E’ da diversi anni ormai che la pratica urbanistica si fa senza più pensare alla città, ai bisogni e ai problemi reali. I meccanismi di finanziarizzazione che hanno trasformato la città in merce di scambio nelle transazioni finanziarie sono ormai noti anche al grande pubblico. Tutti stiamo ancora vivendo in pieno gli effetti di una crisi che ha avuto origine proprio lì in quei meccanismi. E’ forse il caso di non parlare più di urbanistica, quello cui assistiamo, sono pratiche degradate, che hanno perso qualsiasi riferimento all’urbs e ancora di più alla civitas: sono faccende immobiliari tecnicamente assistite.
A Roma il divorzio tra l’urbanistica e la città è evidente, è palese. Negli ultimi anni in diversi modi abbiamo testimoniato di questa condizione parlando del disagio abitativo e di come i meccanismi di valorizzazione del patrimonio residenziale esistente, che soggiacciono ai meccanismi finanziari, hanno comportato l’impoverimento dell’ex ceto medio. La conseguenza, forse la più grave, è stata negare il diritto alla città a una fascia crescente di popolazione. Nel 2008 sono stati quasi 30 mila i residenti romani che si sono cancellati per andare a vivere nei comuni della provincia: da Orte in giù, in su e di lato, con una crescita del 14% rispetto all’anno precedente.
L’urbanistica “degradata” a leva economica e finanziaria è stata frequentata soprattutto dagli interessi privati e dalla necessità di fare leva per investimenti spesso a debito, è così che si sono realizzati plusvalori enormi da reinvestire nella ristrutturazione di imprese, nella riconversione, o in meccanismi di patrimonializzazione (si pensi solo a cosa è stata l’avventura Telecom Italia per la Pirelli).
Oggi il Comune di Roma si comporta allo stesso modo, l’urbanistica serve a fare cassa e “tentare” di salvare l’ATAC. L’azienda di trasporto pubblico, investita pochi mesi fa dallo scandalo parentopoli, ha un passivo di 319,1 milioni di euro, debiti in crescita e si rischia il fallimento. Così l’amministrazione ha deciso di mettere in “vendita” i depositi dei tram, degli autobus e tutti quegli immobili complementari al trasporto pubblico che non sono più necessari a svolgere il servizio. Un patrimonio importante, per volumi e superfici, che in molti casi è collocato in zone centrali della città. Questo della valorizzazione era un pensiero che aveva già fatto l’amministrazione Veltroni quando avviò la dismissione del deposito Atac di via della Lega Lombarda (un’area a pochi passa dalla stazione Tiburtina). Un pensiero che trova riscontro in una specifica norma del piano regolatore vigente, quello approvato nel 2008, che nel comma 4 dell’art.84 prevede che nel caso di dismissione di questi immobili è obbligatorio redigere un Programma generale che individui “la SUL massima consentita, ferma restando la volumetria (Vc) esistente e fatti salvi comunque i limiti e le condizioni derivanti dall’applicazione della disciplina di cui all’art. 94, commi 9 e 10”. Limiti che fissano l’indice di edificabilità territoriale al massimo “pari a 0,5 mq/mq, di cui almeno la metà da destinare a servizi o spazi pubblici d’interesse generale o locale”.
La norma afferma tre principi essenziali: nessun incremento di volume, superficie edificata, quindi la SUL, pari a non più di 0,5 mq/mq di suolo e individuazione delle funzioni da inserire avendo cura di guardare la compatibilità con l’intorno. Tre principi che però non sono quelli che la Giunta Alemanno ha intenzione di affermare: così nella delibera con cui si vuole approvare il Piano Generale per la dismissione del patrimonio immobiliare ATAC si legge che i limiti imposti dalla norma di piano, la volumetria esistente, la Sul max e l’obbligo di riservare almeno metà della nuova edificazione a servizi pubblici “limitano i potenziali ricavi derivanti dalla alienazione delle aree”. Insomma così non si fanno soldi e non si salva l’ATAC!
Al sindaco non viene il dubbio che in talune aree quella dotazione di servizi non solo è necessaria, ma forse è insufficiente per riuscire a dare vivibilità alla città esistente. Insomma i soldi prima di tutto! Così con questa premessa il “Piano generale per la riconversione funzionale degli immobili non strumentali al trasporto pubblico locale” in discussione, e forse in approvazione, nella seduta del Consiglio comunale di Roma del 16 Giugno (oggi) opera una sequenza di forzature e di interpretazioni delle norme di piano al solo fine di poter disporre della volumetria massima possibile in ogni area oggetto di valorizzazione. Il risultato finale (calcolato per difetto) è che sui 130.500 mq di superficie territoriale interessati dalla valorizzazione, dove si potevano fare, a norma di piano circa 65.000 mq di Sul, di cui la metà da dare a servizi per il quartiere, se ne vogliono fare 141.500 (più del doppio) senza più alcun vincolo per i servizi. Ad esempio, nell’ex rimessa di San Paolo si potranno fare 18.500 mq di SUL (secondo il piano dovevano essere 5.000 mq), e una parte sarà anche a residenza per 240 abitanti. L’ex Rimessa Vittoria, nel quartiere Prati, avrà una capacità edificatoria di 18.500 mq di Sul, invece di circa 8.000 mq consentiti dal piano vigente, e gli esempi potrebbero continuare.
Si può condividere che anche la norma vigente del piano deve essere oggetto rivista perché comporta un eccesso di meccanica algebrica lì dove invece i problemi sono complessi e articolati e dove ogni area fa storia a sé. Si vuole cambiare la norma? Lo si faccia, non è certo nella difesa acritica dell’attuale norma che ci si vuole attestare. Ma non la si può cambiare così, dichiarando per altro, la conformità al piano (sic!). Una procedura che rende debole il Piano e lo fa facile oggetto delle successive contestazioni. Se c’è una differenza con la giunta precedente forse è proprio qui, nei modi. Probabilmente si sarebbe arrivato a risultati non tanto diversi ma lo si sarebbe fatto con un po’ meno di superficialità di approssimazione e di inconsistenza tecnica.
Una città capitale non può trattare in questo modo processi di riconversione così importanti e decisivi per le sorti future della città, non può affidarsi a un così basso livello di pensiero dominato dal solo criterio della mercificazione della città. Si predisponga un piano serio, dettagliato per ogni area, si sottoponga ad una analisi attenta ogni area e il suo contesto potendone definire non solo le quantità ma anche la sostenibilità delle funzioni, la qualità delle trasformazioni che si vuole conseguire, si dia vita a una operazione di alto livello che possa essere di esempio per tutte le altre iniziative, e nei prossimi anni saranno sempre di più, che riguardano la riconversione e la trasformazione della città esistente.
Sindaco si fermi; se si vuole risanare l’ATAC questa è la strada peggiore: così si affossa l’azienda, si sperpera il suo patrimonio immobiliare e si aprono anni di contenziosi che saranno pagati a caro prezzo dal’azienda. Per non parlare delle conseguenze negative sulla città; ma questa non è più oggetto dell’urbanistica capitolina.
"Nel nostro momento di massimo splendore noi italiani siamo stati promotori di esperienze culturali straordinariamente innovative. Oggi siamo diventati i guardiani notturni del nostro eccezionale patrimonio, siamo davvero gli eredi più inadeguati di quella cultura che vogliamo tesaurizzare". E ancora: "Se vuoi congelare un luogo questo si trasforma in un parco a tema, i centri storici di Venezia e di Firenze sono esempi lampanti di un modo sbagliato di fare cultura e i visitatori si adeguano a questo mutato sentire e utilizzano i bellissimi ambienti urbani come fondali per foto ricordo". È questo il pensiero espresso in: "Italia reloaded. Ripartire con la cultura" (il Mulino), l´opera di Christian Caliandro, dottore di ricerca in Storia dell´Arte, e di Pierluigi Sacco, professore alla Iuav di Venezia. Alla Fondazione Bruno Kessler, per il Festival dell´Economia di Trento, i due autori si sono intrattenuti, il 4 giugno con Paolo Legrenzi, psicologo economico e professore alla "Ca´ Foscari" di Venezia, e con Tonia Mastrobuoni, giornalista de "La Stampa". "Purtroppo in Italia - ha esordito Tonia Mastrobuoni - il dibattito in merito alla conservazione dei beni culturali si sta concentrano sulla disponibilità dei fondi, si è perso di vista da molto tempo un tema cruciale, ovvero come la cultura viene fruita dal pubblico". Argomento centrale invece nel libro di Caliandro e Sacco che, sulla base anche di alcuni sondaggi effettuati sui visitatori dei musei italiani, esprimono l´idea di una fruizione passiva dei beni culturali. "La società italiana alla fine degli anni ´70 è precipitata in un vortice - ha commentato Christian Caliandro - in una sorta di smarrimento, di decomposizione, come rendono bene alcuni zombie movies del periodo. C´è stata, in sostanza, una sorta di rimozione del passato, di rimpianto e nostalgia, che si è tradotta in assenza di memoria. Questa in buona sostanza è la condizione propria dello zombie; noi viviamo fra le rovine di strutture costruite e prodotte da una cultura precedente". Negli ultimi anni, accanto a un fenomeno collettivo di rimozione, si è affiancato un modo di intendere la cultura strettamente economico: "Ormai le manifestazioni culturali si leggono in termini economici, di marketing - ha spiegato Paolo Legrenzi -, ovvero quante persone hanno visitato la mostra, quanti soldi sono stati incassati, quanto è stato l´indotto complessivo. È un fenomeno che riduce e svilisce la nostra cultura, che riduce i gusti delle persone alle scelte che essi fanno e a ricavare l´assetto culturale di un intero paese dalle preferenze delle persone". L´effetto sui nostri centri storici più belli è stato devastante: "Sono ormai ridotti a parchi tematici, a sfondi per le foto ricordo e per le cartoline - sono state le parole di Pierluigi Sacco -. Venezia ha 20 milioni di turisti all´anno, ma è una città fatta per ospitarne 100 mila ed è evidente l´impatto che questo può avere sulla sua sostenibilità. Si sta desertificando, sta perdendo la memoria di ciò che è, rimane solo un immenso bed&breakfast, una grandissima vetrina incapace di produrre nuovi significati, nuova cultura". Ma la strada d´uscita è indicata da alcuni esempi virtuosi: "Trento, ad esempio, è una delle culle italiane di un nuovo modello di sviluppo, in grado di produrre sistemi di contenuti - ha concluso Sacco -. La sintesi a cui guardare non è il binomio tra patrimonio culturale e turismo, ma quella fra patrimonio e information technology, ovvero l´utilizzo della tecnologia per trasmettere contenuti e informazioni. Dobbiamo creare energia nuova attorno a queste progettualità, come stanno facendo tutti i paesi emergenti, perché le opportunità culturali hanno effetti sull´innovazione, sulla coesione sociale, sul benessere; pensiamo ad esempio alla Corea del Sud, che sta investendo miliardi per creare una piattaforma culturale. Solo attraverso un percorso che intreccia information technology e cultura, quest´ultima potrà trasformarsi e diventare motore dell´economia".
La domanda sarebbe stata: «In che rapporti è con lo studio Nespor (che ha firmato i ricorsi contro il Pgt)? Non teme che qualcuno sventoli il conflitto di interessi?» . Ma Ada Lucia De Cesaris, neo assessore all’Urbanistica e all’Edilizia privata, non lascia il tempo di articolarla. Gioca d’anticipo e stoppa con quattro parole le polemiche presenti e future.
«Non siamo soci di studio» .
Non per niente è avvocato. E aggiunge:
«Non nego che da due anni condividiamo i locali dello studio, dividiamo l’affitto, e che in alcune vicende che riguardano alcuni ricorsi siamo stati insieme in mandato» .
In tema di ricorsi contro il Pgt?
«Non ero nella squadra che ha ricorso contro il Piano di governo del territorio, né mi è stato chiesto di esserci. Non facevo il politico ma l’avvocato. E sono amministrativista, quindi ciò che mi interessa è capire se un provvedimento è legittimo oppure illegittimo. Difendo e ho difeso molte amministrazioni, anche amministrate dalla destra, come il Comune di Brescia, da molti anni. E anche molte imprese. Ho una lunga storia di consulenza con Assolombarda» .
Assessore bastano un acronimo, Pgt, e una sigla, Expo, per capire che dai suoi uffici passerà lo sviluppo della città. Quanto tempo ha riflettuto prima di accettare l’incarico?
«Ventiquattro ore. E da quel momento ho smesso di dormire. Ma nella vita mi occupo di diritto amministrativo, perché mi piace la macchina amministrativa, e per chi ha una formazione come la mia questa un’occasione straordinaria. Come si fa non partecipare, a tirarsi indietro?» .
La macchina amministrativa però non ha un grande appeal sui cittadini.
«Ha molti difetti, ma è una macchina straordinaria e può funzionare bene. Credo molto nella possibilità che possa garantire la qualità della vita delle persone» .
Uno dei suoi obbiettivi prioritari?
«Garantire che gli interventi siano fatti nel totale rispetto delle leggi. Costruendo la semplificazione senza tuttavia rinunciare ai controlli. Non dobbiamo avere paura della semplificazione, ma non deve diventare un alibi per non controllare» .
Il tema dei ricorsi sul Pgt è bollente. Preoccupata?
«No, lo affronteremo. E se l’amministrazione precedente ha compiuto degli errori noi li correggeremo» .
Un secondo dopo la pubblicazione del Pgt nell’albo pretorio e in gazzetta. Come superare l’inevitabile empasse?
«Prenderemo una decisone dopo aver approfondito ogni questione» .
Quale delle due ipotesi, non pubblicarlo o ritirarlo, ritiene più verosimile?
«Sono possibili diverse soluzioni» .
Quindi?
«Troveremo la giusta via, sceglieremo la soluzione che riterremo migliore. Cercheremo di fare ciò che è nell’interesse del territorio e della collettività, anche tenendo conto delle esigenze degli operatori privati» .
Tra i suoi interlocutori ci saranno gli imprenditori.
«Abbiamo bisogno degli imprenditori di questo settore, insieme a loro dobbiamo costruire una città bella, vivibile e moderna. Anche loro devono essere tutelati. E proprio per questo l’amministrazione deve funzionare bene, avere regole certe. Se elimineremo ciò che impedisce il buon funzionamento della macchina, ne avranno agio tutti, e quindi anche gli operatori economici del settore» .
Si spera che la cautela del neo assessore all’Urbanistica e all’Edilizia privata non nasconda un pesante passo indietro rispetto agli impegni assunti dal sindaco Pisapia nella campagna elettorale. Ricordiamo quando affermò che «un gruppo di lavoro molto robusto - uno di quelli della mia officina - che raccoglie grandissime professionalità del mondo dell’università e del lavoro», stava già lavorando al nuovo Pgt, il quale sarebbe stato pronto in sei mesi su basi radicalmente alternative a quelle dominanti nel Pgt Moratti (si veda la sua intervista intitolata da la Repubblica, il 29 gennaio scorso, “ In sei mesi faremo un nuovo piano per i cittadini, non per i poteri forti”) .
Se nessuno ha indotto Pisapia a cambiare idea, sembra ovvio che il Pgt, approvato dal disciolto consiglio comunale con procedure di dubbia legittimità e indiscutibile frettolosità, non deve essere ratificato dalla nuova maggioranza, né quindi pubblicato sul BUR. Altrimenti sarà chiaro che gli “imprenditori” cui si riferisce Ada Lucia De Cesaris non sono quelli che mirano al profitto ottenibile dalle attività costruttive, ma semplicemente i soliti immobiliaristi pronti a guidare le decisioni pubbliche per mietere rendite sempre più alte.
Appello al ministro dei Beni Culturali Giancarlo Galan: salvare l’architettura italiana del secondo Novecento
Gli edifici costruiti in Italia a partire dagli anni ’40 sottratti, in pratica, alla tutela delle Soprintendenze. Mano libera agli enti proprietari (Comuni e altri enti pubblici, anche religiosi, no profit) di manomettere o vendere stabili anche di alto pregio architettonico. Parere non più vincolante degli organismi di tutela e introduzione del silenzio/assenso sui progetti di modifica scaduti i 90 giorni dal ricevimento dei progetti. Ecco alcuni degli effetti disastrosi del Decreto legge per il rilancio dell’economia che consente, di fatto, alle proprietà immobiliari di fare quello che vogliono anche dell’architettura “firmata”che abbia meno di 70 anni (contro i 50 prescritti della legislazione precedente, dalla legge Nasi del 1902 alla legge Bottai del 1939, al recente Codice per i beni paesaggistici).
Rivolgiamo pertanto un pressante appello al ministro per i Beni e le Attività culturali Giancarlo Galan affinché faccia tutto il possibile – come ha assicurato in sede di Consiglio Superiore a fronte della denuncia del presidente del Comitato di settore Paolo Portoghesi – per evitare questo ulteriore gravissimo indebolimento di regole e tutele a danno del paesaggio e dell’architettura italiana di qualità.
Un periodo fondamentale della storia dell’architettura verrebbe altrimenti sottratto alla tutela. Rischiano di essere manomesse o demolite opere importanti di autori quali Gardella, BBPR, Libera, Moretti, Quaroni, Scarpa, Michelucci, solo per citare i nomi più noti, cioè la testimonianza materiale della ricostruzione del Paese e che rappresentano l’originale via italiana all’architettura moderna oggi
Per effetto di tali modifiche, infatti, alcuni tra gli interventi più significativi dell’architettura contemporanea, riferita sostanzialmente al secondo Dopoguerra, qualora non siano già stati sottoposti a tutela prima del 14 maggio 2011, risulterebbero esclusi, per legge, dal regime di salvaguardia finora vigente, tra cui i notevoli, numerosi e significativi interventi realizzati in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960, con opere dell'ingegno riconosciute in ambito internazionale, tra cui, solo a titolo esemplificativo:
- il Palazzo dello Sport dell'Eur (1956-1960) di Marcello Piacentini e Pier Luigi Nervi;
- il Palazzetto dello Sport in Viale Tiziano (1958-1960) di Annibale Vitellozzi e Pier Luigi Nervi;
- lo Stadio Flaminio (inaugurato nel 1959) di Antonio e Pier Luigi Nervi;
- il Villaggio olimpico (1958) di Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti e Vittorio Monaco;
Altra modifica nefasta al Codice, la soppressione dell’obbligo di denunciare il trasferimento della detenzione di beni immobili vincolati. Articolo della legge Bottai che viene improvvisamente cancellato togliendo all’Amministrazione dei Beni culturali la possibilità di sapere, in ogni momento, chi è il soggetto che ha la materiale disponibilità di un bene vincolato, e quindi è responsabile del rispetto delle regole di corretta conservazione dello stesso. E quindi di esercitare le funzioni istituzionali di vigilanza sugli immobili vincolati,
Infine, con la lettera e) del comma 16 dell’articolo 4 del Decreto legge n. 70/2011, è stata introdotta la modifica forse più rilevante al Codice, che incide sull’articolo 146 in materia di autorizzazione paesaggistica.
Come si sa, al momento, il parere che il Soprintendente è chiamato a dare per gli interventi da attuarsi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico è vincolante, e passerà da vincolante ad obbligatorio una volta che i vincoli paesaggistici siano stati dotati delle prescrizioni d’uso, ovvero che le Regioni abbiano provveduto a rivedere, d’intesa con le Soprintendenze, le loro pianificazioni paesistiche per adeguarle alle nuove prescrizioni dettate dal Codice in materia (ed i Comuni abbiano poi adeguato le loro pianificazioni urbanistiche). La nuova disposizione stabilisce che il parere del Soprintendente, una volta che sia divenuto obbligatorio, debba essere reso nel termine di 90 giorni dalla ricezione del progetto, altrimenti esso è da intendersi reso in senso favorevole. In pratica, è stato introdotto il silenzio-assenso in materia di autorizzazione paesaggistica, sia pure dopo che si sarà provveduto a tutte le incombenze procedurali sopra richiamate.
Rivolgiamo pertanto un pressante appello al ministro Galan affinché vengano eliminate queste disastrose modifiche al Codice, e si torni a garantire piena ed efficace tutela, per legge, ad un ricchissimo patrimonio di beni pubblici e di paesaggi di qualità, diffuso in tutto il Paese, riconoscendo piena dignità storico-artistica all’architettura italiana del secondo Novecento (che è, largamente, di proprietà pubblica o no-profit).
Irene Berlingò, presidente di Assotecnici,
Marisa Dalai, presidente dell’Associazione R. Bianchi Bandinelli,
Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza
Stefano Boeri, coordinatore degli architetti che hanno elaborato il masterplan di Expo 2015, vota sì al terzo quesito dei referendum ambientali milanesi, quello che chiede "la conservazione integrale del parco agroalimentare" che sarà realizzato sul sito dell´Esposizione universale. Perché?
«Un investimento pubblico di grande rilievo come quello previsto per Expo deve potersi trasformare in un regalo per la città e il territorio milanese. La realizzazione di un parco agroalimentare sarebbe la migliore eredità che l’Esposizione può lasciare a Milano, non solo come risorsa ambientale, ma anche culturale, turistica e produttiva».
L’intesa tra il neosindaco Giuliano Pisapia e il presidente della Regione Roberto Formigoni di procedere con la newco per acquistare i terreni da Fondazione Fiera e Cabassi va in questa direzione?
«Nel dossier di Expo la somma delle costruzioni permanenti arrivava a un tetto massimo di 220mila metri quadrati, che equivale a un indice di edificazione di 0,2, una cifra ragionevole. Ora la valutazione di vendita delle aree è stata fatta su un indice di 0,52 che farebbe crescere le volumetrie a 720mila metri quadrati. Mi pare una strada diversa da quella di costruire un grande parco agroalimentare da lasciare a Milano».
È ancora possibile cambiare rotta?
«Certo. Per questo invito tutti i milanesi a votare sì al terzo quesito dei referendum in modo da dare un segnale chiaro: correggere ogni ipotesi di stravolgimento del progetto originale ed eccessiva costruzione».
Si riferisce alla decisione di abbandonare l’idea iniziale di orto planetario?
«La scelta recente della società Expo di cambiare il progetto rende difficile realizzare il parco un domani».
Come dovrebbe essere questo parco agroalimentare?
«Lo immagino come un parco che in larga parte mantiene le caratteristiche del progetto presentato e approvato a novembre scorso al Bie di Parigi. Una zona di serre bioclimatiche dove si fa ricerca e divulgazione sul rapporto tra agricoltura e natura, e un’area di coltivazione dove al posto delle filiere dei 130 paesi ospiti di Expo ci saranno le 21 regioni italiane con i loro prodotti. Questa come base di partenza su cui si possono costruire diverse iniziative».
Per esempio?
«La cosa più bella sarebbe trasformare i lotti di terreno coltivato in luoghi per mostrare le eccellenze delle filiere italiane e come location per un Salone internazionale dell’agroalimentare che potrebbe svolgersi in ottobre, come contraltare del Salone del mobile di aprile. Sarebbe un’occasione per far venire ogni anno il mondo dell’alimentazione a Milano, favorire il commercio e i rapporti internazionali. Si potrebbe pensare anche a un fuori salone che coinvolga la ristorazione e il sistema del commercio».
Fare di Expo un evento permanente, quindi?
«Perché no? Un parco agroalimentare sarebbe un’attrazione in ogni giorno dell’anno».
Chi dovrebbe gestire il parco? E con quali risorse?
«Durante la stesura del masterplan abbiamo fatto uno studio attento del mercato e abbiamo già attivato i contatti con alcuni gestori di parchi a tema. In Cornovaglia, per esempio, c’è un parco simile, l’Eden Park, che registra un milione e mezzo di visitatori l’anno ed è in capo al mondo. Per la parte invece degli orti regionali credo che non sarà difficile trovare la collaborazione degli enti locali».
Il Parco Agricolo Sud è minacciato dalla speculazione Il Fondo ambiente italiano in campo per salvarlo - Sentieri segreti, corsi d´acqua e antiche abbazie in un´area di quasi 50mila ettari - Una lettera di Pisapia: "Cari amici, difendiamo insieme questo tesoro"
C´è uno straordinario immenso parco agricolo, ricco di cascine, abbazie, vecchie stalle e antichi fontanili, piccoli centri storici, corsi d´acqua, sentieri segreti e meravigliosi campi coltivati, praticamente sconosciuto nonostante si trovi alle porte di Milano. E che proprio per questo potrebbe diventare un modello europeo di parco agricolo culturale periurbano, in vista dell´Expo 2015 il cui tema è «Nutrire il pianeta. Energia per la vita».
A lanciare la sfida perché i 47 mila ettari del dimenticato Parco Agricolo Sud, che comprende 61 comuni della provincia di Milano, capoluogo compreso, vengano valorizzati e soprattutto difesi, con il lancio di un grande progetto di riscoperta, battezzato «La strada del latte e dei formaggi», è il Fai, il Fondo Ambiente Italiano, appoggiato dalla maggioranza dei sindaci della zona. «Grandi pericoli incombono su questo gioiello ambientale, che miracolosamente si è salvato fino ad oggi, nonostante la vicinanza con la città - denuncia combattiva Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente onorario del Fai - Primi fra tutti le cosiddette «infrastrutture»: un´immensa nuova tangenziale esterna, bretelle autostradali, strade, autostrade, raccordi. Sarebbe la fine del parco agricolo, la sua frantumazione, il disfacimento del suo tessuto, l´impossibilità di disporre di aree omogenee. Per non parlare dell´inquinamento ai bordi dei campi coltivati».
La fondatrice del Fai ce l´ha in modo particolare col presidente berlusconiano della Provincia, Guido Podestà, che ha giustificato i nuovi progetti autostradali dichiarando: «Il parco Agricolo Sud non è un totem». «Si sbaglia di grosso - tuona Giulia Maria Mozzoni Crespi - Questo parco invece deve diventare proprio un totem per Milano. Il simbolo di un paesaggio finalmente da salvare». Una posizione ambientalista che sembra godere dell´appoggio del nuovo sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, che ha inviato ieri una lettera significativa: «Cari amici del Fai, difenderemo insieme il Parco Sud dalla speculazione, dalla cementificazione, da un modello vecchio di sviluppo economico basato sul consumo indiscriminato di quanto abbiamo di più prezioso».
Sabato 1 e domenica 2 ottobre prossimi partirà il progetto quinquennale "La strada del latte e dei formaggi" in collaborazione con Expo 2015 spa e Cia Lombardia, la Confederazione italiana agricoltori, che accompagnerà i cittadini con eventi e iniziative dedicate, fino al 2015, per valorizzare le attività agricole tipiche, aprire alla visita le cascine, far apprezzare i prodotti, promuovere una rete di piste ciclabili nella zona e sostenere la cultura del territorio. Sarà possibile conoscere lo straordinario sistema delle acque del parco. Una rete di rogge derivate dai navigli e dal canale Villoresi. E poi gli antichi fontanili, ecosistemi unici e preziosi sia dal punto di vista ecologico che da quello storico-culturale.
MILANO - Due faldoni di delibere. Sono decine di progetti, di tutti gli assessorati e arrivati a diversi stadi di avanzamento, su cui il nuovo sindaco Giuliano Pisapia dovrà ora mettere mano: per decidere se confermare le intenzioni della giunta precedente e, soprattutto, verificare che in cassa ci siano i soldi per sostenerli.
Come il lavoro, avviato assieme alla Camera di Commercio, per la Galleria: in marzo, la giunta Moratti ha dato il via libera al bando che affida in concessione per 18 anni a un unico gestore la superficie lorda di circa 5 mila metri quadrati della zona di via Foscolo, da McDonald's (cui non è stato rinnovato il contratto di affitto) ai palazzi in parte ancora abitati. L'idea è di pensare uno sviluppo in verticale, sfruttando anche i piani alti e affidandosi ad un solo gestore: al bando hanno risposto Apple, Prada e Gucci. In teoria va costituita una commissione che valuti le proposte.
Altro progetto è quello del cambio di molte sedi del Comune, oggi sparse in diversi immobili, che andrebbero trasferite negli immobili di viale Jenner o in via Bernina: lì traslocherebbero gli uffici attualmente dislocati in largo Treves, in via Porpora e in via Santomaso. E farebbero gli scatoloni anche i vigili urbani, perché uno dei progetti per recuperare entrate era quello di mettere in vendita l'immobile di piazzale Beccaria, storica sede dei ghisa.
E i parcheggi? In campagna elettorale,Pisapia ha annunciato che non si realizzeranno quelli di piazza Sant'Ambrogio e di piazzale Lavater. Ma gli impegni con i costruttori sono molto avanzati e quindi inevitabilmente si arriverà a contenziosi legali: qualcuno ha già stimato che questa decisione potrebbe costare al Comune una decina di milioni di euro.
La Moratti aveva anche dato grande risalto al progetto per il wi-fi, che del resto è stato anche uno dei punti di forza della campagna elettorale del centrosinistra. È partita la sperimentazione di piazza Duomo, che dovrebbe espandersi sulla città: ma il centrosinistra potrebbe rispolverare il progetto presentato a inizio legislatura.
Altro tema è quello delle politiche sociali. I bilanci del Comune dimostrano che dal 2007 ad oggi in questo settore sono stati investiti circa 800 milioni di euro in più all'anno, con l'ampliamento dei custodi sociali, la distribuzione a pioggia dei buoni bebè, dei buoni libro per i ragazzi che frequentano le medie e così via. Pisapia manterrà inalterati i servizi, considerata la crisi del bilancio?
Cultura. L'architetto Daniel Libeskind sta preparando il progetto esecutivo per il Museo dell'Arte Contemporanea che, come ha sostenuto la Moratti prima di lasciare il suo ufficio, Pisapia potrà inaugurare a costo zero. In realtà ci sono sempre le spese di allestimento e di gestione: stesso problema per il Museo delle Culture del Mondo, che sta nascendo nell'area ex Ansaldo su progetto dell'archistar inglese David Chipperfield e che dovrebbe essere inaugurato nel 2012: ma chi si occuperà (e come si pagheranno) gli eventuali allestimenti?
Le incognite sono decine: che fine farà il progetto di riqualificazione della piscina Caimi, che dovrebbe nascere dall'intesa fatta con la Fondazione Pier Lombardo? E il progetto di Sogemi (un piano industriale da 45 milioni di euro, già passato in consiglio) per riqualificare i mercati? E l'ipotesi di ampliare il Castello con ristorante e la ristrutturazione del Cortile della Rocchetta per rimettere a nuovo l'intera area? E Palazzo Dugnani che sarebbe dovuto essere concesso alla Camera della Moda? E l'Arengario-due, ovvero la realizzazione di una nuova struttura di fianco al Museo del Novecento con un passaggio sotterraneo? E il futuro del Parco delle Cave, ora che, eliminata Italia Nostra per la gestione di Boscoincittà, è in prorogatio l'accordo fatto con alcune associazioni a titolo sperimentale? Per non dire delle municipalizzate. Lasciando perdere i grossi nodi di A2A, Atm e Sea, entro il 2011 si deve decidere cosa fare di Milano Sport e di Milano Ristorazione: la normativa sui servizi pubblici locali prevede che o si mette a gara il servizio o si vende almeno il 40 per cento delle quote. Cosa deciderà il sindaco Pisapia?
Correttamente, mentre la gran parte della stampa nazionale e non (compresa la nostra legittima curiosità) si esercita nel toto-assessori, questo elenco delle questioni aperte prova a toccare un terreno più solido, almeno per capire se tira un venticello nuovo nell’idea di città, oppure se la tendenza più forte sarà una specie di business as usual rivestito di facce, toni, e slogan un po’ diversi.
Si nota come quasi tutti i “progetti” citati abbiano una forte valenza generale, per nulla simbolica: tanto per usare il primo caso, la trasformazione della Galleria da salotto di tutti i milanesi a shopping mall privatizzato non è esattamente un dettaglio insignificante, da derubricare a metodo più o meno efficiente di sfruttare economicamente gli immobili comunali. E gestirla e presentarla in questo modo potrebbe indurre a pensare a un approccio da “amministratore di condominio”, di cui non si sentiva il bisogno in modo particolare. Ovvero: che politica commerciale si intende perseguire per la città? Gli spazi, i tempi, l’accessibilità, la composizione dell’offerta, il rapporto col tessuto fisico e sociale, l’equilibrio fra centro e periferia, tutto si può ben riassumere (simbolicamente ma non solo) nel modo in cui sarà gestito il progetto Galleria.
Secondo caso quello dei progetti di parcheggi, che sarebbe da ciechi leggere esclusivamente come singoli interventi, casi più o meno eclatanti di sfregio estetico o impatto sulla qualità abitativa e simili. Non si possono leggere così, nella città del megatunnel, delle piste ciclabili taroccate, dei mezzi pubblici fantasma, dell’ecopass evanescente o solo punitivo. Ovvero: che si vuol fare della mobilità (la stessa per accedere al commercio di cui sopra)? Andare a pezzi e bocconi, magari con un po’ di attenzione in più alle proteste dei cittadini, o iniziare a pensare localizzazioni funzionali e flussi multimodali in modo più organico? Difficile non riuscire a far meglio della coppia comica Masseroli-Moratti, che verniciava biciclette sui marciapiedi spiegando ai pedoni che dovevano farsi da parte e lasciar spazio ai ciclisti, perché di ridurre la sezione stradale non se ne parlava proprio!
Infine, nella miriade di questioni aperte su completamenti e gestioni, si legge chiaro il ruolo più o meno attivo dell’amministrazione nel garantire una città viva, non solo nella libertà di far quattrini. Verde e cultura esistono davvero, anche nei quartieri, non solo nei comunicati stampa da mandare alle agenzie specializzate in ratings. Se c’è un’idea di città, insomma, deve battere anche piccoli colpi visibili. E se non c’è sarà meglio farsela venire (f.b.)
Demolito l’avversario, occorre ricostruire la città e consolidare una comunità rimasta allo sbando per troppo tempo. Giuliano Pisapia deve stare attento: lo attende una opposizione dura, accanita, aggressiva. Alla quale deve saper far fronte con equilibrio e moderazione. Lo ha capito bene Bersani, nel discorso poco trionfalista pronunciato subito dopo la vittoria: pacato e conciliante, seppure fermo e deciso; volto a spirito di collaborazione e non di contrapposizione.
Pisapia deve stare fermissimo nella difesa degli obiettivi politici, ma nello stesso tempo essere disposto a dialogare con tutte le forze cittadine pronte a dare il loro contribuito. Fermissimo nel condannare il disastroso Piano di governo del territorio, ma disposto a concordare un nuovo sviluppo urbanistico, meno dissennato del precedente, con tutti i costruttori e gli operatori immobiliari della città. Questi eserciteranno forti pressioni per difendere le enormi quantità di metri cubi consentiti dal Piano attuale.
Pisapia all’inizio aveva detto che il Pgt sarebbe stato rifatto integralmente; ma alla fine, con nostro dispiacere, ha soggiunto che verrà modificato solo parzialmente. Un cedimento? Ora deve instaurare al più presto un accordo con i costruttori e far loro capire che la nuova amministrazione non rappresenta un pericolo né una minaccia per le loro attività. Essa si pone solo l’obbiettivo di indirizzare l’edificazione verso obiettivi più realistici e sani: meno case di lusso, più case sociali, meno opere faraoniche, come il tunnel Rho-Linate, e più opere urgenti, come i sovrappassi stradali negli incroci congestionati, i parcheggi periferici nei nodi di interscambio, i centri sociali e gli asili-nido nelle zone di periferia.
Dal momento che costruttori e operatori immobiliari sono forze di lavoro produttive, dalle quali dipendono le attività di molti collaboratori, fornitori, dipendenti, assumere verso di loro una ostilità preconcetta sarebbe un grave errore. Così come sarebbe un brutto atteggiamento da parte loro non accettare la mano tesa del sindaco. Se si intende attuare il lodevole proposito di dialogare con gli abitanti, occorre prepararsi ad ascoltare anche quelli di orientamento politico diverso o opposto. Prima di essere il rappresentante di un partito il sindaco è sindaco di tutti i cittadini. Così come un padre saggio è sempre pronto ad ascoltare e, se possibile, accontentare tutti i suoi figli, perfino quelli che stima meno, allo stesso modo un bravo sindaco deve essere sempre pronto a prestare attenzione e capire la ragioni di tutti i suoi concittadini, anche di quelli che sente meno vicini.
Una regola di comportamento non difficile da mettere in pratica: basta fare il contrario di ciò che ha fatto il sindaco precedente.
Nota: su questo sito ormai da anni si accumulano le osservazioni anche di carattere puntuale su cosa non va nel "manico" dello strumento di programmazione territoriale milanese. Alla vigilia delle elezioni abbiamo anche provato a fare il punto e questo è il risultato (f.b.)
Sulla città brechtiana dove tutto era permesso con il denaro, malgovernata da lustri dalle lobby neo-feudali incardinate nelle riunioni del lunedì ad Arcore, dove i vassalli collezionavano i pizzini del sovrano, ha soffiato il nuovo Vento del nord.
IL VENTO che porta a palazzo Marino Giuliano Pisapia, aspirante tardo epigono del riformismo ambrosiano. "Adesso mi aspetto il 25 luglio 1943, la data del Gran Consiglio del Fascismo che disarcionò Mussolini", esulta Piero Bassetti, primo presidente democristiano della regione Lombardia, che si è speso in campagna elettorale con il Gruppo del 51 (per cento), la cosiddetta borghesia illuminata rediviva, non solo contro la cricca spregiudicata che ha governato la città nel quinquennio del grande bluff di Letizia Moratti, ma per restituire a Milano il ruolo anticipatore di tutte le grandi svolte politiche del paese: il fascismo, la resistenza, l´immigrazione, il centrosinistra, il boom economico, il craxismo, infine il berlusconismo. «Quello che oggi pensa Milano - diceva Gaetano Salvemini - , domani lo penserà l´Italia».
Sarà Bossi il Dino Grandi del Terzo millennio o il Pdl imploderà da solo? Quel che è certo è che si profila qui, come a Napoli, a Cagliari, a Trieste, un nuovo blocco sociale. «Non solo tra i borghesi e gli intellettuali, ma tra i giovani, i ceti popolari, i disoccupati, l´associazionismo, i cattolici, per ricostruire questa città e questo paese dati in appalto per troppo tempo all´affarismo coniugato con l´incompetenza al potere», preconizza il neo-sindaco, che festeggia a piazza Duomo, in una Milano estiva che stasera sembra liberata da una "introversione regressiva". Così la chiama l´urbanista del Politecnico Matteo Bolocan, che denuncia l´anarchia urbanistica come l´unica cosa visibile di vent´anni di governo della destra.
A poche centinaia di metri dai festeggiamenti per Giuliano, come tutti ormai lo chiamano, svettano gli scheletri dei grattacieli di Garibaldi, di fronte a quello già imbellettato eretto da Roberto Formigoni a eterna icona del potere suo e dell´affarismo di Cl e della Compagnia delle Opere. La nuova stirpe dei «grattacielari» senza un disegno, se non quello dello sfruttamento della "leva finanziaria", cioè l´indebitamento con le banche, si è impossessata degli spazi lasciati vuoti dall´industria qui in centro e un po´ più in là, dove sorgeva la storica Fiera. Se la Moratti fosse stata rieletta sarebbero stati subito in ballo col nuovo Piano di Governo del Territorio altri 35 milioni di metri cubi, 100 nuove torri, o addirittura 341 secondo l´ambientalista Michele Sacerdoti. Si chiama "ridensificazione" la filosofia dell´assessore uscente Carlo Masseroli, 700mila abitanti in più vagheggiati per la città, con un tasso di densità che passerebbe da 7 a 12mila abitanti per chilometro quadrato, secondo il conto fatto dai tecnici di Milly Moratti, la cognata dell´ex sindaco. Peccato che non si venda o non si affitti un solo appartamento, i metri cubi si scambiano soltanto tra speculatori e banche come le figurine dei calciatori. Quando non sono grattacieli, sono loft negli ex capannoni industriali dismessi. Ce ne sono 70mila illegali, come quello dedicato a Batman dal figlio dell´ex sindaco Moratti, forse timorata di Dio e anche moderata, ma strumento malleabile nelle mani di un comitato d´affari con sede ad Arcore e con ciambellani del calibro di Bruno Ermolli, il Gianni Letta ambrosiano.
La "Peste di Milano" l´ha chiamata in un suo libro Marco Alfieri, una peste fatta di affarismo, ciellismo, berlusconismo, leghismo, avventurismo e trasversalismo del malaffare, che non nega neanche Bobo Craxi, figlio dell´inventore della Milano da bere, che con Tangentopoli aprì le porte al berluscoleghismo, dopo anni di riformismo che aveva fatto di Milano la capitale morale del paese: "Quando non c´è più la politica - dice - confliggono soltanto gli interessi". I protagonisti sono sempre gli stessi: Ligresti, estensione d´affari della famiglia La Russa oberato da miliardi di debiti, ma che - ci si può giurare - non faranno fallire, i Cabassi, venditori dei terreni dell´Expo ed acquirenti delle aree della famiglia Berlusconi a Monza. L´oggetto le aree edificabili, i tunnel, le metropolitane, la sanità. «Un´intera oligarchia adesso travolta dal voto», secondo Nichi Vendola, che, liquidati gli affaristi ambrosiani, sbeffeggia «la volgarità dei raffinati intellettuali della Magna Padania».
Poi, con i grattacieli e gli appalti, le fondazioni bancarie, la Scala, i musei, una cassaforte di 22 società partecipate, 70 altri enti e fondazioni con 3 miliardi di patrimonio e 13mila dipendenti, che si aggiungono ai 16mila comunali. Il gas, l´acqua, le fognature, i trasporti, la sanità. Migliaia di poltrone lottizzate tra Pdl, Cl e Lega in modo scientifico, come neanche erano riusciti a fare democristiani e socialisti. Milano in questi anni ha subito persino l´onta di Cesare Geronzi nella poltrona che fu di Enrico Cuccia, che anche la borghesia illuminata accettò senza battere ciglio.
«Non faremo prigionieri», proclamò l´avvocato Cesare Previti dopo una delle prime vittorie elettorali di Berlusconi. A Milano di prigionieri negli enti non ne hanno lasciato neanche uno, salvo quelli - non pochi - che negli anni si sono autoreclusi, facendo il salto della quaglia verso il potere pervasivo del berlusconismo. Pisapia, pur dolce e gentile, non sembra che intenda fare prigionieri.
Ma l´insipienza del berlusco-morattismo è stata certificata oltre ogni legittimo dubbio dalla vicenda dell´Expo 2015. Sono passati 1.160 giorni da quando Milano strappò a Smirne l´esposizione. Troppo pochi per il partito del "fare e dell´amore" che si è scannato pubblicamente in una rappresentazione fatta di dilettantismi, incapacità, tradimenti, imboscate, conquista di poltrone e prebende, sotto la regia dei signori del cemento, cui hanno assistito annichiliti i membri del Bureau International des Expositions. Il risultato è ad oggi zero. Del resto, la vicenda era nata sotto una pessima stella. L´azione di lobbying sugli altri paese del Bie, indovinate da chi era cominciata? Dalla Libia del colonnello Gheddafi e dall´Egitto di Mubarak, i due dittatori spazzati via poco dopo.
Ai milanesi non piace farsi prendere per i fondelli, dopo vent´anni di promesse al vento e di fuffa che l´economista Marco Vitale considera offensiva: «I musulmani, la Moschea, gli attacchi al cardinale Tettamanzi. Hanno trattato i milanesi da deficienti». «Cinquecento sgomberi di Rom ha fatto il vicesindaco De Corato», ha calcolato il neo-sindaco. «Risultato: ha speso 7 milioni e non ha risolto, ma ha aggravato il problema». Nel frattempo, un negozio milanese su cinque paga il pizzo alla ‘ndrangheta, che ha già allungato le mani sugli appalti per l´Expo, nella sostanziale indifferenza della giunta, del Consiglio comunale e anche del ministro dell´Interno Maroni. Cacciare gli immigrati, del resto, «significherebbe tagliare il 10 per cento dell´economia e mandare definitivamente a fondo Milano, una sciocchezza senza pari», avverte Bassetti.
Missione ardita per Giuliano, di fronte a quella che è stata definita la sindrome dello "sconfittismo di sinistra". A piazza del Duomo, Vendola inneggia stanotte ai "fratelli musulmani". Forse un lessico un po´ forte per una città che rimane moderata. Ma infiamma la piazza con le parole: «Ora prenderemo palazzo Chigi».
a. staterarepubblica. it
Modifiche al vincolo sul trasferimento dei beni di interesse culturale agli enti territoriali, al fine di sostenere il processo del federalismo demaniale. L'articolo 4 del Dl sviluppo (70/2011) contiene alcune disposizioni che impattano in maniera rilevante su questo fronte: i commi 17 e 18, introducono alcune correzioni al Dlgs 85/2010 (federalismo demaniale), mentre il comma 16 modifica il Dlgs 42/2004 (Codice dei beni culturali).
Quest'ultima disposizione – con l'obiettivo di accelerare il federalismo demaniale – semplifica il procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica nei Comuni che adeguano i propri strumenti urbanistici alle prescrizioni dei piani paesaggistici regionali.
Viene innovato l'articolo 10 comma 5 del Codice dei beni culturali, elevando da 50 a 70 anni la soglia d'età oltre la quale i beni immobili di proprietà pubblica sono sottoposti a un regime speciale. Tra le disposizioni di tutela previste dal Codice sono ricomprese:
- misure di protezione (articoli 21 e seguenti, che stabiliscono, tra l'altro, le tipologie di interventi vietati o soggetti ad autorizzazione);
- misure di conservazione (articoli 29 e seguenti, che includono anche obblighi conservativi);
- norme relative alla circolazione dei beni (articoli 53 e seguenti), nel cui ambito rientrano anche le disposizioni concernenti i beni inalienabili.
Con il prolungamento del termine da 50 a 70 anni, si sottraggono alla procedura dettata dall'articolo 5, comma 5, del Dlgs 85/2010 – in cui si prevede la necessità di un apposito accordo di valorizzazione con il ministero per i Beni culturali – un rilevante numero di immobili statali o di enti pubblici non economici, realizzati dopo il 1941, spesso privi di effettivo interesse culturale.
In coordinamento con questa norma, la lettera b) del comma 16 citato in precedenza sposta a 70 anni il limite di età dei beni immobili per i quali vige la presunzione di interesse culturale, fino a quando non sia stata effettuata la relativa verifica.
La verifica dell'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico (il cosiddetto "interesse culturale"), richiesto ai fini della definizione di bene culturale, è effettuata, d'ufficio o su richiesta dei soggetti cui le cose appartengono, da parte dei competenti organi del ministero per i Beni culturali.
In caso di accertamento positivo dell'interesse culturale, i beni continuano ad essere soggetti alle disposizioni di tutela. Nel caso di verifica con esito negativo, invece, vengono esclusi dall'applicazione di tale disciplina (comma 4). La lettera c) dispone l'inalienabilità dei beni immobili la cui esecuzione risalga ad oltre 70 anni, fino alla conclusione del procedimento di verifica del l'interesse culturale (articolo 54 comma 2 lettera a) del Codice).
Con la lettera d), che interviene sull'articolo 59 del Codice, viene circoscritto ai soli beni mobili l'obbligo di denunciare al ministero per i Beni culturali il trasferimento della detenzione, mentre permane, sia per mobili che immobili, con riferimento agli atti che ne trasferiscono la proprietà.
Infine la lettera e), semplifica il procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica conferendo al parere del soprintendente natura obbligatoria non vincolante, nei casi in cui i Comuni abbiano recepito nei loro strumenti urbanistici le prescrizioni del piano paesaggistico regionale e il ministero per i Beni culturali abbia valutato positivamente l'adeguamento. La stessa disposizione introduce il meccanismo del silenzio-assenso prevedendo che, qualora tale parere non sia reso entro 90 giorni dalla ricezione degli atti di positiva verifica e di prescrizione d'uso emessi dalla Regione e dal ministero per i Beni culturali, lo stesso si consideri favorevole.
Un assurdo, unanime coro di giubilo degli Amministratori Regionali, Provinciali e Comunali di maggioranza e opposizione ha salutato, il 24 maggio, l’avvio dei lavori per la realizzazione delle complanari sul tratto urbano dell'autostrada A24 (Roma-L'Aquila-Teramo). L'intervento, che sarà realizzato in stretta collaborazione con gli Enti locali, secondo quanto previsto dal Protocollo sottoscritto tra il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, l'Anas, la Società Strada dei Parchi, la Regione Lazio, la Provincia di Roma ed il Comune di Roma, della lunghezza complessiva di 14 km circa, ricade nella Regione Lazio interamente nell'ambito del Comune di Roma: internamente al Grande Raccordo Anulare, tra la Barriera di Roma Est e Via Palmiro Togliatti, ed esternamente fino alla barriera di Lunghezza.
L’importo dell’opera è quantificato in complessivi 255 milioni di euro, cofinanziati dai sottoscrittori del Protocollo stesso (il Comune di Roma parteciperà con 35 milioni) ed i lavori, che dureranno per 1120 giorni, prevedono la realizzazione di due nuove carreggiate parallele e complanari alla sede autostradale esistente per separare il flusso del traffico locale (p.e. quello da Ponte di Nona) da quello di lunga percorrenza proveniente soprattutto dall’Abruzzo.
Nella mente di chi esalta quest’opera essa è destinata a portare grandissimi benefici al territorio, fluidificando il traffico e riducendo i tempi di percorrenza. In realtà si tratta dell’ennesimo mare di cemento (tra le opere principali sono previsti p.e. i viadotti La Rustica, Aniene I, Aniene II, Cerroncino, Benzone, Montegiardino, Dell'Osa e Lunghezzina, nonché otto cavalcavia, cinque sottovia ed opere minori) destinato a stravolgere il prezioso sistema ambientale del quadrante est, costituito tra l’altro dal Parco della Cervelletta, dal Casale Bocca di Leone, dal Parco della valle dell’Aniene. Gli stessi abitanti di Colli Aniene dovranno assistere al drastico ridimensionamento del parco che i cittadini hanno curato e realizzato negli ultimi 20 anni a ridosso della bretella con la A24, proprio per avere una barriera di verde a protezione del rumore e delle polveri sottili che la trafficata arteria stradale produce giornalmente.
Centinaia di pulmann potranno così accedere più facilmente verso il centro della città, nuove migliaia di auto confluiranno quotidianamente su viale Palmiro Togliatti già gravato da una enorme mole di traffico in virtù anche della scellerata scelta della trascorsa Giunta comunale Veltroni di utilizzare come corsia preferenziale dei bus una delle tre corsie del Viale, anziché il disponibile square centrale. Aumenteranno la congestione da traffico e i tempi di percorrenza, i livelli di inquinamento atmosferico, acustico e ambientale, in una vasta area urbana fortemente antropizzata. Un futuro disastro voluto da Amministratori Regionali, Provinciali e Comunali incapaci di pensare, di progettare, di realizzare un sistema di mobilità non incentrato sull’automobile.
È lecito chiedersi: cosa si sarebbe potuto fare in alternativa e con le stesse risorse per migliorare la qualità della vita delle migliaia di pendolari che accedono a Roma dalla A24 ?
Sarebbe stata possibile una mobilità del trasporto pubblico su ferro alternativa a quella su gomma?
Sarebbe costato tanto trasformare la FM2 e l’antiquata Roma-Pescara, quest'ultima tutta o in parte, in ferrovie suburbane r interregionali moderne e tecnologicamente avanzate?
Quante decrepite stazioni di questa ferrovia e della FM2 si sarebbero potute attrezzare con parcheggi adeguati, rendendole accoglienti e sicure?
Si sarebbe potuto declassare il tratto autostradale della A24 fino alla barriera Roma Est, trasformarlo a 3 corsie per senso di marcia e utilizzarne una come corsia preferenziale per il trasporto pubblico?
Perché la Giunta Alemanno non ha mai voluto applicare la Delibera d’Iniziativa Popolare firmata da 11.000 romani e approvata all’unanimità nel 2006 dal Consiglio Comunale, per progettare e realizzare la tramvia/metropolitana di superficie Saxa Rubra – Laurentina, che collegherebbe tangenzialmente ben 6 municipi da Roma Sud a Roma Nord?
Tutto questo non accade per caso, solo per colpa di Amministratori incapaci e miopi.
Anche in questa vicenda, come in tante altre che hanno segnato il presente ed il futuro della nostra città, le Giunte che hanno governato e governano Roma ed il Lazio hanno sempre voluto dialogare solo tra loro e con gli imprenditori del cemento, non hanno mai attivato processi di partecipazione democratica, non hanno mai informato i cittadini, i loro Comitati, le Associazioni ambientaliste, non hanno mai voluto ascoltare le loro richieste e proposte.
"Il Pgt, che ora è realtà cambierà le nostre vite"
di Carlo Masseroli
Ho iniziato il mio lavoro di assessore all’Urbanistica cinque anni fa e ho incontrato cittadini, comitati, associazioni, imprese profit e no profit. Tutti si chiedevano perché non accadesse quella o quell’altra cosa, perché agli annunci letti non seguissero fatti, perché a servizi attesi o promessi non corrispondessero azioni concrete. Ho capito così la necessità di nuove regole per una città vivibile, libera e solidale. Il Piano di governo del territorio è nato per questo. La città, come ha ricordato il nostro arcivescovo nel "Discorso alla città" nella solennità di Sant’Ambrogio, è fatta di persone oltre che di case, è collegata da relazioni prima che da strade, illuminata dall’energia della solidarietà prima che dai cavi dell’elettricità.
È questa sfida la vera ambizione del Piano, sintetizzata nel titolo: Milano per scelta. Poter dire e sentir dire con convinzione io scelgo Milano. Scelgo Milano per vivere, per far crescere i miei figli per il mio business, per studiare, per divertirmi, scelgo Milano! Questo è il cuore del Piano, non ‘solo’ un piano urbanistico, ma un nuovo sistema di welfare. Provo a spiegarmi meglio: il principio di queste nuove regole è "Se scatena l’iniziativa delle comunità, dovremmo farlo. Se la ammazza, non dovremmo". E il risultato dell’applicazione di questo principio è in quattro fotografie, che possono ben rappresentare la Milano che continueremo a costruire.
Una casa per tutti. Perché tutti possano partecipare alla crescita della nostra città c’è bisogno che anche tu possa trovare una casa adeguata alle tue esigenze. Per questo il Pgt prevede di liberare le energie di chi sceglie Milano per accrescere le possibilità di viverci: dal mondo cooperativo alle banche, dalle istituzioni pubbliche e private ai singoli imprenditori. Case per studenti e residenze temporanee per professionisti; case in affitto, a riscatto o da comprare, con agevolazioni per giovani coppie, famiglie numerose, anziani, persone sole. Case in classe A, attente all’ambiente, al risparmio energetico e pensate per essere belle da vivere e da vedere. Perché tutti possano scegliere di vivere a Milano.
Nuovo verde. Grazie al Pgt, cinque nuovi parchi entro il 2015, 22 entro il 2030. Si tratta di nuovi spazi a verde per oltre 63 milioni di metri quadri: 120 volte il parco Sempione! A questo si aggiunge il Parco Sud, il più grande parco agricolo d’Europa che cinge la nostra città da est a ovest. Con Expo (il cui tema è "Nutrire il Pianeta. Energia per la vita") torneremo ad avere un mare fatto di spighe, di riso, di vivai. Ricco di agricoltori, allevatori e aziende agricole. Una risorsa preziosa per la città da far vivere attraverso i prodotti della terra, il recupero e la riconversione delle sue cascine. Riscopriamolo insieme. Dalle fattorie didattiche alla produzione a chilometro zero. Dalla carne ai salumi, dal latte ai formaggi.
Più servizi, più sicurezza. Il Pgt disegna la nostra città a partire dalle esigenze del tuo quartiere. Prevede l’affitto di spazi dedicati ai servizi per il cittadino al 30% del valore di mercato a chiunque intraprenda attività profit e non: dal negozio di vicinato all’incubatore d’impresa, dal laboratorio artigianale alle associazioni culturali e di promozione sociale, dalle palestre ai nidi d’infanzia. Questo si tradurrà in una maggiore offerta di servizi, più vicini a casa tua, raggiungibili a piedi in pochi minuti. Più servizi significano anche maggior sicurezza: un quartiere vivo e animato è senza dubbio un quartiere più sicuro.
Liberi di muoversi. Ti devi muovere. Lento, veloce, come vuoi. Una necessità che non deve trasformarsi in un incubo. Per questo il Pgt potenzia tutte le forme di mobilità collettiva e privata. In auto: abbiamo disegnato nuovi assi di attraversamento della città (come il tunnel da Linate ad Expo) e concluso la sperimentazione di Ecopass. In treno e metropolitana: grazie all’impulso di Expo abbiamo aperto sei nuove stazioni, avviato i cantieri di due nuove linee (M4 e M5) e disegnato la "circle line" milanese, che metterà a sistema il trasporto su ferro attraverso una metropolitana leggera da San Cristoforo a Garibaldi, passando per Rogoredo, Lambrate, Greco e Bovisa. In bici: per farti girare Milano sempre meglio stiamo realizzando la rete capillare di piste ciclabili in sede protetta. Alcuni itinerari sono già percorribili, altri in cantiere.
"Anno 2014, la metropoli è tornata un posto da vivere"
di Stefano Boeri
Poche ore fa mi ha chiamato un vecchio amico che ora è diventato il nuovo capo-ufficio stampa del sindaco Moratti. Non lo avevo mai sentito così agitato. «Stefano - mi ha detto - il Sindaco è in grande affanno… ha avuto un brutto incubo e non riesce a riprendersi…». Oh cielo, di che incubo si tratta? «Ha sognato di essere nel giugno 2014 e di tornare a Milano dopo 3 anni di riposo ad Antigua, ospite di un vecchio conoscente, anche lui in pensione da qualche anno. Bene, Letizia Moratti atterra a Linate e sgrana gli occhi: al posto del solito caos di taxi, macchine, valigie, c’è una piazza alberata con una stazione della metropolitana (proprio quella che lei non era riuscita a fare...) e - chi l’avrebbe mai detto? - un servizio di car sharing.
La Moratti non sa che fare, tentenna, ma le si avvicina un giovane dai lineamenti nordafricani che, con l’accento tipico dell’Ortica, le offre un passaggio in centro. Lei accetta e in pochi minuti, su viale Forlanini, si trova ad attraversare un vero e proprio bosco: aceri, querce, faggi, che fanno parte di quel grande anello di alberi che ormai circonda Milano e segna l’ingresso in città. Il ragazzo le fa un cenno con la mano e indica una costruzione in mezzo al parco: è una cascina, bellissima, piena di gente indaffarata: a scambiarsi ortaggi e frutta e latte e a discutere, incontrarsi, giocare e sopra il tetto della cascina una grande scritta in quindici lingue: «Benvenuti! Questa Cascina è un pezzo dell’Expo 2015. Mancano 330 giorni». «Corbezzoli! - pensa la Moratti - allora sono riusciti a farla, l’Expo…». Ma non fa in tempo a commentare, che la piccola macchina elettrica è già in viale Campania, e il giovane alla guida le passa un piccolo schermo portatile pieno di informazioni. «Sindaco, le dice, questo è quello che succederà stasera a Milano, mi dica cosa preferisce fare… tutta la città è connessa wi-fi e collegandoci con il navigatore possiamo arrivare in pochi minuti ovunque».
La Moratti sgrana gli occhi: uno spettacolo di Peter Brook al teatro Ringhiera alla Barona, tre concerti di giovani gruppi nelle piazze di Quarto Oggiaro, Niguarda, Corvetto. E ancora: una decina di installazioni e letture pubbliche grazie al nuovo Festival delle Riviste internazionali che inaugura quel giorno, e uno in particolare dedicato all’esegesi del Corano nella corte principale del Centro di Cultura islamica, progettato da un gruppo di giovani architetti israeliani. «Con tutta questa roba - pensa la Moratti - avranno chiuso la Scala…». E invece no: proprio quella sera, in cartellone alla Scala c’è l’ultima, trionfale, replica del grande concerto della giovane orchestra cosmopolita fondata e diretta a Milano da Claudio Abbado. Si suonano Bartók e Mahler e il Maestro ha appena partecipato alla collocazione degli ultimi alberi attorno al monumento a Leonardo Da Vinci. «Beh - pensa - Milano è diventata un divertificio…», ma appena rialza gli occhi, siamo ormai in viale Corsica e sono le 22, la città è ovunque accesa e viva.
Dalla scuola di via Mugello, aperta e illuminata, esce un gruppo di settantenni indaffarati, attraversano la strada e li si sente discutere tra loro di un progetto per un nuovo sistema di illuminazione della città; poco più in là anche la scuola materna di corso XXII marzo è aperta, e sono aperte le biblioteche di zona, e sono illuminate le vetrine affidate dal Comune alle piccole imprese innovative, agli artigiani, agli artisti, purché impieghino nel loro lavoro i giovani del quartiere... Tutta Milano vibra di gente che va e viene, cammina e si ferma sulle migliaia di nuove panchine e gira sulle biciclette realizzate dalle cooperative di artigiani dell’Isola. Acciderboli, pensa la Moratti, vuoi vedere che hanno riportato a Milano perfino le rondini? «Mi porti subito a Palazzo Marino», ordina con lo stesso tono cui di solito si rivolge al maggiordomo.
Il ragazzo la guarda, le sorride e la porta in piazza della Scala, a Palazzo Marino, nella sala Alessi, dove un sindaco diverso, con il viso gentile di Giuliano Pisapia, sta incontrando le delegate dell’Onu riunite per preparare a Milano la conferenza internazionale sulla Donna. È davvero troppo: Letizia Moratti si sveglia e si rincuora. È sul suo divano, circondata dagli amici più cari: il viso dolce della Santanchè, lo sguardo gentile di De Corato, il sorriso genuino di Red Ronnie… e la voce soave di La Russa che borbotta: «Letizia… abbiamo perso Milano!».
Da un certo punto di vista si potrebbe anche commentare: beh, non c’è partita, viva l’incubo della Moratti! Cosa del resto prevedibile, visto che l’Autore del secondo testo, a differenza dell’Assessore allo Sviluppo del Territorio, il comunicatore lo fa di mestiere da parecchi anni, e la differenza salta all’occhio. Da un lato prevalgono cemento e mattoni che, in uno stile modernista vintage un pochino anni ’60, con imbrillantinata fede nel progresso inevitabile, si riverseranno felicemente su tutti. Dall’altro la città viva del terzo millennio che si riprogetta quotidianamente in modo partecipato ed equo. Parrebbe sin troppo facile scegliere.
Se non fosse che la differenza fondamentale fra i due testi (e, ma è da verificare, nelle due contrapposte intenzioni) è invece tra una urbanistica quantitativa, di crescita e redistribuzione , e un complesso di politiche urbane coordinate dove lo sviluppo del territorio sta a significare soprattutto articolazione qualitativa, trasformazione graduale. Dove anche quei “carne salumi latte e formaggi” evocati da Masseroli trovino posto oltre le copertine degli opuscoli promozionali. Dove gli alberi raccontati da Boeri facciano in tempo, come natura pretende, a trovare gli anni di tranquillità necessaria ad esistere fuori dai renderings. Dove la comunicazione insomma smetta di essere un fine, per tornare ad essere uno strumento fra i tanti di politiche urbane serie. Attorno agli urban center, alle pratiche partecipative magari a senso unico alternato, tocca sempre non scordarselo, c’è tutto il resto della città (f.b.)
MILANO - «Salvate il soldato Pgt». La lobby del cemento lombarda è sul piede di guerra. Il suo alleato di ferro, Letizia Moratti, barcolla. E con lei rischia di andare in fumo l’affare del secolo per il claudicante partito del mattone meneghino: il Piano di Governo del territorio (Pgt). Il libro mastro destinato a cambiare il volto di Milano approvato, in zona Cesarini, dalla giunta uscente. Il business è da sogno: 18 milioni di metri cubi di nuove costruzioni entro il 2030. Quasi 160 nuovi Pirelloni che, uno sopra l’altro, formerebbero una torre di 20 chilometri. «Il provvedimento più importante del mandato», dice il sindaco uscente. Valore 70 miliardi. Una montagna d’oro che la variabile Pisapia rischia di far svanire nel nulla e che ha convinto le associazioni di settore a lanciare un "mayday" bipartisan: «Rivolgiamo un pressante invito – ha scritto l’Assimpredil – perché il Pgt entri in vigore immediatamente e senza modifiche».
«Siamo preoccupati», ha detto ieri il presidente dei costruttori milanesi Claudio De Albertis nell’incontro convocato d’urgenza con i due candidati: «Con noi il Pgt sarà legge a giugno – l’ha rassicurato Moratti –. Bloccarlo vuol dire bloccare la città per quattro anni e perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro». L’architetto Stefano Boeri ha spiegato invece i piani di Pisapia: «Non vogliamo cancellare il Pgt, ma ne vanno rivisti alcuni punti sostanziali. Faremo una variante nel più breve tempo possibile: si può».
I timori degli immobiliaristi meneghini sono comprensibili. L’asse di ferro con il sindaco ha dato negli ultimi anni ottimi risultati. E il via libera al super-piano sarebbe la ciliegina sulla torta, nata tra l’altro da un’esigenza reale della città: Milano è senza piano regolatore dal 1980 e la sua mappa è un puzzle riscritto da allora solo dalla burocrazia degli uffici comunali. Zero progetti. Nessuna regia. Una svolta, insomma, serviva. Peccato però che dal cilindro di Moratti sia uscita la medicina sbagliata, destinata a curare non i guai urbanistici della metropoli ma quelli «delle lobby di immobiliaristi che tengono in ostaggio il sindaco», come dice senza troppi giri di parole la cognata Milly.
Il diavolo, più che nei dettagli, è nei presupposti. «Dobbiamo ridensificare la città» è il mantra di Carlo Masseroli, assessore ciellino e padre nobile del piano. Obiettivo: portare la popolazione da 1,3 a 1,7 milioni. Il Comune ha individuato 26 aree (tra cui cinque caserme e sette scali ferroviari) destinate a cambiare volto. E per far spazio ai nuovi milanesi, ha rivisto i coefficienti di edificabilità in vista di una colata di cemento che è oro zecchino per le casse asfittiche degli immobiliaristi meneghini.
Prendiamo via Stephenson, zona Nord, dove svettano semi-vuote cinque torri del gruppo Ligresti. Qui sorgerà la Defènse di casa nostra. Cinquanta grattacieli nuovi di zecca, resi possibili da un indice volumetrico da anti-doping di 2,7 (sotto il 5,4 della gemella parigina, si difende Masseroli). Destinati – ça va sans dire – a rilanciare le quotazioni delle cattedrali nel deserto dell’ingegnere di Paternò. Sono edifici che servono davvero? Il problema è proprio qui. «Milano ha perso 500mila abitanti dal 1980», calcola il sociologo Guido Martinotti. Invertire la tendenza è difficile. A meno di non pescare tra i cultori delle polveri sottili, uno dei pochi campi in cui la città non ha nulla da invidiare al resto d’Europa. Di più: la regione Lombardia stimava in 325mila i vani residenziali sfitti in provincia nel 2009. E a Milano ci sono 900mila metri quadri di uffici vuoti. Come dire trenta Pirelloni.
Oltre alla pioggia di cemento, l’altro regalo agli immobiliaristi si nasconde dietro la famigerata "perequazione". Nel mondo capovolto del sindaco, il concetto si declina così: «Il Pgt ha salvato il Parco Sud». Vero. Ma come? Regalando a Ligresti – che da anni comprava cascine nel parco a prezzi stracciati – la possibilità di cederle al Comune in cambio di ricchi volumi di edificabilità da utilizzare in altre aree.
Moratti respinge le critiche: il Pgt, spiega, garantisce flessibilità. Azzerando ogni regola sulle destinazioni d’uso e sui limiti di edificabilità, come accusano tra gli altri Gae Aulenti, Giulia Maria Crespi, Marco Vitale e Guido Rossi. Il piano, continua il sindaco, crea 30mila case a prezzi calmierati e aree verdi pari a 120 volte il Parco Sempione. Peccato che il cemento sia pronto per essere gettato. Mentre dei 14 miliardi necessari per i servizi ne mancano all’appello, ammette il Pgt, ben 9.
La lobby del cemento attende ora l’esito del ballottaggio con il fiato sospeso. A farle compagnia ci sono i proprietari dei magazzini di via Airaghi trasformati in appartamenti. Tra cui Gabriele, figlio del sindaco, e la sua Bat-casa. Anche loro, come tutti i 5mila "furbetti del loft" meneghini, potranno condonare. Grazie al provvidenziale colpo di spugna del Pgt.
|
1. La perequazione urbanistica: uno strumento potenzialmente benefico (a certe condizioni)
L’istituto della perequazione urbanistica - integrato nella legge urbanistica lombarda a quello della compensazione all’interno di processi ormai generalizzati di negoziazione fra pubblico e privato – costituisce uno strumento potenzialmente benefico e utile di gestione delle trasformazioni urbane. Con esso si intende riferirsi alla attribuzione di un indice lordo di edificabilità omogeneo all’interno di ampie zone di trasformazione individuate dal piano, con contestuale concentrazione dell’effettiva edificabilità su singole sub-aree e cessione gratuita di altre aree al Comune.
Gli obiettivi, e i relativi benefici, potenzialmente ricavabili dalla utilizzazione di questo istituto possono essere così sintetizzati:
- un beneficio di efficienza allocativa e di efficacia urbanistica, raggiunto attraverso un migliore disegno urbano, con concentrazione dell’edificato in alcune aree e destinazione di aree consistenti a verde e servizi;
- un beneficio di equità nel trattamento degli interessi privati, raggiunto attraverso l’indifferenza privata alle decisioni selettive di piano;
- un beneficio di carattere finanziario, poiché evita il ricorso a lunghe e costose procedure di esproprio per pubblica utilità e costose transazioni fra privati;
- un beneficio di carattere fiscale, nel senso di una supplenza alla mancata riforma della tassazione dei plusvalori della trasformazione urbana attraverso la fissazione negoziata di cessioni di aree ed extra-oneri.
Nel dibattito sulla riforma urbanistica, nazionale e delle Regioni, e nella pratica di pianificazione, la perequazione ha assunto via via, grazie all’interesse per questi benefici potenziali, la caratteristica di strumento utile e salvifico in tutte le occasioni e in tutte le sue coniugazioni. Niente di più sbagliato, naturalmente! Esistono infatti condizioni ben precise perché esso conduca effettivamente ad esiti positivi:
- che esso sia accoppiato a un disegno razionale e lungimirante di pianificazione e di disegno urbano;
- che esso sia utilizzato per realizzare un trattamento uguale e perequato di interessi uguali, di fatto e di diritto, e dunque che l’indice unico di edificabilità sia attribuito ad aree di simile valore intrinseco (in termini di qualità urbanistica e ambientale, di accessibilità), e dunque su comparti limitati e non sull’intera città. Scrivevo alcuni anni or sono, commentando la proposta dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sulla perequazione: “allorché, nella realizzazione di un grande progetto di trasformazione su un’area centrale, si include in un medesimo comparto, e si attribuisce un medesimo indice volumetrico potenziale a un’area sub-centrale o a un’area periferica, di qualità urbanistica assai inferiore, si eguaglia artificialmente il plusvalore realizzato sulle due aree, pur in presenza di valori storici (e dunque anche di eventuali costi di acquisto) differenti. Ciò genera un vantaggio ingiustificabile per una parte, e una nuova sperequazione, fonte di nuovi arbitrî e pratiche speculative” (Camagni, 1999, p. 337);
- che esso sia utilizzato in modo trasparente nella negoziazione fra pubblico e privato sulle modalità dello scambio, o meglio del baratto, fra volumetrie di edificabilità da una parte e cessione di aree e altre monetizzazioni dall’altra. La trasparenza non deve fermarsi ai dati fisici, perché mq di superfici fondiarie o di pavimento hanno un valore assai differenziato all’interno della città, come tutti ben conoscono;
- che la negoziazione fra pubblico e privato avvenga nelle migliori condizioni di informazione e di capacità contrattuale da parte dell’organo pubblico, e dunque soprattutto attraverso la messa in competizione fra progetti differenti di sviluppo sulle aree urbanisticamente più rilevanti.
2. La perequazione nel PGT di Milano: tutte le condizioni violate.
La perequazione urbanistica così come proposta e adottata dal Comune di Milano nel luglio 2010 viola tutte queste condizioni per un esito operativo favorevole.
Innanzitutto, il meccanismo di attribuzione di diritti volumetrici sul territorio comunale prevale, anzi sostituisce quasi completamente, il processo di definizione e di valutazione delle trasformazioni desiderabili e sostenibili. Al di là di un disegno di alcuni elementi strutturali della maglia del verde e delle infrastrutture, tutta l’amplissima trasformazione consentita appare totalmente priva di ogni regola morfologica (salvo nella parte storica) e funzionale. “Le destinazioni funzionali sono liberamente insediabili, senza alcuna esclusione e senza una distinzione e un rapporto percentuale predefinito” (PdR, art. 5.1); il passaggio dall’una all’altra delle destinazioni funzionali con opere e senza opere edilizie è sempre ammesso” (PdR, art. 5.2); quanto alla disciplina degli interventi edilizi ammessi nelle diverse tipologie di aree del tessuto urbano consolidato, successivamente alla proposta di alcune indicazioni morfologiche si ripete che “resta salva la facoltà di procedere con modalità diretta convenzionata relativa alle soluzioni plano-volumetriche qualora l’intervento (del privato) si discosti dalle previsioni dei precedenti commi” (PdR, art. 13.4, 15.7, 17.3); cioè, si può sempre mettersi d’accordo.
L’unico obiettivo della pianificazione appare solo quello quantitativo: l’obiettivo, totalmente irresponsabile, di consentire espansioni edilizie tali da poter accomodare 257.946 nuovi abitanti (sugli attuali 1,3 milioni). Le indicazioni “politiche” che hanno accompagnato l’iter del Piano sono state ancor più compiacenti: mezzo milione di nuovi abitanti! Ed esse evidentemente hanno lasciato un segno, al di là della cifra formale, se una attenta analisi, effettuata dalla Provincia di Milano, delle previsioni di sviluppo urbanistico-edilizio ha evidenziato un macroscopico sovradimensionamento dell’offerta, capace di ospitare verisimilmente oltre 600.000 nuovi abitanti (Provincia di Milano, 2010; Botto, 2010).
Si è realizzato l’auspicio formulato da Maurizio Lupi, già assessore allo sviluppo del territorio di Milano, nel corso del dibattito sulla riforma della legge nazionale di governo del territorio: che il piano urbanistico divenga “”una sorta di banca dei diritti di edificazione commerciabili nell’ambito di una filiera di interessi pubblici da perseguire” (Lupi, 2005, p. 31). Effettivamente l’impressione è proprio quella di un catalogo di premi volumetrici accordati, che prevalgono su una rete tenue di interessi pubblici.
In secondo luogo, la costruzione della città pubblica, per quanto riguarda le grandi reti infrastrutturali e del verde, trova certamente uno strumento ragionevole, in termini finanziari, nella attribuzione dell’indice unico di edificabilità alle aree destinate a questi usi (PdS, Art. 5.2-3), ma si scontra con alcune difficoltà e alcuni limiti vistosi. Se da una parte è vero che il diritto edificatorio consente ai privati di ottenere un valore monetario a fronte della cessione delle aree al Comune, e che il Comune stesso, sulle aree di sua proprietà, può ottenere gli stessi vantaggi economici, come fosse un privato, vendendo i diritti, manca d’altra parte la garanzia della necessaria sincronia temporale nelle cessioni per poter davvero realizzare i detti servizi. Inoltre, nelle transazioni di trasferimento dei diritti attribuiti al di fuori di queste aree, manca totalmente un canale certo per ottenere nuove risorse o cessioni gratuite al Comune, il tutto essendo delegato a eventuali negoziazioni pubblico/privato. E la tradizione milanese recente insegna che tali negoziazioni hanno portato solo limitatissimi vantaggi al pubblico, nella forma di extra-oneri pari a un 1-1,4% del valore di mercato dei volumi realizzati (Camagni, 2009).
In terzo luogo, se si propone (finalmente) una maggiore trasparenza sulle condizioni della negoziazione (PdR, art. 11.10), scompare ogni accenno alla messa in competizione di progetti differenti.
In quarto luogo, per effetto della scelta di attribuire un unico indice di edificabilità a tutti gli ambiti del Tessuto Urbano Consolidato (0,5 mq/mq, aumentabile a certe condizioni fino a 1mq/mq) e cioè diritti edificatori trasferibili in tutta la città consolidata (PdR, art. 6.1 e 7.5), si perde ogni garanzia di concentrazione e di razionalità urbanistica delle nuove edificazioni, che restano legate alla casualità di decisioni individuali non vincolate (Pogliani, 2011).
Inoltre, ed è ancora più grave, scompare ogni possibilità di perseguire una equità vera, in quanto diritti maturati su aree diverse, a diverso valore, possono essere trasferiti e utilizzati su aree a maggiore centralità e maggiore pregio. Un istituto perequativo nato per generare equità, e riproposto nel Piano delle Regole di Milano con questo obiettivo (“la perequazione attua il principio di equità”, PdR. Art. 7.2), genera un trattamento eguale di condizioni diseguali.
Tre considerazioni fortemente critiche si possono avanzare al proposito, che mettono in dubbio la stessa accettabilità giuridica delle norme che regolano i processi perequati:
a. tutti i piani urbanistici generano processi di valorizzazione fondiaria, ma sono tenuti a darne giustificazione. Con quale considerazione si giustifica a Milano la creazione artificiale di valori attribuiti selettivamente, ad esempio laddove si dice che i servizi privati (anche religiosi) non consumano diritti edificatori, che possono essere realizzati in loco o trasferiti? (PdS, art. 8.2-3)(Boatti, 2011).
b. quale prezzo di mercato può essere attribuito razionalmente a un diritto edificatorio che può essere utilizzato ovunque in città, e dunque in condizioni di ben diversa valorizzazione potenziale? Al di là del vantaggio ingiustificato attribuito al detentore di diritti capace di ottenere dal Comune convenzioni per edificazioni centrali (elemento che rischia di generare corruzione e trattamenti differenziati di operatori privati), e al di là della difficoltà di valutazione nelle compravendite private di diritti, quale prezzo potrà essere giudicato congruo e corretto quando sarà l’amministrazione pubblica a vendere?
c. Nei manuali di urbanistica e di economia urbana si afferma che, allorché la città si sviluppa fisicamente, i proprietari fondiari si appropriano di una rendita assoluta, che matura ai margini della città per effetto delle economie di agglomerazione e degli investimenti in infrastrutture urbane. Nel caso milanese di trasferimento di diritti edificatori, maturati alla periferia ma utilizzati al centro (o in aree privilegiate per accessibilità o qualità) il proprietario si approprierebbe sia di una rendita assoluta, presente in tutta la città, sia di una rendita differenziale, data dalla centralità o dalla qualità situazionale (Fig. 1c). Un bel risultato davvero per un piano che afferma di perseguire l’equità!
Bibliografia
Boatti G. (2011), “Milano PGT: i privati gestiscono tutto”, relazione presentata al Convegno Nazionale di Italia Nostra il 6 aprile, pubblicato su Eddyburg
Botto I.S. (2010), "La dimensione sovracomunale della pianificazione" in: Il PGT del Comune di Milano. Dalle procedure di adozione alla nuova urbanistica, I Convegni del Quotidiano immobiliare, Milano, 30 novembre
Camagni R. (1999), “Il finanziamento della città pubblica: la cattura dei plusvalori fondiari e il modello perequativo”, in F. Curti (ed.), Urbanistica e fiscalità locale, Maggioli, Ravenna, 321-342
Camagni R. (2008), “Il finanziamento della città pubblica”, in M. Baioni, La costruzione della città pubblica, Alinea, Firenze, 39-57
Lupi M. (2005), “Verso la riforma urbanistica”, in Mantini P., Lupi M., I principi del governo del territorio, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano
Pogliani L. (2011), “Urbanistica negoziale: scambio leale e interesse pubblico”, relazione presentata al Convegno su “Ricerca e governo del Territorio: riflessioni sul caso di Milano a partire dalla ricerca di Fausto Curti”, Politecnico di Milano, 15 aprile
Provincia di Milano (2010), Valutazione di compatibilità con il PTCP del Documento di Piano del PGT del Comune di Milano, Deliberazione della Giunta n. 559/2010
Proposta di emendamento soppressivo del comma 16 dell’art. 4 del d.l. 70/2011.
Le finalità delle, in verità contenute, modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio sono proclamate nell’incipit del comma 16 dell’art.4: “massima attuazione del federalismo demaniale” e semplificazione dei procedimenti di rilascio delle autorizzazione paesaggistica nei comuni che abbiano adeguato il loro strumento urbanistico alle rinnovate prescrizioni dei piani paesaggistici.
1. E per cominciare, a quest’ultimo riguardo, dalla modifica all’art. 146, comma 5, secondo periodo, rileviamo innanzitutto che, rispetto al testo che fu dapprima licenziato dal consiglio dei ministri, è rimasta ferma la previsione del parere obbligatorio (non vincolante, così voluto anche nella revisione 2008 del “codice”) della soprintendenza e l’unica innovazione è costituita dalla conclusiva integrazione del comma 5, che per presunzione considera favorevole il parere che non sia stato dato entro i novanta giorni dalla ricezione degli atti. E se è la semplificazione il fine della specifica modifica, esso è sicuramente tradito, perché il vigente comma 9 dello stesso art. 146 prevede che l’“amministrazione competente” (al rilascio della autorizzazione, nella quasi generalità i comuni delegati dalla regione) provveda “decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte della soprintendenza”, “in ogni caso”, pur se la soprintendenza non abbia reso il proprio parere. E dunque la modificazione allunga i tempi, introducendo per altro la presunzione in pratica irrilevante, ma inammissibile in linea di principio, che quella inerzia valga parere favorevole, come silenzio cui concettualmente non può essere invece attribuito valore di assenso, benché non precluda la conclusione del procedimento.
2. La finalità della modifica dell’art.10, comma 5, del “codice” (e conseguentemente dei successivi articoli 12, 54, 59) è sfrontatamente dichiarata: quella cioè di includere nell’automatismo dei trasferimenti dei beni immobili dello stato a regioni ed enti territoriali locali, come previsti nel decreto legislativo n.85 del 2010, anche quei beni che ne sarebbero esclusi perché considerati di interesse culturale dal “codice”, risalendo la loro esecuzione ad oltre cinquant’anni e cioè nel precedente ventennio. Sappiamo infatti, da un lato, che l’art. 10, comma 5, fissa al cinquantennio il limite temporale dell’interesse alla tutela e, dall’altro, che il decreto legislativo 85/2010 esclude dai previsti trasferimenti tutti i beni dello stato che facciano parte del patrimonio storico e artistico e dunque tutti quelli la cui esecuzione risalga oltre il cinquantennio, fermo il principio che l’interesse culturale dei beni pubblici si deve presumere quando non vi sia stato un espresso accertamento negativo al riguardo.
Ebbene, con la modifica del comma 5 dell’articolo 10 del “codice”, per tutti i beni immobili appartenenti non solo allo stato, ma ad ogni altro ente pubblico e a tutti gli enti privati non a scopo di lucro ivi compresi gli enti ecclesiastici, è elevato a settant’anni il limite temporale di appartenenza al patrimonio storico e artistico, contro il principio generale convenzionalmente posto dalla gloriosa legge Rava – Rosadi del 1909 e dunque consolidato da oltre un secolo nel nostro ordinamento della tutela e attraverso la sua coerente prassi attuativa. La disposizione innovativa è espressione di una palese irragionevolezza, perché introduce una arbitraria disparità di trattamento rispetto ai beni mobili appartenenti ai medesimi enti e ai beni immobili di appartenenza privata (per gli uni e gli altri permane infatti la regola del limite temporale del cinquantennio). Ma, innanzitutto, la innovazione è irragionevole perché introdotta non già per le ragioni intrinseche alla più corretta definizione dell’ambito temporale del patrimonio storico e artistico della nazione (che ha la protezione costituzionale dell’articolo 9), bensì per rispondere alla dichiarata esigenza occasionale e contingente di aprire alla attuazione del così detto federalismo demaniale previsto dal decreto legislativo 85/2010 quel complesso di beni immobili dello stato la cui esecuzione risale tra il cinquantesimo e il settantesimo anno e che perciò appartengono al patrimonio culturale secondo la vigente disciplina del “codice”. Per superare dunque la esclusione dei beni culturali dello stato dai processi di automatico trasferimento, come espressamente dispone il decreto legislativo 85/ 2010 in conformità alla prescrizione al riguardo della legge delega 42/2009, il decreto legge ha così operato una assurda amputazione del patrimonio storico e artistico della nazione, negando in linea generale di principio che i beni immobili pubblici (non solo quelli di appartenenza statale) e quelli ad essi assimilati abbiano attitudine a rivestire interesse culturale e siano perciò assoggettati alla tutela se la loro esecuzione risalga anche oltre cinquant’anni, nel precedente ventennio. Con effetti che vanno al di là della dichiarata contingenza e incidono in via permanente sulla generalità del patrimonio architettonico pubblico e ad esso assimilato, che rimane privo di tutela se la sua esecuzione non risalga ad oltre settant’anni. Un arretramento permanente e gravissimo della tutela della più recente architettura. E, immediatamente, l’esclusione dalla tutela della produzione architettonica pubblica (e ad essa assimilata) degli anni quaranta e cinquanta del Novecento.
Due lunghe pensiline colorate che da piazza della Repubblica si allungano fino alla stazione Centrale. Vetro e una fibra ferrosa, blu come il cielo, che dagli ampi portici partono a copertura del marciapiede che si estende fino alla strada. La "via in blu" della città, ecco il futuro di via Vittor Pisani. È così che il Comune pensa di riqualificare l’ampio e monumentale - ma un po’ spoglio - vialone che collega la città alla stazione. Con un restyling che parte soprattutto dalle tettoie colorate ma che prevede anche un nuovo look nell’arredo urbano. A partire dal verde.
Le linee guida dell’intervento sono contenute in una delle ultime delibere approvate dalla giunta Moratti prima delle elezioni, a inizio maggio. Una rivoluzione estetica per la promenade milanese che è una delle porte di accesso alla città, vista la vicinanza con la Centrale. Una nuova identità da dare a una zona con molti locali tra bar e ristoranti parecchio frequentati che, per il Comune, oggi è «un asse che si presenta poco accogliente», come si legge nel documento approvato. E, anche, «frequentato come collegamento veloce ma carente di luoghi per la sosta e per un passaggio "lento"».
E così via libera alle modifiche. Gli ingressi ai parcheggi sotterranei verranno coperti da vegetazione: in particolare, l’idea è di realizzare pareti verticali di edera e gelsomino. Ai bordi della strada verranno inserite vasche piene di verde, alternate a sedute per invogliare milanesi e viaggiatori a passeggiate lungo la promenade. E per spingere anche i passanti a fermarsi, una richiesta avanzata direttamente dai commercianti. Ci sarà anche una siepe che, geometricamente, creerà un gioco di volumi per rendere più accogliente una strada che oggi poco si presta a una passeggiata di relax.
Ma il restyling riguarderà anche i dehors dei locali che oggi tappezzano l’ampio marciapiede: la delibera di indirizzo prevede infatti «nuove componenti di arredo urbano e riordino delle occupazioni di suolo pubblico attuali». Le pavimentazioni andranno così modificate e adattate al nuovo look della strada, quindi blu, en pendant con le pensiline che correranno lungo tutto il viale. In particolare bisognerà risolvere alcuni piccoli problemi, dato che «sono state rilevate alcune criticità relative ad alcuni dehors, per la loro tipologia ma anche per la loro posizione», scrive il Comune. Un intervento, nel complesso, di cui ancora non si conosce la spesa perché il progetto definitivo va ultimato e approvato dalla nuova amministrazione con le risorse da stanziare, ma che in una manciata di mesi promette di cambiare il volto di uno dei viali più conosciuti della città.
Se il grande timoniere dei padanos accusa il terribile candidato del centrosinistra di essere un matto che vuol regalare la città a una improbabile lobby di mendicanti e drogati, sinistra riedizione della letteraria corte dei miracoli, in fondo sono fatti suoi, sgradevole strategia acchiappavoti a tradimento. Molto più fondata sarebbe invece l’accusa alla matta attualmente in carica, di aver regalato e continuare a regalare la medesima città a una corte di miracoli parallela: la lobby del commercio. Che come si sa da sempre e ovunque è maestra nell’esercitare pressioni e vendersi come salvatrice della patria, anche contro ogni evidenza: desertificano i quartieri riempiendosi le tasche, e concentrandosi via via dove conviene di più, pretendono investimenti pubblici e scombinano ogni scelta strategica per la città piegandola ai propri interessi. Naturalmente questo non vale per “il commercio” in genere, ma per il tipo di forma organizzata e di “alto profilo” che guarda caso viaggia in parallelo con la cosiddetta riqualificazione urbana.
| foto f. bottini |
Già all’epoca d’oro dei socialisti e dei megaprogetti fantasma (mazzette a parte) che spuntavano ogni settimana dai cassetti degli assessorati, quel grande viale ricavato dall’arretramento dei binari (la vecchia Stazione Centrale stava nell’attuale Piazza della Repubblica) era stato oggetto di mostre con immagini da boulevard post-ottocentesco, salvo poi metterci giusto un paio di strisce lastricate e allargare un po’ lo spazio dei pedoni e dei tavolini dei bar. Adesso (eventuali mazzette a parte) ci risiamo con la politica dei due forni crematori: da un lato ferro e fuoco nelle vie del commercio multietnico e integrato, dove invece di promuovere le attività innovative si mandano gli sgherri; sull’altro versante lo shopping mall strisciante, dalla privatizzazione dei portici in centro, alle incredibili pensate per la chiusura della Galleria, e adesso appunto a via Vittor Pisani, sullo sfondo assiro-milanese della facciata della Centrale.
Ma a te non va bene proprio niente, si potrebbe pensare: in fondo si tratta di un progetto di arredo urbano, che rivitalizza una via, la rimette a posto, organizza un percorso pedonale dal terminal ferroviario verso il centro storico … Il dubbio è lecito.
Ma cos’è già successo in Centrale? È stata trasformata in tutto e per tutto in un centro commerciale chiuso, salvo che ci passano dei treni e che invece dello scatolone di cemento ci sono le architetture monumentali di Ulisse Stacchini. E adesso questa promenade che vorrebbe fare il verso a certe idee della newyorkese Sadik-Kahn ma sta imboccando la direzione opposta, perché anziché innescare onde lunghe di riqualificazione concentrerà sul solo asse tutto l’interesse, risucchiandolo dalle vie circostanti, che già non brillano per sicurezza e ordine. Una specie di replica del caso Venezia col ponte di Calatrava: le Ferrovie cominciano il gioco, e il Comune magari senza neppure accorgersene (ma non è vero) suona le sue campane. Nel caso di Milano, per essere precisi, le carampane. Occhi aperti insomma, sull’ennesimo strisciante Business Improvement District (f.b.)
Agli osservatori internazionali, con le scintillanti torri dei nuovi edifici terziari e residenziali, popolata da operatori della moda e architetti, l’ex capitale economica d’Italia sembra proiettata verso un luminoso futuro postindustriale. Ma vivendone quotidianamente il tessuto sociale, il contesto ambientale, la rete delle infrastrutture; subendone le decisioni sul territorio urbano e metropolitano, emerge un’immagine diversa: esclusione sociale, spinta all’insediamento disperso, degrado dell’ambiente e della qualità della vita. Sono le radici stesse di una città giusta, inclusiva e anche efficiente, a essere messe in discussione dall’urbanistica milanese degli ultimi 15 anni.
Oggi la riqualificazione urbana - quando c’è - è pura sostituzione sociale, l’aggettivo post-industriale significa solo ‘privo di industria’, e la sedicente nuova economia si limita al mercato immobiliare.
C’è un’alternativa? Certamente si, e sta nel cercare un equilibrio meno brutale e più avanzato fra dimensione locale e globale. Ma proviamo a andare con ordine.
Milano capitale della moda, del design e dell’editoria; hub della creatività e dell’innovazione; capoluogo di una fra le regioni più ricche d’Europa; ai vertici della gerarchia urbana europea: è una immagine di fatto contraddetta da recentissime graduatorie effettuate da istituti specializzati: nel 1989 stava al terzo posto dopo Londra e Parigi, oggi si deve accontentare di un decimo solo per la funzione economica, e occupa posizioni molto più arretrate per quanto riguarda qualità della vita e mobilità, inquinamento, organizzazione degli spazi pubblici e privati.
Là dove sarebbe importante investire nella città, dopo anni in cui è mancata una visione complessiva e si sono realizzate soltanto trasformazioni parziali, rinunciando a sperimentare ipotesi davvero innovative, la risposta alla crisi è stata un vero e proprio laboratorio di ‘privatizzazione dell’urbanistica’ solidamente fondato su alcune premesse: delegare all’iniziativa privata l’organizzazione del territorio; considerare la difesa degli interessi collettivi del tutto subordinata; porre ai margini, se non escludere del tutto, ascolto e coinvolgimento dei cittadini, privilegiando gli attori forti.
| La Milano degli immobiliaristi |
Si tratta di una scelta che parte dal lontano, quando con la dismissione industriale degli anni ‘70/’80 si manifesta la legittima necessità di trovare nuovi obiettivi ed equilibri, ma che si palesa davvero col nuovo millennio e l’obiettivo di Ricostruire la Grande Milano.
In questo obiettivo alcuni ricercatori internazionali leggono, almeno nelle dichiarazioni di intenti, la possibilità di una «ben equilibrata regione metropolitana» nel metodo e nel merito, una città globale orientata ai servizi, fra poli di eccellenza e quartieri a funzioni compositeper la creative class. Un prestigioso economista americano, Edward Glaeser, riesce addirittura a intravedere chissà come una «ruggente ridiscesa in campo postindustriale». senza soffermarsi magari a riflettere se, invece, una strategia di lungo periodo non dovrebbe promuovere equità, diritti, distretti mixed-use in cui convivano produzione, residenza per varie fasce di reddito, elevata abitabilità e mobilità sostenibile.
Oggi la città soffre di degrado sociale e edilizio ma, anziché attivare politiche di inclusione, si privilegiano scelte di tolleranza zero per i deboli, e ultragarantiste per chi paga in contanti; si privilegia una deregulation a tutto campo legittimata dalle leggi regionali. Quella urbanistica parte apparentemente da parole d’ordine prese a prestito dal dibattito europeo (densificazione contro il consumo di suolo, casa per i più deboli, sussidiarietà, valutazione strategica …. ), aprendo però di fatto all’intervento privato senza adeguate contropartite e garanzie per la città pubblica, e con infinita e immotivata fiducia nelle presunte virtù del mercato (immobiliare).
In questa prospettiva, Milano predispone il suo Piano di Governo del Territorio affermando di mirare a zero consumo di suolo, mantenimento dell’agricoltura, tutela del tessuto storico, emissioni zero, più servizi. Il tutto rivendicando continuità col precedente Ricostruire la Grande Milano, aggiornato con un incredibile incremento di popolazione del 50% per arginare – così si dice – lo sprawl suburbano. Ma come sarà possibile, visto che per sua natura il piano cittadino si ferma ai confini comunali, e la stessa legge ha ridotto a poca cosa la dimensione metropolitana di governo del territorio? Dov’è finita la «ben equilibrata regione» intravista dai commentatori internazionali?
C’è anche una contraddizione irriducibile nel metodo: la governance pensata come rapporto privilegiato fra decisori pubblici e grandi operatori privati esclude la società civile, di fatto riducendo il territorio a merce.
Che spazio urbano si prefigura nel Piano? Uno spazio come mero contenitore di interessi immobiliari, che sotto forma di diritti edificatori schizzano in tutte le direzioni a seconda delle convenienze dei grandi operatori: con rischi enormi, visto che qualunque idea di città prescinde assurdamente dallo spazio fisico, e rinuncia in gran parte a qualsivoglia regola. Il cosiddetto Piano delle Regole afferma infatti che «le destinazioni funzionali sono liberamente insediabili, senza alcuna esclusione e senza una distinzione e un rapporto percentuale predefinito» e poi specifica anche che «il passaggio dall’una all’altra delle destinazioni funzionali è sempre ammesso».
L’unico obiettivo chiaro è quantitativo: espansioni edilizie per oltre 250.000 nuovi abitanti da aggiungere agli attuali 1.300.000 circa. E le indicazioni ‘politiche’ che hanno accompagnato l’iter del Piano sono state ancor più compiacenti: mezzo milione di nuovi abitanti. Secondo alcuni calcoli attenti sui diritti volumetrici che il PGT autorizza attraverso una perequazione urbanistica reinterpretata in chiave neoliberista, potrebbero addirittura starcene oltre 600.000!
Altro che densificare per contenere lo sprawl, con un piano che si ferma ai confini comunali e che, quando discetta della regione urbana, ignora la pianificazione sovraordinata e fa riferimento a un’idea vaga, scientificamente infondata come la cosiddetta Città Infinita. E che vuole tutelare la storica greenbelt agricola che protegge dalla conurbazione, piazzando uno degli enormi poli di eccellenza scientifica (il CERBA) proprio nel bel mezzo di un cuneo verde. È questo che emerge dalla lettura delle proposte concrete, oltre gli slogan e la comunicazione pubblica.
E a conferma degli orientamenti reali e degli squilibri di interesse del nuovo PGT milanese c’è infine la prova del nove: a chi piace e a chi invece non piace affatto? Piace ai grandi interessi immobiliari, ossia ai medesimi soggetti che negli anni hanno fatto crollare il rating della città e visibilmente peggiorato la sua qualità della vita. Non piace per niente a tutti gli altri, al punto che, indipendentemente dal merito delle quasi 5.000 osservazioni presentate (e respinte in blocco senza discussione), la cittadinanza giudica illegale e autoritario vedersi imporre un’idea di città decisa nelle chiuse stanze di chi comanda. E ricorre in tribunale. Si dice che la magistratura non deve sostituirsi alla politica; ed è giusto, quando però la politica fa il suo mestiere.
L’esito più inquietante di questa strategia ‘riformatrice’ di radicale privatizzazione delle politiche urbane proposta dal nuovo Piano urbanistico per Milano può essere soltanto quello di riconfigurare la capitale morale del Paese come ‘capitale del mattone’, simbolo e modello per tutta la nebulosa urbana, politica, socioeconomica dello sprawl dal Po alle Alpi, magari da esportare peggiorato verso altre regioni.
É da Milano dunque che occorre partire per liberarsi da questa versione locale/lombarda del paradigma T.I.N.A./ There Is No Alternative.
| La Milano sostenibile? |
Le leggi lombarde, e il PGT milanese che di quelle leggi è acritico interprete, hanno rimosso vincoli, affossato principi consolidati nella tradizione urbanistica di tutela della città pubblica, concesso incentivi e premi volumetrici sovradimensionati, accelerato procedure amministrative in una sorta di ‘frenesia distruttiva’ della autorità pubblica e del bene comune che forse occorre interpretare come l’esito non tanto, o soltanto, di un profondo intreccio di interessi, ma come il segnale di un drammatico vuoto culturale.
Sta ai cittadini riprendere in mano il futuro di Milano, cambiando amministrazione; sta agli urbanisti e più in generale alla cultura progressista colmare un vuoto teorico: quello che separa le acquisizioni scientifiche e tecniche dal loro uso per promuovere eguaglianza e inclusione.
Forse questo traguardo è, inaspettatamente, a portata di mano.
È stata la sconfitta della politica della paura. Lo specchio in cui i milanesi possono finalmente guardarsi, da lunedì sera, rimanda l’immagine di una città cambiata in profondità. Una città che non risponde più alla tastiera dei comandi utilizzata dagli stregoni del centrodestra. Quella dei 500 sgomberi dei rom, del coprifuoco, del divieto di costruire moschee, della chiusura dei locali dove si fa musica, dei clochard cacciati a pedate dalle strade, dei servizi sociali tagliati, dei vigili trasformati in vigilantes o celerini. Nella sorpresa generale, la volontà di cambiamento dei milanesi è stata molto più potente di qualsiasi previsione. Come al solito i sondaggisti – che qualche riflessione sul loro mestiere dovrebbero pur farla, per pudore – non si erano accorti di nulla. La voglia di voltar pagina si è sentita, fortissima, in tutta la campagna elettorale. Ma anche ai più ottimisti sulle speranze di Pisapia e della coalizione di centrosinistra è sfuggito quanto fosse definitivo e impietoso il giudizio negativo su Letizia Moratti e la sua giunta.
L’esito elettorale del primo turno dice che ampie porzioni dell’elettorato moderato milanese si sono ribellate all’idea di rivedere donna Letizia a Palazzo Marino per altri cinque anni. L’irruzione di Silvio Berlusconi sulla scena ha costituito un motivo in più per l’abbandono di Letizia al suo destino. Se c’erano buone ragioni per non ridarle fiducia, la presenza invadente del Cavaliere nell’ultima parte della campagna le ha addirittura moltiplicate. Il ballottaggio, ora, si presenta come una sorta di agonia per il sindaco uscente. Soltanto un miracolo potrebbe rovesciare un esito che già ora sembra condannare il centrodestra all’opposizione. Pisapia e le forze del centrosinistra fanno bene a non abbassare la guardia, ma davvero non si riesce a immaginare la resurrezione di un candidato totalmente groggy con un mentore come il Cavaliere, che all’orizzonte intravvede la fine della sua parabola politica.
Il cambio di pelle di Milano è evidente dal voto per le circoscrizioni. Il centrodestra padrone della città dal lontano 1993 ha perso ovunque. Ha perso clamorosamente nel centro storico e in tutte le altre otto zone. Il risultato è doppiamente significativo non solo perché replica e spesso migliora, a livello di quartiere, il dato cittadino, ma anche perché nelle zone si votano le persone, prima dei partiti. E i candidati scelti dal centrosinistra hanno fatto il pieno. Tutta la città, senza eccezioni, ha bocciato un’amministrazione pessima e insieme ha alzato il cartello di fine corsa per il centrodestra.
Questa omogeneità contiene uno spunto di grande interesse. Il messaggio è netto: chi andrà a Palazzo Marino deve, per prima cosa, occuparsi a fondo, con cura e passione, di una città che il centrodestra ha usato come magazzino elettorale retrocedendola a capitale della Padania. A nessuno verrà più concesso di usare Milano come un parco buoi, come un recinto di obbedienti yesmen, come hanno fatto il Cavaliere e la sua tenutaria Letizia. La solenne bastonata ricevuta al primo turno dal centrodestra è una ribellione aperta alle tante brutte favole, e prese per i fondelli, raccontate in questi anni. Dall’Expo umiliata fra risse e incapacità di gestione, alla beffa dell’Ecopass svuotato di qualsiasi efficacia, allo stato di degrado e abbandono dei quartieri popolari, alle truffe di Santa Giulia fino alle esondazioni del Seveso: i milanesi si sono ricordati benissimo dello spettacolo avvilente cui hanno dovuto assistere. E ne hanno tratto le conseguenze.
Infine, Milano cambia anche perché punisce la Lega. Il partito di Bossi sognava di essere il solo beneficiario dello scontento per Letizia Moratti. Sognava di superare il 15% e invece ha raccolto meno del 10. Questo solo dato basterebbe a indicare quanto sia davvero cambiato il vento. I predicatori di paura, gli uomini pronti a invocare il diritto differenziato contro gli immigrati, a discriminare in classi ghetto i bambini stranieri, a vietare le moschee sono rimasti, quasi, a bocca asciutta. La città ha riscoperto il piacere del coraggio civile. Quello che ai leghisti non è mai piaciuto.
MILANO. Il risultato delle amministrative di Milano sorprende il centrodestra. Soprattutto alla luce dei progetti infrastrutturali avviati durante l'ultimo mandato: con la conquista di Expo, Milano potrà realizzare quelle opere rimaste nel cassetto per decenni. I ritardi, indubbiamente, ci sono. Eppure con due nuove linee di metropolitana, il nuovo sito espositivo ideato per la manifestazione internazionale, più la Brebemi e la Pedemontana (le due grandi connessioni stradali che aiuteranno ad alleggerire il traffico cittadino, inserite anch'esse nel dossier di candidatura per l'Expo) a Milano e nel territorio confinante verranno spesi entro il 2015 quasi 9 miliardi, mettendo insieme l'intervento finanziario governativo, quello comunale e quello privato.
Tre opere tra quelle appena elencate sono già partite: la linea 5 della metro, i cui lavori sono iniziati nel giugno 2007 e per cui Palazzo Marino sta investendo 50 milioni (su circa 750 totali) e che dovrebbe venire completata il prossimo anno; la Brebemi (Brescia-Bergamo-Milano), che verrà realizzata interamente in project financing per un investimento di 1,6 miliardi, e che sarà pronta nel 2012; la Pedemontana (da Dalmine a Malpensa), che dovrebbe essere completata nel 2014 grazie ad un investimento complessivo di 4,1 miliardi, in parte con finanziamenti pubblici e in parte con il project financing. A questo si dovrebbe aggiungere il passante ferroviario, cioè il treno cittadino che collega Rogoredo a Bovisa (da Nord a Sud della città), un'opera senza fine iniziata negli anni Ottanta e finita dopo 30 anni, nel 2008.
Oltre alle opere inserite nel dossier di candidatura di Expo, il mandato della Moratti si chiude con un altro traguardo nel settore della mobilità, condiviso in modo bipartisan con il centrosinistra: la quotazione in Borsa della Sea, la società aeroportuale di Malpensa e Linate controllata dal Comune di Milano. Deliberato dal consiglio comunale un mese fa, lo sbarco a Piazza Affari dovrebbe avvenire il prossimo autunno con un aumento di capitale del 35%, in modo che Palazzo Marino diluisca la propria quota dall'attuale 84,6% al 51% circa. Questa operazione servirà non solo a permettere a Palazzo Marino di prelevare dalla società aeroportuale un extradividendo da 160 milioni per far tornare il bilancio comunale, ma anche di garantire a Sea un potenziale finanziamento tra i 400 e i 500 milioni da parte del mercato, utili per portare avanti un piano industriale da 1,4 miliardi.
Alla luce di questi traguardi il centrodestra di Letizia Moratti pensava forse di avere gioco facile, di essere riconoscibile come una coalizione pragmatica e operativa. Probabilmente però sono entrati in gioco altri elementi, come la scarsa capacità di comunicare i progetti in corso. Oppure, si dice nello staff della Moratti in queste ore, l'"invasione" della politica romana dentro la campagna elettorale. Evidentemente però, rimanendo sul fronte delle grandi opere, sono state percepite più le criticità che i successi.
E in effetti qualche difficoltà c'è. Nel pacchetto Expo la metro 4, che collegherà Linate a Lorenteggio (da Sud Ovest a Sud Est), ha subito diversi ritardi, e indicativamente i cantieri apriranno un anno dopo il previsto. Ad oggi la gara non è stata ancora aggiudicata ufficialmente, e non è scontato che tutta l'opera, del valore di 1,2 miliardi (di cui 400 milioni comunali), venga realizzata interamente entro il 2015.
Anche il Piano di governo del territorio (Pgt), che ridisegna l'urbanistica della città per i prossimi 30 anni, ha creato non poche discussioni e qualche tensione nel mondo delle associazioni e dei comitati cittadini. I dubbi riguardano il rischio di una cementificazione fuori controllo e la scarsa integrazione con un piano di mobilità in grado di sostenere la crescita della popolazione. Sulla testa del prossimo sindaco peserà tra l'altro un ricorso al Tar contro il Pgt, fatto a febbraio da una ventina di consiglieri di opposizione. Le motivazioni sono di tipo formale, ovvero il mancato dibattito in consiglio comunale di alcuni punti. Tuttavia tra qualche mese il Tar potrebbe bloccare ancora il Piano, per la cui realizzazione c'è voluto più di un anno.
Pgt a parte, il mandato Moratti si chiude con il proseguimento di alcune iniziative urbanistiche iniziate dal predecessore Gabriele Albertini, che pensò di spostare in periferia la struttura della Fiera liberando l'area di City life, un quartiere a Nord di Milano dove oggi si stanno costruendo grattacieli per abitazioni di lusso e centri direzionali. I grandi investimenti immobiliari si sono estesi anche all'area di Porta nuova, nella parte Nord di Milano. Ma tutto questo non è bastato per vincere.
S’inizia a scendere subito sotto casa. L’anno scorso, alle elezioni regionali, in centro storico il Pdl distaccò la sinistra di quindici punti. Una legnata, pur nel solco di una zona per tradizione di centrodestra. Bene, sul tardi, in Zona 1, intorno alle due, con 94 sezioni scrutinate su 105 il Pdl era al 44,5%e Pisapia al 44,8%. Addirittura. Pareggio. Anzi contropiede. Pensare che, alla vigilia, le partite vere erano altrove. Invece, un ribaltone. Di sicuro, da una appena che ne avevano, prese 8 Zone su 9. Forse, appunto, con l’ipotesi del centro, 9 su 9. Allarme o laboratorio? Le partite erano per esempio in luoghi emblematici tipo via Padova. Che è tante cose. Strada infinita (quattro chilometri) e multietnica. Il che porta alcuni a vederci uno straordinario laboratorio della Milano che sarà e altri invece a inquadrare la situazione in chiave d’allarme sicurezza, di degrado, e buonanotte.
Il penultimo aggiornamento in ordine di tempo con Luigi Galbusera, coordinatore di zona del Partito democratico, in assenza di dati ufficiali verteva sul commento del consolidamento di un trend. Ecco il commento, registrato intorno alle 22: «Il trend ci dice che, rispetto al 2010, siamo molto, molto cresciuti» . Con Pisapia che ha scollinato anche quota 50%. Un secondo colloquio telefonico con Galbusera, verso le 23, aveva i primi dati. Quattro seggi, dei quali tre al Trotter e uno in via Giacosa. Il risultato? Arretramento, se confrontato con il 2010, della Lega e avanzata del Pd. Fortissimo arretramento. E forte avanzata. La città asiatica e il 60%Via Padova rientra nella zona 9. La 9 va dalla stazione Centrale a Garibaldi, dall’Isola a una periferia purissima— dagli italiani del dopoguerra agli ultimi stranieri quartiere d’immigrazione, palazzi popolari, un certo degrado e una certa vita da casa di ringhiera che resiste —, una periferia dicevamo come quella di Niguarda.
In Zona 9 con 145 sezioni su 152 il centrosinistra era al 49,1%. Di contro, Pdl al 27,5%e Lega all’ 11%. I numeri che avete fin qui trovato, sono parziali. Da oggi, dopo la maratona, si avranno quelli certi. Non dovrebbero essere lontani dai definitivi i numeri di Chinatown. Vero, è considerata una «roccaforte» del centrosinistra; eppure, ci hanno detto dai seggi alcuni osservatori del Pd, le aspettative sono state parecchio superate. Del resto in alcuni seggi di via Giusti hanno riferito di 60, anche 62%per Pisapia. Il quale, va detto, ha compiuto un viaggio regolare. Prendiamo la Zona 4 (Vittoria e Forlanini): a 133 sezioni su 145 il centrosinistra conquistava il 48,6%dei voti contro il 41,1%. La Zona 8 (Fiera, Gallaratese e Quarto Oggiaro): a 156 sezioni su 169 Pisapia aveva il 47,8%mentre gli avversari si fermavano al 41%.
E ancora la Zona 7 (Baggio, De Angeli, San Siro): a 159 sezioni su 167 per Pisapia quasi il 47%e per la Moratti un risicato 42%. Prendiamone un’ultima. Ultima col botto. La Zona 3 (Città Studi, Venezia, Lambrate). A 124 sezioni su 132 Pisapia era al 49,9%e la Moratti al 42%. I parlamentini Ricapitolando. Sul tardi, 8 Zone su 9 ormai del centrosinistra, e la rimanente (la 1, quella del centro) probabile. Oggi sapremo. Sempre la 1, come detto notoriamente sventolante bandiera Pdl, ha pure visto l’affermazione del Pd nella partita — un’altra partita, diversa, per composizione degli schieramenti e squadre in campo — dei Consigli di zona. A 68 sezioni su 105 esaminate, la coalizione per Pisapia era al 47%e la coalizione «Milano sempre più bella» (Pdl e la Lega) al 44,94%.
postilla
Si è detto molto, su questo sito, a proposito del coprifuoco nelle vie e nei quartieri milanesi “puntati” verso i grandi nodi di riqualificazione e speculazione urbana, del legame piuttosto spudorato fra le strategie urbanistiche e certe assurde politiche pubbliche fascistoidi a dir poco. Negozi chiusi al tramonto, apparentemente contro ogni buon senso, per garantire la “sicurezza”, pieno sostegno alla logica leghista di ostacolare in ogni modo tutte le attività commerciali diverse dalle solite botteghe di stilisti centrali o poco altro, privatizzazione dello spazio pubblico. Era un vero Grande Disegno, e chi ci stava schiacciato in mezzo lo capiva eccome. Ecco per ora la sola reazione: la cura deve ancora arrivare, speriamo presto e decisa, ben oltre le grandi dichiarazioni di intenti o i classici inviti alla solidarietà. Sarà anche il banco di prova per verificare le nuove frontiere (quelle oneste, realistiche, auspicabili) del rapporto pubblico-privato, della sostenibilità ambientale e sociale. Si chiama planning? Speriamo: se non altro si capisce (f.b.)
MANTOVA — Ma insomma, come è stato possibile anche solo immaginare che proprio di fronte a un sito dell’Unesco ammirato in tutto il mondo potessero essere costruite 200 villette a schiera e un albergo? E come è stato possibile che un’idea così fuori dal mondo potesse fare tanta strada? Lo stupore che per anni ha accompagnato gli amanti del bello, gli ammiratori di Mantova ma anche le più alte cariche ministeriali è stato anche quello dei giudici del Tar, che hanno con ogni probabilità scritto la parola «fine» sul progetto di far nascere un quartiere residenziale affacciato sulla «skyline» rinascimentale della città dei Gonzaga.
I giudici amministrativi (in questo caso quelli di Brescia) hanno ribadito che il vincolo introdotto nel 2008 dalla Soprintendenza è del tutto legittimo e dunque ogni edificazione è impossibile; ma tra richiami a codici, sentenze e mappali del catasto il tribunale si lascia scappare anche un moto, per così dire, «patriottico» , sottolineando come per una nazione sia fondamentale mantenere la memoria storica e «immateriale» della propria identità. Tira un duplice sospiro di sollievo, alla luce della sentenza, il sindaco di Mantova Nicola Sodano (Pdl), architetto esperto del paesaggio: «Il Tar di Brescia, ritenendo valido il vincolo della Soprintendenza, ha detto chiaro e tondo che non potranno nascere villette in riva ai laghi di fronte al centro storico.
Questo dispositivo, unito a un altro pronunciamento del Consiglio di Stato ci mette al sicuro: non solo l’arrivo delle ruspe è scongiurato ma anche siamo al riparo di fronte a richieste di risarcimento da parte di chi intendeva costruire» . Nel motivare la fondatezza del vincolo ambientale sull’intero insieme del centro storico e dei laghi di Mantova, i giudici amministrativi fanno appello a principi alti: «Preme — scrivono nel loro dispositivo— ricordare i datati, ma ancora attuali insegnamenti della Corte Costituzionale alla stregua dei quali emerge come la cultura non abbia solo un rilievo autonomo ma che possa integrarsi anche con le res materiali antropiche di riconosciuto valore storico ed architettonico quali simboli perenni della sua espressione medesima, sia con le res naturali» .
E ancora: «La conseguenza pratica necessaria non può altro che essere quella di conservare, valorizzare, proteggere tutto ciò come espressione della memorie di una nazione, dalla sua formazione, anche storica e culturale (e la città ducale ne è incontestabile esempio)» . Detto fuori dal forbito linguaggio giuridico: sarà anche vero che con la cultura non si mangia, ma certi valori immateriali sono indispensabili alla vita civile di una comunità. Concetto scontato? Sarà, ma intanto il progetto delle villette con vista sui palazzi dei Gonzaga ha «ballato» per un buon quinquennio: l’immobiliare «Lagocastello» aveva presentato il suo progetto all’allora amministrazione di centrosinistra.
Ma l’ipotesi della nascita di un cosiddetto «ecomostro» era divenuta di dominio pubblico suscitando lo sconcerto anche del ministero dei Beni culturali; a quel punto il Comune di Mantova aveva fatto dietrofront e la soprintendenza introdotto nuove tutele sull’area. Ma i costruttori, che avevano già recintato l’area da edificare e piantato cartelli del cantiere, avevano minacciato richieste di danni per decine di milioni di euro e il ricorso alla magistratura. Finiti, al momento, come si è visto.
Settemila abitanti in meno dal ’ 91 a oggi e una popolazione over 65 ormai prossima alla soglia del 25%del totale. Fosse un film sarebbe «2011, fuga da Varese» e anche se la flessione non è certo cominciata ieri chi governerà la città nei prossimi cinque anni dovrà fare i conti con questa tendenza: una comunità che fatica a ridarsi una identità dopo la perdita delle vocazione industriale e che sente — in fatto di dinamismo — il fiato sul collo degli altri centri della provincia, Gallarate e Busto (quest’ultima, proprio all’inizio di quest’anno ha scavalcato Varese per numero di abitanti).
Sconfiggere il senso di marginalità e di «città -dormitorio» , sottrarsi a quel piano inclinato che porta sempre più giovani, sempre più talenti a migrare verso Milano: per quanto non apertamente dichiarato, questo è stato uno dei temi della campagna elettorale. Basti pensare che uno dei temi più dibattuti tra i candidati, nei forum dei sostenitori, negli incontri pubblici è stato l’eterna incompiuta dell’attività culturale a Varese. Costruire o no un teatro pubblico (il progetto di trasformare in questo senso l’ex caserma Garibaldi «balla» da un quindicennio)? Investire o no in mostre, appuntamenti, musica, università proprio per ridare smalto e capacità attrattiva a un capoluogo sempre più con i capelli bianchi?
«Con la cultura non si mangia» è stato detto di recente e il rischio di giocarsi il consenso annunciando in campagna elettorale roboanti investimenti in un periodo in cui mancano i soldi anche per rattoppare i marciapiedi ha indotto quasi tutti i candidati a non sbilanciarsi. D’altra parte nessuno dei «competitors» ha ceduto ai richiami della piazza promettendo mari e monti su un altro fronte su cui sarebbe stato facile fare «cassetta elettorale» : il Varese calcio dopo decenni di quaresima sportiva si sta giocando l’ascesa in serie A e la tifoseria reclama uno stadio nuovo. Ma anche in questo caso la classe politica ha scelto il profilo basso.
Detto dei temi chiave che saranno sul tavolo di Palazzo Estense nel prossimo quinquennio, resta da stabilire chi saranno i nuovi inquilini del municipio varesino. Sulla carta non sembra esserci partita: nella città -vetrina del Carroccio il sindaco uscente Attilio Fontana (Lega), che nel 2006 fece suo il 57,8%dei voti si ricandida e si è garantito il sostegno del Pdl. Rispetto a cinque anni fa, tuttavia, Fontana ha perso per strada l’Udc e i finiani che si affidano a Mauro Morello. In più nel campo dell’elettorato moderato e di centrodestra il fronte è quanto mai frammentato: in questo bacino elettorale «pescheranno» altri pretendenti alla carica di sindaco come Mauro della Porta Raffo, Raffaella Greco, Alessio Nicoletti o Flavio Ibba.
Alla pattuglia va aggiunto anche l’indipendentista padano Egidio Castelli. Ognuno di loro potrebbe diventare decisivo in caso di ballottaggio. Di converso il centrosinistra ha litigato molto meno che in passato e si è concentrato con sufficiente anticipo sulla candidatura di Luisa Oprandi, insegnante di estrazione cattolica, appoggiata da Pd, Idv e Sel e da una lista civica. Unica «concorrenza» a sinistra sarà quella rappresentata di Carlo Scardeoni (Rifondazione e Pdci) e Francesco Cammarata (Movimento 5 stelle). In definitiva decideranno gli indecisi: nel 2006 appena 67%dei varesini espresse il suo voto alle amministrative ma per scuotere la città dal torpore quasi nessun leader politico nazionale ha fatto tappa a Varese. Hanno compiuto una «capatina» solo Casini e Di Pietro, nei prossimi giorni si farà vedere Umberto Bossi. Ma è davvero il minimo sindacale, per una città capoluogo.
Controlli insufficienti, incapacità di spesa dei fondi a disposizione, ricorso eccessivo alla decretazione d'urgenza attraverso la Protezione civile, scarso scambio di informazioni tra uffici centrali e periferici. Sono le accuse mosse alla macchina amministrativa del ministero dei Beni culturali dalla Corte dei conti in una relazione dedicata alla manutenzione dei siti archeologici. Pur riconoscendo risultati positivi ottenuti nella conoscenza del patrimonio presente sul territorio, la magistratura contabile muove tutta una serie di rilievi al modo in cui il Collegio romano si occupa della tutela. Criticità motivate "in parte anche a causa delle stressanti riforme che hanno interessato il Mibac nell'arco di un quinquennio", ha spiegato l'indagine, ma non per questo meno gravi. A cominciare dalla mancanza di comunicazione fra gli uffici: "Il primo dato critico è rappresentato dalla instabilità organizzativa, la quale inevitabilmente riverbera i suoi effetti nel raccordo sia tra direzioni generali (e tra queste e sedi periferiche) che con gli altri livelli istituzionali", si legge nella relazione. I principali problemi? Le "sovrapposizioni funzionali, con duplicazioni di competenze tra direzioni generali e direzioni regionali". Dura l'accusa: "Non è stata definita una moderna struttura manageriale, mantenendosi invece un apparato centrale ibrido a carattere verticale che assolve a limitate funzioni, pur assorbendo risorse significative, col risultato di un forte deficit di controllo sull'attività svolta dalle soprintendenze". Una "colpa" che va divisa a metà, secondo la Corte dei conti: da una parte i dirigenti regionali (a loro volta tenuti a controllare le soprintendenze) non sempre rispettano la disposizione secondo cui ogni tre mesi devono informare sul loro lavoro il dirigente generale alle Antichità; dall'altra per l'abitudine di quest'ultimo ad un "recepimento acritico delle istanze regionali". Non va meglio nel coordinamento dell'attività di tutela dei beni archeologici: "Non è stata realizzata la banca dati unificata in cui far confluire i sistemi informatici riguardanti diversi aspetti conoscitivi". I numerosi sistemi operativi esistenti, gestiti da centri di raccolta differenziati, insomma, non dialogano tra loro. Così accade che, per uno stesso sito, le concessioni di scavo affluiscano esclusivamente alla direzione generale alle Antichità, gli introiti e i visitatori delle aree archeologiche alla direzione Bilancio, mentre la catalogazione e la documentazione afferisce al Segretario generale. Male anche la parte economica, a causa dell'incapacità di spesa, "paradossale a fronte delle scarse risorse". Alla base della formazione di consistenti giacenze di cassa, osserva la Corte dei conti, il "ritardo congenito della messa a disposizione dei fondi", con accreditamenti che a volte avvengono addirittura alla fine dell'anno finanziario. Anche "la lentezza nell'espletamento delle gare per l'affidamento dei lavori" ed il blocco delle risorse in quei progetti pluriennali che obbligano a spendere a seconda dell'avanzamento dei cantieri". E' il ricorso alle gestioni commissariali per l'attività di manutenzione dei siti archeologici, tuttavia, il tasto forse più dolente. Perché è vero che la situazione muoveva "da reali difficoltà e conseguenti rischi per singole opere o aree archeologiche - ha sottolineato la magistratura contabile - ma la creazione di gestioni commissariali aventi maggiori possibilità di deroga su siti tra i più importanti dell'intero pianeta, come la zona archeologica di Pompei, le aree di Roma, Ostia antica e la Domus Aurea, non era necessaria. La tipologia delle realizzazioni in concreto poste in essere nel 2009 - si legge ancora nella relazione - conferma, infatti, che si tratta di interventi che ben si sarebbero potuti effettuare con gli strumenti dell'ordinaria amministrazione. Quanto a Pompei, i presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza erano sostanzialmente assenti. Di qui, l'auspicio ad una maggiore trasparenza, soprattutto considerata la evidente scarsità di risorse destinate alla manutenzione dei siti archeologici, e l'assunzione di misure autocorrettive.