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Filo rosso. Disposti a tutto

Concita De Gregorio

Gli ultimi giorni di governo potrebbero passare da Pompei. Pompei che non ha ancora smesso di crollare, si apriva così ieri sera la trasmissione di Fazio e Saviano: quanti tipi fossero e che nomi avessero le prostitute a Pompei. Prostitute e Pompei: così l'Italia sui giornali di tutto il mondo. Il Paese è un bordello per potenti, è Ruby e le altre. E il paese che lascia crollare Pompei. Sulla carta, alla Camera, ci sono i numeri per sfiduciare il ministro della Cultura Sandro Bondi e far esplodere in Parlamento la crisi che da settimane si trascina. La mozione sarà presentata dal Pd, potrebbe essere condivisa da parte del centrodestra, per primi i finiani. Fabio Granata ha detto: «L'Italia e la sua cultura meritano ben altro di un ministro che è sostanzialmente ed esclusivamente solo ministro della Propaganda». Ora che il cerino passato per mesi di mano in mano si è spento, ora che la Lega - da azionista di riferimento qual è - detta le sue condizioni, potrebbe essere Bondi l'imprevisto. Un voto sul disastro in cui precipita il patrimonio culturale nazionale Resto su Pompei. Resto perché questo giornale non ha mai smesso, dai giorni delle parate di Bertolaso (dai giorni in cui si assumevano persone e si annunciava alla stampa la lotta al randagismo, si costruivano passerelle per il passaggio dei potenti e guarda caso venivano giù i Casti Amanti) neppure un momento ha smesso di raccontare, con Luca Del Fra, cosa succede a Pompei. Meglio: cosa non succede. Leggete la lettera che gli archeologi, gli architetti e gli storici dell'arte hanno scritto a Giorgio Napolitano. Caro presidente, «in nome di un managerialismo di facciata, condito da commissari che tanti episodi giudiziari stanno provocando, sono state calpestate e si vogliono calpestare competenze di altissimo livello», intervenga lei, «la misura è colma considerata l’inadeguatezza nella gestione del più grande patrimonio del mondo». Inadeguatezza. Leggete cosa scrive a Bondi Luisa Bossa, già sindaco di Ercolano ora deputata Pd: «Lei ha detto: 'Se avessi la certezza di avere responsabilità in quanto accaduto mi dimetterei". Ci credo. Ma le chiedo: "Se il responsabile non è lei, chi è?". Non veniteci a dire che la casa è crollata per la pioggia. lo stessa - lei se lo ricorderà - le ho chiesto, per due volte, nell'Aula di Montecitorio, a gennaio e giugno di quest'anno, come stessero davvero le cose a Pompei. Segnalai l'uso di mezzi pesanti negli scavi, la mancanza di misure di sicurezza per la stabilità dei cantieri, il deturpamento del Teatro grande durante il restauro, la preoccupazione di studiosi, associazioni e sindacati. Lei mi rispose con garbo e fermezza. Disse che il nostro era disfattismo e che a Pompei si stava facendo un "lavoro straordinario". Ecco il risultato». Disfattismo. Le pareti delle strade italiane sono invase di manifesti. Dicono, sotto la foto di ragazzi e ragazze «Giovani disposti a tutto», è indicato un sito internet. Sono veri o falsi? Giuseppe Provenzano e Bruno Ugolini svelano il mistero: sono falsi. Vi diciamo in anteprima in quale ambito vanno cercati i loro autori: i "disposti a tutto" sono precari, atipici, invisibili. Ma attenzione. Perché i manifesti stanno cambiando. I più recenti hanno un'aggiunta. L'ultima versione è "giovani NON disposti a tutto". Un "non" aggiunto col pennarello, certe rivoluzioni cominciano anche così.

«Ministro, vada via». Sindacati, opposizioni e ambientalisti. Tutti contro Bondi

Luca del Fra

Un ministro sotto assedio: le associazioni, i sindacati, gli organismi territoriali, le forze politiche insorgono dopo le dichiarazioni rilasciate l'altro ieri da Sandro Bondi di fronte allo sfacelo della Schola Armaturarum, mentre la procura di Torre Annunziata ha aperto una inchiesta. Piovono le richieste di dimissioni, mentre il Pd sta preparando una relazione sulla gestione del sito di Pompei, funzionale a chiedere la sfiducia del ministro, dopo che mercoledì avrà riferito al Parlamento. Tiene il profilo basso il procuratore capo Diego Marmo: «Il fascicolo aperto oggi dalla Procura di Torre Annunziata per il crollo della Domus dei gladiatori — ha spiegato — è un atto dovuto, che servirà ad accertare se ci siano state responsabilità». Ma non è certo la prima inchiesta sulla situazione che si è creata a Pompei, già un primo fascicolo, aperto mesi fa per la denuncia di Gianfranco Cerasoli, responsabile Uil per i Beni Culturali, riguardava la gestione del commissario Marcello Fiori, che Bondi si ostina a difendere. «In nome di un managerialismo di facciata, condito da commissari che tanti episodi giudiziari stanno provocando, sono state calpestate e si vogliono calpestare competenze di altissimo livello»: così scrivono a Giorgio Napolitano gli archeologi, gli architetti e gli storici dell'arte di Assotecnici. Chiedono un intervento poiché conclude la loro lettera: «La misura è colma, considerata l'inadeguatezza nella gestione del più grande patrimonio del mondo». È irrituale la richiesta al Presidente della repubblica, ma i toni sono quelli. Il deputato del Pd Luisa Bossa, già sindaco di Ercolano, scrive invece allo stesso Bondi: «Lei ha detto: "Se avessi la certezza di avere responsabilità in quanto accaduto mi dimetterei". Ci credo. Ma le chiedo: "se il responsabile non è lei, chi è?". Non veniteci a dire che la casa è crollata per la pioggia. Io stessa — e lei se lo ricorderà — le ho chiesto, per due volte, nell'Aula di Montecitorio, a gennaio e giugno di quest'anno, come stessero davvero le cose a Pompei. Segnalai l'uso di mezzi pesanti negli scavi, la mancanza di misure di sicurezza perla stabilità dei cantieri, il deturpamento del Teatro grande durante il restauro, la preoccupazione di studiosi, associazioni e sindacati. Lei mi rispose con garbo e fermezza. Disse che il nostro era disfattismo e che a Pompei si stava facendo un "lavoro straordinario". Ecco il risultato». È proprio la mancata assunzione di responsabilità che ha fatto scendere sul piede di guerra tutte le associazioni che riuniscono gli archeologi italiani: «Mi pare che Bondi non abbia compreso quello che è successo a Pompei— dice perplessa Giorgia Leoni, presidente della Confederazione italiana archeologi —: né da un punto di vista fisico, perché la Schola e i suoi affreschi sono praticamente irrecuperabili, visto che erano già stati restaurati pesantemente. Ma il ministro non ha neanche capito che stanno crollando uno per uno proprio quei siti archeologici da lui commissariati: prima le arcate di Traiano alla Domus Aurea, poi il Colosseo e ora Pompei. I commissariamenti portano la sua firma, e le responsabilità di queste gestioni, che hanno mortificato le competenze scientifiche, ricadono su di lui: ne tragga le dovute conseguenze». Anche l'Associazione nazionale archeologi non ha dubbi: «L'attuale compagine governativa si vanta di saper amministrare — insiste il vicepresidente Salvo Barrano —, ma oltre ad aver speso male non ha saputo gestire bene il personale: dei 30 archeologi assunti nel 2009 nessuno è stato destinato a Roma e Pompei, proprio i luoghi dove sono avvenuti i crolli. Ora aspettiamo di sentire cosa dirà Bondi in Parlamento». I democratici stanno lavorando a un documento articolato in quattro punti: «Innanzi tutto c'è l'illegittimità del commissariamento, sancita dalla Corte dei conti — scandisce Matteo Orfini responsabile cultura del Pd —, in secondo luogo la modalità discutibile della spesa, con appalti in deroga mentre nei commissariamenti di Roma si è preferito seguire la prassi degli appalti regolari; si aggiunga, al terzo punto, che gli appalti in deroga sono serviti per iniziative che nulla avevano di urgente ed erano solo fuffa della cosiddetta valorizzazione che ha fatto passare in secondo piano la sicurezza e la tutela; infine siamo profondamente contrari alla trasformazione della sovrintendenza archeologica in fondazione, siti dell'importanza di Pompei dovrebbero restare sotto la vigilanza dello Stato». Da Italia Nostra arriva l'iniziativa di riunire tutte le associazioni per la tutela del patrimonio in un documento che chieda le dimissioni di Bondi: «Le responsabilità del ministro sono oggettive - spiega Maria Pia Guermandi - Pompei è stato il laboratorio di una politica di immagine che nascondesse i tagli alla cultura e ha provocato solo disastri. Non solo la procura, ma anche noi stiamo analizzando i bilanci del commissariamento: mentre si sperperava denaro a nessuno è venuto in mente di fare una semplice cabaletta di drenaggio che avrebbe evitato il disastro alla Schola e poco tempo fa la casa di Polibio, appena restaurata, ha avuto il cedimento di una trave. I soldi sono stati spesi a maggior gloria dell'allora commissario Fiori, la cui gestione continua con la presenza a Pompei di Nicola Mercurio, oggi esponente del PdL e in passato autista di Nicola Cosentino, e da lui assunto. Nessuno si vuole rendere conto che Pompei è una bomba che sta per esplodere per l'incuria, e ora più che mai ha bisogno della cura di archeologi e di tecnici, non di manager.

«È una Caporetto del managerialismo di eventi mediatici»

Luca del Fra - L'Unità

Il piano c'era eccome! Ed è stato anche operativo fino all'inizio dei commissariamenti» — spiega il professor Pier Giovanni Guzzo, e il professor Salvatore Settis gli fa eco: «Bisogna ricacciare in gola tutte queste scempiaggini sui manager a chi le sta dicendo». Arrivano secche come legnate le smentite alle dichiarazioni fatte dal ministro Sandro Bondi il giorno dopo l'ennesimo disastro avvenuto a Pompei. Il crollo della Schola Armaturarum sta facendo il giro del mondo e finalmente i riflettori si accendono sul sito archeologico che tutti ci invidiano e su cui è stato perpetrato uno scempio con piglio davvero manageriale. Il ministro ieri ha invocato un piano per la tutela di Pompei: non si era accorto che era stato già studiato e applicato, ma certo non dai suoi manager e commissari. A parlare è il professore Guzzo, ultimo vero sovrintendente di Pompei fino a inizio 2009: «Si figuri, abbiamo cominciato a lavorarci dal 1997 e per non gravare sul bilancio dello Stato il piano venne finanziato dal World Monument Found, a dimostrazione che anche archeologi e studiosi sanno amministrare e trovare risorse. Nel 1999 il piano è diventato operativo: dei 44 ettari di scavi di Pompei allora solo il 14% era in sicurezza e in pochi anni abbiamo più che raddoppiato arrivando al 31%». Di Pompei parla poco Guzzo, per non alimentare polemiche, ma tiene a precisare: «Tutela e manutenzione non finiscono mai, sono attività da aggiornare continuamente: purtroppo non sono né appariscenti né mediatiche». Insomma interessano poco i supermanager da copertina o da operetta del ministro.

E lui, Bondi, continua indefesso a difendere l'operato di Marcello Fiori, commissario subentrato a Guzzo e rimasto in carica fino a giugno scorso: «La situazione in alcune parti di Pompei è peggiorata durante il commissariamento — spiega senza tentennamenti Gianfranco Cerasoli, responsabile Uil per i Beni Culturali—; le domus su via dell'Abbondanza, guardando a sinistra verso porta Nola, sono a rischio a causa di un terrapieno che preme per le infiltrazioni d'acqua». E non si tratta nemmeno di costruzioni secondarie: «Parliamo delle Case dei casti amanti, dove di recente sono smottati lapilli, di Polibio, di Trebio Valente e perfino delle scale della Casina delle aquile malgrado siano state oggetto dell'intervento del commissario. Ma i tecnici si rifiutano di parlare». A Pompei si è commissariato in base a una falsa emergenza, come ha decretato la Corte dei conti, e poi si è poco badato alla messa in sicurezza: «Della gestione commissariale— spiega Biagio De Felice della Cgil che a Pompei ci lavora — mi ha colpito la mancanza di cultura e l'incomprensione dell'unicità del luogo. Hanno cercato di trasformare gli scavi in una "location" per eventi mediatici anche con spese folli, come i 7 milioni di euro per i discutibili lavori sul Teatro grande. Prendiamo il recupero della Casa dei casti amanti, con ologrammi e multischermi che potevano essere piazzati in qualsiasi altro luogo. Pompei e la sua straordinarietà sono rimaste sullo sfondo. Forse oggi bisogna ritrovare la vera Pompei». ologrammi, spettacolini, immagine.

L'inadeguatezza della gestione commissariale in cifre: 1'80% delle risorse è stato destinato alla cosiddetta valorizzazione invece che alla tutela. È il caso delle Case di Polibio e dei casti amanti dove proprio durante i lavori condotti inopinatamente con mezzi pesanti è avvenuto il primo crollo: entrambe presentate in pompa magna, ma per visitarle occorre una prenotazione e un biglietto supplementare senza riduzioni per anziani e bambini, alla faccia della diffusione della cultura. Malgrado Pompei avesse già una video sorveglianza efficace, ne è stata progettata un'altra che tra le insule pompeiane prevede tralicci così invasivi che i responsabili dei lavori si sono dimessi per la vergogna. Pompei segna la vera Caporetto del managerialismo bondesco, ma Mario Resca, manager di McDonald Italia che l'ineffabile ministro ha trapiantato alla nuova direzione per la valorizzazione del patrimonio, già poche ore dopo l'ultimo crollo invocava un manager da affiancare ai sovrintendenti. Idea ripetuta da Bondi anche ieri: «È la peggiore delle sciocchezze —sbotta il professore Settis—, la vera sfida è trovare professionalità specifiche che abbiano capacità amministrative. Sono stato rettore della Normale di Pisa per 11 anni e nessuno si è mai sognato di volermi affiancare un supermanager”. La realtà è che a Pompei manager e commissari c'erano, a mancare sono stati i sovrintendenti: «Sono state calpestate e si vogliono calpestare competenze in nome di un managerialismo buono per qualsiasi cosa, senza odore e colore, senza qualità».

Una gara per Pompei, ma di bighe

Paolo Berdini – ilfattoquotidiano.it

Appena sei giorni prima del crollo della domus dei Gladiatori sulla via dell’Abbondanza, la cronaca locale del Mattino di Napoli dedicava un’intera pagina al “futuro” del sito archeologico più famoso del mondo. Affermava il sindaco di Pompei, Claudio D’Alessio che “dopo la proposta, mai andata in porto , di allestire set cinematografici nell’area archeologica, l’antica città romana potrebbe diventare punto di riferimento per gli appassionati di cavalli. Potrebbe essere una delle tante iniziative per riportare Pompei al centro dell’attenzione nazionale e internazionale. Ho già avviato uno studio per valutare quali siano le reali condizioni per realizzare un concorso ippico.”. L’articolo diceva poi che si tratterebbe “una sorta di corsa delle bighe dell’antica Roma, riproposta in chiave moderna”.

Straordinario davvero. Il sito archeologico più visitato al mondo e che incassa qualcosa come 20 milioni di euro all’anno, ha bisogno delle bighe per ritornare al centro dell’attenzione. Non ha bisogno di sistematica opera di manutenzione, di completamento dello scavo nelle aree ancora non indagate, di servizi moderni e sempre sofisticati utilizzando le moderne tecnologie, di offerte culturali per aiutare a comprendere la storia urbana dell’antica città. Ha invece bisogno secondo il primo cittadino della corsa delle bighe. Poi arrivano i crolli e veniamo a sapere che, guarda caso, non ci sono i soldi per fare la normale manutenzione.

Il problema è sempre il solito. La pubblica amministrazione viene sistematicamente demolita dai fondamentalisti liberisti che ci governano e da un’opposizione imbelle. Stanno distruggendo le scuole e l’università pubblica, i tagli alla sanità sono ininterrotti; il patrimonio pubblico viene svenduto a pochi soldi. Nel silenzio della politica del palazzo si stanno trasferendo ricchezze dal pubblico al privato: prospera infatti l’istruzione pubblica, le cliniche private ricevono sempre maggiori finanziamenti e il patrimonio immobiliare dello stato andrà a pochi immobiliaristi.

Il gioco è pericolosissimo, perché rischia di minare lo stesso ruolo dello Stato nel nostro paese. Ma è un gioco che fa comodo a molti. A conferma della crisi che attraversa l’Italia vale la pena di riportare dalla stessa pagina del mattino il giudizio entusiasta espresso dalla presidente degli albergatori Rosita Matrone che afferma: “Nel 2008 presentammo come associazione un progetto simile all’ex soprintendente Pietro Guzzo. Proponemmo di realizzare una passeggiata a cavallo all’interno degli scavi. Guzzo non ci ha mai risposto, solo perché, all’epoca, la soprintendenza si è sempre dimostrata chiusa verso le proposta e che arrivano dall’esterno”. Il problema dello sfascio dell’Italia è dunque riconducibile alla rigidità dello stimatissimo ex soprintendente Guzzo.

Una comoda scorciatoia che nasconde le mire sulla privatizzazione di alcuni servizi di Pompei e di parti dell’area archeologica che da tempo sta prendendo forza. Di fronte all’incapacità delle amministrazioni pubbliche a svolgere funzioni “normali”, la soluzione del potere politico ed economico è soltanto quella di demolire ancora di più uno Stato in declino. C’è invece da cimentarsi con il tema difficilissimo -a causa dei guasti che tocchiamo quotidianamente con mano- della ricostruzione delle amministrazioni pubbliche. Tagliando sprechi e inefficienze, ma mantenendo gelosamente le prerogativa di delineare un futuro di cultura e bellezza e non di speculazioni e corse delle bighe.

La gestione emergenziale promette ovunque servizi che non ci sono

Conchita Sannino – la Repubblica

E di rischi trattenuti già a lungo sotto lo stesso cielo archeologico, su cui si posa adesso la carezza autoassolutoria di un ministro. «Ma perché le pietre di un cedimento archeologico sono coperte? Forse per nascondere i pezzetti di affreschi, per raccontare balle? Mah, sarebbe come se a L´Aquila avessero coperto le macerie», sbotta un esigente Pietro Armeni, veneto, al seguito di famiglia ed amici, uno dei 3770 visitatori di ieri, una media ben inferiore agli altri mesi autunnali e agli altri periodi storici. Ma certo: per il fato ostile di un giorno, colpa dell´inverno malinconico che sembra d´un tratto non rispondere più alle invitanti rappresentazioni di Pompei risorta, come dovevano attestare i 79 milioni di euro spesi negli ultimi due anni e mezzo.

Denaro mirato in gran parte su spettacolari concerti, iniziative di promozioni, efficaci promozioni, assai meno per il monitoraggio dei rischi e la messa in sicurezza del sito. È oltre queste transenne che, in una domenica livida, i turisti assaporano il gusto di affacciarsi su macerie millenarie e insieme freschissime. Chissà che lì intorno, anzi lì sotto, nella vertigine tra i crolli di ieri e di oggi, non si aggiri furioso il fantasma di Crescenzio, gladiatore cui inneggiavano le scritte sui muri "parlanti" della città antica, lo stesso atleta che l´eruzione avrebbe sorpreso con la nota dama dal collier di smeraldi, ingioiellata di troppi monili per essere lì, alla settima ora, più o meno l´una del pomeriggio del 24 agosto dopo Cristo, nel quadriportico di Porta di Stabia. Lo racconta anche ieri Mattia Buondonno, la guida dei record, il "Philipe Leroy" degli Scavi che suscita le emozioni dei visitatori illustri, da Bill Clinton al lupanare a Mel Gibson che gli parla in aramaico, da Meryl Streep al matematico Nash che gli faceva, in ogni casa, sempre la stessa domanda.

Ma è abbacchiato anche lui, stavolta. Dallo stesso ingresso da cui, ogni giorno, "Philipe Leroy" dipana la sua favola per cultori e turisti, comincia invece una storia triste, forse preoccupante. Partendo dal Teatro Grande furiosamente rifatto in pochi giorni e tante notti di lavoro dallo staff della Protezione civile. La visita al cuore malato di Pompei.

Proprio a ridosso del teatro, ecco lo spreco e l´abbandono, insieme. Lo spreco di quei grandi prefabbricati trasformati in eterni camerini per attori, lasciati lì, impatto non sostenibile al costo di alcuni milioni di euro, che adesso insistono sull´area del Quadriportico. L´abbandono è quello, a pochissimi metri, dei graffiti antichi, uno di un gladiatore, l´altro raffigura una nave, che stanno sui muri come duemila anni fa: zero copertura sulla parete, zero protezione. Ancora più avanti, prima di svoltare sulla via di Stabia, ecco le assi di legno che chiudono alcuni accessi, sghembe, pericolose, chiodi in evidenza. Sono anomalie su cui indaga, da tre mesi, la Procura della Repubblica di Torre Annunziata. Che stamane, tra l´altro, aprirà un fascicolo «dovuto» sul crollo della Schola Armaturarum. «Il disastro riporta con i piedi per terra lo Stato, ammesso che lo voglia vedere - spiega Biagio De Felice, architetto, voce della Cgil nel grande parco archeologico -. Ci avevano imposto finora la Pompei delle emergenze, poi quella delle apparenze, con decine di milioni spesi nella sola comunicazione. Qui non si tratta di individuare capri espiatori, perché la gestione della Protezione civile, tra sprechi e opinabilissime scelte, ha migliorato alcuni servizi. Qui si tratta di capire quali sono le priorità e a quale prezzo "vendere", o fingere di vendere, il prodotto Pompei. E infine: a beneficio di chi?».

Il denaro speso in questi anni, a sentire De Felice, «ha svuotato la cassa della Soprintendenza, non un soldo dal governo». Prima le gare ad evidenza pubblica dell´allora commissario Renato Profili, l´anziano prefetto poi "destituito" senza motivazioni ufficiali e morto un anno fa; poi la gestione del supercommissario Marcello Fiori e del suo gruppo, uno staff non privo di competenze irrituali, come quella del geometra Nicola Mercurio, già autista del ras del Pdl campano, Nicola Cosentino, e poi capogruppo di quel partito nel piccolo centro di Sant´Antonio Abate, dove almeno grazie a Mercurio arrivavano un po´ di fondi per i resti romani dell´antica Villa in paese. Pazienza se gli archeologici avevano immaginato addirittura di seppellirlo di nuovo, quel sito, pur di non disperdere i fondi in troppi rivoli.

Invece. «Pompei viva», recita continuamente la scritta scolpita nel bronzo dei cancelli nuovi, levigati e bruniti, sugli ingressi di casa del Menandro o dei Casti Amanti, uno slogan che resta il timbro della gestione commissariale, dei poteri in deroga e di una managerialità controversa sulla gestione di materia delicata come la città disabitata, eppure viva, dei pompeiani. Ma basta inoltrarsi lungo gli altissimi lastroni, avanzare sul cocciopesto vero delle antiche dimore o su quello finto prodotto dallo staff dell´ultima gestione romana, e ti accorgi che le Pompei sono due, almeno. Una è la versione patinata, un po´ hollywood, un po´ Adro per via di quel simbolo «Pompei Viva» ripetuto ossessivamente sugli spazi riaperti, stesso titolo della Fondazione (omonima) che non c´è ancora, e di un pacchetto di distinte e affascinanti fruizioni che non ci sono (ancora). L´altra, è la Pompei che si ripiega, a rischio di sbriciolamento.

Alla Regio VI, tredicesima insula, altre quattro assi in legno fradicio ostruiscono il passaggio a una casa. Otto metri oltre, è l´insula XII a denunciare il bisogno di consolidamento: la lunga colonna che sostiene il piano superiore appare gravemente lesionata, il blocco appare letteralmente spaccato in più parti eppure miracolosamente regge: sta in piedi grazie alla forza di gravità che ne impedisce il collasso orizzontale. Ma se arrivasse una scossa di terremoto, neanche tanto elevata di grado, sicuramente queste pietre rotolerebbero giù. Per fortuna, il vulcano non gioca.

Uno scandalo mondiale

Salvatore Settis

Nelle guerre si contano i morti e si dimenticano le cause. Il crollo della schola armatorum a Pompei è una notizia che sta facendo il giro del mondo, come è successo negli ultimi mesi a Roma coi crolli della Domus Aurea e del Colosseo.

Ma la vera notizia è che molto altro, a Pompei ed Ercolano come a Roma, ancora "regge", a dispetto dell´incuria, dei brutali tagli di bilancio, delle continue riduzioni del personale, della mancanza di turn over. Altri crolli, altre rovine, altri disastri arriveranno, immancabili. Il punto è se vogliamo rassegnarci a tenere il conto dei monumenti condannati alla distruzione, o interrogarci sulle cause.

Quando il governo annunciò, col decreto-legge 112 (luglio 2008), un taglio ai Beni Culturali per oltre un miliardo e 200 milioni di euro nel triennio, fummo in pochi a denunciare l´enormità dello scippo a un bilancio già drammaticamente inferiore alle necessità di un patrimonio enorme come il nostro. Ma quasi nessuno volle capire che a un taglio di tale portata non potevano che seguire disfunzioni e problemi d´ogni sorta; anzi, a ogni nuovo disastro non manca chi cade dalle nuvole e si chiede "come mai?", senza collegare gli effetti con le cause. Come se dovessimo fare le meraviglie per l´insorgere della carestia in una zona di estrema povertà. L´irresponsabile taglio dei finanziamenti è dunque una causa primaria di questi e altri crolli, ma non la sola. Da vent´anni governi di ogni colore hanno fatto poco o nulla per rinnovare i quadri delle Soprintendenze, lasciando invecchiare i funzionari senza sostituirli.

Si è fatto anzi di tutto per svuotare gli organici, spedendo in pensione d´autorità eccellenti archeologi e storici dell´arte allo scadere dei 40 anni di servizio. Emblematica la situazione di Pompei: andato in pensione Piero Guzzo, uno dei migliori soprintendenti italiani, si sono succeduti nel giro di un anno e mezzo ben tre soprintedenti ad interim (uno dei quali al tempo stesso doveva reggere la Soprintendenza archeologica di Roma), creando ovvie discontinuità di gestione.

Come se non bastasse, i soprintendenti di Pompei (e non solo) sono stati ripetutamente esautorati e delegittimati mettendo al loro fianco un commissario straordinario del Ministro: il primo fu un prefetto in pensione (Profili), il secondo un funzionario della Protezione Civile (Fiori). Come mai si possa affidare Pompei a un prefetto in pensione, e non invece ritardare di un solo giorno il pensionamento di un archeologo, è un mistero in attesa di soluzione. Pompei è fra i siti archeologici più visitati al mondo, e ha introiti annui di circa 20 milioni di euro. Nei corridoi del Ministero si ritiene evidentemente che siano troppi, dato che il 30% sono dirottati su altri poli museali; inoltre, il commissario ha incamerato almeno 40 milioni di euro destinandoli in buona parte non all´archeologia, ma a eliminare i cani randagi, a illuminare strade malfamate e ad altre operazioni di facciata, peraltro a quel che pare con scarso successo. È di pochi mesi fa l´apertura di un´inchiesta della Corte dei Conti sulle procedure di emergenza adottate a Pompei.

Anziché affrontare questi ed altri problemi, anziché reperire nuove risorse, chi ci governa si accontenta di annunciare periodicamente l´avvento di prodigiose Fondazioni (che non esistono), la pioggia di capitali privati (che non arrivano), gli imminenti miracoli della Protezione Civile, credibili quanto la fine dell´emergenza spazzatura in Campania. Ingabbiati in un effetto-annuncio autoreferenziale, ministri e sottosegretari forse non riescono più nemmeno a vedere il nesso elementare fra il taglio delle risorse e il crescere dei problemi; o forse sono ancor più colpevoli, perché lo vedono e lo nascondono ai cittadini. Non fanno nulla per rimediare alle crescenti, drammatiche carenze di personale. Intanto la delegittimazione delle Soprintendenze ha fatto un altro passo avanti: il Consiglio di Stato ha appena cestinato la tutela del sito archeologico di Saepinum (Molise), con una sentenza che offende il Codice dei Beni Culturali e la Costituzione, autorizzando una centrale eolica contro il divieto della Direzione Regionale ai Beni culturali.

Italia Nostra ha già elevato in merito una vibrata protesta: l´affermata priorità di un permesso comunale sulle esigenze di tutela è gravissima non solo perché condanna a morte un sito archeologico di primaria importanza ma perché costituisce un pericoloso precedente, quasi il prevalere della Costituzione immaginaria vagheggiata da Tremonti, dove la libertà d´impresa sarebbe il principio supremo, sulla Costituzione reale e vigente secondo cui la libertà d´impresa non dev´essere «in contrasto con l´utilità sociale» (art. 41), e la «tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione» (art. 9) è un valore primario e assoluto.

Per affrontare degnamente i problemi della tutela in Italia basterebbe recuperare meno dell´1% della gigantesca evasione fiscale (la più grande del mondo occidentale in termini assoluti e relativi). Di fronte a Pompei che crolla, a Saepinum invasa dalla pale eoliche, che cosa intende fare il governo? Fino a quando noi cittadini dovremo proseguire la conta dei disastri? Fino a quando sapremo tollerare?

POMPEI Crolla la Domus dei Gladiatori Napolitano: una vergogna per l’Italia

Stella Cervasio

Crolla Pompei, si sbriciola uno dei suoi edifici pubblici che più evocano il passato: la Schola Armaturarum (Domus dei Gladiatori), congregazione di giovani sportivi, dove venivano custoditi i trofei dei gladiatori. Alle sei di ieri mattina il palazzetto affacciato con due begli affreschi sulla frequentatissima arteria di via dell´Abbondanza, nella regio III e insula II, si è dissolto in una nuvola di polvere. Uno smottamento del terrapieno che custodisce altri resti di Pompei, alle spalle della casa dopo le piogge che hanno fustigato il sud nei giorni scorsi, la causa del crollo. «Quello che è accaduto dobbiamo, tutti, sentirlo come una vergogna per l´Italia», dice il presidente della Repubblica Napolitano, «e chi deve dare delle spiegazioni non si sottragga al dovere di darle al più presto e senza ipocrisie». Un monito raccolto dal ministro Sandro Bondi che oggi sarà a Pompei dove incontrerà i responsabili degli scavi.

Immediatamente transennata, anzi "oscurata" alla vista di turisti e cronisti, con l´aiuto di teli bianchi, la Schola distrutta, mentre il percorso veniva deviato nei vicoli circostanti. Dove pure si vedono cornicioni sbriciolati e pezzi di muri caduti proprio in zona pedonale: la manutenzione non è il forte di Pompei. Il crollo è avvenuto alle sei del mattino, più tardi avrebbero corso seri rischi tanto i custodi, che proprio lì timbrano il cartellino, quanto le tante scolaresche che visitano gli Scavi. Secondo le dichiarazioni del segretario generale del Mibac Roberto Cecchi, sarebbe andata distrutta la parte ricostruita dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, mentre quella più bassa e affrescata dell´unico ambiente di otto metri per dieci, alto sei metri, che ospitava presumibilmente armadi con armi, si sarebbe conservata.

Ma una piramide di sassi e mattoni è quanto resta a prima vista del palazzetto dove la gioventù pompeiana si riuniva e che i gladiatori usavano come "show-room" per i loro trofei, raffigurati anche negli affreschi all´ingresso, con tuniche rosse, cataste di armi e una pelle di orso polare su un carro. L´edificio era chiuso ai visitatori, ma le pitture erano visibili all´esterno, e non c´era mai stato allarme. Anche se a gennaio e la scorsa settimana altri due crolli si erano avuti nella vicina Casa dei Casti Amanti, dove il commissario della Protezione civile Marcello Fiori, scaduto a giugno scorso, aveva creato un "cantiere-evento" visitato anche dal ministro Bondi per la Settimana dei beni culturali. Alle critiche della Uil, Fiori replica che l´edificio crollato «non era nella lista delle priorità indicate dalla soprintendenza». Ma a Pompei dal ‘96 esiste un "piano-programma" che scheda ciascun edificio indicando le priorità di intervento: in circa dieci anni quelli sull´area scavata sono passati dal 14 al 31 per cento. Nel 2006 la legge 41 effettuò il primo taglio di 30 milioni e nel 2008 saltarono altri 40.

Il budget per la gestione commissariale, affidata a due diversi responsabili, prima all´ex prefetto Profili e poi a Fiori, ammonta a 79 milioni di euro. Profili ne ha impegnati 40, di cui oltre il 90 per cento per restauri e messa in sicurezza con progetti redatti dalla soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo. A Fiori sono andati 39 milioni di euro (18 che la Regione Campania deve ancora dare), ma per i restauri ha impiegato il 25 per cento.

«Il nostro è il museo all´aperto più grande del mondo - dichiara il sindaco di Pompei Claudio D´Alessio, che protesta per il mancato coinvolgimento del Comune - ma viene trascurato: il cedimento dell´edificio è un crollo annunciato, la Schola attendeva da anni un restauro». Critici anche gli ambientalisti: «I milioni di euro spesi per lo smaccato falso del teatro restaurato - dichiara il presidente di Italia nostra di Napoli Guido Donatone - potevano essere utilizzati per monitorare le strutture di Pompei».

Lavori e manutenzione a singhiozzo: la lenta agonia degli scavi-gioiello

Francesco Erbani

Monitoraggio. Manutenzione. Sono le parole che ricorrono cercando le cause del crollo a Pompei. E tentando di capire ciò che è mancato, oltre alle risorse finanziarie e a una guida stabile e sicura. Si può cominciare da qui: gli scavi più famosi al mondo sono retti da una soprintendente, Jeanette Papadopoulos, che però è in carica da settembre e lo sarà sino alla fine del 2010. È la terza in poco più di un anno ed è ad interim, vale a dire che deve badare anche ad altro. Inoltre fino al 31 luglio, accanto al soprintendente, si sono succeduti diversi commissari, nessuno dei quali archeologo, tutti con poteri straordinari e in deroga. L’ultimo, Marcello Fiori, era un dirigente della Protezione civile. Prima di Pompei si era occupato del termovalorizzatore di Acerra e del G8 a L’Aquila.

«Il lavoro fondamentale a Pompei», dice Pietro Giovanni Guzzo, archeologo di fama e soprintendente dal 1994 al 2009, «consiste nella manutenzione. È un compito che non dà lustro, ma è il solo in grado di contenere il deperimento di quell’organismo urbano. Dal 1997 abbiamo messo in sicurezza oltre il 30 per cento dell’intera area». Un lavoro, avrebbero detto i vecchi muratori, di "cuci e scuci": analisi e mappatura dei rischi e quindi interventi che vanno dai più impegnativi restauri alla riparazione di tegole, grondaie e alla canalizzazione delle acque.

Ecco: l’acqua è uno dei più temibili agenti di degrado. Infiltrazioni d’acqua sarebbero anche all’origine del crollo di ieri. Aggiunge Guzzo: «A gennaio, a un centinaio di metri dall’Armeria dei Gladiatori, sullo stesso versante di via dell’Abbondanza, è venuto giù un muro presso la Casa dei Casti Amanti. Anche allora un’infiltrazione d’acqua. Oltre, credo, al movimento di alcuni mezzi meccanici. È una zona a ridosso di un terrapieno che con le piogge si imbeve d’acqua. In questi dieci mesi si è fatto un controllo accurato?».

Secondo Italia Nostra, due anni di commissariamento hanno concentrato le scarse risorse della Soprintendenza «su iniziative mediatiche o di cosiddetta valorizzazione». A Pompei, replica Fiori, si è riusciti ad investire 65 milioni di euro per la messa in sicurezza dell’area. La Soprintendenza di Napoli e Pompei attraversa ora una fase delicata: sta vagliando i progetti avviati dal commissario, contro il quale sono stati presentati esposti alla Procura e sulla cui opera molte riserve ha sollevato la Corte dei Conti. Alcuni di quei progetti li prosegue, altri li boccia. È il caso di un contratto con Wind per un impianto di videosorveglianza che prevede di collocare pali alti 4 metri. La Soprintendenza ha avanzato molte obiezioni e ora arriveranno a Pompei gli ispettori del ministero.

Un monitoraggio degli edifici di Pompei fu avviato dopo il terremoto del 1980. Vennero impiegati militari sotto la guida degli archeologi. Si iniziò una schedatura, cercando di stabilire quanto potesse durare un pavimento in quercia o un tetto in cemento armato. Oppure se erano necessari drenaggi nei terrapieni. Il lavoro è proseguito negli anni, ma sarebbe dovuto durare ancora, aggiornando i dati e intensificando i controlli. Basta poco per tornare indietro e per non accorgersi del rischio che sta correndo una domus.

Da molti viene indicato l’esempio virtuoso di Ercolano, dove da dieci anni va avanti un piano di manutenzione coordinato dalla Soprintendenza e dalla British School di Roma e finanziato dal Packard Humanities Institute, la fondazione americana presieduta da David Packard, magnate della finanza mondiale. Packard, senza aspettarsi utili e neanche ritorni di immagine, finora ha speso 16 milioni. Ma non per restauri, bensì, per esempio, per il recupero del sistema fognario antico, che ora agevola lo smaltimento delle acque. Ancora l’acqua: ma a Ercolano di crolli non ce ne sono.

E nel vuoto di potere avanza la fondazione

Stella Cervasio

Ad accorgersi del crollo è stato un custode che ha fatto il giro di via dell´Abbondanza, come ogni giorno. Quando ha capito che la Casa dei Gladiatori non c´era più, è corso in soprintendenza e ha cercato di contattare un funzionario archeologo di quelli che di sabato di solito sono di turno. Non ha trovato nessuno. A un certo punto è arrivata l´archeologa di Boscoreale Grete Stefani, in attesa dell´arrivo del direttore Antonio Varone, che veniva da Vietri sul Mare. Ma sul posto tra i primi ad arrivare c´era Nicola Mercurio, dello staff di Fiori finché era commissario, ma ancora prima collaboratore del sottosegretario Nicola Cosentino.

Non si trovava invece Jeannette Papadopoulos, soprintendente nominata a ottobre, che vive a Roma. L´archeologa stessa ha annunciato che andrà via a dicembre, anche lei in pensione come chi l´ha preceduta a capo di Pompei, Giuseppe Proietti (che ha ricoperto due mandati), e chi ha a sua volta preceduto lui, e cioè Rosaria Salvatore. Nel frattempo, è diventato un pensionato anche il direttore generale per le antichità del Mibac, Stefano De Caro, pompeiano doc che non ha mai ricoperto una carica nella soprintendenza degli Scavi, se non nei primi anni Ottanta, quando soprintendente era Baldassarre Conticello.

L'area archeologica, che fino al 30 giugno scorso era commissariata da Marcello Fiori, braccio destro di Bertolaso e uomo chiave della Protezione civile, ha oggi soltanto un direttore, Antonio Varone. Ma in realtà la struttura commissariale, si dice in soprintendenza, non sarebbe stata del tutto smontata, anzi a San Paolino presso le cui case demaniali sono stati trasferiti alcuni uffici della soprintendenza, lavorerebbero ancora persone come quel Nicola Mercurio, prontamente accorso sul posto del crollo ieri mattina.

Fiori, da direttore generale del ministero con delega su Pompei, governerebbe di fatto ancora gli Scavi, pur non avendo più la carica di commissario. Un vuoto di potere che avrebbe un motivo, secondo indiscrezioni. Una mancanza di responsabilità creata se non ad arte, poco ci manca. Basta guardarsi intorno a Pompei: ovunque sono state collocate transenne in metallo che recano la scritta "Pompei Viva", e lo stesso per una presentissima segnaletica. Una sorta di anticipazione di quella che dovrebbe essere la fondazione che si occuperà delle sorti di Pompei nel futuro. Esautorando soprintendenti e direttori.

Il crollo dell’Armeria sorprende i turisti "I tesori vanno custoditi"

Stella Cervasio

Peppino è una guida di quelle antiche, cartellino al petto e giacca d’ordinanza. Ieri mattina, per lui, pessimo risveglio. É crollato quello che oggi si direbbe l´"atelier" dei gladiatori, l´Armeria, lo show-room dei combattenti da spettacolo degli antichi romani, il veterano dei tour guidati lo ha appreso dal sito di "Repubblica".

«Quaranta milioni di euro, ed ecco che ne hanno fatto di Pompei». Vuol ripeterlo alla telecamera, per favore? «Io non sono nessuno, ma - accetta Peppino - se volete faccio la voce fuori campo». Mentre registra con aria triste, passa una famiglia di turisti di colore, lei modello Michelle Obama, due bambini, e il marito: «Scusate», dicono, scansando un cagnetto minacciato da un cane più grosso. C´è chi parla di un crollo annunciato («Troppe omissioni, c´era da aspettarselo»), come il sindaco di Pompei Claudio D´Alessio mentre i turisti in coro dicono che «i tesori vanno custoditi. É un disastro, il patrimonio mondiale va difeso».

Casa crollata dopo un anno di Protezione civile e commissariato Fiori. Progetto anti-randagismo - uno dei motivi che fecero proclamare l’emergenza nel 2008 - fallito: i cani abbandonati a Pompei dovevano avere collare, microchip e trovare padrone in poco tempo. Pochissimo di tutto questo si è realizzato. Soldi stanziati e spesi: poco più di 100 mila euro. Una madre e una figlia guardano insistentemente verso la fine della via dell’Abbondanza, dove gli operai si danno da fare intorno al crollo della Schola Armaturarum. «Ma come, ieri c’era, ti ricordi, l’abbiamo vista». «Era quella bella, con gli affreschi all’esterno?». Intanto gli operai trasportano alte transenne a maglie strette. Non paghi, le ricoprono con teli bianchi.

La finalità non può essere solo la sicurezza dei visitatori. L’obiettivo principale è fare schermo ai fotografi dei giornali e alle telecamere. «Sono in giro da stamattina - dice all’Ansa una turista di Ravenna che è a Pompei da qualche giorno - non mi sono accorta del crollo, sennò l’avrei subito disegnato: non uso macchine fotografiche, sono una disegnatrice».

La Schola era su via dell’Abbondanza, strada principale di Pompei, ma verso la fine, in direzione dell’Anfiteatro, a due passi dalle due vigne che fanno rivivere il vino dell’antichità.

In genere arrivati qui, si svolta per il vicolo della Nave Europa e si segue lo stradone delimitato dai pini secolari, che riporta all’anfiteatro. Sfugge la bellezza dei due affreschi ai lati della porta d’ingresso di quella che ai turisti viene presentata come la "Casa dei Gladiatori", mai visitabile perché consistente in un unico ambiente vuoto e spoglio. Peccato, ora si vedrà solo in foto. Aggirata l’insula ci troviamo dalla parte opposta: il transennamento va avanti anche lì, il crollo a minuti non sarà più visibile da nessuna parte. Perché? Passano due tedeschi, marito e moglie, e domandano ironici: «Protezione civile?». «Io cerco la Casa di Venere - dice una signora di Milano, mostrando la piantina - ma lì che cosa è successo? È caduta una casa?». I custodi vanno e vengono, l’unica funzionaria della Soprintendenza che è stato possibile reperire sull’istante, Grete Stefani, dà perentorio ordine di non far passare nessuno. «L’abbiamo scampata bella noi sorveglianti». Gli fa eco una collega: «Ogni giorno passano centinaia di scolaresche. Se fosse accaduto qualche ora più tardi...».

Il crollo clamoroso a Pompei della Casa dei gladiatori fa il paio (in peggio) col cedimento, recente, di un soffitto dell’ambulacro centrale del Colosseo. Sono i due siti archeologici più visitati d’Italia. Li si vuole spremere per sempre maggiori incassi. Ma li si lascia deteriorare, non si avviano gli indispensabili restauri (25 milioni di euro per il Colosseo), non si fa nemmeno manutenzione ordinaria. Una politica suicida. Questi guasti ci dicono che l’intero ministero voluto nel 1975 da Spadolini si sta sfaldando. 1) per i tagli feroci di Tremonti a Soprintendenze già boccheggianti, con un ministro, Bondi, più occupato a tamponare le falle del Pdl che quelle del suo dicastero. 2) per una dissennata politica dirigenziale: da un lato si assume con un contratto principesco un direttore generale alla valorizzazione come Mario Resca (ex McDonald’s e Casinò di Campione) che poco sa del nostro specialissimo sistema museale «a rete»; dall’altro si pensionano a soli 67 anni personaggi di rara competenza come il soprintendente di Pompei, Piero Guzzo e il direttore generale per l’archeologia, Stefano De Caro.

Di più: un decreto Brunetta manda a casa alti dirigenti con 40 anni di carriera, entrati con merito a poco più di 20 anni ed ora poco oltre i 60. Uno scialo. Poiché non si sono fatti concorsi, dilagano gli interim: la stessa Pompei è ora gestita da una soprintendente che governa Napoli e si occupa pure del recupero dello opere d’arte rubate e d’altro.

Una pazzia. Come il divieto per ispettori e soprintendenti di usare la propria auto per le missioni sul posto. Ci sono mezzi pubblici di cui servirsi? No. Quindi non si va a controllare gli scavi (e i tombaroli ringraziano), i siti già aperti, i cantieri esterni, favorendo speculazione e malaffare. Così va nel Paese degli oltre 2000 siti archeologici. Ricchezza enorme senza investimenti.

A Pompei poi - dove esiste, come a Roma, una speciale Soprintendenza destinata a gestire i propri incassi - la diarchia fra soprintendente e city manager non ha mai funzionato granché. Il secondo, di nomina «politica», poteva pestare i piedi al primo quando voleva. E c’erano circa 700 dipendenti per tre quarti non assunti direttamente dalla Soprintendenza e organizzati per clan famigliari, centinaia di cani randagi che nessuno ricoverava né rendeva innocui, ecc. Guzzo ha chiamato a collaborare i migliori studiosi, lavorando sull’intero contesto urbano e sull’approfondimento del già scavato.

A camorra, corruzione e clientele ha opposto regole e legalità. «Ma - mi diceva poco tempo fa - non ho mai avuto l’appoggio del vertice politico che tiene molto ai voti».

Poi a Pompei è arrivato un commissario, Marcello Fiori, fedelissimo di Guido Bertolaso. Invece di concentrare i fondi sulla tutela più urgente, ha puntato a “spettacolarizzare” Pompei, dando al teatro romano una «cavea completamente costruita ex novo, con mattoni in tufo di moderna fattura» (denicia della Uil), O - come denuncia indignata l’Associazione nazionale Archeologi - ha speso in ologrammi virtuali e pannelli fotografici addirittura milioni. Che potevano evitare a Pompei di sfaldarsi. Al pari del ministero.

Italia Nostra

La rovina di Pompei è il risuotato

di scelte politiche disastrose

Il disastroso crollo dell’Armeria dei Gladiatori avvenuto stamane a Pompei testimonia l’urgenza della denuncia di Italia Nostra sulla gestione del più importante sito archeologico italiano.

Due anni di commissariamento non solo non hanno risolto i problemi del “degrado quotidiano” (servizi al visitatore di scarso livello, cani randagi, ecc.), ma concentrando le risorse della Soprintendenza esclusivamente su iniziative mediatiche o di cosiddetta valorizzazione (eventi al teatro grande, ologrammi e multimedia), hanno smantellato quel programma di manutenzione programmata faticosamente elaborato negli anni precedenti dagli organi della tutela, sicuramente meno spendibile in termini pubblicitari, ma indispensabile per la tutela del patrimonio stesso e quindi per la sua stessa sopravvivenza.

Come per le frane e le alluvioni che hanno devastato ampie zone del nostro territorio (dal Veneto alla Calabria) negli ultimi giorni, questo disastro non era imprevedibile, ma è frutto dell’incuria dell’uomo.

Pompei è patrimonio non italiano, ma mondiale: Italia Nostra richiede al Ministro Bondi di affidare immediatamente agli organi scientifici del suo Ministero l’elaborazione di un piano di conservazione del sito quale premessa indispensabile, non solo delle elementari ed irrinunciabili esigenze della tutela, ma altresì del rilancio culturale di Pompei.

Gli avvenimenti di oggi dimostrano, nella loro drammatica evidenza, la necessità di rafforzare l’opera degli organismi della tutela: Pompei deve diventare un laboratorio a cielo aperto dell’eccellenza italiana nel campo del restauro e della conservazione e non una Fondazione mirata al lancio di eventi estemporanei e dagli incerti valori culturali.

Come per difendere il nostro territorio non servono le “Grandi Opere”, ma la quotidiana, incessante opera di ripristino e contenimento del rischio idrogeologico, così per salvare il nostro patrimonio culturale non abbiamo bisogno di iniziative effimere e culturalmente risibili o addirittura controproducenti, bensì di restituire la piena operatività alle Soprintendenze - a Pompei come a L’Aquila - in termini non solo di risorse economico finanziarie, ma di efficienza amministrativa e di riconoscimento istituzionale.

Maria Pia Guermandi – Consigliere nazionale Italia Nostra

Corriere della sera.it

Pompei. Crollata la Domus dei gladiatori

Gravissimo danno al patrimonio artistico italiano a seguito di un crollo verificatosi nel sito archeologico di Pompei dove è crollata l'intera Domus dei Gladiatori, così chiamata perchè al suo interno si allenavano gli atleti nell'antica Pompei. L’edificio era una sorta di palestra dove i gladiatori si allenavano e nella quale deponevano le armi all’interno di alcuni incassi ricavati nei muri. Secondo quanto si apprende dalla Sovrintendenza, vi erano anche dipinti nella parte sottostante il perimetro della sala. L’edificio, che si apre su via dell’Abbondanza, la strada principale della città sepolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d. C., era visitabile solamente dall’esterno ed era protetto da un alto cancello in legno.

AREA TRANSENNATA - Il crollo, secondo primi accertamenti, è avvenuto intorno alle ore 6 ed è stato notato dai custodi appena arrivati al lavoro verso le ore 7.30. L'area al momento è transennata e non è possibile accedere. La Domus è sulla via principale, via dell'Abbondanza, quella maggiormente percorsa dai turisti, in direzione Porta Anfiteatro. Predisposto un percorso alternativo per i tanti turisti.

LE CAUSE - «Questa mattina presto - spiegano i custodi - è crollato prima il muro della Domus, e poi, data la pesantezza del soffitto che è in cemento armato, è crollata l'intera Domus dei Gladiatori. Sembra - dicono - che siano state le infiltrazioni d'acqua a causare il danno». Anche secondo quanto si apprende dalla Sovrintendenza le cause del crollo possono essere attribuite o alle piogge che hanno creato delle infiltrazioni all’interno di un terrapieno esistente al lato della Schola, oppure al peso del tetto della palestra stessa. La casa, infatti, fu bombardata durante la Seconda guerra mondiale e la copertura è stata rifatta tra gli anni ’40 e gli anni ’50. È probabile - fanno sapere dalla Sovrintendenza - che le mura antiche, dopo anni, non abbiano più retto al peso del tetto.

DENUNCIA IGNORATA - Oltre alle inchieste portate avanti dal Corriere sullo stato di salute degli scavi di Pompei, numerose erano state le denunce portate avanti da diversi esponenti politici sullo stato di degrado dell'area archeologica. «Sono mesi che denuncio, con articoli ed interrogazioni, il degrado allarmante degli scavi di Pompei. Il gravissimo crollo di stamattina è la dimostrazione che il Governo e il Ministro Bondi hanno sottovaluto la situazione e raccontano, da tempo, un bel po' di sciocchezze» afferma ora in una nota Luisa Bossa, deputata del Pd e ex sindaco di Ercolano. «Quando abbiamo posto la questione del degrado negli scavi - dice la Bossa - Bondi ha risposto in modo piccato e risentito, difendendo il lavoro dei suoi commissari. Il crollo della Domus dei gladiatori è la drammatica, ma inevitabile, risposta a chi pensa che governare significhi raccontare una balla al giorno, attaccando chi a quella balla non crede perchè le cose va a guardarle con i suoi occhi. La situazione dei siti archeologici in Campania è drammatica».

IL SINDACO - Disappunto, convinto. Il sindaco di Pompei (Napoli), Claudio d'Alessio, lo dice senza mezzi termini: «Questa ennesima brutta notizia poteva essere evitata». Il cedimento dell'edificio, secondo d'Alessio, è un crollo annunciato: «succede quando non c'è la dovuta attenzione e cura» per un patrimonio secolare che andrebbe «preservato da ogni tipo di sollecitazione, anche atmosferica. C'è il dispiacere tipico di una comunità - ha sottolineato D'Alessio - di un territorio su cui vi è il museo all'aperto più grande del mondo e che purtroppo viene trascurato».

L'ALLARME DEL MINISTERO - «Questo ennesimo caso di dissesto ripropone il tema della tutela del patrimonio culturale e quindi della necessità di disporre di risorse adeguate e di provvedere a quella manutenzione ordinaria che non facciamo più da almeno mezzo secolo». È quanto afferma Roberto Cecchi, segretario generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali in merito al crollo della Schola Armaturarum a Pompei. «La cura di un patrimonio delle dimensioni di quello di Pompei - aggiunge Cecchi - e di quello nazionale non lo si può affidare ad interventi episodici ed eclatanti. La soluzione è la cura quotidiana, come si è iniziato a fare per l'area archeologica centrale di Roma e per la stessa Pompei».

BONDI - «Quanto è accaduto ripropone la necessità di disporre di risorse adeguate per provvedere a quella manutenzione ordinaria che è necessaria per la tutela e la conservazione dell'immenso patrimonio storico artistico di cui disponiamo» ha spiegato successivamente il ministro dei Beni e delle Attività Culturali Sandro Bondi. «Il crollo - conferma il ministro - ha interessato le murature verticali Schola Armaturarum che erano state ricostruite negli anni Cinquanta, mentre parrebbe essersi conservata la parte più bassa, la parte cioè che ospita le decorazioni affrescate, che quindi si ritiene che potrebbero essere recuperate. Alla luce dei primi accertamenti, il dissesto che ha provocato il crollo parrebbe imputabile ad uno smottamento del terrapieno che si trova a ridosso della costruzione per effetto delle abbondanti piogge di questi giorni e del restauro in cemento armato compiuto in passato».

Associazione nazionale archeologi

Il crollo della Domu dei gladiatori e il dissesto archeologico del Belpaese

L'ANA, Associazione Nazionale Archeologi, esprime rabbia e sconcerto per il crollo avvenuto stamattina alle 6 nel sito archeologico di Pompei:si è letteralmente polverizzata la Domus dei Gladiatori, sulla centralissima via dell'Abbondanza. Dopo i crolli avvenuti a Roma alle mura Aureliane, alla Domus Aurea e quello ben più modesto al Colosseo, questo di Pompei è l’ennesima ferita subita dal patrimonio archeologico italiano in pochi mesi.

"Stavolta il crollo è di proporzioni clamorose”, denuncia il Presidente ANA Tsao Cevoli. “E’ una ferita insanabile al sito archeologico più importante del mondo. Come denunciamo da tempo, sono l'incuria e la mancata manutenzione ordinaria del patrimonio archeologico a provocare danni irreparabili come questo di oggi

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"Fa rabbia”, conclude Cevoli, “vedere un crollo del genere provocato dall’incuria, quando sempre a Pompei, a pochi passi di distanza sulla stessa via dell'Abbondanza, si sono spesi milioni di euro per istallare ologrammi virtuali e pannelli fotografici nelle Domus di Giulio Polibio e dei Casti Amanti.

Auspichiamo che nel settore dei beni culturali alla politica delle emergenze e degli effetti speciali finora attuata dal governo, si sostituisca una politica della prevenzione e che a dettare le priorità non siano le esigenze di marketing ma i reali problemi del patrimonio culturale e che l'ultima parola spetti ai funzionari ministeriali addetti alla tutela".

Confederazione Italiana Archeologi

Crollo a Pompei. Basta commissari. Si facciano lavorare i tecnici delle soprintedenze!

La Confederazione Italiana Archeologi esprime il proprio sgomento di fronte alla notizia del crollo delle strutture della Caserma dei Gladiatori a Pompei. L’episodio si è verificato all’alba e per fortuna non si sono registrati feriti né tra il personale in servizio né tra il pubblico, visto che il sito non era ancora aperto.

“Siamo stanchi - ha dichiarato il Presidente Giorgia Leoni – di commentare continui crolli e danni al patrimonio archeologico del nostro paese, potendo almeno gioire del fatto che per ragioni del tutto fortuite si sia evitata una tragedia.”

“Ci auguriamo – continua il Presidente Leoni – che oltre alle ragioni tecniche, il Ministero abbia il coraggio di affrontare le reali cause politiche che sono alla base di questi avvenimenti. Dopo il Colosseo e la Domus Aurea continua la serie di crolli di monumenti e siti sottoposti per anni a costosissime e spesso poco competenti strutture commissariali che hanno esautorato i tecnici delle Soprintendenze dall’azione di costante tutela e monitoraggio che questi hanno sempre condotto. Evidentemente il proliferare dei commissariamenti non ha lo scopo di garantire la tutela e la conservazione del patrimonio archeologico, altrimenti le strategie e i risultati sarebbero diversi. Non possiamo più permetterci di operare in questo modo scellerato: il patrimonio archeologico italiano è un bene che appartiene a tutta l’umanità e va preservato per le generazioni future, non è un prodotto replicabile!”

La Confederazione Italiana Archeologi rinnova la richiesta di un intervento urgente del ministro Bondi per verificare lo stato di sicurezza in cui versano gli scavi di Pompei e perchè faccia un'analisi seria e trasparente dei lavori svolti e dei risultati ottenuti dalla struttura commissariale.

Valentina Di Stefano

ufficiostampa@archeologi-italiani.it

UIL

Pompei. Crollo della "Schola armaturam iuventis pompeiani"

Gravi le responsabilità di Bondi

che non nomina un soprintendente

Sono veramente gravi le responsabilità del Ministro Bondi che si è affidato alle cure del Commissariamento di Pompei e aldilà della propaganda i risultati di scelte dissennate e incomprensibili la dice lunga su ciò che è stato fatto nell’area archeologica più importante del mondo.

Stamane attorno alle ore 6/7 , meno male che gli scavi erano ancora chiusi, è letteralmente crollata ( sembra quasi sotto l’effetto di un terremoto o di un bombardamento) la casa chiamata "Schola armaturarum iuventis pompeiani".

Tale casa fu rinvenuta nel 191 e restaurata nel 1946 , da allora non sembrano essere stati fatti interventi salvo il rifacimento dell’asfalto del tetto durante la gestione commissariale.

Infatti l’asfalto risulterebbe essere stato rifatto da circa 7 mesi.

Molto probabilmente la casa è crollata per effetto delle infiltrazioni d’acqua ma è veramente singolare che durante la gestione commissariale che era deputata proprio alla messa in sicurezza , nessuno si sia reso conto dello stato in cui tale casa si trovava.

A questo punto, la Procura a cui la Uil aveva già sporto denuncia dovrebbe indagare per capire e passare al setaccio tutti gli interventi e l’operato legato alle attività commissariali che per fare gli interventi avrà redatto un piano con le emergenze. Ricordo che il Direttore degli scavi Varone aveva segnalato la pericolosità degli scavi tanto che temeva per l’incolumità dei visitatori e degli stessi dipendenti.

Ora si faccia luce su ciò che è accaduto tenuto conto che vi sono altri aspetti che lasciano perplessi come nel caso della stipula del contratto con la Società WIND per attività di videosorveglianza e valorizzazione che tra gli altri caratteri prevedono la collocazione nell’area archeologica di pali alti 4 metri ,la collocazione nell’area archeologica dei cavidotti, che hanno un effetto ed un impatto visivo micidiale , fatta con estrema leggerezza dal Commissario e che oggi non sembra assolutamente compatibile con la tutela dell’area archeologica.

A ciò si aggiunge anche la recente sentenza del Tar Lazio che ha annullato la gara per la gestione del ristorante per difetti procedurali che dimostrano il pressappochismo nell’attività di aggiudicazione dell’appalto.

Insomma va fatta chiarezza e vanno individuate responsabilità precise fermo restando che la prima responsabilità è di ordine politico poiché mentre Roma sta discettando sul modello di governante da realizzare , Pompei continua a registrare crolli, ricordiamo anche la Domus di Polibio ed il Termopolio con un sito che non ha un Soprintendente a tempo pieno.

Gianfranco Cerasoli, Segretario Generale UIL Beni e Attività Culturali

Signori si chiude: dai Musei capitolini a Palazzo ducale di Venezia le istituzioni culturali, in particolare quelle che fanno capo a Regioni ed Enti locali per un giorno, il prossimo 12 novembre, chiudono le porte, anzi le sbattono in faccia alle politiche del governo Berlusconi. Una iniziativa nata da Federculture e dall'Associazione comuni italiani, cui ha aderito un schieramento molto ampio per una protesta clamorosa che ha pochi precedenti in Italia e nel mondo, coinvolgendo musei, siti archeologici, fondazioni culturali, biblioteche: tutti colpiti, e in molti casi a morte, dalla legge 122 del 2010. Si tratta del decreto uscito a maggio dal cappello di quel mago di Oz dei risparmi del superministro Giulio Tremonti, a luglio convertito dal parlamento in legge con il nome di «manovra finanziaria» — da non confondere con la legge finanziaria di cui si discuterà nei prossimi giorni. Nella sostanza è fatto divieto ai comuni con meno di 30 mila abitanti di avere società, gli enti locali sono obbligati a ridurre dell' 80% le risorse per mostre, missioni culturali e così via, e a ridimensionare la composizione dei consigli di amministrazione delle aziende partecipate con denaro pubblico. Gli effetti sono devastanti: a esempio il sito nuragico di Su Nuraxi, gestito dal comune di Barumini attraverso una fondazione che dovrà essere chiusa, rischia di restare senza personale. Spazi espositivi come la Triennale di Milano o Palaexpo di Roma non avranno fondi per le mostre, il tutto mentre si costruisce la Nuova Brera, e vista la situazione è difficile prevederne l'utilizzo.

Ma più bizzarro è il caso dei consigli di amministrazione: quelli di fondazioni come la Scala o Musica per Roma hanno rispettivamente 11 e 13 componenti per la presenza dei privati e dovranno essere ridotti a 5, cacciando i soci finanziatori. Un bell’incentivo per l'intervento dei privati nella cultura! Incerte sul da farsi, le amministrazioni locali stanno scivolando nel caos. Intanto però le regioni Liguria e Toscana hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale, poiché la legge 122 intaccata la loro autonomia e quella degli Enti locali. Fioccano le adesioni alla protesta del 12 novembre, dall'Unione province italiane, alla Conferenza delle Regioni, fino all'Associazione delle città d'arte, Fondo per l'ambiente italiano, la Lega delle cooperative, nonché musei, associazioni come quella che riunisce i parchi naturali italiani, e fondazioni come il Maxxi, che pure sarebbe dello Stato, Musica per Roma o il Consorzio teatro pubblico pugliese. «L'obiettivo è la abrogazione della legge», ha spiegato ieri alla presentazione dell'iniziativa l'assessore alla cultura capitolino Umberto Croppi, che già a maggio aveva proposto, per primo, la serrata dei musei. Lo schieramento è compatto contro la legge 122, meno sulle forme di protesta, a esempio alcuni puntano sull'apertura gratuita, come probabilmente farà il comune di Milano. «Ma il castello Sforzesco deve restare chiuso: è un fatto simbolico! — sbotta Andrea Ranieri assessore alla cultura del capoluogo ligure —A Genova i grandi musei saranno chiusi, mentre i piccoli saranno a ingresso gratuito, con lo slogan venite adesso che l'anno prossimo non ci saremo più». A Ranieri non sfugge l'aspetto politico della protesta, uno schieramento così ampio è la reazione al governo Berlusconi che, di fronte a un imbelle ministro, Sandro Bondi, ha picchiato duro sulla cultura, ma anche su scuola, ricerca, università. E ancora più duro picchierà nella legge di bilancio, la finanziaria 2011.

Bagnoli è uno dei quartieri più belli di Napoli. I Campi Flegrei, storia e futuro della città. Doveva essere l’occasione per la rinascita partenopea. Città della scienza, bonifica dell’area, cultura, innovazione tecnologica, attività sportive, piccole e medie imprese, commercio, turismo, il porto, unità abitative residenziali. Napoli tra ricchezza della sua storia e progresso. Bagnoli ha ottenuto il più cospicuo finanziamento di fondi europei della storia dell’Unione. La politica, attraverso il partito unico trasversale della spesa, ha sostanzialmente fallito, al di là di qualche risultato. Bagnoli è servita per creare l’ennesima società per azioni, BagnoliFutura spa, il solito giro di professionisti e politica, mentre Napoli e i napoletani possono attendere. Ma questa non può essere solo la solita storia, sia pur grave, dell’ennesima occasione perduta, servita solo a consolidare il potere di pochi. È giunta l’ora di chiedere il conto – politico e istituzionale – sotto un duplice aspetto. Il primo. La Corte dei conti, la commissione e il Parlamento europeo hanno evidenziato gravi irregolarità nella gestione dei fondi pubblici. Chi intende assumersi la responsabilità politica? Chi pagherà contabilmente, chi risarcirà il danno? Mi auguro che la magistratura ordinaria verifichi la sussistenzadi condotte che possano avere rilevanza penale.

Il secondo. Circolano dati allarmanti sui quali si deve fare chiarezza e solo la magistratura, nella sua indipendenza, può verificare se Bagnoli sia divenuta una bomba ecologica a orologeria. Buona parte dei terreni dell’area, dichiarati bonificati e certificati da BagnoliFutura, sarebbero caratterizzati da concentrazione di composti e sostanze dall’elevata potenzialità tossica (idrocarburi, IPA e PCB) che eccedono i limiti di legge imposti per un uso residenziale/verde pubblico e spesso anche per uso commerciale/industriale. Il terreno risulterebbe, quindi, in diverse aree contaminato e non bonificato contrariamente a quello che si vuol far credere. Una valutazione del rischio sanitario-ambientale in caso di uso residenziale/verde pubblico conduce, secondouno studio della cui attendibilità non abbiamo motivo di dubitare, a un rischio rilevante per la salute umana da sostanze cancerogene per bambini e per adulti sia per brevi che per lunghe esposizioni. Si parla di un rischio oggettivo di un cospicuo aumento di decessi l’anno per coloro i quali frequenteranno i settori: infrastrutture pedemontane, Porta del Parco e strutture turistiche, Parco urbano lotto 1 e Parco dello Sport. Il rischio sarà elevato anche per i lavoratori qualora si scelga un’esclusiva destinazione industriale/commerciale.

La situazione rappresentata evidenzia, paradossalmente, un generale peggioramento post-bonifica delle condizioni ambientali. Va inoltre rappresentato che, inizialmente, il progetto di bonifica è stato avviato tenendo presente che le concentrazioni di sostanze non erano compatibili con un uso residenziale/verde pubblico (previsto per gran parte dell’area una volta completata la bonifica) ma solo con un uso industriale/commerciale del sito. Oggi, per aggirare artificiosamente la situazione, si intende risolvere il problema della mancata bonifica attribuendo ai suoli una fittizia destinazione d’uso industriale/commerciale, mentre nella realtà si registra un aumento della volumetria destinata a unità abitative. I napoletani non possono essere accerchiati da bombe ecologiche. Bagnoli non può trasformarsi da mancata occasione di sviluppo del Sud intero a ordigno ambientale. Ci auguriamo che le istituzioni tutte, in primo luogo la magistratura, facciano chiarezza su una storia che non ci lascia tranquilli.

Periferie, il piano d'oro di Alemanno

di Eleonora Martini

Tra le proteste dei movimenti di lotta per la casa, il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha presentato ieri il «masterplan sulla riqualificazione urbanistica di Tor Bella Monaca». E, contrariamente a quanto preannunciato e propagandato, lo ha fatto nella cornice più rassicurante dell'auditorium dell'università Tor Vergata, non certo nel cuore del quartiere tra i più degradati dell'estrema periferia est della capitale. Il piano, affidato «a titolo gratuito» all'architetto lussemburghese Leon Krier, prevede la «demolizione programmata» del quartiere, in particolare le cosiddette "torri", il peggio dell'edilizia popolare anni '80, preceduta dalla costruzione «nelle aree libere esterne» al quartiere «di nuovi alloggi pubblici, la cui altezza non supererà i quattro piani, destinati ai residenti». Al posto degli edifici demoliti, secondo il masterplan, saranno realizzate aree verdi, strade, piazze, servizi, «allo scopo di far riscoprire il valore dello spazio pubblico». Bello no? E allora vediamo i numeri: rispetto ai 629 mila metri quadri di Superficie utile lorda (Sul) attualmente costruiti su 77,7 ettari di territorio, con una volumetria complessiva di oltre 2 milioni di metri cubi, tra «cinque anni» la superficie lorda utilizzata sarà quasi il doppio (1.100.000 mq), l'area edificata salirà fino a 96,7 ettari, e la volumetria arriverà addirittura a 3.520.000 metri cubi. Altro che villette: cemento quasi raddoppiato. Al posto degli attuali 28 mila abitanti su 78 ettari circa (300 abitanti a ettaro), il piano prevede un incremento della popolazione fino a 44 mila abitanti. Che su 100 ettari circa fa 440 abitanti a ettaro. Altro che «tipologia abitativa meno densa»: qualcosa che assomiglia più alla speculazione edilizia anni '60 di viale Marconi, per esempio. Il tutto a costo zero per l'amministrazione, malgrado per «l'intera operazione» si spenderanno 1.045 miliardi di euro. Ma, spiega Alemanno tra le grida dei cittadini che protestano, sarà tutto pagato dai privati.

Riqualificazione? No: debiti pagati col cemento

di Paolo Berdini

Era apparso subito misterioso il motivo per cui il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, avesse deciso di realizzare case a bassa densità al posto del quartiere di Tor Bella Monaca, proprio ora che i comuni non hanno un soldo per fare alcunché. Ci sarà tempo per valutare nel merito il "piano direttore" presentato ieri alla città. Ma fin d'ora è possibile rendere chiari quali siano le motivazioni della estemporanea proposta.

Le motivazioni stanno nella deliberazione n. 3 del 5 ottobre 2009 presa dallo stesso sindaco Alemanno nella veste di Commissario straordinario di governo per il piano di rientro del comune di Roma. Come si ricorderà, nel primo periodo di vita della giunta di centrodestra ci fu una forte polemica riguardo l'ammontare del buco economico lasciato dall'amministrazione precedente: per questo il governo Berlusconi affidò poteri speciali al sindaco proprio per definire tempi e modalità di rientro.

La deliberazione in questione è un riconoscimento di debito nei confronti degli eredi Vaselli, famiglia di grandi proprietari terrieri. A seguito di espropri mai perfezionati proprio per la realizzazione di Tor Bella Monaca il comune fu chiamato in causa dai Vaselli e perse la prima causa civile. L'amministrazione presentò appello, ma avviò contemporaneamente procedure riservate per la chiusura bonaria del debito. Così nel 2007 - amministrazione Veltroni - furono stanziati quasi 76 milioni di euro per chiudere le controversie con i Vaselli ed una parte di essi furono pagati. Mancavano altri creditori e così il sindaco-commissario deliberava di pagare i restanti 55 milioni di euro: per capire di quale folle buco stiamo parlando, in un solo anno sono stati riconosciuti ai Vaselli 1.343.000 euro di interessi per ritardato pagamento!

Ecco perché durante la scorsa estate il sindaco ha avuto l'idea di "recuperare" Tor Bella Monaca. Se si demoliscono anche parzialmente le attuali abitazioni, occorrerà trovare terreni liberi per costruire quelle nuove. E, guarda caso, le aree libere intorno a Tor Bella Monaca sono di proprietà degli eredi Vaselli. Costruisco nuove case sui terreni dei creditori del comune e tutto finisce in gloria.

Una considerazioni finale. Da conteggi attendibili e rigorosi sembra che il debito contratto dal comune di Roma con la rapace proprietà dei suoli è stimato nell'ordine di 1,5 - 2 miliardi di euro. Se applichiamo il metodo Tor Bella Monaca, e cioè riconoscere cubature in cambio della cancellazione del debito, dovremmo costruire in ogni centimetro della città. Una follia.

Ma come mai, chiediamo, negli ininterrotti 15 anni di amministrazione di centrosinistra nessuno ha mai lanciato l'allarme su questa situazione inedita nel panorama europeo? Non se ne è accorta nemmeno l'Anci che con il presidente Leonardo Domenici non ha mai posto la questione con la dovuta forza, forse perché nella veste di sindaco di Firenze era troppo impegnato nelle trattative della peggiore urbanistica contrattata. Nessuno ha dunque fiatato e i comuni italiani sono stati lasciati in preda ai proprietari dei terreni. Non ci sono più leggi e i comuni che vogliono fare qualsiasi opera pubblica sono costretti a regalare milioni di metri cubi di cemento. E' così anche nell'ultimo caso della Formula 1 da svolgersi all'Eur. Il tanto mitizzato privato non ci mette un soldo: è il comune che paga l'operazione vendendo aree pubbliche che ospiteranno una nuova colata di cemento. Sono anni che il manifesto lo denuncia con forza ma il palazzo fa finta di nulla, impegnato a discutere d'altro. Come il finto recupero di Tor Bella Monaca.Finto perché i documenti consegnati ieri dicono che ai privati verranno "regalati" 1.500.000 metri cubi di cemento e che la densità abitativa passerà dagli attuali 300 abitanti ettaro a 440: una mostruosa speculazione edilizia. Come alla Magliana o viale Marconi. Altro che villette!

PostillaLa storia è agghiacciante. Eccola in sintesi nei suoi lineamenti generali. Nel 1977 una legge presentata dal ministro Bucalossi e tarpata dal Parlamento in un suo punto essenziale (il regime dei suoli), definì le nuove norme per gli espropri. La Corte costituzionale invalidò le nuove norme. Il Parlamento non corse mai ai ripari: l’attenzione ai problemi della città scomparve. Si dimenticò l’insegnamento che veniva dalle esperienze condotte da un paio di secoli negli stati liberali e in quelli delle socialdemocrazie europei, e perfino da quello fascista: la necessità di combattere gli incrementi della rendita per garantire città orfdinate e funnzionanti. I comuni furono lasciati allo sbando: perfino le associazioni che li rappresentavano, come l’ANCI, o come li sostenevano su questi problemi, come l’INU, abbandonarono le battaglie del passato. Non parliamo dei partiti: anche per quelli di “sinistra” la rendita divenne qualcosa che alimentava lo “sviluppo”, la pianificazione urbanistica un insieme di lacci e lacciuoli, l’esproprio una bestemmia.

Adesso se ne paga il prezzo. Assaliti dalla grande proprietà fondiari i comuni stanno perdendo le cause intentate dai privati sulla base delle sentenze costituzionali. Come fanno per resistere? Alemanno dà il segnale: bisogna cedere e anzi raddoppire il prezzo. E’ la strada giusta?

Come quando fuori piove. Il film di Monicelli (1999) è ambientato a Cittadella, nel Veneto profondo; e parla di gioco d’azzardo, di lotterie, di ipocrisie, dell’etica declive di questa terra. Nel Veneto profondo è piovuto per quattro giorni, con poche soste. Per qualche ora, se n’è parlato anche sui giornali nazionali; ma lo stesso sig. Zaia paventa ciò che ineluttabilmente avverrà, ovvero la riduzione del cataclisma alle dimensioni dell’allagamento di una cantina; meglio ancora, di una taverna.

Chi abita a Venezia, che non è Veneto profondo, percepisce sul viso il caldo dello scirocco e si spiega d’emblée l’acqua alta di ieri, quelle che verranno: la prima cosa che si racconta ai “foresti” è che l’acqua alta non dipende dalla pioggia, che è invece un fenomeno legato alle maree e a un gran numero di variabili in larga parte non meteorologiche; e infatti capita di sentire la sirena (codice giallo, codice arancio; codice rosso, perfino, come il primo dicembre dell’anno scorso) anche quando fuori c’è un sole a palla.

Dunque al diavolo le foto di Venezia con l’acqua alta. Alta è la temperatura che si sente anche in Laguna, e che ha sciolto le nevi fresche sui monti, e tutta quell’acqua, lassù, aumentata strada facendo dalla pioggia insistente, doveva pure venire giù in qualche modo. Che modi. Vicenza sott’acqua, Padova lambita, le campagne a mollo, gli ospedali evacuati, le strade interrotte. In un paese aduso a Giampilieri, a Sarno, ad Atrani, o alle periodiche esondazioni della Versilia, il fenomeno passa nel taglio basso, come erba da accorpare al fascio degli episodi analoghi (ormai dozzine negli ultimi anni) tra Pordenone, la Marca, il Polesine, il Veronese. E le immancabili geremiadi contro il dissesto idrogeologico vengono lasciate alle immancabili cassandre, ai menagrami che al prossimo giro diranno l’avevamo detto.

Ma forse il caso presente, con gli scantinati del Teatro Olimpico a mollo e le viuzze palladiane fatte canali, può rappresentare un’occasione per ricordare, sobriamente, laicamente, che non siamo soltanto in balìa di Giove Pluvio; che anche lontano dalle trame speculative della camorra, della mafia, delle bande notoriamente irrispettose del terreno (o territorio?) sul quale insistono, anche qui sono stati compiuti negli anni degli errori, nei quali si persevera pervicacemente. Non si può ridurre la questione – come fanno alcune opposizioni – al recente taglio dei fondi nazionali e regionali per il restauro idrogeologico delle aree più a rischio (tra le quali, singolarmente, proprio Vicenza); né denunciare – come pure è doveroso – l’insofferenza di alcuni settori dell’ormai ventennale governo destrorso veneto verso i consorzi di bonifica, che svolgono un’insostituibile anche se non sempre efficace funzione di tutela “sul territorio” (la formula magica).

Gli eventi alluvionali sono legati a uno sviluppo urbanistico e abitativo che nel Nordest ha seguito un modello a un tempo disordinato e preciso, nell’atrofizzazione degli spazi pubblici a vantaggio dell’abitare privato, nella cementificazione di larghi settori della pianura in nome dei capannoni (oggi spesso vuoti), dei concessionari (oggi spesso falliti), delle villette familiari dove si vive come in un bunker e dopo la colazione da Mulino Bianco si esce, rigorosamente col SUV, magari per fruire delle donnine allegre che-infangano-il-nostro-territorio. Tutto questo, tecnicamente, ha un nome dotto, nato dall’indagine sociologica americana: “privatopia”. Ma il Veneto è diventato un pezzo di America, di Los Angeles?

La piena di questi giorni viene a ricordare che qui non stiamo facendo accademia: le denunce di Andrea Zanzotto o di Salvatore Settis non hanno a che fare solo con i restauri filologici dei paesaggi di Giorgione e Cima da Conegliano, con l’atmosfera del galateo in bosco o con la nostalgia per un mondo di piccole virtù: non sono discorsi di intellettuali slegati dal mondo, ma portano (vorrebbero portare) al centro del dibattito pubblico la distruzione delle venule di drenaggio, l’intubazione (proprio così, come con i malati gravi o i neonati prematuri) dei canali di scolo, l’assedio cementizio agli spazi golenali, l’ostinata impermeabilizzazione di superfici con l’asfalto, l’erosione dei suoli fertili per un’agricoltura ormai confinata a inerte memoria del passato; e la negligenza delle oggi invocate “verifiche di compatibilità idraulica”, degli oggi millantati “Piani di assetto idrogeologico”.

La campagna che nel 1739 Charles de Brosses riteneva valesse “forse da sola il viaggio in Italia” è oggi impantanata non per una strana nemesi divina, ma perché sono state fatte determinate scelte, lucidamente esposte e denunciate con rigore scientifico e passione in un volume del 2005 di Francesco Vallerani e Mauro Varotto, Il grigio oltre le siepi: Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto. Un volume – è bene precisarlo – che invece di ricevere un premio per il coraggio e l’acutezza dell’analisi ha condotto gli autori a un processo prima in sede civile e poi anche in sede penale, con l’accusa di aver diffamato una zincheria.

L’idrografia padana, come sa qualunque visitatore di Treviso o di Milano (dove per inciso ieri sono di nuovo esondati Seveso e Lambro), è un fatto complesso, che incide sulla percezione “identitaria” dello spazio come sulla vita quotidiana di chi lo abita: non a caso si è parlato per queste terre di una vera e propria “civiltà delle acque” (è il titolo di una raccolta di saggi sulla cultura popolare curata nel 1993 da un linguista, Mario Cortelazzo), e non a caso si indica specificamente nel Veneto un modello interessante a livello mondiale per l’inusitata ricchezza di risorse idriche e per la multiforme sfida rappresentata della loro gestione. Nello spazio antropico ormai drammaticamente mutato, s’imporrebbe la creazione di “corridoi fluviali”, nel senso indicato dallo stesso Vallerani come rispetto delle specificità naturali e invenzione di nuove modalità di utilizzo del suolo: il libro Acque a Nordest (Cierredizioni 2004) è un’indagine su Brenta, Sile, Piave come modelli positivi o negativi di trasformazione dell’identità di un fiume dall’Ottocento ai tempi nostri; lì s’impara anche a suon di esempi quante forze vengano profuse per la salvaguardia e la valorizzazione dei fiumi da comitati e unioni e associazioni a livello locale (penso per es. agli “Amissi del Piovego”, che in Padova si battono per una diversa cultura e coscienza idrografica), talora anche da singole amministrazioni lungimiranti.

Ma quello che sembra mancare è una riflessione di sistema, che impegni le autorità regionali (non che quelle nazionali) a indirizzare altrimenti gli investimenti e le attività di controllo. Chi se ne voglia convincere può leggere gli articoli di un uomo che conosceva l’acqua di queste terre come pochi altri: Il respiro delle acque di Renzo Franzin (Nuova dimensione, 2006). S’imporrebbe, se non altro, la meditazione di quanto è drammaticamente accaduto in contesti limitrofi, come quello del Piave, un fiume buono per la retorica patriottarda (e ultimamente xenofoba), ma sfiancato dall’artificializzazione e dal depauperamento inflittigli da un piano idroelettrico insensato, che annovera tra i suoi “danni collaterali” la catastrofe del Vajont. Perché nell’idrografia odierna del Nordest non pesano solo le alluvioni: pesa anche, paradossalmente, la siccità.

Ieri passando in treno sopra il Brenta ho notato che l’acqua del fiume faceva la barba ai binari. Mi è venuto in mente che nell’avvio del XV canto dell’Inferno (quello dei sodomiti) Dante paragona gli argini del Flegetonte a quelli costruiti dai “Padoan lungo la Brenta, 
per difender lor ville e lor castelli” (vv. 7-8). Verrebbe da chiedersi dove sia finita tanta sapienza costruttiva, se negli ultimi anni attorno alla Cappella degli Scrovegni, che sorge a pochi passi dal Bacchiglione, si è costruito un costosissimo e brutto monumento all’11 settembre proprio in area golenale (“World Trade Center Memorial“, di Daniel Libeskind: mica da ridere), si è lasciato il cenobio degli Eremitani in preda agli allagamenti, si è ventilata l’edificabilità dell’appena smantellata stazione degli autobus (dove invece, nei progetti originari, doveva sorgere un auditorium).

Il Bacchiglione è appunto il fiume esondato ieri. Un dovizioso volume edito dalla Regione del Veneto nel 2005, sotto il titolo Il Veneto e il suo ambiente nel XXI secolo, dedicava un’intera sezione, densa di grafici e di promesse, alla gestione dell’acqua. Per un caso della sorte, le pp. 136-37 presentavano come unico studio di caso proprio la valutazione dell’Indice di Funzionalità Fluviale del Bacchiglione, sulla base di rilevazioni condotte dall’Arpav nel 2002 e nel 2003. L’esame, che misurava diversi parametri chimici, fisici e territoriali del fiume, svelava un IFF mediocre per il 55% del corso, scadente per il 42%, buono per il 3%. Non solo, ma dei tre “macrotratti” in cui era diviso il corso del Bacchiglione, si evidenziavano come punti particolarmente critici la periferia sud di Padova e il tratto cittadino di Vicenza. I medesimi posti che ieri – diversi anni dopo, per un caso della sorte – sono finiti sotto.

In questo senso, che Palladio rischi di andare a remengo “sotto i cingoli dei diluvi” (come recita un verso folgorante dei Conglomerati di Zanzotto) è quasi il simbolo di una decisa virata nella direzione di sviluppo di questa terra, il segno di un nuovo modello culturale che sembra lasciare pochi margini di reversibilità. Proprio di Vicenza è uno dei più grandi scrittori nordestini viventi, quel Vitaliano Trevisan che nei Quindicimila passi, ma anche nel più recente Il ponte, documenta fra l’altro il malessere del paesaggio, l’isteria urbanistica e il conseguente ingrigirsi delle menti, l’architettura da karaoke e le ammiccanti “pompeiane” che finiscono a decorare le villette dopo essere state pubblicizzate da testimonials incongruamente discinte, a tarda sera, sulle tivù locali. E la racconta non sotto la specie del saggista o del geografo, ma nell’ottica di chi indaga en homme de lettres il sentimento delle cose e i modi di convivenza e desistenza degli uomini.

Sono andate sott’acqua le taverne, e con esse magari le consolles dei “tavernicoli”, quel singolare stadio dell’evoluzione che Marco Paolini ha ritratto nel Bestiario veneto, sciorinando le insegne e le imprese di un miracolo i cui piedi d’argilla vacillano in tempi di crisi. Viene il sospetto che sia tuto una metonimia per la trasformazione dell’Italia tutta in una lunga taverna, dove fuori (come quando fuori piove) Giove Pluvio porta via il bambino con l’acqua sporca, e dentro, illudendosi d’essere al riparo, gli Eletti fanno battute consone al luogo. Una Taverna del Re?

L’eccellenza è finita sott’acqua. E i veneti si sono scoperti d’improvviso umani e vulnerabili, come ha osservato Ferdinando Camon. Proprio loro che, grazie a un modello di business applaudito in tutto il mondo, avevano dimostrato come si può uscire a tappe forzate dalla povertà e diventare i tedeschi della situazione, ora sono costretti a leccarsi le ferite. La furia della pioggia li ha messi in ginocchio e ha spinto qualcuno addirittura all'autocritica. Roberto Zuccato, presidente degli industriali di Vicenza, la provincia più colpita, ha dichiarato alla Stampa che «stiamo pagando il prezzo della cementificazione e del boom».

E la sortita ha creato più d’un imbarazzo tra gli imprenditori. Così come qualche mal di pancia è venuto fuori per l’articolo sulla Padania di Marco Reguzzoni, capogruppo leghista a Montecitorio. Il pezzo recitava: «In questi giorni, diversamente da quanto purtroppo accaduto in altre zone del Paese, a Varese il fiume Olona non è esondato, grazie alla nostra diga di Malnate». E letto da Vicenza suonava così: «Noi leghisti di Varese le opere di risanamento idrogeologico le abbiamo fatte e voi invece?». Romeo La Pietra è di Udine, presiede il centro studi del Consiglio nazionale degli Ingegneri e non ha remore a convenire che «il territorio in Veneto è stato sollecitato senza una strategia ben definita». È mancata una visione integrata, «una cultura che programmasse lo sviluppo assieme all’equilibrio idrogeologico».

Pur nella melma i veneti non cedono quanto a patriottismo e da qui le facili battute su cosa sarebbe capitato se Giove Pluvio se la fosse presa con la stessa cattiveria non con il Nord Est ma con la Sicilia. Un leghista, il senatore vicentino Paolo Franco, ha trovato persino il tempo per polemizzare con i giornali nazionali rei di aver dato più spazio all’immondizia di Terzigno che all’alluvione di Caldogno e di Casalserugo. «Il Veneto non fa parte della nazione. Esiste solo per essere spremuto». Anche nel giorno più difficile per i propri elettori, Pdl e Lega hanno trovato il modo di far baruffa. L’onorevole Fabio Gava ha attaccato gli alleati sui consorzi di bonifica: a suo dire sono tutt’altro che dei carrozzoni inutili da abolire come pensa e chiedono gli uomini di Umberto Bossi.

In tempo di revisionismo sul modello di sviluppo nordestino gli industriali colleghi di Zuccato stanno in campana. La Grande Crisi morde ancora e come si fa a dire agli associati, che rischiano di dover licenziare i propri dipendenti, «stiamo pagando gli errori di quando siamo cresciuti troppo»? Così chi ha buoni dati da comunicare se ne infischia del revisionismo. Ieri ad esempio la Confindustria patavina ha fatto sapere, per bocca del suo presidente Francesco Peghin, c he nel secondo trimestre 2010 il made in Padova ha segnato +34,6% di export rispetto al 2009, molto più della media veneta (+21,5%). E Andrea Bolla, numero uno degli imprenditori veronesi, chiede un time out. «Di fronte ai disastri e agli sfollati c’è il rischio di tirare conclusioni affrettate». Evitiamo, dunque, l’allarmismo e le analisi cotte e mangiate.

«La fase di sviluppo caotico del Nord Est si è fermata da anni e quindi ci sarebbe stato ampiamente lo spazio temporale per una gestione del territorio più oculata. Si è fatto poco o niente. E se le polemiche di questi giorni possono servire a qualcosa di costruttivo, aggiunge il saggio Bolla, «facciamo partire una nuova fase che tenga insieme la bonifica e l’innovazione». Il presidente veronese è infatti tra i più convinti sostenitori che il Nord Est, se vuole davvero rivedere il suo modello di sviluppo, abbia bisogno di due elementi di modernità: l’alta velocità e la banda larga.

L’equazione troppi capannoni uguale argini che cedono non convince affatto il sociologo Paolo Feltrin. «Diciamo la verità: l’imprevisto esiste e non c’è programmazione che tenga. Se ci sono precipitazioni piovose in eccesso e i mari non riescono a ricevere tutta l’acqua si verificano le alluvioni con le conseguenze che possono avere su una delle zone più popolate d’Europa. Da noi è successo nel ’52, nel ’66 e in questi giorni». Ma non perché abbiamo costruito troppo. « L’urbanizzazione crea problemi ma anche la sua mancanza ne produce. Non esiste la ricetta perfetta». Sono almeno tre i fenomeni socio-economici che non sono stati previsti: lo sviluppo impetuoso, l’alta immigrazione dal terzo mondo e l’allungamento della vita media. Con il risultato che il Veneto nel ’70 aveva 2,1 milioni di abitanti e oggi ne conta 4,9. «Che facciamo? Li deportiamo?».

Smesso il ruolo del sociologo bastian contrario, Feltrin pensa anche lui che si debba migliorare il territorio. La crisi «ce lo consente» perché non abbiamo la pressione della domanda, non servono più manufatti, nuove industrie e nuovi centri direzionali. Anzi, caso mai si tratta di riqualificare quelli che ci sono. A cominciare dai mitici capannoni che si potrebbero rottamare come hanno fatto a Montebelluna e S. Donà di Piave. È vero che per ridisegnare il paesaggio nordestino occorrerebbe avere un’idea più definita di cosa sia un terziario moderno. Ma questo è un discorso da fare con calma. Ora soccorriamo gli sfollati.

Nel Veneto delle migliaia di sfollati nelle province di Verona e Padova, della città di Vicenza allagata, dei 121 comuni gravemente colpiti dagli straripamenti, di un disperso a Caldogno per la piena del Bacchiglione, delle frane nel trevigiano e delle strade interrotte, si sono permessi lo stravagante lusso di tagliare perfino i fondi per la manutenzione ordinaria di fiumi e canali. E lo hanno fatto concentrando le sforbiciate proprio nelle zone ora più in sofferenza, Padova e Vicenza. Da un momento all’altro, di colpo, hanno cancellato circa 15 milioni di euro sui 100 impegnati di solito per ripulire i fossi, tenere in efficienza le casse di espansione, consolidare gli argini e riparare paratie e idrovore. È stata una decisione ponderata, presa addirittura con una legge, la numero 12 articolo 37, approvata dalla giunta uscente di Giancarlo Galan e sostenuta dalla stessa maggioranza di centrodestra che ora appoggia il leghista Luca Zaia.

L’intenzione dichiarata era quella di sgravare i cittadini da una tassa, i contributi che i proprietari di immobili fino a quel momento erano tenuti a versare ai Consorzi di bonifica per pagare lo smaltimento delle acque “meteoriche”, cioè le piogge. Al posto dei cittadini, a tirar fuori i soldi sarebbero stati i gestori dei servizi idrici integrati, per esempio le società degli acquedotti. Ma fino a questo momento non hanno versato nemmeno un euro e alla voce manutenzione idrogeologica nei mesi passati sono mancati, appunto, 15 milioni. Con questi quattrini si sarebbero evitati i disastri di questi giorni? Probabilmente no, ma forse i danni sarebbero stati più contenuti.

Di fronte all’esito disastroso delle scelte della giunta veneta, ora pare che tutti, maggioranza e opposizione, vogliano innestare una rapida marcia indietro, approvando un secondo provvedimento a correzione del precedente. Ma intanto il danno è fatto. E mentre il Veneto vive uno dei momenti più dolorosi della sua storia recente, nessuno è ancora in grado di assicurare se alla fine la manutenzione ordinaria sarà rifinanziata davvero e per intero e soprattutto se saranno attuati gli interventi strutturali di prevenzione su cui a parole nei momenti di emergenza tutti concordano, ma che di solito vengono speditamente riposti nei cassetti appena rispunta il primo raggio di sole.

L’Unione dei Consorzi veneti di bonifica, che con i suoi circa 1.300 dipendenti, in prevalenza operai, è uno dei pochi organismi che fa qualcosa perimpedire il peggio curando come può i 6 mila chilometri di canali della regione, ha calcolato che ci vorrebbero circa 750 milioni di euro per ridare sicurezza agli abitanti. Ma il presidente nazionale dell’associazione, Massimo Gargano, da mesi non riesce neppure ad accennare questi programmi al ministro, Stefania Prestigiacomo, da cui non è stato mai ricevuto. E neppure riesce a discutere con un delegato tecnico, magari un direttore generale.

Al Ministero non esiste più neanche una direzione specifica per la Difesa del suolo, è stata soppressa ed accorpata a quella per l’Inquinamento. Fonti ufficiali dicono che la decisione è stata presa nell’ambito di una riorganizzazione complessiva degli uffici che prevedeva la riduzione delle direzioni da 6 a 5, con l’obiettivo di risparmiare. Di fatto, però, in seguito a queste modifiche, i soggetti che dovrebberoavere scambi ripetuti e continui con gli uffici ministeriali sui temi dell’ambiente non trovano più nessuna porta aperta. La faccenda è tanto più anomala perché capita proprio nel momento in cui almeno sulla carta sarebbero disponibili i primi finanziamenti per gli interventi più urgenti, circa 1 miliardo e 200 milioni di euro dei Fas, i fondi per le aree sottoutilizzate, soldi in parte nazionali, ma soprattutto di provenienza comunitaria, da utilizzare con programmi concordati con le Regioni, i comuni e i Consorzi di bonifica.

Intanto, mentre le prime pioggeautunnali portano lutti e disastri, circolano previsioni da brivido per i prossimi mesi ed anni. Il presidente del Consiglio dei geologi, Antonio De Paola, in un voluminoso rapporto sullo stato del territorio redatto alcune settimane fa in collaborazione con il Cresme, il centro di ricerche economiche per l’edilizia, elaborando i dati Istat ha previsto che da ora al 2020 crescerà in maniera massiccia la popolazione nelle zone ad alto rischio sismico ed idrogeologico, circa 700 mila persone in più, in prevalenza immigrati, e metà si insedieranno proprio nel Nordest.

Alla domanda se l’evento è ineluttabile o se al contrario sarebbepossibile impedire che queste previsioni nefaste si avverino, risponde sconsolato che le leggi ci sarebbero e anche severe, ma nessuno, a cominciare dalla maggioranza dei sindaci, ha la minima intenzione di farle rispettare. Grazie alla disinvolta disattenzione delle autorità locali negli ultimi 15 anni è stato costruito ed asfaltato un pezzo d’Italia grande quanto il Lazio e l’Abruzzo messi insieme. Senza contare la marmellata delle case abusive spalmata su tutto il territorio nazionale.

Nel Veneto sott’acqua affonda il modello leghista

di Ernesto Milanesi

L'autostrada chiusa perché invasa da acqua e fango a Soave. Argini che saltano da Monteforte d'Alpone (Verona) fino a Ponte San Nicolò (Padova). Alluvionato il centro storico di Vicenza con Guido Bertolaso impegnato a schierare l'esercito. Traffico paralizzato fino ai confini con il Friuli e interi quartieri evacuati nella notte in mezza regione. Con il terrore che la vera onda di piena non sia ancora passata.

E' Legaland, letteralmente con l'acqua alla gola. Pioggia battente, vento di scirocco e idrovore in tilt hanno trasformato il «cuore» del Veneto in un immenso lago color melma. Il bilancio, finora, parla di un anziano disperso. Ma ha rischiato grosso il teatro Olimpico di Vicenza; s'è svegliata dentro un incubo la Marca trevigiana che frana; annaspa quasi tutto il Veronese; trema, come nel 2002, Motta di Livenza nel veneziano.

Una catastrofe difficile da spacciare per «naturale». Gli effetti si avvicinano alla Grande Alluvione del 1966, quando il Polesine fu sacrificato per salvare Ferrara. Oggi sono la «città metropolitana» e l'ex «locomotiva» a finire in ginocchio perché è definitivamente saltato il salvagente di scolmatori, consorzi di bonifica, manutenzione degli argini.

La verità è che, nel giorno dei morti, affiorano gli effetti del «sistema Galan» ereditato dal governatore leghista Luca Zaia. Ma anche le conseguenze dissennate dell'urbanistica che nei municipi accomuna berlusconiani, centrosinistra e Lega. Contano più gli «eletti» in combutta con gli immobiliaristi di qualsiasi evidenza da buon padre di famiglia. E' l'alluvione dell'incuria, dell'interesse privato, della politica irresponsabile. Il modello veneto imperniato su Grandi Opere, project financing e sussidiarietà si è tradotto in un folle consumo del territorio a senso unico. Ed esattamente come il crac dell'economia era stato annunciato dai documenti ufficiali degli uffici di Bankitalia in piazza San Marco, anche la catastrofe «naturale» si poteva prevedere studiando un dossier di una trentina di pagine.

Pubblicato da Legambiente nel 2009, si intitola «Veneto: cancellare il paesaggio». Spiegava l'architetto Sergio Lironi: «Nel 2004, con la nuova legge regionale urbanistica, i Comuni autorizzano 38 milioni di metri cubi di nuovi capannoni commerciali e 18 milioni di volumetrie residenziali, superando la media di 40 milioni di nuovi fabbricati realizzati annualmente nel Veneto dal 2001 ad oggi». E Tiziano Tempesta del Dipartimento territorio e sistemi agroforestali dell'Università di Padova contabilizzava: «Le abitazioni costruite dal 2000 al 2004 sono in grado di alloggiare 600 mila nuovi abitanti. Anche se rimanessero costanti i tassi d'incremento demografico alimentati dagli immigrati, ci vorrebbero 15 anni per utilizzare tutte le case».

Insomma, era un mega-villaggio architettato snaturando le fondamenta. E' già un immenso non luogo strangolato dal cemento. Sarà sempre più in balìa della natura violentata da ruspe, gru, betoniere? La politica partorisce quasi esclusivamente suggestioni: dalla candidatura alle Olimpiadi 2020 a nuove autostrade, ospedali, centri congressi fino alla gigantografia di Veneto City, la super-fiera delle vanità nella Riviera del Brenta. Nessuno (nemmeno i sindaci del Pd) si concentra sulla «normale manutenzione» del bene comune che si chiama territorio. Oltre l'indistinta melassa dell'ex miracolo economico, incombe l'urbanistica: l'immobiliare che si fa stato permanente degli affari, con la politica che appalta territorio e futuro. Finora nemmeno la «rivoluzione» della Lega di governo ha dimostrato di arginare la tendenza.

Le statistiche sono agghiaccianti. Proprio l'area centrale collassata in questi giorni rappresenta il 25,7% del territorio e accoglie il 50,7% della popolazione nel 47,2% delle abitazioni (ben 930 mila, di cui 80 mila senza inquilini). Nella sola provincia di Vicenza, feudo della Lega, in 50 anni la «macchia» urbanizzata è aumentata del 342%, con un incremento di popolazione limitato al 32%. Significa che i volumi urbani della città diffusa in ogni angolo sono passati da 8.647 ettari a oltre 28 mila: la cementificazione è quadruplicata.

E nella sola Padova con la giunta di centrosinistra del sindaco Flavio Zanonato si sono trasformati oltre 4,7 milioni di metri quadri di aree destinate a verde pubblico in aree di perequazione, delegando ai privati le nuove lottizzazioni in cambio di spezzatini verdi. Cinque anni fa in Regione sono state protocollate 1.276 varianti urbanistiche (più 220% rispetto alla media degli anni precedenti). Si appoggiavano a 389 piani di riqualificazione urbanistica e ambientale attuati nel biennio 2005-2006: la soluzione più semplice per costruire. Sempre e comunque. Anche a costo di veder tracimare torrenti fin dentro il «salotto» di Vicenza o il castello di Soave. L'autostrada a tre corsie chiusa è l'emblema del Veneto che annaspa. Nella sua stessa melma. E non sarà l'ultima volta...

Un disastro a chilometro zero

di Gianfranco Bettin

«Quando la natura si ribella, accade questo... è un indice di grande cambiamento climatico»: a parlare non è un militante ambientalista ma il governatore del Veneto, Luca Zaia, a commento dell'emergenza meteorologica e idraulica di queste drammatiche ore, da lui definita «peggiore che nel 1966». Paragoni storici a parte, Zaia ha ovviamente ragione: lo spettacolo che il Veneto e l'intero Nordest offrono in queste ore è quello di territori in rovinoso subbuglio, di centri abitati e di comunità sconvolte, in preda a un'emergenza che, puntualmente, si affida a Bertolaso (che svolazza in elicottero sopra città e campagne, planando di prefettura in prefettura) e alla proclamazione richiesta dello stato d'emergenza. Zaia invita ad affrontare i compiti urgenti del momento. E va bene, sul campo. Ma in sede di analisi bisogna dire che emergenza e normalità - ormai, nell'attuale situazione storica, consolidata, strutturale, di questi territori - sono tutt'uno anche quando non piove.

Quando piove, il disastro si vede meglio. Ma anche nei giorni di sole non si faticherebbe a vederlo. È su questo che Zaia si dovrebbe pronunciare. Non c'è in Italia un territorio che sia stato più stravolto di questo in un tempo più breve. Questa è la radice del «dissesto idro-geologico» che in queste ore echeggia di bocca in bocca e ad esso hanno posto mano innumerevoli protagonisti. Infatti, se vi sono catastrofi nate da responsabilità accentrate, come per il Vajont o come per la nascita e lo sviluppo di una Porto Marghera in piena laguna e in pieno centro abitato, per ridurre in questi stati un'intera vasta regione ci sono volute e ancora sono all'opera generazioni di amministratori irresponsabili, ignavi o incoscienti. Se escludiamo i consapevoli criminali che, qua e là, hanno svenduto la loro (la nostra) terra, tutti gli altri, spesso in modo desolantemente trasversale, hanno messo insieme una tale montagna di micro e macro atti, di delibere, di piani urbanistici, di sanatorie, di folli interventi sui corsi d'acqua, di infrastrutture, che sono la vera causa dell'attuale emergenza.

Certo, i cambiamenti climatici concorrono, come no. Era ora che lo dicesse un esponente importante, come Zaia è, dell'attuale maggioranza di governo, la più pervicace di tutto l'Occidente nel negare questa emergenza, guidata dal premier Berlusconi, che più vi ha irriso e meno l'ha affrontata. Ma il modo in cui il clima fuori di sesto si produce in un luogo dipende anche da come quel luogo è conciato. Per i dati Istat, tra 1978 e 1985 ogni anno nel Veneto sono stati edificati quasi 11 milioni di metri cubi di capannoni. Dal 1986 al 1993 sono stati oltre 18 milioni all'anno per poi salire negli anni successivi a oltre 20 milioni. Con un salto dal 2000: 27 milioni nel 2001, 38 nel 2002 e così via. Per le abitazioni, negli anni '80 e '90 venivano rilasciate concessioni edilizie pari a 9-10 milioni di metri cubi anno. Nel 2002 oltre 14, nel 2003 quasi 16, nel 2004 oltre 17.

In provincia di Padova in vent'anni la superficie agraria è diminuita del 20%, in quella di Treviso del 30%, in quella di Vicenza, ieri epicentro dell'emergenza, del 40%. E sopra questo territorio compulsivamente e affaristicamente cementificato e asfaltato, Prealpi e Alpi sono in abbandono, senza una politica che non fosse la droga turistica, aumentando il dissesto evidentissimo, nella sua interdipendenza, proprio in giorni come questi, quando l'acqua precipita irruenta a valle e in pianura.

Questo è il disastro, nella connessione con il clima che muta ma anche con quello che è stato fatto al territorio. Legioni d'amministratori - con i leghisti da tempo in prima fila - portano gravi responsabilità. Qui non c'entrano né Roma ladrona né gli invasori stranieri. È una colpa d.o.c., a chilometro zero.

Il Fatto Quotidiano

Contro le frane bastano 4 miliardi: la stessa cifra destinata al Ponte sullo Stretto

di Ferruccio Sansa,

Massa. Quattro miliardi e duecento milioni di euro. È la somma che, secondo l’Associazione Bonifiche, sarebbe necessaria per risistemare torrenti e rogge, pendii e canali di tutta Italia. Una cifra importante, ma non impossibile per un Paese come il nostro. Denaro che salverebbe migliaia di vite umane. E invece l’Italia preferisce investire altrove: grandi opere, ponti e autostrade di dubbia utilità almeno per i cittadini, ma certo vantaggiosi per le imprese.

Così ecco altre tragedie, lutti cittadini, disastri ambientali: 6 morti nell’ultimo mese in una Toscana fragilissima, ormai in allarme rosso, gli ultimi tre la scorsa notte a Massa, uccisi da una frana (mamma e bimbo abbracciati), un treno deragliato in Liguria, caos nel Veronese (2500 sfollati).

E poi di nuovo tutti avanti a costruire e a maltrattare il territorio. Mentre uomini e donne muoiono. Perché in Italia le frane sono migliaia ogni anno, colpa della conformazione geologica, ma anche della mancanza di cura del territorio: negli ultimi cinquant’anni, secondo i dati dell’Associazione nazionale Bonificheci sono state 470 mila frane, a una media di 9.400 l’anno (783 al mese). Una tragedia continua: a volte i giornali se ne ricordano, altre volte passa tutto sotto silenzio. Così ogni mese, in media, sei vite umane vengono spazzate via da crolli e fango: in mezzo secolo ci sono stati 3.500 morti.

Giampilieri, Serchio, Atrani: Paese fragile

È passato meno di un anno dall’alluvione della Toscana provocata dal lago di Massaciuccoli e dal fiume Serchio e siamo di nuovo da capo. Neppure un mese dal ritrovamento del corpo di Francesca Mansi, 25 anni, a Panarea, trascinata alle Eolie dalle correnti dopo esser stata travolta da una frana ad Atrani, in Costiera amalfitana il 9 settembre scorso. E quanti ricordano ancora il disastro di Giampilieri, in provincia di Messina, dove il 1° ottobre 2009 sono morte 39 persone? Pochi. E in Calabria? Quasi nessuno sa che soltanto a febbraio ci sono state 180 frane e che il 100 per cento dei Comuni della regione sono a rischio idrogeologico, come ricorda la Coldiretti. Intanto a pochi chilometri di distanza cominciano i primi scaviper il faraonico Ponte sullo Stretto voluto dal governo Berlusconi.

Un’opera che rischia – in una zona ad altissima penetrazione mafiosa – di avere ricadute positive solo per le tasche della criminalità organizzata, oltre che per quelle delle imprese che hanno vinto l’appalto. Di sicuro da un punto di vista scenografico (ed elettorale) paga molto di più un ponte lungo 5.300 metri, sorretto da due piloni alti 382 metri. Già, i più alti del mondo, c’è di che gonfiarsi il petto d’orgoglio. Invece, risanare tutti i rivi e i fiumi d’Italia, ridurre drasticamente il rischio delle frane sarebbe un’opera che pochi noterebbero e non porterebbe benefici politici. E pensare che il costo dei due progetti sarebbe quasi uguale: 3 miliardi e 900 milioni (salvo aumenti in corso d’opera) per il Ponte sullo Stretto, appena 300 milioni meno della bonifica del territorio di un intero Paese.

Scandalo Nuova Romea

Le maxi opere volute da centrodestra e centrosinistra costellano l’intera Penisola. Che dire della colossale autostrada Mestre-Orte-Civitavecchia (Nuova Romea)? Qui i miliardi messi in preventivo sono addirittura 10,8. A favore di quest’opera sono scesi in campo tutti. Ma lo sponsor più agguerrito è Pier Luigi Bersani, che è presidente dell’Associazione Nuova Romea. Il 28 ottobre 2008 il segretario del Pd ha presentato un’interrogazione in Parlamento per sollecitare l’avvio del progetto. Un atto che sembra preso con il copia e incolla dal dossier presentato dalla Fondazione Nord-Est di Confindustria (difficile capire chi dei due abbia copiato, però). Bersani, giustamente, ricorda che sulle strade della costa Romagnola il tasso di mortalità è uno dei più alti d’Italia. Quindi la nuovaautostrada sarebbe giustificata anche da ragioni di sicurezza. Ma i cittadini contrari all’autostrada contrattaccano: “Vero – spiega Mattia Donadel, dei Cat, Comitati ambiente e territorio della Riviera del Brenta – l’attuale percorso è pericoloso, ma con 10,8 miliardi si potrebbero risolvere i problemi di sicurezza di tutte le strade d’Italia”. E ricordano altre questioni spinose: i quasi 500 chilometri del percorso taglierebbero sei regioni, toccando – e stravolgendo– zone di pregio ambientale come il Delta del Po, l’Appennino tra le Marche e la Toscana (a due passi dalla Valmarecchia di Tonino Guerra o da Sansepolcro), poi la campagna umbra e quella del Lazio.

E intanto, continuano i comitati, “sulla realizzazione dell’opera si concentrano gli obiettivi di persone come Vito Bonsignore”, politico in orbita berlusconiana, che, però, non disdegna contatti con i leader del centrosinistra. Chi non ricorda la celebre telefonata nel bel mezzo del ciclone Antonveneta-Unipol del 2005: “Ho parlato con Bonsignore… evidentemente è interessato a latere in un tavolo politico”, disse D’Alema. Basta? Nemmeno per sogno: il governatore Roberto Formigoni è un sostenitore accanito dei progetti che porterebbero oltre 400chilometri di nuove autostrade in Lombardia. Milano ha bisogno di decongestionare il traffico, ma, come ricorda Legambiente, rispetto alle altre metropoli europee mancano metropolitane e ferrovie. Non certo autostrade e inquinamento. E invece via con l’asfalto in Lombardia, su cui aveva messo gli occhi anche la Cricca (come dimostrano le carte dell’inchiesta P3).

L’autostrada Spaccamaremma

Il caso della Livorno-Civitavecchia è simbolo di tutto questo. Sponsor numero uno: Altero Matteoli, ministro delle Infrastrutture e sindaco di Orbetello. L’autostrada che taglierà la Maremma sarà realizzata dalla Sat (che fa riferimento a Benetton). Presidente del cda Antonio Bargone, ex deputato dalemiano nominato anche commissario governativo per la realizzazione dell’opera. Costo previsto: 3,7 miliardi, a carico dei privati, ma poi lo Stato dovrà pagare la stessa somma per rientrare in possesso dell’opera. Appena 500 milioni in meno di quanto servirebbe per salvare tutta l’Italia dalle frane. Per evitare tragedie come quelle di ieri a Massa.

la Repubblica online

Meglio il Ponte o la Sicurezza

di Antonio Cianciullo

Ancora vittime di frana. Quante ce ne vorranno ancora per ridurre il rischio al livello minimo? Secondo una ricerca appena completata dal Cresme e dal Consiglio nazionale dei geologi i Comuni a elevato rischio sismico sono 3.069, per un’estensione di 140 mila chilometri quadrati, pari al 46 per cento del territorio italiano. In questi Comuni risiede il 40 per cento della popolazione. Inoltre 6 milioni di persone abitano nei 29.500 chilometri quadrati del nostro territorio considerato a elevato rischio idrogeologico. E un milione e 260 mila edifici sono minacciati da frane e alluvioni ( di questi oltre 6 mila sono scuole, 531 ospedali).

Tutto ciò ci è già costato caro: dal dopoguerra a oggi abbiamo speso 213 miliardi di euro per riparare le ferite del dissesto idrogeologico e dei terremoti. Ora si potrebbe invertire la rotta e cominciare a investire per curare il territorio invece che per incerottarlo. Ma per mettere in sicurezza le aree a rischio ci vorrebbero 40 miliardi e i soldi per la prevenzione vengono progressivamente tagliati, mentre i fondi per rimediare ai danni continuano – di conseguenza – crescere. I Verdi e le associazioni ambientaliste propongono una ricetta semplice: spostare le risorse che il governo intende investire sul Ponte sullo Stretto indirizzandole alla difesa del territorio dal punto di vista idrogeologico utilizzando tecniche di rinaturalizzazione che oltretutto aumentano i posti di lavoro. Perché non farlo?

Caserme e periferie, vince il cemento

Paolo Boccacci, Giovanna Vitale

È finita con l’occupazione della Sala del Carroccio da parte dei movimenti per il diritto all’abitare la maratona notturna in consiglio comunale che ieri, intorno alle due, ha varato con i soli voti del Pdl la delibera di vendita e valorizzazione di 15 caserme dismesse. L’opposizione ha deciso alla fine per il no «principalmente per due motivi», spiega il capogruppo del Pd Umberto Marroni: «Perché questa operazione è viziata sul nascere dall’unico obiettivo di fare cassa, quindi è a rischio speculazione, e per l’inspiegabile bocciatura, da parte di una maggioranza confusa, dell’emendamento relativo al contributo straordinario da affiancare agli oneri concessori a carico dei privati che acquisiranno e trasformeranno gli edifici militari».

E poi nella serata ieri un altro colpo di scena in tema urbanistico. L’assessore Corsini annuncia di aver dato mandato agli uffici, con una memoria di giunta, di aumentare, fino a raddoppiarle, le cubature previste nelle otto Centralità ancora da pianificare, tra cui La Storta, Romanina, Acilia Madonnetta, Ponte Mammolo e Torre Spaccata. «Bisogna dare l’opportunità di costruire di più ai privati - afferma Corsini - perché possano finanziare le infrastrutture primarie, come strade e collegamenti con le metropolitane. Per questo si tratterà di densificare quanto possibile quelle aree». E si tratterà di milioni di metri cubi in più nella periferia romana.

Tornando invece al voto sulle caserme, sono stati accolti tutta una serie di correttivi che hanno sterilizzato gli effetti più negativi del testo originario: intanto sarà destinata a servizi pubblici una quota fissa del 20% della superficie complessiva (prima poteva oscillare tra il 10 e il 20); di questo 20%, su proposta del consigliere di Action Andrea Alzetta, il 25% andrà all’edilizia popolare; i piani di assetto, quelli cioè deputati a stabilire nel dettaglio cosa verrà realizzato al posto o dentro ciascun immobile (case di lusso, alberghi, negozi, strutture ricettive, ricreative, parcheggi), dovranno essere approvati uno per uno dall’aula Giulio Cesare, che così potrà valutare l´impatto dei singoli interventi. Da arginare anche grazie al meccanismo della compensazione, in principio non contemplato, ovvero la possibilità di rilocalizzare altrove le volumetrie da realizzare a seguito della verifica della sostenibilità urbanistica sul territorio.

Modifiche non da poco, almeno a giudicare dall’ubicazione dei fortini in disuso, per lo più disseminati in quartieri centrali o strategici, già appesantiti dal traffico. Basta dare una scorsa all’elenco, dove tra gli altri compaiono il Deposito materiali elettrici all’inizio di via Flaminia e lo Stabilimento trasmissioni in viale Angelico, la Direzione Magazzini Commissariato in via del Porto Fluviale (Ostiense) e la Caserma Medici in via Sforza, per non parlare della Nazario Sauro di via Lepanto e della Reale Equipaggi di via Sant’Andrea delle Fratte.

L’entità della manovra è tutta contenuta nelle cifre della delibera che vale come variante urbanistica al Prg e consente la vendita ai privati con relativo cambio di destinazione d’uso: operazione utile al Campidoglio per ottenere i 600 milioni pattuiti col governo per pagare la rata del piano di rientro. I 15 edifici militari, che confluiranno in un fondo immobiliare della Difesa, coprono una superficie totale di 82 ettari per oltre un milione e mezzo di metri cubi, pari a 500mila metri quadrati. Di questi, almeno il 30% andrà in residenziale; un altro 30 ad esercizi commerciali, turistico-ricettivi e varie attività private; l’ultimo 30 riguarda invece la cosiddetta parte variabile, il 20% della quale destinata a servizi comunali (asili nido, biblioteche, parchi, sportelli municipali) oltre che all´edilizia sociale. Quota, quest’ultima, che secondo i calcoli di Alzetta permetterà di ricavare circa 600 case popolari.

A ogni modo, al netto dei miglioramenti, per le opposizioni l’operazione resta «uno scandalo: espropria la città dei suoi beni e favorisce i soliti noti, abbandonando interi quartieri nell’invivibilità» tuona il coordinatore dell’Fds, Fabio Nobile. «Ieri il Campidoglio è stato trasformato in un’agenzia immobiliare solo per consentire al ministro Tremonti di fare cassa» attacca il consigliere pd Massimiliano Valeriani. «La capitale paga le bugie della destra» sbotta Alzetta: «Invece di utilizzare questo patrimonio per i cittadini Alemanno usa Roma come una banca». Una bufera per placare la quale è intervenuto il sindaco in persona: «Non saranno fatte colate di cemento, le caserme dismesse verranno utilizzate anche per funzioni abitative», garantisce Alemanno dopo aver esultato per il «grande risultato: un atto necessario non solo dal punto di vista economico ma anche urbanistico».

Destinazioni assurde

Intervista di Paolo Boccacci a Italo Insolera

«Quelle caserme da trasformare in case che sono nel cuore del centro, come in via delle Fratte, mi sembrano tutte con destinazioni assurde. Potrebbero avere al massimo funzioni di modeste dimensioni legate all´artigianato. In ambienti edilizi storici mi pare molto difficile poter cambiare radicalmente quelle che sono delle funzioni ormai consolidate».

Italo Insolera, il massimo studioso dell’Urbanistica romana, illumina un punto debole nella delibera approvata nella notte in Consiglio.

In Centro vieterebbe anche le destinazioni commerciali?

«Se per commerciale intendiamo dei piccoli negozi per l’artigianato, probabilmente questo rientra nell´organizzazione storica degli spazi nell´area centrale della città, se invece pensiamo ai supermercati o alle grandi griffe allora il contributo alla trasformazione sbagliata del centro può essere davvero deleterio».

Altre caserme da trasformare in abitazioni, negozi, case popolari e servizi pubblici sono nei quartieri storici, come ad esempio Prati. Che fare qui?

«Per questa parte di Roma ci sono delle funzioni, per esempio scolastiche, che vanno benissimo. Va bene ciò che eleva il livello sociale e culturale del quartiere».

E le case?

«Mah, queste sono zone per cui vigono il piano regolatore generale e i piani particolareggiati. Se le caserme cessano di avere funzioni militari va benissimo, figuriamoci, ma quelle che le devono sostituire dovrebbero essere culturali. Ci terrei a sottolineare l´esempio dell´università Roma Tre che è andata distribuendo i suoi spazi in vari edifici del quartiere Ostiense ed è diventata una struttura essenziale che impreziosisce la zona».

Un esempio per tutta la città?

«Se la nuova destinazione delle caserme può servire a questo in tutta Roma ben venga, ma che sia principalmente culturale».

Invece nella delibera si parla tra l´altro di un impiego per il 30% commerciale, per un altro 30% a residenze private, per un 15% servizi pubblici e un 5% case popolari.

«Queste percentuali non hanno senso, soprattutto perché quello che conta è la rivalutazione culturale di una città come Roma, dove leggiamo tutti i giorni che le università e le scuole non hanno spazi sufficienti. Questa è la grande prima necessità».

Nelle caserme ad Est, Tiburtina e Casilina?

«In quella zona dai primi studi del piano regolatore del 1950 si ripete continuamente che le iniziative devono servire a bonificare le vecchie borgate. Anche lì si faccia un piano sociale ed economico di tutta l´area e alle esigenze che verranno fuori sarà possibile venire incontro grazie alle caserme dismesse».

E a Boccea e al Trullo?

«Qui sono validi i discorsi sull´incremento delle destinazioni residenziali pubbliche e private, perché sono zone di espansione più vaste e si può fare un piano».

L’operazione caserme con la vendita ai privati serve al Campidoglio per fare cassa.

«Questo è un procedimento perverso, perché si dovrebbe volere che la maggior parte di queste iniziative restino al Comune e siano gestite dal Comune stesso».

caro direttore, l’intensa attività edilizia degli ultimi anni ha peggiorato la qualità della vita a Milano. Inquinamento dell’aria, scarsità di verde, mancanza di adeguati spazi pubblici, carenze nel trasporto pubblico e ridotta integrazione sociale sono sotto gli occhi di tutti. Ciò nonostante, il Pgt adottato a luglio rinuncia a governare le future trasformazioni, anzi: afferma di «non voler essere un piano». Non stupisce dunque la vaghezza delle previsioni insediative, l’assenza di una prospettiva metropolitana, il disimpegno rispetto ai grandi interventi in corso (molti dei quali in difficoltà) o l’evanescente regia sulle nuove e cospicue trasformazioni messe in campo.

Né stupisce l’ossessiva volontà di cancellare ogni «vincolo»: in un sol colpo, vengono abbattuti i limiti massimi di edificazione, il controllo morfologico e tipologico, la dotazione minima di standard e le destinazioni d’uso. Tutto questo furore innovativo, per ottenere che cosa? È semplice da intuire. Prima però bisogna superare la retorica liberista che ammanta il Pgt e la mistificazione che lo puntella, e che narra di raggi verdi e di suolo «liberato» e, più ancora, di 5 nuove linee metropolitane, del prolungamento delle 3 linee esistenti e del secondo Passante ferroviario. Opere che dipendono quasi integralmente da finanziamenti nazionali (indisponibili) o da un nebuloso project financing (nel caso del tunnel stradale ambiguamente congelato). Accantonati i falsi miti, rimangono i veri obiettivi del Pgt. Che sono tre.

Primo: un’ulteriore densificazione volumetrica della parte centrale della città, che è già tra le più dense al mondo, una vera e propria «città di pietra». Secondo: la generazione di nuovi diritti volumetrici attraverso un meccanismo di perequazione che finirà per penalizzare sia le aree di origine (il Parco Sud), sia quelle di destinazione (come gli scali ferroviari, le caserme, San Vittore o la Bovisa). Alle prime vengono attribuite volumetrie non necessarie, non essendoci alcun progetto dopo l’eventuale acquisizione al demanio pubblico. Sulle seconde vengono recapitati oltre 10 milioni di metri quadrati di nuova superficie: una quantità abnorme, se si pensa che a Milano negli ultimi 15 anni si sono programmati e costruiti tra i 5 e i 6 milioni di metri quadrati e che nella città esistente il nuovo Pgt mette in gioco altri 30 milioni di metri quadrati, indifferenti alla storia dei tessuti urbani e alle esigenze dei cittadini. Sulla regolazione di questi nuovi diritti non si è deciso nulla, se non che verranno gestiti da un’imprecisata «borsa». Di certo, convertiti in strumenti finanziari, miglioreranno le condizioni patrimoniali di pochissimi soggetti, ma graveranno per decenni sulla città e sul suo opaco mercato immobiliare, condizionando ogni prospettiva di ordinato sviluppo urbanistico.

Terzo: la pratica dei Pii, che ha portato alle note vicende di Santa Giulia, Citylife o Garibaldi-Repubblica, assurge a regola generale. Il nuovo Pgt attribuisce all’amministrazione il compito di negoziare con i privati, caso per caso, l’attuazione delle trasformazioni. Il negoziato si svolgerà però «senza rete», perché non sono stati fissati i requisiti minimi di convivenza urbanistica, a partire dalla manutenzione della città pubblica esistente. Non solo: in nome della sussidiarietà orizzontale, il Pgt stabilisce dettagliate modalità di accreditamento per i soggetti privati che erogano servizi di interesse pubblico, ai quali attribuisce anche crediti volumetrici. Dunque, invece di tutelare i servizi pubblici che arrancano, l’amministrazione si attribuisce il compito (improprio) di selezionare l’ingresso degli operatori sul mercato e di determinare le condizioni per l’esercizio dell’attività di impresa. Altro che liberismo.

Fino a metà novembre è possibile proporre osservazioni al Pgt. Non crediamo che, se sarà approvato, il Pgt sarà molto diverso da quello adottato a luglio. Vogliamo però dire che cosa, per noi, è irrinunciabile: definire chiare regole di scambio pubblico-privato; programmare le trasformazioni nel tempo, associandole a un progetto infrastrutturale e sociale fattibile, precisando l’offerta di servizi pubblici; «rimettere in circolo» le volumetrie inutilizzate, rendendo più aderenti al mercato le previsioni di nuova edificazione; annullare i diritti edificatori nelle aree del Parco Sud; ripristinare un progetto sugli usi e sulle densità; focalizzare le poche risorse disponibili sull’edilizia sociale da destinare all’affitto. È la nostra proposta per restituire senso, utilità e dignità al Pgt di Milano.

Andrea Arcidiacono, Paolo Galuzzi, Laura Pogliani, Giorgio Vitillo (Politecnico di Milano), Stefano Pareglio (Università Cattolica del Sacro Cuore)

Per capire il meccanismo del nuovo Pgt, bisogna partire da un triangolo ai confini con la città. Tra capannoni abbandonati, il campo rom di Triboniano come "vicino", i primi cantieri a disegnare quello che potrebbe essere lo skyline futuro. È questa l’area che, nella mappa dei 26 nuovi quartieri, ha ottenuto l’indice volumetrico più elevato. Una terra di nessuno, via Stephenson. Su cui però il Comune punta. E che dovrà rinascere grazie a una foresta di 50 grattacieli che, nelle intenzioni di Palazzo Marino, dovranno accogliere una novella Défense.

«Un rospo - ha definito via Stephenson l’assessore Carlo Masseroli - che potrebbe diventare un principe se sarà baciato dalla principessa Pgt». Perché lì accanto dovranno sorgere i padiglioni di Expo, portandosi dietro infrastrutture e investimenti. E lì il Comune ha grandi ambizioni. Anche Salvatore Ligresti, che è uno dei proprietari, pensa che quello di Parigi sia un modello: «Sviluppare poli esterni, come alla Défense o come all’Eur - ragiona il costruttore - è utile per snellire il traffico e sviluppare centri direzionali all’esterno». Anche se sulla possibilità di trasferire quel «simbolo» in via Stephenson è dubbioso: «È un grosso rischio». Affari, certo: anche questo è il Pgt. E, non a caso, per attirare l’interesse degli immobiliaristi Palazzo Marino permette di concentrare una gran quantità di costruzioni in via Stephenson: in tutto 1,2 milioni di metri quadrati, quasi 800mila in più di quanto "varrebbe" l’area, grazie agli acquisti al mercato delle volumetrie.

Il libro mastro dell’urbanistica dei prossimi vent’anni sarà proprio il "registro delle volumetrie": in quelle pagine verranno annotati tutti gli spostamenti di diritti a costruire che si potranno scambiare come in Borsa. Compresi quelli che "genererà" il Parco Sud, dove non si potrà cementificare. È il meccanismo che metterà in moto il Piano. A cominciare da quei 26 nuovi quartieri che nasceranno al posto di binari e caserme. Perché non è tutta uguale, Milano: non quella che punta a 490mila abitanti in più. Non in questo Pgt che divide la città in 88 piccole zone e trasforma oltre 7 milioni di metri quadrati (8 se si considera anche l’area Expo) su cui caleranno quasi 6 milioni di costruzioni.

Ancora troppi per il centrosinistra, nonostante la mappa sia uscita modificata da otto mesi di dibattito in consiglio comunale che hanno, ricorda l’opposizione, «ridotto il cemento, raddoppiato il verde e fissato per ogni zona una quota minima di housing sociale». Il Pd ha pesato l’impatto con un’unità di misura: il grattacielo Pirelli, con i suoi 127 metri di altezza. Il conto: quei milioni di costruzioni, solo nelle zone più dense, equivalgono a 161 Pirelloni. Ma per una via Stephenson di giganti ci saranno altri perimetri da destinare a verde o a spazio pubblico come la stazione di San Cristoforo o dove - come allo scalo di Greco - le volumetrie calano rispetto a quelle sulla carta. Per lo scalo Farini, invece, il modello è Manhattan: un Central Park che occupa il 60 per cento dell’area e tanti grattacieli equivalenti a 19 Pirelloni.

Non tutte le aree cresceranno in egual modo. C’è una regola base nel Pgt che cancella le destinazioni d’uso: saranno le esigenze della città a determinare cosa sorgerà in una zona. In generale, la metropoli avrà uno stesso indice di base: 0,50 metri quadrati edificabili su ogni metro quadrato (molti piani di intervento oggi si aggirano su 0,65; a Citylife si è superato l’1). Vicino a stazioni del metrò o ferrovie, però, si dovrà partire da un indice 1, spostando la differenza anche con l’acquisto in "borsa". E poi ci sono i 26 appezzamenti di proprietà soprattutto delle Ferrovie, del Demanio o del Comune (ma anche di privati, come via Stephenson; a Bovisa e Cascina Merlata "comanda" EuroMilano), ognuna con possibilità di crescita differenti. Per costruire senza consumare altro suolo, nelle intenzioni del "padre" del Piano, Carlo Masseroli. Per lui il Pgt darà la possibilità di sviluppare la città unendo servizi, parchi, spazi pubblici. Tutto con «regia comunale». Ma è proprio la capacità dell’amministrazione di governare le regole e la trasformazione una delle incognite. Insieme ai soldi pubblici (7,7 miliardi) che mancano per aumentare trasporti e servizi.

Sfruttare al massimo le concessioni, però, secondo il responsabile scientifico del Pgt, l’architetto Andrea Boschetti, è una possibilità che costerà: «E chi costruirà di più dovrà garantire più servizi». Tra le aree in cui si potranno condensare più edifici c’è la piazza D’Armi della Perrucchetti: con metà superficie riservata a verde, i Pirelloni potrebbero essere 27. A Porta Genova si potrà puntare su spazi per atelier e design, alla Bovisa su una cittadella della scienza e della tecnologia. E, sempre a proposito di cittadelle, a Porto di Mare dovrebbe sorgere quella della giustizia, ma il Tribunale non è più a rischio trasloco e anche San Vittore sembra destinato a rimanere dov’è. Il resto lo faranno, come sempre, il tempo e il mercato.

Un sito che raccoglie i progetti collaterali all'evento Expo per «contribuire a realizzare un'esposizione universale diffusa e sostenibile». Questa piattaforma di «partecipazione online» è la proposta del dipartimento di Architettura del Politecnico che ha attivato il sito www.eds.dpa.polimi.it , accessibile da ieri, su cui già sono presenti proposte e ipotesi di lavoro. La creazione di «greenway ciclabili» e il recupero di aziende o luoghi dismessi in tutta la Lombardia, da Bergamo a Varese; ma anche la nascita di cinture agricole e la valorizzazione di Ville poco conosciute e visitate.

Dalla mobilità all’energia, dall’agricoltura allo sviluppo sociale, le proposte arrivano direttamente dalle associazioni e dalle istituzioni che li stanno definendo, secondo la logica della «partecipazione dal basso». «Non è un progetto che si contrappone a quello ufficiale— ha spiegato il professor Emilio Battisti, ordinario di Composizione Architettonica, che ha ideato l’iniziativa — e la logica è quella dell'integrazione.

L'obiettivo è dare la possibilità a quanti arriveranno a Milano in occasione dell'Expo di conoscere il territorio e le sue potenzialità in maniera diffusa, senza fossilizzarsi unicamente sul sito espositivo». L’iniziativa, che è cofinanziata dal Politecnico e dalla Fondazione Cariplo, è curata da un gruppo di giovani laureati che hanno ricevuto un assegno di ricerca per sei mesi. Il progetto si conclude entro dicembre: è già cominciata la ricerca di risorse e contributi per proseguire il lavoro il prossimo anno.

«Non parlo da tecnico, ma da cittadino a cittadino»: così diceva il grande architetto Giovanni Michelucci. Che lingua parla il Pgt di Milano nelle sue mille e passa pagine scaricabili (a fatica) da internet? Se potessimo chiedere, non all’Accademia della Crusca, ma ai 60.387.000 residenti in Italia cosa significa «evasione della spesa», ci risponderebbe, credo, solo chi l’ha scritto. E che direbbe un cittadino qualunque nel leggere che «il pendolarismo in entrata a Milano è cresciuto di circa 300.000 auto al giorno»? E i demografi di fronte a un’espressione come una «classica crescita demografica»? E che reazione avrebbe uno studente liceale minimamente attrezzato di fronte all’affermazione che il Pgt non intende rinunciare «ai caratteri di genericità e flessibilità propri di un piano strategico per una grande area»? Se genericità è rivelatore del vuoto di idee, lo scambio fra generico e generale che ricorre in un altro passo è indicativo di quale considerazione venga riservata all’interesse generale.

Il cittadino che ha che vedere con la scarsità di posti nell’asilo nido potrà essere rassicurato nell’apprendere che il Piano dei Servizi è «inteso come mediascape»? Dormirà tra due guanciali nel sapere che il Pgt della sua città intende far fronte al «fabbisogno edificatorio» e non, per esempio, al fabbisogno abitativo? Ancora una volta un lapsus freudiano.

Si obbietterà che a parlare in un Pgt sono soprattutto le immagini. Si veda allora, a pagina 37, l’Ipotesi di studio per il riutilizzo della tangenziale est. Partendo dall’assunto (illusorio) che la nuova tangenziale esterna Est-est potrà scaricare il traffico di quella attuale, si ipotizza che questa si trasformi in una sorta di boulevard a cui ancorare otto enormi grattacieli. Otto leccornie per immaginari assessorili.

Roma, mega progetto intorno al circuito dell´Eur: grattacieli al posto delle aree verdi - Italia Nostra: i terreni ceduti ai privati in cambio delle infrastrutture del Gran Premio

ROMA - Il cemento ha il colore di una fotografia di quello che sarà. Due alti palazzi gemelli da una parte e dall´altra all´altra del verde delle Tre Fontane, davanti ai bianchi marmi dell´Eur, dove adesso si stagliano il rosso dei campi da tennis e delle piste di atletica e il verde di quelli da basket. Ognuno sarà un piccolo grattacielo, ben quindici piani fuori terra che si allungano in altri sette piani accanto, a forma di una L, e tutti e due ospiteranno appartamenti di lusso, uffici e negozi, messi in vendita per lanciare e realizzare il Gran Premio di Roma e far sfrecciare nell´estate del 2013 i bolidi della Formula Uno nel quartiere.

Il progetto è stato presentato all´inizio di agosto in grandi cartelle rosse e bianche nelle stanze che contano del Campidoglio e adesso aspetta il via libera della conferenza dei servizi, convocata per il 9 novembre, e poi del consiglio comunale. I due palazzi del comprensorio si chiamano con nomi poetici, Porta dei Pini e Porta delle Tre Fontane. Ma sono 80 mila metri cubi che si abbatterebbero su uno degli angoli storici destinati a verde attrezzato del quartiere, quelli dove dagli anni Sessanta intere generazioni di ragazzi, con le loro magliette bianche e le scarpette da ginnastica, hanno cominciato a correre sulle piste, a giocare a tennis e a pallacanestro.

Così scendono in campo le associazioni dei cittadini del quartiere (Comitato Salute Ambiente Eur, Coordinamento Comitati e Cittadini per la Difesa dell´Eur, Coordinamento No Alla Formula Uno e La Vita degli Altri Onlus) e Italia Nostra, con un dossier dal titolo "Le mani sull´Eur" e un appello al sindaco Alemanno, ma anche ai ministri dei Beni Culturali, Sandro Bondi , e dell´Ambiente, Stefania Prestigiacomo, e al premier Silvio Berlusconi. «Ribadiamo» scrivono «la nostra estrema preoccupazione riguardo un progetto che sembra aver preso forma parallelamente alla concezione di Roma Capitale, dimostrando finalità e modi privatistici, troppo lontani dall´interesse pubblico. Un´impresa che si è avvalsa, finora, di modalità di comunicazione a nostro avviso poco chiare, basate sui più agili metodi dell´imprenditoria privata, quando l´oggetto in discussione sono un quartiere storico, gioiello del Razionalismo, e il benessere di migliaia di cittadini»

I nuovi edifici, che si aggiungerebbero ai 150 mila metri cubi da costruire nell´ex Velodromo, spazzeranno via all´inizio tutte le strutture sportive delle Tre Fontane che sarebbero rase al suolo per far posto ai cantieri e poi ricostruite nello spazio rimanente.

Frutto dell´operazione sarebbero quei cento milioni che servono a Roma Formula Futuro capitanata dal presidente degli industriali della Federlazio Maurizio Flammini, ex pilota e patron della macchina organizzativa del Gran Premio romano, per approntare le opere necessarie a far sfrecciare i bolidi per le strade dell´Eur.

Un progetto per il quale la contropartita per la città consisterebbe nel nuovo ponte su via delle Tre Fontane, nella ristrutturazione di via delle Tre Fontane, trasformata in un boulevard, e la recinzione dei parchi dell´Eur, da quello degli Eucalipti a quello del Ninfeo all´altro del Turismo.

E la variante al piano regolatore, con relativo accordo di programma, che dovrebbe dar vita al comprensorio, sarebbe ricavata mettendo a disposizione di privati una parte di suolo pubblico destinata originariamente a verde e a servizi di livello locale come "paesaggio naturale di continuità" che collega la valle del Tevere al parco di Tormarancia. Insomma Ente Eur e Comune regalerebbero i terreni alla società costruttrice in cambio di altre opere necessarie per il Gran Premio. «Un´operazione ridicola» attacca il consigliere del Pd Athos De Luca, uno degli storici difensori del verde della Capitale «se si pensa che gli edifici dovrebbero ospitare alla fine solo 720 abitanti e trecento addetti degli uffici».

Altro discorso l´allargamento del ponte delle Tre Fontane per far passare sotto il circuito, un´opera da 26 milioni di euro. E quale sarà l´impatto con almeno centomila spettatori? Basteranno i parcheggi in un´area di tre-cinque chilometri intorno al circuito? Infine è di pochi giorni fa l´ennesima bagarre sul fronte del contestatissimo Gran Premio all´Eur. «Non c´è alcun contratto con Roma», rivela Bernie Ecclestone dal circuito coreano di Yeongam. E il sindaco Gianni Alemanno precisa: «La disponibilità di Ecclestone è certa, la proposta deve passare in Consiglio». Ma davanti ora c´è il grande scoglio della colata di cemento sull´Eur.

Intervista

Della Seta: blitz dei palazzinari

sembra un remake degli anni ´50

ROMA - «La cosa più pericolosa è che chi vuole organizzare il Gran Premio a Roma se lo paga con aree regalate che, per effetto della variante, diventerebbero d´oro. Questo è il vero business».

Roberto Della Seta, ex presidente di Legambiente e senatore Pd, attacca il progetto della F1.

Che cosa succederà all´Eur?

«È un quartiere con un equilibrio e una funzionalità complessiva e non c´è alcun bisogno di piazzarci in mezzo questa specie di astronave di cemento. Deve intervenire il ministro Bondi. Tra l´altro il meccanismo è la prova più evidente che il Gp di F1 a Roma di per sé non è un affare».

Il sindaco Alemanno parla di un indotto di un miliardo.

«Ma l´investitore, che fa il suo mestiere, è il primo a dire che queste cubature servono a compensare una parte delle spese».

E il Comune?

«Il fatto grave è che il Comune si faccia promotore di un uso privatistico delle sue funzioni pubbliche. Da questo punto di vista sembra di essere tornati agli anni ‘50 e ‘60 quando la politica urbanistica della Capitale la facevano i palazzinari».

Gli abitanti protestano anche per il rumore.

«Non esistono esempi di città storicamente complesse come Roma che ospitino una gara del genere. E, per quanto riguarda il rumore, vicino al circuito c´è l´ospedale Sant´Eugenio, i cui pazienti in agosto non vanno in vacanza».

«Benvenuti a ’ndranghetello», ironizza un blog di cittadini impegnati.

Sapendo che c’è poco da ridere lungo l’alzaia placida del Naviglio, nel tratto stretto che corre da Pavia alla Certosa: Borgarello è ormai la capitale silenziosa della mafia in Lombardia. È, più ancora di Buccinasco, la Platì del Nord. Nel 1991 era la mini Versailles di Diego Dalla Palma, il visagista delle dive. Il Re del mascara viveva a villa Mezzabarba, tutto intorno campagna e pioppeti. Pochissime case, nemmeno mille abitanti. E’ nell’ultimo decennio che la popolazione esplode a 2.700 anime. Nel mezzo un boom edilizio spettacolare, case su case, cemento & betoniere. Villette a schiera in mattoncini rossi e nuovi quartieri che sfungano per milanesi che scappano dalla metropoli, come il Santa Teresa vicino a via Berlinguer. Adesso la giunta «Rialzati Borgarello», eletta nel giugno 2009 e appoggiata da Pdl e Lega, vorrebbe replicare a Porto d’agosto, lungo la statale. Se non verrà sciolta prima, però, come un comunello infiltrato della Locride.

L’ultima retata è scattata giovedì. In manette finiscono il sindaco Giovanni Valdes, Alfredo Introini, ex vice direttore della Bcc di Binasco, e l’imprenditore Salvatore Paolillo. Gli arresti sono la coda della maxi retata di luglio, filone Carlo Chiriaco, l’ormai ex potentissimo direttore dell’Asl di Pavia, accusato di essere il referente locale delle ‘ndrine calabresi. Secondo i Pm il sindaco avrebbe truccato l’asta di un lotto edilizio per favorire la Pfp, una società immobiliare della costellazione Chiriaco, per gli inquirenti già collettore di voti per il «Faraone» Giancarlo Abelli, da anni uno dei ras della sanità lombarda e padrino politico dell’attuale sindaco di Pavia. Un ritratto d’insieme che si ritrova a Borgarello, dove il ciellino Valdes in campagna elettorale può vantare come madrina di eccezione proprio la signora Abelli, Rosanna Gariboldi, finita in carcere per riciclaggio e poi uscita dietro patteggiamento per la vicenda delle bonifiche di Santa Giulia. Il link con Chiriaco è quello sanitario. Il sindaco-costruttore siede anche nel cda dell’Ospedale pavese Mondino.

In realtà Valdes è indagato da luglio. A Borgarello doveva arrivare il commissario ma poi il sindaco ci ripensa e ritira le dimissioni. In paese si dice perché ricattato da qualche pesce grande. Non a caso la prima cosa che fa è riprendere in mano l’iter del futuro centro commerciale «Factoria», con tanto di mega albergo da 43 piani(!): un piano di lottizzazione dietro cui si agitano fantasmi malavitosi.

Insomma che succede nel Pavese? Blogger e attivisti come Giovanni Giovannetti e Irene Campari si sgolano da anni, denunciano infiltrazioni (dai Barbaro ai Mazzaferro). Ma le istituzioni fanno pigramente spallucce. Dietro ogni arresto non si vuol vedere il mosaico criminale. A Borgarello la sequenza è impressionante. Villettopoli che nascono all’improvviso; l’arresto di un assessore comunale (Luigi Perotta) accusato di riciclaggio; la Dia che mette agli arresti una intera famiglia (i crotonesi Vittimberga), nientemeno che armieri della ‘ndrangheta, a cui Valdes fa costruire la prima opera pubblica del suo mandato; lo scandalo Chiriaco e l’arresto di un costruttore locale (Francesco Bertucca), papà dell’assessore comunale Antonio. Fino all’iscrizione nel registro degli indagati del cugino di Chiriaco, il costruttore residente Morabito, e l’altro giorno la vicenda del sindaco.

Tutto in pochi mesi vissuti pericolosamente. Filo conduttore: l’edilizia in un paesino alle porte di Pavia. Ovvio che la gente sia incredula. Qui tutti conoscono tutti. «Il sindaco legge in chiesa», mette la mano sul fuoco il prete del paese, don Zambuto. «Certo gli ha rifatto l’oratorio», maligna l’opposizione. La stessa Lega è in difficoltà dopo l’affaire Ciocca, il consigliere regionale fotografato con boss di ’ndrangheta durante la campagna elettorale. La segreteria provinciale ha subito sospeso i tre esponenti locali, troppo morbidi con un sindaco già indagato.

Si scappa da Milano e dallo smog, si compra la villetta nel verde e poi si scopre che quelle case le hanno costruite imprese colluse coi calabresi. Paradossale. O forse no, allargando lo sguardo su una provincia tagliata da Po e Ticino che al ponte della Becca si abbracciano. Sospesa tra il porto di Genova e l’aeroporto di Malpensa. Vicina a Milano ma lontana abbastanza per dare nell’occhio. Un provincia discreta un po’ dormitorio (30 mila pavesi lavorano sotto il Duomo) e un po’ impiego pubblico al polo sanitario dove spadroneggiava Chiriaco.

Ma soprattutto una provincia senza più industrie (Necchi, Snia, Neca, Marelli sono aree dismesse che fanno gola alla speculazione), immersa in una bolla immobiliare ben oltre la domanda di residenza e di terziario dove domina la rendita fondiaria (la borghesia locale ha sempre case da affittare agli universitari) e la densità bancaria (61 sportelli in città) è sproporzionata al tasso d’impresa.

Il Bengodi per chi vuol fare affari sporchi e riciclare, in mezzo ad una società impreparata a combattere il rumore di carnefici invisibili.

postilla

Correva il lontano anno 2003 o giù di lì, eddyburg.it muoveva i primi passettini, e iniziava a proporre qualche "corrispondenza locale", come quella che il Direttore chiese al sottoscritto, su un caso segnalato anche da RadioRai, relativo a un grande centro commerciale. I soliti "nimbies" pensavo, o al massimo un po' di scandalo in più, e invece davvero valeva la pena di guardare meglio, in quell'intreccio fra dimensione locale e interessi esterni. La corrispondenza poi diventò con qualche revisione e ritocco il capitolo introduttivo ai Nuovi Territori del Commercio, ma evidentemente c'era anche qualcosa d'altro, in tutta la pressione "sviluppista" dispiegata fra le ultime frange metropolitane milanesi e il Parco Ticino. Adesso sta iniziando a emergere esplicitamente, grazie alla magistratura, almeno uno dei motori immobili di tanta ansia modernizzatrice, anche contro ogni logica e riflessione. E, come ci ha spiegato bene anche Serena Righini alla Scuola di Eddyburg a Napoli, sicuramente un sistema decisionale più trasparente - e democratico - avrebbe contribuito a farle emergere prima, queste distorsioni (f.b.)

Qui la vecchia corrispondenza locale da Borgarello

Qui la lezione di Serena Righini

Al Forte Village di Santa Margherita di Pula e fino al 13 novembre la Wolkswagen ha organizzato un evento al fine di presentare il suo ultimo modello a operatori e possibili compratori provenienti da 150 Paesi, tra cui ci sono i concessionari del Canada, dell’America del Nord, del Giappone, dei Paesi dell’Est Europeo. Si tratta di uno dei più importanti meeting internazionali organizzati avendo come scenario la Sardegna, o meglio una porzione della costa del sud, e si tratta anche di un caso di successo di turismo congressuale, così come più volte auspicato in diversi sedi, istituzionali ed economiche. In ragione di ciò, certamente saranno numerosi coloro che enfatizzeranno le ricadute economiche e simboliche di questo evento sulla nostra isola.

Considero il turismo strategico per la Sardegna e sono una sostenitrice del turismo congressuale, non ultimo perché l’università dà il suo piccolo contributo a questo settore, ma avverto il bisogno di avanzare due semplicissime domande: “quanta ricchezza prodotta da questo meeting rimarrà in Sardegna” e “quale immagine dell’Isola rimarrà impressa nei protagonisti di questo incontro”. Ho paura che sia facile rispondere alla prima domanda, anche perché l’intera organizzazione dell’incontro così come la struttura di accoglienza sono del tutto estranee alla Sardegna. Sulla seconda domanda, dalle cronache si evince che in questi giorni non si faranno solo affari automobilistici ma ci sarà oltre lo spazio internazionale che risponderà alle esigenze dei numerosi ospiti, uno spazio “mediterraneo”. Presumo che ci si riferisca soprattutto a cibi dell’economia locale, ma collocare la cultura della Sardegna in un apposito “spazio” appare di per sé significativo.

In realtà, il rischio che questo evento alimenti facili illusioni appare molto alto.

La prima illusione è che si debba rafforzare la monocultura del turismo, purtroppo radicata nei nostri territori, tanto che anche il più piccolo comune da alcuni anni finalizza parte delle sue scarse risorse finanziarie per organizzare occasioni di attrazione turistica (per lo più sagre). Senza peraltro fare mai un bilancio dei costi e dei benefici di questi investimenti. Ma non ogni territorio possiede una vocazione turistica e, soprattutto, quasi nessuno possiede le professionalità adeguate per entrare in un sistema complesso qual è il turismo. L’idea che tutto possa tradursi in turismo ha avuto un impatto devastante sulle città e sulle campagne, e ciò non riguarda solo la Sardegna ma è problema comune a tutti i Paesi a sviluppo avanzato, come ha messo in risalto la European Environment Agency nel 2006, sia perché si è tradotto prevalentemente in consumo del suolo sia perché un certo tipo di turismo – compreso quello di Santa Margherita di Pula – in realtà costituisce una minaccia per la stessa cultura europea, e sarda per ciò che ci riguarda.

La seconda illusione è che si rafforzi l’idea che in Sardegna sia necessario costruire alberghi di lusso un po’ ovunque, proprio per diffondere questo tipo di turismo di elite. Ciò significherebbe mettere in secondo piano ancora una volta le unicità paesaggistiche tuttora presenti nella nostra Isola. Ad esempio, mi aspetto che il caso del meeting della Wolkswagen venga utilizzato dai sostenitori del progetto di Capo Malfatano di Teulada come un buon esempio da diffondere e come argomento per dire, a chi si oppone, che costruire strutture ricettive per ricchi valga il sacrificio di luoghi tra i più incontaminati del Mediterraneo.

La terza illusione è che sia sufficiente avere alberghi a 5 stelle per organizzare grandi eventi, magari coinvolgendo archistar. Penso per ultimo alla recente polemica sul mancato Betile e al flusso di visitatori che, secondo alcuni, avrebbe potuto innescare questa costruzione griffata, prendendo ad esempio il successo del Maxxi a Roma. Ma soprattutto penso a Mita Resort di La Maddalena. Tutti esempi che ci portano, guarda caso, agli stessi proprietari.

In conclusione, le sirene del turismo sono sempre in agguato e finora sono servite ad allontanare il nostro sguardo dalle potenzialità reali della Sardegna, meno male che i movimenti degli operai e dei pastori fanno di tutto perché non dimentichiamo troppo.

Postilla



Più che “illusioni” le chiamerei gli “obiettivi” che la maggior parte dei promotori del turismo come salvezza della Sardegna si pone. Quale che sia l’occasione che spinge il viandante a muoversi, l’obiettivo reale, utile, fecondo per l’ospitante e per l’ospitato è la conoscenza. Se vado in un altro paese ciò che devo ottenere (e, magari, ciò che mi spinge ad andare qui invece che là) e allargare la mia conoscenza del mondo: dei suoi luoghi, le sue culture, il suo popolo, le sue abitudini, storie, cibi, odori, luci. Il turismo può diventare lo strumento che aiuta l’ospitante a non vivere l’identità della sua comunità come qualcosa che esclude chi non le appartiene, ma come qualcosa che si arricchisce comunicandosi; e che aiuta l’ospitato a comprendere come la diversità – dei luoghi e dei popoli – è un ricchezza per tutti, e la conoscenza degli altri un modo per conoscere meglio se stesso.

Sono rimasto molto colpi di sentire, con le mie orecchie, un autorevole esponente dalla politica sarda, il consigliere regionale Cuccureddu, già sindaco di Castelsardo e accanito oppositore di Renato Soru, esternate il pensiero esattamente opposto a quello che ho ora esposto. Raccontava degli incontri che aveva avuto con i cinesi, e della proposte che stava elaborando per accogliere molti cinesi in Sardegna, e diceva: «Se dalla Cina mi chiedono: “quali sono le 10 cose che possiamo indicare ai nostri cittadini come cose da vedere in Sardegna”, io non posso rispondere, che so, i nuraghi, perché per loro sono solo degli ammassi di pietre; ma posso dir loro – proseguì con orgoglio – da qui, prendendo un aereo, possono essere in un’ora o poco più a Parigi e vedere la Tour Eiffel, o a Roma e vedere San Pietro e il Colosseo, o a Pisa la sua torre, o a Barcellona ecc. ecc.».

Archistar per la Città della Salute. Per realizzare l’opera da 520 milioni di euro, destinata a trasferire l’Istituto dei tumori e il neurologico Besta a nord ovest di Milano di fianco all’ospedale Sacco, il governatore Roberto Formigoni vuole coinvolgere imigliori studi di architettura del mondo: «È il progetto d’edilizia sanitaria più importante d’Italia — dice —. Il bando di concorso sarà internazionale».

Con la firma al Documento preliminare di progettazione (Dpp), ieri è arrivato il via ufficiale al maxi-polo di Vialba alla presenza dei vertici dei tre istituti sanitari. L’investimento sarà realizzato in project financing: metà del capitale sarà messa a disposizione subito dalla Regione (228 milioni) e, in minima parte, dallo Stato (40 milioni); gli altri 250 milioni saranno resi disponibili dai privati che recupereranno l’investimento con la gestione dei servizi (come posteggi, mense e pulizie) e, soprattutto, con un canone di disponibilità a carico di Regione.

Il compito di trovare la copertura finanziaria integrale dell’opera (con l’intervento delle banche) e di avviare le procedure di gara, adesso è del consorzio Città della Salute e della Ricerca, creato ad hoc dal Pirellone e presieduto da Luigi Roth, che nel suo curriculum vanta la creazione della Fiera in soli 30 mesi. Il concorso sarà pubblicato, con ogni probabilità, entro febbraio ( www.consorziodellasalute. ai concorrenti sarà chiesto di mettere a disposizione i fondi mancanti e di presentare un progetto architettonico all’altezza delle aspettative. «La Città della Salute sarà una struttura che "gira attorno" al paziente e al suo percorso di cura — dice Roth —. Sarà un luogo in cui il cittadino si orienta con facilità». Come tutti gli ultimi sei ospedali costruiti, neppure in questo caso ci saranno i reparti: i pazienti verranno distribuiti piano per piano a seconda della gravità della malattia (modello Toyota).

Confermati i tempi di realizzazione della struttura, con l’inizio dei lavori nel 2012 e il completamento per l’Expo. «Sono tempi da record», aggiunge Formigoni. Le nuove costruzioni occuperanno 220 mila metri quadri per le attività di ricerca e di cura, nonché per le strutture dedicate ai familiari dei pazienti e ai ricercatori. Altri 70 mila metri quadrati saranno dedicati a parcheggi, impianti tecnologici e all’asilo nido aziendale. I posti letto complessivi saranno 1.405 (Besta 250, Tumori 505, Sacco 650), quasi cento in più degli attuali (Besta 223, Tumori 482 e Sacco 604). I lavoratori, 3.200 in totale, saranno mantenuti ai livelli attuali. Insiste l’assessore alla Sanità, Luciano Bresciani: «Il progetto esalterà le eccellenze di ciascun istituto, cosa che altrimenti non sarebbe stata possibile».

Negli edifici attuali dell’Istituto dei Tumori e del Besta, al momento, è prevista solo la creazione di presidi ambulatoriali.

Ogni giorno intorno alla Città della Salute ruoteranno quasi diecimila persone, tra pazienti, familiari, medici, infermieri, fornitori. Di qui l’importanza dei collegamenti viabilistici. Gli attuali sono insufficienti. Tra le ipotesi più accreditate, quella di un metrò leggero dal costo di 300 milioni, che dovrà collegare Affori con Molino Dorino passando per l’area dell’Expo e, per l’appunto, dalla Città della Salute. Ma la decisione qui spetta al Comune di Milano.

Chi ha seguito la puntata di Report di domenica scorsa ha potuto vedere di che cosa sono capaci “gli energumeni del cemento”. Paolo Mondani ha infatti illustrato la distruzione delle coste dei Caraibi ad opera della speculazione edilizia: spiagge che scompaiono per far posto a moli di cemento, la natura violata nella sua integrità: 180 ettari di paradiso sottratti per sempre alla naturalità.

Quello che sta accadendo in questi giorni in uno dei pochi lembi di costa della Sardegna scampato alla cementificazione selvaggia dei decenni passati è molto più grave: si tratta di 700 ettari (un campo di calcio ha dimensione di un ettaro) di territorio incontaminato su cui si vogliono a tutti i costi costruire 150 mila metri cubi: ville esclusive e un resort a cinque stelle. Si tratta della splendida costa di Malfatano, che significa il luogo della speranza. I protagonisti dell’ennesimo scandalo urbanistico italiano vorrebbero invece riempirla di cemento e asfalto, altro che speranza.

Perché parliamo di scandalo? Perché i proprietari dell’area hanno ottenuto i permessi per costruire gli edifici attraverso la collaudata tecnica dello “spezzatino”. In sintesi, pur in presenza di un disegno unico, vengono presentati al comune di Teulada cinque stralci progettuali. In questo modo gli edifici appaiono con un impatto ben più modesto: un conto è vedere disegnati 150 mila metri cubi di cemento, strade, parcheggi e quant’altro, altro conto è vederne cinque molto più piccoli.

E’ lo stesso caso sollevato appena un anno fa sempre da Report. A Roma un potentissimo costruttore (Domenico Bonifaci, proprietario del quotidiano Il Tempo) ha ottenuto i condoni per un immensa costruzione di 200 mila metri cubi chiedendo la sanatoria per ogni alloggio. La legge del condono edilizio vietava infatti la sanatoria per immobili più grandi di 750 metri quadrati e sarebbe stato impossibile ottenere i condoni. Così viene presentato lo “spezzatino” e il comune non si accorge che le 700 domande di condono fanno parte di un unico complesso edilizio!

Anche nel caso di Malfatano nessuna delle amministrazioni coinvolte –comune, regione Sardegna e Soprintendenza di Stato- si è accorto del trucco e rispedito al mittente i cinque progetti richiedendone uno globale. In questa povera Italia le amministrazioni pubbliche sono preda dell’economia di rapina e fingono di credere che dietro questa nuova Colata, per citare il bel libro edito da Chiarelettere, ci sia un futuro di lavoro per la popolazione sarda. E’ questa la giustificazione di tutti gli amministratori –rigorosamente bipartisan- coinvolti: affermano infatti che di fronte alla grave crisi economica non si può chiudere la porta a generosi investitori.

E’ questo un tema non banale e conviene dunque discuterne perché la gigantesca crisi economica e finanziaria mondiale in cui tutti i paesi ricchi si dibattono non sembra trovare vie di uscita solide. Ma intanto onestà intellettuale vorrebbe che si facesse un bilancio dei quarant’anni che hanno cambiato il volto delle coste sarde riempiendole di cemento. Ogni volta che venivano concessi i permessi per costruire di devastanti progetti si cantava il solito mantra: non si può rinunciare allo sviluppo. La Sardegna è nel pieno di una crisi economica e sociale devastante proprio perché ha creduto a questa falsa promessa. Le case di vacanza si riempiono solo per due mesi e gli alberghi chiudono almeno per nove mesi all’anno. Invece di investire nella produzione si è preferito aprire autostrade alla speculazione edilizia. Perpetuando il meccanismo di distruzione delle bellezze della Sardegna si otterrà oggi il progresso che non è avvenuto in quarant’anni di laissez faire?

Non c’è persona in buona fede che possa sostenere questa tesi. Eppure gli amministratori pubblici continuano a propagandare questa favola. La prova di una vergognosa mala fede la troviamo anche in una clausola contrattuale stipulata tra il comune di Teulada e i proprietari. Vi si afferma che “nel caso venissero costruite case al posto di alberghi, i promotori dovranno pagare al comune un maggior onere di 200 euro al metro cubo”. Il sindaco di Teulada, Gianni Albai è entusiasta di questa norma e la pubblicizza a dimostrazione del rigore pubblico. Vediamo di fare due conti. Una villa è grande circa 200 metri quadrati, 600 metri cubi. Così quando gli speculatori edilizi chiederanno di trasformare gli alberghi in case dovranno pagare al comune poco più di 100 mila euro. Sembra tanto, ma una villa in quel paradiso si vende ad almeno 3 milioni di euro: seconde case regalate alla speculazione da amministrazioni compiacenti. Altro che sviluppo.

Tutte queste irregolarità sono state denunciate con forza da Italia Nostra con l’azione instancabile di Maria Paola Morittu e dal Gruppo di intervento giuridico, ma finora le amministrazioni pubbliche non danno segni di vita. Del resto, Renato Soru è stato sconfitto anche con l’aiuto di pezzi del centro sinistra proprio perché il suo rigoroso piano paesistico impediva simili speculazioni.

E come questa classe politica governa i beni comuni è dimostrato dell’albergo dell’isola della Maddalena, la scandalosa vicenda dello svolgimento del G8. Lo Stato ha speso 120 milioni di euro per realizzare l’albergo e ora lo ha dato in gestione alla Mita resort della famiglia Marcegaglia per un canone di 60 mila euro all’anno. Vuol dire che riprenderà le spese in 1500 anni! Un altro straordinario esempio di rigoroso uso dei soldi pubblici.

Che c’entra la Marcegaglia, si chiederà qualcuno. C’entra perché il nuovo resort di Malfatano sarà gestito dalla Mita. Dietro la grande speculazione sarda si scorgono ancora una volta le radici della crisi italiana. Tra i promotori dell’operazione speculativa condotta dalla società Sitas c’è infatti la classe dirigente italiana: la Sansedoni spa controllata dal Monte dei Paschi di Siena, la Benetton, il gruppo Toffano, il gruppo Toti (che sul suo sito già illustra il plastico dell’albergo). Un paese dedito esclusivamente alla speculazione immobiliare ha davvero poche speranze di futuro.

(ps. chi volesse rendersi conto della natura dello scempio, può vedere in rete il commovente documentario Furriadroxus di Michele Mossa e Michele Trentini)

Un recente editoriale del Giornale dell'Arte denuncia con veemenza e amarezza la consistenza dei tagli imposti dalla Finanziaria alle attività culturali, l'incoerenza di tali provvedimenti rispetto all'ampiezza del patrimonio artistico del paese e al suo potenziale valore per il suo sviluppo, l'arbitrarietà della loro distribuzione. Non è una critica nuova: la contrazione delle risorse pubbliche, la riduzione degli spazi di azione dello stato nel campo culturale sono tendenze ormai denunciate da anni, certamente non solo in Italia. Anche gli argomenti che hanno animato il dibattito si sono ormai codificati in schieramenti ("beniculturalisti" contro "economicisti") che impediscono una visione più chiara dei problemi. Da un lato si denuncia la farraginosità, l'inefficienza, la neghittosità, la mancanza di incentivi della struttura pubblica, che accompagnano una gestione largamente inadeguata del nostro patrimonio culturale e in generale di ogni produzione culturale "pubblica" (dal cinema alla lirica) e si saluta l'avvento salvifico del privato.

Dall'altra si risponde ricordando la complessità di un territorio in cui pullula la ricchezza e la stratificazione storica, in cui esistono migliaia di musei, pievi, chiese, teatri, ville, castelli, evidenze archeologiche. archivi, biblioteche, che chiedono attenzioni, risorse, restauri, protezione cui nessun privato può provvedere, e producono una farragine di esigenze sotto cui la struttura pubblica soccombe in un momento di risorse scarse. Così mentre il dibattito tecnico e culturale è in stallo, la forza delle cose prosegue a mietere risorse con un abbrivio apparentemente inarrestabile. Secondo la visione oggi dominante, il senso di musei, istituzioni, luoghi d'arte sembra oggi condizionato dalla loro capacità di essere agenti per lo sviluppo, di attrarre turismo e consumo, di produrre ricchezza. A parte i problemi tecnici posti da quest'ordine di valutazioni, e senza nulla togliere alla necessità di vedere le cose "anche" in questa prospettiva, l'impressione è di essere di nuovo alle prese con la consueta, esasperante, tendenza all'unilateralità: è fin troppo ovvio che la posta in gioco più importante non è il turismo ma l'educazione, la diffusione delle opportunità, la capacità di convivenza.

C'è bisogno di una svolta, che parta dalla consapevolezza della centralità del problema. La cultura e le arti stanno ponendo una questione centrale al pensiero economico e politico contemporaneo, e lo fanno mettendo in gioco la loro possibilità di fiorire o di decadere, portando con sé i destini complessivi delle nostre collettività. La risposta a questa interrogazione chiede cura e umiltà, chiede di unire i saperi e i pensieri per dare forma a una ecologia delle arti e della cultura capace di preparare le condizioni istitutive delle arti nel futuro. Se non altro per consentire alle arti di offrirci ancora la possibilità — citando Agnes Martin — "di attraversare la vita con gioia" offrendoci "un'esperienza completamente soddisfacente, anche se elusiva...". La posta in gioco più importante sono l'educazione, la convivenza, le opportunità.

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