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COMO — «Ora non resta che reperire le risorse e partire con la fase di progettazione». Diceva così il sindaco Bruni il 15 luglio scorso quando fu proclamato il vincitore del concorso internazionale di idee per la valorizzazione del lungolago, voluto da Formigoni dopo l’abbattimento del muro della vergogna. L’intenzione era quella di voltare pagina, lasciando alle spalle i mesi di polemiche che avevano portato la giunta di centrodestra sull’orlo del baratro, e guardare al futuro con un grande progetto.

Il concorso era costato 500 mila euro e 50 mila euro erano andati al progetto vincente realizzato da Cino Zucchi. Da allora, nella parte in cui la costruzione delle paratie è terminata, tutto però è rimasto fermo perchè non si sa dove prendere i sei milioni necessari per la sistemazione finale. E adesso c’è un’altra novità: con una lettera inviata giovedì al Comune di Como, il soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici, Alberto Artioli, ha bocciato il progetto di Zucchi. Tutto da rifare. E il perenne cantiere del lungolago, che ha già portato i comaschi a una crisi di nervi, resterà così per chissà quanto altro tempo. Una nuova batosta che si rifletterà inevitabile sulla traballante giunta Bruni, sopravvissuta al voto di sfiducia ma in ostaggio dei ribelli del Pdl.

Esprimendo il «parere preliminare» sul progetto di Zucchi, Artioli nella sua lettera inizia con un apprezzamento del lavoro, definito di «elevata qualità architettonica». Ma subito dopo stronca proprio l’idea centrale del progetto, la creazione di una specchio d’acqua davanti a piazza Cavour che avrebbe dovuto ricreare idealmente la darsena che una tempo si trovava dove ora c’è la piazza. Lo spostamento in avanti della linea d’acqua, «travalica l’obiettivo posto a fondamento del concorso» e «non è da ritenersi necessario e prioritario». Non solo, ma le nuove strutture, secondo il soprintendente, costituirebbero un’interferenza nella percezione del paesaggio mentre i pilastri della passeggiata sospesa quando il lago è basso creerebbero «degrado e disturbo visivo». Senza contare le ripercussioni sugli equilibri idrostatici anche in terraferma che deriverebbero dai nuovi lavori, l’ulteriore allungamento dei tempi e l’aumento dei costi.

C’è da chiedersi come mai tutti questi elementi non siano stati presi in considerazione dalla commissione giudicatrice che era presieduta dal direttore generale di Infrastrutture Lombarde spa, e composta da un rappresentante del Comune e tre architetti (due nominati dalla Regione e uno dalla Provincia), che pure erano stati chiamati a valutare sulla base di precisi parametri: inserimento urbanistico e ambientale, rispondenza alle idee guida e fattibilità tecnica e realizzativa (che si suppone dovesse tener conto anche dei costi).

Dalla Russia, dove si trova per presentare un suo progetto sul «waterfront» di San Pietroburgo, Cino Zucchi replica senza polemiche: «Non condivido il parere di Artioli - dice - ma ne prendo atto e lo rispetto. L’avanzamento della linea d’acqua in piazza Cavour era un tema delicato. La nostra idea era coraggiosa ma mi rendo conto che in questo momento ha forti implicazioni politiche e psicologiche. Faremo tesoro delle indicazioni e vedremo se sarà possibile cambiare mantenendo comunque un bel progetto».

House Living and Business

Il PGT di Milano è a rischio bolla quanto il mercato immobiliare!

di Greta La Rocca



I numeri del Mercato immobiliare sono falsi e gonfiati. Ve l’abbiamo scrittoL’immobiliare italiano risale per la bolla fiscale!presentando il Terzo Rapporto Immobiliare 2010 di Nomisma (importante società fondata, agenzia di rating per l’Industria delle Costruzioni e per l’Industria Immobiliare Italiana), smentito dai dati Istat.

Dopo Nomisma, è stata la volta di Scenari Immobiliari: istituto indipendente di studi e ricerche, analizza i mercati immobiliari e l’economia del territorio in Italia e in Europa; fondata nel 1990 da Mario Breglia (che è anche socio onorario diAICI – Associazione Italiana Consulenti e Costruttori Immobiliari–AICI, elenco soci 2010) è la più grande banca dati di valori e compravendite, guru del mattone per imprenditori e immobiliaristi; tra le attività anche pubblicazioni, seminari a inviti e forum a pagamento tra cui l’European Outlook organizzato tutti gli anni a Santa Margherita Ligure.

Mercoledì 1 dicembre, alla Sala Colonne di Palazzo Affari ai Giureconsulti a Milano, Scenari Immobiliari e AIM, Associazione Interessi Metropolitani hanno organizzato il convegnoIl nuovo pgt: conseguenze e impatti sulla città e sul mercato immobiliare. Scenari Immobiliari ha presentato lo studio che avrebbe dovuto tracciare il quadro dettagliato di quello che sarebbe stato lo sviluppo della città con l’introduzione del Pgt. Studio che non è stato commissionato da AIM, ma è stato realizzato da Scenari Immobiliari che di AIM, Associazione culturale fondata nel 1987 da un gruppo di imprese e banche milanesi (tra i soci,Gruppo Bancario Credito Valtellinese, Intesa San Paolo, a2a, Gruppo Falck…) per promuoverericerche e progetti sulla città di Milano, è socio e nel cuiConsiglio Direttivoc’è anche Mario Breglia.

I dati presentati da Breglia dimostrano che nel periodo 2016-2030, quando il Pgt sarà entrato a regime, l’offerta media annua di case a Milano ammonterà a 40mila abitazioni all’anno di cui 5mila nuove, mentre nel quinquennio 2010-2015 saranno 38mila annue di cui 4.300 nuove… se moltiplichiamo le 40mila abitazioni all’anno per 15, otteniamo 600mila abitazioni che, se sommate alle 190mila (le 38mila del quinquennio precedente moltiplicate per 5) fanno 790mila abitazioni totali… senza considerare l’invenduto che a Milano oggi è pari a 100mila abitazioni…

Abbiamo chiesto a Breglia, se l’offerta totale non fosse alta…38mila abitazioni all’anno per 5 anni, dal 2010 al 2015, vuol dire 190 mila…

No, è totale quel dato… non è annuo…

38mila abitazioni all’anno… è annuale, abbiamo visto la ricerca…

Ah, sì….

190mila dal 2010 al 2015… dopo l’Expo, dal 2016 al 2030, parliamo di 40mila case… quindi 40mila per 15 anni… fa 600mila…. dimentichiamoci dell’invenduto, sommiamo questo dato alle 190mila dei 5 anni precedenti… il totale fa 790mila…

… troppe moltiplicazioni…troppe

mi scusi, 38 dal 2010 al 2015 all’anno….. 40 mila dal 2016 al 2030 all’anno…. il totale è 790mila…. sono tante…

sì… non lo so… però….

A Milano ci sono 100mila abitazioni invendute…

Questo dipende dal mercato…

…guardiamo i dati, le transazioni vanno dalle 28mila alle 32mila che è stato il massimo storico nel 2007…. se si parla di 38mila nel primo quinquennio e 40mila nel secondo periodo, significa che mediamente ogni anno ci saranno dalle 6 alle 10mila case che rimarranno invendute… se le moltiplichiamo per 20 anni….

No, rimangono… cioè si sommano negli anni precedenti.. cioè negli anni successivi…



…scusi, le transazioni nel 2009 sono state 32.000, il massimo storico… se moltiplichiamo questo dato per il periodo 2010-2030, otteniamo 640mila transazioni in 20 anni… se sottraiamo a 790mila, il totale dell’offerta abitativa, quest’ultimo dato… abbiamo 150mila abitazioni invendute… senza calcolare l’invenduto di oggi… è altissimo..

No… ogni anno c’è l’invenduto dell’anno precedente, più le nuove costruzioni, più l’invenduto dell’anno…



…appunto… sono tante…

No, non è che rimane invenduto per 5 anni… se un’abitazione su 4 rimane venduta, viene aggiunta l’anno successivo… e l’anno successivo se ne possono costruire un po’ meno…



Mi sta dicendo che i dati, 38mila per il primo quinquennio e 40mila per il secondo periodo,… non sono dati annuali, sono valori da cui va sottratto l’invenduto dell’anno precedente?

…certo… l’invenduto rimane anno per anno e viene assorbito dall’anno successivo… abbiamo fatto un’ipotesi… noi abbiamo fatto una media, ma in realtà alcuni anni va meglio e alcuni peggio…

…per cui i dati sono…

la media non è corretta, avremmo dovuto fare tutte le tabelle anno per anno… l’anno medio è per dimostrare una tesi non per fare un convegno sul mercato immobiliare… noi abbiamo fatto un’ipotesi, queste sono simulazioni.

Breglia, nel presentare la ricerca al tavolo dei relatori, parla di suggestioni… e invita a guardare i dati e a prenderli per quello che sono, suggestioni… e precisasono ipotesi, possono variare

I dati di Scenari Immobiliari, precisa Breglia, non guardano all’Expo, non pensano a quale incremento l’Esposizione Universale potrebbe portare in città… sono previsti posti di lavoro a Milano? Se fosse, ci sarebbe anche una domanda abitativa… E, precisa la ricerca, i dati non prendono in considerazione l’housing sociale, vera preoccupazione però del Pgt e dell’Assessore Masseroli, ma per Breglia un buco nero nella mia ricerca

Abbiamo chiesto a Breglia, che ha parlato didisponibilità di abitazioni a prezzi più abbordabili, come sarà possibile?

Non sarà possibile, perché se non faccio una vera politica di costruzioni a prezzi bassi e in affitto non posso modificare il mercato…

Breglia lancia frecciate all’Assessore Masseroli, per abbassare i prezzi delle abitazioni, il Comune dovrebbe incentivare trasformazioni di aree dismesse consentendo maggiori volumetrie però facendo soltanto case in social housing… dovrebbe coinvolgere molto le cooperative, essere più presente sul mercato… proprio quello che l’Assessore non vuole fare….. e Masseroli, rispondeBreglia non ha letto il Pgt… No, Breglia ha detto “Facciamo i conti a prescindere dall’Housing sociale”… fare i conti su un piano del territorio in cui, nelle grandi aree, il 35% sarà obbligatoriamente in housing sociale… credo che sia una semplificazione… un’ipotesi di lavoro che falsa molto i numeri finali…

Breglia non parla di abbassare i prezzi delle case perché vorrebbe dire sgonfiarli e quindi ammettere che quelli attuali sono falsi… anche se, sgonfiare i prezzi delle abitazioni sarebbe l’unica soluzione per far ripartire il mercato, vendere il nuovo già costruito e far fuori l’invenduto. L’economia italiana è crollata, le famiglie sono in crisi, il reddito (dati Istat) è a crescita zero dal 1997 a oggi… se il prezzo delle case non viene allineato alle attuali possibilità degli italiani, e quindi non viene riportato al valore dei redditi degli anni ’90, le case non verranno vendute…L’immobiliare italiano ritorna alla Lira, si venderà solo al prezzo degli anni ’90!



Breglia dichiara che il numero delle nuove abitazioni ogni anno dipenderà dall’invenduto dell’anno precedente… se ho tanto invenduto, costruirò di meno… Partiamo dai dati presentati: se l’invenduto fosse pari a 40mila abitazioni, vuol dire che delle 40mila ipotizzate ne realizzerò zero… il nuovo sarà zero… i costruttori saranno felici…

la Repubblica ed. Milano

Quanti saremo fra vent'anni

di Alessia Gallione

All’inizio era la Milano da 2 milioni di abitanti. Un sogno ambizioso, quello immaginato a Palazzo Marino. Dopo l’esodo verso l’hinterland, oltre i confini di una città sempre più piccola e cara. Talmente ambizioso da essere subito ridimensionato. Eppure, il Pgt che disegna la città del 2030, continua a crederci nella "Grande Milano": potrà crescere fino a 1.787.637 abitanti: 500mila in più rispetto a oggi.

È per loro, per i nuovi "milanesi per scelta" su cui punta il Pgt, che dovranno essere costruite le nuove case. Abitazioni per giovani coppie e per chi un’abitazione ai prezzi di mercato non se la può permettere: questa è l’ambizione del Piano. Proprio coloro che, in passato, da Milano sono fuggiti. Sugli ex scali ferroviari, al posto delle caserme e delle aree dismesse: sono oltre 6 milioni di metri quadrati le nuove costruzioni disegnate - in teoria - soltanto nei nuovi quartieri. Ma a quel sogno di far tornare a crescere la città, non tutti ci credono. A dispetto delle ottimistiche previsioni del Comune, a leggere i dati dello studio di Scenari Immobilari, l’asticella andrebbe fermata molto prima. Nei prossimi vent’anni la rivoluzione del Pgt non creerà 500mila milanesi come sostiene il piano. Al massimo, è la previsione del presidente Mario Breglia, l’impatto che le regole urbanistiche avranno sulla popolazione porterà a un incremento di 111.000 abitanti. E nel 2030, Milano sarà una città da 1 milione e 400mila abitanti. «Purché ci siano i servizi», è l’avvertimento.

Per iniziare a capirlo, quanto sarà davvero grande Milano, bisogna guardare ai dati dell’anagrafe. Eravamo 1.256.000 nel 2001; siamo poco più di 1.300.000 nel 2010. Un saldo positivo di 50mila abitanti, ottenuto soprattutto grazie agli stranieri. Breglia ha analizzato i motivi che spingono a uscire dalla città: l’inquinamento, il traffico, le poche infrastrutture, i prezzi elevati delle abitazioni. E su quest’ultimo punto, il Pgt non darebbe risposte certe. Bisognerebbe seguire l’esempio di Londra «che ha varato un piano di edilizia per chi lavora in città: i pompieri, le infermiere, i vigili. È a loro che dovremmo pensare». Eppure Carlo Masseroli ci crede nell’opportunità di costruirle, queste case per le fasce medie: «Se c’è un numero certo nel Piano - dice - sono le 30mila abitazioni in housing sociale». Del resto, ovvero di quanti saremo nel 2030, sostiene di non volerne sentir parlare: «Non mi interessa: quello sui numeri è un approccio vecchio. Non si può disegnare il futuro contando gli abitanti e quello del Pgt è uno strumento nuovo. A me interessa che chi viene a vivere a Milano lo faccia per scelta». Milano, è uno degli slogan del Pgt, diventa grande quanto vuole e può essere grande. Tutto lasciato alla "libertà" del mercato e dei privati.

E, allora, quanti saremo nel 2030? Il demografo della Bicocca Giancarlo Blangiardo crede che sia più realistica la stima a 1 milione e 400mila abitanti. «Se dovessimo essere ottimisti non avremo più di 100mila abitanti. Milano sta resistendo faticosamente a mantenersi attorno al milione e 300mila per effetto della componente immigratoria. Il capoluogo, però, ha già iniziato a perdere un po’ della sua attrattiva iniziale per gli stranieri rispetto alla regione: ormai ci sono province come Mantova e Cremona, che crescono più velocemente». Anche secondo Blangiardo, «una delle grandi scommesse sarebbe mantenere il proprio patrimonio di giovani, che quando escono dal nido vanno dove la vita è accessibile».

Anche per il geografo del Politecnico, Matteo Bolocan, «è già molto se il Pgt riuscirà a tenere per qualche anno lo stesso ritmo degli ultimi tempi. Ci sono tendenze fisiologiche di queste città - dice - che le politiche pubbliche possono provare a intercettare e pilotare ma non a determinare. Non si dovrebbe, poi, costruire di più e tanto, ma bisognerebbe farlo per fasce specifiche di popolazione». Bolocan guarda oltre i confini cittadini: «Mi interessa poco se la città centrale recupera abitanti - dice - ma se la regione urbana milanese recupera in efficienza e qualità della vita». Per il docente del Politecnico, insomma, Milano continuerà a essere vissuta ancora molto dai "city user".

Gaetano Lisciandra, architetto e vice presidente di InArch Lombardia, ha studiato i numeri del Pgt: «Gli interventi già in corso realizzeranno case per 95.000 abitanti; a questi si aggiungono quelli dei nuovi quartieri e delle volometrie generate dal Pgt per un totale di 262mila abitanti in più. Manca però buona parte della città». Eppure Lisciandra nutre «qualche legittima preoccupazione sulla reale possibilità che le previsioni insediative del Pgt possano davvero attuarsi». Il motivo? «Perché i meccanismi - spiega - sono in molti casi volontari. A cominciare dallo scambio delle volumetrie». E poi ci sono i servizi: mancano 9 miliardi di euro. Anche questo conterà per capire quanti nuovi milanesi saremo in grado di creare: «Perché la gente - conclude l’architetto - verrà a vivere qui se la città sarà attraente e darà lavoro».

Vezio De Lucia nel suo scritto molto opportunamente solleva la questione se la vittoria di candidati non sponsorizzati dalle segreterie dei partiti maggiori nelle primarie di coalizione del centro-sinistra, tra cui in particolare quella di Pisapia a Milano, possa aprire una riflessione anche sulla lunga stagione di acquiescenza di quei partiti alle politiche di deregolazione del controllo dell’assetto urbano, affermatasi sempre più estesamente con lo strumento dei PII. Confesso di essere non poco titubante a rispondere in senso affermativo. Cerco di argomentare il perché.

I Programmi Integrati di Intervento:

un ritorno alle “convenzioni” contro il PRG

nate in Lombardia e applicate ovunque

Dal 1992 in poi, col progressivo diffondersi di una sempre più estesa deregulation di ogni progetto complessivo di città, le grandi trasformazioni urbane indotte dall’attuale cambiamento del modello produttivo, attuate in un’ottica di sommatoria di singole opportunità di valorizzazione aziendale hanno di nuovo prodotto e via via continuano sempre più estesamente a produrre effetti molto più simili a quelle degli anni ’50-’60 dalle “convenzioni” fuori PRG, che non a quelle pensate e in parte prodotte dalla Legge del ’42 e dalla Legge Ponte nel periodo 1967-1992.

Si tratta, nel complesso, di una tendenza – precocemente praticata dalla Lombardia (Leggi Verga e Adamoli), ma poi generalizzatasi a livello di legislazioni regionali e nazionale - che alimenta una sostanziale sfiducia negli esiti prodotti dall’applicazione delle norme sui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici, faticosamente conquistate fra il 1967-’68 (Legge Ponte e DM sugli standard) e il 1977 (prime leggi regionali di Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria, Toscana e, infine, Legge Bucalossi sul regime dei suoli).

I Programmi Integrati di Intervento (PII), che costituiscono l’estensione a livello nazionale di quelle esperienze, col tempo sono andati diffondendosi sino a divenire il principale strumento d’intervento soprattutto nelle trasformazioni urbane più significative e consistenti (ma spesso anche in quelle relativamente più minute e diffuse), non solo perché potevano prescindere dalle previsioni di un determinato PRG sulla base di occasionali convenienze attuative di proprietà fondiaria e operatori immobiliari e spesso di occasionali maggioranze politico-amministrative disposte ad approvarle, ma soprattutto perché si andava affermando che – trattandosi di strumenti negoziali – essi potevano prescindere anche dai limiti normativi imposti a PRG e relativi strumenti attuativi dal DM n. 1444/68.

Tale deriva interpretativa è stata facilitata dall’introduzione nelle legislazioni regionali del concetto di standard qualitativo che, prevedendo un’equivalenza tra la cessioni di minori aree pubbliche rispetto a quelle del PRG (o addirittura rispetto a quelle minime di leggi regionali e DM nazionale) in cambio della realizzazione di opere pubbliche di maggior valore rispetto a quelle degli oneri urbanizzativi di base, rendono quanto mai aleatoria e discrezionale la valutazione della effettiva convenienza pubblica al mutamento di previsione urbanistica rispetto a quella prescritta in precedenza dal PRG per quell’area e per destinazioni analoghe a quelle propostevi.

Solo recentemente, a fronte di ricorsi di cittadini che si ritengono danneggiati da tali previsioni abnormi, i TAR hanno cominciato a sentenziare circa l’inderogabilità delle norme nazionali del DM in tema di densità edificatorie, altezze massime, distanze tra edifici e dotazioni pubbliche minime da parte di normative e piani attuativi regionali e comunali in tema di PII, sopralzi e usi di sottotetti, ampliamenti in deroga normativa a scopo di rilancio economico dell’edilizia.

E’ desolante, tuttavia, constatare che ciò possa avvenire solo come conflitto tra interessi privati contrapposti, come è tipico dei ricorsi al TAR, dove viene rigettata come legittimamente improponibile qualunque istanza di carattere generale e collettiva.

Lo scambio ineguale tra liberismo pubblico e virtù privata:

il progetto pubblico di città soppiantato

dal risparmio energetico-ambientale degli edifici

L’urbanistica, dopo essere stata al centro di grandi aspettative e rivendicazioni sociali negli anni Sessanta-Ottanta, negli ultimi decenni non gode ormai più di buona fama in un periodo di difficoltà finanziarie e di rapidità di mutamenti economico-produttivi e il suo posto nell’immaginario sociale collettivo dell’aspettativa di un futuro migliore è stato preso dall’ambientalismo ecologista.

Eppure il rischio è che anche questo si riveli alla fine un obiettivo illusorio e succube del neoliberismo economico, oggi prevalente, che ritiene un lusso insostenibile mantenere le regole di un progetto di territorio e città, pubblicamente individuato e condiviso, che è stato il pensiero fondante dell’urbanistica. Accettarne la progressiva demolizione a fronte della promessa di edifici “intelligenti”, “verdi”, “energeticamente autosufficienti”, in uno scambio ineguale tra liberismo pubblico e virtù privata, credo sarebbe la resa ad un “pensiero unico” di privatismo cui è colpevole rassegnarsi

Per quanto le pubbliche amministrazioni possano, caso per caso, contrattare alcune contropartite di utilità sociale, in assenza di un bilancio di sostenibilità urbana e ambientale complessiva, si finisce comunque per entrare in un gioco truccato a saldo finale in perdita dal punto di vista dell’utilità sociale e della sostenibilità ambientale, che finisce per produrre effetti esiziali, anche se probabilmente non necessariamente di nuovo e soltanto nella forma - come fu nel 1966 - di una frana edilizia, ma piuttosto con lo slittamento del Paese nella gerarchia produttiva e contestualmente col crollo della vivibilità sociale ed ecologica delle nostre città e dell’ambiente. C’è solo da augurarsi che non debbano solo essere tragicamente gli episodi d’intolleranza sociale o gli eventi catastrofici, che pure sempre più frequentemente si susseguono, a far sì che ci se ne debba render conto.

In campo di governo della città e del territorio, infatti, ci muoviamo ormai da tempo in una situazione che potremmo descrivere come analoga a quanto in questo periodo si cerca di attuare nei confronti dello Statuto dei Lavoratori e del contratto collettivo: cioè, ridurre ogni rapporto (in questo caso non tra lavoratore e azienda, ma tra Ente locale e trasformazioni urbane) ad un caso a sé, senza alcun criterio generale con cui operare il confronto e la trattativa nel definire l’interesse collettivo e generale da perseguire.

Una nuova “Milano da bere”:

dallo stilismo della moda

allo stilismo immobiliare delle “archistar”

A Milano, in particolare, questa stagione di allegre contrattazioni sull’orlo del baratro e senza alcun progetto generale di città ha inteso nobilitarsi dandosi il nome di Nuovo Rinascimento Urbano. La denominazione appare quanto mai appropriata, se s’intende con ciò sottolinearne il carattere di decisioni élitariamente garantite dal placet del “principe” istituzionale (formalmente di volta in volta il Sindaco pro-tempore, - Marco Formentini, Gabriele Albertini, oggi Letizia Moratti - benché, dietro la loro immagine, l’assessorato all’urbanistica sia sempre stato saldamente in mani CL) sotto l’influsso della capacità massmediatica dei progettisti di fama ingaggiati di volta in volta dai promotori immobiliari per lubrificare con fantasmagorie inusitate l’inflazione delle volumetrie edificatorie progettate senza adeguate dotazioni di verde e servizi pubblici. E’ lecito, quindi, dubitare che si tratti di prìncipi ed artisti altrettanto “illuminati” quanto quelli rinascimentali, quando comunque si poteva essere “grandi” nelle ambizioni e talvolta anche negli errori, senza con ciò provocare catastrofi irreversibili.

Senza consapevolezza della necessità di tornare ad un progetto generale del “bene comune città” è inevitabile che ogni tentativo di discutere collettivamente limiti ed indirizzi ai criteri di riutilizzo di queste aree sulla base di interessi generali degli utenti delle città venga bollato come un’indebita intromissione nelle “magnifiche sorti e progressive” che le forze economiche e finanziarie – col benevolo consenso di amministrazioni pubbliche sempre più condizionate dall’immediatezza delle ristrettezze di bilancio - pretendono di interpretare egemonicamente nella trasformazione delle città, e per la quale ritengono propria legittima prerogativa proporre quantità e funzioni secondo una valutazione delle opportunità di mercato di volta in volta ritenute attendibili dalle proprie aspettative aziendali.

Ciò consente loro di pretendere non solo una docile adattabilità delle decisioni pubbliche alle eventuali fluttuazioni di stima di quelle quantità e funzioni, ma anche quella di fornirne una conformazione progettuale e di immagine che, ovviamente, nella loro visione attiene piuttosto al carattere della riconoscibilità del marchio aziendale o del logo pubblicitario, che non a quello dei caratteri insediativi o della tradizione culturale del contesto o della città in cui si colloca l’intervento. In questo, occorre dirlo, supportate dal pervasivo diffondersi di una cultura progettuale veicolata in campo urbanistico-architettonico dall’ambito mass-mediatico e più affine al mondo della novità effimera della moda e del design che non all’individuazione di tendenze stabili e durature, che meglio si confanno a fenomeni di lunga durata come sono quelli di costruzione della città e dell’ambiente. Insomma bisognerebbe riflettere se non sia giunto il momento di promuovere un’estensione delle rivendicazioni no logo anche al campo delle manifestazioni della creatività architettonica e urbanistica !

Gli esiti morfo-tipologici dei casi milanesi più noti e rilevanti (Citylife, Garibaldi-Repubblica) sono stati giustificati dall’Amministrazione comunale sia per l’eccezionalità simbolica loro attribuita (il Rinascimento Urbano), sia per sancire che negli strumenti di programmazione negoziata vige l’insindacabilità degli esiti delle trattative “politiche”, anche in deroga alle norme strappate negli anni Sessanta-Settanta all’approvazione del Centro-sinistra storico (limiti massimi di densità fondiaria, di distanza e di altezza, limiti minimi di aree pubbliche), sinora ritenute inderogabili anche da PII e Accordi di Programma . Invece, essi sono stati fortemente contestati sia dalla cultura urbanistico-progettuale sia dall’opinione pubblica per la forte disomogeneità con il tessuto urbano circostante e l’incongrua distribuzione dei pochi spazi pubblici racchiusi tra altissime edificazioni.

I grattacieli sghembi o il “verde verticale”, bizzarramente teorizzato e praticato dallo stesso Boeri come surrogato degli spazi pubblici mancanti, sono stati oggetto non solo dei lazzi dei comici e degli anchormen delle televisioni pubbliche e private, ma persino delle critiche dello stesso Berlusconi e della rivista del suo consigliere culturale Dell’Utri, sia pure in nome di uno spirito di preservazione della tradizione espressiva locale e nazionale, ambiguamente contraddittorio con l’altrove decantato liberismo economico nell’uso immobiliare della città .

Il diffondersi dell’insoddisfazione e della vera e propria protesta popolare di fronte agli esiti delle prime trasformazioni in corso d’attuazione a Milano (ex Fiera, Isola, Garibaldi-Repubblica) e le preoccupazioni per l’annunciato riproporsi di quel metodo sulle ancor più vaste aree (ex scali ferroviari in dismissione: Farini-Romana-,Vittoria-Greco-S. Cristoforo; Expo 2015, ex caserme, aree a margine dei grandi Parchi urbani: Parco Sud, Parco Groane; ecc.) sono in parte stati alla base del rifiuto ad avallare la scelta del PD verso la candidatura di Boeri ed è forse l’argomento più palese per pretendere che anche tra i fautori di quanto sinora attuato si avvii una riflessione sulla necessità di mutare radicalmente il modo di affrontare un tema di portata così vasta e collettiva.

Senza voler rinfocolare le polemiche in corso su quelle due aree e sui motivi del trattamento di favore loro riservato, è tuttavia evidente che esso non potrà essere riproposto sull’intera estensione delle aree degli scali ferroviari in dismissione (1.340.000 mq, più di cinque volte l’area dell’ex Fiera!), né su quello delle aree destinate ad Expò per sei-sette mesi nel 2015 (circa 1 milione di mq) senza mettere in discussione la sostenibilità ambientale dell’assetto insediativo.

Occasione per dare impulso ad un disegno complessivo e largamente condiviso di sostenibilità insediativa nel lungo periodo (imposto anche dalla direttiva europea sulla Valutazione Ambientale Strategica) o ennesimo cedimento al pervasivo diffondersi di una cultura amministrativa e progettuale dell’occasionalità, improntata più al carattere della riconoscibilità del marchio aziendale o del logo pubblicitario, che non a quello dei caratteri insediativi e culturali del contesto urbano, mutuata dall’ambito mass-mediatico, più affine al mondo della novità effimera della moda e del design che non ai fenomeni di lunga durata della conformazione urbana e assunta acriticamente da pubblici amministratori inclini (tanto a destra, quanto a sinistra) alla politica-spettacolo ?

In particolare nel caso milanese, se non si vuole ridurre la discussione sulla morfologia urbana che si vuol ottenere a mero pettegolezzo sulle personali preferenze estetiche di questo o quel pubblico amministratore o uomo politico, di questo o di quell’architetto di grido (come già avvenuto non senza contrasti anche trasversali agli schieramenti politici nel caso dell’ex Fiera e di Garibaldi-Repubblica), occorre, che il potenziale espresso dal riuso di quelle aree si indirizzi fuori da quell’effimera temperie di iniziative progettuali che producono una frammentata congerie edifici dalle variegate figure organiche sparse quasi non noncuranza, al limite della casualità dell’objet trouvé, in un pot pourri che vorrebbe alla fine dare soddisfazione a tutti i palati, sia nel campo delle aspettative di commesse professionali che in quello della pubblica opinione. Una rassicurante miscela tra l’effimera inusualità formale e un’aura di internazionalismo mondano che evoca il clima di compiaciuta autocelebrazione della “Milano da bere” poco prima del suo tracollo in Tangentopoli.

Il PGT di Milano:

Un consumo di suolo

quadruplo che in Germania

Molti articoli di stampa hanno commentato in maniera un po’ scontata e convenzionale che il Piano di Governo del Territorio (PGT) in corso di approvazione a Milano in base alla Legge regionale del 2005 ne segnerà il destino urbanistico per i prossimi venti-trent’anni (ma, per vero, del tutto analogamente in quasi tutti i comuni dell’hinterland, compresi quelli tuttora amministrati dal centro-sinistra, come Sesto San Giovanni e Cinisello a nord o San Giuliano a sud): i giornali non si sono resi conto, tuttavia, di accreditare con ciò una verità paradossale. Infatti, con una scelta per vero discutibile e assai probabilmente illegittima, la legge urbanistica regionale del 2005 ha deciso di utilizzare in Lombardia solo una pianificazione urbanistica di durata quinquennale, senza più alcun orizzonte strategico di medio-lungo periodo, e quindi le previsioni del PGT di Milano cesseranno di avere effetto verso il 2016, giusto all’indomani del mitizzato evento di Expo.

Ciò nonostante le quantità edificatorie messe in gioco corrispondono effettivamente ad un ritmo di crescita che è dell’ordine di tre-quattro volte quello ritenuto sostenibile da realtà socio-economiche ben più solide e strutturate di quella italiana, anche se per qualche verso comparabili con quella lombarda, come quella della Repubblica Federale Tedesca, la quale ha imposto alle proprie amministrazioni locali previsioni urbanizzative con un consumo massimo di suolo di 1,34 mq/abitante/anno (cioè 30 ettari l’anno per l’intera RFT). Se applicassimo quel parametro alla situazione milanese, il PGT dovrebbe consentire la nuova urbanizzazione di 8-9 milioni di mq, mentre ne prevede invece quasi 32 milioni di metri quadri. Vale a dire, appunto, un consumo urbanizzativo di suolo che la Germania riterrebbe sostenibile in un orizzonte temporale di venti-venticinque anni.

Su quelle aree alla densità geografico-urbanizzativa attualmente in atto a Milano (comprendendo cioè il consumo di suolo per reti infrastrutturali e attrezzature generali), che è di oltre 90 mq/abitante e che, come constatiamo quotidianamente, produce una qualità di vita assai congestionata, si può stimare una nuova quantità edificatoria dai 10 ai 17 milioni di metri quadri di superficie lorda abitabile (intesa in senso lato, ossia comprendendovi sia le funzioni residenziali che terziarie), a seconda dell’indice di affollamento stimato (un abitante/utente ogni 30 o 50 mq abitabili). Gli stessi dati del PGT (in genere piuttosto propensi alla sottovalutazione) stimano una quantità abitabile di nuova realizzazione di 12-13,5 milioni di metri quadri.

E’ assai interessante rilevare, inoltre, che l’ulteriore residua superficie di suolo ancora urbanizzabile dopo quella messa in gioco dal PGT è di altri 8 milioni di metri quadri: cioè, dopo questo PGT ci resta nuovo suolo urbanizzabile solo per un altro PGT, ma se in fatto di consumo di suolo ci acconciamo a comportarci come la prudente Germania.

A queste quantità edificatorie vanno aggiunte le nuove edificazioni negli ambiti già urbanizzati che, come dimostrano alcune simulazioni recentemente illustrate all’Ordine degli Architetti di Milano, con densità edificatorie ammesse superiori ai 7 mc/mq, alcuni stimano possano produrre altri 12 milioni di metri quadri edificatori abitabili. E’ assai difficile credere che tutte queste quantità possano davvero realizzarsi nel prossimo quinquennio, anche in considerazione delle iniziative immobiliari già in atto e della difficile situazione economico-finanziaria.

I nostalgici del sovradimensionamento

scorazzano nella prateria delle iniziative immobiliari

In realtà ciò che il PGT prefigura è una vasta prateria di iniziative immobiliari nella quale la finanza possa scorrazzare acquisendo diritti edificatori virtuali (dei veri e propri futures speculativi, cui possono accedere solo banche e finanziarie che abbiano una dimensione economica in grado di attendere nel medio-lungo periodo la ripresa dei mercati, come dimostrano le recenti estromissioni degli immobiliaristi più tradizionali alla Zunino e Ligresti dalle più rilevanti iniziative immobiliari in corso), e che, con il meccanismo dei cosiddetti scambi perequativi, non si sa dove, come e quando si consolideranno in forme insediative.

Ma al Comune questo sembra non importare gran che: l’importante è far girare il business. In fondo è quello che già era accaduto con il sovradimensionamento dei PRG negli anni Cinquanta-Sessanta, e per alcuni la nostalgia sembra davvero irrefrenabile, se si è avuto il coraggio di rievocare, rivalutandolo, il cosiddetto “rito ambrosiano”, tempo addietro simbolo di pratiche consociative deteriori tra amministratori pubblici e interessi speculativi. Basti dire che per garantire l’attuale livello della rendita fondiaria (900-1.200 Euro/mq abitativo realizzabile) basterebbe un indice edificatorio di 0,40 mq/mq ad uso privato, mentre il PGT promuove senza alcuna contropartita usi edificatori privati di 0,65 mq/mq, cui si aggiungono le quantità edificatorie per l’edilizia sociale e per la premialità ambientale, sino a spingere la densità edificatoria a superare 1 mq/mq (di nuovo anche in questo aspetto del tutto indifferentemente tra amministrazioni di centro-destra o di centro-sinistra e nel capoluogo milanese o nei grandi comuni dell’hinterland).

Invertire questa tendenza sarebbe possibile proprio a partire dalla risorsa strategica rappresentata dalle grandi proprietà pubbliche istituzionali di aree destinate alle trasformazioni urbane (gli ex scali ferroviari, le ex caserme, ecc.), se il Comune, anziché incentivarne l’omologazione al comportamento degli speculatori immobiliari nella ricerca della massimizzazione delle rendite, subordinasse la sottoscrizione degli accordi di programma con queste proprietà all’impegno da parte loro ad attuare un meccanismo di alienazione dei propri patrimoni fondiari con il criterio del ribasso sulla quota di edificazione privata e conseguentemente con la crescita della quota di edilizia sociale, ferma restandone l’edificabilità totale ammessa. In tal modo si potrebbe sia stabilizzarne il livello della rendita fondiaria attorno ai valori attuali sia massimizzarne l’utilità sociale.

Purtroppo è esattamente il contrario di ciò che i Comuni amano fare quando sono condizionati dal dover far fronte a necessità immediate cui non sono più in grado di rispondere con le ordinarie risorse di bilancio: si accetta l’omologazione del comportamento di queste proprietà istituzionali a quello degli immobiliaristi, alla sola condizione che le rendite fondiarie vengano totalmente o parzialmente reinvestite in ambito locale, non importa se in un orizzonte di investimenti infrastrutturali di lungo periodo o, come per lo più accade, anche solo in modo congiunturale. In questo modo si finisce per incentivarne lo sviamento di comportamento persino quando si tratta di enti, quali FS, che per compito istituzionale e funzionalità aziendale dovrebbero indirizzare prioritariamente i propri investimenti a sostenere gli obiettivi di riequilibrio territoriale di area vasta e di lungo periodo. I proventi derivanti dalla rendita fondiaria delle trasformazioni urbane più rilevanti, anche se milanesi, dovrebbero infatti essere indirizzati prioritariamente al finanziamento dei collegamenti infrastrutturali a livello regionale, interregionale e internazionale, quali le tratte italiane di collegamento su ferro da Milano al progetto svizzero AlpTransit/NTFA, via traforo del San Gottardo, o, a livello interregionale, la Gronda ferroviaria Novara-Malpensa-Seregno-Verdello-Orio al Serio. Gli investimenti sul nodo ferroviario di Milano verrebbero così indirizzati a sistema con i centri di interscambio delle merci e le nuove polarità intermedie dell’area padana, anziché finire per surrogare le carenze di investimento dei bilanci municipali, provinciali e regionali nel far fronte ai costi dei movimenti pendolari sul capoluogo milanese, il cui ruolo di dominanza finisce per esserne confermato ed anzi esaltato.

D’altra parte, anche rimanendo in ambito municipale, l’assoluta illogicità urbanistica di attribuire gli indici edificatori in base alle crescenti aspettative di rendita delle proprietà fondiarie nel medio-lungo periodo (e che come si è detto potranno essere incamerate solo da grandi investitori finanziari) si evidenzia nel fatto che con l’indice di edificabilità territoriale di 1 mq/mq non solo nei singoli piani attuativi non è possibile realizzare le aree pubbliche per 17,5 mq/abitante di parchi pubblici e grandi servizi prescritti dalla legislazione nazionale , ma persino i servizi propri di quartiere sono inferiori al minimo di 18 mq/abitanti sempre fissati dalla legislazione nazionale nel mitico 1968 e mai abrogata.

La legge urbanistica della Lombardia:

un regressivo protofederalismo urbanistico

La legge regionale lombarda del 2005, in una sorta di empito anticipatorio di un regressivo protofederalismo in campo urbanistico , proclama che con l’approvazione dei nuovi strumenti urbanistici quinquennali inventati in Lombardia (i PGT) si disapplicherà l’odiato Decreto ministeriale del 1968. Tuttavia, ogni qual volta i cittadini hanno l’accortezza e la forza di impugnarli di fronte ai Tribunali Amministrativi, le sentenze ribadiscono che questo non è assolutamente legittimo, in assenza di un quadro di sostenibilità dell’assetto insediativo finale cui essi metteranno capo.

Per confondere le acque il Comune di Milano va sbandierando il fatto che nei PII ai privati si chiede la cessione ad uso pubblico del 50% delle aree di intervento, e tende surrettiziamente a presentare questa richiesta (in realtà del tutto immotivata dal punto di vista logico) come una sorta di equispartizione mezzadrile tra interesse pubblico e privato, mentre è possibile dimostrare che anche solo per garantire le dotazioni pubbliche minime di quartiere e quelle per parchi e servizi territoriali generali (da 35,5 a 44 mq/abitante, a seconda che quelle di quartiere siano le minime del 1968 o quelle maggiorate dalle regioni), persino con l’indice 0,65 mq/mq occorre oltre il 67% dell’area da destinare ad uso pubblico. Come ho già detto, con l’indice di 1 mq/mq è, invece, addirittura fisicamente impossibile realizzare tutti gli spazi pubblici richiesti e contemporaneamente farci stare gli edifici se la maggior parte delle aree pubbliche non viene monetizzata e non si aggirano i vincoli di altezza e distanza tra gli edifici privati.

E’ questo, infatti, l’altro vincolo che con la disapplicazione da parte della legge regionale lombarda del Decreto ministeriale del 1968 ci si propone di aggirare, poiché con densità edificatorie così elevate è spesso comunque fisicamente difficile farci stare tutte le volumetrie se non facendole salire molto in altezza e accostando molto gli edifici tra loro. Il Decreto ministeriale, invece, pur con la macchinosa rigidità di meccanismo normativo che talvolta gli è stato rimproverato, impone un obbligo di semplice ma grande sensatezza: se si interviene con un piano urbanistico attuativo che realizza tutti gli spazi pubblici richiesti, il progetto può liberamente proporre altezze e distanze degli edifici secondo un proprio autonomo criterio insediativo; se invece le densità sono talmente elevate da non consentire di realizzare tutti gli spazi pubblici richiesti e occorre monetizzarne una parte rilevante (e quindi il progetto urbanistico non è autonormato, ma si impianta sulle condizione urbane contestuali) il decreto impone, oltre a limiti massimi di densità fondiaria, che gli edifici rispettino le altezze massime degli edifici preesistenti e circostanti ed abbiano distanze pari almeno alla propria altezza.

Un obbligo odioso ed intollerabile per le fantasie da archistar cui fanno ricorso i promotori immobiliar-finanziari del Rinascimento Urbano, ma che rischia soprattutto di mandare in fumo tutte le lucrose architetture finanziarie che si celano dietro l’incremento degli indici edificatori. Un obbligo che, ovviamente, è invece visto come l’ultima ancora di salvezza da parte dei cittadini che si trovano malauguratamente a vivere letteralmente all’ombra di quei mastodonti che la deregulation normativa consentirebbe; ad esempio, nel progetto Citylife (Ras, Generali, Deutsche Bank, Ligresti) sull’area dimessa dalla vecchia Fiera – indice edificatorio 1,15 mq/mq, 50% di area pubblica - gli edifici sul margine sono alti tre volte quelli circostanti e le tre torri centrali (alte il doppio dei grattacieli più alti della città, simbolicamente rappresentati dal mitico Pirelli degli anni Sessanta, ora sede del Consiglio regionale e dal nuovo Palazzo del Governatore recentemente voluto da Formigoni) in inverno oscureranno molti edifici circostanti per l’intera giornata.

Per l’assessore all’urbanistica del Comune di Milano, il CL Masseroli, tuttavia, tutto questo non è un problema (soprattutto nel caso dell’area dell’ex Fiera perché il venditore dell’area, che ha realizzato il doppio della base d’asta proposta, era Fondazione Fiera, sino a poco tempo fa completamente egemonizzata da CL a partire dal Presidente Roth e giù per li rami di Fiera Congressi, Fiera Esposizioni dai vari Lupi, Intiglietta e Compagnia delle Opere cantante), perché, come spiega l’assessore, se gli edifici crescono in altezza, attorno rimane comunque dello spazio libero. Che il peso insediativo e addirittura l’ingombro fisico sia abnorme non lo preoccupa affatto: è come se ci spiegasse che la sera nelle discoteche alla moda della “Milano da bere” può non esserci alcun limite alla quantità di alcolici che si può ingerire, purché la si beva in bicchieri alti e stretti!

Il problema, come ho spiegato, è che non si vuol intaccare la possibilità di attribuire ai privati l’intera densità edificatoria di 0,65 mq/mq, che è la massima ragionevolmente ammissibile per ottenere un insediamento urbanisticamente ed ambientalmente sostenibile, devolvendola invece interamente all’accresciuta aspettativa della rendita immobiliar-finanziaria, salvo poi dovere e volere incrementare ulteriormente l’edificabilità totale per riconoscere delle premialità all’accresciuta sensibilità verso il risparmio energetico degli edifici o far fronte alle esigenze di housing sociale, su cui si appuntano gli appetiti delle sussidiarietà dei più svariati orientamenti politico-sociali. Chi ne fa le spese è il carico insediativo sul territorio, i cui effetti negativi si misurano solo su un orizzonte temporale di lungo periodo, cui la politica amministrativa degli enti locali non è interessata né dal punto di vista degli interlocutori né da quello dei risultati.

Tuttavia tutti questi provvedimenti dal punto di vista della conquista di un consenso di massa hanno avuto il limite di tornare utili quasi esclusivamente alle aspettative delle grandi e medie proprietà fondiarie, quali quelle delle aree dimesse e dei PII. Questo avviene nonostante la Regione Lombardia abbia da tempo provveduto a introdurre la possibilità di trasformare ad uso abitativo e in deroga agli indici edificatori prescritti dagli strumenti urbanistici non solo i sottotetti degli edifici già esistenti da tempo, ma anche quelli degli edifici di nuova progettazione (anche se per questi ultimi, un po farisaicamente e al fine di evitare il rischio di impugnazione per mancato rispetto degli indici edificatori che vengono violati, solo dopo un periodo di “invecchiamento” di cinque anni dalla avvenuta realizzazione dell’immobile cui appartengono.

Molte sono state le proteste degli ambienti più sensibili alla qualità storico-estetica dell’immagine urbana per le aberranti e invadenti incombenze visive delle sopraelevazioni che sono andate dilagando per l’intera città. Sta di fatto che questa liberalizzazione è stata diffusamente applicata per la trasformazione d’uso dei sottotetti condominiali, ma ben poco nelle piccole e piccolissime proprietà delle casette mono-bifamiliari dell’hinterland, sia nella versione spartana delle “coree” degli Anni Cinquanta sia in quella più agiata degli Anni Sessanta-Settanta del “boom” economico.

Su questo aspetto sono, quindi, intervenute più di recente le disposizioni recepite dal cosiddetto “Piano Casa” che consentono incrementi volumetrici da 300 a 600 metri cubi per gli edifici mono e bifamiliari e sino a 1000 metri cubi per quelli plurifamiliari (in pratica da uno a tre nuovi alloggi in più) e sino al 40% in più (senza limiti volumetrici complessivi e anche con la costruzione di nuovi edifici) per gli insediamenti di edilizia economica popolare. Anche nei centri storici (e salvo il parere discrezionale di una commissione ad hoc), la demolizione e ricostruzione di edifici di più recente costruzione verrebbe premiata con un incremento volumetrico del 30%, a fronte dell’utilizzo di tecniche costruttive a risparmio energetico, che tuttavia non farebbero che aggravarne la dissonanza dal contesto insediativo.

Ciò che si vuol dar ad intendere alla piccola e piccolissima proprietà è che anche loro (nel loro piccolo, s’intende!) e nonostante il degrado urbano in cui vivranno, potranno godere dei vantaggi individuali di cui hanno sinora goduto i grandi interventi mossi dai PII in spregio a qualunque criterio di logica insediativa, ma solo di valorizzazione fondiaria; e, tuttavia, con edifici di assoluta impermeabilità non solo alla dispersione energetica, ma anche all’interazione col contesto urbano. Una vera capsula di sopravvivenza individuale, in qualche modo riproposizione aggiornata all’emergenza socio-ambientale del mito del rifugio antiatomico degli anni Cinquanta-Sessanta! E’ quel che accade nei vari PII Citylife, Porta Nuova, Santa Giulia a Milano, ma anche all’ex Falck di Sesto San Giovanni, che ha un’amministrazione PD-PRC!

E’ necessario, invece, che si confermi il ruolo di indirizzo pubblico promosso dall’ente comunale, non più succube di progetti che celano dietro l’effimera novità di immagine, la più torva predominanza della rendita fondiaria elevata a sistema dominante, vera stella polare dell’azione dell’attuale amministrazione comunale.

Una perequazione non liberistica,

ma progettualmente e socialmente orientata

Ciò è possibile spalmando le aspettative di rendita immobiliare della proprietà sull’ampia platea di aree messe in campo dal PGT in corso, usandone i meccanismi perequativi non nel senso di un indistinto liberismo insediativo, come va pontificando l’assessore all’urbanistica Masseroli , ma proprio per riservare alcune aree a funzioni pubbliche di indirizzo strategico.

Occorre, quindi, riprendere una consolidata tradizione progettuale dell’urbanistica progressista imprimendo un deciso orientamento pubblico ai progetti lungo la direttrice di Nord-Ovest da quelle destinate ad EXPO, a Nuova Bovisa, all’ ex Scalo Farini e, per quanto ancora possibile, all’ex Fiera-Citylife e Garibaldi-Repubblica, su cui incombono così numerose, eterogenee ed estemporanee aspettative immobiliari, spesso veicolate da altrettali iniziative progettuali.

Soprattutto sulle aree di Expo è necessario fondare un centro di attività pubbliche permanenti tese all’indirizzo dell’uso appropriato delle risorse agricolo-alimentari, spalmando le aspettative di riuso immobiliare della proprietà sull’ampia platea di aree messe in campo dal PGT in corso, coi meccanismi perequativi tanto cari all’assessore all’urbanistica di Milano, il CL Masseroli. Si darebbe così finalmente seguito concreto alla forse unica ma essenziale, indicazione strategica nella relazione redatta nel 2000 dal prof. Mazza, come premessa al Documento di Indirizzo Urbanistico (D.I.U.) dei Programmi Integrati di Intervento (PII) introdotti dalla legge del 1992: “Un intervento nel settore nord-ovest avrebbe un rilievo strutturale sulla forma della regione urbana…La dimensione dell’area deve essere tale da permettere l’insediamento di uffici e servizi con superfici monopiano a luce diretta ed insieme una parte rilevante di verde e spazi e attrezzature per il tempo libero e sportive. Costruire uno spazio urbano capace di fare concorrenza all’attrattività dei centri storici per qualità monumentale e ambientale. Un’ambizione che dopo tanti disastri dell’urbanistica e dell’architettura moderna può far sorridere, ma è una condizione indispensabile per il successo del progetto.” .

Avrà presente Pisapia tutto ciò (ha parlato poco di urbanistica e ambiente durante la campagna elettorale delle primarie, e più di lui l’hanno fatto Sacerdoti e Onida, sia pure in termini un po’ generici di partecipazione e attenzione all’ambiente e allo svantaggio sociale) ? E soprattutto saprà resistere alle sirene neo-liberiste intonate dalle forze centriste (Tabacci in primis, coi suoi occhi dolci ai vari Albertini, Profumo & Co.) e dallo stesso PD, come condizione per confermargli l’appoggio? Non finirà che a un candidato sindaco particolarmente connotato a sinistra si pretenderà di affiancare una squadra che lo controbilanci in senso moderato, soprattutto in campo edilizio-immobiliare?

Solo dopo aver sciolto questi dubbi, i fumi che avvolgono l’ebbrezza dell’inattesa vittoria potrebbero lasciar intravedere un’alba nuova anche per l’urbanistica milanese!

Il nuovo piano regolatore? Nato moribondo dopo 15 anni di gestazione e approvato dal consiglio comunale nel febbraio 2008, solo due mesi prima dell’avvento dell’era Alemanno, reso instabile dalle lotte intestine alle maggioranze di centrosinistra che l’avevano elaborato – le due giunte di Rutelli e le due Veltroni (1993-2008) – ha ormai l’encefalogramma piatto. Alcuni suoi organi – l’impianto normativo e il sistema perequativo – sono già stati espiantati, il resto probabilmente verrà sepolto in un cassetto. Sono altri gli sviluppi che interessano il futuro di Roma, che galleggia fra le visioni elettorali di Alemanno – il piccone risanatore nelle periferie pubbliche del Corviale o di Tor Bella Monaca, la voglia di grattacieli – e molto più concrete occasioni di business, come il progetto della Formula 1 all’Eur, la candidatura per le Olimpiadi del 2020, il ridisegno del waterfront di Ostia.

Nel presente, il problema più serio è la questione abitativa, a Roma vero e proprio nodo urbano. La capitale conosce fenomeni d’altri tempi: continua a macinare residenze (in media 10 mila all’anno) accumulando forti quote di sfitto e invenduto, mentre 2 mila famiglie vivono in abitazioni occupate. Il centro storico e la città consolidata, del primo Novecento, perdono abitanti (300 mila negli ultimi dieci anni), mentre ingrassano i comuni di prima, seconda e terza cintura, ben oltre il Raccordo anulare, al punto che c’è chi parla ormai di periferia regionale. Sul suo territorio sterminato – 129 mila ettari, dieci volte l’estensione di Milano – insistono 114 quartieri di edilizia pubblica dove vivono 600 mila abitanti, nati anche per sanare la prevalente periferia abusiva. Ovunque i servizi sono carenti. Nello sprawl urbano favorito dalla presenza dell’Agro, grande riserva di aree, oltre che di archeologia e natura, anche il traffico rappresenta “una patologia urbanistica”, come spiega Walter Tocci, vicesindaco e assessore alla Mobilità nelle giunte Rutelli (1993-2001). Nel bel libro “Avanti c’è posto” (Donzelli editore) Tocci scrive: “Se analizziamo, ad esempio, le strade bloccate regolarmente tutte le mattine, come la Cassia o la Prenestina, constatiamo flussi di traffico non impossibili, poco sopra le 1.000 auto/ora, alla portata di autobus capienti e frequenti. Se in quelle condizioni si arriva alla saturazione significa che non è un problema di quantità, ma di cattiva disposizione degli elementi nello spazio”. Inevitabile in una città dove – ricorda sempre Tocci – l’abusivismo è stato “il vettore della grande espansione novecentesca, […] il catalizzatore dei processi, la forza propulsiva che va oltre le prime borgate pubbliche, oltre i confini del piano del 1931 e di quelli del 1962, che travolge […] il tentativo di contenimento della cosiddetta ricucitura degli anni Ottanta, fino a contaminare l’ultimo piano del Duemila”.

Ma a chi importa davvero sistemare questo blob edilizio a bassissima densità? La classe imprenditoriale, costruttori compresi, cura legittimamente i propri interessi, ad ampio spettro per pochi grandi (come Francesco Gaetano Caltagirone, affaccendato in partecipazioni bancarie, giornali, muncipalizzate), di medio o piccolo cabotaggio per quasi tutti gli altri. E l’amministrazione pubblica, tendenzialmente, si adegua. “In Italia, e anche a Roma, ha sempre inseguito gli interessi privati. Meglio: li ha sempre assecondati, ricevendone una risposta funzionale alla propria sopravvivenza. Questi sono i rapporti di forza in campo”. Parole condivisibili e un po’ sorprendenti, visto che a pronunciarle è l’attuale assessore comunale all’Urbanistica Marco Corsini, un tecnico che conosce bene i meccanismi della politica: “Nelle grandi città le scelte urbanistiche fondamentali sono compiute dal sindaco, con cui si relazionano i grandi poteri. L’assessore è solo un attuatore, a Roma come a Venezia”, dove Corsini è stato assessore ai Lavori pubblici della giunta Costa. Sarà per questo che Alemanno è sommerso da visioni così irraggiungibili? Fra i suoi sogni pare esserci anche l’eredità politica di Silvio Berlusconi. In fondo, ci hanno provato anche Francesco Rutelli (2001) e Walter Veltroni (2008) a sfruttare il Campidoglio per tentare l’assalto a Palazzo Chigi, interrompendo con le rispettive legislature processi molto importanti: per esempio l’approvazione del prg, che come ricorda Domenico Cecchini, assessore all’Urbanistica di Rutelli, poteva essere varato comodamente entro la scadenza naturale del mandato, nel 2003. Perché se è vero che l’urbanistica è politica, nella capitale della politica italiana questo è vero due volte: una iattura, per la città e anche per i candidati premier (sempre perdenti). Alemanno ci pensi: la maledizione della Lupa incombe.

Ma c’è un’altra partita politica molto importante in corso, quella per Roma Capitale. Dopo l’approvazione del primo decreto legislativo la città ha ufficialmente acquisito un nuovo status giuridico. Ma sarà il prossimo dlgs, se mai vedrà la luce, a portare in dote la ciccia, ovvero le nuove competenze di scala metropolitana: sacrosante, date le dimensioni territoriali in gioco. In palio c’è probabilmente troppo, compresa la funzione urbanistica (che la Costituzione affida alle Regioni) e la valorizzazione paesistica e dei beni culturali. Se l’operazione andasse in porto cambierebbe il peso di Provincia e Regione, che rischiano di trasformarsi, rispettivamente, in un ente di testimonianza e “in un buco con un po’ di territorio intorno”, come afferma efficacemente l’urbanista Vezio De Lucia. Dire che i presidenti Zingaretti e Polverini siano contrari all’ipotesi è un eufemismo. Volano coltelli anche a mezzo stampa e viene sollevata l’ipotesi (non infondata) di incostituzionalità della norma. E qui torniamo alla domanda iniziale: chi ha cuore davvero le magagne di Roma? A chi interessa la gestione efficiente del suo malconcio territorio? La sensazione è che la speculazione edilizia non sia la peggiore delle malattie. La speculazione politica è pure peggio.

Adagio con il piano

La struttura del prg è costruita su tre elementi cardine. Anzitutto la cosiddetta cura del ferro, basata su un accordo di programma fra Comune, Provincia, Regione e Fs, che prevede “la la prosecuzione delle attuali linee metropolitane A e B – ricorda il presidente dell’Inu Federico Oliva, uno dei superconsulenti del piano – l’introduzione di due nuove linee, C e D, e tre passanti ferroviari di superficie che utilizzino la rete esistente di Rfi. Il tutto articolato sulla cintura ferroviaria, che a Roma è poco più ampia delle mura aureliane e ancora incompleta nella parte nord”. Gli enti coinvolti si sono impegnati a finanziare un’operazione da 12 miliardi di euro, in grado di servire la metà dei cittadini. Seconda gamba del piano, il nuovo sistema del verde: la rete ecologica, formata da parchi, aree naturali e territori agricoli, “copre il 68 per cento del territorio romano”, spiega Domenico Cecchini, che diede impulso alla prima fase del prg. Terza gamba: il policentrismo. Accantonata l’idea di Luigi Piccinato, che nel piano del 1962-65, per decongestionare il centro storico, aveva disegnato lo Sdo, sistema direzionale dell’area orientale ove decentrare i ministeri, si privilegiò una nuova visione: “Si prese atto che il territorio di Roma è metropolizzato – sostiene Oliva – caratterizzato da insediamenti da 100-150 mila abitanti, vere e proprie città, e si pensò di addensare sui nodi del ferro tutte le nuove previsioni, creando nove centralità: alcune nuove, altre già esistenti, come Tor Vergata. Qui dovrebbero essere realizzate non residenze, molto presenti nel contesto territoriale, ma funzioni urbane di qualità e attività produttive”. Per centrare l’obiettivo si utilizza lo strumento della perequazione/compensazione: vengono riconosciuti i diritti edificatori maturati nel precedente prg, ma i proprietari sono chiamati a esercitarli nelle nuove polarità o comunque a tiro di ferro. A questi si aggiunge “una limitata previsione di nuova edificazione, pari a circa 400 mila stanze”.

La scelta di riconoscere i diritti edificatori del piano del 1962 scatena l’opposizione interna al centrosinistra, che non fa che riverberare in chiave politica (l’asse Rifondazione-Verdi contro il resto del centrosinistra) la spaccatura tecnica maturata all’inizio degli anni Novanta all’interno dell’Istituto nazionale di urbanistica fra il gruppo di Federico Oliva e Giuseppe Campos Venuti (altro padre del piano di Roma) e il gruppo Polis (Edoardo Salzano, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, fra gli altri). Il piano viene accusato di determinare una nuova colata di cemento in città, “pari a 64 milioni di metri cubi”, quantifica Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio. Vezio De Lucia accusa il prg “di essere privo di qualunque elaborazione sul dimensionamento, poiché a fronte di un incremento volumetrico complessivo pari a circa il dieci per cento dell’esistente – tutto sommato ragionevole – corrisponde un aumento del 35 per cento della superficie occupata”. E ricorda che Italia Nostra, di cui è consigliere nazionale, incaricò l’avvocato amministrativista Vincenzo Cerulli Irelli (“Un ex democristiano, non un sovversivo”) di presentare un parere pro veritate in cui venne chiarito “un principio che noi urbanisti di vecchia scuola conoscevamo già molto bene: l’edificabilità è data dal piano e il piano la toglie, i diritti edificatori non esistono”. Paolo Avarello, già presidente dell’Inu e docente di Urbanistica a Roma 3, sottolinea che “il prg, che voleva essere uno strumento innovativo, ha ereditato in effetti il passato”. Compreso il problema dei rentier “che hanno già pagato le tasse sulla proprietà di terreni edificabili: tornare indietro sarebbe molto difficile, oggi, così come espropriare”. Se non si riconoscono le previsioni edificatorie pregresse, ragiona Avarello, c’è il rischio fondato di paralisi da contenzioso.

In ogni caso, alla perequazione si affida il compito di realizzare il nuovo. Cui bisogna aggiungere il cosiddetto contributo straordinario connesso al rilascio del permesso di costruire: “Le norme tecniche del prg – sottolinea Cecchini – prevedono che il plusvalore derivante dalle decisioni urbanistiche debba tornare alla città attraverso una contribuzione straordinaria pari al 66 per cento”. La norma era stata affossata dal Tar del Lazio, ma è stata ripescata il primo settembre scorso da un pronunciamento del Consiglio di Stato. La decisione è stata salutata con grande favore dall’assessore Corsini: il Comune, del resto, aveva difeso in sede giudiziaria il prg. “Adesso vedremo se l’amministrazione Alemanno avrà la forza di esigere il contributo straordinario”, chiosa uno scettico Cecchini.

Ma che cosa vuol fare l’amministrazione capitolina del prg? Una fonte interna che ci chiede l’anonimato conferma che sul tema centralità non si sta muovendo foglia. Corsini ammette che si sta ragionando su un loro “ripensamento funzionale”. Si consideri poi che il primo atto urbanistico della giunta Alemanno, maturato subito dopo l’insediamento, è stato un bando per il reperimento di nuove aree ove realizzare 30 mila alloggi di edilizia residenziale, snobbata dal prg, almeno secondo il Campidoglio. Sono pervenute 300 proposte, “ma vi daremo seguito – afferma Corsini – solo dopo aver esperito altri strumenti, dalla densificazione al recupero di superfici pubbliche all’interno degli sviluppi urbanistici, dall’acquisto e vendita di immobili ai cambi di destinazione d’uso. Perché non vogliamo consumare altro territorio. Quel che manca sarà oggetto di una variante al prg, che verrà presentata forse entro il 2011”.

Le politiche di Alemanno sull’housing sono contestate da Cecchini e da Daniel Modigliani, alla guida dell’Ufficio di piano al momento dell’approvazione del prg, che sottolineano come “trasformare aree agricole in edificabili serve solo alla speculazione fondiaria, non a dare case a chi è effettivamente in condizioni disagiate”. Perché il problema “non sono le aree, ma i finanziamenti pubblici necessari a costruire le case sovvenzionate e a ridurre i prezzi delle convenzionate”. In ogni caso, secondo Cecchini e Modigliani, basta dare corso ai 35 piani di zona già approvati e ad altre disposizioni del piano per realizzare nei prossimi cinque anni “non meno di 10 mila alloggi in aree già previste come edificabili dal prg”. Senza consumare altro Agro o attentare ulteriormente a parchi intorno a Roma, fra cui quello dell’Appia Antica, che nei sogni del giornalista e scrittore Antonio Cederna e dell’ex soprintendente ai Beni archeologici Adriano La Regina avrebbe dovuto essere valorizzato e unito al cuore della città eterna. Un progetto bellissimo e cancellato, con via dei Fori imperiali oggi ridotta ad arteria di scorrimento viario verso l’ingorgo mefitico di piazza Venezia. Ma questo è un altro discorso.

Tornando all’housing sociale, va tenuto presente che trattasi di tema sensibile. È stato uno degli slogan forti della campagna elettorale di Alemanno: da qui tanta fretta nell’approcciarlo. Del resto, dal mondo dei costruttori – con la benedizione preelettorale di Francesco Gaetano Caltagirone, le cui rare parole pesano come pietre – e dal popolo delle periferie sono venuti molti voti per il sindaco. Il resto è poesia, o quasi. L’analisi di Corsini non lascia adito a dubbi: “Condividiamo il sistema di regole del prg, non gli aspetti operativi. La realtà corre ben più velocemente delle previsioni del piano, che è privo di una visione strategica. Inoltre sono maturate altre riflessioni, che ci hanno portato a investire sul waterfront di Ostia, sulla candidatura alle Olimpiadi del 2020, sul riutilizzo delle aree che erediteremo con il federalismo demaniale, sulla realizzazione dei nuovi stadi per Roma e Lazio, sulla pista di F1 da realizzare all’Eur. E così il prg è entrato fisiologicamente in crisi il giorno dopo l’approvazione”. Anche la cura del ferro sarà annacquata: “Nessuno ha intenzione di fermare questo processo, data la sua tempistica per ere geologiche”, continua Corsini. Ma nel frattempo, per cautelarsi, la giunta ha presentato un nuovo piano della mobilità. Sostenibile, va da sé.

Consigli per gli acquisti

Archiviato il prg, si pensa ad altro. Secondo Paolo Berdini, docente di Urbanistica all’Università Tor Vergata, “l’amministrazione comunale, attraverso l’uso dell’emergenza legata ai grandi eventi, sta cercando di definire il nuovo volto della città, depotenziando un piano che non condivide. E per centrare l’obiettivo sta orientandosi su altri progetti”. Per esempio i nuovi stadi per le squadre di calcio capitoline, veri e propri pezzi di città. Quello della Lazio, per esempio, è un complesso polifunzionale di “seicento ettari, fuori dal Raccordo anulare, al 90 per cento del costruttore Gianni Mezzaroma”, suocero del proponente Claudio Lotito, in una zona – lungo la strada Tiberina, al confine con il Comune di Fiano – che per “l’80 per cento fa parte dell’agro romano vincolato” (da “La colata” di Garibaldi Massari Preve Salvaggiulo Sansa, editrice Chiarelettere). Anche la location individuata per il villaggio olimpico a Tor di Quinto, in un’area piena di vincoli, lascia perplessi. Passare da un piano anche criticabile (e criticato) a una visione così puntiforme può sembrare espressione di una visuale un po’ limitata, magari provinciale, almeno per una grande città. Ma va considerato “che questa non è Milano – spiega Antonello Sotgia, dello studio di architettura Marchini Sotgia – qui i grandi sogni che si rincorrono sono soprattutto grandi slogan”. Qui nel dna ci sono borgatari e palazzinari “e Alemanno ha compreso che la città con cui dover fare i conti è questa, è fatta di allontanamenti forzati delle comunità rom e di progetti/eventi capaci di apparecchiare e rendere possibili i soliti esercizi di rendita”. E ora, con Roma Capitale “e i poteri assoluti che con questa legge vorrebbe assumere”, il gioco potrebbe cambiare. “Veltroni era costretto a rivolgersi al migliore offerente – continua Sotgia – prefigurando un piano regolatore delle offerte in cui leggere le normative tecniche come consigli per acquisti. Alemanno oggi, quando parla di abbattere case e palazzi, spostare persone, ricostruire edifici secondo precisi modelli estensivi, non parla da urbanista e neppure solo da sindaco, ma da nuovo ingegnere istituzionale”.

Nell’attesa dei nuovi poteri, “seduce le periferie giocando sul loro male di vivere. E deve dare una risposta ai piccoli costruttori, che l’hanno sempre appoggiato”. E che sono prodighi di suggerimenti su come intervenire nello sprawl. La relazione che il presidente dell’Acer Eugenio Batelli ha presentato nel corso dell’ultima assemblea dell’associazione dei costruttori romani, alla fine di settembre, batte molto sul tema. Per esempio, negli “insediamenti nati spontaneamente”, da Montespaccato a Vermicino, da Infernetto a Centocelle, è consigliata la sostituzione edilizia, “ma gli incentivi attualmente previsti dal piano casa regionale non garantiscono il necessario riequilibrio economico”. Batelli chiede dunque un premio di almeno il 60 per cento della cubatura, andando oltre le pur generose previsioni del piano Polverini, che sta ritoccando la legge varata dalla giunta Marrazzo ma si ferma, nello specifico, al 50 per cento. I costruttori sanno che tocca a loro colmare la “mancanza di risorse” che ha impedito di mettere mano al problema periferie, anche perché in cassa il Campidoglio ha soprattutto un mare di debiti: “Il Comune di Roma deve sostenere fino al 2043 il piano di rientro dal dissesto finanziario”, sottolinea Batelli. Sicché prova a dettare qualche condizione: “Negli interventi di edilizia agevolata del secondo piano peep (edilizia economico-popolare, ndr) a Castelverde, Torraccia/Casalmonastero e Muratella” si richiede di densificare i piani “nelle aree extra standard non utilizzate”. Discorso analogo sia per i piani di recupero urbano meglio noti come articoli 11, per i quali Batelli propone “di riconsiderare le destinazioni d’uso non residenziali ormai superate, reperendo così contributi straordinari necessari per il completamento delle opere pubbliche”, sia per i print (piani di recupero integrato), per i quali sollecita “premi di cubatura adeguati all’onerosità degli interventi”.

Nuove aree e nuovi incentivi per nuove case. Quanto al ridisegno dei grandi complessi pubblici di stampo collettivista – come li ha definiti Alemanno – Batelli non si azzarda: sa che l’impresa è titanica. “La riqualificazione delle periferie non deve certo cominciare dai quartieri di edilizia residenziale pubblica – afferma l’ambientalista Lorenzo Parlati – dove i problemi sono di carattere sociale, non urbanistico. Meglio puntare sugli insediamenti abusivi”. Lì c’è trippa per gatti: “Un terzo di Roma è sorto così. Oltretutto si tratta di edilizia privata, in cui un intervento privato di riqualificazione, favorito naturalmente da un piano comunale in grado di mantenere l’interesse pubblico dell’operazione, potrebbe avere senso e dare risultati importanti”. Aggiunge il presidente dell’Ordine degli architetti di Roma, Amedeo Schiattarella: “Sono d’accordo con il principio di fondo: l’amministrazione deve poter demolire e riabilitare intere parti di città. Il caso del quartiere Giustiniano Imperatore – parzialmente ricostruito dopo gravi problemi di dissesto, ndr – dimostra che l’operazione è complessa, ma si può fare. Coinvolgendo anche i privati, naturalmente. Che però, nella fattispecie, devono essere portatori anche di valori generali. Ci vuole un progetto serio, insomma, che può essere garantito soltanto dallo strumento concorsuale”. Schiattarella chiede quindi l’avvio di una stagione di concorsi, meglio se di progettazione, perché quelli di idee “spesso restano nel cassetto”. E riferiti non solo al ridisegno delle periferie, ma a tutti i futuri sviluppi della capitale. A cominciare dalla riconversione delle aree ex demaniali. Ben consapevole che il passo, finora, è stato diverso, con rari monumenti contemporanei – dal Maxxi di Zaha Hadid alla teca dell’Ara Pacis di Richard Meier, che ora forse perderà il suo muretto – nel deserto dell’architettura. Sullo sfondo, il mare di sprawl, di cui Roma è capitale. La Lupa non ha ancora perso il vizio e finché c’è Agro, c’è speranza.

box 1 - Densificare, non consumare

Dal 2002 al 2008 la popolazione di Roma è cresciuta del 7 per cento e supera i 2,7 milioni di abitanti, ma nello stesso periodo i residenti della Provincia, esclusi quelli della capitale, sono aumentati del 17 per cento, mentre nella cintura romana l’incremento ha raggiunto il 23 per cento. Elementi che evidenziano “come la crescita di Roma ormai avvenga essenzialmente fuori dai confini comunali”, soprattutto lungo la direttrice nord, grazie alla presenza del collegamento ferroviario Fiumicino-Orte. “Roma cresce a Orte” è infatti il titolo della prima di una serie di ricerche sviluppate in questi ultimi anni dalla facoltà di Architettura dell’Università Roma tre, coordinate dal docente di Progettazione urbanistica Giovanni Caudo. Un lavoro che fornisce una ricca documentazione di dati e che consente di comprendere le dimensioni della questione abitativa romana, “che intreccia dinamiche di complessità urbana”, afferma Caudo. I numeri sono impietosi: a Roma gli sfratti sono numerosissimi (uno ogni 220 famiglie nel periodo gennaio-dicembre 2008) ed è tornata di moda la pratica delle occupazioni, che dal 2002 al 2008 hanno fornito una risposta abitativa a 2.500 famiglie, mentre nello stesso periodo i numeri di alloggi di edilizia economico-popolare assegnati dal Comune di Roma sono stati circa 1.700. La risposta alla domanda abitativa resta dunque molto debole. La città si sviluppa nelle periferie anche oltre il Gra, a cavallo del quale un milione circa di romani ogni mattina si muove per raggiungere il centro della città. Un inferno. Al quale però si può rimediare. Anche perché è possibile intervenire con una densificazione edilizia mirata, anziché continuare nella pratica dello sprawl. La capitale si è sviluppata a bassa densità: ogni abitante dispone di 230 metri quadrati di aree urbanizzate, un valore sei volte superiore a quello di Parigi. Per invertire la tendenza, il gruppo di ricercatori di Roma tre ha svolto un ragionamento sulle aree che insistono sull’attuale sistema di ferrovie e metropolitane, ovvero sui nodi di scambio, compresi quelli in corso di trasformazione. “E abbiamo scoperto – afferma Caudo – che nelle zone centrali già oggi vi sono ettari di superficie sottoutilizzata, destinati magari a ospitare solo parcheggi a raso”, come a Tordivalle. Le strategie elaborate indirizzano in questi ambiti (11 in tutto) la localizzazione di residenze, servizi, funzioni direzionali e amministrative: gli interventi di densificazione consentirebbero di realizzare 7.800 alloggi e una superficie utile non residenziale pari a 286 mila metri quadrati. Un altro ambito d’intervento potrebbe essere il completamento del piano di edilizia economico-popolare di Roma, il più grande d’Italia, che in 40 anni ha prodotto 114 piani di zona con una dotazione di standard ancora insufficiente (-18% rispetto alle previsioni, 423 ettari in tutto). “Si tratta di una quota importante del territorio comunale – afferma Caudo –composta da centinaia di aree, di scarto e di interstizi, che ricadono nel perimetro dei singoli piani di zona, molti dei quali all’interno del Gra, già raggiunti dalle infrastrutture e dalle opere di urbanizzazione. Una dote che l’amministrazione comunale potrebbe considerare per la formulazione di un nuovo progetto per la città”. Anziché consumare nuovo suolo.

box 2 - cittadinanza attiva

Capire “che la città non esiste più, che è esplosa, ha perso il suo tessuto di relazioni sociali”. Ma anche comprendere “quale altri spazi si vanno creando, quali nuove realtà genera l’impatto urbano su paesaggi storici, agricoli, in contesti marginali, in villaggi che non conoscevano la metropoli”. Lorenzo Romito è un progettista dell’associazione Stalker, realtà che da sempre coniuga architettura e sociale, in passato molto impegnata in lavori nei campi rom e al Corviale. Racconta un percorso molto interessante, che da uno spunto conoscitivo legato alle mille periferie di Roma sta sviluppando un percorso di aggregazione e cittadinanza attiva. “Il nostro primo tentativo è stata l’esplorazione di Campagna romana. Abbiamo formato otto gruppi, nei quali erano sempre presenti un urbanista, un fotografo e uno scrittore, e abbiamo percorso a piedi le principali direzioni regionali: cinque giorni di marcia per intercettare i processi che produce quella che ho definito l’Oltrecittà. Parlare di città oggi significa fare riferimento a una dinamica di relazioni centro-periferia che mi pare superata. Mi sembra che stia emergendo qualcosa di nuovo e cercare di capirlo può forse significare la possibilità di indirizzare lo sviluppo. Se si riesce a visualizzare questa trasformazione e se gli abitanti riescono a coglierla, forse da loro stessi possono venire spunti, pratiche, idee per rovesciare le dinamiche attuali”. Chi ha detto che la periferia è solo marginale, ragiona Romito. E lo dimostra con una seconda esperienza, Primavera romana (2009): ancora una lunga camminata, stavolta attorno al Raccordo anulare, accompagnata dall’esplorazione di tutte le realtà presenti, “dai campi rom agli orti urbani, dai comitati di quartiere che lottano contro la speculazione edilizia alle occupazioni”. L’esplorazione ha dato origine a una mappatura e la cartografia è stata messa online, a disposizione di tutti. Primavera romana è stata replicata quest’anno successivo: la ricerca questa volta si è concentrata in quelle che vengono definite le sette città fuori porta, ovvero “nelle periferie consolidate – Prenestino-Casilina, Ostiense, Trionfale, il Salario, il Nomentano, il Tiburtino – che ormai, con la musealizzazione del centro, sono l’unico residuo di città esistente, dove ci sono dialogo, confronto, conflitto sociale”. Qui è forte il tema del riuso delle grandi strutture pubbliche abbandonate, “dal mattatoio agli ospedali – continua Romito – spazi centrali attorno ai quali si sono formate le sette città e che sarebbero il luogo da cui ripartire per ridisegnare questi ambiti, sottraendoli alla speculazione futura o all’oblio. Reinventarsi un’articolazione dei luoghi, riferendosi alle comunità esistenti e alle problematiche comuni, è un modo per visualizzare un disegno amministrativo della città”. Un tema forte, tenuto ancora sottotraccia perché il punto per Romito “non è esprimere idee e visioni, ma condividere la consapevolezza dei problemi, assecondando un passo più lento, che però produce maggiore coinvolgimento e partecipazione attiva”. Da qui nasce, il mese scorso, l’ultima iniziativa, l’autoconvocazione degli Stati generali della cittadinanza, che nasce “per mettere assieme comitati e movimenti, aggregando esperienze importanti ma spesso autoreferenziali, condividendo pratiche, facendo comprendere l’interdipendenza dei problemi”. Una sorta di rete che, se riuscirà a formarsi, è destinata a diventare un soggetto politico attivo, sulla scia delle esperienze maturate in altre città (a Venezia per esempio, vedi Costruire n. 326). “Roma nasce in un luogo di passaggio lungo il Tevere – afferma Romito – come aggregazione di villaggi che stringono un patto di cittadinanza per trasformare un’area conflittuale in uno spazio condiviso. Se la città non ritroverà questa sua marginalità strutturale e continuerà a vivere di rendita, propagandando l’idea imperiale e un po’ fascista di centro, è destinata a perdere forza e identità”.

A proposito dei ”Diritti edificatori" vedi il parere pro veritate di Vincenzo Cerulli Irelli e il documento "Forse che il diritto impone di compensare i vincoli sul territorio?" di Edoardo Salzano.

1. E' senz'altro vero che la vigente normativa non pone limiti temporali alle previsioni di edificazione privata, ma questo non vuol dire che l'edificabilità prevista non possa essere modificata da un successivo intervento di pianificazione urbanistica.

La giurisprudenza amministrativa è infatti unanime e costante nell'affermare che "il comune, in sede di adozione di una variante al piano regolatore generale, ha la facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva peraltro la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni predisposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore" (così Cons. Stato, sez. IV, 03-07-2000, n. 3646). Si precisa tuttavia che "è comunque necessario che l’amministrazione dia conto delle ragioni che la inducono a modificare la destinazione di un’area nella quale lo strumento generale prevedeva l’edificazione" (Cons. Stato, sez. IV, 13-05-1998, n. 814).

Sul punto è interessante sottolineare che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, "neppure la preesistenza di un piano di lottizzazione approvato e già convenzionato costituisce - per se sola - un ostacolo alla modifica delle previsioni urbanistiche vigenti su una determinata area, proprio perché il prg non rappresenta uno strumento immodificabile di pianificazione del territorio, sul quale i privati possano fondare sine die, le proprie aspettative, ma è suscettibile di revisione ogni qual volta sopravvenute esigenze di pubblico interesse, obiettivamente esistenti ed adeguatamente motivate, facciano ritenere superata la disciplina da esso dettata" (T.a.r. Lombardia, sez. Brescia, 12-01-2001, n. 2) .

In sostanza, mi sembra che nessun ostacolo giuridico (ma vi possono certamente essere ragioni di carattere politico o comunque di opportunità) escluda che un comune, in sede di variazione degli strumenti urbanistici vigenti ovvero in sede di nuova redazione del piano regolatore, disciplini il regime di trasformazione degli immobili in modo difforme dal precedente atto di pianificazione, ad esempio prevedendo per alcune aree la destinazione a zona agricola.

Resta inteso che tanto maggiore sarà l'affidamento ingenerato nel proprietario, tanto più analitica ed esauriente dovrà essere la motivazione posta alla base del nuovo atto di pianificazione.

2. Effettuata questa premessa mi preme formulare un ulteriore considerazione.

La nuova destinazione di un'area non deve coincidere necessariamente con l'imposizione di un regime di inedificabilità assoluta (ossia un vincolo di carattere sostanzialmente espropriativo ovvero preordinato all'espropriazione) né di un vincolo di carattere morfologico (caratterizzato cioè dalla particolare natura del bene).

Per quanto attiene alla prima ipotesi, è noto che la Corte costituzionale, con la sentenza 179/99, ha stabilito che si pone un problema di indennizzo per quei vincoli che 1) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato o delle Regioni; 2) superino la durata che dal legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge.

Orbene, non vi è dubbio che, tra la previsione di una nuova destinazione su un'area, comportante la drastica riduzione degli indici di edificabilità (ad esempio destinazione agricola) e l'imposizione sulla stessa di un regime di inedificabilità assoluta (con tutte le conseguenze con riguardo all'obbligo indennitario, in caso di reiterazione), si collocano una serie di soluzioni pianificatorie intermedie, comunque compatibili con l'attuale disciplina della materia, non rappresentando cioè lo svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà.

Ricordo peraltro che la stessa sentenza costituzionale 55/68 ha riconosciuto che non ogni disciplina restrittiva dell'attività edificatoria comporta un obbligo di indennizzo: "rappresenta un punto fermo il concetto che non possono farsi rientrare nelle fattispecie espropriative le limitazioni del genere di quelle ammesse senza indennizzo dall'art. 42, secondo comma, della Costituzione, e, quindi, tra l'altro, quelle che fissano gli indici di fabbricabilità delle singole proprietà immobiliari, anche quando tali indici possono assumere valori particolarmente bassi (come nel caso di edilizia urbana estensiva e persino rada, del tipo di costruzioni circondate da ampi e predominanti spazi verdi). Pur essendo imposte nei confronti di singoli beni, tali limitazioni sono da considerare, infatti, operate sulla base di quel carattere tradizionale e connaturale delle aree urbane, basato su quelle esigenze di ordine ed euritmia nell'edilizia …".

Ed infatti è stato autorevolmente stabilito che "la destinazione a zona agricola contenuta in un piano regolatore generale non concretizza un vincolo a contenuto espropriativo, bensì conformativo del diritto di proprietà; ne consegue che la relativa prescrizione non è indennizzabile, né è soggetta al limite temporale d’efficacia di cui all’art. 2 l. 19 novembre 1968 n. 1187" (C. Stato, sez. IV, 06-03-1998, n. 382); "anche se i vincoli compressivi della proprietà immobiliare soggetti a decadenza quinquennale ai sensi della l. 19 novembre 1968 n. 1187 non sono solo quelli preordinati all’espropriazione ma anche quelli che comportano l’inedificabilità assoluta, o comunque che privano il diritto di proprietà del suo sostanziale valore economico, deve peraltro ritenersi che fra tali vincoli non rientri la destinazione a verde agricolo, atteso che quest’ultima non si configura come una limitazione tale da rendere inutilizzabile l’immobile in relazione alla destinazione inerente alla sua natura, restando al proprietario la possibilità di trarne un utile mediante la coltivazione e, inoltre una possibilità, sia pure contenuta entro parametri prestabiliti, di limitata edificazione" (C. Stato, sez. V, 07-08-1996, n. 881); ancora "è legittima la previsione di un’edificazione estremamente rada e la conservazione di ampi intervalli di verde finalizzata al più conveniente equilibrio delle condizioni di vivibilità della popolazione, in quanto la destinazione agricola può servire per orientare gli insediamenti urbani e produttivi in determinate direzioni, ovvero per salvaguardare precisi equilibri di assetto territoriale" (T.a.r. Lazio, sez. I, 19-07-1999, n. 1652).

In sostanza, l'amministrazione comunale, fermo restando l'obbligo di motivazione, può rivedere le destinazioni urbanistiche vigenti senza dover necessariamente addivenire all'espropriazione delle aree il cui regime intende innovare ovvero integrare una delle fattispecie che, sulla base della citata sentenza costituzionale, impongono un obbligo indennitario.

Quanto ai vincoli cosiddetti morfologici, concordo in pieno con le affermazione del prof. Campos Venuti, essendo indiscutibilmente vero che il regime giuridico preordinato alla tutela di tale tipologia di beni prevale sulle prescrizioni urbanistiche con esso eventualmente incompatibili.

Resto a disposizione per ogni chiarimento e approfondimento che ritenessi necessario e porgo i più cordiali saluti

Vincenzo Cerulli Irelli

Una colata di cemento è in arrivo a Monterosso, Vernazza e Riomaggiore, nel cuore del parco delle Cinque terre. Merito del piano regolatore comunale e di una variante paesistica ancora in discussione. Ufficialmente si chiama «edilizia residenziale sociale». In pratica si tratta di speculazione immobiliare, anche in territori a rischio frane. E la regia politica è bipartisan

Trenta villette (ufficialmente alloggi Ers-edilizia residenziale sociale) e un mega parcheggio con campo da calcio: a Monterosso al mare, pieno parco nazionale delle Cinque terre, tesoro dell'Unesco, potrebbero colare metri cubi di cemento, grazie ad alcune stranezze dei piani regolatori comunali e una variante paesistica regionale ancora allo studio. Un cemento promosso dal centro-destra (lo è la giunta comunale) col consenso dell'ex presidente del parco, Franco Bonanini, uomo del Pd, ora agli arresti domiciliari dopo l'inchiesta sulla malversazione di fondi pubblici e altri reati. Insomma, cemento bipartisan.

Il commissario del ministero dell'ambiente al parco delle Cinque terre, Aldo Cosentino, qualche settimana fa aveva detto al manifesto di non essere a conoscenza di tentativi di speculazione edilizia sul territorio del parco delle Cinque terre precisando che «già oggi ogni costruzione deve avere il parere del parco, come previsto dal dpr costitutivo del parco del '99».

Bene, abbiamo scoperto che nel Comune di Monterosso, che insieme a Vernazza e Riomaggiore insiste sul territorio del parco nazionale, potrebbero essere realizzate trenta case mono e bifamiliari, in località Villa Mesco, una collina incantevole a precipizio sul mare, sulle alture di Monterosso, sempre nel territorio del parco, come dimostra la cartina a fianco che fa parte di documentazione depositata dai progettisti presso gli enti competenti. Com'è possibile?

Prima di tutto, Monterosso non ha un vero e proprio piano regolatore in vigore: caso più unico che raro il Comune è infatti in regime di salvaguardia da ben dodici anni, vale a dire che il vecchio piano regolatore nato nel 1977 è scaduto nel 1987 e quello successivo adottato nel 1998 non ha mai completato l'iter di approvazione. Secondo la legge, in questi casi si è appunto in regime di salvaguardia e vale il piano più restrittivo tra i due, però val la pena notare che entrambi sono nati prima della nascita del parco (1999) e che da allora non è stato emanato nessun nuovo strumento urbanistico. Intanto neanche il parco ha un piano a tutti gli effetti e nemmeno un regolamento: un piano è stato adottato nel 2002, avrebbe dovuto essere approvato quattro anni dopo e non è successo. Tanto che una sentenza del Tar Ligure del 2008 ha annullato un parere negativo dell'ente parco e del comune di Monterosso su un condono edilizio, perchè «si dà per scontato quello che non è: che il piano adottato, operativo in salvaguardia, sia immediatamente e pienamente efficace; che la disciplina urbanistica-territoriale anteriore, comprensiva di quella limitativa connessa all'istituzione del parco, sia stata sostituita o abrogata dal piano ancora in itinere sebbene la legge annetta tale efficacia alla definitiva approvazione del piano del parco».

L'idea delle trenta casette parte con la giunta precedente e lo stesso sindaco di oggi, Angelo Maria Betta. Alla fine di marzo del 2009 la giunta emanazione di una lista civica di centro-destra approva una «riqualificazione urbana dei percorsi protetti per i nuovi alloggi Ers». Arrivano le elezioni e a luglio 2009 s'insedia un'altra giunta monocolore di centro-destra, formalmente presentata con la lista civica "Per Monterosso", capitanata sempre da Betta, che riesce a ramazzare 911 su 1.136 votanti (99 schede bianche e 126 non valide) in un comune di millecinquecento abitanti: un vero plebiscito. Per di più l'elezione per la prima volta avviene senza una lista concorrente. Alla fine la giunta è tutta della lista civica di centro-destra. Il consiglio comunale tutto destra e centro-destra, con due indipendenti ma di destra.

Betta dal 2005 è vicepresidente del consiglio del parco e membro del consiglio direttivo del parco stesso, dove è stato nominato con decreto del ministero dell'ambiente tra i cinque rappresentanti degli enti locali nella Comunità del Parco. Praticamente è il braccio destro di Bonanini, un alleato prezioso dall'altra parte dello steccato politico, protetto dal nume del territorio, il senatore Pdl Luigi Grillo che a Monterosso possiede una casa con vigneto poi trasformata in agriturismo dove produce vino doc e Sciacchettrà.

Il 16 luglio s'insedia la nuova giunta e si scaldano i motori. Infatti la cooperativa, La Rondine, che promuove la costruzione delle trenta abitazioni e ha sede a La Spezia, a novembre avvia le pratiche per gli allacciamenti alle forniture idriche ed elettriche. Il documento acquisito dal manifesto parla di «abitazioni sociali (circa una trentina) in località Mesco in Comune di Monterosso al mare». Intanto diversi monterossini si attivano su consiglio di qualche amministratore per accaparrare metri quadri di terreno a Villa Mesco da ignari contadini, convinti che si tratti solo di un terreno agricolo. Il manifesto ha visto l'atto di vendita di un terreno di 12 ettari a uliveto e un altro per un vigneto di un ettaro, comprati per poche centinaia di euro. Fingendoci anche noi interessati all'affaire, un socio della cooperativa edilizia ci ha spiegato che il primo requisito è essere abitanti a Monterosso da almeno cinque anni: «siamo stati incaricati dagli enti locali di avviare una sottoscrizione tra chi risiede a Monterosso e non sia proprietario di una casa. Abbiamo già una sessantina di soci, perché molti si sono iscritti nella speranza che altri rinuncino. A breve faremo la convenzione col Comune». Si tratta infatti di edilizia convenzionata e la cooperativa assicura ai suoi iscritti che i lavori inizieranno entro un paio d'anni per cui le consegne delle abitazioni potrebbero avvenire già entro tre anni. Un'altra monterossina ha versato 60 euro e dice di essere stata informata che il costo complessivo di ogni abitazione supererà i 400 mila euro. Se fosse vero, strana edilizia pubblica convenzionata.

Mentre in Comune il progetto passava sottotraccia, il grimaldello viene trovato in Regione, dove è al vaglio una richiesta di variante del Piano regionale di coordinamento paesistico (si chiama Ptcp). L'area di Villa Mesco risulta classificata come «insediamenti sparsi - mantenimento» e potrebbe trasformarsi invece in zona di «insediamento diffuso», permettendo quindi la speculazione. Intanto il parco nazionale ha adottato ma non approvato il suo piano, che anche se varato sarebbe in scadenza nel 2012. Infatti dalle intercettazioni dell'inchiesta, Bonanini ne stava già scrivendo un altro. Il piano in vigore comunque fa fede: come ha sentenziato una deliberazione della giunta regionale «nelle more dell'approvazione del piano del parco trovano applicazione le disposizioni contenute nell'allegato A del d.P.R. 6 ottobre 1999, ovvero in salvaguardia le norme del piano del parco come sopra adottato se più restrittive». Bene, il piano del parco classifica quella zona in parte come l'area D (promozione economica e sociale), in parte come area di protezione-sistema terrazzato in equilibrio C1 e poi come foresta. La prima prevede che vi si possa costruire solo modificando il piano regolatore comunale e per di più con un passaggio in Regione, mentre nelle aree C sono previsti solo restauri e manutenzione dei rustici esistenti senza nessuna possibilità di ampliamento («restano esclusi gli interventi che costituiscano incremento della superficie utile lorda e della volumetrie esistente») e il bosco deve restare bosco. Quindi tornando alle 30 villette, il piano prevede per le aree C che «l'adozione di nuovi strumenti urbanistici e loro varianti, generali e parziali, deve essere preceduta da intesa con l'ente parco» e infatti un «protocollo d'intesa fra il comune di Monterosso al mare e il parco nazionale delle Cinque terre - strumenti urbanistici» è passato nella seduta consiliare di Monterosso del 25 maggio scorso. Un primo via libera incassato.

Le sorprese non finiscono qui, perché guardando i piani di bacino della Provincia di Spezia (ambito 19-Cinque terre) si scopre che l'area interessata dall'intervento immobiliare in parte risulta avere una suscettibilità di dissesto media, vale a dire è mediamente a rischio frane.

Le speculazioni edilizie non si fermano alle villette «popolari». A Monterosso è anche in via d'ultimazione un parcheggio per 300 posti auto a ridosso del centro. I lavori in corso sono stati affidati alla ditta Monterosso Park srl, con sede a Genova, con la progettazione dell'architetto Angela Zattera che per il Comune firma da tempo diversi progetti. Anche questo progetto ha avuto l'avvallo del Parco con un protocollo d'intesa del settembre del 2008, nonostante l'esistenza nell'area di un vecchio mulino che verrà conservato, non certo valorizzato, dal parcheggio. Ma nelle intercettazioni dell'inchiesta sul parco Bonanini parla dei «parcheggi di Monterosso con una società del senatore Grillo» e in un'altra dice che non avrebbe mai dovuto dare le autorizzazioni ai parcheggi. Il plurale parcheggi non è peregrino perché in località Molinelli, sotto le trenta casette, c'è un altro progetto per un altro parcheggio che una volta ultimato avrà in cima un bel campo da calcio. Il progetto preliminare è già passato in giunta. Si parla di un valore di 16 milioni di euro. Certo il disegno delle cementificazione era strettamente vincolato all'appoggio politico di Bonanini, ma chissà che qualcun altro non sia già pronto a dare il suo avvallo.

Niente auguri multietnici in via Padova. Il Comune, dopo aver montato le luminarie natalizie lungo quattro chilometri di strada, le ha fatte togliere prima ancora di accenderle, lasciando sospesi solo quei fili luminosi che riportano l´augurio in italiano. Bandendo quello in inglese, spagnolo, cinese e arabo. Il blitz - deciso un paio di giorni fa dall´assessore all’Arredo urbano Maurizio Cadeo - ha colto di sorpresa il quartiere che ieri è insorto per chiedere il ripristino delle decorazioni. A difendere la strada sono scese in campo tutte le associazioni del territorio, i partiti di opposizione, una parte del consiglio di zona 2 dove il centrosinistra presenterà una mozione contro la decisione del Comune, la Chiesa e perfino la Lega con il capogruppo Matteo Salvini, che dice: «Ogni luce accesa in via Padova è la benvenuta. Male ha fatto Cadeo a rimuovere le luminarie, perdendo denaro e energie che dovrebbero essere impegnate per cose più importanti».

L’installazione di luci lungo via Padova è stata realizzata dall’artigiano Claudio Seghieri - già collaboratore del Comune - ed era stata montata una decina di giorni fa. Due cuori legati insieme da un filo di lampadine su cui si appoggiava la scritta "Auguri": all’ingresso e alla fine della via la parola era scritta in italiano; nella parte centrale si declinava in tutte le lingue del mondo. «Un segnale di accoglienza per le comunità di stranieri che abitano il quartiere» per le associazioni di via. Una deriva verso «i quartieri ghetto» per l’assessore Cadeo che, viste le luminarie, ne ha deciso il ritiro immediato. «L’illuminazione di via Padova - spiega l’assessore - è stata fortemente voluta e pagata dal Comune come segnale di attenzione verso un’importante via di periferia. L’aggiunta delle scritte in diverse lingue è nata dalla richiesta di alcune associazioni all’allestitore di cui non ero a conoscenza». Cadeo sostiene di aver visto un rendering che riportava solo i cuori rossi legati da strisce luminose, e che preferisce «spostare gli auguri in tutte le lingue in una via di accesso alla città, come viale Forlanini».

L’artigiano Seghieri si difende spiegando: «Cadeo mi ha detto di concordare direttamente con le associazioni le luminarie, e così è stato. Quando ho mandato il rendering in Comune gli auguri non c’erano ancora, è vero, serviva tempo per capire come si scriva "buone feste" in cinese o in arabo. Ma mai avrei pensato potessero essere un problema». Secondo Seghieri «l’assessore aveva dato carta bianca alle associazioni e non mi sembrava una richiesta strana. Poi, dopo venti giorni di lavori, è arrivata una telefonata da Palazzo Marino con l’ordine di rimuovere le luminarie per sostituirle con altre solo in italiano». Prima ancora di accendersi, dunque, le luci si sono spente. E Cadeo garantisce che «non torneranno». Anche se il quartiere è già pronto a protestare. Nei prossimi giorni, infatti, le associazioni tappezzeranno la strada con manifesti e striscioni di auguri in tutte le lingue, sabato l’associazione "Cambiamo città, restiamo a Milano" distribuirà volantini.

Critico anche Don Virginio Colmegna, che dice: «Un brutto episodio che mi auguro sia chiuso in fretta». Riflette don Piero Cecchi, della parrocchia di San Giovanni Crisostomo: «Il Papa a Capodanno fa gli auguri in 68 lingue, io battezzo in spagnolo e in inglese, quando benedico le case distribuisco una lettera della diocesi tradotta anche in arabo: esprimersi in tante lingue è segno di larghezza di cuore». Dura anche l’opposizione. Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd, chiede «auguri multietnici in tutta la città a partire da Palazzo Marino» e il segretario Roberto Cornelli aggiunge: «È l’ennesima occasione sprecata di aprire la nostra città a nuove culture del mondo».

Sempre più spesso si legge che la Magistratura indaga su lavori nelle coste sarde. Come se vi fosse una ondata di aggressioni al territorio che i comuni non fronteggiano. Non sorprende che i cantieri al mare siano guardati con sospetto (gli espedienti per eludere norme e scansare autorizzazioni non si contano, la posta è rilevante).

Il caso più recente è quello di Malfatano - Tuerredda, uno dei luoghi che rischiamo di perdere. Diffidenza opportuna per un progetto che appartiene a quella 'fase grigia' che precede la legge salvacoste. Quei 140mila mc in un posto fantastico, con vincoli archeologici e paesaggistici, sono stati proposti in più comparti per ovviare alla valutazione d'impatto. Come non andare a vedere con cura contenuti e tempi delle autorizzazioni? O le varianti al piano originario ? Colpisce quella spostamento di quote con destinazione alberghiera a vantaggio delle case da vendere: una scelta (d'interesse pubblico?) che il comune di Teulada annuncia con giubilo. Mille grazie dagli investitori Marcegaglia, Benetton, Monte dei Paschi, Caltagirone, ecc., per i benefici prodotti all' impresa immobiliare.

Brutte notizie sul fronte dell'abusivismo edilizio. Crescono nelle aree urbane gli abusi vari. E si moltiplicano gli abusi ricchi: isolati e/o associati in forma di 'lottizzazioni'. Case da adibire alla villeggiatura che passano per attrezzature agricole ma con vistamare, piscina e prato verde.

L'ultimo caso, notevole, è segnalato a Olbia (la notizia di indagini su “La Nuova Sardegna”). Olbia è in un contesto di rara bellezza, continuamente erosa: può soccombere per sottovalutazione dei rischi, e anche per una insufficiente dotazione di uomini e mezzi – come si dice per le emergenze. Nella capitale del turismo ti aspetteresti grande sollecitudine data quella crescita clamorosa. Gli abusivi in questione – secondo le cronache – sono forestieri che hanno comprato da sardi una sessantina di ettari (l'estensione di un paese, come non mi era mai capitato di leggere) frazionati in tanti pezzi in barba alle leggi. Nessuno si è accorto che lì, a due passi dalla città, stava sorgendo una curiosa comunità di contadini residenti tra Bergamo e Berlino.

Eppure questo modo di fare è ormai tra le truffe note dappertutto e solo qualche sprovveduto non vede che il trucco è sempre lo stesso, come nel gioco delle tre carte nella rambla di Barcellona o nei vicoli di Napoli.

La letteratura è piena di sentenze che spiegano il reato e i suoi modi tentacolari, evidente prima di materializzarsi nelle case già nella fase del frazionamento ( la lottizzazione “cartolare”) quando si capisce che sta sorgendo un quartiere. Vorrei vederla la faccia di un sindaco che legge sul giornale il titolo “scoperta una lottizzazione abusiva” e si accorge che riguarda la sua città. Quella faccia stupita incentiva i contravventori.

E' comprensibile che il Comune di Olbia non si sia reso conto dell'abuso, per mancanza di uomini e mezzi – appunto. Però è bene notare che qualcosa non va, e riguarda la debolezza del messaggio. E' risaputo che la strumentazione di cui il Comune dispone è molto ma molto arretrata. E di recente, dal municipio, l'avviso della ennesima variante al PdiF (sta per piano di fabbricazione). La più vecchia tra le tipologie di piani urbanistici che viene da una legge dello stato ancora fascista. Ecco: la città sarda con la maggiore crescita di case ha un piano aggiustato strada facendo e mai adeguato alla evoluzione delle leggi degli ultimi decenni. Per questo quell'avviso di variante al PdiF suona strano, sa di antico, di colpevolmente inadeguato. Come leggere che un ufficio pubblico, nell'epoca della informatizzazione, aggiusta le vecchie macchine da scrivere e compra pacchi di carta carbone. Non siamo messi bene, i due esempi non sono soli (c'è roba per tutti i gusti) in in intreccio di disorganizzazione, connivenze, indifferenza. E' troppo sperare in un treno dei desideri... che all'incontrario va ?

Nel suo ultimo editoriale del 5 novembre 2010, Salzano affronta la questione del lavoro e del suo rapporto critico con l’attuale sistema economico, rilanciando il dibattito sollevato da Guido Viale sulle pagine del manifesto all’indomani dell’accordo separato alla Fiat di Pomigliano. Salzano conclude il suo editoriale rilanciando la proposta di un nuovo Piano del Lavoro affidando al sindacato e in particolare alla Cgil il compito e la responsabilità di costruire e guidare una strategia alternativa all’attuale modello di sviluppo. Si tratta di una sollecitazione impegnativa e condivisibile anche perchè non sono presenti all’orizzonte altri soggetti politici e sociali in grado di assumere si di sé il peso di una simile impresa. Senza sottacere per questo le difficoltà per un sindacato di lavoratori come la Cgil di conciliare la necessità di difendere il lavoro con la critica a modelli produttivi “insostenibili”, per mancanza di alternative immediate.

Uno dei terreni su cui esercitare la critica al vecchio modello di sviluppo e sperimentare una progettualità alternativa di una economia sostenibile è senza dubbio quello delle città e dello sviluppo locale. La Cgil di Roma e del Lazio si è posto da qualche anno il problema di un possibile futuro della città di Roma alternativo al suo modello tradizionale di sviluppo fondato sul blocco edilizio e sul turismo, che hanno innescato l’espansione urbana senza limiti della città, per sostenere e guidare un processo di cambiamento in grado di affrontare le grandi contraddizioni e le grandi sfide che i processi globali scaricano sulle città, sui territori e sulle comunità locali e che mettono a rischio la convivenza civile, la solidarietà sociale ed umana, la convivenza pacifica fra popoli, fedi ed etnie diverse. Si tratta di uno sforzo di elaborazione rintracciabile nel libro “Roma tra passato e futuro” di recente pubblicazione con l’Ediesse.

Roma è come sospesa tra un passato che non muore e una speranza di futuro che tarda a diventare realtà. La città è di fronte ad un bivio: interrompere e mettere fine ad un modello di sviluppo urbano estensivo che ha saccheggiato e impoverito le sue risorse ambientali, culturali, ed ecologiche prendendo con decisione la via della sostenibilità urbana, produttiva, ambientale, dell’innovazione energetica che spezzi il perverso rapporto instauratosi tra la rendita fondiaria, immobiliare e la finanza, oppure persistere nella logica del consumo di suolo, dell’edilizia speculativa, del turismo di massa mordi e fuggi concentrato nel centro storico, che desertifica le periferie, impoverisce la città mentre arricchisce una minoranza di speculatori ed affaristi.

A conclusione di un lungo ciclo di governo della città sotto il segno del Modello Roma che ha rivelato tutta la sua fragilità strategica e che non ha mutato il segno della qualità dello sviluppo della città, pur con alcune novità dal punto di vista della cura della sua immagine internazionale, non sono cambiati gli attori e i poteri che ne influenzano le scelte decisive. La nuova giunta di centro-destra si appoggia ancora al vecchio blocco di interessi ( edilizia, cemento e turismo), pur con alcuni tentativi di darsi un’immagine di “novità” che fa riferimento ai valori della ecologia urbana e alla cultura della sostenibilità, avvalendosi a tal fine della collaborazione di Jeremy Rifkin. Essa si esprime, soprattutto, attraverso una politica degli annunci che allude ad una “ Grande Trasformazione”: ne troviamo tracce nei lavori della Commissione Marzano, nel convegno con le Archistar, negli annunci reiterati del Piano Strategico per la Città, insieme a quelli della convocazione degli Stati Generali dell’Economia e degli Stati Generali della Città, ecc. Ma i suoi atti concreti e le sue attenzioni reali vanno in tutt’altra direzione: vedi i proclamati progetti sulla Formula 1 all’Eur; i Parchi Tematici; il bando per la realizzazione di alloggi nei Casali dell’Agro romano; il Water Front sul lungomare di Ostia; il consenso alla proposta di un secondo Grande Raccordo Anulare avanzata dall’Unione Industriali di Roma; l’idea di costruire grattacieli nelle periferie, poi ritirata e smentita; l’annuncio choc della demolizione di un intero quartiere di edilizia pubblica nella periferia, come Tor Bella Monaca, per affidarne la ricostruzione ai privati in una zona limitrofa, a “costo zero” per le casse comunali, in cambio di cubature; l’idea di affidare ancora ai privati sia i programmi di hausing sociale mentre ci sarebbe bisogno di costruire case popolari, e sia i projet financing per la costruzione delle metropolitane: tutto in cambio di suolo pubblico da valorizzare in una logica privatistica e speculativa. Che fine hanno fatto i propositi tanto sbandierati in campagna elettorale di mettere fine alla espansione edilizia della città, anche in polemica col Piano Regolatore appena approvato dalla Giunta Veltroni, per difendere l’Agro romano ed edificare una città sostenibile?

La direzione presa va da tutt’altra parte: verso un nuovo patto tra rendita e profitto, verso una grande privatizzazione delle risorse e dei beni pubblici e verso una città più insostenibile, come attesta anche la scelta di chiudere l’esperienza della Città dell’altra Economia nell’ex Mattatoio di Testaccio. La stessa idea della “Grande Roma”- fatta propria dal sindaco in contrasto con la prospettiva della costruzione dell’ area metropolitana in attuazione delle norme su Roma Capitale prevista dalla legge n.42 sul federalismo fiscale – rivela una concezione romanocentrica e non policentrica dello sviluppo urbano ed economico della regione. In questa visione a Roma, ma sarebbe più corretto dire al centro storico della città, rimarrebbe la funzione-guida progettuale, con le funzioni pregiate della direzionalità pubblica e privata e delle attività legata al turismo, mentre l’hinterland provinciale e regionale verrebbe ridotto alla funzione di una immensa periferia regionale, di una grande area di servizio per la Capitale, luogo dove si scaricano le sue contraddizioni non risolte: rom, campi nomadi, immigrati, discariche (anche illegali), inceneritori, logistica ( porti, interporti, magazzini, depositi, ecc.), le case a costi più bassi per i ceti più poveri della città e il conseguente traffico caotico.

La bozza di decreto sui poteri di Roma Capitale tradisce questa visione quando prevede una forte centralizzazione nel governo capitolino dei poteri in materia di urbanistica e di ambiente, spogliando la Regione e la Provincia delle loro prerogative, col risultato di provocare la rivolta delle altre province del Lazio. Si ripropone in sostanza la logica della polarizzazione sociale e territoriale della ricchezza e del benessere, con una regione “spezzata in due”, che in questi anni ha provocato l‘affermarsi delle disuguaglianze sociali che oggi vengono esaltate dalla crisi che colpisce, in particolare, le aree più periferiche della città e della regione, i ceti sociali urbani più deboli - i giovani, le donne, i disoccupati, i precari - e il mondo del lavoro.

Alla competitività esasperata e distruttiva tra territori, al dumping sociale e fiscale come regolatori dei rapporti tra stati, regioni e città, pensiamo vada contrapposta la cultura e la logica della cooperazione allo sviluppo tra città, tra regioni, tra stati, tra grandi meso-regioni, nella quale Roma e la Regione Lazio possono svolgere un ruolo di animatori e promotori di una nuova cooperazione euro-mediterranea.

Dalla crisi in atto si esce con nuova concezione e idea dello sviluppo e con un rinnovamento della democrazia e della partecipazione pubblica. E’ possibile un altro sviluppo per Roma e per la Regione, centrato sul policentrismo, sull’economia sostenibile socialmente orientata, sulle energie rinnovabili e sull’economia verde, sulla valorizzazione della città come bene pubblico, sul riconoscimento del capitale sociale e culturale di cui la città è ricca, sulla promozione e difesa dei beni comuni essenziali con guida pubblica delle imprese e dei servizi pubblici strategici ( salute, energia, acqua, ciclo dei rifiuti, mobilità, ecc.), sulla responsabilità sociale dell’impresa, sulla democrazia economica e sulla partecipazione dei lavoratori alle scelte e agli indirizzi sulla qualità dello sviluppo e su quella dei beni e servizi pubblici.

La Cgil vuole aiutare il processo di riappropriazione di un nuovo spazio pubblico oggi devastato da interessi privati e da una cultura egoista e consumistica che hanno saccheggiato la città, infranto regole e controlli di legalità, impoverito i ceti popolari e i lavoratori, accresciuta la mala pianta del razzismo popolare, mentre ha arricchito speculatori, affaristi senza scrupoli, proprietari di suolo, costruttori, immobiliaristi, albergatori, nonché l’economia criminale che alligna nella città e nel territorio regionale.

Antonio Castronovi è responsabile del Progetto politiche urbane della Cgil di Roma e del Lazio

Ora anche le volpi ci si mettono a far danni sugli argini dei fiumi veneti, così da indebolirli favorendo gli straripamenti. Succede nel comune di Saletto, area della Bassa Padovana, dove scorre il fiume Frassine. Un corso d’acqua che nasce dalle Dolomiti e lungo il suo cammino cambia nome: Agno, Guà e Frassine. Quindi, affluisce nel canale Gorzone, che finisce nel Brenta. Quello delle volpi (e forse anche dei tassi) che scavano le tane a distanza ravvicinata è un problema, al momento circoscritto. Più grave, infatti, in Veneto, è la situazione relativa all’invasione delle nutrie («Sfuggite agli allevamenti impiantati negli anni Settanta, quando andavano di moda le pellicce di castorino», fa notare Fabrizio Stelluto, portavoce dei Consorzi di Bonifica) che erodono la terra, facendo crollare improvvisamente gli argini.

Il devastatore di Territorio

«Il rischio volpi si è evidenziato in questi giorni — spiega Barbara Degani, presidente della Provincia di Padova — quando gli uomini del Genio Civile, dopo l’alluvione, ripulendo le campagne attorno al Frassine, si sono accorti della presenza di tracce riconducibili alle tane di questi animali selvatici». «Il cui habitat — aggiunge — si trova solitamente in luoghi boscosi e a una certa altitudine. È presumibile, dunque, che le volpi, nelle nostre campagne, siano arrivate scendendo dai Colli Euganei e Berici». Comunque sia, gli animali hanno trovato il modo di erodere il terreno nei pressi degli argini, determinando un ulteriore elemento di squilibrio. Adriano Scapolo, comandante della Polizia provinciale di Padova, che ha seguito da vicino la questione, osserva: «All’epoca in cui l’agricoltura era un’attività fiorente, pensavano i contadini a falciare l’erba e a tenere puliti gli argini. In altre parole, non venivano create le condizioni favorevoli. Adesso, invece, le volpi riescono ad avventurarsi fino a pochi metri dalle rive. E poiché scavano gallerie con più uscite, riducono gli argini a un groviera».

La situazione è tale che sono state ottenute deroghe per eseguire interventi anche in zone di ripopolamento e di cattura. Fino all’abbattimento degli animali. «Il lavoro più incisivo — racconta Scapolo — è comunque quello degli interventi sulle tane, in modo da contenere la presenza delle volpi stesse. Al riguardo, abbiamo stilato un Protocollo d’intesa con le associazioni ambientaliste, affinché venga fatto un monitoraggio (che prevede anche la cattura) rispettoso e compatibile».

postilla

Deve essere sicuramente scattato un ordine di scuderia fra gli addetti ai lavori (fra gli addetti ai lavori inutili e dannosi of course ) un nanosecondo dopo l’ammissione pubblica di qualche esponente del mondo economico veneto che riconosceva: abbiamo fatto troppi capannoni inutili, con questa dispersione territoriale ci stiamo tirando la zappa sui piedi. Così il partito di quelli in grado appunto solo di tirare di zappa ancora nel terzo millennio si è messo all’opera per cercare il capro espiatorio. Il Veneto si allaga? Vediamo, la colpa è dei comunisti che fanno piangere la madonna, e i pianti della madonna si sa, dilagano. Oppure di quei topacci sporchi di fango che il comune cittadino conosce quasi esclusivamente nella versione spiaccicata sulle strade di argine, e paiono il nemico ideale. Oppure ancora delle volpi, che fa tanto brughiera britannica, suono di corni, nobiltà decaduta al galoppo … Il trionfo delle cazzate.

Perché se è vero che scavare un buco fa entrare un po’ d’acqua, è molto più vero che anche cercare a tutti i costi di dare la colpa a qualche entità indefinita (l’animale selvatico sfuggente e semisconosciuto ai più) significa replicare, al millimetro, il medesimo approccio metodologico che ha portato al disastro. Fare un capannone, fare una villetta, in sé e per sé non significa nulla, così come fare un buco per allevarci i cuccioli: è farlo, e rifarlo, da incoscienti, in malafede, il guaio. Ma ce lo vedete un quotidiano nazionale a titolare a tutta pagina: L’ALLUVIONE VENETA COLPA DEGLI STRONZI! Peccato, non ci sia più Il Male , che negli anni ’70 almeno per un pubblico di nicchia queste cose se le inventava (f.b.)

VENEZIA. «L’alta velocità in project? E perché no. Mi pare un’ottima idea, anzi per quanto riguarda la tratta che da Mestre porta al Marco Polo, e relativo nodo intermodale, la stiamo studiando e saremmo anche pronti a parteciparvi». Enrico Marchi, presidente della Save, coglie al balzo le proposte emerse dal forum, pubblicato ieri su questo giornale, sulle infrastrutture a Nordest e il project financing, e rilancia: costruire subito, con il contributo di finanziatori privati, la tratta Mestre-Tessera con relativa stazione ferroviaria sotterranea, snodo intermodale (dove dovrebbero arrivare anche i treni del metrò regionale, e, in futuro, anche la sublagunare.

Mi scusi ma che interesse c’è nel fare un piccolo di Tav fino a Tessera?

«Prima di tutto è un tratto sul quale sono tutti d’accordo: governo, Ferrovie, Regione ed enti locali. E c’è anche un progetto di massima: lo studio di fattibilità del nodo intermodale di Tessera è già pronto essendo stato fatto dalla Save con il contributo dei fondi Ue».

Va bene. Ma tutto il resto del progetto della Tav è nella nebbia...

«E allora per questo dobbiamo stare fermi a guardare? Non si può pensare che la Milano-Venezia resti senza alta velocità. E le linee non sono mai state costruite tutte insieme: sono state sempre progettate e realizzate per lotti funzionali. Si potrebbe così cominciare a ragionare su quelle tratte dove c’è un accordo già pronto e progetti condivisi. Stiamo rischiando di perdere i contributi dell’Europa proprio perché siamo in ritardo con i progetti. E il fatto di dare il via a un pezzo dell’alta velocità ci darebbe anche una credibilità».

Ma i treni si fermerebbero a Tessera, cioè in una stazione di testa?

«Sì finché la linea non verrà completata facendo della stazione dell’aeroporto, come previsto nel progetto definitivo, uno snodo intermodale passante. Non c’è nulla di male, perché nel frattempo ci troveremmo nelle stesse condizioni di Malpensa dove adesso arrivano i Frecciarossa su una linea che, tra l’altro, non è previsto che in futuro prosegua oltre. Ma per uno scalo internazionale come il nostro, e anche per il territorio, è determinante essere raggiunto da un’infrastruttura ferroviaria».

Quanto potrebbe costare la realizzazione?

«Intorno ai 500 milioni, 300 per il nodo intermodale e 250 per la linea ferroviaria».

E i finanziamenti? Da dove arriverebbero?

«Come in tutti i project dai privati, dai fondi infrastrutturali italiani ed europei, con il contributo, ovviamente dello Stato visto che sempre di tratte ferroviarie si parla. Anche noi siamo pronti a partecipare».

Ma per i project ci vogliono due condizioni: che i privati possano correre sulle linee e che ci sia davvero l’accordo a farlo anche da parte delle Ferrovie...

«Che cosa impedisce che i privati usino la linea? Quanto alla realizzazione di singole tratte ferroviarie in project financing ci sono anche esempi europei: ne sono state costruite in Francia da Eiffage, ad esempio, per una linea che va da Perpignan a Figueras».

Chi sarebbero gli investitori?

«C’è un discreto interesse da parte di investitori con i quali ho parlato nei giorni scorsi: sono fondi europei, ma un progetto di questo genere potrebbe trovare il consenso anche della Cassa Depositi e Prestiti».

E le Ferrovie dello Stato?

«Penso lo ritengano un progetto fattibile. Credo che sia abbastanza per andare avanti e provare a realizzarlo».

Postilla

Crediamo che in nessun paese del mondo vi sia chi, in una posizione di potere, teorizza in questo modo l’inutilità della pianificazione del territorio. Per realizzare un’opera indubbiamente di rilevantissimo impatto sulle comunicazioni, sull’assetto e il funzionamento delle attività produttive, commerciali, direzionali e logistiche, sul sistema dei servizi pubblici, sulla trasformazione del ruolo delle città nelle regioni attraversate, per non parlare dell’assetto fisico del suolo (regime delle acque superficiali e profonde, paesaggio e beni culturali, fertilità del suolo, rischi legati all’assetto idrogeomorfologico) il dott. Marchi, uomo di punta del sistema di potere pubblico-privato che gestisce gli aeroporti del Veneto, e molte altre cose propone di avviare suubito la pianificazione, progettazione ed esecuzione di un segmento: pochi km, che però danno il via a una speculazione immobiliare pubblico-privata: Quadrante Tessera, sul bordo della Laguna.

Per chiarire chi è il personaggio riportiamo un profilo tratto da un giornale locale di pochi anni fa.

Corriere del Veneto, Padova, 15 ottobre 2005

Il ragazzo di Conegliano in volo sui salotti buoni Marchi,

il finanziere che scala Gemina per diventare re degli aeroporti

di Claudio Trabona



VENEZIA - Erano quattro gatti. Ragazzi confinati nel ghetto di una passione politica minoritaria: si riunivano da militanti della Gioventù Liberale, fine anni Settanta. Discettavano di Croce ed Einaudi, di liberalismo e liberismo. Giancarlo Galan, Niccolò Ghedini e Fabio Gava a volte litigavano. Si dividevano sulla teoria. Poi interveniva Enrico Marchi, sveglio giovane di Conegliano, e tagliava corto: « Poche chiacchiere, l'importante è essere anticomunisti » . I ricordi dell'avvocato Luigi Migliorini da Adria, memoria storica dei liberali veneti, raccontano molto del personaggio che oggi si è conquistato fama nazionale come scalatore di Gemina: insofferente alle complicazioni, Marchi è un praticante assiduo della religione del pragmatismo. Se c'è da entrare a piedi uniti, lo fa. E lo ha fatto, al momento opportuno, anche nel salotto buono della finanza. Ha preso i 165 milioni di euro incassati con la quotazione in Borsa della sua Save, la spa dell'aeroporto Marco Polo, ne ha spesi circa la metà per rastrellare il 10,4% di Gemina e poi si è presentato: « Ecco, vorrei fare la grande aggregazione tra gli scali di Venezia e Fiumicino » .

Marchi c h i ? Sembra di sentirli i Pesenti, i Tronchetti Provera e soprattutto i Romiti. Ma l'ex ragazzo di Conegliano, sostanzialmente, se ne frega del salotto buono. Punta dritto al progetto imprenditoriale, Gemina non è la chiave per la rispettabilità nel bel mondo della finanza ma la scatola che contiene l'oggetto del desiderio, gli Aeroporti di Roma. Dice in un'intervista alla Nuova Venezia : « Noi stiamo provando a mettere in campo un progetto che veda il Veneto soggetto aggregante e non aggregato. Il Nord Est ha la pancia piena, a volte preferisce lamentarsi piuttosto che mettersi in gioco » . E in effetti per una volta non si parla di fiere e grandi magazzini comprati dai francesi, di banche finite nelle mani degli olandesi o dei torinesi, di autostrade scalate dai bresciani. Si parla di questi imprenditori, lui e il socio di sempre Andrea De Vido, che dalla campagna veneta si mettono in marcia sulla capitale.

In realtà, Enrico Marchi, classe ' 56, laurea bocconiana in economia aziendale, è lontano mille miglia dalla figura del provinciale di troppe pretese. Intanto, sa scegliersi le amicizie: le cono scenze di gioventù spesso vengono buone da grandi e infatti Giancarlo Galan oggi è una delle due sponde forti su cui ha potuto giocare la sua ascesa. È stato il governatore a metterlo lì alla presidenza di Save, nel 2000, ed è stato sempre il governatore ad appoggiarne tutte le mosse determinanti: lo sbarco a Piazza Affari, la lite senza mediazioni con gli enti locali veneziani e in particolare con l'ex sindaco Paolo Costa, la costituzione della cassaforte Marco Polo Holding che tiene saldo il controllo ( 38,9%) della società aeroportuale. I cui azionisti sono appunto la Finint, la Regione attraverso Veneto Sviluppo e Assicurazioni Generali. Ed ecco la seconda sponda forte, l'altra amicizia importante: se Galan è il garante politico, Giovanni Perissinotto è un'ottima compagnia per addentrarsi nei piani alti della finanza ( e infatti sta in Gemina). L'ad del Leone di Trieste è socio nell'aeroporto e lo è al 10% anche in Finanziaria Internazionale. Finint è stata tutta la vita di Marchi. Nei prossimi giorni lui e Andrea De Vido festeggeranno - pranzo con i giornalisti e cena di gala con vip a Venezia - i 25 anni dalla fondazione. Oggi è una piccola, silenziosa city alla circonvallazione di Conegliano. « Quando abbiamo investito sulla nuova sede - racconta De Vido - amici e colleghi ci criticarono: un quartier generale si fa in centro, non in mezzo ai camion. Avevamo ragione noi: in questi anni il traffico è impazzito, ma noi siamo vicini all'autostrada e chi viene da Milano o Venezia ci trova subito » . Hanno visto lontano, lui e Marchi, anche quando hanno cominciato per primi a trattare il settore delle securitisation , le sofisticate operazioni di cartolarizzazioni dei crediti che fino a qualche anno fa erano materia sconosciuta in Italia. Un segno dell'esperienza internazionale: il trevigiano De Vido ha imparato il mestiere a New York, alla Bank of America.

E negli anni scorsi aveva fatto aprire un ufficio della Finint a Londra, altro posto dove si respira davvero l'aria del business. Ecco perché gli ex ragazzi di Conegliano non hanno timori da provinciali. Nel palazzo di vetro della Finint lavorano 220 persone, impiegati ma soprattutto professionisti che maneggiano con disinvoltura il glossario anglosassone tipico del settore: merchant banking, merger & acquisition, private equity. La Finanziaria Internazionale, 10 milioni di euro di utile, lavora con Ubs, Citigroup, Morgan Stanley. Enrico Marchi, però, nuota meglio in acque venete. Ed è un tipo che non si scompone in alcune vicende locali un po' imbarazzanti. Come quella della compagnia aerea Volare. Primo opera tore allo scalo di Venezia con oltre il 20% del traffico, al momento del tracollo è posseduta tra gli altri dal Fondo Tricolore. Cos'è? Una società costituita con i soldi di Ligresti ( ecco un altro che si ritrova in Gemina) e Generali. E chi amministra il fondo? La Finanziaria Internazionale diMarchi e De Vido. Cliente e fornitore uniti da interessi comuni. Per i nemici del Comune e della Provincia di Venezia questo è un palese conflitto di interesse. E i loro avvocati, citando certi sconti sul debito Volare concessi da Save, lo sottolineano nella raffica di cause in tribunale contro i bilanci e la quotazione della società aeroportuale. Ma lui non si nasconde, e contrattacca: « Mai stato un socio di Volare » . La guerra si chiude ( non del tutto) con oltre sei milioni di crediti finiti nella spazzatura del bilancio Save e una serie di vittorie nelle aule giudiziarie. Contro un tizio che si chiama Guido Rossi, consulente del Comune di Venezia e ispiratore dei ricorsi. È il super- professore che ha sconfitto Gianpiero Fiorani e Stefano Ricucci nella storia Antonveneta. Dove non hanno potuto i furbetti del quartierino , è arrivato l'ex ragazzo di Conegliano.

In quasi settantamila per scegliere il candidato del centrosinistra. Uno per designare quello del centrodestra. Nel giorno in cui le primarie incoronano Giuliano Pisapia, Silvio Berlusconi «ufficializza» la candidatura di Letizia Moratti. Eccoli i due candidati e le due coalizioni che si sfideranno a maggio per la poltrona di sindaco. Due metodi completamente opposti. Da un lato «la partecipazione» (al di sotto delle aspettative), la mobilitazione della società civile, dall’altra l’investitura dall’alto, la prosecuzione di un lavoro cominciato nel 2006. Nessun giudizio di valore, anche perché il voto che «conta» è quello delle comunali e fino a ora il centrodestra milanese non è mai mancato agli appuntamenti importanti.

Chi è mancato è stato invece il Pd. L’effetto Vendola ha colpito ancora una volta. Dopo la Puglia è toccato a Milano. L’endorsement dei democratici sull’architetto Boeri si è rivelato un boomerang dalle conseguenze disastrose per i vertici del partito. E anche imponderabili, perché la vittoria di Pisapia, candidato della sinistra che vuole dialogare con i moderati, apre fatalmente uno spazio politico al centro. Che qualcuno cercherà di occupare. Questo nonostante il patto di coalizione siglato dal centrosinistra e i «giuramenti» di totale sostegno al candidato vincente da parte di tutti i partiti.

Apre la porte allo «spettro» che si aggira per Milano e risponde al nome di Terzo Polo condito in salsa meneghina. È la vecchia proposta caldeggiata dal filosofo Massimo Cacciari, voce inascoltata del Pd: un Terzo Polo composto da Fli, Udc, Api con il consenso più o meno tacito del Pd. Ma che sta prendendo sempre più piede, trovando sponda in tanti leader politici del centro. Un «ordigno» in grado di minacciare entrambi gli schieramenti maggiori. Soprattutto se il candidato del Terzo Polo rispondesse al nome dell’ex sindaco, Gabriele Albertini. Una «mina» che centrodestra e centrosinistra dovranno maneggiare con grande cautela se non vorranno trovarsi completamente spiazzati dall’irruzione della terza forza. Pisapia riuscirà a stoppare una possibile diaspora centrista? Il Pd ripenserà alla sua politica?

L’altra faccia della medaglia è che il popolo delle primarie non ha obbedito agli ordini di partito e non ha partecipato in massa. È il segnale di una società civile che, più che aver voglia di tornare protagonista, appare profondamente delusa dalla politica. Un dato che ogni politico con la testa sulle spalle dovrà prendere in considerazione. Perché quello di ieri è solo un «fermo immagine» di una situazione in rapido movimento non solo a Milano, ma a livello nazionale. Se la città vuole tornare a essere «laboratorio» deve fare in fretta. E possibilmente non farsi dettare l’agenda da Roma.

l crollo alla Casa dei Gladiatori, poi centinaia di foto dei lettori a Repubblica.it: una galleria degli sfregi al patrimonio culturale

C´è lo storico e scenografico carcere di Ventotene, costruito dai Borboni alla fine del Settecento, dove il fascismo rinchiuse il futuro presidente della Repubblica, Sandro Pertini, insieme a Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Lelio Basso e dove Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrissero nel 1941 quel "Manifesto" che avrebbe dato vita all´Unione europea : rimasto in uso fino al 1965, il penitenziario è stato evacuato e mai ristrutturato (segnalazione di Arturo Bandini da Roma).

C´è il primo castello del Mediterraneo, a Casaluce (Caserta), edificato nel 1024 da Rainulfo Drengot e diventato poi convento dei frati Celestini, "abbandonato all´incuria del tempo" (segnalazione di Michele Fedele). In Molise, provincia di Campobasso, c´è l´antica città romana di Saepinum che risale al II-III secolo a.C. e versa "in stato di disinteresse e di abbandono", minacciata per di più dall´installazione di un imponente parco eolico nelle vicinanze (segnalazione di Francesco Palladino: "Stanno per distruggere uno dei siti archeologici più suggestivi della regione").

C´è anche l´edificio razionalista della Manifattura Tessile di Moncalieri, a Torino, costruito nel 1951 dagli architetti Mario Passanti e Paolo Perona, "in totale abbandono da anni" (segnalazione di Andrea Mariotti). E ci sono, insieme a questi, altre centinaia di monumenti, palazzi, castelli, chiese, piazze, fontane in rovina o in pericolo che, da un giorno all´altro, possono fare la stessa fine ingloriosa della Domus dei Gladiatori di Pompei: come le mura rinascimentali di Padova, lunghe 11 chilometri, ricoperte di erbacce e di costruzioni (Fabio Bordignon); il castello di Cusago, alle porte di Milano, fatto costruire da Bernabò Visconti tra il 1360 e il 1369 per sfuggire alle epidemie,assediato dall´incuria (Gianni Politi); l´Acquedotto alessandrino di Roma, trasformato in parcheggio per auto (Ivan) o l´antico porto di Traiano, a Fiumicino, già crollato più volte e ora aperto al pubblico soltanto due giorni al mese (Gaetano Palumbo); la Cittadella di Ancona, uno degli esempi di fortezza bastionata più pregevoli dell´Italia centro-meridionale, "destinata al completo degrado" (Fabio Barigelletti); la Domus romana di piazza Matteotti a Pesaro, "condannata alla sepoltura" (Roberto Malini) .

È un Atlante del Malpaese, per molti aspetti inedito e inquietante, quello che centinaia di lettori di Repubblica e cittadini della Repubblica – armati semplicemente di macchina fotografica o anche solo di telefonino – hanno compilato in questi giorni, rispondendo all´ appello del giornale per cercare di salvare i monumenti a rischio. Il nostro sito è stato bombardato di foto e segnalazioni da tutt´Italia, per effetto di una mobilitazione popolare che supera le aspettative e dimostra una sensibilità assai diffusa per la tutela del nostro patrimonio storico, artistico e culturale.

Da un capo all´altro della Penisola, se ne ricava un impressionante inventario di opere preziose costruite dall´uomo nel corso dei secoli e poi dimenticate, dismesse, vilipese. Un catasto del degrado monumentale, da Nord a Sud, regione per regione. Una sorta di grande "Museo degli orrori" che fa rabbia e vergogna a tutti noi: tanto più che il turismo è tuttora la nostra principale industria nazionale e questo si fonda, oltre che sulle bellezze naturali, sull´attrattiva di un "giacimento" unico al mondo.

Sono immagini sconcertanti e avvilenti. Un insulto alla storia, all´arte e alla cultura. E quindi, anche all´identità nazionale, al nostro codice genetico, all´anima stessa dell´Italia.

E sono proprio queste, insieme e oltre la Domus dei Gladiatori, le vere colpe del ministro Biondi e di tutti coloro che l´hanno preceduto. Lo stato generale di abbandono e di degrado in cui versa gran parte del nostro patrimonio storico e artistico è di per sé un atto d´accusa contro i responsabili politici e amministrativi che avrebbero dovuto provvedere alla sua conservazione, alla sua tutela e magari alla sua valorizzazione. Siamo di fronte, invece, a una dissipazione di beni e risorse che abbiamo ricevuto in eredità dalle generazioni precedenti e che, di questo passo, non riusciremo a riconsegnare intatti a quelle future.

Eppure, questo è il nostro "oro nero". Queste sono le "materie prime" di cui lamentiamo a piè sospinto la mancanza. In un Paese dove bisogna arrivare al limite dell´insurrezione popolare per impedire le trivellazioni petrolifere in Val di Noto, scrigno inestimabile del barocco siciliano, lasciamo andare in rovina monumenti e opere d´arte che potrebbero essere fonte di lavoro e di ricchezza.

Spesso, come ha ammesso lo stesso Bondi nel caso della Domus, non è neppure questione di fondi: Pompei è la prima méta turistica italiana e in pratica si autofinanzia con il ricavato dei biglietti. Si tratta piuttosto di incuria, di inefficienza, di incompetenza. Nel cortocircuito burocratico tra ministero, Regioni, Province, Comuni e Sovrintendenze, il potere si esercita più che altro attraverso il veto e così si disperdono anche le responsabilità. Alla fine, non si capisce neppure più di chi sia la colpa.

Nonostante l´impegno e la militanza delle associazioni ambientaliste, tra cui in prima linea il Fondo per l´ambiente italiano, Legambiente e Italia Nostra, a volte tende a prevalere un atteggiamento d´impotenza o di rassegnazione. Ma i soldi non sono tutto. E lo dimostrano i miracolosi salvataggi di tanti beni artistici a opera del Fai che dal 2003 promuove in collaborazione con Banca Intesa San Paolo un censimento nazionale intitolato "I luoghi del cuore" o la campagna "Salvalarte" che Legambiente porta avanti con encomiabile costanza da oltre dieci anni a questa parte: dal 1996 l´associazione presieduta da Vittorio Cogliati Dezza ha segnalato al Ministero dei beni culturali 980 opere da salvare tra monumenti, chiese, siti archeologici, ma anche sculture e affreschi. E sono più di una ventina quelle che, su intervento di Legambiente, sono state già recuperate e restaurate per essere restituite alla collettività.

Anche in questo campo, evidentemente, è necessario coniugare i nobili ideali con il pragmatismo. E dove lo Stato o gli enti pubblici non sono in grado di intervenire, per mancanza di fondi o per esigenze di tagli, si deve ricorrere al volontariato, all´iniziativa privata, a forme di partnership o di sponsorizzazione con imprese italiane e straniere che magari possano anche "adottare" un monumento o un palazzo. Meglio affiggere una targa con il marchio o il logo di un´impresa piuttosto che un cartello con la scritta "chiuso a tempo indeterminato".

Amiamo questa terra È la nostra cultura

di Carlo Petrin

La metafora di un´Italia che cade a pezzi in molti luoghi del Paese si è tramutata in realtà concreta: l´alluvione in Veneto, il crollo a Pompei, in queste ore esondazioni e smottamenti al Sud. Non è stata la prima volta e, malauguratamente, non sarà l´ultima. Vedere un pezzo del Nord Est sott´acqua per giorni, quasi nel silenzio generale, ha fatto male a chi ama l´Italia. Essere all´estero mentre la Domus dei Gladiatori si sbriciolava è stata una doppia ferita: l´eco della notizia fuori dai nostri confini è stata degna della gravità del fatto, sovrastando il resto, perché il mondo ama la nostra terra soprattutto per la straordinaria bellezza che ospita. Per la nostra cultura.

La politica ci ha messo un po´ a distrarsi da se stessa: giusto per dire che su Pompei non ha responsabilità, per fare tardiva presenza nei luoghi colpiti dall´alluvione o per non perdere un´altra occasione di visibilità mediatica. Sembra che molta parte del mondo politico non ami più l´Italia.E siamo proprio sicuri che anche il popolo che esso rappresenta non abbia smesso di farlo da tempo? Perché chi ama qualcosa ne ha cura, lo custodisce, lo alimenta, ne immagina il futuro e cerca di prevenire ogni danno all´oggetto del proprio affetto. La cura non può essere un rimedio, come ci stanno dimostrando accorrendo affannati sui luoghi dei disastri. Essa deve partire prima, da più lontano, e raccogliere frutti dopo, lontanissimo.

Di fronte agli avvenimenti degli ultimi giorni, e anche ai drammi personali che molte persone stanno affrontando con grande dignità, è forse giunto il momento di rinunciare a cercare responsabilità dirette: senza cura sono tante e così concatenate che non se ne uscirebbe. Bisogna intervenire, certo, ma è inutile puntare il dito perché in fondo siamo tutti responsabili. Se è vero che il territorio è un bene comune, allora è colpa di tutti. Da decenni lo stiamo violentando senza ritegno: chi nel suo piccolo, chi alla grande. E spesso i più prodighi nel farlo sono quelli che ne fanno bandiera, che confondono l´amore per i propri luoghi con una possessività invasiva, degna del peggior amante. Il nostro territorio, bene comune, appartiene a noi come al mondo intero, assumiamocene la responsabilità, e torniamo a prendercene cura. Iniziando a conoscerlo, a studiarlo a scuola: la conoscenza prepara all´amore e solo l´amore garantisce la cura.

La galleria di fotografie che Repubblica.it sta raccogliendo tra i lettori, che immortalano beni culturali in stato di abbandono o di sfacelo, sfregiati da vandali comuni o amministrazioni pubbliche non meno vandaliche è davvero una galleria degli orrori. La cosa più sconvolgente è la capillarità di questi casi: sono ovunque. Immensi o minimi: fa lo stesso. Perché è la stessa cosa lasciare che un monumento che ha duemila anni crolli o che una spianata di cemento occupi un campo da coltivare. Una villetta abusiva sfregia il territorio come un graffito su un reperto archeologico. La distruzione di un antico terrazzamento per far posto a nuove vigne che trasformano le colline in scivoli è come la facciata decrepita di un vecchio palazzo che ha fatto la storia di una città.

Dimentichiamo che l´unica ricchezza di cui non potrà mai fare a meno questo Paese è il nostro territorio, perché è lui in primis che esprime la grandezza della nostra cultura, tutto ciò che ci piace identificare come "Italia". E se un´industria, com´è stato detto, potrà anche «fare a meno dell´Italia», gli italiani invece non possono permetterselo. Non possono permetterselo gli agricoltori che poi sono sempre i primi a subire le conseguenze dei dissesti idrogeologici, ma non possono permetterselo nemmeno i nostri concittadini più urbanizzati. Ci vuole cura del territorio, amore sincero. Un amore che parte dal locale, da quel campo dove con passione si fa piccola agricoltura, dal quel rio che lo irriga con acque pulite e sicure, dai bordi delle strade statali disseminate di rotonde (che però fanno tanto "politica del fare"), dalla piazzetta anche più insignificante. Amore che puntualmente poi arriva al globale: al "Made in Italy" che gira per il mondo, ai luoghi turistici che entrano nelle classifiche dei posti più affascinanti del Pianeta, ai nostri monumenti simbolo.

Con la prospettiva della cura, succede che una piccola parte contribuisce a preservare il tutto. Da questo punto di vista l´agricoltura di piccola scala è più che virtuosa. Perché con essa si difende diversità, restano integri pezzi di terra, ambienti e paesaggi, circolano i saperi collegati, si fa cultura. Eppure da più parti si sostiene che essa sia "di nicchia", che non sia competitiva, non economicamente rilevante, difficile da esportare, terribile da distribuire con i grandi canali che si sono creati. Invece la realtà è che è diffusa in tutte le regioni e presidia il territorio con azioni minime ma indispensabili. Per esempio la manutenzione degli argini, la pulizia dei boschi o dei fossi. Sia chiaro: se si difendono queste pratiche si sta difendendo il Colosseo. Se si evita una colata di cemento inutile si difende un bene culturale.

A pelle sembrerebbe condivisibile la preoccupazione del Governatore Zaia che dice: «Prima i soldi al Veneto e poi a Pompei». Ma se si ragiona in termini di cura e relazioni, di cause ed effetti, di educazione e futuro, si vede bene che non siamo di fronte a due opzioni alternative. La cosa che più tristemente ha sorpreso della sciagura che ha colpito il Veneto è stata la relativa indifferenza del resto del Paese, per quasi una settimana mentre l´acqua laggiù non defluiva. Pompei invece ha subito invaso i giornali di tutto il mondo. Ma pur con due trattamenti mediatici così diversi quegli eventi sono stati causati dalla stessa storia di sciatteria e avidità. E possono essere rimediati solo se, da subito, si mettono entrambe queste voci a pari merito, in cima alla lista delle priorità di ognuno.

Postilla

Si può non condividere il riferimento di Valentini all’”oro nero” che le ricchezze dell’Italia costituiscono. Ricorda troppo la logica meramente mercantile che fu lanciata, ai tempi di Craxi, da un ministro ai beni culturali che parlava di “giacimenti culturali” da trattare come si trattano le miniere: estrarre, manipolare, trasformare in altre merci, vendere. Si può criticare ogni debolezza nel difendere la traduzione d’ogni bene in merce. Ma certamente va condivisa la denuncia, e lo stimolo a ogni cttadino responsabile ad adoperarsi per individuare, segnalare e difendere ogni tassello del nostro patrimonio (che non è solo “nostro”, ma dell’umanità intera).

MILANO — «Vede? Quelli sono gli appartamenti progettati da Zaha Hadid. E qui al centro dall’estate vedremo "spuntare" il primo dei tre grattacieli. Li faremo tutti e tre, magari quello di Daniel Libeskind un po’ meno storto. Ma non sarà molto diverso perché le torri sono il simbolo di Citylife». Claudio Artusi, amministratore delegato della società che sta realizzando il progetto urbanistico sull'area delal ex Fiera di Milano, punta il dito verso il cantiere. Difficile immaginare oggi gli alberi, i palazzi, le torri, il museo: separato dal resto della città da un muro nemmeno troppo alto c'è una specie di grande cratere. Dice però Artusi: «Ora Citylife ha azionisti, governance, finanziamenti. la macchina è partita e non si fermerà fino a lavoro concluso».

Però il socio (con opzione di uscita) Ligresti ha detto che l'iniziativa è difficile e vi occorre l'appoggio delle banche.

«L'ingegner Ligresti ha senz'altro un punto di osservazione più ampio del mio. Però Generali e Allianz hanno confermato di restare con aumenti di capitale, acquisendo la quota di Lamaro-Toti e, per quanto riguarda la compagnia triestina, manifestando la volontà di rilevare eventualmente anche quella dello stesso Ligresti. Come capo azienda una maggior affidabilità da parte degli azionisti non potevo immaginarla. E per quanto riguarda le banche, se ci fossero state difficoltà qualche defezione ci sarebbe stata nel pool dei sei istituti che ha invece confermato il contratto di finanziamento da 1,4 miliardi, non crede?».

Lamaro o Ligresti usciranno dal general contractor Tre torri?

«Con Tre torri abbiamo i contratti su due lotti di appartamenti. Sugli altri progetti Citylife si è solo impegnata a chiedere a Tre torri la prima proposta, che non è vincolante. Quindi il "diritto" si ferma alla partecipazione alla gara. Insomma: dell’assetto di Tre torri e di altri general contractor ci premono solo qualità e competitività».

Quanto avete già utilizzato delle risorse a disposizione?

«Finora 550 milioni su 1,4 miliardi e i soci hanno versato 320 milioni, più o meno la metà di quanto si sono impegnati in termini di equity. Su 100 euro 70 provengono dai finanziamenti bancari e 30 dai mezzi propri messi a disposizione dagli azionisti. L’altra risorsa è rappresentata dagli incassi da vendite: più sono, meno devono versare gli azionisti».

La crisi vi ha fatto modificare i piani. Come?

«L’area del progetto è di 366 mila metri quadri, di cui 170 mila dedicati al parco, il terzo in città per dimensioni. Originalmente era previsto che il 55% della cubatura totale fosse residenziale e il 45% destinato a uffici e locali commerciali. Le dinamiche di mercato non sono facili da prevedere, ma abbiamo aumentato la possibile quota riservata agli appartamenti fino al 70%. E stiamo riflettendo se destinare al r esi denziale l a t orre Li beskind».

Timore di uffici sfitti? A Milano non mancano.

«E resteranno sfitti: significa che l’offerta non risponde alle esigenze degli operatori. Noi scommettiamo su Milano e pensiamo ci sarà richiesta di location di "classe A"».

Gli appartamenti quanti saranno? «Più o meno 1.100-1.300». Si parla di prezzi piuttosto alti.

«È tutto trasparente. Finora abbiamo messo in vendita 450 apni di prezzo, secondo la disposizione su strada o su parco e il piano, sono ampie: da 6-6.700 euro fino a 11.500. Criticità nella domanda sono più legate ai timori legati a comprare sulla carta o a trovarsi a vivere con i cantieri ancora aperti, meno al fattore prezzo. La casa è un bene rifugio e in un certo senso crisi e incertezza favoriscono l’investimento.

C’è ancora un ricorso sugli oneri da versare al Comune.

«Sì, "ballano" 18 milioni. Citylife deve versare al Comune, fra opere e denaro, circa 220 milioni. I principali contributi in opere sono 25 milioni per la Metro 5,16 per il parco pubblico; in denaro 45 milioni per il museo di arte contemporanea, 12 per il Vigorelli, 8 per il Padiglione 3».

Ci sono timori sull’impatto ambientale.

«Citylife sarà a "emissioni zero"...».

Però aumenteranno la popolazione che vive e lavora in zona e il traffico

«Abbiamo calcolato circa 5 mila persone residenti e 5 mila che vengono ogni giorno per lavorare, più l’afflusso al parco, al museo di arte contemporanea, al centro commerciale. Per quanto riguarda i residenti, Citylife sarà la zona pedonale fra le più ampie d’Europa e tutti le famiglie dovrebbero disporre di almeno due posti auto. Sul traffico: vogliamo confrontarlo con quello che periodicamente veniva richiamato dalla Fiera?»

Caro Augias,

alcuni giornali hanno preso l'iniziativa di creare un fondo di solidarietà per le popolazioni venete alluvionate. Ero ben disposto ad inviare il mio contributo quando ho ascoltato la dichiarazione del presidente della regione Veneto, nella quale affermava che gli aiuti del Governo per il Veneto, dovevano prevalere su quelli da inviare a Pompei. Ho sempre pagato le imposte pur essendo per una parte della mia vita lavorativa lavoratore autonomo quelli che spesso eludono o evadono. Pago come napoletano una tassa sui rifiuti solidi più alta di quella che per esempio paga mio figlio residente a Rho (Mi), ricevendo in cambio un servizio schifoso. Soffro nel vedere la mia terra in mano alla camorra con connivenze spudorate da parte di politici di tutte le aree, devo sopportare anche le reprimende che noi del sud non abbiamo senso civico in quanto non saremmo pronti a combattere la mafia e la camorra. Quest'affermazione di Zaia francamente non l'ho digerita, mi sembra stupida oltre che offensiva. Ogni anno il sito di Pompei incassa milioni di Euro, in base alla logica tanto cara a Bossi quei soldi dovrebbero restare a Pompei, o no?

Giuseppe Antinolfi - Napoli
angius48@libero.it

P rovo a immaginare le ragioni per le quali Zaia, presidente del Veneto, se ne sia uscito con l'espressione "Quei quattro sassi di Pompei". L'alluvione del Veneto in un primo tempo era stata effettivamente sottovalutata da tutti: governo e media; Zaia voleva dare un messaggio forte e semplice per i suoi elettori stimando che il livello della sua 'constituency' non sia molto elevato. Eccetera. Ciò detto, la frase rimane stupida oltre che vergognosa. Mettiamo pure da parte un'eredità archeologica unica al mondo, i capolavori che Pompei contiene; l'eco della tragedia che dopo tutto Pompei rappresenta. Il luogo è una miniera d'oro; tenuto in modo più dignitoso lo sarebbe ancora di più. Definirlo "Quattro sassi" è una vera asineria. Per fortuna mi ha scritto Andrea Maronese (da Treviso) parole di grande saggezza che equilibrano quelle sciagurate di Zaia: «Sono uno studente di Storia dell'Arte dell'Università di Venezia. Luca Zaia presidente della mia Regione avrebbe definito una "vergogna" lo stanziamento di fondi per "quei quattro rovinassi", invocando maggiori cifre per il Veneto. Anche se ci possono essere delle priorità, quelle di Zaia restano parole incivili. Quei "quattro rovinassi" sono le macerie anche della mia Storia. Inoltre non mi piace che si speculi con toni populisti sulla tragica alluvione patita dai miei concittadini. Una tragedia che oltretutto è conseguenza della distruzione del patrimonio paesaggistico veneto. Il Veneto e Pompei sono due tristi episodi della stessa catastrofe: il degrado civile».

Su Sandro Bondi, ministro per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC) pende la sfiducia richiesta da Pd e Idv e avallata probabilmente da un’area assai più vasta di Montecitorio. Il detonatore sono stati sicuramente i crolli di Pompei, ma i capi di accusa contro questo evanescente ministro, sono ben altri e ben più pesanti. Come si capì fin dalla «decapitazione» del vertice del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, a partire dal suo presidente Salvatore Settis e con grande peso attribuito alla sorella archeologa dell’avvocato-deputato Ghedini.

Al Collegio Romano, dal 1975, si sono avvicendati fior di personaggi (Spadolini, Biasini, Ronchey, Paolucci, Veltroni), ma anche personaggini (la vedova Parrino o Facchiano). I quali però non hanno mai assunto quell’incarico «a mezzo servizio» con altre incombenze. Sandro Bondi invece – per supponenza, per sottovalutazione o per consapevole volontà di indebolire tutto l’apparato della tutela – ha dedicato sicuramente più tempo a coordinare il sempre più crivellato Partito della Libertà, unitamente a Verdini e a La Russa, che non a dirigere la difficile, pericolante barca del suo ministero, dal quale dipendono (e ho detto poco) cultura e spettacolo, con un patrimonio strepitoso, sterminato, insidiato, e con mezzi scarsi, sempre più scarsi.

Mai il Ministero dei Beni Culturali è stato così prono alle decisioni del collega dell’Economia, lasciandogli usare per i tagli a capitoli di spesa già all’osso, la sega elettrica, non l’accetta. Con risultato che musei, biblioteche, archivi sono alla canna del gas. Di più: di fronte ad una vera e propria emergenza, nulla ha fatto di concreto per mantenere in servizio dirigenti di alto valore internazionale messi fuori invece, inesorabilmente, a 67 anni o, ancora peggio, grazie ad uno sciagurato quanto cieco decreto-Brunetta con quarant’anni di anzianità, quindi, in più di un caso, ad appena 62 anni chi era entrato nell’amministrazione subito dopo la laurea (Pittarello in Piemonte, Fornari a Parma-Piacenza, ecc.). Risultato: un ministero denutrito e disossato, privato di ottimi quadri centrali (Proietti, Lolli Ghetti, ora De Caro) e periferici (Guzzo a Pompei, presto Martines in Puglia). Col dilagare di gestioni “ad interim” affannate e ovviamente deboli o debolissime.

Sandro Bondi ha dimostrato subito di essere subalterno al «ghe pensi mi» di un premier che del resto adora e del suo braccio operativo Bertolaso. Ha di buon grado spalancato le porte ai commissariamenti della Protezione Civile pur sapendo che così il suo ministero veniva privato di pezzi fondamentali di competenze e di funzioni.

Non si è opposto al commissariamento dell’archeologia di Roma e Ostia Antica, nonostante la sollevazione di tutti gli archeologi (inzialmente affidato a Bertolaso poi passato all’Aquila). Né alla nomina di un vice «attuativo» nella persona dell’assessore capitolino alla pianificazione. Anche nella dolorosa vicenda di Pompei ha seguito l’altro adoratore di Berlusconi, Mario Resca, nello svalutare i propri tecnici, gli archeologi in particolare (stimati ovunque, come i nostri direttori di musei).

Quando si è verificata la tragedia dell’Aquila con la distruzione di quel centro storico mirabile e di tanti altri abitati antichi, si pensava che – come in tutti i precedenti terremoti – il MiBAC assumesse la regìa degli interventi su città, monumenti, ecc.. Quando all’Aquila si è presentato da privato cittadino (perché appena pensionato) il coordinatore dei restauri della Basilica di San Francesco in Assisi, Giuseppe Basile, munito di una sua assicurazione e portando il contributo dell’Associazione Cesare Brandi, lo stesso è stato subito rimandato a casa, «non serviva». Così come sono state rifiutate altre offerte qualificatissime di collaborazione.

Lo stesso strutturista che aveva salvato San Francesco in Assisi, Giorgio Croci, noto in tutto il mon- do, è stato chiamato una quindicina di giorni dopo il sisma per Colle- maggio e con una dotazione di fon- di irrisoria rispetto ad Assisi. Dove Veltroni aveva riversato risorse importanti e, con la regìa dell’allora direttore generale del Ministero, Mario Serio, mobilitato quadri interni ed esterni del più alto valore: Antonio Paolucci, Maria Luisa Polichetti, l’appena citato Basile, Marisa Dalai, Bruno Toscano e tanti altri. Coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Come all’Aquila...

La cultura? Deve rendere. È stato un caposaldo della «filosofia» del governo Berlusconi, che ha trovato un fedele esecutore in Bondi. Difatti è stato inserito a forza, nonostante i rilievi più sensati, quale direttore generale alla valorizzazione, poi anche come commissario a Brera (con lautissima remunerazione, contro stipendi indecorosi, nemmeno 2.000 euro, per i direttori di musei), l’ex ad di McDonald’s e presidente del Casinò di Campione, Mario Resca, che non sapeva nulla del settore, che ha accumulato banalità. Con loro il MiBAC avrebbe privilegiato i musei maggiori, quelli che possono «rendere». Come se arte e cultura non fossero valori «in sé e per sé», da diffondere, da spiegare, da far capire e amare nelle scuole (qualcuno sa dov’è finita la didattica?), ma merci, hamburger, bibite gassate, da vendere profittevolmente. Come se i grandi musei del mondo non fossero spesso gratuiti o comunque non ricevessero (il Louvre all’80%) iniezioni di denaro pubblico.

Paesaggio addio. Sull’attuazione del Codice per il Paesaggio Bondi ha dato il meglio di sé, nel senso che ne ha lasciato marcire per mesi e mesi l’attuazione, non curandosi minimamente di avviare la tanto attesa co-pianificazione MiBAC-Regioni. Col risultato che – come ha dimostrato la recente accurata indagine di Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi per Italia Nostra – i piani sono di là da venire mentre speculazione privata e abusivismo riprendono vigore, in attesa di nuovi condoni, di nuove licenze di «fare da sé» senza passare dalle maglie della tutela. Che fino a pochi anni fa all’estero ci invidiavano e di cui dovremo presto piangere l’estinzione.

Il caso

Scavi di Pompei, per mesi

rimasti senza guida

A Pompei c’era indubbiamente una emergenza, ma poteva essere risolta attribuendo al soprintendente – che per un decennio è stato il bravissimo Pietro Giovanni Guzzo, andato in pensione a 67 anni dopo 40 di onorato servizio in Calabria, Puglia, Emilia-Romagna e Roma – i poteri straordinari per tagliare tempi e pro-cedure. No, si è voluto nominare un commissario, Marcello Fiori, che, invece di intervenire sulle emergenze, ha investito fondi cospicui in mostre, ricostruzioni virtuali, ricostruzioni (discutibili) di parti del teatro romano, piste ciclabili . Mancavano solo le corse con le bighe.

La Corte dei conti ha notato, ben prima dei crolli, che la gestione «non sembra rispondere all’esigenza di tutelare l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni derivanti da calamità naturali», ecc. A queste quasi profetiche osser- vazioni il ministro Bondi aveva risposto esaltando l’opera di Fiori. Pensionato Guzzo, ha lasciato per mesi e me- si senza guida Pompei. Spazio ai manager! In ottobre ha nominato Jeannette Papadopoulos che al MiBAC cura i rapporti internazionali e che potrà dedicare 2-3 giorni a Pompei e Napoli. Auguri sinceri.

Un édifice effondré à Pompéi, symbole d'un pays en état de catastrophe culturelle

Philippe Ridet – Le Monde

La Maison des gladiateurs et ses fresques qui s'effondrent entièrement, dimanche 7 novembre, à Pompéi, faute d'un entretien constant. Le tapis rouge du Festival du cinéma de Rome envahi par des centaines de mani-festants protestant, le jour de l'inauguration, contre les coupes dans la culture. Le Musée d'art moderne de Naples qui ne par-vient plus à payer ses factures d'électricité et menace de réduire ses heures d'ouverture. L'Opera qui a chi revoir à la baisse les contrats des techniciens. Tous ces événements disent «l'état de catastrophe culturelle » qui menace aujourd'hui l'Italie. La politique de rigueur budgétaire décrétée par le gouvernement (29 milliards d'euros d'économies en 2011 et 2012) se traduira par une reduction de 58 millions d'euros pour le secteur de la valorisation des biens culturels, et de plus de 100 millions pour le Fonds unique pour le spectacle (FUS). C'est également rude pour les collectivités locales: elles ne pourront dépenser plus que 20% des sommes allouées par l'Etat par le passé pour l'organisation d'événements culturels. «Ces restrictions sont un vrai désastre, se désole Umberto Croppi, adjoint à la culture de la capitale romaine. Une exposition comete celle du Caravage à Rome cette année ne sera plus possible. Or, elle a attire 500 00o visiteurs, rapporté 30 millions d'euros, dont 15 millions à l'Etat. » Cela ne fait pas fléchir le gouvernement : «La culture ne se mange pas», répond Giulio Tremonti, ministre de l'économie d'un pays qui compte le plus grand nombre (45) de sites classes au patrimoine de l'Unesco. Coeur d'activité de l'Italie Pour protester contre les coupes budgétaires, de nombreux musées, bibliothèques et sites archéologiques étaient fermés vendredi 12 novembre, d'autres étaient ouverts gratuitement. Le 22 novembre, les acteurs, réalisateurs, scénaristes et techniciens de cinéma sont également appelés par les syndicats à une grève générale. «Quand une entreprise est en difficulté, elle se concentre sur le coeur de son activite, or le coeur de l'activité de l'Italie, c'est la culture », explique l'adjoint à la mairie de Genes, Andrea Ranieri. « La culture n'est pas la cerise sur le gateau, c'est le gateau », renchérit le president de l'association des communes italiennes. Le gateau est mal en point. Au-delà de la polémique, c'est toute la gestion du patrimoine culturel italien qui est en cause. Sa sauvegarde et l'économie qui en découle. «Ce n'est pas seulement une maison qui s'effondre à Pompei, s'inquiète Maria Pia Guermandi, membre de la direction de l'association Italia Nostra, mais la crédibilité du pays. Nous ne sommes plus en mesure de gérer tout cela. » «Faute d'argent » L'art et la culture, qui devraient étre une des principales ressources de l'Italie, font l'objet de peu d'investissements, alors que le tourisme représente 12 % du PIB. De 7 milliards d'euros en 2008, année de l'élection de Silvio Berlusconi, le budget de la culture est tombe à 5milliards en 2010, soit 0,21% du budget de la nation. Musées de province presque vides, aires archéologiques ne recevant que quelques visiteurs par jour: l'Italie souffre de trop de richesses, et de trop peu d'argent pour les entretenir et attirer du public. «La valorisation de l'exceptionnel patrimoine apparait loin d'être optimale», conclut un rapport de la Fondation Ambrosetti, presente le 12 novembre dans le cadre de la manifestation Florens 2010, con sacrée à la valorisation du patrimoine. De son ceoté Sandro Bondi, le ministre de la culture, se débat entre l'intraitable ministre de l'économie et des milieux culturels aux abois. Pour manifester son opposition aux reductions budgétaires, il a bouclé un conseil des ministres. Mais il defend l'esprit de la réforme en dénoncant «la culture de l'assistance» qui a prévalu jusqu'alors. Son projet? Multiplier les fondations publiques et privées pour entretenir les Brands sites et les musées sur le modèle du Musée égyptien de Trin. Mais l'écroulement de la Maisons des gladiateurs pourrait porter un coup fatal au ministre de la culture. Après avoir maladroitement declare que le site s'était effondré «faute d'argent» pour l'entretenir, il a accuse les infiltrations d'eau d'être la cause de ce désastre, ce qui est en partie exact. «le me demettrais si j'étais responsable a. a-t-il répété, mercredi io novembre, au Parlement. L'opposition devrait déposer une motion de censure à l'encontre de celui qui a désormais gagné le sur-nom de « ministre des maux culturels ».

The glory that was Rome crumbles as Berlusconi tries to make past profitable.

Philip Willan – The Times

The Italians of the past created the richest cultural heritage in the world — so diverse and fragile, in fact, that the Italians of today are at their wits' end trying to preserve it. The collapse of the House of the Gladiators in Pompeii a week ago was viewed by many as a metaphor for Silvio Berlusconi's Italy: reality's revenge on a party-loving Prime Minister who lives in the here and now with scant regard for either the distant past or the future. Mr Berlusconi and his Culture Minister, Sandro Bondi, believe that Italy's art treasures should pay for themselves. With appropriate promotion and publicity, ticket-paying tourists will flock through the turnstiles, sponsors will finance restoration projects and ancient monuments will be brought back to life as a backdrop to modern cultural activities such as concerts or fashion shows, they argue. To put this philosophy into practice Mr Bondi last year appointed Mario Resca, the former head of McDonald's Italy, to manage the country's 450 museums and archaeological sites on a more profitable basis. Other "supermanagers" are to be brought on board to supplement the scant business sense of the ministry's professional archaeologists and art historians and to spearhead the valorizzazione, or monetisation, of the nation's cultural heritage. Art world professionals have found themselves sidelined by managers from the Civil Protection Department, brought in to tackle emergencies such as Pompeii and licensed to work around the bureaucratic red tape that usually slows construction and restoration. The policy has backfired, however, with most of Italy's major cultural attractions closed yesterday because of a one-day strike over the budget cuts. Critics said that the Government's approach was short-sighted. "The collapse [of the House of Gladiators] has inflicted a terrible wound on Italy's reputation in the field of restoration," said Maria Pia Guermandi, a councillor for the heritage organisation Italia Nostra. "It wasn't just a house that came down but an entire patrimony of credibility." Ms Guermandi said that the emergency commissioners who had overseen restoration work since they were given responsibility for the site two years ago had acted with little sensitivity, operating with excavators and Bobcats on a site "where you should only intervene with a soft brush". The policy of augmenting the number of visitors to the country's best-known sites was also misguided, she said. At the Colosseum, where slabs of plaster plunged to the ground seven months ago, visitors have been given access to a greater area of the monument and there have even been nighttime visits. Mr Resca is also eager that the Uffizi Gallery in Florence, visited by 1.6 million people last year, should do more to challenge the supremacy of the Louvre, which had 8.5 million visitors. "People are looking for short-cuts," Ms Guermandi said. "The Uffizi is one-twentieth the size of the Louvre. It is dirty, smelly and when it rains water runs down the wall in one of the rooms." Mr Bondi, a Berlusconi loyalist who has been criticised for his willingness to accept swingeing cuts to the Culture Ministry's budget, due to go down from 1.4 billion to 1.2 billion next year, has so far resisted calls for his resignation over the Pompeii collapse. He insists that the incident was unforeseeable. However, critics say that the collapse could have been prevented because it was heralded by a series of lesser stability problems in neighbouring buildings, but that the Government had diverted funds from conservation to promotion. The weekly magazine L'Espresso published details yesterday of what it said were non-essential expenditures authorised by the emergency commissioner. They included 51,000 for a visit by the Prime Minister that did not take place. Pietro Guzzo, who was superintendent of Pompeii from 1995 until 2009, said: "It probably wouldn't cost as much as people think to get the site in order. There are the universities and the archaeology schools, such as the British School at Rome, who do great work. With a grand collaborative plan it can be done. It's just a question of method." Archaeologists said that the House of the Gladiators was one of a myriad treasures at risk from under-funding and neglect. They argued that it was time to return to ordinary administration of the country's threatened sites, restoring control to the ministry's professionals. Lists of the monuments at risk included Nero's Golden House in Rome, the dome of Florence's Cathedral, Bologna's twin towers and a host of little-known archaeological sites in southern Italy.

Domenica prossima le forze progressiste milanesi sceglieranno il candidato per le elezioni a sindaco di Milano. Sarà, comunque vada, una bella prova di democrazia. Per la prima volta da quindici ininterrotti anni di dominio della “politica” si sono confrontati quattro esponenti della società civile da sempre schierati culturalmente e socialmente, lasciando giustamente in panchina la troppo screditata politica. Valerio Onida è uno dei migliori esponenti di quella cultura costituzionale di cui abbiamo così tanto bisogno; Giuliano Pisapia è uno stimato avvocato, da sempre schierato con la parte debole della società milanese; Michele Sacerdoti ambientalista è uno storico punto di riferimento dei comitati milanesi; Stefano Boeri è uno degli esponenti in vista della cultura architettonica. E’ un buon segno che persone di questo livello abbiano sentito il bisogno di cimentarsi per la sfida amministrativa, ci dice che la società civile può riappropriarsi di spazi per quindici anni preclusi da una politica che ha oscurato ogni ricchezza culturale.

C’è poi un fatto specifico che rende particolarmente interessante l’esito delle primarie. All’interno del quartetto si confrontano due differenti concezioni della città. Tre dei candidati sostengono che in questi anni Milano è stata sepolta sotto una mostruosa quantità di cemento e di asfalto e che è ora voltare pagina e di anteporre agli interessi speculativi quelli dei cittadini. Onida ha detto in proposito parole molto lucide: si deve voltare pagina e fermare la dissennata corsa ad una cementificazione senza fine e la fase dei progetti calati dall’alto.

Il quarto candidato, Stefano Boeri, non appartiene a questa cultura. Non che non abbia mutato in questi ultimi tempi il suo atteggiamento sul futuro della città, ma perché pesa come un macigno la sua sovraesposizione in questi anni in cui a Milano si è potuto costruire dappertutto. Boeri è stato infatti uno dei più attivi progettisti delle trasformazioni urbane promosse da Hines, Pirelli Re, Ligresti e altri. E’ stato consulente del sindaco Moratti e, pur essendosi dimesso da poco, ha avuto un ruolo chiave nella predisposizione del master plan per l’Expo 2015. Boeri, insomma, è stato uno dei protagonisti della cultura della privatizzazione della città, del predominio degli interessi della proprietà fondiaria, delle grandi opere che ha trionfato in questi anni. Peraltro, come noto, è stato anche progettista delle opere per il G8 alla Maddalena coordinate dall’indimeticabile “Cricca”.

La destra ultra liberista milanese del sindaco Moratti, attraverso la cultura della cancellazione dell’urbanistica, sta perseguendo la costruzione di una nuova Milano per 1.800.000 cittadini, mezzo milione in più degli attuali. Si pensa insomma di tornare agli anni ’70 quando grazie al potente sviluppo industriale la popolazione era arrivata proprio a quel valore. Da allora Milano ha assistito ad una gigantesca chiusura di una miriade di attività produttive ed ha subìto il predominio della speculazione immobiliare pubblica e privata. Oggi che le fabbriche hanno lasciato il posto a ogni tipo di speculazione e i prezzi delle case sono senza controllo (a City life Ligresti vende a 8.500 euro!). Costruire per mezzo milione di nuovi abitanti è dunque un obiettivo folle, dettato soltanto dagli smisurati appetiti della proprietà fondiaria e degli istituti finanziari.

Sembra insomma che nel futuro di Milano ci sia soltanto il sogno del cemento. In assenza di alcuna politica industriale di livello nazionale, tutte le carte del futuro produttivo della grande metropoli, oltre che al settore finanziario e terziario, sono affidate al cemento. In questo senso, nasce la candidatura per ospitare l’Expo internazionale del 2015. Dietro all’ingannevole slogan della “capitale mondiale dell’agricoltura e della sostenibilità” si nasconde solo la devastante cementificazione delle ultime aree libere residue, dei pochi polmoni verdi rimasti. E poi, di quale tutela dell’ambiente può seriamente parlare chi ha permesso che – come a Pioltello e Santa Giulia e tanti altri casi minori – di costruire mostruose speculazioni su un mare di veleni che oggi attenta la salute dei milanesi? Onida, Pisapia e Sacerdoti, hanno le carte in regola per rappresentare una cultura nuova che segni un punto di discontinuità.

Speriamo che l’effervescenza culturale che ha segnato queste settimane milanesi non vada perduta e si avveri il sogno di un grande urbanista come Lodovico Meneghetti, che nel suo recente Promemoria di urbanistica (Politecnica, 2010) dice tra l’altro “avendo assistito al tradimento della mirabile costruzione storica valsa fino alla guerra…. riguardo al problema del verde agrario preteso e tradito dall’Expo proponiamo un nostro modello d’azione utopica come potendo da subito far cessare la colata di materia edile che sta colando dappertutto”. Ecco, Milano ha bisogno di utopia e non di altro cemento.

Nell'icona: una proposta dell'arch. Boeri: "Il bosco verticale"

Bell’esempio davvero, per i ragazzi del Beccaria. Lì, di fronte alle finestre sbarrate dell’istituto di pena minorile di Milano, si consuma l’ultimo scandalo di concessioni edilizie facili, di veleni sepolti e mai bonificati, di controlli assenti e responsabilità liquide in nome del dio cemento.

I sigilli disposti dalla Procura all’area dell’ex cava-discarica di Geregnano, ai confini ovest della città, tra i nuovi centri direzionali in costruzione e il capolinea della metropolitana di Bisceglie, raccontano dell’ennesimo cortocircuito tra profitto privato e salute pubblica. Pesticidi, diossina, metalli pesanti, pcb, solventi clorurati, idrocarburi: quasi due milioni di metri cubi di rifiuti indifferenziati e nocivi, accumulati quando non era reato scaricarli nelle cave dismesse, che sgocciolavano nella falda. Bonificarli sarebbe costato troppo, 700 euro al metro quadro: meglio una più economica, ed epidermica, messa in sicurezza. Qui sopra dovevano sorgere due torri d’appartamenti di 30 piani, un falansterio di uffici da 40 piani, un nido e un asilo. Nonostante la prima indagine comunale sui terreni, datata 1998-99, avesse urlato quei rischi. Nonostante un parere della Regione Lombardia del 2002 che ammoniva dal costruire sulle aree contaminate. Nonostante le sospensive e le richieste di integrazione della Conferenza dei servizi. Chi ha chiuso gli occhi? Chi ha approvato il progetto senza ordinare, come scrive il pm Paola Pirotta, «una preventiva e completa rimozione dei rifiuti ivi stoccati»? Quanto costa bonificare un’area da 300mila metri quadri? E quanti siti a rischio contano Milano e provincia?

BONIFICHE, CAPPING, BARRIERE IDRAULICHE E IL CERINO

La vicenda dell’area Bisceglie è una perfetta miniatura di come funzionino le cose nella città dell’Expo, dei palazzinari che non dormono mai, delle istituzioni che continuano a passarsi tra loro il cerino acceso e delle formiche che, nel loro piccolo, si incazzano. Sono gli abitanti del comitato di zona, che cominciano ad accumulare una pila di documenti, analisi di rischio, pareri e verbali che alla fine fanno coagulare in un esposto alla magistratura: da qui i sigilli di ieri. Le carte dell’Asl e dell’Arpa parlano chiaro: dagli hotspots piazzati a campione sui terreni, emerge l’elenco del veleno su cui dovrebbero dormire 4mila persone, dislocate in 1300 appartamenti. Dibromoetano 1.2, tricloropropano 1.2.3, stirene: sostanze letali, già nella falda in sospensione, giù in profondità.

Il consiglio di zona spedisce mozioni e diffide al Comune, i quotidiani cominciano a dare voce ai malumori degli abitanti contro le due società costruttrici, l’Antica Pia Acqua Marcia di Francesco Caltagirone e la Residenze Parco Bisceglie di Edoardo De Albertis, padre di Carla, ex assessore della giunta Moratti. Eppure, il 14 maggio 2009, Palazzo Marino approva (autorizzazione numero 310/152) il Progetto Operativo di Bonifica e Messa in Sicurezza con tutte le sue integrazioni. Di bonifica, nel piano, ce n’è poca: un metro di scavo nel sottosuolo. Per il resto, si passa a procedure di "capping": verrà tappato col cemento e isolato con un enorme telo di polietilene da un millimetro e mezzo di spessore, un sistema di tubi provvederà alla captazione e allo sfogo dei gas dal sottosuolo, una rete di sbarramenti idraulici farà il resto. Previsto anche un periodo di monitoraggio di non meno di dieci anni.

Non basta. Accanto al Comitato Calchi Taeggi si schierano Legambiente e Italia Nostra, che spedisce un esposto di tre pagine al sindaco Letizia Moratti il 18 dicembre 2008. Niente, si va avanti. La Conferenza dei servizi, organo che associa Comune, Provincia, Arpa e Asl, sorveglia e insieme spezzetta le responsabilità. Viene costituito un Osservatorio, ulteriore stratificazione e diluizione dei controlli sull’ex cava di Geregnano: oltre alle quattro istituzioni della Conferenza, partecipa un delegato della Regione, uno del Consiglio di zona, la direzione dei lavori, le due società incaricate della bonifica, le due cooperative supabbaltatrici, il comitato dei residenti. Tengono sette riunioni a partire dal 30 settembre 2009, l’ultima volta, prima dei sigilli, si riuniscono il 7 ottobre 2010. C’è soddisfazione per il vantaggio sul cronoprogramma, la messa in sicurezza è invece «come da programma - si legge nel verbale - in fase iniziale essendo stata realizzata la barriera idraulica e rimanendo da eseguire le attività di capping che costituiranno la fase 2». Tutto va bene, madama la marchesa. Segue sopralluogo.

Rileggere l’elenco dei partecipanti e scorrere le dichiarazioni di ieri è un altro utile esercizio. «Non è una procedura nella quale la Provincia avesse compiti di controllo», garantisce il presidente Guido Podestà. «Piena fiducia ai miei uffici», rassicura l’assessore comunale ai Lavori pubblici, Carlo Masseroli, il teorizzatore della Milano da due milioni di abitanti (oggi sfiora il milione e 300mila). «Non è una responsabilità che abbiamo da soli, ma insieme ad altre istituzioni», sottolinea invece da Palazzo Marino Letizia Moratti. «L’Arpa ha svolto la sua attività in maniera irreprensibile. La responsabilità? Del Comune», ribatte il governatore Roberto Formigoni. È davvero così? È sempre così? Cosa stabilisce la legge?

INTERESSE NAZIONALE, REGIONALE, COMUNALE

«È un casino». In maniera popolarescamente efficace, il medico ed esperto in legislazione sulle bonifiche Edoardo Bai, membro di Legambiente Lombardia, certifica il groviglio normativo. «I siti sono divisi in base al livello di inquinamento. La Sisas di Pioltello e Rodano e l’Acna sono di interesse nazionale. C’è un livello intermedio, di interesse regionale. L’area Calchi Taeggi, così come quella di Santa Giulia, sono di interesse comunale. I controlli normativi sono affidati alla Conferenza dei servizi, ma è il Comune ad approvare i progetti. i controlli sul campo sono invece demandati all’Arpa. O all’Asl in caso di pericolo imminente per la salute». Santa Giulia-Montecity è un altro emblema di questo groviglio. L’area è quella dietro la stazione di Rogoredo, dove sulle ceneri delle officine della Montedison sono sorti i nuovi uffici di Sky e un quartiere residenziale che doveva essere il fiore all’occhiello dell’immobiliarista Luigi Zunino. La firma di Norman Foster sui palazzi, quella di Giuseppe Grossi, il re delle bonifiche, sullo smantellamento dei veleni dell’area. Morale: bonifica mai effettuata (Grossi finisce nei guai), smagliature nei controlli, i sigilli della Guardia di Finanza che arrivano il 20 luglio 2010, un pezzo di quartiere chiuso sotto gli occhi dei residenti, che nel frattempo avevano già acquistato. Pagano tutti, a partire dai bambini: l’asilo a loro destinato poggiava su mercurio e cloroetilene e non è mai stato aperto, carcassa colorata con giardino avvelenato. I bimbi del quartiere sono stati spostati dal Comune un chilometro più in là. Peccato che le pareti di quella struttura grondassero amianto e lana di roccia.

Grossi e Arpa, dunque Regione, dunque Formigoni. Un intreccio che aveva il suo precedente nella vicenda della Sisas di Pioltello, una delle discariche più pericolose d’Europa, in attesa di bonifica dal 9 dicembre 1985, quando una sentenza del Tribunale ordinò di smaltire in maniera definitiva i metalli pesanti, l’acetilene, il nerofumo e i fusti lì contenuti, 290mila tonnellate di rifiuti industriali. Provvedimento mai eseguito, la società fallì nel 2000, il caso finì alla Corte di Giustizia Europea di Strasburgo e una nuova sentenza di condanna, stavolta a carico del governo italiano, cominciò a far scattare il tassametro delle multe: a oggi, siamo a 490 milioni di euro. Per ovviare al problema, nel 2009 Giuseppe Grossi si era proposto alla Regione come salvatore della patria: appalto da 120 milioni di euro, più 44 in nero, la richiesta del re delle bonifiche. Che, arrestato, mollò tutto nel luglio scorso, chiedendo indietro 25 milioni di euro di rimborso dalla Regione.

Storie nere, quelle delle discariche, che attirano interessi pericolosi e le brame della ‘ndrangheta. Scene da Gomorra, come a Santa Giulia, dove i camion di notte scaricavano il materiale scaricato di giorno. Ombre lunghe, come alla cava Bossi tra Pero e Bollate, pienissima area Expo, dove un laghetto artificiale era stato trasformato dalla famiglia Mandalari in una discarica abusiva a cielo aperto da 70mila metri quadri col colpevole silenzio del Comune di Bollate e della Regione. E ancora ‘ndrangheta a Desio, Seregno e Briosco, ancora una discarica abusiva a cielo aperto scoperta nei tre paesi brianzoli dalla polizia provinciale nel settembre 2008, ancora terreni presi in affitto dai comuni e imbottiti di veleni senza che nessuno se ne accorgesse. Ma è quando discariche e cemento si incontrano che si crea, troppo spesso il cortocircuito. Perché le aree più inquinate sono le più appetite dai costruttori? E conviene davvero acquistare un terreno da bonificare, anche solo in parte?

VIZI ITALIANI E IL SUPERFUND STATUNITENSE

«Le aree inquinate - sostiene Bai - sono ormai le uniche dove si può costruire in grande. Il resto è già stato edificato». Gli esempi recenti, a Milano, non mancano. I cinque immigrati che protestano in cima a una torre della multietnica via Imbonati da una settimana per il permesso di soggiorno forse non sanno che quella Potsdamer Platz in miniatura che li circonda era l’ex Carlo Erba, rudere industriale dieci anni fa e oggi luccicante coacervo di uffici. La Fiera a Rho, il Politecnico all’ex gasometro alla Bovisa, i grandi progetti nascono sulle macerie del boom economico. «E la legge 152 del 2006 - aggiunge Bai - il Testo Unico in maniera ambientale, col principio del giusto profitto viene incontro ai grandi costruttori. Porti via un po’ di rifiuti, perché tutti non si può, il resto lo metti in sicurezza perché meglio di così non si può, in cambio delle costruzioni. Poi il privato fa il furbo, non mantiene le promesse, e il gioco è fatto».

C’è poi una specifica lombarda, la legge regionale 126 del 2009, la contestata "legge Grossi" (proprio lui): con le sue forme di compensazione di tipo urbanistico, concede a chi bonifica la licenza di poter costruire altrove con notevoli vantaggi fiscali. «Il problema - sostiene Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia - è economico. Perché gli oneri delle bonifiche continuano a ricadere sul pubblico. Non è sempre facile che il sistema dei controlli sia così rigoroso. E soprattutto, non c’è nessuno che si faccia carico di un’intera bonifica, anche se la messa in sicurezza o lo smaltimento tramite microorganismi non sono nemmeno così economici, visto che il pompaggio di acqua dalla falda deve essere sempre controllato e a tempo indeterminato. E a Milano e dintorni la quantità di siti contaminati è enorme».

Solamente in città sono 36. Si arriva a 80 con la provincia, cifra che raddoppia se si conta la Brianza. E si escludono le aziende a rischio incidenti, la cui lista tra il milanese e il monzese (la Icmesa, la Snia Viscosa e l’Acna sono i tre esempi più famigerati) sfiora il numero mille. «Le ex cave usate come discariche - spiega il consigliere comunale Enrico Fedrighini, dei Verdi - sono quelli dove anche l’intervento di bonifica è più pericoloso. Perché devi andare a scavare e rischi di mischiare materiali già tossici, spingendoli verso la falda. E poi: tutto questo materiale, dove lo sposti, in un altro buco? E dove? Aggiungiamo la lentezza delle burocrazie, centrali e periferiche: l’Italia sullo smaltimento dei rifiuti tossici è la tartaruga d’Europa, troppe responsabilità sulle firme di documenti sono sulle spalle di semplici funzionari, che hanno paura a firmare qualsiasi cosa. C’è anche un problema di organico, a Milano. Il settore Ambiente del Comune è poverissimo, conta solo cinque persone che devono fare fronte a tutti questi problemi».

Costi, controlli e lentezze, sulla nostra pelle. Come uscirne? «Negli Stati Uniti - risponde Bai - esiste il Superfund, e funziona. È una tassa per le bonifiche che pagano gli imprenditori, un fondo da cui si attinge ed è controllato dall’ente pubblico». Qui siamo a Milano, Italia, e non è così semplice. «Un sistema per tagliare la testa al toro - prova Fedrighini - ci sarebbe, evitando il giro di subappalti e le bonifiche al risparmio. L’ho proposto anche alla giunta, che pare interessata. L’idea è semplice: fidejussione del privato costruttore, e gestione degli interventi da parte del Comune, o della Regione, tramite aziende iscritte a un albo con determinati parametri economici ed etici. È una soluzione a costo zero. E definirebbe le responsabilità. Che sarebbero finalmente, senza ombra di dubbio, politiche: del sindaco e dei governatori».

La pianura veneta ridotta a uno stagno. Ma per il governo l’unica emergenza era il traffico. I poteri emergenziali usati per costruire un’autostrada a monte dei fiumi esondati in questi giorni

Dinanzi a un’alluvione di vastissime proporzioni come quella che sta mettendo in ginocchio il Veneto, cosa c’è di meglio che bucare una montagna per farci passare automobili e tir? Un tunnel di 6,5 chilometri tra Malo e Castelgumberto, proprio in mezzo al torrente Timonchio - che più giù, in pianura, si trasforma nel Bacchiglione, il fiume che ha inondato Vicenza - e al fiume Agno, che in valle risorge sotto il nome Frassine, quello che ha sommerso Padova. Sì, perché la vera emergenza in Veneto è il traffico. E per risolvere il problema delle code, in un territorio dove la terra è sostituita da capannoni ormai svuotati dalla crisi, ci vuole una nuova autostrada: 94 chilometri di asfalto, 50 di raccordi, per oltre 800 ettari di cemento gettato proprio tra le Prealpi e la pianura sommersa dai fiumi. Nella zone delle “risorgive”, dove l’abbondante acqua penetrata nella ghiaia a monte torna in superficie, alimentando gli affluenti del Brenta. Serve la Protezione civile per fare le autostrade, in Italia. Il 31 luglio 2009 «su proposta» di Guido Bertolaso, Berlusconi assegna i poteri emergenziali propri delle calamità naturali a Silvano Vernizzi per costruire la Pedemontana, un raccordo tra la A4, la A 27e la A31 in uno dei territori più urbanizzati del mondo. Quando poi i fiumi esondano, interviene il governo. Bertolaso e Berlusconi fanno forse l’ultima apparizione insieme (il sottosegretario è andato in pensione l’11 novembre) nella pianura veneta trasformata in un immenso stagno, con danni per centinaia di milioni di euro. Dicono che il governo ci sarà, a fianco degli alluvionati. Bertolaso aggiunge che «la sciagura poteva essere prevenuta se si fossero fatte opere di messa in sicurezza che noi chiediamo da anni». La Pedemontana è forse una di queste? Allora perché la Protezione civile ha sottoscritto i poteri straordinari per il traffico a Vicenza, invece di nominare magari un commissario alla sicurezza idrogeologica della zona?

Quella dichiarata il 5 novembre dal Consiglio dei ministri è la terza emergenza ancora in vigore a Vicenza. La prima era stata dichiarata il 26 giugno 2009 e poi prorogata fino al 211, per un tifone che aveva colpito la provincia. Ma pochi giorni dopo il governo dichiara la vera emergenza. È il traffico nelle province di Treviso e Vicenza. Con un’ordinanza ferragostana (la 3802 del 15 agosto 2009) il governo nomina Silvano Vernizzi commissario straordinario per la realizzazione delle Pedemontana Veneta. Una strada la cui storia affonda le radici nella prima Repubblica. Doveva essere un raccordo tra le circonvallazioni dei paesi prealpini, negli anni ‘90. Poi, dopo Tangentopoli, si trasforma in una superstrada con 40 uscite per incanalare il traffico locale delle fabbrichette che sorgono come funghi. Infine si trasforma in una autostrada a pedaggio, con solo 17 uscite, 20 chilometri di percorso in più fra le montagne della valle dell’Agno con 15mila metri di tunnel, il resto da costruire dentro una trincea scavata nel terreno profonda fino a 9 metri, sul territorio di 32 comuni. A proporre l’opera è la Pedemontana Veneta spa, inizialmente una società pubblica partecipata da regione, enti locali, da Autostrade spa e alcune banche (San Paolo, Unicredit, Antonveneta). Poi, con un blitz nella sede di un notaio veronese, nel dicembre 2005 i privati, senza nessuna gara d’appalto, ne acquisiscono il controllo: 1.500 azioni della società passano da banche e società pubbliche a una cordata capitanata da Impregilo (la stessa del Ponte di Messina e dell’inceneritore di Acerra), comprendente il consorzio Cps (al cui interno figurano la Maltauro, Rizzani De Eccher, Mantovani) e strane società, come la Adria Infrastrutture, nel cui cda siede anche Claudia Minutillo, ex segretaria particolare del governatore berlusconiano, il doge Giancarlo Galan. Ma l’affare salta, quando l’opera viene messa a gara. Nonostante l’opzione riservata al proponente, dopo una serie di ricorsi, la Pedemontana viene assegnata al consorzio Sis Scpa, con sede a Torino, controllata per il 60 per cento della Cacyr Vallehermoso, multinazionale spagola delle costruzioni, e per il 40 per cento dal gruppo Fininc Spa, proprietà dalla famiglia torinese dei Dogliani. Il cui capostipite, il settantenne Matterino Dogliani, affianca la produzione di vino nel cuneese all’attività bancaria (era presidente della Banca di Credito Cooperativo di Bene Vagienna), passando per le speculazioni immobiliari nelle Langhe (è lui a costruire il contestatissimo Boscareto Resort di Serralunga d’Alba di cui parla diffusamente La colata, fortunato libro edito da Chiarelettere). Matterino Dogliani fa da presidente del consorzio, che curerà non solo la costruzione, ma anche la gestione della strada. Che nascerà in project financing, una tecnica per la quale il privato mette i soldi per l’opera e la gestisce per un periodo sufficiente a rientrare nell’investimento. Ma l’accordo con la Regione, che bandisce l’appalto, è tutto a favore del privato. Se il numero di autovetture che transiteranno nell’autostrada a pedaggio sarà inferiore alla quota di 840milioni di veicoli/km annui la Regione dovrà versare un contributo annuo di 20milioni di euro circa per 39 anni. Un debito che i governatori della regione non hanno mai messo a bilancio. Il privato non ci rischia un euro.

L’autostrada passa in zone fortemente urbanizzate, ricche di agricoltura di qualità e taglia il terreno di una villa prepalladiana. I ricorsi dei cittadini si sprecano. Ed è qui che la Regione chiama in causa la Protezione civile. Che nomina Silvano Vernizzi commissario straordinario, col compito di approvare il progetto definitivo dell’opera sostituendo «ad ogni effetto, visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di competenza di organi statali, regionali, provinciali e comunali». La firma del supercommissario «costituisce variante agli strumenti urbanistici e comporta dichiarazione di pubblica utilità, urgenza e indifferibilità dei lavori». Poteri amplissimi. Ma ciò che più salta all’occhio, nell’ordinanza di Bertolaso, è il potere di derogare a una delibera Cipe del 2006, che ha stanziato il contributo pubblico all’opera, sottoponendolo però a un lungo elenco di prescrizioni e raccomandazioni. Di queste, secondo i comitati Salute e difesa del territorio, che si battono per mitigare i danni della Pedemontana, ben 48 non vengono rispettate. L’obbligo di redigere «appositi studi di dettagli per la compatibilità idraulica per le opere di attraversamento dei corsi d’acqua e per i siti di cantiere ricadenti in aree golenali o nei pressi di aree sottoposte a rischio esondazione o alluvione». E ancora «lo sviluppo in dettaglio degli interventi di sistemazione idraulica in corso d’opera e la risoluzione delle interferenze dell’opera con la rete idrografica»; la «salvaguardia dei pozzi e degli acquiferi destinati al consumo umano». Prescrizioni di cui il commissario Vernizzi non sembra aver voluto tener conto, dall’alto della sua carica a doge delle autostrade. Vernizzi, infatti, oltre a essere commissario governativo per la pedemontana, ha svolto lo stesso ruolo per la costruzione del passante di Mestre, l’irrinunciabile autostrada dell’entroterra veneziano entrata in tilt lo stesso giorno dell’inaugurazione, con decine di chilometri di coda. Vernizzi è anche ad di Veneto Strade Spa (con una paga di 160mila euro annui), società controllata da Regione e province, che gestisce 1.400 km di strade locali. È stato presidente della commissione Via regionale, la stessa che ha fornito il via libera nella valutazione d’impatto ambientale della Pedemontana. È un alto dirigente della Regione, segretario a infrastrutture e mobilità (stipendio 170mila euro). E per nome dell’ex governatore Galan, attuale ministro dell’agricoltura, ha partecipato a numerose spa regionali, sotto diretto controllo politico (Ferrovie venete srl, Interoporto di Rovigo spa, C.R.S. Spa, Metropolitana del Veneto Srl, Veneto infrastrutture servizi Srl, Vi.abilità spa). Con l’arrivo del leghista Zaia ha mantenuto il suo posto. Così come l’altro uomo forte dell’asfalto in Veneto, Renato Chisso, assessore regionale alla mobilità. Chisso avrà molto da lavorare: per i prossimi anni si immagina una nuova colata, da realizzare col rito veneto: project financing, spa pubbliche di controllo politico, stretta rete tra istituzioni e imprenditori rampanti. Si prevede la Valdastico sud, la Valdastico nord, il grande raccordo anulare di Padova, la camionabile Padova-Venezia, la Cesena-Venezia, la Nogara-adriatica, il sistema delle tangenziali venete, la Romea commerciale, il raddoppio dell’A4, e ancora decine di bretelle e tangenziali. «Da quando nel 1990 è stato redatto il piano regionale dei trasporti la quantità di traffico su ruota è salita dall’84 a oltre il 90 per cento, in un territorio dove il 40 per cento del suolo è urbanizzato», spiega Ilario Simonaggio, segretario regionale della Filt-Cgil. «E intorno alla Pedemontana, nella delicata zona delle risorgive che alimenta tutti gli acquedotti veneti, si progetta di edificare ancora».

Le autostrade in Veneto sono un affare perché intorno ad esse si può costruire. La legge regionale urbanistica [il Piano territoriale regionale di coordinamento – n.d.r.] prevede che «le aree afferenti ai caselli autostradali (...) per un raggio di 2 km dalla barriera stradale sono da ritenersi aree strategiche di rilevante interesse pubblico. Dette aree sono da pianificare sulla base di appositi progetti strategici regionali». Intorno alla nuova Pedemontana decide la Regione, sottraendo il governo del territorio ai comuni e ai loro piani regolatori. Qualche imprenditore vicentino espropriato non ha neppure nascosto la sua felicità. Non tanto per i valori di esproprio (il terreno agricolo è ceduto a 16 euro al metro quadro, molto meno del Passante). Nelle aree di sua proprietà intorno alla nuova strada potrebbero sorgere alberghi, appartamenti, centri direzionali e commerciali. Un fiume di cemento intorno al fiume d’asfalto. In Veneto a debordare non è solo l’acqua.

PADOVA. Uno che aveva detto, anzi aveva scritto che sarebbe successo, è Luigi D’Alpaos, ordinario di idraulica all’Università di Padova. D’Alpaos faceva parte della commissione De Marchi - con Ghetti, Ramponi e Tonini, il top della cultura idraulica italiana - che esaminò la situazione dei fiumi veneti dopo l’alluvione del ’66 e indicò gli interventi per evitare il bis. Solo uno è stato realizzato, sul Livenza. Niente sul Piave, niente sul Brenta e meno ancora sul Bacchiglione.

Stiamo viaggiando con totale incoscienza verso il tris. Finiremo di nuovo sott’acqua, arriveranno un’altra volta i soccorsi, vedremo le gare di solidarietà, le collette generose che non sai mai dove finiscono. E sentiremo dire che tanta acqua così non si era vista neanche nel ’66.

Professor D’Alpaos, il presidente Zaia dice che è andata peggio del 1966: sono caduti 50 centimetri d’acqua in 48 ore, mentre allora furono solo 20.

«Il presidente Zaia è giovane. Forse era piccolissimo all’epoca dell’alluvione del ’66».

Non era ancora nato.

«Mi piacerebbe parlare una volta con lui e magari anche con il ministro Galan».

Per dire cosa?

«Per raccontare loro la storia vera. Non ho i dati per ragionare intorno all’evento di questi giorni, mi auguro che siano messi a disposizione di tutti. Però conosco molto bene la situazione del 1966: sono bellunese, se faccio riferimento alla valle dove abito, l’Alpago, caddero 760 millimetri di pioggia in 36 ore».

Ah, non 20 centimetri?

«No. Ma cosa mi dice questo dato? Niente: dovrei conoscere l’estensione del territorio colpito e la distribuzione dell’intensità delle piogge nel tempo, per fare confronti. Mi fa tenerezza questa gente che va allo sbaraglio sulla base di un numero insignificante che qualcuno ha riferito loro».

Chi sarà stato?

«A me lo chiede? Può darsi che qualche stazione abbia registrato in 48 ore 50 centimetri. Ma è sconvolgente? Se ho detto che al paese mio ce ne sono stati 76 in 36 ore. E’ sconvolgente che vengano propalate informazioni che non vogliono dire niente».

L’ingegner Cuccioletta del Magistrato alle Acque dice che la colpa è della Regione, perché lo Stato ha ceduto la competenza.

«E lui dov’era, cosa faceva quando esistevano le Autorità di bacino e la competenza era loro? Il Magistrato alle Acque è un sopravissuto a se stesso. Tecnicamente parlando è squalificato. Io vedo che ognuno cerca di sottrarsi a qualsiasi possibile responsabilità, invece tutti hanno sbagliato, chi per una parte chi per l’altra. L’importante è non sbagliare per il futuro. La sicurezza idraulica deve diventare prioritaria».

Cosa aveva suggerito la commissione De Marchi?

«C’erano due strade possibili: adeguare alle massime portate di piena i corsi vallivi dei fiumi o decapitare temporaneamente i colmi di piena trattenendoli con invasi da costruire. Si optò per una serie di serbatoi anti-piena».

Da collocare dove?

«Uno a Pinzano per il Tagliamento, di circa 100 milioni di mc. Uno a Ravedis per il Cellina, di 20-25 milioni di mc e un altro a Colle di 60 milioni di mc per il Meduna. Tutto questo per ridurre la portata di piena del Livenza».

E sugli altri fiumi?

«Per il Piave veniva suggerito un serbatoio a Falzè di 90 milioni di mc, che era in grado di controllare qualsiasi piena. Per il Brenta-Bacchiglione alcuni invasi vicino all’Astico e sui corsi d’acqua che formano poi il Bacchiglione a Vicenza, quindi Timonchio-Leogra e Retrone».

Quante di queste opere sono state realizzate?

«Solo quella di Ravedis e solo perché ne era prevista l’utilizzazione irrigua e idroelettrica. Il Bacchiglione non ha nessun serbatoio elettroirriguo a monte. Sul Brenta c’è il sistema del Cismon che fa capo al lago del Corlo: non so come abbia operato, sta di fatto che stavolta il Brenta ha avuto portate modeste. Per fortuna di Padova».

E i canali della bonifica?

«La rete dei consorzi ha un ruolo secondario. Va in crisi per le piogge più brevi e più intense, che non preoccuno il grande sistema idrografico, ma producono i vari episodi di allagamento ripetuto».

Quindi siamo stretti da due emergenze parallele?

«Una l’abbiamo creata noi in questi 50 anni, quella della rete idraulica minore: un terreno agricolo ha una portata 10 litri al secondo per ettaro, l’area urbanizzata li fa diventare 150-200. I centri del Veneto sono andati estendendosi in barba a tutti i problemi idraulici, pianificati da tecnici scellerati e da sindaci che chiudono i fossi per farci sopra piste cicblabili».

“Per Pompei le risorse ci sono, si tratta di saperle spendere", affermava due anni fa Sandro Bondi, annunciando che il 28 ottobre 2008 Berlusconi avrebbe visitato il sito archeologico più famoso del mondo. Chissà se il ministro per i Beni culturali sapeva che per quella visita il commissariato straordinario voluto da lui medesimo stava bruciando un pacco di soldi. "Sessantamila euro per la visita del presidente del Consiglio", recita la voce della contabilità del commissariato, cui vanno aggiunti 11 mila euro per la "pulizia delle aree di visita del Presidente del Consiglio" e 9.600 euro per "l'accoglienza". Giustificazione dell'uscita: promozione culturale. Lavoro e migliaia di euro sperperati, visto che il Cavaliere a Pompei non ci metterà mai piede.

I soldi destinati alla visita del premier non sono gli unici, incredibili "investimenti" che i due commissari straordinari voluti da Bondi (prima il prefetto Renato Profili, poi Marcello Fiori della Protezione civile) hanno autorizzato durante la loro gestione per rilanciare il sito. "L'espresso" ha trovato l'elenco di (quasi) tutte le spese effettuate dalla struttura, denaro che forse sarebbe stato meglio utilizzare nella manutenzione e nel restauro dei templi e delle Domus degli scavi. "Ora è tardi, la scuola dei Gladiatori è crollata e non si può tornare indietro", dice un tecnico che chiede l'anonimato: "È una roba vergognosa, pazzesca, ha ragione il presidente Napolitano".

Tra stipendi da record, consulenze, operazioni di marketing e bizzarrie in odore di Cricca, a Pompei ci hanno mangiato in tanti. La lista comprende di tutto: ci sono 12 mila euro pagati per rimuovere 19 pali della luce; 100 mila per il "potenziamento dell'illuminazione" delle strade esterne al sito; 99 mila finiti a una ditta che ha rifatto "le transenne". Oltre 91 mila euro sono andati a un Centro di ricerche musicali per l'installazione di planofoni (strumenti per la diffusione del suono nello spazio), e 665 euro sono serviti a cambiare le serrature di un punto di ristoro. Quasi 47 mila euro sono serviti per metter in piedi l'evento "Torna la vite"; 185 mila per il progetto PompeiViva: soldi dati alla onlus romana CO2 Crisis Opportunity fondata da Giulia Minoli, figlia di Gianni e Matilde Bernabei, che ha avuto Gianni Letta come testimone di nozze. Lo sposo? Salvo Nastasi, direttore generale del ministero dei Beni culturali. Al piano di valorizzazione è stata chiamata anche Wind: importo previsto, 3,1 milioni di euro.

Le convenzioni, a Pompei, costano caro: 547 mila euro sono stati spesi per un progetto intitolato "Archeologia e Sinestesia" curato dall'Istituto per la diffusione delle Scienze naturali, altri 72 mila sono state dati all'associazione Mecenate 90 (presidente onorario il solito Gianni Letta, presidente Alain Elkann) per un'indagine conoscitiva sul pubblico, e ben 724 mila all'Università di Tor Vergata "per lo sviluppo di tecnologie sostenibili".

Qualche maligno sostiene che ci possa essere un conflitto d'interessi: Fiori, si legge nel suo curriculum, è stato docente universitario del corso "Pianificazione degli interventi per la sicurezza del territorio" proprio a Tor Vergata. Supermarcellino, come lo chiamano gli amici, fedelissimo di Guido Bertolaso, ex vice-capogabinetto di Rutelli, è l'uomo-chiave degli ultimi 18 mesi, l'esperto che afferma di aver speso il 90 per cento dei 79 milioni di euro a disposizione "per la tutela e la messa in sicurezza". Sarà, ma sono molte le spese che stonano. Passi per i 1.668 euro per i nuovi arredi del suo ufficio, ma forse i 1.700 euro per la divisa del suo autista o i 4 mila per la sua "parete attrezzata" poteva risparmiarli. Come i 10 mila per un altro ufficio presso l'Auditorium, i 113 mila per lo spettacolo "Pompei in scena" o i 955 mila per il "progetto multimediale" alla casa di Polibio.

A sei giorni dai crolli, sulle pietre della scuola dei Gladiatori sgambettano tre cani randagi, nonostante la Protezione civile abbia deciso di dare alla Lav ben 102 mila euro per "l'arresto dell'incremento" dei quadrupedi. La città antica è deserta, diluvia. "Stia attento alla pioggia, perché l'acqua qui uccide", raccomanda l'unico guardiano che si incontra in un'ora e mezza di visita. "La colpa di chi è? Dico solo che vedo sprechi, e troppa gente che litiga su cosa fare. E si sa che mentre 'o miedeco sturéa, 'o malato se ne more".

Oltre 120 comuni e mezzo milione di persone colpiti dalla piena del Bacchiglione, che ha causato tre vittime, oltre 10.000 sfollati ed un miliardo di danni. Come sempre ci si domanda, a posteriori, se qualcuno aveva previsto ciò che poi è accaduto e se si potessero prevenire o quantomeno mitigare gli effetti catastrofici di eventi naturali che tendono a riprodursi con sempre maggiore frequenza. In questo caso una precisa risposta può essere trovata con la lettura del Piano di Assetto Idrogeologico predisposto nel 2007 dall’Autorità di Bacino Brenta-Bacchiglione. Il piano infatti indicava in modo puntuale gli interventi necessari per contrastare il pericolo di alluvioni. Tra questi in particolare la formazione di bacini di espansione, la realizzazione di opere di laminazione, l’adeguamento delle sezioni idrauliche, le sistemazioni arginali, la necessaria manutenzione dei manufatti, il potenziamento delle idrovore lungo tutto il corso dei fiumi Brenta e Bacchiglione e dei loro affluenti e nei principali nodi idraulici quale quello della città di Padova. Il tutto per una spesa complessiva prevista di 668.919 mila euro.

Quante di queste opere sono state realizzate in questi anni? A quanto pare poco o nulla, se è vero quanto affermato dal Magistrato alle Acque Patrizio Cuccioletta in un’intervista del 9 novembre, nella quale si denuncia il fatto che, dopo la frammentazione delle competenze operata negli ultimi anni, sono venuti a mancare persino i fondi per le manutenzioni delle canalette e degli argini, mentre la cementificazione del territorio ha prodotto un cambiamento della velocità di scolo e l’esondazione dei canali.

668 milioni possono sembrare una cifra enorme, ma in realtà sono di molto inferiori alla spesa di un miliardo considerata oggi necessaria dal Presidente della Regione per far fronte ai danni provocati dall’onda di piena del Bacchiglione: una spesa che dovrebbe servire a ripristinare le opere ed i fabbricati danneggiati, ma che ancora una volta non metterà in sicurezza il territorio.

Tutto ciò conferma come purtroppo la salvaguardia idrogeologica del territorio non sia mai stata una priorità nelle scelte politiche e di bilancio dei governi nazionali e regionali degli ultimi decenni, tant’è che - come documentato in questi giorni dal WWF - i finanziamenti per il Ministero dell’Ambiente - nella finanziaria di Tremonti e nonostante le proteste della Prestigiacomo - sono quelli che sembrano destinati a subire uno dei più drastici tagli, passando dai 1.649 milioni del 2008 ai 513 previsti per il 2011. Anche nella finanziaria regionale si era previsto un taglio di 26 milioni per le politiche di salvaguardia: taglio che si può auspicare verrà annullato a seguito dei tragici eventi del 2 novembre.

C’è quindi da sperare che, dopo le solenni dichiarazioni di questi giorni, realmente si modifichino gli indirizzi e le priorità delle politiche territoriali passando dalla gestione delle emergenze alla prevenzione, ponendo un freno alla cementificazione ed investendo nelle infrastrutture per la salvaguardia dell’ambiente piuttosto che in nuove infrastrutture stradali di cui francamente non si sente la necessità.

Da questo punto di vista, un segnale positivo sembra giungere dall’ultimo Consiglio Comunale di Padova, che all’unanimità ha votato un progetto di legge da presentare in Regione per lo studio e per la redazione di un progetto preliminare finalizzati al completamento dell’Idrovia Padova-Mare, una delle grandi incompiute della nostra regione che potrebbe felicemente integrare le funzioni di salvaguardia idraulica (funzionando come canale scolmatore per le piene del Brenta e del Bacchiglione, con una capacità di 400 mc/sec) con quelle trasportistiche (alternative all’assurda camionabile voluta dalla Regione) e che potrebbe altresì costituire un fondamentale elemento di riqualificazione ambientale e paesaggistica di tutti i territori attraversati.

Priorità d’investimento dunque, ma anche riordino e concentrazione delle competenze, nonché approfondimento ed aggiornamento degli studi e delle cartografie tecniche. E’ infatti piuttosto sconcertante osservare che molte delle aree alluvionate nei giorni scorsi non corrispondono affatto a quelle indicate a rischio idraulico dalla “Carta delle fragilità” dell’ultimo Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale della Provincia di Padova, mentre decisamente più azzeccate risultano le previsioni derivate dagli studi effettuati dal professor Luigi D’Alpaos con un sofisticato modello matematico bidimensionale. Tanto più preoccupante appare la sottovalutazione del rischio evidenziata dalla cartografia del PTCP, se si considera che tutti i piani intercomunali e comunali di questi anni proprio su questa cartografia si sono basati per la pianificazione delle nuove espansioni e trasformazioni urbane e per la redazione delle relative valutazioni di compatibilità idraulica.

Padova, 11 novembre 2010

Un governatore, Galan, che ha ricoperto il Veneto di cemento ed è stato promosso ministro dell’Agricoltura. La sua ex-segretaria che in pochi anni diventa uno dei più grandi imprenditori del mattone, maneggiando somme a nove zeri con società in Italia e a San Marino. E poi esponenti di spicco del Pdl che la fanno da padroni nel settore delle grandi opere. Succede nel Veneto, regno del centrodestra.

Adesso, però, è arrivata l’alluvione. Quando le acque si saranno ritirate, oltre ai campi devastati potrebbe emergere una storia imbarazzante per il Pdl e la Lega, che oggi tuona contro Roma e Pompei, ma era nella maggioranza di Galan.

“I fenomeni naturali che si sono verificati in Veneto rientrano nella normalità. È normale che in autunno si registrino piogge di tali intensità e durata”. Così la Società Italiana di Geologia Ambientale. Ma allora perché il Veneto è diventato un lago? Il governatore Luca Zaia non ha dubbi: il cemento non c’entra. Chissà, forse anche perché il cemento è una questione spinosa per la sua maggioranza.

Più d’uno da queste parti solleva il dubbio: l’alluvione potrebbe essere conseguenza della cementificazione selvaggia voluta dal centrodestra e soprattutto da Giancarlo Galan, il governatore “Doge” che regnando dal 1995 al 2010 ha costruito come nessun altro. Autostrade, centri commerciali, capannoni, paesi nuovi di zecca (spesso deserti). In pochi anni il paesaggio è stato stravolto. I dati del Centro Studi dell’Università di Padova confermano l’impressione: dal 2001 al 2006 sono state realizzate abitazioni per 788 mila persone, quando la popolazione è aumentata di 248 mila. Sono state rilasciate concessioni per 94 milioni di metri cubi di costruzioni, l’equivalente di una palazzina alta e larga dieci metri e lunga 1.800 chilometri. Nel solo 2002 sono stati costruiti 38 milioni di metri cubi di capannoni. Ma soprattutto: la superficie urbanizzata in Veneto è aumentata del 324% rispetto al 1950 (mentre la popolazione è cresciuta del 32%).

Perché l’acqua diventa disastro

Un cambiamento che può aver trasformato una forte pioggia in un disastro. “La terra lascia penetrare l’acqua, mentre il cemento è impermeabile e favorisce le alluvioni”, spiega Adone Doni, portavoce del Cat, Comitato Ambiente e Territorio della Riviera del Brenta.

Così la pioggia rischia di mettere a nudo la rete di potere del centro-destra. Sono decine di personaggi, magari sconosciuti, che con le loro opere cambiano la vita di milioni di veneti. Come Claudia Minutillo: fino a pochi anni fa segretaria e strettissima collaboratrice di Galan. Poi il grande salto nel mattone: Minutillo, classe 1963, ha i contatti giusti, anche grazie al marito console di San Marino (che ha siglato accordi con la Regione Veneto). In men che non si dica si ritrova a capo di un impero, ha partecipazioni e incarichi in quasi venti società.

Mattoni e giornali

Con la sua Adria Infrastrutture sta puntando a realizzare opere da miliardi: la “Via del mare”, superstrada a pedaggio che collegherà la A4 con Jesolo, il Passante Alpe Adria, 85 chilometri di – contestatissima – autostrada attraverso il Cadore. Poi il Terminal merci al largo di Rovigo e il Terminal di Marghera. Minutillo ha alleati forti: nella Adria Infrastrutture e nella Infrastruttura Sa (finanziaria con sede a San Marino) ecco Alberto Rigotti, il filosofo-imprenditore vicino alla Compagnia delle Opere, che ha comprato il gruppo editoriale E-Polis. L’alleanza dei signori del mattone si cementa nei quotidiani. Dentro E-Polis ci sono Mantovani (storico colosso del settore), Minutillo e Vito Bonsignore, europarlamentare berlusconiano e uno dei signori delle autostrade. Inchiostro e cemento, in Veneto si tengono stretti: Il Gazzettino, storico quotidiano locale, è di Caltagirone (editore anche di Leggo). Insomma, difficile trovare un giornale nemico del mattone.

Intanto il Pd nicchia o si divide. Alcune sue figure storiche, come Lino Brentan, seguono la via del pragmatismo (che l’ha portato nel cda di 11 società autostradali). Pochi criticano la politica del mattone del Pdl. Quasi nessuno fa notare il potenziale conflitto di interessi di figure come Lia Sartori, deputato europeo del centrodestra (con un passato, tra l’altro, nella commissione Trasporti). Proprio lei che è stata assessore regionale ai Trasporti e poi presidente del Consiglio regionale e che attraverso la società di progettazione Altieri ha collaborato con la Mantovani.

Ecco la rete del cemento veneto. In tanti, anche nel centrosinistra, speravano che Zaia prendesse le distanze. Ma non è stato così. E il Governatore adesso rischia di restare impantanato nel fango lasciato dalle piogge.

Per il sistema di potere nel Veneto e I suoi effetti territoriali vedi anche l’articolo di Adone Doni e Mattia Donadel in eddyburg.it

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