello nazionale alla notizia, riportata ieri dalla Nuova, che Berlusconi potrà realizzare nuove costruzioni nella sua residenza Porto Rotondo. «A quanto ne sappiamo - aggiunge il leader dei Verdi - il progetto presentato per Villa Certosa è assolutamente insufficiente e per niente dettagliato. Inoltre, la normativa sul paesaggio in Sardegna vieterebbe anche solo la costruzione di un metro cubo sulle coste».
«In questo caso - prosegue Bonelli - è evidente il conflitto d’interessi di Berlusconi che avrà un vantaggio diretto ed economico da una norma da lui fortemente voluta e approvata: il piano casa, a cui ci siamo sempre opposti. Il valore di Villa Certosa aumenterà di diversi milioni di euro in barba a tutte le normative a tutela del paesaggio e dell’ambiente: l’assalto del cemento e della speculazione alle coste sarde è iniziato». «Berlusconi avrebbe dovuto astenersi dal chiedere l’autorizzazione per questo ampliamento - conclude il presidente nazionale dei Verdi -. In questo modo, ancora una volta, dimostra di preoccuparsi più dei suoi interessi che di quelli del Paese».
Indignata anche la reazione dell’Italia dei valori, affidata al capogruppo alla Camera del partito di Di Pietro, Massimo Donadi: «Alla vergogna non c’è mai limite. Berlusconi ha ottenuto il via libera per la costruzione di alcuni bungalow a Villa Certosa grazie a un piano casa regionale del suo fidato governatore Cappellacci. A quanto pare le richieste sono state poco più di venti, e tutte da hotel, villaggi turistici o ville private. A cosa serve la costruzione di bungalow in una villa già enorme e che ha già usufruito in passato di costruzioni abusive coperte poi dal segreto di Stato? E, soprattutto, il piano casa non era stato progettato per avere una stanza in più per i figli? Ancora una volta demagogia e propaganda nascondevano un’altra verità. Berlusconi aveva bisogno di una nuova legge ad personam, e questa volta se l’è fatta fare dalla Regione Sardegna».
Grazie al piano-edilizia della Regione, ispirato al piano-casa lanciato dal governo nazionale, Silvio Berlusconi potrà realizzare una serie di bungalows immersi nel verde dello sterminato parco di Villa Certosa.
La commissione paesaggistica regionale ha esaminato l’istanza di ampliamento della volumetria presentata a maggio scorso dalla Idra Immobiliare, la società del premier proprietaria della residenza principesca di Porto Rotondo, e ha concesso il nullaosta all’intervento. L’organo di controllo presieduto dall’artista Pinuccio Sciola non ha rilevato elementi di incompatibilità dal punto di vista paesaggistico, quindi se i nuovi metri cubi proposti saranno in linea con le norme regionali i lavori di costruzione potranno partire.
Scarne le indicazioni sulla qualità del progetto: «Si tratta di alcune strutture staccate dal corpo centrale della residenza - spiega Sciola - inserite in uno spazio immenso, non c’era alcun motivo per negare il parere positivo». Le norme del piano paesaggistico regionale vieterebbero anche la posa di un solo mattone nell’area privata di Berlusconi così come in qualsiasi altro tratto di costa, ma le deroghe contenute nella prima formulazione del piano-casa o piano-edilizia - come preferisce chiamarlo l’assessore regionale all’urbanistica Gabriele Asunis - hanno spianato la strada alle nuove esigenze di ospitalità manifestate dal presidente del consiglio, mentre una ventina fra i trentacinque progetti presentati all’esame della commissione sono stati bloccati: «In prevalenza sono progetti illeggibili - avverte lo scultore di San Sperate - dai quali non si capisce che cosa i proprietari vogliano fare nel proprio immobile. Ho visto fotografie e disegni di case costruite negli anni Sessanta e Settanta praticamente in riva al mare, che ora si vorrebbe allargare o modificare. Molti di questi progetti siamo stati costretti a rispedirli al mittente, per altri abbiamo richiesto approfondimenti». Finora solo una decina di istanze ancorate al piano-edilizia hanno superato il vaglio della commissione, fra queste il progetto della Idra Immobiliare di Silvio Berlusconi. Che ora avrà a disposizione nuovi spazi da offrire ai suoi ospiti, sempre numerosi d’estate e anche nei mesi meno caldi. Spazi da costruire legalmente, dopo la fase degli abusi sfociati in un processo penale finito con il proscioglimento dell’amministratore della società del premier: le opere risultavano ormai condonate.
«L’esame di questi progetti di ampliamento - osserva Sciola - è solo una delle competenze della commissione per il paesaggio. E’ normale che si parli delle cose che riguardano Berlusconi in Sardegna, ma vorrei che si aprisse un confronto tra i comuni e la Regione per affrontare una volta per tutte il problema dei rifiuti di cui è disseminata la Carlo Felice, così come altre strade dell’isola. E’ una situazione assurda che si potrebbe risolvere in una settimana se esistesse la volontà di discuterne seriamente per trovare una soluzione concreta». Situazione che La Nuova Sardegna ha denunciato di recente con un ampio servizio-inchiesta e sulla quale non si registrano passi avanti: «La Sardegna resta un’isola bellissima - insiste Sciola - ma proprio per questo è urgente che il suo paesaggio venga difeso dal degrado».
Sull’argomento vedi su eddyburg, tra l’altro, gli articoli di Sandro Roggio , Costantino Cossu e Mauro Lissia
Flop immobiliare e finanziario di privati fuori controllo, cementificazione e degrado. Lotte di potere tra i leader del Pdl. Infiltrazioni mafiose. La triste fine del quartiere Santa Giulia è l’immagine spezzata di Milano dopo 17 anni di governo delle destre. Eppure proprio in questi giorni all’ombra della Madonnina si prendono decisioni che valgono decine di miliardi. Le questioni sul tavolo sono tre. Expo 2015, con il braccio di ferro tra Letizia Moratti e Roberto Formigoni sull’acquisizione dei terreni di Rho-Pero che ospiteranno la fiera; il Piano di governo del territorio (Pgt), approvato dopo estenuanti sedute fiume, che spiana il terreno a banche e palazzinari; e i progetti edilizi già in atto (come i grattacieli storti di Citylife) o defunti prima di nascere (come Santa Giulia). Tre questioni enormi che muovono immense somme di denaro: i 25 miliardi della manovra di Tremonti a confronto sono poca cosa. E tra meno di un anno a Milano si elegge il nuovo (o il vecchio) sindaco.
Il giro del fumo
Dopo la fine della Milano delle fabbriche, la città produce aree dismesse da bonificare e rifiuti tossici da smaltire. Gli ex siti industriali diventano aree edificabili che il pubblico troppo spesso lascia all’iniziativa privata. Terreni degradati si trasformano magicamente in oro. Fanno bilancio, entrano in un gioco finanziario che ha come protagonisti immobiliaristi foraggiati dai maggiori istituti di credito e assicurativi. Due mondi che spesso si intrecciano. Non a caso sia Zunino che Salvatore Ligresti tramite la figlia Jommella (lui non può perché condannato ai tempi di Tangentopoli) in tempi diversi si sono seduti nel salotto buono di Mediobanca.
Intorno a questo giro ruotano gli interessi di imprese che si occupano di svolgere il lavoro che a cascata coinvolge una lunga serie di aziende in subappalto permeabili alla malavita. In cambio però l’economia gira, la città si trasforma in un cantiere a cielo aperto e c’è lavoro. E poco importa se la vivibilità della città soccombe sotto milioni di tonnellate di cemento e un milanese ogni due giorni viene ucciso dallo smog, come ha appena dimostrato un’agghiacciante ricerca dell’Università di Milano. Finiscono nel mirino anche le aree occupate dai centri sociali, i campi rom sgomberati a centinaia e persino i terreni «occupati» da fabbriche ancora al lavoro (il caso Innse dell’estate scorsa). Il gioco fino a ieri funzionava per quasi tutti. La pax fomigoniana si è basata anche sulla gestione dei rapporti tra Compagnia delle opere e Cooperative più o meno rosse nella spartizione della torta dei lavori.
Un modello che non è stato ostacolato né dal centrosinistra, che per anni al Pirellone ha sposato l’astensione, né dall’ex presidente della Provincia del centrosinistra, Filippo Penati: dopo aver perso disastrosamente con Formigoni è stato nominato vicepresidente fantasma del nuovo consiglio regionale eletto in aprile. In questo contesto si sono mossi prima l’ex sindaco del Pdl, Gabriele Albertini, e poi Letizia Moratti. L’ex sindaco ha dato l’ok ad una serie di progetti edilizi faraonici senza alcun piano della città. Sono nati così i progetti della Hines nell’area Garibaldi Repubblica, Citylife all’ex Fiera, i progetti di Zunino a Santa Giulia e alla ex Falck di Sesto San Giovanni. Poi i progetti sugli ex scali ferroviari. Letizia Moratti ha cercato di dare un immagine unitaria e grandiosa di questo sterminato cantiere in mano ai privati.
Ha vinto la sfida per Expo 2015 e sono cominciate a circolare immagini futuribili della Milano dei sogni. Poi ha messo a punto il Piano di governo del territorio, il primo piano regolatore dal 1980 che però più che regolare mette nero su bianco una vera e propria deregulation. Tutto bene? Non proprio. Il gioco del mattone si è spezzato. La crisi mondiale nata sui subprime legati alle case ha portato alla stagnazione del settore, sia sul piano finanziario che su quello dell’economia reale ulteriormente depressa dall’aumento di precarietà e cassa integrazione, dal blocco dei mutui e dai tagli dello Stato - dalla scuola alla manovra. Tira solo il mercato delle case di lusso. L’offerta supera la domanda e alcuni grandi progetti finiscono malissimo, come è accaduto a Santa Giulia, o barcollano, come Citylife. Pochi giorni fa anche Salvatore Ligresti, che di Citylife è il padrino, ha dovuto mettere in vendita uno dei gioielli di famiglia, la storica Torre Velasca. Nello stesso tempo, e di conseguenza, si complica il quadro politico e i rapporti tra i diversi leader del Pdl diventano sempre più tesi; la Lega cresce insidiando le posizioni di potere degli alleati, mentre il centrosinistra finora ha collezionato solo sconfitte.
Piano, troppo piano
Sul Piano generale del territorio (Pgt) il Pdl ha già rischiato il crollo, diviso tra l’area ciellina e quella laica. Il piano che lo stesso sindaco ha definito come il suo provvedimento più importante, è stato approvato dopo 7mesi: 55 sedute cui spesso è mancato il numero legale, con estenuanti tour de force di 15 ore filate. Il voto finale è arrivato alle 4 del mattino del 14 luglio. Si basa su quattro principi. La perequazione: una sorta di borsa delle volumetrie che possono essere comprate e cedute da un terreno all’altro. La fine della destinazione d’uso, per cui si costruirà senza dover dire cosa e in che contesto. La sussidiarietà dei servizi, secondo cui il pubblico se ne occupa solo laddove i privati non possono o non hanno interesse di arrivare.
E la densificazione. Si è partiti con l’assessore all’urbanistica Masseroli che fantasticava 700 mila nuovi milanesi in 20 anni. Mese dopo mese la cifra si è ridotta e ora non si fanno più previsioni. Grazie al crescere delle tensioni interne al Pdl, l’opposizione è riuscita a strappare alcuni importanti modifiche. Il lavoro dei consiglieri Patrizia Quartieri, Giuseppe Landonio e Milly Moratti, ha trovato un punto di incontro con la posizione fino a qualche mese fa più morbida del Pd, che ha deciso di dare battaglia guidato dal capogruppo Pierfrancesco Majorino. L’opposizione per una volta unita ha battuto un colpicino e ha portato a casa cambiamenti importanti. Il 35% delle costruzioni per l’housing sociale.
L’aumento delle aree verdi. La non edificabilità del Parco Sud, un enorme polmone verde e agricolo alle porte della città, anche se le volumetrie di quei terreni potranno sempre essere scambiate per costruire altrove; e anche se il presidente della provincia, Guido Podestà, ha invece aperto a interventi immobiliari, in linea con la politica del suo predecessore Penati (Pd). Adesso i cittadini sono chiamati a fare le proprie osservazioni e l’approvazione definitiva del Pgt, se arriverà, sarà ormai in piena campagna elettorale.
Un bel problema per il sindaco, Il giorno dopo il voto in notturna, Moratti sorridente si è appropriata di queste modifiche come fossero farina del suo sacco. E continua a fantasticare la Milano che non c’è. Ha annunciato per il 2035, 11 linee metropolitane (al momento si fatica a vedere la fine delle linee 4 e 5), decine di nuovi parchi, asili, scuole e servizi in ogni quartiere ameno di un chilometro dal portone di casa, una circle line intorno alla città, mentre il progetto di un faraonico tunnel da Rho a Linate è stato stralciato,ma non dimenticato.
Castelli in aria
Chi finanzierà queste opere immense che il sindaco continua a vaticinare? Le animazioni virtuali della Milano del futuro continuano a scorre come sogni. Si aprono fantomatiche vie d’acqua, poi scompaiono, sorgono e spariscono grattacieli e fantomatici Central park. In vista della campagna elettorale cambia anche il look di donna Letizia. Dal tailleur ad un immagine più casual, il sindaco si fa fotografare sul suo terrazzo con piscina vista Duomo, dove coltiva pomodorini bio. Si appella giocherellando all’orgoglio dei milanesi, perché votino sul sito del Monopoli per inserire Milano tra le nuove caselle della versione italiana del gioco. Confessa di pattugliare le zone della sua città in incognito, travestita come Serpico, insieme al rampollo di famiglia.Ma la realtà la perseguita, la bolla del mattone rischia di scoppiare da un momento all’altro sotto le spinte della crisi, delle indagini della magistratura e della litigiosità del Pdl. Da troppo egemone nell’area più ricca del paese.
Santa Giulia fa ballare i politici lombardi
«Se c’è un’inchiesta che può far paura a Formigoni è Santa Giulia». Da due anni questa voce circola con insistenza a destra e sinistra. Una voce che appare meno inverosimile dopo il clamoroso sequestro di uno dei più grandi cantieri d’Europa (1,2 milioni di metri quadrati) per ordine della procura di Milano per l’inquinamento delle falde acquifere. Ma c’è di più. L’inchiesta sull’area ex Redaelli-Montedison, che avrebbe dovuto ospitare l’avveniristica «città ideale» di Zunino, si intreccia con le recenti retate che hanno portato all’arresto di 300 affiliati alla ‘ndrangheta che operavano in Lombardia. La bonifica di Santa Giulia era affidata dalla Regione a Giuseppe Grossi senza le dovute fidejussioni in caso di mancanze nei lavori.
Il «re delle bonifiche» gestisce appalti di bonifica anche in molte altre aree della regione, come l’ex fabbrica chimica Sisas di Pioltello. Grossi era già stato arrestato a ottobre per frode fiscale nell’ambito dell’inchiesta dei pm Laura Pedio e Gaetano Ruta. Con lui arrestarono Rosanna Gariboldi, assessore provinciale pavese del Pdl. La signora accusata di riciclare i soldi di Grossi (in totale l’inchiesta riguarda 22 milioni di fondi neri) ha patteggiato la pena. Gariboldi è la moglie di Giancarlo Abelli, parlamentare del Pdl, ex assessore lombardo, vice coordinatore nazionale del Pdl e fedelissimo di Formigoni. Abelli era colui che nominava i dirigenti Asl, come Carlo Chiriaco, il direttore della Asl di Pavia arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla ‘ndrangheta e che di Abelli parla nelle intercettazioni della Dia.
Un filone dell’inchiesta riguarda anche l’ex assessore del Pirellone Massimo Ponzoni. La magistratura sospetta che i contatti tra politici e sospetti mafiosi servissero anche a raccogliere voti. È emerso anche il nome dell’uomo più votato della Lega per il consiglio regionale, Angelo Ciocca, 35 anni di Pavia. Avrebbe avuto rapporti con l’avvocato tributarista Pino Neri, arrestato per concorso in associazione mafiosa. Un fatto imbarazzante che impedisce ai «duri» di via Bellerio di fare troppo i «puri» nei confronti degli alleati del Pdl. Sul tavolo del procuratore aggiunto Ilda Bocassini è finito anche il fascicolo su uno strano suicidio. Pasquale Libri, 37 anni, funzionario degli appalti dell’ospedale San Paolo di Milano qualche giorno fa si è buttato dalla tromba delle scale.
L’uomo era stato intercettato mentre parlava con Chiriaco con cui fra l’altro discuteva dello zio di sua moglie, Rocco Musolino, boss dell’Aspromonte. Il 12 gennaio scorso Libri partecipò ad un incontro con altri presunti affiliati delle cosche in via Pirelli 27, a Milano, sede elettorale del candidato Pdl alle regionali, Angelo Giammario. La Lombardia non è la Calabria, da nessun punto di vista. Il fatto che le organizzazioni mafiose siano presenti tra i tanti attori dei giochi politici e d’affari milanesi non è una novità. Ma queste vicende stanno intaccando lo strapotere del Pdl e dei suoi alleati. «Formigoni finora non è toccato – spiega Luciano Muhlbauer, ex consigliere regionale del Prc tra i primi a denunciare la gravità della questione morale al Pirellone -ma le indagini della magistratura, che è sempre nel mirino di Berlusconi, possono far scoppiare le tensioni sempre più evidenti tra le varie anime della destra».
Nel deserto di Santa Giulia, intanto, 1.887 famiglie ricevono rassicurazioni dal sindaco Moratti e dall’assessore Masseroli, gli stessi che fino a un mese fa dicevano che le bonifiche erano in regola. E che ora danno la colpa all’Arpa e al Pirellone. Alcuni abitanti non amano i riflettori, temono che a questo punto saranno ancora più soli. Il sequestro li ha privati anche di un parco e di un asilo (nel 2005 era già stato chiuso perché ai bambini stranamente piangevano gli occhi). Si pensa ad una azione legale collettiva. Mentre le istituzioni, Comune, Provincia e Regione, Arpa, oltre che Risanamento - la società di Zunino che deve gestire il suo fallimento - si rimpallano le responsabilità. E intanto le acque viaggiano nel sottosuolo e possono inquinare con i loro elementi cancerogeni pozzi a distanza di 30 chilometri. Resta solo da capire se i camion che scaricavano scorie nella notte trasportavano materiale proveniente da altre discariche o scavi,magari da altre speculazioni edilizie.
Fatto non improbabile visto che in quei diversi siti spesso operano in subappalto le stesse ditte sotto inchiesta. L’altro giorno in Prefettura a Milano era ospite la commissione nazionale sui rifiuti presieduta daGaetano Pecorella. La stessa commissione che il giorno del sequestro stava sentendo come esperto Claudio Tedesi, il direttore dell’Asm di Pavia coinvolto dall’inchiesta. Pecorella ha lanciato l’allarme per l’infiltrazione mafiosa nello smaltimento dei rifiuti in Lombardia, «anche nelle grandi società». Proprio a casa del prefetto Lombardi, colui che un mese fa aveva detto che la ‘ndrangheta in Lombardia non esiste.
Dopo il Passante di Mestre, la Pedemontana e una serie di altre opere. Il Veneto del neogovernatore Zaia fa i conti con sette miliardi di euro di superstrade, tangenziali e raccordi. Pagate con il sistema del project financing Dietro l'angolo l'ombra di Tangentopoli
Mega-progetti con il sistema del project financing. Un «pacchetto» di lavori che sembra costruito su misura. Tanto più che rispuntano alcuni protagonisti della Tangentopoli veneta degli anni Novanta. Una strada a senso unico per «rivoluzionare» la viabilità? L'assessore Renato Chisso (Pdl) non si accontenta del Passante di Mestre e rilancia il programma messo a punto dalla vecchia giunta Galan. Come per il «portafoglio» dei nuovi ospedali, la Lega Nord reciterà davvero il ruolo di impietoso garante?
Stretto fra la crisi economica e l'attesa del federalismo, il Veneto del nuovo governatore Luca Zaia fa i conti con 7 miliardi di euro di superstrade, tangenziali, grandi raccordi. Si chiama «finanza di progetto»: la partecipazione dei privati alle opere di interesse pubblico che la Regione non è più in grado di appaltare. Così si è costruito a Mestre l'ospedale nuovo di zecca che si affaccia su via don Giussani. La sanità veneta dell'era Galan ha messo in cantiere anche gli ospedali di Schio, Asolo e della Bassa padovana. Giusto prima che calasse il sipario sui tre lustri del governatore berlusconiano, ecco firmato in pompa magna anche il "preliminare" del nuovo ospedale di Padova (1,7 miliardi) dove però è sempre a zero l'integrazione fra Azienda ospedaliera, Usl 16 e Università.
Sul fronte della viabilità è intervenuto il consigliere regionale Mauro Bortoli (Pd) che ha depositato una documentata interrogazione, facendo andare su tutte le furie l'assessore Chisso. «I soggetti individuati dalla Regione come promotori rientrano nella ristretta cerchia dei poteri forti del mondo economico veneto. In particolare, eclatante è il caso della Mantovani Spa finora promotrice di tutte le tre operazioni cui ha partecipato (prolungamento A27, nuove tangenziali e indirettamente nella Via del Mare). I promotori contano sul diritto di prelazione. Perfino in caso di sconfitta nella gara, viene riconosciuto dal vincitore l'importo delle spese dichiarate nella predisposizione dell'offerta. E nel 2007 la Mantovani ha registrato utili per 13,5 milioni contro i 500 mila euro del 2001...» afferma Bortoli. E dubbi pesanti sul conto economico, perfino del Passante di Mestre: «In teoria, il project financing serve al pubblico per favorire l'attuazione di infrastrutture perché il codice dei contratti assegna ai privati il rischio d'impresa e di mercato. In pratica, la bilancia é tutt'altro che in equilibrio: il Passante nel 2009 ha registrato il 30% in meno di traffico, con conseguente sforamento del piano finanziario e intervento della Regione a ripianare il deficit».
Chisso non era abituato a farsi controllare. Tanto meno nel merito dei conti. Ed è sbottato con una dichiarazione inferocita: «Bortoli non può mica calunniare per sentito dire. Si informi e dica almeno cose fondate. Simili affermazioni sono prive di qualunque fondamento. Nessuna convenzione regionale prevede che se i ricavi sono inferiori alle previsioni, vi sia un ripiano con un contributo della Regione o con aumento delle tariffe. Le convenzioni prevedono, invece, che in casi eccezionali i concessionari possano richiedere la revisione della convenzione come del resto espressamente indicato dall'art. 143, comma 8, del codice dei contratti».
Bortoli ha mantenuto il punto: «Confermo tutto, anche perché ciò che sostengo rientra nelle decisioni della giunta regionale. Il Passante? È vero che non è stato realizzato in project financing: tuttavia è un esempio dei rischi che potranno esserci sugli equilibri del bilancio regionale. Il piano economico finanziario del Passante non è in linea per Galan, che ha manifestato il suo disappunto in più occasioni e pubblicamente. Chi dovrebbe informarsi meglio è l'assessore Chisso».
Proprio questa polemica ha rimesso sotto i riflettori il «giro» delle imprese votate ai cantieri pubblici. Mantovani Spa significa imbattersi nell'ingegner Piergiorgio Baita. Comincia la carriera alla Furlanis, l'impresa di costruzioni guidata da Giovanni Mazzacurati, il futuro presidente del Consorzio Venezia Nuova. Dopo un passaggio a Italstrade, Baita si concentra sugli appalti: è il vero stratega del Consorzio Venezia Disinquinamento. Cantieri in laguna e «pulizia» degli acquedotti veneti. Alessandra Carini, firma di punta del gruppo Espresso in Veneto, evidenzia la geopolitica degli anni Novanta: «Il Consorzio era controllato dalla veneziana Iniziativa (al vertice Orazio Rossi), che doveva essere il cilindro dal quale fare uscire progetti e soldi per le infrastrutture e che diventa una sorta di salotto buono delle imprese di costruzioni dove siedono Maltauro, Grassetto, Ligresti e Dino Marchiorello, allora presidente degli industriali veneti e di Antonveneta. Anche Baita ha solide amicizie politiche: è braccio destro di Cremonese, doroteo, presidente della giunta regionale. Anche lui finisce travolto dalla Tangentopoli veneta: Felice Casson e Ivano Nelson Salvarani lo fanno arrestare nell'ambito dell'inchiesta che svela la spartizione degli appalti tra i socialisti di Gianni De Michelis e i democristiani di Bernini e Cremonese. Parla con i giudici per ore, svelando i meccanismi di distribuzione degli appalti. Ne esce con un'assoluzione».
Baita si trincerò dietro il ruolo di esecutore dei compiti assegnati dall'impresa. Allora, in Veneto, si poteva lavorare solo con la «benedizione» dei partiti. Le Procure fecero crollare gli imperi edilizi di Tangentopoli, anche grazie ad altri top manager come Baita che scaricarono le responsabilità penali. Si disintegrò la Grassetto che aveva monopolizzato Padova, mentre a Vicenza non fu semplice sopravvivere per la Maltauro. All'epoca, fece scuola l'ordinanza di un magistrato sull'inconsapevole trasporto di valigette anche per conto delle cooperative...
Vent'anni dopo, in Veneto sembrerebbero esserci i presupposti per una specie di replica riveduta e corretta. Ancora lavori con i soldi pubblici. Di nuovo, imprese in pole position. E setacciando le sigle dei consorzi affiorano le storiche alleanze con le coop. E' la politica business oriented che non è mai stata solo il marchio di fabbrica del centrodestra. Il mercato dei lavori pubblici nelle sette province vale 3 miliardi all'anno. La Regione, da sola, finanzia lavori per 700 milioni. E nel 2008, secondo i dati ufficiali, oltre il 65% delle opere pubbliche sono state realizzate proprio in project financing. Alla vigilia delle elezioni di marzo, la fotografia del comparto sanitario era più che eloquente. In Lombardia il «modello Formigoni» che stempera il pubblico grazie alla Compagnia delle Opere aveva previsto 17 progetti del valore di oltre 1,2 miliardi. Il Veneto segue a ruota con 6 progetti da 846 milioni. La Toscana "rossa", invece, non va oltre 546 milioni.
Una tendenza precisa, spesso e volentieri alimentata da una sorta di «unità nazionale» già sperimentata in Veneto. A Padova lo stadio delle tangenti e il palazzo di giustizia furono concepiti, approvati e costruiti proprio sull'onda del «pentapartito democratico». Adesso si replica con il Grande Raccordo Anulare, naturalmente in project financing, grazie alla sintonia istituzionale fra Vittorio Casarin (ex presidente della Provincia che guida la società promotrice) e il sindaco Flavio Zanonato. Nella Gra Spa, infatti, il 4% delle azioni risulta detenuto proprio dalle imprese costruttrici: Mantovani Spa è di nuovo la capofila. Insieme al Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna e ad un altro pool di società del settore edilizio che il 22 dicembre 2006, nello studio del notaio Nicola Cassano, si sono costituite nel Consorzio Gra imprese padovane. Una sintomatica alleanza locale, visto che si tratta di sei sigle e personalità tutt'altro che marginali. Intercantieri Vittadello, Alissa Spa e Fratelli Gallo Srl sono imprese dell'Alta padovana, quanto Road Spa di Cittadella che fa capo alla famiglia del futuro presidente di Confindustria Massimo Pavin. Con loro il Consorzio stabile Consta che riunisce la galassia che fa capo alla Compagnia delle Opere (da Mattioli a Ste Energy, dalle coop sociali Giotto e Tintoretto a Geobasi). Infine, la Sicea Spa di Vigonza che significa Rizzani De Eccher ovvero chi ha fatto viaggiare il prototipo del tram targato Lohr. Ma anche Leonardo Cetera, il manager della Grassetto che negli anni '90 fu spazzata via da Tangentopoli. Era tornato in auge come presidente dell'associazione costruttori edili; compare, puntualmente, ad ogni "snodo" degli affari con le amministrazioni locali.
E' la strada maestra dell'economia opaca. In Veneto, si procede con la cara vecchia concertazione. A Vicenza, la pianificazione urbanistica della giunta Variati non può prescindere dalla professionalità del mancato sindaco di centrodestra. A Venezia, il restyling del Lido è nelle mani di una società costituita dall'ex assessore alla cultura. E nessuno ha voglia di preoccuparsi degli «strani» flussi di denaro che alimentano il mercato immobiliare, ultima frontiera del modello veneto. Prima, sempre i soliti? Anche nella Regione di Zaia?
Coprifuoco anche al Corvetto. Dopo Sarpi e via Padova arriva l’ordinanza anti-degrado per un altro quartiere: in questo caso il giro di vite riguarderà soprattutto i bar, che dovranno chiudere tassativamente a mezzanotte contro le 3 di notte attuali. Il provvedimento, deliberato ieri dalla giunta comunale, scatterà il primo agosto e resterà in vigore fino al 16 ottobre in fase sperimentale.
L’amministrazione ha inoltre deciso di prorogare i divieti per la zona Sarpi e per via Padova, in scadenza il 31 luglio. La prima ordinanza è stata prolungata fino al 31 gennaio 2011, la seconda - così come per l’area del Corvetto - avrà valore fino al 16 ottobre. «Noi le avremmo firmate tutte fino alla fine dell’anno, ma abbiamo accolto una richiesta della commissione dei pubblici esercizi», puntualizza il vicesindaco Riccardo De Corato.
L’intenzione di estendere i divieti per la sicurezza era già stata manifestata dal sindaco, che ha spiegato di aver pensato alle ordinanze dopo aver visitato personalmente i quartieri di notte, camuffata per non essere riconosciuta: «Sono andata con mio figlio e con la scorta — ha sottolineato Letizia Moratti— Tutti quanti travestiti». Un provvedimento analogo, e certo non è un caso, è già allo studio anche per la zona Imbonati.
| Foto di F. Bottini |
Ma il passo immediato riguarda il quartiere Corvetto, in particolare il piazzale, via Ravenna, viale Martini, piazzale Gabrio Rosa, viale Omero, via Barabino, via dei Cinquecento, via Pomposa, via dei Panigarola, via Mompiani, via Polesine, piazzale Ferrara, via Comacchio, via Mincio, via Bessarione, via Romilli, via Salò, via Riva di Trento (nel tratto tra Bessarione e Romilli), piazza Bonomelli, piazzale Angilberto, via Osimo, corso Lodi (nel tratto compreso tra via Brenta e piazzale Corvetto), via Marocchetti. Lo schema dell’ordinanza è lo stesso già collaudato in Sarpi e via Padova. Per quanto riguarda gli affitti, si ribadisce per i proprietari l’obbligo di depositare il contratto al comando dei vigili e per gli occupanti degli alloggi di depositare l’apposita scheda entro 15 giorni. Riconfermato inoltre l’obbligo per gli amministratori di segnalare eventuali situazioni anomale.
La sanzione per i trasgressori è di 450 euro.
La seconda parte del provvedimento riguarda invece gli orari dei pubblici esercizi. I centri massaggi, che oggi non sono soggetti a vincoli orari, potranno rimanere aperti dalle 7 alle 20. I phone center dalle 7 alle 22. I bar, «compresi quelli che fanno attività di pubblico trattenimento oggi ammesso fino alle 3», per esempio i locali del karaoke, dalle 6 alle 24. E’ stata inoltre anticipata di un’ora, cioè a mezzanotte, la chiusura di take-away, pizzerie al taglio, kebab: questi esercizi, inoltre, non potranno vendere bevande da asporto oltre le 20, se non in contenitori di plastica o carta. Vietata ogni forma di commercio itinerante. Anche per il mancato rispetto dei limiti stabiliti dal Comune per gli esercizi pubblici è prevista una sanzione di 450 euro.
«Le ordinanze — sottolinea il vicesindaco, Riccardo De Corato — sono un’ulteriore iniezione di sicurezza per il quartiere Corvetto. La proroga delle ordinanze per via Padova e Sarpi è frutto invece dei positivi risultati raggiunti. In particolare il controllo sugli affitti, grazie a 1319 schede autocertificative presentate alla polizia locale, ha portato alla luce situazioni di sovraffollamento dovute a clandestini e pericolose irregolarità».
Il vicesindaco segnala infine che le violazioni sugli orari degli esercizi pubblici sono state finora 113: 90 nell’area di via Padova, dove l’ordinanza è in vigore dal 28 marzo, e 23 nel quartiere Sarpi. «Numeri che indicano un sostanziale rispetto delle disposizioni — dice — che a conti fatti non sono così pesanti come qualcuno sosteneva».
postilla
Lo stile, manco a dirlo, scimmiotta al peggio il mai dimenticato George Dabliù che di fronte al riscaldamento globale individuato e ribadito dagli scienziati, chiamava alla Casa Bianca uno scrittore di fantascienza per autoconvincersi al noto, micidiale immobilismo. Immobilismo che poi genera o rafforza vari mostri: nel caso del riscaldamento globale tutte le possibili scappatoie e ritardi, a favorire i soliti noti e preparare l’allegra strage dei poveracci, in quello delle politiche urbane a spianare la strada al binomio sprawl -riqualificazione a senso unico. Ovvero da un lato espulsione degli indesiderati (più o meno tutti, salvo gli elettori solventi del centrodestra) verso le sconfinate praterie padane, da riempire di villettopoli/campi profughi con comodo svincolo, dall’altro con un altro deserto pronto da “valorizzare”. Coi coprifuoco milanesi, siamo se possibile, anche un passetto più indietro rispetto agli sventramenti ottocenteschi o alle modernizzazioni forzate dell’urban renewal postbellico, perché non esiste alcun motivo, salvo le solite squallide tesi fascistoidi da uomini veri, che vogliono snidare il male eccetera eccetera. Basta togliere di mezzo questi ideali hitleriani da fumetto di serie Z, per scoprire la solita sbobba: una scusa qualsiasi per levare di torno la vita di un quartiere, e trasformarlo in un deserto su cui speculare dopo il “risanamento sociale”. Dato che il risanamento vero, cioè mettere in campo politiche di inclusione, convivenza di fasce di reddito disomogenee, micro-sviluppo economico, costa fatica e non coincide con i soliti interessi degli amici, meglio il risanamento patacca, un po’ simile a quello delle finte bonifiche sulle aree industriali. Si solleva un po’ di polverone, si falsificano le carte (ovvero si presentano grandi risultati in termini di fermi e sgomberi, senza spiegare a cosa servono), e il gioco è fatto. Un quartiere dopo l’altro. Possibile che anche su questo non ci siano risposte diverse dalla solita solidarietà, che mette la coscienza a posto ma lascia al loro posto anche tutti i problemi che poi giustificano la discesa in campo degli amministratori imbecilli e degli speculatori che li manovrano? (f.b.)
La piazza di Sant’Ambrogio a Milano è tutelata come bene culturale. Perché è un elemento essenziale nella struttura millenaria urbana, spazio pubblico inedificato, costituito e fondato sui sedimenti della storia della città. A fianco della basilica dedicata al santo protettore, un’area sacra, copre un cimitero protocristiano. Non può essere adibita ad usi incompatibili con il carattere storico – artistico e che compromettano la stessa integrità fisica del bene. Lo vieta testualmente e lo punisce il codice dei beni culturali. Italia Nostra crede perciò che la piazza di Sant’Ambrogio non possa essere svuotata per far posto, nella artificiale profonda cavità, ai cinque piani di un parcheggio automobilistico ed essere trasformata nella soletta cementizia di copertura del vasto edificio, rivelato in superficie dalle rampe veicolari di entrata e uscita, dalle griglie di aerazione, dagli ingombranti volumi tecnici di servizio. Italia Nostra crede che questa sia la distruzione irreparabile di un bene culturale. Ha perciò richiamato l’interesse della Procura della Repubblica e ora si oppone alla richiesta di archiviazione, motivata con il mero rinvio alla valutazione discrezionale, ritenuta insindacabile, della istituzione della tutela, la soprintendenza, che ha approvato un simile intervento. Italia Nostra attende la decisione del Giudice per le indagini preliminari: neppure la soprintendenza può legittimare radicali trasformazioni fisiche di un bene culturale che il “Codice” espressamente vieta e punisce come reato.
Roma, 23 luglio 2010
Il più storico, originale e centrale dei grattacieli italiani è per un terzo sfitto e... lo mettono in vendita. Sembra una parabola, una metafora dei tempi che viviamo e della contraddizione crescente nell´economia dell´edilizia. Mentre si inaugurano o costruiscono o progettano torri sempre più alte tra la Stazione Centrale e la vecchia Fiera, tanto da poter immaginare che tra non molto una gigantesca cortina potrebbe fare da sfondo al Castello e impedire la vista delle Alpi dalla terrazza del Duomo, mentre si vara un Piano di governo del territorio che punta a "ridensificare" Milano riempiendola di nuovi alloggi e uffici, Salvatore Ligresti apre le procedure per vendere la Torre Velasca.
Forse sono soldi che servono per tappare i buchi aperti da altre avventure immobiliari? O addirittura per finanziarne di nuove? Di certo non è un segno di vitalità del mercato immobiliare, come avrebbe potuto essere fino a qualche anno fa un passaggio di mano nella proprietà del fungone modernista adiacente a Piazza Missori. Non è dato sapere quanto i milanesi amino la Torre Velasca, ma almeno si tratta di un edificio originale e in larga misura autoctono.
Secondo Gae Aulenti ora la Torre rischia cattive ristrutturazioni, se non addirittura demolizioni, e chi organizza l´Expo dovrebbe muoversi per salvarla. («Tagliamo uno dei grattacieli previsti e destiniamo le risorse per il restauro della Velasca»). È una provocazione che può avere un senso nel ripensare la grande occasione dell´Esposizione universale. Il recupero del vecchio piuttosto che la costruzione del nuovo. La gente che si riappropria della Milano vera. Quella più antica, che è anche la più moderna.
Oltre al riferimento a Expo, potrebbe esserci quello agli uffici comunali. La Giunta Moratti ha recentemente avviato le procedure per dotarsi di un grattacielo di almeno 30 piani. Come la Regione. La motivazione è la stessa che ha portato al Pirellone-bis: sarebbe efficiente e risparmioso dismettere sedi sparse in proprietà o in affitto e concentrarle in un palazzo molto verticale. A parte il fatto che i conti economici ed energetici dell´operazione torre Formigoni non sono mai stati verificati (Tremonti la cita spesso come esempio di spese pazze) la Moratti dovrebbe tener conto che la costruzione di grattacieli a Milano sembra oggi molto impopolare. Un sondaggio recente ha dato risultati schiaccianti («Piace l´idea di una Milano con nuove costruzioni, sviluppata in altezza?» 80% di no, con punte del 90% nei ceti popolari e nelle fasce d´età più alte). Se il Comune è proprio convinto che gli serve una torre, compri la Velasca. Non è possibile (né ammissibile) che un nuovo grattacielo ben fatto costi di meno.
La Repubblica ed. Milano
Una città costruita sui veleni
di Davide Carlucci
Chi ha chiuso un occhio sui veleni di Santa Giulia? È il grande interrogativo all’indomani del sequestro dell’avveniristico quartiere nella zona sud est di Milano, ai confini con Rogoredo. La Guardia di finanza - insieme all’Asl e al Corpo forestale dello Stato - ha posto i sigilli dopo che l’Arpa ha consegnato una relazione-shock dalla quale è emerso l’altissimo livello di contaminazione del terreno e delle falde acquifere. Le concentrazioni di sostanze cancerogene come il tricloroetilene sono risultate fino a cento volte superiori ai limiti di legge - 116,50 milligrammi per litro a valle contro l’1,5 consentito - nella prima falda. Un po’ più leggere le concentrazioni nella seconda falda, a venticinque metri di profondità. Ma non meno preoccupanti: a quel deposito sotterraneo attingono anche le acque pubbliche. «Per ora non ci sono pericoli per la popolazione - avverte comunque Giuseppe Sgorbati, direttore dell’Arpa - ma potrebbero essercene in futuro se non si interverrà con una vera bonifica».
Ma come mai i tecnici non se ne sono accorti prima? È la domanda che pone, tra le righe, il giudice Fabrizio D’Arcangelo, firmatario del provvedimento di sequestro, quando parla delle «numerose anomalie, sia sul piano procedimentale-amministrativo, sia su quello tecnico della esecuzione della bonifica evidenziate dall’Arpa». L’Agenzia regionale protezione ambiente - che in passato, all’epoca dell’intervento, avrebbe dovuto vigilare sulla correttezza dello smaltimento dei rifiuti degli impianti Montedison e delle acciaierie Redaelli - ha fornito la sua ricostruzione. «Secondo l’Arpa - scrive il gip - all’atto della formalizzazione dell’accordo di programma e della convenzione del 2004/2005, atteso che il progetto coinvolge tutta l’area ex Montedison e non solo le aree già bonificate e collaudate per uso industriale, e posto che nel progetto parte di queste aree diventavano ad uso residenziale, sarebbe stato necessario sottoporre l’area a un’indagine preliminare». Lo imponeva lo stesso regolamento d’igiene del Comune per un cambio di destinazione d’uso di un’area considerata insalubre.
Ma nel caso di Santa Giulia, invece, è stato previsto un piano di gestione delle terre e un piano di scavi sotto le fondamenta dei palazzi, che non prevedeva l’analisi delle contaminazioni sotto il parco trapezio e nella falda. «Nella normativa vigente - scrive il gip - il piano scavi può essere eseguito solo su terreni non inquinati o già bonificati e certificati. In questo caso l’area di conduzione del piano scavi è diversa rispetto a quella nella quale era stata condotta la bonifica tra il 1993 e il 1996». L’errore, insomma, secondo l’Arpa è stato soprattutto del Comune e, in seconda analisi, della Provincia. Restano così le parole di Cesarina Ferruzzi che, interrogata, ha spiegato che«effettivamente l’area era molto inquinata e per altro molto vicino alla città" aveva aggiunto: "La presenza di materiali inquinanti di diversa tipologia determina un inquinamento molto più grave perchè c’è una miscela di vari principi inquinanti, una sorta di bomba biologica". Quanto ai costi la manager del gruppo aveva affermato "praticamente il costo della bonifica sarebbe stato doppio". Anche Grossi sul punto aveva dichiarato: "se si fosse fatta una bonifica si sarebbero dovuti spendere 400-500 milioni di euro e forse non sarebbero nemmeno bastati in ragione delle dimensioni dell’area".
Grossi: falda inquinata, si sapeva ma ripulirla sarebbe costato troppo
Scoppia il caso Montecity. L’area dell’ex Montedison, quella dove doveva sorgere la città "ideale" di Zunino e dove già sono abitate palazzine e c’è il centro Sky, è stata posta sotto sequestro. Nel terreno infatti sono presenti inquinanti pericolosi, la falda avvelenata da sostanze nocive all’ambiente e alla salute, anche cancerogene. Tutto per una mancata bonifica. In più, l’Arpa lancia un’accusa al Comune: «Avrebbe dovuto controllare meglio prima di dare il via libera al progetto». L’inchiesta è coordinata dai pm Laura Pedio e Gaetano Ruta.
Nell’interrogatorio del 18 dicembre 2009 il re delle bonifiche dà una spiegazione del suo operato: «Per rendere gli investimenti convenienti e favorire il recupero delle aree ex industriali è necessario che ci sia un ritorno economico finanziario...». Senza alcun commento, il giudice Fabrizio D’Arcangelo riporta questo passaggio nel decreto con cui dispone il sequestro dell’area di Santa Giulia. Per Grossi è l’ultima tegola. Ora i pm Laura Pedio e Gaetano Ruta non gli contestano più soltanto la frode fiscale, ma l’avvelenamento delle acque, per il quale è prevista una pena fino a 15 anni.
In libertà da aprile dopo sei mesi di custodia cautelare, il cuore ancora sotto controllo dopo l’intervento chirurgico di un anno fa, Grossi continua a scegliere il silenzio. «La vicenda giudiziaria e le condizioni di salute fanno sì che lavori molto meno di prima», dicono dal suo entourage. Ma per Edoardo Bai, esperto di bonifiche per Legambiente, non è così: «Le aziende collegate a lui hanno continuato a fare affari nel campo delle bonifiche, come se nulla fosse accaduto». Contando come sempre, fa capire Bai, sulla benevolenza del governatore Formigoni. L’esponente ambientalista si riferisce alla vicenda della Sisas di Pioltello, una delle tante bonifiche affidate a Grossi (se ne potrebbero citare tante altre, dall’ex zuccherificio di Casei Gerola, in provincia di Pavia, al sito inquinato dalle melme acide di Cerro al Lambro, nel sud Milano). La Sisas è una Santa Giulia al cubo: la bonifica dei terreni, contaminati in modo ancora più pesante, non è mai stata fatta, e i fondi stanziati sono stati sperperati dai vecchi proprietari, i Falciola, il cui patròn, Luciano, è stato condannato giovedì a cinque anni e sei mesi di carcere. La corte di Giustizia europea per questo commina all’Italia una multa da dieci milioni di euro e la Regione, per evitarla, affida a Grossi l’incarico di bonificare l’area. Travolto dalle inchieste, l’imprenditore deve ritirarsi dall’affare senza aver completato il recupero. Nonostante questo la Regione, fa notare Legambiente, sta per preparare una delibera con la quale "liquida" a Grossi 20 milioni di euro per i lavori già effettuati.
Per diversi rivoli i destini di Grossi, inoltre, s’incrociano con quelli dei fedelissimi di Formigoni. Rosanna Gariboldi, moglie di Giancarlo Abelli - l’uomo più vicino al governatore del Pdl - ha patteggiato due anni, con pena sospesa, per aver riciclato proprio una parte dei fondi dell’evasione realizzata grazie alla mancata bonifica di Santa Giulia. Ieri, con il sequestro di Montecity, Grossi trascina con sé nei suoi guai giudiziari anche l’ingegner Claudio Tedesi, uno dei professionisti a cui più ha fatto ricorso. Tedesi, che ha gestito interventi importanti in tutt’Italia, dalla Fibronit di Bari a Bagnoli, direttore generale delle Asm di Vigevano e di Pavia, è considerato vicino ad Abelli. «Sono stato democristiano ma di Abelli sono amico solo sul piano personale - dice lui - ora non ho tessere di alcun tipo. L’area di Santa Giulia? Risultava già bonificata già quando sono arrivato io. Non rientrava nei miei compiti».
la Repubblica ed. Milano
La paura di mille famiglie "È a rischio anche l’asilo?"
di Massimo Pisa
Guardano Montecity dal fondo del Parco Trapezio, giardinetti dalla sghemba forma dove scivoli, altalene e giostre sono ancora in gabbia e fanno compagnia a tubi a vista e mucchietti di terriccio non ancora lavorato. «Lo aprono a settembre, l’asilo? Resta chiuso? Hanno messo i sigilli anche lì, che non lo vediamo?». Gli interrogativi sono di due nonne che passeggiano a metà pomeriggio all’ombra dei palazzoni di via Cassinari, proprio sotto il terrapieno che copre i box interrati e nasconde parzialmente alla vista l’asilo. Che qui, a Santa Giulia, dove il tasso di carrozzine e bimbi che sfrecciano con gelato in mano è notevole, aspettavano tutti con trepidazione, e ora chissà.
La notizia dei sigilli della Finanza ai cantieri sorprende e manda di traverso la pausa postprandiale a parecchi residenti, che la radio non l’avevano ascoltata e nemmeno la tv, su Internet non c’erano andati e ora sgranano gli occhi. Come Bernadette, ungherese, 36 anni, pancione con sorellina in arrivo («Sono al settimo mese») per il piccolo Davide che va in giro con la bici a rotelle. «E certo che sono preoccupata - spiega - anche perché a questo asilo dovevo iscrivere mio figlio. Stiamo qui da un anno e del terreno inquinato non sapevo nulla: sul contratto di acquisto della casa avevano specificato la bonifica. Come si vive qui? Bene, nonostante la polvere dei lavori, i recinti ai giardini e qualche box scassinato. Tranquilli, almeno fino ad ora». Jacopo e Ylenia, 41 e 30, apprendono mentre scaricano la spesa dall’auto: «Siamo qui da gennaio, in affitto. I servizi ci sono e si sta benissimo, con qualche piccolo furto come in tutti i condomini nuovi. Stavamo decidendo se comprare o meno. Beh, ora vedremo... «. La sicurezza dei condomini, anche in un giorno come questo, è l’unico tema che vedi fisicamente trattato in pubblico: sui portoni si invita a denunciare i furti («Coloro i quali hanno subito il danno sono cortesemente invitati a sporgere regolare denuncia alla P. s. «), si annuncia l’ingaggio di una società di vigilanza privata ma non c’è traccia di cromo esavalente o di falda avvelenata, non ora.
Come se il problema fosse alieno, distante da questi recinti e dai terrazzoni trompe l’oeil. Vanessa Yoshimura, nippobrasiliana di 29 anni, scarrozza i due pupi di 4 anni e 2 mesi ed è un manifesto di ottimismo. «Ho saputo da una mail di mio marito: "Merda, mettono i sigilli". Ma non sono spaventata, le verifiche sul terreno della scuola le faranno. Non possiamo disperarci, no?». Bellangela Cappelluti («Nome di mia nonna, era di Molfetta, nome unico») vanta le virtù dei suoi due balconi che rinfrescano i suoi 62 anni e quelli di suo marito. «Senta, qui si sta bene. È tranquillo, non c’è traffico, non c’è l’inferno del Corvetto dove abitavo prima, solo il fischio dei treni. Certo, queste notizie non fanno piacere. Però dicono che l’acqua dei nostri rubinetti non c’entri. E io bevo solo minerale. Frizzante». Franco Fumagalli, chirurgo 53enne, a passeggio con figlia e cagnetta, racconta il suo anno e mezzo a Santa Giulia quasi rivendicandolo: «Ogni giorno è andato un po’ meglio, continuano ad aprire negozi, ci sono i mezzi, il campetto da basket qui dietro. Non hanno fatto le bonifiche? È la vecchia storia: questo è un problema di tutta la Lombardia, non solo del quartiere».
A tremare, soprattutto, sono i polsi dei nonni. Di Manrico Hintereger, 67 anni asciuttissimi, che abita in via San Venerio, «sono le case delle Acli, qui dietro, ma i miei nipoti vengono a giocare in queste strade, respirano quest’aria. E chissà cosa trasportavano, quei camion che andavano e venivano dalla Germania, quando il cantiere era aperto». Di Angelo Misani, capogruppo pd in consiglio di zona, figlio e nipoti in appartamento con vista boulevard: «Preoccupatissimi, sì. Non sappiamo nemmeno cosa faranno di questi cantieri. E dire che era venuto l’assessore Masseroli, pochi mesi fa, a rassicurare tutti».
Gli arrabbiati (per i veleni) e gli scettici (sui veleni). Chi teme catastrofi e chi si fa bastare le rassicurazioni dell’Arpa, anche sul web, sul forum (santagiulia. forumup. it) che raccoglie le voci del quartiere. Ci sono due anime, e pensieri misti, questa notte a Montecity.
Corriere della Sera
Quartiere sequestrato per inquinamento
di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella
«Veleni nella falda acquifera, ci sono rischi per la salute». Sequestrato dai giudici di Milano il quartiere Santa Giulia. L’accusa indica una mancata bonifica dell’area Montecity-Rogoredo. Nell’acqua ci sarebbero sostanze e rifiuti tossici. I terreni furono comprati nel 1998 dal gruppo Risanamento di Zunino e riconvertiti in un progetto urbanistico da 1,6 miliardi firmato dall’architetto Norman Foster.
«Se si fosse fatta una bonifica dell’area Montecity-Rogoredo si sarebbero dovuti spendere 400-500 milioni di euro», e invece «per rendere gli investimenti convenienti — testimonia ai pm l’imprenditore delle bonifiche ambientali Giuseppe Grossi — è necessario ci sia un ritorno economico e finanziario». Così, a dispetto dei lavori commissionati dall’immobiliarista Luigi Zunino a società di Grossi e da queste subappaltati alla Edil Bianchi srl e alla Lucchini Artoni srl, nessuna efficace bonifica è stata fatta in questo milione e 200mila metri quadrati a sud-est di Milano dismessi nel 1985 dalla chimica Montedison e dalla siderurgia Redaelli, comprati nel 1998 dal gruppo Risanamento di Zunino, e dal 2003 riconvertiti in un progetto urbanistico da 1,6 miliardi con la firma dell’architetto Norman Foster. E nessuno tra Comune-Provincia-Regione, in un «procedimento amministrativo» costellato da «numerose anomalie», ha controllato l’attuazione della bonifica da ddt e pesticidi.
Risultato: nelle acque della «falda sospesa» (tra i 4 e gli 8 metri di profondità) e nella «prima falda» (da 10 a 35 metri) il giudice Fabrizio D’Arcangelo rileva, sulla scorta dei dati dell’Agenzia regionale per l’ambiente (Arpa) e del Nucleo ambiente dei vigili urbani, «concentrazioni notevolmente superiori ai limiti di legge» (oltre 20 volte nella prima falda, 100 volte nella falda sospesa) di «sostanze tutte pericolose per l’uomo» in quanto «cancerogene (tricloroetilene, tetracloroetilene, tricloroetano, manganese, cadmio, cromo esavalente), pericolose per l’ambiente (cloruro di vinile, arsenico), tali da mettere a rischio la fertilità e provocare danno ai bambini non ancora nati (cadmio e cromo esavalente)».
Ieri Arpa eMetropolitana milanese (che gestisce l’acquedotto) in comunicati ufficiali hanno assicurato che «l’inquinamento al momento non costituisce un elemento di rischio sanitario per i residenti» e «l'acqua nelle loro abitazioni è indenne da ogni contaminazione». Ma il giudice D’Arcangelo, per le ipotesi di reato di «avvelenamento delle acque» e «gestione di rifiuti non autorizzata», ieri ha ordinato alla Gdf di Milano il sequestro preventivo di tutta l’area non edificata nel quartiere proprio sulla base delle relazioni sollecitate all’Arpa dai pm Pedio e Ruta.
«La prima falda oggetto di indagine — ha risposto l’Arpa ai pm il 9 giugno — viene captata e utilizzata a scopo idropotabile dall’acquedotto del Comune anche in aree limitrofe a quelle in questione, a riprova del suo ampio utilizzo anche attuale». In particolare «a ovest è presente la centrale Martini dell’acquedotto, i cui pozzi presentano in alcuni casi filtri che partono da 30 metri di profondità senza strati argillosi soprastanti, che quindi captano inequivocabilmente la prima falda oggetto d’indagine»; mentre «idrogeolo-gicamente amonte del sito ci sono le opere di captazione facenti capo alle centrali Ovidio e Linate dell’acquedotto, che riforniscono di acqua potabile il nuovo quartiere di Santa Giulia».
Il sequestro ha tre tipi di conseguenze: giudiziarie, economiche e politiche. Le prime risiedono nella gravità dell’ipotesi (punita in Corte d’Assise con 15 an ni) notificata ieri agli indagati Zunino, Grossi, al direttore dei lavori Claudio Tedesi (oggi a capo dell'Asm di Pavia), al responsabile di cantiere Ezio Streri, agli amministratori di "Santa Giulia spa" Silvio Bernabè e Davide Albertini Petrone, al rappresentante della "Lucchini Artoni" (Vincenzo Bianchi) e ai capo cantiere e rappresentante della "Edil Bianchi" (Alessandro Viol e Bruno Marini).Pesante anche il contraccolpo economico, non tanto perché Risanamento ha perso in Borsa l’8%, quanto perché le banche esposte con Risanamento per circa il 60% dei suoi 3,2 miliardi di debiti (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Bpm, Banco Popolare), e che nel novembre 2009 avevano salvato il gruppo di Zunino dal fallimento chiesto in luglio dalla Procura al tribunale fallimentare, ora devono svalutare un’area stimata un anno fa (forse già generosamente) un miliardo, e preventivare oneri aggiuntivi.
Qui si incrocia il riverbero politico: il giudice rimarca non solo che «sono venuti a mancare i principali strumenti di controllo» da parte degli enti pubblici (come sui «500 mila metri cubi di scavi in più rispetto alla convenzione con il Comune»), ma anche che «non sono state versate le fidejussioni previste dalla normativa a tutela degli enti pubblici», cioè le garanzie finanziarie che avrebbero dovuto essere prestate alla Regione in misura non inferiore al 20% del costo stimato della bonifica. E così al danno, e al pericolo per la salute, si aggiunge ora la beffa: «Alla luce della riscontrata contaminazione della falda — constata infatti il giudice —, gli enti pubblici non hanno ad oggi risorse finanziarie per intervenire in sostituzione nel caso di mancato intervento del soggetto interessato».