La Marson "osserva" fuori tempo massimo
Piano strutturale, Regione scettica ma le "osservazioni" arrivano in ritardo. «E´ arrivato dopo il 12 marzo, cioè oltre il tempo massimo», fa sapere il Comune. E solo per una sorta di cortesia istituzionale, cioè per i buoni rapporti che intercorrono al momento tra il sindaco Renzi e il governatore Rossi, Palazzo Vecchio non ha risposto con un «irricevibile».
Come tutte le «osservazioni», anche quella trasmessa dall´assessore regionale Anna Marson non è vincolante. E il Comune non sembra avere in effetti molta intenzione di tenerne conto. Ma è comunque utile per capire cosa pensa la Regione del Piano che Renzi ama sempre presentare come il primo a «volumi zero». Perché a giudicare dalle considerazioni che spuntano qua e là tra i rilievi tecnici, l´assessore Marson ha qualche moto di scetticismo.
Anzitutto a proposito del cosiddetto meccanismo del credito edilizio. Palazzo Vecchio ha calcolato in 150.000 metri quadrati il totale interessato del meccanismo. Che è questo: chi possiede un capannone dismesso nell´area centrale della città può decidere di conferirlo al Comune con l´obiettivo di lasciare spazio ad una piazza o ad un giardino. E in cambio il Comune acconsente al trasferimento in periferia delle stesse metrature. Anzi, come incentivo concede al privato la possibilità di aumentare la superficie del 10 per cento. Ma così si costruisce là dove non c´era ancora niente: «Essendo trasferite in nuove aree rappresentano nuovo impegno di suolo e pertanto dovrà essere verificata e valutata la sostenibilità», rileva la Regione nel documento. Come dire, altro che «volumi zero».
In più, si punta il dito contro i contenitori «di particolare valore» com´è il caso del tribunale di piazza San Firenze. Che all´indomani del trasferimento nel nuovo Palazzo di giustizia, al momento previsto a novembre, dovrà essere destinato a nuove funzioni. Quali? E´ qui che punta l´indice dell´assessore Marson: per questi edifici, che ammontano a 217.000 metri quadrati, «si ritiene che debbano essere definite strategie per la valorizzazione sia in termini funzionali che in rapporto all´accessibilità».
La responsabile urbanistica della Regione rileva poi che «gli interventi di recupero con una superficie lorda inferiore a 2.000 metri quadrati non sono computati nel dimensionamento». Cioè nel conto della metrature. E Marson fa presente che «non risultano chiare le motivazioni di tale esclusione» perché in realtà il totale di questi interventi è una cifra di rispetto «e si ritiene necessario conteggiarla». Attenzione, avverte ancora la Regione: «All´interno degli isolati urbani è necessario chiarire le modalità di impiego delle volumetrie, nonché le condizioni per interventi di completamento, sopraeleveazione o saturazione del tessuto insediativo». Manca cioè, dice la Marson, una indicazione delle condizioni di trasformabilità. La responsabile urbanistica chiede anche di riscrivere le norme sulla grande distribuzione per valutarne meglio la compatibilità con la dotazione infrastrutturale.
Dall´assessore regionale ai trasporti Luca Ceccobao si pone invece una domanda cruciale a proposito dell´Alta velocità: «E´ necessario che il Comune verifichi se è di propria competenza prescrivere condizioni alla realizzazione del sottoattraversamento». La Regione, sembra di capire, rivendica un proprio ruolo nella trattativa in corso con l´ad di Ferrovie Moretti.
Il Comune non si smuove "volumi zero" parola d´ordine
L´assessore Marson nutre dubbi sui «volumi zero» previsti dal Piano? «Noi non li abbiamo», replica Palazzo Vecchio. E´ vero che il «credito edilizio» prevede nuove costruzioni dove adesso non c´è niente. Ma si tratta di quantità minime: 150.000 metri quadrati è solo il conto totale degli edifici posti nell´area centrale che ricadono sono questa tipologia.
Non sarà comunque facile convincere i proprietari ad abbandonare il centro per la periferia (da qui l´incentivo del 10 per cento). E in ogni caso i trasferimenti eventuali saranno possibili solo in zone ben precise: da una parte la zona di via Pistoiese, dall´altra quella di viale Nenni, dove una volta tanto l´infrastruttura (la tramvia per Scandicci) precede l´insediamento edilizio. Non solo. Palazzo Vecchio ricorda che, coerentemente all´annuncio dei «volumi zero», sono stati cancellati anche i residui. Cioè le previsioni su terreni identificati come edificabili dal vecchio pano regolatore, nei casi in cui i proprietari non avevano ancora ritirato le concessioni edilizie. Una decisione che potrebbe costare, chissà, alcuni contenziosi tra Comune e privati proprietari delle aree.
Se poi ci si riferisce a Castello, l´obiezione non è pertinente. Il progetto Fondiaria-Sai è stato oggetto di convenzioni e non è cancellabile. A meno di sicuri ed onerosi contenziosi. Castello, unico ma autentico caso di espansione della città (che potrebbe tornare per aria per effetto della variante del Pit e dello sviluppo aeroportuale), è una eredità del passato.
La parola d´ordine «volumi zero», che secondo il sindaco Renzi sarebbe meglio declinare in «basta con il consumo di nuovo suolo», non è dunque in discussione. Il Piano strutturale, che potrebbe essere adottato entro maggio, afferma una chiara discontinuità con i Piani del passato e anche con la cultura urbanistica corrente. E non può essere il credito edilizio a ribaltare il senso generale.
Per Palazzo Vecchio, che inizierà ad esaminare le osservazioni mercoledì nella commissione urbanistica guidata da Titta Meucci, l´unica annotazione condivisibile avanzata dalla Regione è quella sui contenitori dismessi e sulle future destinazioni d´uso. A cominciare proprio da tribunale di piazza San Firenze. D´altra parte, se nel Piano le indicazioni per questo palazzo sono ancora vaghe, è perché una decisione definitiva ancora non c´è. Il sindaco Renzi aveva ipotizzato di ospitare nel palazzo le università straniere. Ma la riflessione, dice Palazzo Vecchio, è ancora in corso.
MONZA— Forse aveva ragione Cicciolina. Nel maggio del 2002, candidata alle Comunali di Monza nella lista dei Libertari, la mai dimenticata Ilona Staller propose un casino (accento sulla o) all’interno della Villa Reale, «per portare turismo e farla rivivere» . Forse aveva ragione lei. Di sicuro ce l’ha chi pensa che la reggia di Monza debba tornare a rinascere, facendo dimenticare le brutte immagini che potete vedere qui a fianco: calcinacci, stucchi sbrecciati, quadri bucati, arredi distrutti. Per dovere di cronaca, va detto che non tutti i 740 locali dell’ex residenza estiva dei Savoia sono così malmessi: il degrado è concentrato nel corpo centrale e in una delle due ali (la nord) che lo racchiudono. Sono zone proibite al pubblico, oscurate e tristi ma comunque esistenti: in sintesi, una vergogna che mortifica il bello e la cultura.
La situazione è questa, e bisogna correre ai ripari. Il problema è come farlo, chi deve farlo, con quali soldi: la discussione sta avvelenando il clima politico del capoluogo brianzolo. Monza è guidata da una giunta di centrodestra con sindaco leghista, ma il colore del potere c’entra poco: anche amministrazioni di segno opposto sono inciampate per decenni nell’ingombrante presenza del grande complesso all’interno del Parco cintato di 700 ettari, il più vasto d’Europa. Nessuna è mai riuscita nell’impresa di ridare piena dignità ambientale e culturale al luogo. Ogni monzese doc conosce la storia della Villa: sa che re Umberto I, proprio lì fuori, davanti alla società sportiva Forti e Liberi, si prese la revolverata fatale dall’anarchico Bresci.
Comincia in quel momento (siamo nel 1900) il lento declino che ha portato al degrado di oggi. E in quegli anni cominciano a circolare gli improbabili piani di recupero che qualcuno si è preso la briga di contare: almeno 180. Del casinò abbiamo riferito. Ma che dire del progetto che prevedeva un sanatorio per «militari smobilitati e tubercolotici» ? E come giudicare, culturalmente parlando, destinazioni tipo centro commerciale, autosilo, parco divertimenti, case di riposo per artisti in pensione? Idee tante e confuse, risultati pochi, e non soltanto per mancanza di fondi. Oggi Monza sta litigando su un progetto per metter mano alla Villa. Tutta no, costerebbe troppo: almeno 110 milioni di euro, secondo il progetto-quadro Carbonara (del 2004).
Ma un pezzetto sì, tanto per cominciare, con denari già stanziati e pronti nel piatto. Il percorso è stato questo: gli attuali proprietari (Comune di Monza, Regione Lombardia, Stato) più Milano che possiede una quota-Parco, hanno creato nel 2009 un Consorzio che ha affidato a Infrastrutture Lombarde — una spa di Regione Lombardia — la gestione del bando per i lavori. Al bando hanno risposto due società, che attendono (a giorni) il verdetto. Si tratta di restaurare il corpo centrale e una parte dell’ala nord, i più disastrati. L’importo dei lavori di questo primo lotto è di 23 milioni. e 400 mila euro, di cui 19 provenienti da fondi pubblici e 4 e mezzo a carico del privato, che avrà in concessione per 30 anni (a 30 mila euro di affitto annuo) gli spazi restaurati. Si progetta di riconvertire stanze piene di storia in ristorante, sale convegni, aree dedicate al commercio e all’artigianato.
Il Consorzio pubblico avrà a disposizione 36 giorni l’anno per organizzare eventi. Questo l’accordo, difeso dalla maggioranza e criticato duramente dall’opposizione, Pd in testa. La tesi della maggioranza: la riqualificazione ridarà lustro e bellezza alla Villa. La tesi dell’opposizione: i privati la trasformeranno in un orrendo luna park. Si è mossa anche la società civile: il comitato «La Villa Reale è anche mia» ha raccolto 11 mila firme di cittadini «che dicono no — argomenta la portavoce Bianca Montrasio— a un bando che di fatto privatizza un bene pubblico» . All’appello hanno aderito Oliviero Toscani e Renzo Piano, Gillo Dorfles e Walter Veltroni, Margherita Hack e Rita Levi Montalcini, moneta pesante da spendere in un incontro richiesto al presidente della Repubblica Napolitano.
«Il Comune— insiste Maurizio Oliva di Italia Nostra — ha affidato ai privati un ruolo ambiguo. Ha senso chiamarsi fuori dalla gestione di un bene del territorio?» . Anche il Fai è perplesso: «La logica di intervento a spezzatino premia i tempi del consenso politico ma è perdente sui tempi della cultura» . Replica Pietro Petraroia, ex sovrintendente, direttore del Consorzio Villa: «Ci sono confusione e disinformazione. Viene demonizzato il privato, senza sapere che restauro e gestione avverranno sotto lo stretto controllo della mano pubblica, in linea con le norme del Codice dei beni culturali e del paesaggio. La realtà è che la Villa Reale, per la prima volta dal 1861, è interessata da un progetto unitario e globale» . Il sindaco Marco Mariani parla di «opzione storica» e sostiene che le firme dei cittadini sono state «estorte con l’imbroglio» : «La realtà è una sola:— commenta sbrigativo e colorito — la Villa sta crollando e bisogna impedirlo. Chi non è d’accordo si comporta da pirla» .
La Camera di commercio di Monza e Brianza, presente nel Consorzio, snocciola numeri interessanti, tipo i 70 milioni di indotto all’anno che potrebbe offrire una Villa completamente restaurata, con la creazione di 800 nuovi posti di lavoro e il coinvolgimento di 300 imprese. Ma le cifre non spengono la polemica. Domani sera, consiglio comunale. Il fronte del no sosterrà anche la tesi di irregolarità nella procedura di assegnazione del bando (Mariani nega: «Ci sono tutte le firme che servono» ). Il fronte del sì ribadirà la validità del progetto. La sensazione è che la partita vivrà come minimo i tempi supplementari, con gli inevitabili ricorsi al Tar. Il traguardo del 2014, indicato nel progetto, sembra davvero un miraggio nel deserto. Al sole di primavera, la Villa Reale è di una bellezza sfolgorante: sembra una vecchia signora adagiata sul prato. In quasi due secoli e mezzo di vita ne ha viste tante, e ha persino retto all’urto di Cicciolina: è un luogo del cuore che merita dignità.
MILANO— L’orto non rende. «Non si può vendere l’Expo solo come un orto botanico planetario» : l’ad Giuseppe Sala dà la svolta culturale all’impostazione dell’Expo 2015. Doveva essere il festival delle colture di tutto il mondo, nella visione iniziale pensata dagli architetti coordinati dall’urbanista Stefano Boeri. Ma in corso d’opera, «parlando con il Bureau International des Expositions e con i Paesi invitati a partecipare», ci si è resi conto che quell’immagine non avrebbe richiamato l’attenzione che Milano vuole invece suscitare nel 2015. «Un’Expo verde e con tendoni leggeri— conferma Sala — troppo proiettata solo nella direzione agricola, non trova consenso in chi dovrà investire per Expo» .
L’annuncio arriva nel bel mezzo di una seduta di commissione consiliare convocata per fare il punto sulla situazione di Expo. Infatti, ci sono questioni importanti ancora aperte: dalla titolarità delle aree su cui sorgerà l’evento (ancora oggi di proprietà della Fondazione Fiera e della famiglia Cabassi) ai conflitti interni ai soci, ad esempio. Ma le affermazioni di Sala scatenano l’opposizione: «Se volete fare una colata di cemento invece del parco tematico di cui si parla nel dossier di registrazione, dobbiamo ridiscutere tutto» , tuona il capogruppo del pd, Pierfrancesco Majorino. Sala smentisce e replica: «Gli spazi dedicati alle serre, ai climi temperati e alla collina Mediterraneo ci sono e restano inalterate le cubature» , assicura. E aggiunge che «per convincere un visitatore a venire a Milano dobbiamo dargli qualcosa di più e unico che le serre, per quanto suggestive» . Il tema scelto da Milano, («Nutrire il pianeta, energia per la vita» ) sembra piacere molto: «Infatti non è mai accaduto che a 50 mesi dall’inaugurazione già 13 Paesi abbiano dato la loro adesione» , insiste Sala.
Ma serve uno spunto nuovo: «Vorremmo poter mostrare cose uniche, come un padiglione dedicato al supermarket del futuro, o a luoghi che spieghino cosa e come mangeremo tra vent’anni e così via» . Boeri, che è anche capolista del Pd per le prossime amministrative, difende il lavoro fatto: «Il nostro era un progetto avanzato, meno costoso di un Expo tradizionale, fatto di capannoni e padiglioni, e capace di lasciare in eredità a Milano il più moderno parco agroalimentare europeo, in grado di attirare investimenti, produrre ricerca e ospitare un grande salone dell’alimentazione in contatto con la fiera di Rho Pero e il mondo della ristorazione milanese» . E poi: «Resta piuttosto il sospetto che una revisione "tecnologica"dell’orto botanico nasconda in realtà l’intenzione di realizzare un Expo con più volumi costruiti, cedendo così, una volta di più, alle aspettative dei privati proprietari dell’area» . Sala è categorico: «Le volumetrie dei padiglioni sono addirittura diminuite rispetto al concept plan di Boeri e degli altri architetti.
Il sito conserva integralmente le sue caratteristiche di vivibilità e grande equilibrio ambientale e paesaggistico. Restano infatti inalterati sia il progetto delle serre che quello degli agrosistemi. Dal punto di vista della sostenibilità stiamo quindi confermando tutti gli impegni previsti» . L’ultimo dato è che «da tutto il mondo, come dalle categorie produttive italiane, ci giungono quotidianamente sollecitazioni per realizzare un’esposizione universale sulle frontiere della tecnologia, della ricerca e del futuro» . E l’europarlamentare Carlo Fidanza assicura che «non c’è nessun ripensamento rispetto all’idea originaria, ma certamente ora dobbiamo rendere attraente il "prodotto Expo"per i Paesi e le imprese, coniugando verde e serre con la tecnologia e il futuro» . Serve una svolta, quindi.
La Repubblica
La Moratti si infila nel tunnel
di Teresa Monestiroli
Per Letizia Moratti il tunnel Expo-Linate è «un progetto utile e importante perché toglierà auto dalla superficie». Quindi si procede spediti verso l´approvazione della delibera in giunta prima della fine del mandato. «Una provocazione» per Basilio Rizzo della lista Fo, vista la decisione di vincolare l´opera alla discussione del Piano urbano della mobilità. «Un regalo ai privati» per Pierfrancesco Majorino del Pd.
Un´OPERA «utile e importante». Sono queste le parole con cui il sindaco definisce «tutto quello che toglie il traffico dalle strade». Compresa la maxigalleria Expo-Linate il cui progetto potrebbe arrivare in giunta prima del voto. «Il tunnel è simile alle metropolitane - afferma la Moratti - Le linee 4 e 5 faranno calare il traffico in superficie del 14 per cento. Tutto quello che favorisce la riduzione delle auto in città deve essere visto positivamente, come del resto hanno fatto le grandi capitali europee».
Si procede, dunque, e l´indirizzo politico non è cambiato. Nonostante il consiglio comunale abbia vincolato l´infrastruttura al nuovo Pum, il Piano urbano della mobilità, che verrà discusso dopo le elezioni, Palazzo Marino spinge perché la delibera sul tunnel venga approvata entro la fine del mandato. «È una provocazione - commenta Basilio Rizzo, consigliere della Lista Fo - Quando si trattava di approvare il Piano di governo del territorio la maggioranza assicurava che del tunnel non si sarebbe più parlato fino alla definizione del Pum, ora che il Pgt è passato scopriamo che i lavori procedono».
E speditamente, visto che ieri il Comune ha inviato una sostanziale approvazione al piano di fattibilità di Condotte, il colosso delle gallerie entrato nel gruppo dei privati che dovrebbero realizzare il tunnel in project financing. Una lettera che chiede alcuni cambiamenti tecnici, a cui la società è pronta a rispondere nel giro di pochi giorni. A quel punto Palazzo Marino sarà pronto per il passaggio in giunta e per l´avvio di una gara «senza pregiudizio patrimoniale» dove si specifica che l´opera è subordinata al voto del consiglio comunale.
Il progetto definitivo, presentato dai privati, prevede una galleria di 12,7 chilometri che collega l´aeroporto con l´autostrada dei Laghi, con 8 uscite intermedie in città, la cui realizzazione costerà 2,6 miliardi. Secondo i calcoli di Condotte sarà possibile consegnare i primi 7,5 chilometri, da Expo a Garibaldi, entro il 2015 se i lavori di scavo partiranno entro fine 2011. Nel piano di fattibilità viene anche indicato l´impatto che il tunnel avrà sulla città: 57.100 auto al giorno nel 2020 quando dovrebbe essere completata l´intera tratta, 22 milioni di ore l´anno risparmiate dagli automobilisti e 74 milioni di chilometri in meno percorsi. La società prevede di rientrare dei costi con una concessione di 60 anni e un pedaggio di 60-70 centesimi al chilometro.
«È un regalo ai costruttori - commenta Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd a Palazzo Marino - Non servirà a togliere traffico delle strade ma, al contrario, riverserà le auto in centro. Con noi al governo non si farà mai». Contrari anche gli ambientalisti, con Franco Beccari di Legambiente che dice: «È irresponsabile pensare di sconvolgere Milano per portare migliaia di auto in città. Come può il sindaco dichiarare di volere più verde e allo stesso tempo programmare un´opera che per ripagarsi avrà bisogno di nuovo traffico a pagamento?». A favore invece il centrodestra, con il consigliere Pdl Marco Osnato che spiega: «Il tunnel non farà aumentare il traffico: gli automobilisti che lo utilizzeranno avrebbero comunque attraversato Milano, ma in superficie».
La Repubblica
Un buco nero sputa-traffico da cui è meglio tenersi alla larga
di Ivan Berni
Il sabba di fine legislatura della giunta Moratti non finisce di stupire. Dopo aver reclutato fra i supporter l´assessore rinnegato Croci, padre dell´Ecopass - ma abrogando l´Ecopass, al tempo stesso, dal programma dei prossimi cinque anni - ora è la volta dei progetti-zombie. La giunta, infatti, è pronta a resuscitare il progetto folle del tunnel sotterraneo Linate-Rho, che ieri il sindaco ha definito «utile e importante». Si tratta di quella incredibile galleria sputa-traffico lunga tredici chilometri che dovrebbe collegare un aeroporto in stato di (quasi) dismissione come quello di Linate all´area dell´Expo e della Fiera di Pero-Rho.
Un´opera faraonica, dal costo stellare di 2,5 miliardi di euro, per gran parte sovrapposta a linee del metrò e a linee ferroviarie in esercizio, riservata al traffico privato. Una colossale sciocchezza dal punto di vista della mobilità urbana, in totale contrasto con tutte le politiche di decongestionamento del traffico privato delle aree metropolitane praticate a livello europeo e per giunta assolutamente velleitaria dal punto di vista finanziario.
Secondo i calcoli resi pubblici dai promotori, per remunerare l´investimento - tutto di operatori privati - il tunnel dovrebbe infatti ingoiare almeno cinquantamila veicoli al giorno per un pedaggio di 70 centesimi a chilometro, vale a dire circa 9 euro per l´intero percorso. Giusto per fare due conti, un business plan che porterebbe a ricavi annuali dell´ordine di 120 milioni di euro. In altre parole, una infrastruttura che richiederebbe almeno un quarto di secolo per ripagare l´investimento e divenire remunerativa e che, nel frattempo, condizionerebbe qualsiasi politica di tutela dell´ambiente e della mobilità.
Perché va da sé che nessun privato al mondo sarebbe così pazzo da investire una simile massa finanziaria correndo il rischio di veder ridotti i propri ricavi. Ad esempio perché le amministrazioni pubbliche potrebbero introdurre il ticket d´ingresso alle auto private su tutto il territorio metropolitano. Oppure per effetto di altre misure di protezione ambientale, come la pedonalizzazione di vie, piazza e quartieri dove sono previsti gli svincoli di entrata e uscita del tunnel, che si prevede abbia almeno due corsie di marcia e un calibro "autostradale".
Si potrebbe continuare a lungo, nell´elenco dei motivi di buon senso e anche di banale rispetto della logica che sconsigliano di intraprendere una simile avventura. Contro il tunnel degli orrori, del resto, le opposizioni non a caso hanno fatto muro in consiglio comunale, ottenendo - almeno così sembrava - che lo sciagurato progetto venisse stralciato dall´agenda di questa legislatura. Tutto inutile, par di capire, di fronte all´urgenza di rispondere alle sollecitazioni della società Condotte, uno dei promoter, che al Comune ha spiegato che se non si parte oggi con la procedura d´appalto non si riusciranno a fare in tempo per l´Expo nemmeno i quattro chilometri di galleria fra via Lancetti e Rho, la tratta peraltro più insensata dell´intero percorso del tunnel.
Ma la cosa che più irrita è che se la giunta Moratti uscente approverà il via libera, la patata bollente ricadrà sul prossimo consiglio comunale nonché sulla prossima giunta, chiamati a quel punto a ratificare o - si spera - a smentire e smontare la decisione presa oggi. Insomma, una giunta che non ha avuto il coraggio di mettere la faccia su una scelta illogica, ambientalmente ed economicamente insostenibile, lo fa oggi di soppiatto, lasciando a chi verrà la rogna di gestirla. Il tunnel è la metafora del bilancio e del futuro dell´amministrazione Moratti: un buco nero. Da cui tenersi alla larga.
La Repubblica
"Inutile e folle sventrare la città è un regalo del sindaco ai privati"
intervista a Stefano Boeri, di Stefano Rossi
Stefano Boeri, architetto e capolista del Pd alle prossime elezioni comunali, che opinione ha del tunnel Expo-Linate?
«Non dovrebbe nemmeno essere preso in considerazione. La città non ha ancora il Piano urbano della mobilità, perciò non esiste un ragionamento di sistema nel quale inquadrare il tunnel».
Ma l´opera in sé si giustifica?
«Milano non ne ha bisogno. Il suo sistema di tangenziali funziona e per una, la est, è previsto un raddoppio. Il tunnel, al contrario, attira il traffico in città. Una scelta controcorrente con le politiche adottate in tutte le città moderne, che fermano le auto ai parcheggi di interscambio con il trasporto pubblico».
Letizia Moratti ha detto ieri che "tutti gli strumenti che tolgono le auto dalla strada sono utili e importanti".
«Beh, il tunnel non lo fa. Non intercetta le principali direttrici di entrata a Milano, vale a dire le autostrade da Bologna, Genova e Venezia, se non quest´ultima, ma con un lungo tragitto per arrivarci. È accessibile solo per chi arriva da Torino e dall´Autolaghi. Qual è allora lo scopo? Collegare Linate alla città? Se è così, si costruisca piuttosto la metropolitana, che oltretutto costa meno dei 2,5 miliardi della galleria».
Il tunnel è fatto in project financing. Sempre che i privati non chiedano poi un intervento pubblico.
«Appunto. È probabilissimo che la mano pubblica ci debba mettere dei soldi lo stesso. E ad ogni modo, grandi opere che incidono nel tessuto urbano presentano sempre spese connesse di infrastrutturazione, come i raccordi. Le rampe di una galleria che corre 50 metri sottoterra richiedono uno sventramento pazzesco, in una città che da otto anni soffre per le voragini del piano parcheggi dell´ex sindaco Albertini».
In una parola il tunnel Expo-Linate è...?
«Una follia».
Perché la Moratti crede in questa follia?
«Non me faccio una ragione, se non con spiegazioni estreme che mettono paura».
Quali?
«Il tunnel è avulso da qualunque logica urbanistica, economica e ambientale, non è nel programma elettorale del centrodestra, è stato tolto dal Pgt, il Piano di governo del territorio. Non ne parlava più nessuno, eppure il sindaco lo ripropone con forza a fine mandato, con il consiglio agli sgoccioli dei lavori ordinari. Viene da pensare che la Moratti sia eterodiretta».
Spieghi meglio.
«Se sommiamo l´urgenza sul tunnel al fatto che Expo è a rischio perché i proprietari delle aree tengono sotto scacco la città e il Paese, si ha l´impressione di un territorio governato da interessi privati. Ci sono due grandi progetti, uno buono e uno cattivo, ma nessuno dei due è deciso dalla politica sulla base di motivazioni urbanistiche. È questo che mi spaventa».
Il tunnel, insomma, si limiterà a incrementare il valore delle aree che attraversa?
«Banalmente, sì. Una valorizzazione legata esclusivamente all´uso del mezzo privato. Se con l´auto si arriva in centro in 15 minuti, anziché in 25, il vantaggio per i proprietari immobiliari è evidente».
Che cosa può succedere?
«Se il tunnel viene legato a Expo potrebbe sottostare ai poteri speciali del sindaco e mancherà una approfondita discussione in consiglio comunale sulla mobilità complessiva. Il tunnel è la morte di Ecopass e della sua evoluzione in congestion charge. Vorrei sapere cosa ne pensi l´ex assessore Edoardo Croci, ispiratore di Ecopass e promotore dei referendum ambientali, tornato di recente a fianco del sindaco».
Investimenti astronomici e una consiliatura in scadenza. Il tunnel non è già sul binario morto?
«Pareva già così quando fu tolto dal Pgt, eppure questa ostinazione fa dubitare. Ne abbiamo già viste di opere pubbliche che hanno soddisfatto determinati interessi solo per il fatto di avere aperto i cantieri, senza necessità di venire completate».
Corriere della Sera
Verde e housing sociale a Cascina Merlata La Moratti: il tunnel, un’opera importante
di Armando Stella
Un tempo fu parco agricolo, oggi è una landa di periferia. Diventerà il villaggio della Milano 2015: il villaggio Expo. La «rigenerazione» di Cascina Merlata è il primo sviluppo urbanistico legato all’Esposizione. Il masterplan ridisegna oltre 520 mila metri quadri al confine nord-ovest, tra l’A4, il cimitero e la ferrovia: palazzi da 9 a 23 piani, 3.800 appartamenti per 8 mila abitanti, housing sociale e affitti calmierati, e poi un hotel, un centro commerciale, uffici, 200 mila metri quadri di verde, alberi, piazze pedonali, scuole, asili, 6 chilometri di piste ciclabili, un frutteto, campi da tennis e piscine. L’accordo di programma sarà ratificato a breve dal consiglio comunale. I cantieri apriranno tra fine 2011 e inizio 2012:
«Realizzeremo il 90%delle opere in tre anni» , promette Alessandro Pasquarelli, ad dell’immobiliare EuroMilano e di Cascina Merlata spa. «Un nuovo habitat metropolitano sotto il segno dell’ecosostenibilità» , recita il claim del progetto. Ieri, il lancio in grande stile: cinema Odeon e presentazione 3D. La spina dorsale della cittadella è un parco lineare su cui si aprono molte isole residenziali, il prezzo degli alloggi varierà tra 1.980 e 2.500 euro e più al metro, il «mix abitativo» avvicinerà giovani, coppie, fasce deboli.
«È un nuovo modo di inquadrare la città— sottolinea il sindaco Letizia Moratti —. Mai più quartieri ghetto» . Il piano d’intervento, chiosa Pasquarelli, «dimostra che i canoni sociali si possono applicare, a Milano. Ci stiamo lavorando con Fondazione Cariplo e la Cassa Depositi e Prestiti» . Una passarella pedonale sospesa collega il villaggio al sito Expo. È un cordone ombelicale. I due poli nascono insieme. E comunicano. I 323 mila metri quadri di nuovi edifici, nel 2015, ospiteranno i duemila operatori della manifestazione e solo alla chiusura saranno messi sul mercato.
«Cascina Merlata — commenta l’assessore comunale all’Urbanistica Carlo Masseroli— certifica la buona alleanza tra interesse pubblico e privato stabilita dal Pgt» . Può essere «un bel progetto» , concede il capogruppo pd Piefrancesco Majorino, ma solo a patto che «si facciano le cose in modo trasparente. Cascina Merlata non c’entra niente col Pgt, questo è il suo pregio maggiore» . Gli architetti Paolo Caputo e Antonio Citterio, vincitori del concorso di progettazione, firmano il masterplan di riqualificazione: «È uno spazio aperto, inclusivo, da vivere. Non è un recinto» . Intanto, rispunta l’ipotesi del super tunnel di 11,5 chilometri che scorre la città dal sito Expo all’aeroporto di Linate: «Tutto quello che toglie traffico in superficie penso che possa essere visto come un progetto utile e importante» , sostiene la Moratti. La delibera potrebbe approdare in giunta entro la fine del mandato, consentendo l’avvio entro l’anno degli scavi per la galleria.
Firenze. L’ultimo a finire sotto le sue grinfie è il sindaco, Matteo Renzi, con il Piano Strutturale di Firenze. Un documento accompagnato da una promessa: “Saremo un Comune a cemento zero”. E la parola è passata alla Regione, all’assessorato all’Urbanistica dove siede lei, Anna Marson. Un nome che in Toscana sta diventando uno spauracchio per costruttori e amici del cemento. Così, ecco arrivare le 28 pagine del parere degli uffici di Marson sul Piano di Renzi. Non è una bocciatura, ma il Comune è stato “rimandato”. Si scopre che, secondo la Regione, di cemento a Firenze (nonostante i buoni propositi) ne arriverà più di mezzo milione di metri cubi, l’equivalente di un nuovo quartiere. Non solo: la Regione storce il naso anche sui centri commerciali: “Il Piano prevede l’esclusione di nuovi insediamenti, ma fa salva la possibilità di rilocalizzare quelli esistenti”. Negli uffici di Marson sintetizzano: “Il Piano non ha rivisto i dimensionamenti previsti dal vecchio piano regolatore, dove si ipotizzava una crescita degli abitanti che non c’è stata. Così, compresi cambi di destinazione d’uso che si contano come nuovi volumi, il Piano prevede tra cinquecentomila e un milione di metri cubi”.
Un documento che non farà piacere in Comune. Marson, però, non se ne cura. Lei si presenta sempre sorridendo. Parla senza alzare la voce, con un misto forse di timidezza e di riservatezza poco comune nei Palazzi della politica. Questo deve aver ingannato anche gli alleati quando hanno accettato che ad Anna Marson (indipendente in quota Idv) fosse offerta la poltrona di assessore all’Urbanistica in Regione. Un ruolo chiave, negli uffici di Novoli, periferia nord della città, si decide il destino di progetti da miliardi. Qui si concentrano le aspettative di potenti imprenditori (su versanti opposti, il gruppo Fusi, amico di Denis Verdini, e le cooperative o il Monte dei Paschi) e di partiti politici.
Marson sembrava la persona ideale per dare fiducia agli elettori, con quel suo pedigree da società civile: dottorati in Pianificazione territoriale, cattedra di tecnica e pianificazione urbanistica all’università Iuav di Venezia. Per questo probabilmente è stata voluta dall’Idv che spesso punta all’Urbanistica sottolineando la propria anima ambientalista. Anche se, talvolta, con esiti opposti: in Liguria il partito di Di Pietro ha scelto un’altra donna, Marilyn Fusco, che in breve si è guadagnata il soprannome di “assessore al mattone” per il suo Piano Casa che ha fatto impallidire perfino quello di Ugo Cappellacci in Sardegna. Difficile immaginare due assessori più diversi di Fusco e Marson,
Lei, Anna, è stata scelta dal presidente della Regione, Enrico Rossi, che la appoggia per dare una sterzata alla politica urbanistica. Altri pensavano che sarebbe stato un gioco da ragazzi mettersi in saccoccia questa donna di 53 anni, dall’aspetto distinto. Ma sbagliavano di grosso. In pochi mesi il bubbone è esploso. Non passa giorno che Marson non riceva attacchi da ambienti vicini a Confindustria, dalla stampa di centrodestra, ma non solo. E nei corridoi della Regione si racconta: “Il presidente la sostiene, ma anche tra i suoi alleati parecchi vorrebbero farle le scarpe”.
Marson la spiega così, diplomaticamente: “Molti credono che sviluppo significhi costruire, invece la nostra ricchezza è legata alla cura e riproduzione del territorio. Non è una questione soltanto estetica, ma anche economica. La Toscana attrae milioni di turisti per la sua bellezza. Ma il paesaggio va curato e protetto anche dal cemento”.
Ma ci sono nodi concreti. I porticcioli, per esempio. In Toscana è tutto un fiorire di progetti da miliardi che vedono impegnati colossi come Francesco Bellavista Caltagirone. E lei, Marson, ha parlato chiaramente: “Vanno bene i posti barca, ma puntiamo sulla nautica sociale, quella che interessa chi abita sulla costa. Invece si vuole puntare ovunque sui mega-yacht, su enormi porti con intorno case”. Una frase che inquieta imprenditori e sindaci della costa (di entrambi gli schieramenti) che su moli e cemento avevano scommesso. Basta? Neanche per sogno. Ci sono i fiumi, soprattutto l’Arno, con i bacini dove si è costruito troppo, con effetti che si vedono ad ogni alluvione. Marson è chiara: “Per l’Arno serve un progetto territoriale complessivo, bisogna riqualificare. Rivedere rapporto tra insediamenti e fiume”. Costruire ancora? “Macché, le condizioni climatiche sono cambiate, dobbiamo fare attenzione alla sicurezza”. E sono altri nemici. “Ci sono i Comuni che hanno troppi poteri in materia urbanistica”, avverte l’assessore. Fino al nodo delle grandi opere. A cominciare dalle autostrade, con la contestatissima Livorno-Civitavecchia sponsorizzata dal ministro Altero Matteoli (Pdl), e dalla precedente giunta di centrosinistra e da Riccardo Conti (predecessore della stessa Marson e oggi responsabile Infrastrutture del Pd nazionale). C’è poi il capitolo aeroporti, con il centrosinistra alleato del Pdl nel lanciare ovunque nuove piste: da Siena (oggetto di un’inchiesta della Procura dove è indagato Giuseppe Mussari, numero 1 del Monte dei paschi) a Firenze (vicino ai terreni di Salvatore Ligresti, il re del cemento). E ogni volta ecco che spunta Anna Marson a mettersi di traverso.
Vedi su eddyburg: “Il Piano di Firenze è davvero a volumi zero, come dice Renzi?”
Il progetto del tunnel Linate-Expo procede spedito verso il via libera della giunta, che potrebbe arrivare addirittura prima della fine della legislatura. Nonostante la decisione del consiglio comunale di vincolare l’opera al nuovo Piano urbano della mobilità (ancora tutto da scrivere), dopo l’approvazione del Piano di governo del territorio (dove rientra nel capitolo sulle infrastrutture) il progetto della maxigalleria sotterranea ha subito un’accelerata. Il tempo stringe e i privati fanno pressione perché il Comune sciolga la riserva al più presto, in modo da bandire la gara d’appalto entro questa primavera e iniziare i lavori di scavo a fine anno. Solo così, scrive la società Condotte nel piano di fattibilità presentato al direttore generale di Palazzo Marino prima di Natale, si potrà arrivare in tempo per l’Esposizione del 2015 con i primi quattro chilometri di galleria da Garibaldi a Cascina Merlata.
I tecnici sono al lavoro da settimane e ieri, in un vertice tra Comune e privati, il progetto è stato sbloccato. Almeno a parole. L’amministrazione ha accolto con favore la proposta di Condotte (pronta a imbarcare nella partita Impregilo, visto che Torno è fallita) e chiede solo alcune modifiche tecniche. Cambiamenti che ieri il rappresentante di Condotte ha già spiegato di essere in grado di mettere in pratica senza problemi. Quindi, se tutto filerà liscio - e in vista non c’è alcun freno politico che possa mandare all’aria il cronoprogramma - entro un paio di settimane i privati riceveranno la lettera ufficiale con l’interesse del Comune. Poi, a metà aprile, la delibera approderà in giunta per l’ok politico al progetto.
Un via libera che dovrà essere confermato anche dal consiglio comunale, a questo punto non prima di settembre visto che fra una settimana l’assemblea si scioglierà e nei mesi di aprile e maggio potrà riunirsi sono per discutere provvedimenti urgenti. È chiaro che se il consiglio dovesse bocciare il progetto il parere della giunta non conterà più nulla.
Arriverà il benestare della politica? Al momento non sembrano esserci ostacoli visto che sia il sindaco sia gli assessori coinvolti - Carlo Masseroli (Urbanistica) e Bruno Simini (Lavori pubblici) - hanno più volte espresso parere positivo per la mastodontica opera che verrebbe interamente finanziata dai privati (costerà 2 miliardi e mezzo) e che, una volta realizzata, porterà sotto terra 110mila auto al giorno.
Eppure approvare un intervento così imponente a un mese dalle elezioni potrebbe risultate rischioso. Quindi non è da escludere l’ipotesi di una frenata improvvisa all’ultimo momento per rinviare la questione alla prossima giunta. Il sindaco Moratti non fa alcun accenno al tunnel nel suo programma elettorale. I privati però insistono: «Le infrastrutture non hanno colore politico - commenta un rappresentante di Condotte - O servono o non servono. Milano deve rispondere solo a questa domanda: se la risposta è sì, più tempo si perde a decidere più tardi si arriva alla consegna del tunnel. Expo è vicino e la galleria, assieme alla M4, potrebbe essere uno degli accessi principali ai padiglioni». L’occasione «è d’oro», e arrivati a questo punto un rinvio potrebbe anche voler dire cancellare del tutto il progetto dalla Milano del futuro. Cosa, tra l’altro, che il centrosinistra ha già promesso di fare in caso di vittoria.
postilla
lo spiega perfettamente anche l’articolo, senza bisogno di particolari giri di parole: il tunnel serve a chi lo costruisce, eventualmente agli interessi di chi intende “valorizzare” immobili esistenti e non lungo il corridoio coinvolto, e per nulla alla città e al territorio.
A meno che per servizio non si intenda risucchiare una enorme quantità di risorse e aspettative verso un progettone anni ’50-’60 che ignora allegramente tutto il dibattito attuale sulla città sostenibile, la mobilità integrata, e ci ributta in sostanza a un modello urbano tipo la Milano di Piero Portaluppi-Cesare Albertini, quella che già nel dibattito sul Prg degli anni ’50 gli osservatori attenti definivano minacciosa e mastodontica. Una grossa bestia insomma, come chi ispira e sostiene certe decisioni, micidiali per tutto tranne il conto in banca dei soliti noti (f.b.)
Assomiglia a una corsa a ostacoli l'Expo. Non appena si profila l'ultimazione delle fasi preliminari e la macchina sta per entrare nello stadio delle realizzazioni, ecco affacciarsi l'intoppo. Anche oggi l'iniziativa va sui giornali per le polemiche tra i protagonisti e le fibrillazioni partitico-istituzionali, non grazie ai progetti per i quali è stata pensata. Il clima preelettorale, poi, gioca la sua parte nel provocare forzature e nel distogliere l'attenzione dagli argomenti che invece dovrebbero mobilitare tutta la città.
Il Bureau di Parigi ha affidato a Milano l'evento del 2015 facendo proprio un sentire ormai diffuso in ogni angolo della terra e cioè il proposito di dare avvio a una stagione che accenda i riflettori del mondo industrializzato e dei Paesi in via di sviluppo su un argomento sul quale l'umanità gioca il futuro: «Nutrire il pianeta, energia per la vita» . Invece sta accadendo qualcosa di incomprensibile per chi guarda da fuori la città e il nostro Paese, del quale proprio Milano continua a rivendicare di essere forza propulsiva.
Il contrasto è stridente. Da una parte stanno le apprensioni per la catastrofe del Giappone, che ha messo il mondo davanti ai rischi dell'approvvigionamento energetico, e le inquietudini indotte dalle conseguenze del «risorgimento arabo» (come l'ha chiamato il presidente Napolitano) in ordine al petrolio e al bisogno di lavoro e di cibo di popolazioni dove le giovani generazioni sono la stragrande maggioranza. Dall'altra parte sta Milano, in cui Comune e Regione sembrano usare lingue diverse, la Provincia mostra cautela, la Camera di commercio preme, lo Stato traccheggia. E tutti insieme si frenano l'un l'altro e disattendono i tre obiettivi dell'Expo: educazione, innovazione, cooperazione.
Che la coperta delle disponibilità economiche sia corta non può essere un alibi. Le risorse, proprio se scarse, sono legate allo slancio ideale e alla conseguente capacità di stabilire priorità e obiettivi generali di bene comune, di puntare al massimo coinvolgimento di organizzazioni, persone, enti, mezzi, proprio mostrando che, se si va tutti in modo trasparente verso una direzione concordata, si innescano circoli virtuosi e si dissipano le eventuali zone grigie che le inazioni potrebbero indurre. Si può ottenere di più di quanto ciascuno ci ha messo, quando il risultato è collettivo. È una questione di crederci, di saper sacrificare gli interessi degli organismi che si rappresentano in nome di vantaggi che vanno oltre steccati e visioni particolari, di cercare i punti di mediazioni invece delle occasioni di scontro.
Insomma: è una questione di «volontà politica» e questa non è proprietà dei partiti e delle istituzioni che essi governano al momento, ma dovrebbe essere espressione d'un moto generale, della «polis» , della città intera, delle forze vive, responsabili, vogliose di futuro. Sarebbe un autogol clamoroso di Milano e del Paese se anche di fronte alle scadenze impellenti dell'Expo dovessero prevalere gli egoismi e venisse approfondito il fossato tra politica e società civile. C'è da chiedersi sino a quando città, forze produttive, rappresentanze sociali e culturali, giovani reggeranno lo stress istituzionale in atto, destabilizzante per l'oggi e pieno di insicurezze per il domani.
Quanto contino i beni culturali nell’universo del berlusconismo è racchiuso nello scatto di nervi con il quale il ministro Sando Bondi ai primi di dicembre 2010 si è rivolto agli oltre settecento firmatari di una petizione a Giorgio Napolitano promossa d molte associazioni (da Italia Nostra a quella che raccoglie funzionari e tecnici del ministero, dalla Bianchi Bandinelli all’Associazione nazionale archeologi, dall’Associazione Silvia Dell’Orso alla rete dei comitati di Alberto Asor Rosa). Erano storici dell’arte, italiani e stranieri, direttori di musei, archeologi, archivisti, architetti, soprintendenti. Chiedevano le dimissioni del ministro, denunciando l’abbandono di Pompei, dove si era appena registrato l’ennesimo crollo, quello della Schola Armaturarum, e ricordando la tragedia dell’Aquila che sempre di più a Pompei andava e va assimilandosi. Per Bondi quell’appello «è l’espressione di un mondo che nulla ha a che fare con la vera cultura».
E, fin qui, lo sfogo del ministro, che è anche coordinatore del Pdl, fedelissimo e incrollabile interprete del berlusconismo, traballante sulla sua poltrona nonostante la Camera abbia respinto la mozione di sfiducia presentata contro di lui, si può incasellare nel generico disprezzo verso le critiche e le iniziative connesse all’esercizio dell’intelletto. Poi Bondi rivendica per sé il vero merito di un ministro dei Beni e delle attività culturali, un merito che i settecento denigratori ai suoi occhi disconoscono: aver evitato le “lungaggini”, le chiama così, dei ritrovamenti archeologici che impedivano la costruzione delle metropolitane di Roma e Napoli, e di aver spedito un commissario incaricato di snellire le procedure. Parlava come se lui fosse il ministro dello Sviluppo economico o delle Infrastrutture e non quello, appunto, dei Beni e delle attività culturali. Nell’orizzonte politico del berlusconismo i beni culturali e il paesaggio non hanno alcun rilievo.
Sono vissuti come una condizione limitativa, dalla quale si riscattano se non sono troppo ingombranti e se assumono un prezzo, cioè se possono diventare merce, oggetto da mettere a reddito o sulla quale fare affari. Oppure da vendere, come tentò di fare Giulio Tremonti nel 2002 inventando la Patrimonio Spa, un fondo nel quale collocare il patrimonio dello Stato, compreso quello storico‐artistico, in vista di una sua alienazione (il progetto poi si accartocciò miseramente su se stesso). Presi in sé, in questa logica che deforma e caricaturizza anche il liberismo più estremo, i beni cultuali appartengono a quella che appare come una nebulosa concettuale di ardita definizione. Seguono la stessa sorte che tocca ai beni comuni. Sono soggetti a una sublimazione retorica, estetizzante, sono opere‐icona, elemento di decorazione d’ambiente per un summit internazionale e per una fiera campionaria, componente d’arredo per un video‐messaggio, ma non avendo definita collocazione proprietaria, sono derubricati a terra di nessuno.
Giacimenti e miniere
L’antecedente di questa concezione mercantile si può rintracciare, come altri pezzi del mosaico berlusconiano, a metà degli anni Ottanta, quando il ministro del Lavoro del governo di Bettino Craxi, Gianni De Michelis, coniò la formula dei “giacimenti culturali”. Perché lui e non il suo collega dei Beni culturali? Perché i beni culturali non erano l’obiettivo di un’iniziativa politica, ma lo strumento per politiche d’altro genere (un po’ di lavori affidati a imprese informatiche per fumosi progetti di catalogazione). Di un bene culturale non interessavano conservazione e fruizione, ma la possibile – parola del ministro – “convenienza economica”. Anche quella vicenda si chiuse senza sostanziosi effetti. Ma da allora l’espressione tratta dal glossario industriale, “giacimento”, e i concetti che con sé trascinava hanno navigato sopra e sotto il pelo delle maree, bordeggiato a destra e a sinistra, e più volte sono riemersi. Un paio d’anni fa, a fine 2008, sono stati diversamente e più esplicitamente formulati: i musei italiani, i siti archeologici, le collezioni di monete, le quadrerie, i paesaggi e poi le biblioteche, gli archivi e quel diffuso reticolo di palazzi e di centri storici, di monumenti insigni, ma anche di piazze, di ricercati allineamenti stradali, di proporzioni architettoniche, di portali, di ringhiere in ferro battuto… ‐ tutta questa roba messa insieme, intrecciata da cordoni storicamente e culturalmente leggibili, scenario fisico e non solo in cui si sono formate identità collettive, sarebbe «una miniera di petrolio a costo zero».
Che attende di esser messa a fruttare. Parola di Mario Resca, cavaliere del lavoro, manager poliedrico –dal Casinò di Campione a McDonald’s Italia ‐ consigliere d’amministrazione Mondadori, Eni, Finbieticola e di altre aziende, amico personale di Silvio Berlusconi, appena nominato direttore generale per la Valorizzazione del patrimonio a 164 mila euro l’anno, più un cospicuo staff e un palazzetto in affitto a Roma, in via dell’Umiltà, al costo di 400 mila euro l’anno (prima ospitava la Direzione per i Beni librari).
Il pensiero di Mario Resca
La designazione di Resca e le mansioni affidategli (molto inferiori rispetto a quelle che gli si voleva attribuire in un primo tempo: direttore dei musei, responsabile dei prestiti, organizzatore di mostre…) hanno assunto un aspetto simbolico dell’ideologia berlusconiana in materia. I beni culturali hanno molto più rilievo se soggetti a valorizzazione. Valorizzazione è parola equivoca, può voler dire molto o nulla, ma nel vocabolario di Resca è la parola che schiude l’edificio polveroso dei beni culturali (“polveroso” è aggettivo adoperato da Renato Brunetta a proposito dei musei), spalancando le porte all’aria fresca del mercato, del pubblico di visitatori, di privati smaniosi di investire in cultura, delle tecnologie informatiche e di riproduzione virtuale.
Non lui direttamente, ma una sua competente sostenitrice, l’onorevole Gabriella Carlucci, di fronte alle gravi perplessità avanzate da molti e al voto contrario unanimemente espresso dal Consiglio superiore dei Beni ulturali, allora presieduto da Salvatore Settis, poi sostituito da Sandro Bondi con Andrea Carandini, disse che le opposizioni volevano impedire «che in Italia la ricchezza artistica si trasform[asse] da costo insostenibile in risorsa virtuosa». Che un museo o un sito archeologico fossero, in atto o in potenza, “risorsa virtuosa” è un’idea che ha circolato a lungo, non solo nei varietà televisivi, a dispetto delle evidenti smentite provenienti da tutto il mondo, dove non c’è struttura che si finanzi con i proventi dei biglietti o che addirittura produca reddito.
Non il Louvre, tantomeno i grandi musei americani ‐ lo ha ricordato più volte Settis ‐ che sono tutti privati, ma non sono affatto orientati al profitto. Al contrario. Sono nutriti da cospicue donazioni a fondo perduto e da lasciti che godono di agevolazioni fiscali e che sono investiti sui mecati finanziari. Molti di essi sono gratuiti. Ma non occorre varcare l’oceano per rendersi conto di come funzioni il privato americano che si interessi alla cultura, bensì prendere un treno e scendere a Ercolano. Nella città vesuviana da molti anni “investe” il magnate David Packard, uno dei giganti dell’industria e della finanza internazionale, ma lo fa senza aspettarsi un soldo di utili e neanche ritorni di immagine. Finora ha speso 16 milioni. Ma non per restauri e per piazzare dovunque il suo logo, bensì, per esempio, per realizzare grondaie in tutti gli edifici e per recuperare il sistema fognario antico, che ora agevola lo smaltimento delle acque. Evitando che le infiltrazioni facciano sbriciolare i muri. Da questi equivoci politici e culturali discendono una serie di conseguenze. La prima è di ordine quantitativo. Nel carnet delle immagini da piazzare sui mercati del turismo internazionale – altro perno del pensiero di Resca e di Bondi –, nei book da esibire alle fiere delle agenzie di viaggio non ci può entrare tutto il patrimonio culturale.
Non si può vendere quel sistema che dai musei e dalle pale d’altare rimanda ai territori circostanti, ai paesaggi che li nutrono di immagini, e che identifica uno dei maggiori pregi del patrimonio italiano. Occorre concentrarsi su poche, riconoscibili icone, quelle celebrate dalle classifiche internazionali: Pompei, il Colosseo, Brera, il Polo museale veneziano e quello fiorentino…, tutti luoghi che producono incassi elevati e che altri incassi possono garantire. Emblema di questo atteggiamento, che seleziona una cultura di serie A e lascia in malora il resto, è la costosa campagna pubblicitaria che raffigurava, afferrati da gru o da elicotteri, il Colosseo, il David di Michelangelo e il Cenacolo di Leonardo. «Se non lo visitate ve lo portiamo via», recitava la didascalia sotto ognuna di queste scene un po’ macabre, ma incuranti del fatto che quei tre capolavori sono oberati di visitatori, e che per essi sono in vigore e si invocano forme sempre più rigorose di contingentamento del pubblico.
Per ottenere questo potenziamento dell’offerta – e qui veniamo alla conseguenza numero due – le soprintendenze non vengono considerate il soggetto più adeguato. Troppo poco attrezzate nel marketing culturale, poco disposte a immaginare il bene amministrato come fonte di reddito e di sfruttamento spettacolare. Le soprintendenze vengono lasciate deperire. La tutela perde la centralità. Al suo posto subentrano la promozione, gli effetti scenici, l’uso e l’abuso di palazzi e di musei per convention e matrimoni, l’esibizione del numero di visitatori, una serie di atteggiamenti che ben si coniugano con la frenetica industria delle mostre, dell’evento, fino alla perversione dell’one painting show, l’esibizione di un solo quadro, e che alimentano una mitologia del privato che farebbe meglio del pubblico.
La terza conseguenza è il ricorso ai commissariamenti, di cui Resca è responsabile solo in parte, che mirano a due obiettivi e che in qualche modo “privatizzano” la gestione del patrimonio: esautorare ulteriormente il sistema della tutela praticato dalle soprintendenze e nominare persone che garantiscono affidabilià e che adottano criteri discrezionali per consulenze e appalti, aggirando tutti i passaggi burocratici – passaggi che rallentano anche i pochi interventi che si possono compiere ordinariamente, senza commissari, e che si potrebbero snellire, ridurre, ma che invece sono usati come alibi per agire sempre in deroga. È il modello della Protezione civile.
Le soprintendenze al collasso
Il sistema pubblico della tutela è in condizioni di grande sofferenza. E qualcuno è indotto a presagire il suo smantellamento. Un po’ per consunzione. Un po’ perché vissuto come un insopportabile ricettacolo di vincoli, di impacci, di asfissianti consuetudini intellettuali. È un sistema che ha fatto scuola in Europa ed è servito come modello in altri paesi. Ma ora arranca nel fronteggiare una lottizzazione edilizia, la costruzione di una linea ad alta velocità o anche nell’esercitare quel minimo di manutenzione che serve a frenare il naturale degrado. Il sistema è fondato, dalla legge Rosadi del 1909 in poi, sulle soprintendenze, alle quali è affidata la responsabilità di vigilare su beni archeologici, storico‐artistici, architettonici, demo‐etno‐antropologici e sul paesaggio. In esse è stato selezionato per anni un personale che alle competenze tecnico‐scientifiche (in storia dell’arte e dell’architettura, in restauro, ma anche in ingegneria statica o in urbanistica) ha affiancato quelle amministrative e giuridiche e quelle per meglio valorizzare il patrimonio (al fine, come si legge nel Codice approvato nel 2004, del miglior «sviluppo della cultura», cioè in linea con l’articolo 9 della Costituzione).
E in taluni casi si sono toccate punte d’eccellenza, sebbene da più parti si sollecitino correttivi. La Lega ha scritto nel suo programma elettorale di voler smantellare le soprintendenze, viste come un’odiosa diramazione centralistica, e questo disegno viaggia parallelamente alla trasformazione in senso federalista dello Stato, che potrebbe portare la tutela sotto il controllo di Regioni e di Comuni (lo si è tentato per Roma), di organi politici, dunque. Ma non esiste un progetto organico in materia. Se ci fosse, si sente dire, sarebbe possibile discutere e non è detto che tutte le ragioni stiano dalla parte dell’attuale sistema. In assenza però di un chiaro disegno di riforma, contro Gian Carlo Caselli, Ilda Boccassini e altri magistrati (prende 60 mila euro l’anno); la signora Marinella Martella (30 mila euro), una ricca carriera a Publitalia, segretaria di Berlusconi dal 2001 al 2010; Francesca Ghedini, pagata a rimborso spese, archeologa, sorella di Niccolò, l’avvocato di Berlusconi.
Ma che cosa accade in altri paesi? Le differenze sono abissali, in una logica inversamente proporzionale al patrimonio custodito. Nel 2010 il bilancio italiano è fermo a 1,710 miliardi, contro i 4,150 della Svezia, i 3,250 della Finlandia, i 2,900 della Francia. In Italia si taglia, ma in Germania aumentano gli stanziamenti del 3,5 per cento e negli Stati Uniti il pacchetto di provvedimenti anti‐crisi varato da Barack Obama prevede non tantissimo, ma pur sempre 50 milioni di dollari in più. E le cifre del disastro si rincorrono. Per la sola attività di tutela nel 2005 erano disponibili 335 milioni, nel 2009 sono stati 179. Meno tutela significa più degrado, più abbandono. Musei che non aprono il pomeriggio, che tengono chiuse le sale perché senza custodi. Restauri che si rimandano. Biblioteche che disdicono abbonamenti, che riducono il prestito.
Archivi storici che chiudono. Il 90 per cento delle spese sostenute dalle soprintendenze archeologiche sono per la sola manutenzione: pulizie, impianti di condizionamento, recinzioni che si rompono, bagni che perdono. Una cifra irrisoria è destinata per i restauri, e ancora meno si può spendere per nuovi scavi, che ormai si avviano solo se ci sono soldi di fondazioni bancarie, di università oppure se si fanno buchi per una metropolitana, per l’alta velocità e persino per un parcheggio interrato. Molte soprintendenze attingono ai fondi speciali per ripianare debiti o pagare bollette. Il personale addetto alla tutela è invecchiato (età media 52 anni e dieci mesi), il turn‐over è fermo e quando entro il 2014 andranno in pensione le leve entrate negli anni Settanta e Ottanta non ci sarà chi potrà sostituirle. Gli archeologi sono 350, gli storici dell’arte 490 e gli architetti 500, ma ne servirebbero – soprattutto archeologi e architetti – fra 1000 e 1500. I concorsi sono impantanati: tormentatissimo l’ultimo per soprintendenti archeologi, che ha visto chiudere solo di recente il suo travagliato iter fra Tar e Consiglio di Stato.
A ciò si è aggiunta la norma varata dal ministro Renato Brunetta che anticipa la pensione per i dirigenti del pubblico impiego con 40 anni di contributi. E così, dopo l'uscita di scena di alcuni grandi nomi della tutela, da Adriano La Regina a Pietro Giovanni Guzzo, mandati via allo scadere dei 65 anni, nonostante fosse possibile trattenerli in servizio, è stata falcidiata un'intera generazione di soprintendenti, più o meno sui sessant'anni. Via molti direttori regionali. E sorprendenti alcune sostituzioni: in Sardegna al posto dell'architetto Elio Garzillo, che si è battuto contro l'assalto cementizio alla necropoli fenicia di Tuvixeddu, arriva Assunta Lorrai, che non è né architetto né storico dell'arte né archeologa e proviene dai ranghi amministrativi. In pensione anche Stefano De Caro, direttore generale dei Beni archeologici. A questo si aggiunga il carosello vorticoso dei trasferimenti, degli incarichi ad interim che sfibrerebbe qualunque amministrazione. E che va avanti da anni. A Lucca in cinque anni sono cambiati cinque soprintendenti.
Dopo il pensionamento di Guzzo, nell’agosto 2009, a Pompei si sono alternati quattro soprintendenti e uno di loro, Giuseppe Proietti, aveva l’interim di Roma, amministrava cioè le due aree archeologiche più grandi del paese. Francesco Scoppola si è alternato in sei diversi incarichi dalla fine del 2004 al 2009: da direttore nelle Marche, dove è stato allontanato per aver osato mettere un vincolo su tutto il pregiato promontorio del Cònero, è passato al Molise e ora è in Umbria. Molti trasferimenti sono decisi per punire funzionari troppo rigorosi. Alcuni vengono attuati in maniera improvvida, scatenando ricorsi amministrativi, sospensive del Tar e reintegri. E qui si tocca uno dei tasti dolenti: quello della tutela di territorio e paesaggio incalzati dall'incessante procedere del cemento (3 milioni e mezzo di appartamenti costruiti negli ultimi dieci anni).
Gli insediamenti invadono i litorali e le colline e spesso intaccano zone vincolate, per le quali è necessario il parere della soprintendenza che, con il nuovo Codice dei Beni culturali, avrebbe l'impegnativo compito di partecipare con le Regioni alla pianificazione del territorio: ma, come ha documentato un rapporto curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi per conto di Italia Nostra, l’iniziativa è sostanzialmente fallita. In queste condizioni, si sente dire dappertutto, è un compito improbo per soprintendenti sul cui capo pende la spada di Damocle di un trasferimento o che sono minacciati da richieste risarcitorie contenere la forza esercitata dall'industria del mattone. Ormai si sono molto ridotti gli annullamenti di autorizzazioni a costruire in zone vincolate, a dispetto di chi continua a raffigurare le soprintendenze come delle conventicole di "signor no". Inoltre una circolare ha ammesso il ricorso gerarchico ai vertici del ministero contro un soprintendente solo nel caso in cui questi apponga un vincolo. Non per il contrario. Come a dire: chi tutela rischia, chi ama il quieto vivere no.
Arrivano i commissari
Ha cominciato Pompei. Sono seguite l’area archeologica romana e la Domus Aurea, il cantiere fiorentino per i Grandi Uffizi, quello milanese di Brera. Quindi L’Aquila. Ordinanze e procedure diverse. Un punto in comune sostanziale: mettere fuori gioco o ai margini la struttura delle soprintendenze e affidare poteri eccezionali a un commissario, talvolta proveniente dai ranghi dei Beni culturali, più frequentemente da altre amministrazioni, in primo luogo la Protezione civile. Il circuito si chiude. Anche la gestione del patrimonio culturale diventa l’occasione per sperimentare forme di governo strette nelle mani di pochissme persone, sostanzialmente legibus solutae, in grado di agire in deroga a tutte le procedure, di affidare appalti e consulenze senza gare, scansando i controlli e operando in una zona al riparo da ogni forma di verifica.
E quando queste arrivano ‐ come nel caso della Corte dei Conti per Pompei ‐ l’atto d’accusa è esplicito, ma giunge in ritardo. In altre occasioni interviene la Procura della Repubblica. L’arrivo dei commissari è spesso motivato da ragioni di emergenza o addirittura evocando imminenti calamità naturali. È accaduto per Pompei, nell’estate del 2008, quando in seguito a un articolo sul Corriere della Sera, il ministro Bondi nominò commissario Renato Profili, una carriera nella polizia e poi prefetto di Napoli. Dopo Profili, è stato designato un commissario che agli occhi del ministro aveva un curriculum più affidabile: Marcello Fiori, laurea in Lettere, vice capo di gabinetto al Comune di Roma con Rutelli, esperienza con il Giubileo, poi alla Protezione civile (L’Aquila, G8). Fiori ha lavorato con una soprintendente, Maria Rosaria Salvatore, che a Pompei si vedeva pochissimo.
Ha avuto mano libera. A fine mandato (luglio 2010) si sono tirate le somme. Degli 80 milioni che vantava di aver sbloccato, la metà erano stati già impegnati dal precedente commissario Profili in iniziative al 95 per cento di restauro e messa in sicuezza avviati dal soprintendente Guzzo e incagliati nelle procedure di gara. Per valorizzazione e promozione si erano spesi appena 400 mila euro. Restavano gli altri 40 milioni, che da Fiori sono stati impegnati in percentuali completamente rovesciate: solo 10 per la messa in sicurezza e 18 per valorizzazione. Fra le spese, viene molto contestata (oltre quella per il restauro del Teatro, dove si è lavorato persino con le ruspe, che sono bandite in un luogo dove si deve scavare con massima cautela) quella di 8 milioni prevista da un contratto con Wind per un impianto di videosorveglianza fatto di circa cento pali alti quattro metri che sfigurano l’area archeologica e che sono il doppione di un altro impianto, perfettamente funzionante e sistemato invece sulla cinta esterna.
Il contratto prevede anche il Wi‐fi e un nuovo portale web, pure questo doppione di uno già esistente. Ora Fiori è balzato su una poltrona di dirigente generale del ministero. Compenso: 166 mila euro l’anno. Nel febbraio del 2009 si decise il commissariamento di tutta l’area archeologica romana e di Ostia. Il motivo? Il pericolo di crolli sul colle del Palatino. Venne incaricato Guido Bertolaso, sollevando le proteste di tutti gli archeologi della Soprintendenza romana, i quali sostenevano che sarebbe stato più logico dotare di soldi e mezzi il loro ufficio per fare manutenzione e restauro, anziché convocare la Protezione civile, che con l’archeologia non aveva alcunché da spartire. Vice di Bertolaso, nel progetto originario, era l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma, un soggetto istituzionale che con la soprintendenza deve avere un rapporto dialettico, senza confusioni di ruoli (poi Bertolaso non assunse l’impegno perché chiamato a L’Aquila).
A Brera, per snellire le procedure dei lavori di ristrutturazione, venne impegnato Resca. Dagli Uffizi, invece, si apre uno squarcio sulle vicende torbide messe a nudo dall’inchiesta della Procura fiorentina sulla “cricca” e sui rapporti con la Protezione civile. A rendere più veloce il cantiere fu chiamata Elisabetta Fabbri, architetta, molto legata a Salvo Nastasi. Nastasi è il potentissimo capo di gabinetto di Bondi, eminenza grigia del ministero, anzi il vero ministro, secondo alcuni, per la cui ascesa ai vertici del Collegio romano si è infilato un piccolo comma in un decreto legge per i rifiuti (194 mila euro il suo stipendio).
La Fabbri è stata rimossa da Bondi dopo che la magistratura fiorentina ha avviato l’inchiesta che nel febbraio del 2010 ha portato all’arresto di Angelo Balducci e di altri esponenti della “cricca”, fra i quali Mauro Della Giovampaola, soggetto attuatore proprio dei lavori per gli Uffizi. Direttore di quei lavori era stato nominato Riccardo Miccichè, ingegnere di Agrigento, che, si legge nel curriculum, aveva competenze «nella preparazione dei terreni per erbe e piante officinali», oltre che «nell’attività di parrucchiere per donna, uomo, bambino, di manicure e pedicure». Miccichè era stato anche collaboratore di cantiere, alla Maddalena, di Francesco Piermarini, il cognato di Bertolaso. Nastasi, trentasei anni, molto legato a Gianni Letta, è un professionista dei commissariamenti. Oltre a esserne il dominus al ministero è stato anche lui più volte commissario: per la ricostruzione del Petruzzelli di Bari, al Maggio Fiorentino e al San Carlo di Napoli.
Il suo nome compare in molte intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura fiorentina, dalle quali risulta una grande familiarità con Balducci e gli altri della “cricca”. Un commissariamento sui generis è quello praticato a L’Aquila dopo il terremoto. Tutto il patrimonio culturale è stato affidato a Luciano Marchetti, ingegnere, dirigente in pensione del ministero al quale, però, non doveva per nulla rispondere, essendo il suo unico interlocutore la Protezione civile, e dunque Bertolaso. Le conseguenze? Le soprintendenze territoriali e la direzione regionale sono state messe fuori gioco, creando una quantità di conflitti. Ma esemplare è anche la vicenda di Giuseppe Basile, ex direttore dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, che ha lavorato dopo i terremoti nel Belice, in Friuli e in Umbria, alla Basilica di San Francesco di Assisi. È uno dei nostri migliori restauratori. Ha offerto le sue competenze a Marchetti, ma non ha mai neanche ricevuto una risposta.
Nel frattempo le macerie di chiese e palazzi aquilani giacevano indistinte ‐ fregi, cornici, capitelli mischiati a polvere e calcinacci ‐ sotto la pioggia e la neve, preda di chiunque. In una posizione marginale è stato messo lo stesso Istituto fondato da Cesare Brandi nel 1939, che per altro nel marzo del 2010 è stato sfrattato dalla storica sede di piazza san Francesco di Paola a Roma, perché il ministero non è riuscito a trovare i soldi per adeguare il canone di affitto. Come quella di Basile, a nulla sono valse, sempre a L’Aquila, le offerte di collaborazione da parte degli storici dell’arte Valentino Pace e Fabio Redi, dei docenti di restauro Giovanni Carbonara e Marina Righetti e persino di Ferdinando Bologna, aquilano, anche lui storico dell’arte, maestro di generazioni di studiosi, fra gli allievi più prossimi di Roberto Longhi.
Per il dopo terremoto si è puntato su altro. Un po’ come sul progetto Case: invece che su una pianificazione corretta, che prevedeva di riparare subito gli edifici danneggiati, ma non inagibili, e di avviare il recupero del centro storico, si sono piazzati 19 insediamenti, volgarmente detti new town, che ospitano appena un terzo dei senzatetto aquilani, lasciando a tutt’oggi decine di migliaia di persone in sistemazioni precarie. Il patrimonio storico‐artistico della città è stato a stento messo in sicurezza, di progetti di restauro non si ha notizia, la sbandierata “lista di nozze” (un elenco di monumenti affidati alle cure dei partecipanti al G8) è stata molto più che un fiasco.
Ora il centro storico, di cui le chiese e i palazzi sono parte, ma che è integralmente un bene culturale, è chiuso, transennato, vigilato dalle camionette dell’esercito, stretto dai tubi dei puntellamenti e abitato da fantasmi (l’unico che ci vive è Raffaele Colapietra, ottant’anni, storico, professore universitario, che ha rifiutato l’ordine di sgombero). L’Aquila come Pompei, hanno detto anche i membri del Consiglio superiore dei Beni culturali. L’Aquila come prefigurazione di una città che non è più una città. E di cui il patrimonio culturale è elemento essenziale perché la città torni a essere il luogo in cui si forma e si riconosce una comunità
A un attento osservatore negli anni 70 Milano sembrava si stesse trasformando in una città di lavandai, nuova attività cui pareva dedicarsi la media e piccola borghesia milanese: tutti i sottotetti delle nuove costruzioni erano una fila di lavanderie con ampio stenditoio in corrispondenza degli appartamenti dell’ultimo piano. Il regolamento edilizio lo permetteva, dunque come perdere l’occasione per avviare piccole attività imprenditoriali?
Date le dimensioni, non erano solo il sostitutivo di uno stendibiancheria pieghevole. Ma non erano nemmeno lavanderie e stenditoi, era una delle stagioni dell’abusivismo edilizio milanese di massa: divennero tutte camere da letto con bagno. Poi con le Dia (Dichiarazioni di inizio attività – modifiche senza esplicita concessione) se ne videro delle belle e lo stesso accadde con la legge del 2001 sui sottotetti: la stagione di mansarda selvaggia. Le norme furono interpretate nei modi più stravaganti, a cavallo dell’abuso.
Insomma, se vogliamo dare un nome ai fenomeni possiamo dire che l’"abusopoli" alla milanese, mai grave come in altre parti del Paese, c’è sempre stata. Ma l’innata virtù ambrosiana, la parsimonia, fu un freno agli eccessi: abusare sì ma con moderazione. Oggi anche questa moderazione è scomparsa e il caso di Gabriele Moratti ne è l’esempio: probabilmente si tratta di abuso d’abuso. Ormai abbiamo messo da parte l’inutile pretesa che chi governa e i suoi famigli siano tenuti a dare il buon esempio, dobbiamo aspettarci di tutto, cullati solo dalla speranza che i loro abusi saltino fuori per merito, si fa per dire, dei compagni di merenda. Laura Sala, moglie di Mario Chiesa, portò il marito in Tribunale perché lesinava sugli alimenti.
Stefania Ariosto dette una mano alla giustizia in un quadro di relazioni sentimentali tra sua sorella e l’avvocato Previti e tra lei stessa e l’avvocato Dotti. L’ultima, Cinzia Cracchi, mise nei pasticci il sindaco di Bologna. Gabriele Moratti è balzato agli onori della cronaca per non aver pagato il suo architetto. Sua madre, nostro sindaco, invoca trasparenza. Personalmente le chiederei qualcosa di più: conoscenza delle leggi e saper vedere.
In uno dei recenti video apologetici sul suo canale digitale la vediamo mentre inaugura un parcheggio sotterraneo. Durante la visita si ferma dinanzi a un box con la serranda aperta: dentro un signore mentre piacevolmente passa il suo tempo in quello che ha trasformato in una via di mezzo tra un locale hobby e un salottino.
Lo sguardo del sindaco e il suo commento sono compiaciuti e incoraggianti. Non mi risulta che rientrata in Comune abbia mandato i vigili a fare un sopralluogo e a contestare l’abuso in materia di destinazione d’uso e salubrità degli ambienti: siamo in campagna elettorale e tale la madre tale il figlio.
Sul caso Gabriele Moratti poi, quanto alle parole dell’assessore Masseroli sulle salvifiche virtù del nuovo Pgt che non ammetterà più simili abusi, vorrei solo ricordare che nessuna buona legge sostituisce l’onestà, impedisce l’abuso o mitiga l’arroganza naturale dei potenti.
È proprio vero che l'Italia non valorizza il suo patrimonio artistico. Guardate il ministro Sandro Bondi, nonostante sia stato più volte transennato e puntellato dalla maggioranza, alla fine non ha evitato il cedimento strutturale. Ora se ne va, ci lascia con una certezza difficile da scalfire: non ci mancherà. Lui, povera stella, giustifica il suo totale nullismo ministeriale con l'insensibilità dell'universo. Il mondo della cultura «di sinistra» non l'ha cagato nemmeno un po'. Il mondo della cultura «liberale» (ah, ah, ndr) non si è aggregato attorno a lui. Intanto gli è crollata addosso Pompei, qualche affaruccio famigliare è finito sui giornali, i tagli di Tremonti (quello che «la cultura non si mangia») hanno fatto il resto. Si è fatta strada nel Paese la convinzione che avere un ministro della cultura come Bondi, o non averlo, o avere al suo posto un grizzly degli Appalachi è esattamente la stessa cosa, e forse un po' meglio, dato che i grizzly non scrivono disgustose poesiole.
Eppure la triste storia del triste Bondi ci dice qualcosa del potere in Italia, dove potere significa Silvio Berlusconi. Finiti i tempi in cui bastava la piaggeria. Oggi dire «il duce ha sempre ragione» e comporre sonetti in sua lode non basta più. Ora bisogna attivarsi, presentarsi al cospetto del sovrano almeno con un disegnino di legge che lo cavi dai guai, o con la macchina dai vetri oscurati piena di ragazze, o con lo scalpo di qualche deputato razziato alle tribù vicine. Fatti, non parole. «Non ho convinto il governo del ruolo chiave che ha la cultura», ha detto, con inconsapevole umorismo. Cultura? Ruolo chiave? Ma che dice, Bondi! Porti una leggina ad personam. Porti due donzelle vestite da infermiere, oppure un «responsabile» nuovo di zecca, e vedrà la sua stella brillare di nuovo.
Comunque, grazie di tutto, si libera un posto per l'atteso rimpasto: Scilipoti, o Lele Mora, o il Gabibbo, o qualche ex del Grande Fratello, oppure, per risollevare la nostra immagine all'estero, Barbareschi o Topo Gigio. I talenti non mancano e, se sono uomini, possono pure restare vestiti.
È di strategica importanza la sentenza con la quale la VI sezione del Consiglio di Stato, presidente Giuseppe Severino ha bloccato (per sempre, si spera) i 260 mila metri cubi di cemento nel cuore di Tuvixeddu (Cagliari). Così ne parla il Gruppo di Intervento Giuridico, uno dei ricorrenti al Consiglio di Stato: “il Colle di Tuvixeddu, dentro la città di Cagliari (quartiere di Sant’Avendrace) è la più importante area archeologica sepolcrale punico-romana del Mediterraneo, con utilizzo fino all’epoca alto-medievale. Oltre 1.100 sepolture, alcune con pareti dipinte, scavate nel calcare in un’area collinare digradante verso le sponde dello Stagno di Santa Gilla. Residuano alcune testimonianze di “vie sepolcrali”, quali la Grotta della Vipera ed il sepolcro di Rubellio”. Di fronte a questa descrizione, in un Paese civile, cosa t’aspetti che succeda? Che si istituisca un Parco archeologico con quanto serve per la migliore tutela e fruizione. Invece no: “In buona parte l’area sepolcrale è stata aggredita pesantemente dall’espansione edilizia di Cagliari e dall’attività di cava, proseguita fino alla metà degli anni ‘70. Numerosi reperti rinvenuti sul Colle di Tuvixeddu impreziosiscono il Museo Archeologico di Cagliari.” Negli ultimi anni i saggi di scavo e le stesse attività edilizie hanno portato alla luce nuovi reperti di rilevante interesse archeologico. Ma non ci si è fermati. “Vuoi una casa nel parco?”, chiedeva lo spot della potente impresa del costruttore Gualtiero Cualbu. E intanto progettava dei molto comuni condominii da ficcare fra le tombe di guerrieri punici e poi romani.
La storia è breve. Dopo la cava dell’Italcementi, arriva l’immondizia. Che indigna pure la stampa estera. Nel 1997 la commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali chiede, in modo argomentato, l’imposizione di un vincolo paesaggistico su Tuvixeddu. Nemmeno per sogno. Nel 2000 viene firmato l’accordo di programma fra la Regione, il Comune di Cagliari (centrodestra) e il costruttore Cualbu con interessi in tutta Italia e in Brasile. Insorgono Italia Nostra, Sardegna Democratica, Gruppo di Intervento Giuridico, Amici della Terra e altre sigle. Soltanto nel 2006, con la Giunta regionale presieduta da Renato Soru, si blocca questo “nuovo modo di abitare, pensare e vivere Cagliari” a spese del paesaggio e dell’archeologia. “Vincoli assurdi che danneggiano l’economia”, tuonano costruttori e centrodestra contro il vincolo apposto dal centrosinistra a difesa di quel patrimonio di tutti. Purtroppo il Tar annulla quella saggia decisione dando ragione a imprese e Comune. Soru e le associazioni sopra nominate ricorrono però al Consiglio di Stato vincendo ora la causa a Palazzo Spada.
Ma v’è di più. La sentenza emessa dalla VI sezione del massimo organismo di giustizia amministrativa contiene motivazioni di valore generale di alto interesse. Per prima cosa, “all’interno dell’area individuata, è prevista una zona di tutela integrale, dove non è consentito alcun intervento di modificazione dello stato dei luoghi e una fascia di tutela condizionata”. Nessuna ambiguità, quindi. Poi, un chiarissimo principio che vale per tutta Italia: “La cura dell’interesse pubblico paesaggistico, diversamente da quello culturale-archeologico, concerne la forma del paese circostante, non le strette cose infisse o rinvenibili nel terreno con futuri scavi”. Bene ha fatto quindi la Giunta Soru ad imporre col Piano Paesaggistico Regionale (redatto in base al Codice Urbani, poi Rutelli, sul Paesaggio) il “vincolo ricognitivo”, molto più vasto di quello archeologico essendo fondamentale la tutela del bene pubblico nella sua interezza. Ma l’area è stata già aggredita e in parte manomessa da alcuni palazzoni che la nascondono. Proprio per questo, sentenzia il Consiglio di Stato, “la situazione materiale di compromissione della bellezza naturale che sia intervenuta ad opera di preesistenti realizzazioni, anziché impedire, maggiormente richiede che nuove costruzioni non deturpino ulteriormente l’ambito protetto”. Principio essenziale in un Paese che tante bellezze paesaggistiche ha compromesso e imbruttito e che altre – grazie alla deregulation voluta da Berlusconi e al blocco della co-pianificazione Ministero-Regioni concesso da Bondi – ci si appresta a sfigurare per sempre fra cemento, cave e asfalto. Princìpi-cardine, con altri della sentenza, a cui si potranno ancorare quanti hanno a cuore la tutela del Belpaese che ci resta. Si capisce bene il fastidio del premier per gli organi costituzionali di controllo, che non si lasciano intimidire.
Ai pianisti d'Italia è concesso come bis i Funerailles di Ferenc Liszt. Dai titani come l'Ente Teatrale Italiano e il giovane Napoli Teatro Festival, fino ai piccoli e piccolissimi, come Suoni e Visioni di Milano, rassegna per ora sospesa: la grande moria non risparmia nessuno.
Nel 150° anniversario dell'Unità d'Italia, Nord, Centro e Sud sembrano darsi la mano in questo piccolo monumento ai caduti della cultura, e tra i tanti simboli fa impressione la presenza della Biblioteca di Storia Patria, che ha dovuto sospendere le attività. Lo dedichiamo soprattutto ai tanti militi ignoti che non abbiamo segnalato: questa è solo una parziale lista di quello che non c'è più. La soppressione delle iniziative di Emma Darete, Nino D'Angelo, Ascanio Celestini e Gigi Proietti, protagonisti della scena tra loro diversissimi e tutti però molto amati dal pubblico, è lì a dimostrare che la piccola Shoah culturale italiana travolge tutto. Ma quello che abbiamo perso negli ultimi anni è molto di più, spiega Pietro Longhi dell'Agis: «Gli spettacoli si fanno più semplici, rozzi, senza scenografie, senza luci, pochi gli attori e non sempre professionisti, si preferisce la forma monologo». E, aggiungiamo, sempre meno idee.
PRECARI
Ai pianisti d'Italia è concesso come bis Les adieux di Ludwig van Beethoven. Da qualche tempo nelle nostre istituzioni e associazioni culturali si celebra un macabro rituale: di fronte ai ripetuti tagli tutti i contratti cosiddetti internali - a tempo determinato, a progetto e collaborazioni di vario genere - sono stati lasciati morire. Da una parte una intera generazione di giovani, spesso laureati e con specializzazione, si troverà non solo senza lavoro, ma con il percorso che li avrebbe dovuti portare a contratti più stabili brutalmente "interrotto. Dall'altra invece tutta una serie di professionisti che erano impiegati su mansioni specifiche - fotografi, datori luce, grafici, strumentisti, costumisti e così via -, non vedranno rinnovarsi le loro collaborazioni. Uno di loro spiega: «Il segno dei tempi è il cellulare: non squilla più». Anche loro sono i caduti della cultura, che fino a oggi hanno lavorato per i musei, le gallerie, gli archivi, il cinema, le stagioni teatrali, musicali e della danza. Senza considerare i tecnici, i restauratori, gli architetti impegnati nella tutela dei beni archeologici e architettonici. Per tutti loro una nazione che si vanta di essere la culla della cultura europea e mondiale non riserva neppure uno straccio di ammortizzatori sociali. Non ci sono neanche per attori, coreografi registi, danzatori, scenografi, musicisti che hanno fatto della libera professione la loro vita. In altri paesi del mondo, con tradizioni e patrimoni ben inferiori del nostro, i lavoratori della cultura, soprattutto nello spettacolo, godono di protezione sociale proprio perché si tratta di una occupazione spesso stagionale e comunque di natura intermittente.
REGIONI ED ENTI LOCALI
Mentre a Montecitorio sventolano le bandiere della Lega per la recente approvazione dei decreti sul federalismo, Regioni ed Enti locali - province e comuni si trovano ad affrontare pesanti tagli sulla spesa corrente e dunque anche alla cultura. Ma, è bene ricordarlo, in una situazione così difficile non sempre le amministrazioni locali si sono mostrate all'altezza: esemplare quanto è successo al Napoli Teatro Festival, abbattuto quasi per ripicca dall'assessore alla giunta regionale campana che aveva cambiato di segno. Ma stupisce anche la chiusura dell'Orchestra di Roma e del Lazio, unica istituzione musicale che faceva attività in regione, lasciata deperire e morire negli ultimi tre anni. E sempre nel Lazio la giunta di Renata Polverini taglia i fondi ai festival e alle officine culturali, di teatro sociale e di coreografia, per spendere immaginate un po' in cosa? In sfilate di moda. La regione Abruzzo ha azzerato i contributi alle iniziative culturali medio-piccole e, per esempio, un comune come Terni a tutte le attività culturali. Propense agli eventi, spesso autocelebrativi, demagogici e con fini clientelari - si pensi al Carnevale romano della giunta Alemanno con una spesa di un milione di euro ad affidamento diretto senza bandi di concorso -, le amministrazioni locali sono spesso complici del disfacimento culturale.
AGGRAPPATI ALLA VITA
Ai pianisti d'Italia è concesso come bis una gran variazione sull'aria Mi lagnerò tacendo di Gioachino Rossini. Restare vivi, mentre ti tolgono lentamente l'ossigeno: lo facessero alle rane interverrebbe la protezione animali. Succede invece alle nostre istituzioni culturali: accanto ai resti della Schola Armaturarum, alle ruspe che aggrediscono Tuvixeddu, al Borgo Leri Cavour, ci sono musei, archivi, istituti di cultura, mostre, gallerie, biblioteche che restano attaccati alla vita. Continuano tra mille difficoltà la loro missione perché sanno che fermarsi ora vorrebbe dire chiudere per sempre, e abbandonare i loro patrimoni materiali e professionali al degrado, all'incuria, alla dispersione. E’ emblematica la situazione della Nazionale di Firenze, una delle più importanti biblioteche non solo d'Italia, ma del mondo, che azzoppata dai tagli apre solo per mezza giornata. Oltre all'orario e al personale in molte altre istituzioni si riducono le attività, non si fanno più servizi per le scuole né per i giovani e gli anziani. Poi arriverà qualche sapientone che dirà: «Sono enti inutili!». Li stanno rendendo inutili. E allora questo monumento è dedicato anche a loro, perché continuino a vivere e far vivere la cultura nel nostro paese, che forse non se li merita.
DEL DOMALA NON V’E’ CERTEZZA
I1 2011 andrà molto peggio: la fine è decretata dalle politiche di tagli agli investimenti del governo Berlusconi, articolate da Tremonti con il beneplacito del ministro dei Beni e delle Attività Culturali Sandro Bondi che, ai numerosi crolli di Pompei vuole affiancare una generale slavina, mentre scappa alla chetichella con pluriannunciate dimissioni, non ancora concretizzatesi. Consideriamo solo che il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali nel 2007 assorbiva il lo 0,29 % del bilancio dello stato: una cifra irrisoria rispetto al resto d'Europa. Bene nel 2011 questa quota è crollata allo 0,16. Nel 1968 dopo una lunga discussione, il parlamento con la legge 800 puntava a una distribuzione capillare delle attività culturali sul territorio che affiancasse la tutela dei beni culturali: oggi assistiamo a un processo inverso. Un'offerta di modestissimo profilo punteggiata forse da qualche evento, ma è solo una ipotesi, resisterà nelle grandi città, ma la desertificazione culturale è già in stato avanzato nei piccoli e medi centri, soprattutto al Sud. Una scelta di portata terribile, che il centrodestra si è arrogato senza alcuna discussione in Parlamento e quindi in maniera assai discutibile. Chi li fermerà?
Chi soffre di più
Istituti: nel 2011 un taglio ulteriore del 16%
Custodi di importanti archivi e biblioteche, promotori di iniziative, gli istituti di cultura negli ultimi due anni hanno visto ridursi all'osso i finanziamenti. Nel 2011 avranno un ulteriore taglio del 16%: meno attività, riduzione di personale e orari saranno le inevitabili conseguenze. Molti rischiano di dover sospendere le attività.
Giornata mondiale del teatro. In Italia niente da festeggiare
Il 27 marzo si tiene in 5 continenti la giornata mondiale del teatri ad eccezione che in Italia, dove non c'è nulla da festeggiare. Il governo ha cercato di far passare la cosa sotto silenzio, ma associazioni, teatri, compagnie e movimenti promettono una giornata di protesta e sensibilizzazione: ma per favore non la chiamate «festa della morte del teatro».
Stabili e orchestre a rischio chiusura
L'Italia, paese del melodramma, rischia di veder chiudere i suoi maggiori teatri e orchestre a causa dei tagli agli investimenti dello stato. I finanziamenti coprono a mala pena i soldi che i teatri rendono allo stato sotto forma di contributi e tasse. Caso emblematico la Scala che nel 2010 ha versato 30 milioni di euro in più di quanto riceverà nel 2011.
Archeologi e restauratori in sofferenza
Il ministero dei Beni e delle Attività Culturali nel 2004 assorbiva lo 0,34% del bilancio dello Stato, nel 2007, lo 0,29, nel 2011 la spesa è crollata allo 0,16%. In Francia è dello 0,90%, in Gran Bretagna dell' 1,20. Sono stati particolarmente penalizzati l'archeologia e i beni architettonici: solo tra i tecnici restauratori mancano dall'organico da 500 a 600 unità.
PIÙ TASSE PER TUTTI
Il governo che doveva togliere le tasse ha messo una tassa di un euro sui biglietti del cinema. Da luglio, insomma, si pagherà di più per vedere i film, mentre tutte le associazioni protestano
TEATRO
ETI Ente Teatrale Italiano (Roma - Italia)
Napoli Teatro Festival (Napoli)
Teatro Trianon Napoli
Rassegna Suoni & Visioni Milano (sospeso attività)
Festival Teatri delle Mura a Padova
Rialto Sant'Ambrogio (Roma)
Cinema Teatro Politeama Asti
Rosso Festival Caltanissetta
Laboratorio teatrale Gigi Proietti (Roma)
Teatro San Martino Bologna (sospeso attività)
Teatro Sociale Canicattì (sospeso la stagione)
Rassegna 'Castelli in scena' (Alba)
Festival 'Dreamtime' (in forse)
Teatro del Lido Ostia (occupato)
Teatro Politecnico (Roma)
Festival Bestiario (Roma)
Festival Bella ciao (Roma)
Festival Dedica Asolo
Teatro carcere al Due palazzi (Padova)
Filo d'Arianna Festival (Belluno)
Fondazione Toscana Musica e Arte (Arezzo)
Teatro Petrarca (Arezzo chiuso per restauro da 4 anni)
MUSICA
Orchestra Regionale di Roma e del Lazio
Festival Progetto Musica (Roma)
Festival Barocco (Viterbo)
Centro Reggino di Musica Classica (Reggio Calabria)
Centro Jazz Calabria (Cosenza)
Associazione Musicale Felice Romani (Moneglia)
Rassegna Canto delle Pietre (Como)
Autunno musicale (Como)
Arezzo wave (trasferito)
DANZA
Compagnia Danza Ricerca
Compagnia Associazione Florence Dance
Compagnia Il pudore bene in vista
Corpo di Ballo del Teatro Verdi di Trieste
Dance Festival (Olbia)
Culture dei Mari - Comitato Euromediterraneo
ARCHEOLOGIA
Casa Armaturarum (Pompei)
Centro storico dell'Aquila (abbandonato dopo il terremoto)
Zona Archeologica Campi Flegrei (Napoli)
Museo Archeologico Castello di Baia (Napoli)
Domus Aurea
Cantiere Navi (Pisa)
Museo regionale di scienze naturali di Torino
Reale tenuta di Carditello (Caserta)
Sito di Tuvixeddu
Borgo di Leri Cavour (Torino-Vercelli)
Villa Reale (Monza)
Città della Scienza di Roma (progetto esecutivo non realizzato)
BIBLIOTECHE
Biblioteca Nazionale Firenze (apre solo per mezza giornata)
Biblioteca di società di storia patria Napoli (sospeso attività)
Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Majella Napoli
Biblioteca comunale San Lorenzo Roma (sezione ragazzi chiusa)
Sistema bibliotecario di Villa San Giovanni Reggio Calabria
ET ALIA
Festival internazionale del cinema di animazione (Lucca)
Rassegna Alba Libri (Alba)Cantieri Culturali alla Zisa (In abbandono - sospensione regolare attività sull'arte contemporanea)
Teatro San Gerolamo di Milano (da anni si annuncia la riapertura)
CAGLIARI. Hanno vinto Renato Soru e il suo governo regionale: il vincolo da 50 ettari su Tuvixeddu e Tuvumannu è pienamente giustificato dall’obbiettivo di tutelare non solo un bene culturale come la necropoli punico-romana ma un paesaggio storico arricchito dalla presenza di un’area archeologica.
L’ha stabilito con la sentenza depositata ieri il Consiglio di Stato. I giudici della sesta sezione - presidente Giuseppe Severino - hanno accolto integralmente il ricorso presentato dalla Regione, da Italia Nostra e da Sardegna Democratica contro la decisione del Tar Sardegna, che tre anni fa aveva dato ragione alla Nuova Iniziative Coimpresa del gruppo Cualbu e al Comune di Cagliari, annullando il divieto di costruire imposto dalla Regione con l’applicazione del piano paesaggistico. Allo stato delle cose, all’interno dell’area circoscitta a suo tempo dall’amministrazione Soru non potrà essere messo in piedi un solo mattone. Sarà un’intesa tra Comune e Regione - scrivono i giudici - a concordare una nuova disciplina di salvaguardia. Ma il Consiglio di Stato ricorda come «all’interno dell’area individuata è prevista una zona di tutela integrale, dove non è consentito alcun intervento di modificazione dello stato dei luoghi e una fascia di tutela condizionata».
Per la seconda volta dopo il caso Cala Giunco i giudici amministrativi supremi affermano che il Codice Urbani, interamente recepito dal Ppr, prevale su qualsiasi altro strumento di pianificazione locale e per la prima volta stabiliscono che la tutela del paesaggio inteso come un insieme storico-ambientale - prevista dalla Costituzione - deve venire prima di ogni altro interesse per quanto legittimo. Le trentadue pagine della sentenza confermano riga per riga, concetto per concetto, quanto la direzione regionale dei beni culturali retta da Elio Garzillo e le associazioni culturali ed ecologiste come Italia Nostra e Gruppo di Intervento Giuridico hanno sostenuto in ogni sede: il vincolo imposto su Tuvixeddu col Ppr, in linea con il Codice Urbani, è giustificato dalle emergenze archeologiche e dal contesto. La presenza di «opere preesistenti - scrivono i giudici - anziche impedire, maggiormente richiede che nuove costruzioni non deturpino ulteriormente l’ambito protetto».
Ma al di là del linguaggio proprio del diritto amministrativo, i dati centrali che emergono dalla sentenza sono due: il primo è che dal 2000, quando venne firmato l’accordo di programma tra Regione, Comune di Cagliari e Coimpresa, si sono verificati nuovi ritrovamenti archeologici. Un elemento sempre negato dai legali del gruppo Cualbu ma accertato dalle indagini del nucleo investigativo della Guardia Forestale e confermato dalla Procura della Repubblica. L’altro è che da allora ad oggi è cambiato il quadro legislativo, perchè il Codice Urbani - come i giudici confermano con grande chiarezza - è uno strumento di tutela del paesaggio come contesto storico-ambientale. Quindi non ha alcuna rilevanza che tra un quartiere da costruire - come nel caso di Tuvixeddu - e l’area archeologica scavata esista una qualche distanza: è l’insieme che dev’essere difeso, al di là di ciò che sta dentro il compendio e persino di quanto vi è stato costruito attorno in passato.
Scrivono i giudici: «La cura dell’interesse pubbico paesaggistico, diversamente da quello culturale-archeologico, concerne la forma del paese circostante non le strette cose infisse o rinvenibili nel terreno con futuri scavi». Di conseguenza ha fatto benissimo la Regione a imporre col Ppr un «vincolo ricognitivo» molto più ampio dell’area storica («un vincolo di pertinenza psichiatrica» l’avevano definito nella memoria depositata in giudizio i legali di Coimpresa) perchè quello che conta, al di là degli interessi privati, è la tutela del bene pubblico nel suo complesso.
Ma c’è dell’altro. Coimpresa ha contestato alla Regione la carenza di istruttoria, vale a dire il fatto di aver imposto i vincoli senza motivarli e senza dimostrarne a sufficienza la necessità. I giudici di palazzo Spada smentiscono Coimpresa e il Comune di Cagliari anche su questo: fin dal 16 ottobre 1997 la commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali di Cagliari aveva chiesto l’imposizione sull’area di Tuvixeddu di un vincolo paesaggistico. Ed è su quell’istanza che l’amministrazione Soru nel 2006 cercò di imporre il vincolo per notevole interesse pubblico, poi bocciato dai giudici amministrativi per l’illegittimità della commissione. Comunque qualcuno s’era mosso fin dal 1997, tre anni prima che venisse firmato l’accordo di programma ora travolto dalla sentenza del Consiglio di Stato.
Qui potete raggiungere la sentenza del Consiglio di Stato, di grande rilievo non solo per Tuvixeddu.
In tempo di affittopoli nella Lombardia della privatizzazione al potere succede di tutto. Succede che con poche centinaia di euro ti ritrovi con uno spazioso appartamento in una delle zone più prestigiose di Milano oppure succede che il fu PAT (Pio Albergo Trivulzio) diventi l’acronimo di Parenti Amici e Tangenti. In Lombardia c’è una vasta cittadinanza che tutti i giorni combatte per stare al passo con la dignità e un’altra (nemmeno troppo) sommersa che le regole se le scambia come al tavolo del Monopoli: senza soldi finti però, preferibilmente con i soldi degli altri. Eppure nella Lombardia che rende cavalieri i più furbi oggi c’è un bando che concede il lusso di un esoso e prestigioso scaccomatto all’uguaglianza: 30.000 euro per 9.000 metri quadrati (un canone da periferia del mondo) con ampio giardino e vista mozzafiato, inclusi qualche secolo di storia e fauna e flora a volontà da tenere tra i gioielli di famiglia.
Non importa che quella villa sia il cuore di un parco con duecento anni di storia e che il Piano Regolatore della città di Monza fin dal 1964 reciti “nel Parco nessuna nuova costruzione”: oggi a Monza Villa Reale e il suo Parco sono in bella vista nella bancarella per pochi dell’intoccabile (e illegittimo, per firme) Governatore Roberto Formigoni. A controllare l’operazione c’è il braccio lungo “dell’assessorato al cemento” Infrastrutture Lombarde SPA, la società di matrice ciellina attraverso cui passa tutta la cementificazione lombarda. Antonio Cedernadiceva che “tutta l’Italia va trattata come un parco e alla rigorosa salvaguardia dei valori del suo territorio va rigorosamente subordinata ogni ipotesi di trasformazione e sviluppo: perché non venga definitivamente distrutta l’identità culturale l’integrità fisica del nostro Paese”. Oggi in Lombardia un Parco è come il maiale: non si butta via niente. Come nelle migliori tradizioni padane.
APPELLO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA PER LA VILLA REALE DI MONZA
Egregio Signor Presidente, la Villa Reale di Monza, insieme al suo Parco, rappresenta un gioiello del periodo neoclassico di valore mondiale. Dopo essere stata abbandonata dai Savoia all’inizio del XX secolo è rimasta per la gran parte inutilizzata fino a oggi, manifestando nel corso del tempo un progressivo degrado solo parzialmente contenuto. All’inizio di questo anno il Consorzio pubblico che la gestisce – composto da Ministero dei Beni culturali, Regione Lombardia, Comune di Monza, Comune di Milano – ha deciso di affidarne la ristrutturazione e la gestione a un soggetto privato, da individuare attraverso un bando di gara indetto in data 17 marzo da Infrastrutture Lombarde, la S.p.A. che presiede alla valorizzazione, la gestione, l’alienazione e la manutenzione del patrimonio immobiliare di Regione Lombardia.
Questo bando di gara permetterà al privato che lo vincerà. Di poter utilizzare le ingenti risorse pubbliche da stanziarsi per un importo di 19 milioni di euro, a fronte di un impegno del vincitore di soli 5 milioni, al fine di ristrutturare il corpo centrale dell’edificio. Di predisporre il progetto esecutivo per la ristrutturazione della stessa, senza adeguate indicazioni da parte del Consorzio proprietario. – Di gestire la Villa Reale per un periodo di ben 30 anni con un canone di affitto di soli 30.000 euro all’anno. Di lasciare la Villa Reale in uso al Consorzio pubblico proprietario per soli 36 giorni all’anno, mentre per tutto il resto dell’anno il privato gestirà il complesso di propria iniziativa. Noi sottoscritti pensiamo che questo bando sia inaccettabile. Perché cederà un monumento di enorme importanza storica e culturale, e le ingenti risorse pubbliche necessarie per ristrutturarlo, senza adeguate garanzie sul futuro del bene, sui suoi utilizzi e sulla sua fruibilità pubblica.
Perché questo bando di gara porterà a una ristrutturazione – e non a un restauro conservativo – della Villa Reale, ristrutturazione rivolta principalmente alla sua valorizzazione economica e non al suo recupero come monumento storico, comportando eventualmente anche profonde modifiche strutturali. Perché questo bando di gara porterà a una gestione della Villa Reale con lo scopo principale di remunerare l’investimento del privato vincitore e non l’utilizzo del monumento come bene pubblico. Pensiamo inoltre che le risorse necessarie al restauro possano essere reperite dagli enti proprietari componenti il Consorzio e a esso affidata la gestione senza un intervento privato il cui oggettivo interesse di trarre profitto dai propri investimenti confligge con le esigenze di tutela del patrimonio artistico nazionale garantite dall’art. 9 della Costituzione. Pensiamo quindi che il bando di gara vada immediatamente ritirato, per individuare una soluzione adeguata, che permetta di restaurare la Villa Reale e di restituirla ai cittadini come museo di se stessa, polo didattico, sede di eventi espositivi di livello internazionale e di alta rappresentanza istituzionale.
Signor Presidente, nel poco tempo che ci separa da decisioni pregiudizievoli dell’integrità e della dignità di un bene tra i più preziosi dell’architettura e dell’arte nazionali, ci rivolgiamo a Lei con fiducia affinché sia fatto ogni sforzo per trovare soluzioni alternative a quella prospettata e la Villa Reale di Monza conservi intatto il proprio patrimonio di ricchezze architettoniche, artistiche e culturali.
TRA GLIADERENTI:Natalia Aspesi Stefano Benni Giulio Cavalli Luigi Ciotti Lella Costa Chiara Cremonesi Enrico Deaglio Elio De Capitani Monica Frassoni Don Andrea Gallo Giovanna Melandri Franco Oppini Giuliano Pisapia Corrado Stajano Oliviero Toscani Walter Veltroni Nichi Vendola
Soltanto “sfortunato” il sindaco di Roma Gianni Alemanno? Proprio mentre tenta di lanciare alcune idee di “grandeur” sulla Roma del 2020, finisce nei titoli per le ripetute tragedie degli stupri, dei bimbi rom bruciati in campi abusivi, per altre storie tipiche di una città degradata. O invece sommario, sbrigativo, senza idee? Possibile che il Comune non abbia potuto fare nulla per i disperati dell’ex ambasciata somala ridotta, nella centrale via dei Villini, a lager? E che la sua sola risposta sia, oggi, “li espelliamo tutti”?
Roma, in realtà, è sempre meno amministrata. Prendiamo il caro-taxi avallato con convinzione dal Campidoglio e poi bloccato dal Tar. Né il sindaco Alemanno né i taxisti vogliono affrontare il nodo vero: cioè la riduzione del flusso dei veicoli privati nelle zone centrali e semicentrali (siamo a 1 auto per romano adulto). E’ la sola misura che può rendere più veloci bus e tram e assicurare ai taxi un carico di lavoro oggi insidiato. Aver ritardato alle 23 la ZTL è stato un vantaggio? Sì per i “bottegari” della “movida”, entusiasti sostenitori di Alemanno. No per gli altri: commercianti, residenti, turisti. E per gli stessi taxisti che in tutte le grandi città europee lavorano molto a partire dalle 20-21 (anche per i severi test anti-alcol e altro dei guidatori). Come non capirlo?
Alemanno aveva vinto le elezioni sulla sicurezza. O meglio, sull’insicurezza. Si pensava che avrebbe assunto misure serie, pianificate. Invece ha fatto sgomberare il grande campo del Casilino 900 senza predisporre campi alternativi attrezzati. Risultato? Almeno venti campi “spontanei” senza servizi né sicurezza di sorta. Stesso discorso per la vita notturna di Roma. Si pensava che Comune e Stato avrebbero organizzato meglio la vigilanza nei punti notoriamente più pericolosi. Niente di tutto ciò. Lo Stato perché Tremonti gli ha tolto soldi, uomini, auto funzionanti. Il Comune perché, ridotto alla stessa impotenza, ha preferito straparlare di incrementi fantastici del turismo di massa, di Formula 1 all’Eur (bufala, fin da subito), di Parco tematico della Romanità su 300 ettari di Agro, di altre costose scemenze. Senza far nulla di concreto e avendo una sola idea: niente piani né vincoli, la città è una merce da sfruttare.
E’ risaputo ormai che il livello di sicurezza di un centro urbano dipende anzitutto dal persistere in essa dei residenti e dal controllo sociale da loro operato. Il centro storico di Roma, il più grande e conservato del mondo, contava nel dopoguerra circa 450.000 abitanti. Oggi sono 80-90.000, con rioni nei quali, di sera, le finestre illuminate di una abitazione si contano sulla dita di una mano. Da metropoli a necropoli. Processo reso ineluttabile dal mercato? Allora non scandalizziamoci se una ragazza può venire stuprata nei pressi di piazza di Spagna. Qualcuno osa ancora parlare del recupero a fini residenziali dei centri storici? Eppure il problema dilaga: ci sono città antiche che nell’ultimo decennio si sono svuotate, come la bellissima Viterbo, crollata da 20.000 a meno di 8.000 residenti. Soltanto Genova, che mi risulti, ha realizzato (sindaco Beppe Pericu, assessore Bruno Gabrielli) una politica pluriennale di recupero e restauro fermando, almeno, l’emorragia di abitanti. Si svuotano dunque quartieri dove sono presenti tutti i servizi, primari e secondari, e si assecondano fantastici piani di espansione nelle campagne consumando altro suolo agricolo e altro verde, impegnando soldi pubblici a pioggia, non risolvendo comunque la questione del caro-casa (il “social housing” da noi è a livelli infimi), rendendo ingestibile la città. L’edilizia sembra la sola ricetta italiana, a Milano come a Roma. Lo ha riconfermato lo stesso Tremonti ai pomposi Stati Generali per Roma 2020. C’è qualcosa di più stupidamente vecchio della cura immobiliaristica? Possibile che Roma abbia dimenticato di essere una città che produce, che fa ricerca, che sta nella tecnologia avanzata (e dovrebbe starci ancor di più)? Altro che cemento e asfalto. Ora, per trasformare ancor più Roma antica in un bazar (senza il fascino dell’esotismo), sono in arrivo 237 bancarelle in piazze come San Giovanni, il Velabro, Santa Maria Maggiore, la Pilotta, ecc. Dentro questa fiumana ci sono i prodotti bio, ma c’è pure la peggiore paccottiglia. Per cui Roma antica sarà sempre più mangiatoia continua di surgelati precucinati e bancarella non meno continua. E il superministro Tremonti se la prende coi vincoli architettonici e paesaggistici, con l’urbanistica. Siamo i soli in Europa a straparlare così. In coda a tutti.
Il Corriere del Mezzogiorno (vedi in calce)ha informato recentemente che il Ministero per i beni e le attività culturali ha dichiarato “bene d’interesse storico-artistico” un cospicuo lembo (7 ettari) di collina, in un’area centrale di Napoli, restato per anni incolto “in attesa di edificazione” nonostante un vincolo paesistico procedimentale e un vincolo a standard decaduto, nel quale la più specifica salvaguardia urbanistica disposta dalla variante di prg del 1998 ha indotto i proprietari a reimpiantare l’antica vigna scomparsa. Abbiamo chiesto a Giovanni Dispoto, che ha seguito la vicenda negli ultimi lustri, di raccontarla (e.)
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Descrizione dell’area
La Vigna s’identifica topograficamente con gran parte del pendio esposto a sud-est che raccorda i margini settentrionali dei quartieri Spagnoli (corso Vittorio Emanuele III) del centro storico, con la certosa di San Martino e castel Sant’Elmo, il complesso monumentale che sorge al culmine della collina del Vomero. L’area è altresì delimitata a Est e a Ovest da due storici percorsi pedonali: i gradoni della Pedamentina e quelli del Petraio. Questi, partendo entrambi da San Martino, si divaricano raggiungendo in basso il Corso Vittorio Emanuele III, il primo in corrispondenza di Montesanto, il secondo in corrispondenza di Cariati, dove si trovano anche il complesso monastico di San Nicola da Tolentino e l’ex complesso monastico di suor Orsola Benincasa, oggi sede universitaria. Adiacenti ai due percorsi, i tracciati rispettivamente della funicolare di Montesanto e della funicolare Centrale che collegano la città bassa e la città alta.
Il Prg del 1972
L’area era individuata nel Prg del 1972 come zona omogenea I1- Parco di particolare valore paesistico ed ambientale- e la sua attuazione era subordinata, come anche l’attuazione del Prg per l’intero territorio cittadino, alla redazione di piani urbanistici esecutivi che non furono mai elaborati. Con la prima giunta Valenzi venne considerata anche la possibilità di procedere all’esproprio dell’area per la realizzazione di un parco pubblico, ricorrendo alla legge 1/78 che avrebbe potuto consentire l’intervento anche in deroga al Prg. Tuttavia una accurata valutazione dei luoghi (un paesaggio di coltivi terrazzati in pieno centro storico che risalendo il ripido pendio culmina con la passeggiata dei monaci della certosa di san Martino) mise in evidenza la difficoltà di conciliare la conservazione dei caratteri paesaggistici, morfologici, agronomici dell’area ed un suo eventuale utilizzo come verde pubblico da standard che all’epoca s’identificava tout court con il cosiddetto “verde attrezzato”, con l’immancabile presenza di cavee, laghetti e verde ornamentale. In altri termini i tempi non apparivano ancora maturi per un progetto anche gestionale, che considerasse la campagna urbana come un bene di pubblico interesse anche ai fini dello standard urbanistico. L’obiettivo dell’amministrazione di realizzare un grande parco urbano fu così indirizzato al bosco esistente sulla collina dei Camaldoli, dove in quegli anni l’abusivismo edilizio minacciava di far sparire la selva di castagno ceduo che la ricopriva. Un progetto esecutivo elaborato dall’amministrazione e approvato all’unanimità dal consiglio comunale ai sensi della legge 1/78, consentì poi alla cassa per il Mezzogiorno di procedere agli espropri e alla realizzazione del parco boschivo dei Camaldoli (137 ha).
Dal punto di vista della tutela dell’area dall’abusivismo, la vigna San Martino, soprattutto per la sua posizione e il fragile equilibrio dei luoghi, appariva correre minori rischi . Vincolata ai sensi della legge 1497/39 con decreto del 22 novembre 1956, risultava appartenere per intero ad una società con sede all’estero.
La variante di salvaguardia e la variante al Prg
Con la variante di salvaguardia approvata il 29.06.1998, l’area viene compresa nella zona omogenea nEa –Area agricola. La perimetrazione dell’area rispetto al Prg del 1972 viene ampliata lungo il bordo meridionale attestandosi sui confini della cortina edificata al piede della collina, lungo il corso Vittorio Emanuele III (convento di San Lucia al Monte).
E’ in questo periodo che avviene l’acquisto del terreno da parte dell’attuale proprietario che reimpianta quasi subito la vigna e torna a coltivare i terrazzamenti prima abbandonati.
Con la variante al Prg approvata nel 2004, l’area viene assoggetttata alla disciplina della zona omogenea Ad – Agricolo in centro storico- e contemporaneamente individuata tra le aree reperite come standard di verde di quartiere.
I tempi sono maturi per conciliare la tutela e la permanenza della campagna urbana e in generale dei valori testimoniali del paesaggio agrario, con il dimensionamento degli standard urbanistici nel nuovo piano regolatore. Questo, anche in considerazione dei nuovi indirizzi comunitari sulla multifunzionalità dell’agricoltura specie in area urbana (agriturismo, attività didattica, vendita diretta dal produttore al consumatore, eccetera), e della possibilità di attuare forme di fruizione dei terreni, coltivati e non, con l’assoggettamento all’uso pubblico attraverso la stipula di convenzioni tra pubblico e privato, ipotizza che l’intero sistema collinare dei terreni ancora liberi, ivi compresa l’area della vigna San Martino, venga perimetrato come parco di interesse regionale (art.1 delle n.t.a.).
In ordine a tale scelta del Prg, la regione Campania con legge regionale 17 del 7 ottobre 2003 e successivamente con decreto di giunta regionale n. 853 del 16 giugno 2004, ha provveduto all’istituzione del parco metropolitano delle colline di Napoli che comprende nel suo perimetro anche la Vigna San Martino.
La stesura definitiva del Prg e l’istituzione del parco regionale ha dato, rispetto alla variante di salvaguardia, ulteriori e definitive certezze all’iniziativa del privato circa la coerenza esistente tra la strumentazione urbanistica vigente e le attività che l’imprenditore intende svolgere nella sua proprietà. Il recente vincolo dell’area, in quanto “Bene di interesse storico e artistico” da parte del ministero competente è, a ben vedere, il coronamento di un costante e coerente percorso di pianificazione urbanistica svoltosi nell’arco degli ultimi quaranta anni.
Tagliente come un bisturi, la scrittura di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella affonda implacabile nel corpaccione malato dei Beni Culturali. Mitragliando decine di dati inoppugnabili, il loro ultimo libro (Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia. Rizzoli, pagg. 288, euro 18) passa dalla denuncia all’aneddoto, dal reportage all’analisi, dalle statistiche al confronto con gli altri Paesi, con risultati per l’Italia invariabilmente impietosi. Un esempio-simbolo della schizofrenia che viviamo è la Fescina, mausoleo romano in territorio di Quarto (Napoli), comune tanto fiero di tal cimelio da inalberarlo nel proprio gonfalone. Guai però se ci vien voglia di passare dall’araldica al monumento stesso: stentiamo a trovarlo fra «sterpi, erbacce, mucchi di vecchi materassi, poltrone sfondate, pannelli di eternit, lattine e pattume vario, una giungla di rovi». Chi facesse spallucce dicendo "cose che succedono al sud" è invitato a Leri (Vercelli), dove la tenuta Cavour è oggetto di depredazioni: «Dalla casa hanno portato via ogni cosa. Le porte, le tegole dei tetti, gli affreschi. Tutto. Hanno fatto a pezzi la scala interna per rubare i gradini di marmo. Tra i rovi che avvinghiano i muri, le tettoie pelate e le pareti a brandelli» resiste solo la targa che ricorda il conte di Cavour, la cui statua peraltro risulta decapitata. Insomma, Italia finalmente unita, da Napoli a Vercelli e oltre: unita nel degrado, nell’incuria, nel disprezzo della nostra storia, cioè di noi stessi.
Eppure Mario Resca, direttore generale alla Valorizzazione, spiega a ogni piè sospinto ("a ogni Pier sospinto", direbbe l’ex ministro dei Beni Culturali Vincenza Bono Parrino, di cui Rizzo e Stella evocano questa ed altre prodezze verbali) che la cultura rende. Peccato che lo dica con cifre sempre diverse: «Ogni euro investito in cultura genera un indotto 6 volte superiore» dichiara al Giornale dell’arte, «rende da 7 a 10» spiega al Giorno, «ne rende anche 10», proclama al Corriere, «rende da 6 a 12 volte l’investimento» si vanta sul Giornale, «rende 16 volte» discetta al Forum mondiale di Avignone. Cifre improvvisate e velleitarie, che tentano invano di nascondere il nulla di analisi e di progettualità. Nel giugno 2008 il neo-ministro Sandro Bondi dichiarò a Camera e Senato che «l´Italia è agli ultimi posti in Europa per la percentuale della spesa in cultura sul bilancio dello stato (0,28 per cento contro l’8,3 della Svezia e il 3 della Francia)», aggiungendo: «mi impegno ad invertire questa tendenza negativa». Meno di un mese dopo, Bondi incassò senza batter ciglio un taglio di 1 miliardo e 300 milioni, che quasi azzerava la capacità di spesa del suo ministero. Da un lato, la Valorizzazione (a parole) alla Resca, dall’altro lato i tagli (di fatto) alla Tremonti: messi insieme, questi due dati delineano una strategia davvero rivoluzionaria, la teoria economica made in Italy secondo cui si valorizza disinvestendo.
Ancor più drammatica è la situazione delle risorse umane: l’età media degli addetti ha sfondato il muro dei 55 anni, e nessun turn-over è in vista; anzi, il Ministero spinge i funzionari alla pensione anticipata. A Pompei è in servizio un solo archeologo; una deroga al blocco delle assunzioni era prevista nel decreto milleproroghe, ma è saltata senza alcuna reazione del ministro, troppo occupato a fare il poeta di corte. Invece di dotare Pompei di un organico decente, Bondi ha cambiato in un anno tre soprintendenti, peraltro esautorandoli, in nome dell’efficientismo manageriale, con commissariamenti affidati a prefetti in pensione o alla protezione civile. E che cosa han fatto i commissari? 102.963 euro spesi per censire i 55 cani randagi che infestano le rovine; due contratti a Wind (9 milioni) per le linee telefoniche e per un ridicolo video in cui le figure della Villa dei Misteri cantano in inglese (provare per credere: www.pompeiviva.it); 724.000 euro di contratto a un ateneo romano per studiare a Pompei lo "sviluppo di tecnologie sostenibili"; 6 milioni per distruggere il teatro romano sotto «cordoli di cemento armato e rozzi mattoni di tufo di un colore giallastro scuro».
Perché questo è il punto: si taglia sull’essenziale, si spende e spande sul superfluo. Le spese di Palazzo Chigi crescono nel 2011 di 30 milioni, 750 milioni vengono elargiti all’Alto Adige «proprio mentre i due deputati della Südtiroler Volkspartei decidevano di salvare Berlusconi con le loro determinanti astensioni alla Camera», si stanzia per il G8 alla Maddalena un miliardo di euro scippandolo ai Beni Culturali; per non dire della «piccola storia ignobile del portale italia.it», oltre 30 milioni di euro per allestire in sette anni un portale che risulta al 184.594° posto nella classifica mondiale. Questo rapporto perverso fra i tagli e gli sprechi è il frutto avvelenato della stessa economia di rapina che consegna il paesaggio in mano agli speculatori, in «un consumo del territorio abnorme, disordinato, sprecone, indifferente a tutti i rischi»; che in nome del federalismo demaniale prima regala ai Comuni edifici storici e aree protette, e poi li obbliga a svenderli per far quadrare il bilancio.
Hanno ragione i migliori commentatori stranieri, per esempio sul New York Times o su Le Monde: «Pompei che crolla è metafora dell’instabilità politica dell’Italia, della sua incapacità di gestire il proprio patrimonio culturale». Perché a questo siamo giunti: devono essere gli stranieri a ricordarci la nostra tradizione e la nostra storia, e per riportare alla coscienza nazionale l’art. 9 della Costituzione ci vuole Barenboim che ne dà lettura alla Scala, Harding che fa lo stesso alla Fenice. Giocano sporco i finti Soloni che si stracciano le vesti per i tagli "necessari", dato il nostro enorme debito pubblico. Fingono di non sapere che altri Paesi (per esempio Francia e Germania), per uscire dalla crisi, investono in cultura e in ricerca. Fingono di dimenticare che l´Italia ha il record mondiale di evasione fiscale (attorno ai 280 miliardi di euro annui di imponibile evaso), che «la corruzione è una tassa immorale e occulta pagata con i soldi dei cittadini, almeno 60 miliardi di euro l’anno».
Degrado morale e civile, paralisi della politica, disprezzo della cultura sono aspetti complementari di uno stesso declino. Il disastro del paesaggio e dei beni culturali ne è potente metafora e sintomo macroscopico. Si sta finalmente destando la coscienza dei cittadini? Questo libro potrebbe, dovrebbe esserne segno e stimolo.
L’avvicinarsi dell’esito del Bando di ristrutturazione del corpo centrale della Villa Reale di Monza gestito da Infrastrutture Lombarde S.p.A. per conto del Consorzio Villa Reale e Parco di Monza impone rinnovata attenzione per una iniziativa che ha suscitato vivaci proteste e contestazioni diffuse e profonde. Italia Nostra aveva già evidenziato in fase di costituzione del Consorzio alcune debolezze statutarie e strutturali del nuovo ente gestore sottolineando, in particolare, il ruolo egemone esercitato da Regione Lombardia. Ne consegue che Infrastrutture Lombarde governa il Bando determinandone così le relative procedure palesemente lontane dalle indispensabili caratteristiche di trasparenza e partecipazione che un tale intervento richiede. Inoltre la pessima gestione della comunicazione e informazione alla cittadinanza ha segnato irrimediabilmente la reazione popolare al progetto.
La sproporzione fra l’investimento pubblico e quello del soggetto privato, sebbene mitigato dagli oneri di manutenzione a carico di quest’ultimo (resi noti solo in un secondo momento), la durata della concessione (30 anni, una generazione) e alcuni ambiti di uso (commerciale e artigianale) rappresentano le principali aree di preoccupazione che Italia Nostra ha fatto proprie. Non di meno appare lacunosa e a breve respiro la strategia di intervento sull’intera Reggia e sul Parco che – come da sempre sosteniamo – rappresentano un unicum inscindibile. Il frazionamento degli interventi di recupero non inquadrati in un piano completo di lavoro condiviso con le parti in gioco e con la collettività pongono, al di là di generici indirizzi e riferimenti normativi quadro, una seria ipoteca sul più adeguato e completo recupero funzionale e culturale del bene.
L’ostentata assenza dell’Amministrazione comunale monzese – non un euro di contributo – appare colposa e miope rispetto alle ricadute che il ritorno della Villa a nuovi fasti può avere sulla città. Peccato che la disponibilità di risorse pubbliche per il restauro conservativo della Villa, fatto che rappresenta un’importante e apprezzabile novità, sia denotata da queste infelici condizioni. Occorre ora, in caso di effettiva assegnazione e avvio dei lavori, vigilare sugli elementi progettuali, sulle caratteristiche anche di dettaglio dell’esecuzione dei lavori e – soprattutto – sulla successiva gestione degli spazi ad attività completate. Italia Nostra si impegna affinchè siano rigorosamente rispettate le prescrizioni del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e delle altre norme di tutela. La Reggia di Monza merita un futuro migliore.
Italia Nostra – Sezione di Monza
Capitale selvaggia, nazione infetta
di Paolo Berdini
L'aspetto più preoccupante degli stati generali della città del sindaco Alemanno è venuto dal ministro Tremonti che ha replicato un tema preferito negli ultimi tempi. I vincoli paesaggistici e urbanistici bloccano la modernità ed è venuto il momento - anche cambiando l'articolo 39 della Costituzione - di togliere ogni ostacolo all'edificazione selvaggia. Del resto il governo non è stato con le mani in mano, perché attraverso i piani casa ha cancellato definitivamente quasiai visione d'insieme delle città. Ognuno può ampliare qualsiasi manufatto e tanto basta. Siamo l'unico paese sviluppato ad aver abbandonato l'urbanistica: gli altri mantengono regole certe e valide per tutti. La città viene da noi invece cancellata in nome di un cieco egoismo proprietario.
Ma c'è anche un aspetto di irresistibile comicità nelle parole del ministro. Egli infatti parlava ad una elegante platea che per buona parte frequenta la struttura di massaggi fisioterapeutici che va sotto il nome di “Salaria sport village” del premiato gruppo Anemone-Balducci-Bertolaso. Platea che sa dunque bene che i vincoli continuano ad esistere soltanto nella mente del ministro perché sono stati cancellati da anni: ormai si può fare ciò che si vuole, anche centinaia di migliaia di metri cubi di cemento sul greto del Tevere dove pure - sulla carta - esistevano i tanti odiati vincoli.
Gli Stati generali di questa capitale senza guida servivano dunque per mettere mano alle Olimpiadi senza regole. Non servivano per ragionare sul futuro della città, sulle sue numerose criticità, sulle sfide dei prossimi anni in cui dovremo obbligatoriamente attrezzare la città con un sistema di trasporto pubblico degno di questo nome. L'unico modo per poter attrarre occasioni di investimento e di occupazione è infatti quello di recuperare il ritardo che ci separa dalle città europee che funzionano proprio perché sono governate. Il neoliberismo urbanistico di Tremonti e Alemanno è diventato ormai un fattore di inarrestabile declino.L'immagine della lontananza dalla città vera era ben visibile nell'assenza di qualsiasi intervento che non fosse appannaggio del gruppo dirigente romano e nazionale. La società civile non si è potuta esprimere. Non ha potuto illustrare le sue richieste per avere quartieri vivibili e servizi pubblici degni di questo nome.
Così si è parlato solo dei grandi affari. Delle Olimpiadi, in primo luogo, in cui tutto il gotha nazionale è piazzato nei numerosi comitati esecutivi e d'onore. Della ricetta di nuovo inutile cemento a Tor Bella Monaca che avrebbe bisogno soltanto di attenzioni sociali. Della volontà di realizzare due ulteriori piste aeroportuali a Fiumicino, l'unico al mondo con cinque piste. Non sappiamo gestire l'esistente e continuiamo nella folle politica della quantità. E mentre gli altri praticano la ricerca della qualità, Roma continua a espandersi senza fine e senza idee. Povera capitale.
La Roma in crisi sfida Alemanno
di Ylenia Sina
«Roma bene comune». Uova, farina e coriandoli ieri mattina contro il sindaco, Tremonti e Berlusconi che chiudono gli Stati generali della città all'Eur. Corteo in un quartiere militarizzato. Il Forum dei movimenti per l'acqua pubblica riesce a ottenere la sospensione della privatizzazione nella capitale fino al referendum Precari, senzacasa, lavoratori delle municipalizzate in piazza contro la svendita della città e i tagli
Maschere e coriandoli contro «la fiction degli Stati Generali di Roma». Mentre, dentro a un Palazzo dei Congressi trasformato in "zona rossa", Alemanno si apprestava a regalare la città a industriali e costruttori, ieri mattina centinaia di persone hanno manifestato per le strade dell'Eur dietro allo striscione "Roma Bene Comune". «Noi siamo qui per rappresentare la vera Roma» denuncia Giulia Bucalossi dei movimenti per il diritto all'abitare «quella che non ha trovato spazio nella vetrina degli Stati Generali, quella della precarietà e dell'emergenza abitativa, dei tagli al welfare e ai servizi sociali». Per questo ieri, ad assediare il palazzo dove era in corso la presentazione del Comitato Olimpico 2020, «ennesimo grande evento che fa pregustare affari per tutti come già successo per i Mondiali di nuoto del 2009 e come sta accadendo per l'Expo 2015» denunciano dalla Roma Bene Comune, era presente un ampio schieramento della "Roma della crisi". Dai movimenti per il diritto all'abitare, ai lavoratori (rappresentati dai sindacati di base Usb e Cobas) delle aziende municipalizzate nel mirino della privatizzazione (Atac, Acea e Ama), dalle insegnanti dei nidi comunali che hanno distribuito alla piazza l'appello per lo sciopero generale indetto dai sindacati di base per l'11 marzo, fino ad arrivare ai precari. Dai cittadini di Tor Bella Monaca contro il Masterplan, ai rom del Comitato Ex Casilino 900 e del Metropoliz fino ad arrivare al Forum dei Movimenti per l'acqua pubblica. Con loro anche la Federazione della sinistra.
L'appuntamento per tutti è alle 9,30 ma dal luogo del concentramento, la fermata di Eur Palasport, il corteo parte solo verso le 11. Sullo sfondo le Ex Torri delle Finanze in demolizione per lasciare spazio al mega progetto residenziale di lusso di Renzo Piano e al cantiere della Nuvola di Fuksas che diventerà il nuovo Palazzo dei Congressi della Capitale, «simboli per eccellenza della Roma della rendita e delle grandi opere». Il corteo, autorizzato solo per un tragitto di cinquecento metri, sfila per un quartiere militarizzato. Bastano pochi minuti e i manifestanti, nascosti dietro a maschere con il volto di Alemanno e di Berlusconi, si trovano la strada bloccata. «Oggi siamo qui perché la città vera merita ascolto» urlano dal microfono gli organizzatori «e anche perché vogliamo dare un degno benvenuto al Presidente Berlusconi». Di fronte alle forze dell'ordine volano uova, farina e coriandoli. Una signora maghrebina che si attacca al blindato urlando «casa, casa» ricorda le rivolte che stanno incendiando l'altra sponda del Mediterraneo.
Ed è proprio alla forza delle rivoluzioni che stanno contagiando i paesi nordafricani che i presenti al corteo hanno fatto riferimento più volte. «Anche noi dobbiamo rivendicare e conquistare la nostra Piazza Tahrir» afferma Paolo di Vetta dei Blocchi Precari Metropolitani «e anche la mobilitazione di oggi è importante per un percorso che, partendo dal 14 dicembre, ci deve portare a costruire una vera opposizione a questo governo e a questa amministrazione». Dopo più di un'ora di blocco i blindati ricevono l'ordine di spostarsi per permettere ai manifestanti di proseguire il corteo fino a Piazza Asia, chiusa in un cerchio dalle forze dell'ordine. Poche centinaia di metri che però avvicinano l'assedio della Roma Bene Comune al "Palazzo dei Privati".
È ormai l'una di pomeriggio, dentro il Palazzo dei Congressi il Presidente del Consiglio Berlusconi sta benedicendo il Comitato Olimpico 2020 in presenza del ministro dell'Economia Tremonti e della Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, quando ai manifestanti arriva la notizia che nel pomeriggio il sindaco Alemanno riceverà una delegazione. «Un incontro che ha aperto un tavolo sulla crisi che sta affrontando questa città» spiegano i manifestanti a margine dell'incontro «mentre nei prossimi giorni verranno fissati una serie di tavoli con i singoli assessori. Ma intanto una prima "vittoria" c'è già: il Forum per l'acqua pubblica ha ottenuto da Alemanno il blocco nella capitale dell'applicazione della legge Ronchi (quella che prevede la vendita ai privati) fino al referendum. Dalla gestione delle aziende municipalizzate ai rom, dall'acqua pubblica, alla svendita delle caserme. Terminati gli Stati generali, è questa la Roma che dovrà affrontare Alemanno.
Milano, la crisi viene da lontano. Il Pil locale scende a causa della crisi degli ultimi anni, e questo è inevitabile. Diminuisce però anche la sua incidenza sul Pil nazionale. La città rimane la locomotiva dell´economia italiana ma arranca un po´. E il confronto con la media delle città euro (quelle assimilabili a Milano: Amsterdam, Barcellona, Lione e Monaco) è ancora più negativo. I dati. Per Bankitalia il Pil di Milano e provincia nel ´94 pesava per il 10,1% del Pil nazionale. Nel 2009 la quota è scesa al 9,5. Nello stesso periodo il Pil pro capite milanese è cresciuto dell´1%, contro il più 28 delle città Euro (dati dell´istituto di ricerca indipendente Bak Basel). Queste stesse città sono andate in pareggio fra il 2004 e 2009, ammortizzando il peso della crisi.
Milano, invece, ha accusato pesantemente la recessione, con un Pil che nel 2009 era 12 punti sotto quello del 2004. Ancora: fra il 1995 e il 2000 la crescita di Milano è stata superiore a quella di tutte le altre province lombarde, fra il 2000 e il 2005 è stata inferiore a tutte.
Non può essere solo un problema di ridistribuzione, essendo pur vero che in 25 anni un milione e mezzo di residenti si sono trasformati in pendolari e consumano altrove ciò che producono qua. I numeri sul Pil «rattristano», sostiene in un articolo sul settimanale online Arcipelago Milano, Edoardo Ugolini, manager finanziario già in Banca Intesa, coautore di uno studio per il quale «Milano si è, per così dire, italianizzata. Non sta facendo meglio di un Paese sonnacchioso». La tesi è che al modello di sviluppo industriale non ne sia stato sostituito uno altrettanto efficiente. Il terziario non è bastato a rimpiazzare le fabbriche e la città ha preferito affidarsi allo sviluppo immobiliare. Scorciatoia inutile, perché il mattone distribuisce la ricchezza prodotta a una platea ristretta, che va dal costruttore al manovale. E non aiuta nelle congiunture negative.
La risposta poteva essere l´Ict, l´Information and communication technology ma negli anni ‘90 «i salotti buoni dell´economia hanno respinto quei giovanotti dai modi informali, rifiutando il ricambio generazionale», racconta Adrio De Carolis, oggi 43enne. De Carolis nel 1999 cedette a peso d´oro la sua Datanord Multimedia a Bipop. Vendita a suo tempo non poco discussa, ma quella storia rende l´idea: l´Ict poteva essere il futuro, fu soprattutto una grande bolla speculativa. Eppure per De Carolis si deve ripartire da lì, dall´Ict, «per recuperare l´anima produttiva della città».
Un altro imprenditore, Luca Beltrami Gadola, direttore di Arcipelago Milano, esamina le conseguenze di questo impasse: «Si amplia la forbice sociale, i ricchi sono sempre meno e, sempre più ricchi e globalizzati, perdono interesse per la città».
Intanto il tasso di disoccupazione milanese è superiore di un punto percentuale a quello lombardo. Cala lo skill ratio, cioè la scolarizzazione (lauree e diplomi) della forza lavoro, che per le qualifiche medio-alte incontra più difficoltà nel trovare un impiego. Qui ci sono 200.000 studenti universitari ma diminuiscono i brevetti. Onorio Rosati, segretario della Camera del Lavoro, è preoccupato: «I dati del Pil certificano che Milano ha tenuto sul versante della capacità produttiva e in un quindicennio aperto dalla globalizzazione e chiuso dalla crisi non era scontato. È vero però che questa crisi è di sistema. È sbagliato delegare il rilancio solo ad Expo, che non lascerà nulla di definitivo. Pensiamo magari alla green economy, ad accordi territoriali per inserire i neolaureati nelle imprese».
L´economista Pietro Ferri redige il rapporto trimestrale di Unioncamere sull´economia lombarda: «Fermo restando che i dati macroeconomici a livello di area metropolitana vanno presi con precauzione, quanto ad attendibilità, il ritardo di Milano rispetto ad altri Paesi è visibile. Le infrastrutture sono indietro, lo sviluppo informatico e tecnologico è bloccato. Basta guardare al mancato coordinamento fra enti locali sulle misure antismog per rendersi conto che qualcosa non va».
«Mai trattare una perdita di quote di Pil come una crisi - avverte un altro economista, Giacomo Vaciago - queste cifre non dicono che Milano è più povera ma che altrove (Veneto, Emilia, Marche) si cresce di più. Da tempo sostengo che cresce chi lo vuole fortemente, come Trento che ospita il primo centro europeo di ricerca di Microsoft, o Parma. Milano ha rinunciato a volerlo davvero. La crescita te la devi meritare, nessuno te la regala».
E quindi, professore? «E quindi la Moratti cosa fa? Un po´ di edilizia. Cominci piuttosto dall´efficienza di una buona amministrazione. Andiamo sul sito dei Comuni lombardi a verificare quante domande e pratiche si possono sbrigare online da casa, senza code agli sportelli. L´inquinamento da traffico è la prova più evidente di quanto poco si possa usare il computer, perché si costringe la gente a muoversi di persona. Il computer è trasparente, rende più difficili furbizie e favori. Tecnologia ed efficienza della pubblica amministrazione permettono di attrarre investimenti dall´estero, quelli che oggi ci mancano».
E' in libreria "Vandali. L'assalto alle bellezze d'Italia" di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (Rizzoli, 275 pagine, 18 euro). Una riflessione, amara e documentata, sulla situazione dei nostro patrimonio artistico e culturale e dei devastanti effetti della politica dei tagli attuata dal governo Berlusconi. «Eravamo i primi al mondo nel turismo - vi si legge -. Siamo precipitati per competitività al 28 posto.... Una classe dirigente seria sarebbe allarmatissima. La nostra no. Anzi, la cattiva politica è tutta concentrata su se stessa». Pubblichiamo parte del capitolo "La cultura rende? Alla «cricca» senz'altro".
“Pacco operaio! Pacco del lavoratore!». Era dai tempi in cui le sagre paesane erano battute da quegli ambulanti caciaroni che vendevano il celeberrimo «pacco» («E ti ci metto la coperta di lana matrimoniale! E ti ci metto la padella antiaderente! E ti ci metto il cacciavite multiuso...») che non si sentivano declamazioni come quelle di Mario Resca, l'uomo forte dei Beni Culturali berlusconiani. «Una recente indagine di Confcommercio (marzo 2009) ha dimostrato come un euro investito nella cultura ne genera 4 di indotto. Negli Stati Uniti un investimento nella cultura produce 7 volte quello che rende in Italia» dice sul sito ufficiale www.beniculturali.it. «Ogni euro investito in cultura genera un investimento 6 volte superiore» precisa in una chiacchierata con "Il giornale dell'arte". Il progetto Grande Brera costerà un mucchio di soldi ma quello non è un problema perché un po' dei finanziamenti arriverà dai fondi per i 150 anni dell'Unità d'Italia, un po' dai ministeri e il resto dalle istituzioni locali giacché «un euro investito in cultura ne rende 7 a 10 in ricaduta sul territorio» spiega al "Giorno" presentando l'iniziativa della quale lui è commissario. “Li troveremo i soldi» rassicura in contemporanea sul "Corriere": «Milano :..:. deve mettersi una mano sul cuore. E ricordare che un euro investito in cultura ne rende anche 10». Bum! «I1 turismo culturale è una grande fonte di reddito» incoraggia dopo il crollo della Schola Armaturarum di Pompei in un'intervista al "Giornale" di Alessandro Sallusti. E, spiegando che è «meglio investire qui piuttosto che nella manifattura, che nel nostro mondo globalizzato e in recessione è sempre più delocalizzata», conclude: «Un euro investito in cultura, dicono i nostri consulenti, rende da 6 a 12 volte l'investimento». Bum! «L'indotto generato dalla cultura e dal turismo culturale ha e avrà sempre un maggiore peso sulla nostra economia. Stiamo rilanciando la fruizione della cultura comunicando di più perché un euro in cultura rende 16 volte attraverso l'indotto del turismo culturale» dichiara (lo dice attraverso l'ufficio stampa del ministero!) al Forum mondiale che ad Avignone nel 2009 riunisce circa trecento personalità della cultura provenienti da tutto il mondo. Bum! Al di là dei numeri sui quali si sbizzarrisce, a metà gennaio 2011, l'ha detto anche a Vittorio Zincone, di "Sette": «Crediamo davvero che il futuro dei nostri figli sia ancora nelle fabbriche e nel manifatturiero? Lì non abbiamo speranze». Quindi? Tutti a fare i custodi nei musei? «No. Dobbiamo creare nuove professionalità: manager del Turismo e dei Beni culturali...» Come lui. Che per rimediare all'assenza di didascalie in inglese nel 76% dei nostri musei, parla in slang "macdonaldese"; «Con il marketing e i social network abbiamo colpito il target. Nell'ultimo anno c'è stato il 15% dei visitatori in più. Per questo business è un turn around fondamentale. Uno swing eccezionale». Sostiene che «i Beni culturali dovrebbero diventare un ministero di serie A. Perché nei prossimi vent'anni, se ci crediamo, potremmo assistere a un nuovo rinascimento nella produzione di ricchezza basato sulla leadership del nostro patrimonio culturale. L'Italia potrebbe diventare una grande Disneyland culturale». E dice che l'ha ricordato anche a Berlusconi: «Mi ha dato ragione. Ma poi ha altre preoccupazioni». Disneyland... Certo è che, a dispetto di questi discorsi, i finanziamenti alla cultura degli ultimi anni sono stati decimati. Direte: non è possibile! Se Silvio Berlusconi ripete da anni che occorre governare con il buon senso del «buon padre di famiglia», che lui è un imprenditore di successo e dunque sa come vanno spesi i soldi, che ha portato razionalità alla gestione dello Stato! I dati ufficiali sono implacabili. Da quel 2001 in cui tornò al potere per restarci l'intero decennio salvo la caotica parentesi prodiana, i finanziamenti pubblici ai Beni culturali sono andati giù precipizio. In dieci anni, dal 2001 al 2011, sono calati del 40%: da 2.386 a 1.429 milioni di euro. Ma se teniamo conto dell'inflazione, allora il crollo è stato del 50,5%. Il succo è che dieci anni fa lo Stato italiano dava al ministero dei Beni culturali più del doppio di oggi. Il che significa, poiché al di là delle sparate è assolutamente vero che un euro investito in cultura ne genera molto di più, che sono state buttate via potenzialmente decine di miliardi. Lasciando contemporaneamente che il nostro tesoro venisse saccheggiato dall'incuria, dall'indifferenza, dal degrado. Certo, anche nel 2000 la fetta più grossa se ne andava per la spesa corrente del ministero e delle sue strutture periferiche: stipendi, luce, telefoni, trasporti, affitti... Ragion per cui qualcuno potrebbe addirittura concludere che alla fin fine si sono risparmiati un sacco di soldi. Se però guardiamo la spesa per gli investimenti, tocchiamo con mano il disastro. Perché quella voce, in dieci anni, si è ridotta da 749 a 290 milioni, per scendere ulteriormente a 213 milioni nel 2011. Per capirci: soltanto quest'ultimo taglio di 79 milioni, se fosse vero che ogni euro culturale ne produce 16, avrebbe sottratto all'Italia un miliardo e 264 milioni di euro.
Che cosa potrà dire il centrosinistra su Expo 2015 in campagna elettorale? Che ne stanno pensando l’uomo della strada e la casalinga di Voghera? Credo che a quest’ultima domanda sia abbastanza facile rispondere: dopo le tante figuracce che stiamo facendo all’estero, anche quella di far naufragare l’Expo sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso, una figuraccia per l’Italia ma soprattutto per noi milanesi. Non credo che pensino ad altro, perché sulle varie panzane del tipo «un’occasione da non perdere» piuttosto che «una grande occasione per Milano» hanno già capito che l’occasione sarà per pochi e che il codazzo di grane tra malagestio, arroganze, incapacità e favoritismi sarà inevitabile.
La questione delle aree, ancora irrisolta, e le ultime cronache cittadine sono l’infinita telenovela dell’amministrazione ambrosiana di centro destra e l’Expo ne sarà solo una puntata. Il giorno della primavera 2008 in cui il Bie designò Milano e l’Italia a ospitare Expo, si poteva immaginare quel che ne è seguito? Forse sì, visto che il secondo governo Prodi era già caduto – per farlo cadere ci misero del loro molti di quelli che ora si sbracciano per cacciare Berlusconi – ed era facile immaginare che i subdoli nemici di Expo fin dalla prima ora – la Lega con Bossi e Tremonti – sarebbero sbarcati a Roma.
Da qui non tutti ma molti di mali di Expo, forse i più gravi. Come spesso le accade la sinistra è in difficoltà: il precedente caso sulla "sicurezza" è esemplare ma sparare a palle incatenate contro Expo vorrebbe dire offrire all’avversario il facile argomento di essere vittima della sindrome da opposizione preconcetta e di non volere il "bene" della città e dei milanesi. Può non essere così. Che cosa chiedono l’uomo della strada e la casalinga di Voghera? Chiedono di non fare figuracce, e la sinistra deve essere con loro: quello che si deve dire è che non è pensabile che a gestire un’operazione tanto complessa e difficile ci siano dei dilettanti allo sbaraglio come ormai hanno capito anche i sassi.
Già si è visto e si continuano a vedere solo una serie di manovre di potere coperte dai fuochi di artificio mediatici per distrarre la gente e celare l’incapacità di risolvere i problemi. Non per nulla prima di andarsene e sedersi di nuovo negli scranni della Camera e far finta di credere alle balle su Ruby, Lucio Stanca blindò i suoi collaboratori minacciando severe sanzioni per chi avesse svelato cosa si facesse nelle stanze di Expo 2015 Spa e ancor peggio negli Uffici di piano dove si sviluppa il progetto: il tutto doveva essere considerato alla sorta di un segreto aziendale.
La posizione della sinistra deve essere chiara: l’idea forte dell’Expo era convincente e il governo Prodi la sostenne con tutte le forze; il suo snaturamento a favore di una riduzione ad affare immobiliare va impedito; il lascito di Expo alla città va garantito progettando sin da adesso i futuri usi e assicurando per gli stessi le coperture finanziarie prevedibili e necessarie; d’ora in avanti ogni sviluppo progettuale e ogni scelta deve essere comunicata, trasparente e condivisa realmente dalla "città" che non è sinonimo di "maggioranza del consiglio comunale". Se non ci sono queste condizioni a tutela del buon nome di Milano bisogna dire e ripetere: Expo sì ma con questa gente no.
Niente stanziamenti adesso perché, secondo il governo, i fondi potrebbero essere erogati in maniera più compiuta «tra uno o due mesi attraverso un altro provvedimento, che potrebbe essere anche un decreto legge». A spiegarlo è il sottosegretario ai Beni Culturali, Francesco Maria Giro che argomenta così la decisione del governo: «Pur essendo l’emendamento su Pompei di fondamentale importanza per il sito, l’esecutivo ha deciso di ritirarlo per non stravolgere, come è accaduto in passato, la natura del decreto milleproroghe che, come si evince dal nome, dovrebbe contenere solo proroghe». Ufficiale comunque «l’intenzione di ripresentarlo» con l’inserimento di nuove norme che «daranno la possibilità alla Soprintendenza di Pompei di arginare il sistema burocratico, che appesantisce l’azione dei soprintendenti, dandole maggiori poteri per quanto riguarda spese, appalti e cantieri. Nonostante il blocco del turn over del pubblico impiego, la Soprintendenza avrà la possibilità di assumere nuovo personale.
Teniamo presente - ha concluso Giro - che gli scavi di Pompei avrebbero bisogno di almeno una trentina di archeologi». «Si tratta di una bocciatura tecnica e non politica» aggiunge il senatore del Pdl Lucio Malan, relatore dell’emendamento su Pompei. E aggiunge: «Se avessimo saputo della bocciatura avremmo evitato di presentarlo». Infine un riferimento a possibili finanziatori privati: «Se si facesse vivo qualche sponsor il governo sarebbe legittimato a fare un decreto ad hoc che ne consentisse l’immediato coinvolgimento». E ora, da dove si ricomincia? «Bisogna chiederlo al ministro Bondi» conclude il senatore del Pdl. Sempre per il fronte Pdl va registrata la posizione della senatrice Diana De Feo: «Il problema di Pompei non è assolutamente legato ai fondi. I soldi che il sito incassa dalle visite non solo gli bastano ma addirittura gli avanzano, visto che il Tesoro ha ritirato dalle casse degli scavi 70 milioni di euro, perché non erano stati spesi. Decine di architetti e ingegneri dell’università di Napoli sono poi pronti a mettere gratuitamente a disposizione le loro capacità per studiare a fondo la situazione».
Argomentazioni opposte arrivano dal dal Pd che, attraverso Vincenzo Vita (vicepresidente della commissione Cultura al Senato) annuncia che, dopo il ritiro dell’emendamento deciso dal governo, «sarà il Partito democratico a presentare in Parlamento un disegno di legge per la conservazione e la valorizzazione del sito archeologico». Lo stesso Vita, tra l’altro, ha anche dichiarato di non credere all’intenzione del governo di riproporre il provvedimento tra un paio di mesi, e di vedere «nella decisione del suo ritiro dal milleproroghe solo la conferma della totale assenza di una politica culturale negli atti e nelle scelte dell’esecutivo». Stessa linea che arriva dai sindacati. «Quella che sembrava una emergenza nazionale si legge in una nota della Uil - si è invece rivelata una ennesima boutade. Questo significa che ancora non esiste un piano per Pompei». Infine la Cgil Campania che, in una nota, esprime «contrarietà alla posizione espressa dal presidente della Regione circa l’orientamento che il sito di Pompei debba essere gestito più dai privati che dal pubblico».
Ci sono comuni noti in Italia per la qualità delle loro politiche: ad esempio, Cassinetta di Lugagnano, il comune zero consumo di suolo o il comune di Peccioli che detiene il record toscano e forse nazionale per la raccolta differenziata. Anche il comune di Casole d’Elsa, almeno a livello toscano, rivendica un primato, ma in concorrenza con le peggiori amministrazioni: quello dell’ente locale che nell’arco di dieci anni o poco più ha compiuto il maggior numero di operazioni illegittime: contro la legge di governo del territorio, contro il PIT e il PTC di Siena, contro le normative paesaggistiche e ambientali e perfino contro le disposizioni del vincolo idrologico. Dieci anni di mala urbanistica e mala edilizia, durante i quali la Regione Toscana, nonostante le relazioni dei propri uffici che indicavano la non sanabilità degli abusi promossi dal Comune , nonostante gli avvisi di reato (32 fra tecnici e amministratori) e i sequestri della Procura della Repubblica, ha continuato imperturbabile a coprire le malefatte dell’amministrazione e degli speculatori che con questa fanno tutt’uno. La Variante del Piano strutturale, ora adottata, è un suggello che vorrebbe mettere una pezza sulle porcherie pregresse. Il tutto condito con la solita retorica che condiziona lottizzazioni e nuovi usi di suolo al massimo impegno nella tutela del paesaggio.
Il grande protagonista di tutte le vicende è Piero Pii, già vicepresidente del consiglio regionale toscano, in buoni rapporti con Riccardo Conti, ex assessore al territorio e infrastrutture della Regione. Pii è sindaco di Casole d’Elsa, per l’allora Pds, dal 1994 al 2004, mentre nel 2004 come continuatrice del tracciato di mala urbanistica gli succede Valentina Feti (Ds), precedente vicesindaco. Nel frattempo la società Castello di Casole, promotrice di varie iniziative immobiliari e proprietaria di aree nel comune, dà l’incarico a Pii, per 140.000 euro l’anno, di seguire le proprie pratiche urbanistiche ed edilizie presso il Comune. A perfezionare il tutto, nel 2009 Piero Pii si presenta di nuovo alle elezioni, questa volta contro il suo ex partito, a capo di una lista civica appoggiata dal Pdl e, diventato sindaco per una manciata di voti, adotta una Variante al Piano strutturale destinata far scuola su come si aggirino le norme urbanistiche. Una Variante, si è detto, che vorrebbe sanare le precedenti malefatte e compensare i privati ‘penalizzati’ dai sequestri dalla Procura della Repubblica.
Affinché i lettori di eddyburg possano apprezzare pienamente l’operato del Comune e il ruolo politico della Regione dobbiamo, rapidamente e omettendo molti particolari e aggravanti, accennare all’operazione cardine di dieci anni di mala urbanistica, un Piano integrato di intervento (P.I.I, come il suo ispiratore) la ‘madre’ di molti degli abusi urbanistici edilizi, paesaggistici e ambientali che sanciscono il primato negativo di Casole. Il Piano integrato di intervento è uno strumento urbanistico che per legge dovrebbe durare non oltre il mandato dell’amministrazione promotrice, finalizzato a realizzare opere pubbliche (strade, infrastrutture, spazi collettivi, ecc.), mentre i privati possono proporvi l’inserimento di loro progetti non oltre il termine perentorio di 60 giorni dalla data di approvazione del piano. Il Comune di Casole, infischiandosene della legge, tiene invece aperto il piano ‘sine die’, inserendovi via via gli interventi richiesti dai promotori immobiliari, difformi dal PS ma regolarmente pubblicati sul Bollettino ufficiale della Regione. Fra questi spicca il piano di recupero di San Severo, inserito nell’aprile 2004 (quindi 3 anni dopo la scadenza ‘perentoria’), e approvato nel 2005.
Il piano ‘recupera’ un podere con due case coloniche, stalle e altri annessi per un totale di 5.860 mc trasformandolo in edilizia residenziale a villette per 7.530 mc (Il P.I.I. prescriveva che la volumetria del piano di recupero non dovesse superare quella esistente), ma il Comune generosamente rilascia permessi per quasi 11.200 mc e i costruttori, non contenti, ne realizzano più di 12.000 divisi in 55 appartamenti. Osserva, a tale proposito, il dott. Formisano, Sostituto Procuratore presso il tribunale di Siena, che “è evidente che in tanto l’impresa ha edificato oltre il consentito in quanto era certa che l’Amministrazione avrebbe comunque assentito ogni eventuale abuso. I rapporti con l'Amministrazione erano di tale natura che mai vi sarebbe stato un controllo con successivi provvedimenti di demolizione degli abusi realizzati. Il silenzio serbato dell'Amministrazione, che si è limitata ad attendere gli sviluppi delle indagini ed a porre in essere solo gli accertamenti obbligati, dimostra in modo evidente la volontà di ridimensionare le condotte poste in essere dagli indagati. Appare sin troppo evidente che si ignorano le responsabilità e gli obblighi che la normativa urbanistica riserva agli uffici comunali in materia”.
Intanto, di fronte a incriminazioni, sequestri, ricorsi al Tar, denunce di comitati, di cittadini, circostanziate ricostruzioni delle vicende da parte di Italia Nostra, articoli di giornale, inchieste televisive, pareri negativi dei suoi stessi uffici, la Regione si tappa gli occhi, le orecchie (e il naso), rimanendo inerte e continuando a pubblicare sul proprio Bollettino ufficiale le varianti al Regolamento urbanistico (complessivamente 24), al P.I.I. e al Piano di recupero, che via via il Comune approva in un quadro di totale illegalità.
Gli abusi edilizi si sommano, perciò, agli abusi urbanistici che, a loro volta, si inquadrano in una sostanziale difformità del Regolamento urbanistico approvato nel maggio del 2001 rispetto al PS vigente, le cui previsioni, come viene ammesso nella Relazione della Variante al Piano strutturale del novembre 2010, superano largamente quelle consentite.
Arriviamo ai nostri giorni: venendo a mancare le coperture politiche, la situazione diventa insostenibile per l’amministrazione comunale. Nel giugno 2010 viene, perciò, approvata una Variante di ‘assestamento’ al Regolamento urbanistico che sostanzialmente conferma, con qualche ridimensionamento minore, le previsioni del precedente Regolamento, mettendole ‘in salvaguardia’: vale a dire ‘congelandole’, in attesa che una Variante al PS sani la situazione, ratificando quanto anticipato in quella di assestamento.
Siamo giunti, quindi, alla Variante al PS, adottata nel novembre del 2010 che ha l’obiettivo di ‘sdoganare’ le operazioni messe in salvaguardia. Il dimensionamento residenziale è basato su una previsione di crescita della popolazione da 3 860 a 5 660 unità (il 50%) pari a 180.000 mc di edificazione, quasi tutta nuova. A questo dimensionamento ‘domestico’ si sommano 1.440 posti letto per attività turistico ricettive - pari a 120.000-140.000 mc, - che si vanno ad aggiungere ai 380 posti letto esistenti, con un incremento quasi del 400% (saranno tutti confermati nella destinazione?). Infine la Variante prevede addirittura 210.000 mq di superficie coperta per attività artigianali/industriale e commerciali/direzionali; ciò significa un impegno di suolo circa 70 ettari e implicherebbe un’occupazione, a regime, di circa 3.500-4.000 addetti. Si tratta evidentemente di previsioni ipertrofiche, non sorrette da alcuna analisi della domanda (le aree industriali presenti sono solo parzialmente utilizzate). O meglio, la stima della domanda residenziale è basata su un incremento di quasi novecento residenti nell’ultimo decennio, attirati da altri comuni con l’offerta di case: si offrono abitazioni si aumenta la popolazione e sulla base di questo aumento si ipotizza una nuova domanda (mentre è evidentemente l’offerta che comanda), un vecchio trucco che premia i comuni meno virtuosi.
Ciò che, tuttavia, maggiormente stupisce è l’assenza nel PS di qualsiasi analisi sulla dotazione di risorse, forse contenuta nella Valutazione strategica che dovrebbe essere allegata al piano, ma di cui il garante alla comunicazione del Comune non ha dato notizia. Ma, in un’ottica ancora più complessiva, è tutto il Piano strutturale – variante o non variante – che tradisce non solo la norma, ma lo spirito della legge di governo del territorio e del PIT, con buona pace dell’invariante strutturale ‘patrimonio collinare ‘ che in quella parte di territorio vieta lottizzazioni residenziali. Basti dire che, incredibilmente lo Statuto del territorio (che nelle NTA viene ancora chiamato ‘dei luoghi’) non contiene né l’individuazione delle invarianti, né una qualunque disciplina di tutela ambientale e paesaggistica, limitandosi a indicazioni generiche, non statutarie, e rimandando ogni eventuale disciplina al Regolamento urbanistico. La Variante al PS ha, evidentemente, un unico scopo: tentare di sanare il cumulo di atti illegali pregressi, mettere al riparo i responsabili dalle incriminazioni passate e future della Procura della Repubblica e accontentare società immobiliari e costruttori.
La Variante ora adottata dovrà essere esaminata dagli uffici della Regione. Sarà interessante vedere se questi non avranno nulla da obiettare (come è avvenuto in passato in tutto l’iter del Piano integrato di intervento e delle varianti al regolamento urbanistico) o se la Regione eserciterà il suo ruolo di garante del rispetto della legge nei confronti dei cittadini. I quali confidano che la nuova amministrazione regionale segni un punto di svolta in materia urbanistica rispetto a quella precedente.
Qui il link ai documenti della Variante, per valutare e, se credete, presentare osservazioni