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Trecentosettantamila euro. Con questi soldi ci si paga a malapena un mese di stipendio (lordo) all’amministratore delegato dell’Eni o della Finmeccanica. Oppure due mesi e mezzo a quello delle Poste. Ebbene, di trecentosettantamila euro ci si dovrà accontentare quest’anno per la manutenzione di uno dei siti archeologici più vasti e preziosi del mondo: la villa dell’imperatore Adriano a Tivoli. La Soprintendenza aveva spiegato che due milioni e mezzo, viste le condizioni, era il minimo. Ma dal ministero dei Beni culturali hanno risposto picche: le casse languono, e 370 mila euro devono bastare. Ormai è un classico. In tre anni, a fronte di richieste per 6,7 milioni, è arrivato un milione e mezzo. Inutile meravigliarsi che le aree chiuse al pubblico con il cartello «pericolo di crollo» (un cartello rigorosamente ed esclusivamente in italiano, nonostante una maggioranza di visitatori stranieri) siano sempre più numerose, come documentano le immagini in questa pagina.

Eppure Villa Adriana è uno dei 45 luoghi italiani che l’Unesco ha dichiarato Patrimonio dell’umanità. Forse la testimonianza architettonica di epoca romana più complessa e importante arrivata fino a noi: basta dire che si estende su una superficie di 80 ettari, più vasta di quella di Pompei. Sito che per le sua particolare situazione (i resti sono esposti alle intemperie, senza coperture) avrebbe bisogno di una manutenzione profonda e continua. Non per nulla l’archeologo di fama mondiale Andrea Carandini, subito dopo il crollo della Schola Armaturarum di Pompei aveva dichiarato al Corriere: «Tutti i luoghi come Pompei, Ercolano e Villa Adriana sono a rischio permanente». Un allarme che cozza con il trionfalismo di iniziative propagandistiche come quella che ha avuto come interprete nientemeno che il premier Silvio Berlusconi. Protagonista qualche mese fa di uno spot sul sito internet Italia.it, esordiva testualmente così: «L’Italia è il Paese che ha regalato al mondo il 50 per cento dei beni artistici tutelati dall’Unesco…» . Una sparata che avrà fatto fare un salto sulla sedia ai signori delle Nazioni Unite. E non soltanto a loro, se è vero che, pur detenendo il record mondiale di beni Unesco per un singolo Paese, ne abbiamo 45 su un totale di 911 sparsi per tutto il pianeta. Ovvero, il 5 per cento.

Ci sono poi i risultati impietosi di un dossier stilato nel 2010 da PricewaterhouseCoopers. Secondo il quale, fatta 100 la capacità di sfruttamento ai fini turistici dei beni italiani tutelati dalle Nazioni Unite, quelli spagnoli e brasiliani si collocano a 130, i francesi a 190 e i cinesi addirittura a 270. La Cina, insomma, utilizza i propri siti Unesco quasi tre volte meglio di noi. E si capiscono allora certi numeri. Villa Adriana è stata dichiarata Patrimonio dell’umanità nel dicembre 1999. Da allora ha perduto il 41,8 per cento dei visitatori paganti. Erano 187.202 nel 2000, sono stati appena 108.811 nel 2010: 46 mila in meno di quelli registrati nel 2008 dallo zoo di Pistoia. Non meno imponente è stata l’emorragia complessiva considerando anche i non paganti. Dai 323.231 visitatori del 2000 si è scesi ai 229.885 del 2010. Le ragioni del male oscuro? Secondo la studiosa Federica Chiappetta, autrice del saggio «I percorsi antichi di Villa Adriana» esiste un serio deficit di divulgazione «del suo straordinario significato storico e architettonico». Carandini sottolinea anche l’accesso «terribilmente scoraggiante» alla Villa e a Tivoli. Di fondo c’è l’incapacità di fare sistema: in nessun altro Paese del mondo la dimora di uno dei personaggi più importanti nella storia dell’umanità sarebbe così tagliata fuori dai circuiti turistici. E ridotta a raccattare le briciole dei fondi pubblici per evitare di andare in rovina.

Direte: se questo è il trattamento che viene riservato alla dimora che l’imperatore Adriano fece costruire a partire dal 117 dopo Cristo, figuriamoci che cosa succede agli altri nostri patrimoni… Invece qualche eccezione c’è. Il 9 maggio 2011 il ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla ha annunciato che il suo ministero finanzierà con 7,3 milioni di euro «i progetti di eccellenza della Regione Lombardia» , fra cui «la valorizzazione del ramo lecchese del Lago di Como» e del «sito Unesco di Ossuccio» . È una cifra venti volte superiore a quella destinata per il 2011 a Villa Adriana. Inevitabile notare come Michela Vittoria Brambilla sia originaria di Calolziocorte, in provincia di Lecco. Particolare che fa ironizzare un alto funzionario dei Beni culturali: «Forse per salvare Villa Adriana basterebbe spostarla in Lombardia» . Magari insieme a qualche ministero…Le aree chiuse con il cartello «pericolo di crollo» (scritto solo in italiano, nonostante una maggioranza di visitatori stranieri) sono sempre più numerose. Eppure, per restaurare Villa Adriana, uno dei 45 luoghi italiani che l’Unesco ha dichiarato Patrimonio dell’umanità, sono stati stanziati appena 370 mila euro. Ne servirebbero 2 milioni e mezzo.

Vicente Gonzales Loscertales, il segretario del Bie, si è svegliato improvvisamente: è venuto a Milano a dirci non tanto e non solo che siamo in ritardo sia nell´avviare le opere sia nel risolvere il problema delle aree, ma che l’Expo sin qui proposto non va affatto bene. Perché non lo ha detto prima? Il masterplan del quale eravamo a conoscenza noi mortali è in Internet da un paio d’anni e da altrettanto tempo nel sito di Expo 2011. Non ne sapeva nulla? Siamo poco credibili noi all’estero ma anche il Bie dopo questa tardiva uscita milanese del suo segretario non ci fa una bella figura.

Allora piano piano si delinea un nuovo scenario partendo dall’affermazione del nostro bravo segretario: «La gente non fa centinaia di chilometri per vedere coltivare le melanzane». Noi pronti, e si capisce bene il perché visti i personaggi in campo, felici e festanti cogliamo al balzo l’idea di un tuffo nell’Ottocento: un’Esposizione internazionale fatta di padiglioni vieux style dove ognuno mostri le sue meraviglie. Sempre il nostro segretario tuttavia dichiara di essere "entusiasta" dell’idea guida dell’Expo milanese, "Nutrire il pianeta", ma siccome il problema della "fame" alimentare non gli pare abbastanza ampio, lo allarga alla fame di energia e al problema della sostenibilità.

Buona idea, quella di Loscertales, nuova soprattutto. E per concludere il suo pensiero lancia un messaggio a tutti i milanesi: «L’eredità dell’Expo sarà la sostenibilità. La sfida è lasciare in eredità un messaggio culturale nuovo». Aria fritta. Come disse il vecchio Bartali: «Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare!». Intanto cominciamo a mettere i puntini sulle "i". La soluzione del problema della fame nel mondo è principalmente un cambiamento delle abitudini alimentari della parte ricca dell’umanità, così come il problema dell’energia concerne il risparmio energetico e le fonti alternative. Per l’alimentazione non c’è scampo: cambiare le abitudini alimentari e pensare al cosiddetto "chilometro zero". Possiamo aspettarci che nel padiglione della Germania venga mostrata una campagna di pubblicità progresso in cui s’invitano i tedeschi a mangiare meno maiale? Gli inglesi a mangiare meno roast beef? Gli argentini a produrre meno carne, visto che è il cibo che consuma più risorse di ogni altro?

Tanto per concludere ci troviamo di fronte a un’operazione senza alcuna idea forte (e nemmeno debole), così a nessuno verrà in mente che il cibo e la sua produzione sono l’arma politica più forte per dominare il mondo. Avremo un gruppo di edifici eterogeneo che non passeranno certo alla storia dell’architettura - visto l’imperante "facciamoceli da noi" - che, di fatto, esclude i concorsi di progettazione. Ma ci sono alcune certezze. Avremo un ponte che raccorda l’area dell’Expo con l’operazione immobiliare di Cascina Merlata, dove ci sono tutti gli operatori milanesi: "il club del mattone". Avremo gli appalti affidati alla gestione di Infrastrutture Lombarde, una società della Regione nota per la preferenza ai tipi di appalto che lasciano maggior discrezionalità di scelta; non vi sarà una sola vera gara. Tutto chiuso col solito lucchetto di marca Cl. Perché? Perché siamo in ritardo. Emergenza, necessità assoluta: è nel bisogno che si riconoscono gli amici! Favoriamoli!

Un convegno al teatro Argentina di Roma organizzato da Montezemolo, guest star l'industriale delle calzature Diego Della Valle, che traccia il futuro dei beni culturali dopo Berlusconi: privati e affaristi all'assalto del nostro patrimonio.

Il livello e la qualità del dibattito sono stati definiti con estrema precisione da una frase del critico d'arte Francesco Bonami: «Abbiamo la fortuna di fare un buco per terra e trovare magari i Bronzi di Riace». È un po' come se un sovrintendente di teatro d'opera pensasse alla tetralogia wagneriana perché gli mancano tre spettacoli con i quali chiudere il cartellone. Naturalmente non è che Bonami non sappia che le due statue sono state ritrovate in fondo al mare, ma sono i meccanismi automatici della competenza che non hanno funzionato. Senonché, nella cifra di un pressapochismo travestito da professionalità e autorevolezza s'è iscritto l'intero convegno voluto da Luca di Montezemolo che attraverso la sua fondazione Italia futura ha organizzato l'altro giorno al teatro Argentina di Roma una giornata dal titolo retorico e nazionalista: "Cultura. orgoglio italiano”. Il tema, non dichiarato ovviamente, nascosto nelle strategie più o meno confessabili di un blocco sociale degli affari e del denaro che si sta preparando al post berlusconismo, è in buona sostanza la privatizzazione della cultura, idea resa glamour e attraente dalla magnificazione dell'impegno finanziario di 25 milioni di euro da parte di Diego Della Valle per il restauro del Colosseo. Probabilmente a muovere il fabbricante di scarpe marchigiano non sono solo la pubblicità e il marketing.

Ci deve anche essere il desiderio di passare alla storia, come quel signore della Roma antica che nel primo secolo avanti Cristo guadagnò un sacco di soldi come organizzatore di banchetti pubblici e si fece costruire a mo' di tomba nientemeno che la Piramide Cestia. Il tempo è spietato, dell'antico imprenditore del catering oggi nessuno ricorda il nome (Caio Cestio Epulone). Proprio Della Valle, socio di Montezemolo nella società Ntv di treni privati ad alta velocità, ha aperto la giornata esibendosi in una specie di assolo con protagonismo leggermente ribassato dalla presenza di due "spalle", l'archeologo Andrea Carandini e un giornalista moderatore, Antonio Monda. Della Valle esordisce con la proposizione più luogocomunista dell'anno, «sono orgogliosissimo di essere italiano», e prosegue con una chiamata di tutti gli imprenditori nostrani a impegnarsi per questo Paese che ha «la leadership turistica e culturale: si tratta di una questione pratica perché vuol dire un'Italia che funziona, significa lavoro per i giovani».

C'era quindi una quantità di bella gente all'Argentina, esponenti del mondo dell'editoria, dell'arte, del cinema, della musica, del turismo, fra gli altri Francesca Cappelletti (docente del dipartimento di scienze storiche all'università di Ferrara), Luca De Michelis (amministratore delegato della Marsilio), il direttore del Piccolo di Milano Sergio Escobar, il direttore d'orchestra Daniele Gatti, l'archeologo e consigliere del Quirinale per la conservazione del patrimonio artistico Louis Godart, Roberto Grossi presidente di Federculture, il regista Daniele Luchetti. Soprattutto c'erano un po' di businessmen e manager: oltre a Montezemolo e Della Valle, Paolo Pininfarina, il produttore e presidente Anica Riccardo Tozzi, Stefano Ceci presidente di Gh Group (una rete di imprese per lo sviluppo del turismo), la produttrice discografica Caterina Caselli, l'ex capo della Mondadori e potente presidente del Centro per il libro Gian Arturo Ferrari, oltre alla presidente del Fondo ambiente italiano (il Fai) Ilaria Borletti Buitoni, una delle signore dell'alta borghesia industriale milanese.

Sul binomio cultura-turismo, la nuova parola d'ordine degli uomini d'affari sembra "conquista": occupazione dell'ultimo pascolo ricco e sfruttabile di un Paese economicamente e produttivamente in declino. Pressoché unanimemente rifiutata dagli oratori l'odiosa definizione di "petrolio" per i nostri beni culturali, poco politically correct in tempi di ambientalismo spinto. Quindi adesso, aggiustata la terminologia, incomincia lo sfruttamento da parte dei privati. Un quadro che Carandini implicitamente conferma con la prima frase del suo discorso, «Ringrazio Della Valle per quello che sta facendo per il Colosseo», per poi affermare: «Dobbiamo attrezzarci per ricevere le masse asiatiche». Il resto sostanzialmente è contorno, ripetizioni, considerazioni spicciole, un po' di cifre per dare corpo statistico alle affermazioni, acquiescenza temperata dai distinguo, e su tutto in sintesi la considerazione: signori fatevene una ragione, lo Stato non ha più soldi. «I denari verranno dai privati» - osserva Gian Arturo Ferrari - E lo Stato deve facilitare il loro impegno finanziario». D'altronde l'architetto Roberto Cecchi, segretario generale del ministero dei Beni culturali, anche lui fiero di essere italiano e testimone dell'orgoglio dei lavoratori del Collegio Romano, l'aveva detto poco prima che "la priorità sono gli investimenti in cultura e che ci vuole semplificazione amministrativa». Gli risponde, contenta di sentire «le parole-chiave cultura, orgoglio, Italia» (s'imparava al liceo fino a pochi anni fa che la cultura era internazionale, apolide addirittura e apparteneva a tutti gli uomini: saranno cambiate le cose), Ilaria Borletti Buitoni che chiede «di agevolare le donazioni private e non creare impacci burocratici». Ciascuno a suo modo, per buoni motivi o ambigui, chiedono allo Stato di tirarsi indietro dai Beni culturali, manco si trattasse delle privatizzazioni anni Novanta che hanno contribuito a ridurre l'Italia al rango di Paese più industrializzato del Terzo mondo.

Quindi voilà Stefano Ceci, il presidente di Gh, che ha già scritto per il sito della fondazione di Montezemolo, spiegare al pubblico: «La cultura non è un'industria ma è la più potente infrastruttura italiana». Che vuol dire? Vuol dire, secondo Ceci, che la nuova economia italiana «non può che essere tessile. Un filato, una nuova tessitura capace di produrre valore. Un'economia che mette in rete luoghi, territori, imprese. Una nuova economia che fruisce dell'infrastruttura culturale». Ergo una postmoderna industria "tessile" in cui la cultura fungerebbe da telaio ed evidentemente gli artisti, la gente di teatro e di cinema, i restauratori, i cantanti, gli orchestrali sarebbero gli operai del ventunesimo secolo necessari alla produzione di merci - l'arte, il bello, lo spettacolo, la musica, la conservazione dei beni culturali - da vendere attraverso una catena commerciale chiamata turismo. A Paolo Pininfarina piace «la cultura del fare» (slogan che negli ultimi anni non sembra aver portato tanta fortuna alla Nazione) e approfitta dell'occasione per incensare l'amico Luca: «Montezemolo è un grande creativo e un grande presidente». Presidente di che? Ovviamente Pininfarina non specifica.

Gli interventi erano divisi in blocchi tematici - La cultura in Italia, Cinema ed editoria, arte e design - e siccome tutta questa bella gente parlava da uno dei più importanti palcoscenici di prosa italiani, l'ultimo tema era, the last and the least, Teatro e musica, tanto per ricordare a chi dava ospitalità quanto conta. Fin dall'inizio della passerella si era capito che aria tira presso coloro che si preparano a governare il post berlusconismo: sul palco diciotto poltrone bianche minacciosamente simili a quelle di "Porta a Porta", in platea metà dei posti riservati al potere (attuale, futuro, possibile, sperato, rivendicato), comunicazione autoritaria di tipo unidirezionale da chi parla a chi ascolta senza nessuna possibilità di interazione e di dialogo, concione quasi finale del monarca locale (Montezemolo): «Improcrastinabile una maggiore integrazione tra flussi turistici e valorizzazione dei beni culturali»; «l'obiettivo deve essere trasformare le imprese in protagonisti dell'innovazione dell'offerta turistico culturale»; «le responsabilità del pubblico e quelle dei privati devono trovare un modo per lavorare insieme meglio».

Chiusura con ospitata di Giancarlo Galan che si esibisce nell'uso di un vecchio arnese della retorica: dice tutto quello che un ministro dovrebbe fare, facendo finta di non essere lui il ministro. Applausi.

A nessuno viene in mente un'altra soluzione: studiare un modo di dare dei soldi a quanti si occupano d'arte e lasciarli lavorare in pace. A proposito del Mibac, ne ha chiesto sabato scorso la soppressione sic et simpliciter la presidente di Confcultura Patrizia Asproni, che parlava all'Auditorium di Roma nel quadro di un convegno intitolato "Vivere di cultura'', organizzato da Baier, consorzio costituito da cinque istituti culturali italiani (la Treccani, l'Istituto Luigi Sturzo, la Fondazione Lelio e Lisli Basso, la Società Geografica Italiana e la Fondazione Gramsci). «Sono stanca del Mibac - ha tuonato la signora - non ne abbiamo più bisogno. Il patrimonio culturale del Paese deve entrare nell'area di competenza del ministero dello sviluppo economico».

Tuttavia, più interessanti delle idee delle Asproni, sono le informazioni che fornisce. Dice la presidentessa di Confculture che fino a un po' di tempo fa la sua confederazione era considerata nella Confindustria di cui fa parte poco più di uno scherzo. Ora invece da un po' di tempo in qua gli imprenditori stanno facendo la fila per capire come si può trarre denaro dai beni culturali. La Asproni è di chiacchiera schietta: «Noi siamo imprenditori e vogliamo fare profitti. Della Valle prima investiva nello sport, ora nel Colosseo. Lo sport non ha più appeal a causa della corruzione e del doping». Verissimo, infatti da quando lo sport è finito in mano al denaro è degenerato. Da quando la grande industria si è impossessata della moda, soppiantando progressivamente gli artigiani, anche questo ambiente s'è inabissato nella cocaina e nella corruzione. Quanto più certi imprenditori si sono occupati di politica, tanto più il Parlamento è diventato una prateria per le scorribande dei comitati d'affari. Adesso sembra proprio arrivato il momento dei beni culturali: ecco la nuova pista del denaro, del saccheggio, del riciclaggio e della coca? Visto l'andazzo, forse tornerà in auge un vecchio e famoso aforisma di Goebbels: «Quando sento la parola cultura, la mia mano va alla Luger».

Corriere della Sera

La meta nobile di Milano

di Nicola Zanardi

A meno di 1.400 giorni dall'inizio di Expo 2015, nei giorni degli esami di maturità, abbiamo riletto Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita sul sito www. expo2015. org. Invitiamo tutti i cittadini a farlo, vista la bellezza e la contemporaneità del tema, anche se, forse, meriterebbe una riscrittura più ponderata e attenta rispetto a quella attuale. Una prima associazione porta ad un grande «educatore» e intellettuale milanese, Riccardo Bauer, motore inesauribile di quella grande officina sociale, e non solo, che è stata ed è la Società Umanitaria, vero e proprio serbatoio di intelligenza della Milano da ricostruire e sviluppare nel secondo dopoguerra. Educare alla democrazia e alla pace è una bellissima antologia dei suoi pensieri, dove la passione civile diventa la materia prima per diffondere la cultura tra i lavoratori, creare scuole professionali, integrare i più deboli.

In tempi in cui il tema della crescita si intreccia con moltissime discipline, senza una educazione alla pace e alla giustizia, il Pianeta non troverà alimento per tutti. E da Bauer, educatore locale su temi globali, a Eric Hobsbawm, storico globale sensibile ai temi locali, il passo è breve. Che cosa ci insegna lo storico, peraltro oggetto di una traccia dell'esame di maturità di quest'anno? Tra le tante, una davvero fondamentale: la fine delle civiltà contadine è la conclusione di un modello evolutivo durato per migliaia di anni, nonché il momento sociale più drammatico degli ultimi cinquanta anni. Nella seconda parte del «secolo breve» , per citare il suo libro più famoso, la cultura agraria si trasforma in società industriale.

Europa e Giappone prima, poi il Sudamerica e, infine, i Paesi Asiatici abbandonano la cultura contadina, unico collante non industriale globale. Da queste due figure molto lontane emergono il concetto di limite e quello di rispetto. Limiti all'uomo e al suo potere, rispetto dell'altro e dei suoi diritti. La crescita, nello scenario che si è delineato in questi anni, è un oggetto a più facce: ci saranno circa due miliardi di persone in più entro il 2050, ci dicono i demografi. Occorrerà utilizzare saperi, tecnologie, innovazione e tanta formazione per consumare molte meno energie e materie prime. Nutrire il pianeta di democrazia, formazione e salute sarà l'unico modo affinché l'alimentazione, la prevenzione e le economie raggiungano un punto di equilibrio.

I padiglioni di Expo 2015 possono essere i nuovi perimetri delle tante culture che l'uomo ha saputo creare dove modelli di democrazia, di formazione, di sanità dovranno conquistare il palcoscenico più grande. Un grande software universale fatto da una sapienza millenaria e dalla conoscenza applicata del terzo Millennio. Modelli da scambiare, da esportare, da importare. Chiediamo a tutti i Paesi di portarci queste esperienze. Troviamo il modo di chiederlo anche a chi ha meno potere: le associazioni, le Ong, i tanti utopisti del mondo che trovano un riscontro quotidiano alle loro idee nelle diverse realtà quotidiane. Nutrire vuol dire soddisfare necessità vitali ma anche alimentare e arricchire lo spirito. Milano, nei prossimi anni, ha una meta nobile e precisa verso cui tendere.

Il Fatto Quotidiano

Expo 2015: lo strano caso Boeri-Pisapia

di Gianni Barbacetto



Che strana coppia, Giuliano Pisapia e Stefano Boeri. Quando si sono scontrati alle primarie per scegliere il candidato sindaco del centrosinistra a Milano, Pisapia era, per la stampa, il candidato molto di sinistra amico di Nichi Vendola e Boeri era invece l’uomo del Pd che parlava con Pier Luigi Bersani e lavorava per l’immobiliarista Salvatore Ligresti. Ora, dopo il trionfo arancione e l’ingresso di Pisapia a Palazzo Marino, le parti in commedia sembrano essersi invertite. Tema: l’Expo, naturalmente, cioè il primo dossier di peso che il nuovo sindaco ha trovato sulla scrivania finora occupata da Letizia Moratti.

Ora Pisapia sembra diventato realista e moderato, disponibile a realizzare il progetto, molto immobiliare, imposto dal presidente della Regione Roberto Formigoni; mentre Boeri ha provato a insistere sulla sua idea, secondo cui le aree dell’Expo devono ospitare un grande parco permanente degli orti planetari, mica essere sommerse dal cemento.

Bella grana, per il sindaco appena insediato in piazza della Scala, tra l’entusiasmo della Milano di sinistra e la soddisfazione di quella moderata. Non aveva neppure completato il trasloco, che si è trovato il dossier Expo sul tavolo, con la soluzione già decisa da Formigoni: le aree su cui realizzare l’Esposizione universale del 2015 (un milione di metri quadri, due terzi della Fondazione Fiera, controllata dalla Regione di Formigoni, un terzo del gruppo Cabassi) dovranno essere comprate da una società appositamente costituita, la Arexpo spa, che poi le metterà a disposizione della società Expo spa per realizzare l’evento. Costo dell’operazione aree: 120 milioni di euro, 80 alla Fondazione Fiera, 40 a Cabassi, sborsati dal Comune di Milano (38 milioni per avere il 51 per cento di Arexpo), dalla Regione (9,5 milioni per il suo 12,7) e dalla Fondazione Fiera (che ottiene il 34,9 per cento di Arexpo senza versare un soldo, ma conferendo i suoi terreni). Qualche euro lo metteranno anche la Provincia di Milano e il Comune di Rho, che nella nuova società avranno lo 0,7 per cento.

Qual è il problema che preoccupa Pisapia? Che dopo averci messo tutti questi soldi, l’Expo dell’orto planetario progettato da Boeri diventa impossibile. Per rientrare dell’investimento, Comune e Regione dovranno tirar su case e uffici, altro che aree agricole e orti. Lo dice chiaro l’Accordo di programma: la Arexpo dovrà realizzare “la riqualificazione del sito espositivo privilegiando progetti mirati a realizzare una più elevata qualità del contesto sociale, economico e territoriale” (pag.13). Lo dovrà fare “al termine dell’esposizione universale mediante un intervento di trasformazione urbanistica” ( pag. 17  ). Chiuso l’Expo, arriverà il cemento. Lo permette l’indice urbanistico previsto, 0,52: almeno 520 mi-la metri quadri, concentrati sulla metà dell’area (l’altra metà dovrebbe restare a verde), che si aggiungeranno ai 230 mila metri quadri comunque previsti nel piano Expo. Totale, 750 mila metri quadri.

L’Expo naturale e tecnologico delle biodiversità si trasforma in un’operazione immobiliare, a tutto vantaggio dei bilanci della Fondazione Fiera. Formigoni ha detto a Pisapia: prendere o lasciare. E Pisapia non vuole e non può passare come il sindaco che appena arrivato fa perdere l’Expo a Milano.

Ora però sta riflettendo: non può neanche passare come il sindaco del cemento. Gliel’ha ribadito anche Legambiente, con un comunicato che ricorda l’esito di uno dei cinque referendum cittadini votati il 12 e 13 giugno a Milano: il parco dell’Expo deve rimanere parco anche dopo l’esposizione. “La richiesta di un parco dell’Expo, espressa dai cittadini due settimane fa, è chiara”, scrive Legambiente, “e non può essere elusa. Siamo consapevoli delle esigenze dell’evento, ma non possiamo far finta di non sapere che in quell’area si stanno accumulando previsioni per milioni di metri cubi di nuovi edifici, non solo nel recinto di Expo, ma anche a Cascina Merlata, Stephenson, Città della Salute. Il risultato non sarà la ‘Défense’ milanese, ma una bolgia di cemento . La città viene prima di Expo e degli interessi, pur legittimi, dei proprietari dei terreni”.

A questo punto, Pisapia sta riconsiderando la questione e si è riavvicinato a Boeri, che un paio di proposte continua a farle. La prima è abbassare l’indice di edificabilità: troppo alto quello 0,52. Ormai sembra impossibile trovare soluzioni alternative all’acquisto delle aree. Mantenerle agricole appare un’utopia. Ma si può almeno limare quel numeretto, riducendo la quantità di cemento.

La seconda idea di Boeri è trasferire sull’area Expo, dopo il 2015, l’Ortomercato. Nascerebbe così un grande polo agricolo e alimentare, con il parco delle biodiversità, il nuovo mercato all’ingrosso di frutta e verdura, la “Città del gusto”, la nuova facoltà di Agraria...

Su questo progetto Pisapia e Boeri stanno lavorando, di nuovo fianco a fianco, come sul palco di piazza Duomo dopo la vittoria comune su Letizia Moratti.

Corriere della Sera

Maran boccia il tunnel Linate-Expo: non è una priorità

Il maxi-tunnel Linate-Expo? Un’opera «che va realizzata» . A sostenere la necessità della «sotterranea» che dovrà collegare il sito dell’esposizione con l’aeroporto cittadino è Paolo Berlusconi. In un convegno sulla mobilità sostenibile il fratello del premier ha richiamato ieri il neoassessore alla Mobilità Pierfrancesco Maran. «Il tunnel— ha spiegato l’editore del Giornale— dovrebbe cambiare le abitudini e la viabilità della città, facendo risparmiare un'ora di tempo per attraversare da est a ovest Milano» .

Berlusconi ha poi affermato che «i soldi dei privati sembra che ci siano» . Risposta a strettissimo giro di posta di Maran: «Non è nelle priorità. Il tunnel non è stato inserito nel Pgt neanche dal centrodestra quando era al governo della città» . Per la nuova amministrazione «le risorse vanno invece investite in metropolitane e nel trasporto dei pendolari» . Il tunnel infine, ha sottolineato l'assessore, «non era destinato ad essere un servizio di massa» .

la Repubblica

Paolo Berlusconi sponsor del maxitunnel

di Teresa Monestiroli

Premesso che «né io né la mia famiglia abbiamo niente a che vedere con il progetto, ritengo che il tunnel Linate-Expo su cui stava lavorando la giunta Moratti, sia un bel progetto e sarebbe un peccato lasciarlo cadere». A sponsorizzare la maxigalleria che avrebbe dovuto essere costruita in project financing dalla società Condotte è Paolo Berlusconi. Un endorsement a sorpresa che ha lasciato di stucco anche il neo assessore alla Mobilità Pierfrancesco Maran, presente anche lui al convegno sulla mobilità sostenibile organizzato ieri dal quotidiano della famiglia Berlusconi. «Il tunnel dovrebbe cambiare le abitudini e la viabilità della città - ha spiegato il fratello del premier - , facendo risparmiare un’ora di tempo per attraversare da est a ovest la città. Mi pare che i soldi dei privati ci siano».

«Non è una priorità - risponde l’assessore Maran - . In questo momento bisogna investire su metropolitane e trasporto per i pendolari. Inoltre non mi pare che il tunnel, così com’è stato pensato, sia destinato a essere un servizio di massa visto che percorrerlo tutto costava circa 10 euro». Il centrosinistra, d’altronde, non ha mai nascosto la sua contrarietà all’opera mastodontica che dovrebbe attraversare la città sotto terra. Ed è proprio grazie alla battaglia fatta dall’allora opposizione in consiglio comunale che il progetto fu inserito nel Pgt, ma vincolato al Piano urbano della mobilità ancora da preparare. Edoardo Croci, promotore dei referendum ambientali, commenta: «La congestion charge prevista dall’esito dei referendum richiede di rivedere le valutazioni sul traffico e dunque anche sui proventi tariffari del tunnel».

la Repubblica

È elettrico il futuro del car sharing

di Ilaria Carra

Lasciare l’auto che inquina fuori da Milano ed entrare in città con un mezzo a zero emissioni. È sfruttando le case cantoniere milanesi, oggi quasi tutte inutilizzate, che nascerà il progetto del primo car sharing elettrico. L’idea è della Provincia, che possiede trenta strutture distribuite sul territorio, come a Liscate, Locate Triulzi, Melegnano, Paderno Dugnano, Paullo, Palazzolo, Rosate, Lainate, Castano Primo, Vaprio d’Adda, Corbetta, Cernusco sul Naviglio, Gorgonzola, Cassano d’Adda, Binasco, Cusago, Santo Stefano Ticino, Busto Garolfo e Ossona. Ex depositi per la manutenzione delle strade di circa 350 metri quadri l’una e migliaia di metri quadri di terreno che si è deciso di trasformare in centri servizi polifunzionali. In pratica, il pendolare arriverà con la sua auto, potrà parcheggiarla all’interno e ripartire a bordo di un mezzo elettrico, auto o moto. La casa cantoniera sarà parcheggio ma anche bar e punto di ristoro, con un albergo low cost e un servizio di manutenzione per le auto.

Un sistema che nelle intenzioni della Provincia sarà a pagamento e si alimenterà grazie agli abbonamenti e ad eventuali partner privati, mentre per i mezzi sono già in corso trattative con case automobiliste produttrici come Renault e Mitsubishi e non è escluso che al progetto possa partecipare anche Enel.

«L’obiettivo - ha spiegato l’assessore provinciale ai Trasporti Giovanni De Nicola al convegno "Una scossa alla città" - è rispondere a un’esigenza espressa dai cittadini di abbattere il Pm10 e ridurre gli ingressi a Milano di veicoli inquinanti». E scoraggiare i milanesi a raggiungere la grande città con veicoli che inquinano, intercettando i grandi volumi di traffico: a Nord sono 110mila le auto che ogni giorno fanno avanti e indietro sulla Milano-Meda, 70mila sulla Rivoltana e Cassanese a Est, 44mila sulla Val Tidone a Sud e 31mila sulla Vecchia Vigevanese a ovest. Un sistema che sarà compatibile con le auto in condivisione già presenti nelle città e che, nelle intenzioni di Palazzo Isimbardi, potrebbe vedere la luce dalla prossima estate. Per Matteo Mauri, capogruppo Pd in Provincia «è un’idea interessante e decisamente di sinistra, non possiamo che sostenerla. Vogliamo sperare che non sia uno dei soliti annunci di questa giunta poi non concretizzati».

postilla



Come riecheggia ormai da lustri il classico mantra: non c’è differenza tra destra e sinistra! Prendiamolo per buono una volta tanto, giusto per trovarne un’altra, di differenza, ovvero quella fra chi va in una direzione e chi in un’altra, con la democratica possibilità di giudicare quale sia quella giusta, o più accettabile.

Il megatunnel Linate-Expo porta automobili dall’estremità est della circoscrizione comunale di Milano a quella occidentale; risucchia enormi risorse sottraendole ad altri investimenti; induce automaticamente processi di sbrigativo urban renewal in stile quasi ottocentesco (se togliamo dalla bilancia il glamour comunicativo di architetti e uffici di pubbliche relazioni); rafforza la logica perversa al tempo stesso centripeta e centrifuga che produce sprawl classico sul modello distretti centrali terziarizzati – o gentrificati, che è quasi la stessa cosa – e fasce suburbane socialmente segregate; conferma e rilancia strategie di urbanizzazione sicuramente insostenibili come quelle suggerite dagli anelli concentrici delle Tangenziali, e relative “colmate” della fascia agricola intermedia.

Il car-sharing in teoria, elettrico a vela o a carbone che lo si voglia pensare, sembrerebbe complementare alla medesima logica, almeno per i nemici giurati delle quattro ruote a motore. Ma non lo è affatto, perché va nella direzione opposta. Certo non si propone come una di quelle copertine di Urania disegnate da Karel Thole, con un mondo improvvisamente ribaltato fatto di biciclette, prati verdi dove splende sempre il sole, uccellini che cantano, dove pare non si lavori e non si crepi mai. Ma va sicuramente nella direzione opposta perché introduce una discontinuità: arrivi dallo sprawl metropolitano, dove ti hanno forzato a vivere in villetta più giardino con lavori forzati e coda rituale al sabato per il centro commerciale? Ecco, adesso molli la tua macchinina e entri in un altro universo, dove girano altre macchinine però un po’ diverse. Dove si gira anche a piedi, se le distanze lo consentono, o in bici, o coi mezzi. Dove le trasformazioni urbanistiche avvengono in modo coordinato a questo genere di mobilità, e le localizzazioni funzionali pure …

Concludendo: c’è differenza fra destra e sinistra? Scegliete la direzione preferita (f.b.)

Come salvare l´arte del Belpaese tra soldi privati e tagli pubblici

di Salvatore Settis

Si allunga ogni giorno la lista dei siti abbandonati, dei restauri mancati, dei musei in crisi, dei paesaggi devastati. Perciò è giusto che ogni iniezione di fondi privati ai beni culturali venga salutata da sospiri di sollievo e soprassalti di gratitudine. Senza nulla togliere alle iniziative più benemerite (come quella di Banca Intesa-San Paolo annunciata da Giovanni Bazoli), chiediamoci in quale contesto viene oggi rilanciata in Italia la figura del "mecenate". La politica di settore del governo ha avuto due momenti caratterizzanti: primo, il taglio di un miliardo e 300 milioni di euro ai fondi del Ministero dei Beni Culturali; secondo, l'iistituzione di una nuova direzione generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale. Il combinato disposto dei due provvedimenti delinea una strategia davvero inedita, made in Italy, secondo cui si valorizza disinvestendo. Conseguenza inevitabile della crisi? No: in Francia gli investimenti in cultura sono stati sanctuarisés, considerandoli sacri e non tagliando un centesimo. Il ministro Frédéric Mitterrand, per celebrare il ruolo civile della storia dell´arte e l´introduzione dell´insegnamento obbligatorio della materia in tutte le scuole francesi, ha promosso e finanziato (circa 700.000 euro) un grande Festival d´histoire de l´art che si è svolto poche settimane fa a Fontainebleau. La crisi economica è la stessa, le reazioni in Francia e in Italia sono opposte.

La carenza di fondi pubblici rende più preziosi i finanziamenti privati, in ogni caso utili e graditi. Non manca chi, ritenendo il patrimonio culturale di competenza esclusivamente pubblica, vede ogni intromissione del privato come una profanazione. Posizione insostenibile, ma lo è anche quella di chi propugna la veloce eutanasia dell´amministrazione pubblica del settore, e sogna (invano) bilanci museali subitamente in attivo non appena cali dal cielo il sospirato manager privato. La parola d´ordine di una "privatizzazione" sommaria, simmetrica ai tagli "lineari" (leggi: alla cieca) di Tremonti, fa leva sulla mitologia del "museo-azienda" all´americana, efficiente anzi produttore di reddito in quanto privato: singolare invenzione di ministri nostrani che dei musei americani ignorano rigorosamente tutto. Ma negli USA, come in tutto il mondo, tutti i musei (pubblici o privati) sono strutturalmente in passivo, e i loro introiti diretti (biglietteria, libreria, etc.), non coprono mai più del 15-20 % delle spese di gestione. Se il bilancio va in pari, è per via del proprio endowment (oltre 2 miliardi di dollari per il Metropolitan Museum), costruito con donazioni private, anche di poche centinaia o migliaia di dollari, favorite da meccanismi di detassazione che l´Italia ignora: in tal modo, i musei sono finanziati dallo Stato (federale) e dai singoli Stati, che per favorire le donazioni rinunciano a enormi introiti fiscali.

Nel sistema italiano (come in quello francese), nulla di simile è pensabile. È dunque impossibile il mecenatismo privato? Al contrario, l´approdo di fondi privati a dare un minimo di respiro a un settore vitale per il Paese, ma in grande sofferenza, va in ogni modo incoraggiato: purché non diventi un alibi per ulteriori tagli della spesa pubblica. Da esempio può servire la campagna di fund raising che il Louvre ha lanciato per acquistare le Tre Grazie di Cranach: un milione di euro raccolti in poche settimane, ma per integrare i tre milioni di euro di fondi pubblici che già il Louvre aveva gettato sul tavolo. Ma i privati potranno esercitare il loro ruolo in modo costruttivo e virtuoso, se lo Stato è in rotta? Troppo spesso in Italia l´intervento privato è concepito non in sussidio delle pubbliche istituzioni, ma per surrogarne l´assenza, ripianando i buchi di bilancio che lo Stato (su altri fronti assai spendaccione) crea borseggiando se stesso. Un esempio: è giusto cercare fondi (anche privati) per il Colosseo o per Pompei, per Brera o per gli Uffizi, purché non dimentichiamo che qualsiasi seria azione di tutela e valorizzazione (due aspetti inscindibili) richiede altissime competenze tecniche e continuità di azione conoscitiva e amministrativa. E come è possibile, se da anni la pubblica amministrazione dei beni culturali ha cessato di assumere, e il personale tecnico-scientifico in servizio oggi ha un´età media di oltre 55 anni?

Deve poter esistere un mecenatismo privato con alto senso culturale e civile: ma allora non può limitarsi ad aprire i cordoni della borsa (meno che mai cercando guadagni aziendali), ma deve esser capace di idee propositive, di cultura manageriale autentica, e dunque rispettosa delle competenze specifiche di archeologi e storici dell´arte. Deve sposarsi con una rifunzionalizzazione delle strutture pubbliche della tutela, che punti su numerose, urgentissime assunzioni, sulla base del merito, che immettano nei ruoli i moltissimi giovani che abbiamo, finora invano, formato nelle nostre università.

Il ruolo del pubblico e del privato, pur in un momento buio come questo, può e deve essere ridisegnato entro un grande patto nazionale per la tutela, che parta non dalla spartizione delle torte, ma dalle esigenze vitali del nostro patrimonio (paesaggi e monumenti "maggiori" e "minori", musei e siti naturali e archeologici) e includa Stato, regioni, enti locali, privati. Solo così potremo vincere il superficiale economicismo che svendendo la sostanza profondamente civica dei beni culturali produce una crescente usura dei valori simbolici che li permeano e che cementano la società, incrementandone la capacità di rinnovarsi e di vincere le sfide del futuro.

I filantropi invisibili

intervista di Francesco Erbani all’archeologo Wallace-Hadrill

Com´è un mecenate americano, il modello al quale tutti pensano ogni volta che invocano un mecenate? Non occorre andare a Los Angeles, ma basta fermarsi a Ercolano per vedere come si comporta David W. Packard, cognome fra i più altolocati dell´economia internazionale, che dal 2000 ha speso 16 milioni di euro nel sito vesuviano, ma senza che si sappia troppo in giro, niente pubblicità, niente logo appiccicato sui biglietti. Packard adora Ercolano, di cui è diventato cittadino onorario, adora l´Italia e la letteratura latina. Ma le vicende di questi ultimi anni –quattro soprintendenti in ventiquattro mesi, due commissari, fondi e personale ridotti all´osso – minacciano di mettere a rischio l´intero progetto. Sarebbe una iattura, di cui Andrew Wallace-Hadrill, archeologo, a lungo direttore della British School di Roma, ora alla guida del Sidney Sussex College di Cambridge, e responsabile dell´Herculaneum Conservation Project, l´organismo finanziato da Packard, neanche vuol sentir parlare. Packard, inutile dirlo, non incontra giornalisti.

Professor Wallace-Hadrill, che tipo di mecenate è Packard?

«Appartiene a una categoria ben riconoscibile in America, dove tante sono le fondazioni filantropiche senza scopo di lucro e che, per legge, non possono avere ritorni, né profitti né pubblicità».

Ma che cosa lo spinge a spendere in cultura?

«Oltre a dedicarsi all´azienda, ha fatto studi classici – latino, greco, storia antica. E nel 1987 ha fondato la Packard Humanities Institute. È parte di quel mondo di ricchi americani che ritengono un obbligo morale restituire in cultura o in beneficenza qualcosa dei tanti guadagni accumulati».

Sgravi fiscali?

«No. Una fondazione di questo tipo non è tassata, ma i soldi che vi si depositano possono essere solo destinati a scopi culturali o filantropici»

Dove interviene Packard?

«In varie parti del mondo. Archeologia, musica e cinema sono alcuni dei suoi campi di interesse. A Palo Alto ha ristrutturato un cinema degli anni Venti, che ora proietta solo film di quel periodo. Ha sostenuto progetti su Mozart e sul figlio di Bach. Ha pubblicato manoscritti musicali e ha digitalizzato le concordanze lessicali dell´Ab urbe condita di Tito Livio».

E nel 2000 è approdato a Ercolano.

«Un´antica passione. Ma determinante è stato lavorare in stretto rapporto con gli archeologi della Soprintendenza, allora guidati da Pietro Giovanni Guzzo, e con la direttrice degli scavi, Maria Paola Guidobaldi. Non l´azione autonoma di un privato, ma un intreccio sofisticato ed efficiente di pubblico e privato».

E insieme avete avviato restauri?

«Anche, ma soprattutto sottoscritto un impegno pluriennale, una gestione del sito che dura oltre la vita del progetto».

Mi fa un esempio?

«Abbiano recuperato la rete fognaria antica e allestito un sistema di grondaie che convoglino l´acqua nei condotti di età romana, evitando le infiltrazioni che provocano umidità e crolli».

Quei crolli che hanno funestato Pompei. Resterete a Ercolano?

«È nostra intenzione rimanere. Ma il ministero e lo Stato non si possono sottrarre ai loro compiti. C´è il progetto di togliere alla Soprintendenza il 25 per cento dei suoi fondi per distribuirlo altrove. Sarebbe un errore grave. Un´altra cosa: per ogni restauro paghiamo il 20 per cento di Iva. Siamo noi che finanziamo lo Stato, altro che sgravi fiscali».

La democrazia e il mercato

di Marc Fumaroli

Come è finita la pratica del dono disinteressato. Per secoli i sovrani e la chiesa hanno praticato la liberalità verso gli artisti. Per glorificare se stessi attraverso le opere e mostrarsi munifici Oggi il valore economico ha prevalso su tutto

La figura di Mecenate, discendente da una dinastia reale etrusca, amico e ministro di Augusto, celebrato dal poeta Orazio come un fratello spirituale oltre che proprio benefattore, è certamente uno degli esempi più fecondi di cui la Roma antica abbia fatto dono alla civiltà europea, sia pagana sia cristiana.

La Roma repubblicana si era sempre mostrata ostile alle lettere e alle arti dei graeculi e per questo, milleottocento anni dopo, Rousseau la additò come esempio per le repubbliche a venire. Rousseau vuole ignorare gli Scipioni, grandi cittadini della Repubblica romana e tuttavia amici delle lettere e delle arti. Preferisce la Roma di Catone e la Sparta di Licurgo all´Atene di Pericle, i cui ricchi cittadini praticavano in larga scala l´evergetismo, la forma greca del "potlach" degli Indiani d´America cari a Marcel Mauss e a Aby Warburg, finanziando generosamente lo splendore delle feste religiose, tra cui il culto di Dioniso e la tragedia ma anche la bellezza apollinea dei templi e delle statue. Passando sotto silenzio Mecenate, che simboleggiava l´alleanza della Roma imperiale con le arti della pace, Rousseau escludeva che un impero o una monarchia, a cominciare da quella della Francia del XVIII secolo, potesse non essere una tirannia o un dispotismo.

Il Terrore rivoluzionario del 1792-1794, russoviano, soppresse in Francia ogni traccia di mecenatismo alla romana e di evergetismo alla greca. Solo David, il pittore eletto dalla volontà generale, ne diresse l´espressione artistica. L´Impero napoleonico, e sulla sua scia i successivi regimi francesi del XIX secolo, a cominciare dalla III Repubblica che doveva allontanare da sé ogni sospetto di terrorismo russoviano, tornarono a essere mecenati pubblici e diedero l´esempio per il mecenatismo dei privati, per sottolineare la loro distanza da dispotismi e tirannie. Per molti aspetti, la supplenza assicurata per molti secoli dalla Chiesa romana al mecenatismo augusteo e all´evergetismo greco nell´Europa occidentale ha fortemente contribuito ad aumentare la parentela tra il mecenatismo delle lettere e delle arti e il potlach delle società prepolitiche e a preservare lo spirito disinteressato della bellezza artistica, dell´emozione poetica e della contemplazione mistica: tutti contrappesi alla predazione e alla sete del male. Il "rovesciamento di valori" che da mezzo secolo avvicina sempre più il mecenatismo artistico e letterario al calcolo cinico da pubblicità commerciale, l´artista e l´uomo di lettere a uno spirito commerciale senza scrupoli, l´"Arte" a una collezione di titoli di credito quotati in borsa e il cui corso è garantito da un eterno "insider trading", è un altro modo di seguire il terrorista Rousseau. L´austera iconofobia puritana si è trasformata in ignobile iconolatria del kitsch.

Contrariamente alla III Repubblica francese, che si ispirava al modello ateniese e ha vincolato il suo liberalismo politico al rispetto delle lettere e delle arti, le democrazie attuali tendono a svalutare le arti e le lettere riducendoli a prodotti di mercato, rinunciando a vedere in esse il principio del dono disinteressato che per tanto tempo ha reso fecondo il mecenatismo della Chiesa, dello Stato e di istituzioni e persone private. Eppure proprio questo principio ha potuto impedire a ciascuno dei regimi descritti e definiti da Aristotele – la monarchia, l´aristocrazia e la democrazia – di ruzzolare giù per la china del conformismo tirannico del gusto e dalla bassezza di spirito nelle lettere e nelle arti. L´etica del mecenatismo e la spiritualità del suo esercizio sono oggi questioni di altissima importanza, tanto politica quanto estetica.

(traduzione di Elda Volterrani)

«La nuova Santa Giulia avrà la caratteristiche della cittadina di campagna e i servizi della metropoli» . Un mega quartiere «vivo, sano, moderno, ecosostenibile, a impatto zero» , progettato «da giovani talenti italiani» e non da archistar alla Norman Foster: «Le residenze avranno un costo accessibile per le giovani coppie, attorno ai 4 mila-4.500 euro al metro» . Palazzine di nove piani al massimo, zero grattacieli, un parco di 236 mila metri quadri: «È un progetto libero da logiche speculative. Io non sono un immobiliarista, né un palazzinaro» .

Lui è Stefano Stroppiana, 51 anni, toscano-milanese, imprenditore del real estate, noto «costruttore» di outlet, un passato in McArthurGlenn e in Premium Retail, l’imprenditore che guida la cordata pronta a rilevare da Risanamento il mai decollato piano di sviluppo del quartiere Santa Giulia: «Presenteremo la nostra offerta entro il 30 giugno, per chiudere l’accordo definitivo a luglio. È un’offerta vincolante, legata ad alcune condizioni, a partire del dissequestro dell’area» . La zona Montecity-Rogoredo, sul confine Sudest di Milano, è stata sigillata dal Tribunale il 20 luglio 2010 a valle di un’inchiesta sugli appalti, le mancate bonifiche ambientali e i veleni scivolati nella falda.

I costi delle operazioni di ripristino dei terreni, secondo l’intesa, spetteranno a Risanamento: «È necessario un intervento serio per garantire l’assoluta salubrità ambientale — insiste il manager —. Non accettiamo scorciatoie di alcun tipo. E ci riserviamo un ruolo di primaria importanza» . È un’operazione da 2 miliardi di euro. La cordata comprende il fondo di Shanghai Super Ocean Re, le società di costruzioni Cogeim spa, Geo Holding srl, Ettore e Guido Di Veroli, Santo Versace.

Il masterplan stato già delineato, prevede 120 mila metri quadri di negozi (ai piani terra), altrettanti di uffici (in posizione di «filtro» ai livelli intermedi dei palazzi) e 180 mila metri quadri di residenze (ai piani alti): «Le modifiche sono profonde rispetto al piano di Foster — osserva Stroppiana —. Realizzeremo la più grande isola pedonale d’Europa: Santa Giulia sarà un luogo per abitare, lavorare, fare shopping. A differenza del progetto di Risanamento, non inseguiremo un lusso edonistico» .

Nota: si sottolineava nell'occhiello come ci sia un rapporto stretto fra questa ennesima (dai tempi di Montecity & Gardini) proposta per il riuso del sito industriale ribattezzato Santa Giulia e le operazioni dei villaggi della moda spuntati inopinatamente in tutto il paese da una decina d'anni. Si spera solo che, a differenza del rapporto sempre squilibrato fra capitali, operatori, e piccole amministrazioni locali, a Milano possa emergere una valida gestione pubblica in grado di garantire davvero tutti i vantaggi collettivi giurati e spergiurati dagli anni '80. Su queste pagine ovviamente abbondano le ricostruzioni dei "casi outlet" a partire dal primissimo di Serravalle (f.b.)

L´artiglieria pesante non tace: il proposito del sindaco di non approvare il Pgt ma riportare indietro le lancette dell´orologio e riesaminare le quattromila e più osservazioni non piace all´opposizione e nemmeno ad altri, vedi il fuoco amico. Ingrati. Il sindaco avrebbe potuto scegliere la via maestra. Revocare in autotutela anche la delibera di adozione in Consiglio e ricominciare tutto da capo. Le ragioni ci sarebbero state: il contenuto dell´attuale Pgt non è in alcun modo ritrovabile nel programma col quale Letizia Moratti si è presentata agli elettori durante la sua prima campagna elettorale, dunque i primi a essere scavalcati sono stati anche i suoi elettori di allora. La verità è che il Pgt rappresenta le idee solo di una parte del partito di maggioranza relativa: quella che fa riferimento a Cl e quindi nemmeno da tutta la vecchia maggioranza; il Pgt in moltissime parti deborda dai limiti di un documento urbanistico per occupare spazi che non gli sono propri, in particolare laddove si parla di attività di servizi normalmente svolti dalla mano pubblica e si indica invece una chiara preferenza per l´intervento dei privati (vedi tutti gli accenni alla "sussidiarietà"); il documento è ambiguo e foriero di mille diverse interpretazioni e quindi di cause e di ricorsi; il documento, a essere generosi, rispecchia una cultura urbanistica inadeguata rispetto ai tempi e ai progressi che la sociologia urbana ha fatto recentemente soprattutto sui temi della convivenza e della sicurezza; il documento considera Milano un´isola del tutto avulsa dal territorio che la circonda salvo considerarlo una sorta di serbatoio di potenziali nuovi residenti; il documento non ha contenuti tali da garantire la soluzione dei problemi tante volte evocati: la casa e il verde. Questo per citare solo alcuni degli aspetti che suggerirebbero la totale ristesura, necessaria poi comunque, per non voler parlare dell´italiano che sembra poco noto, quanto meno nelle norme della punteggiatura. Dunque se il sindaco ha preso la decisione che ha preso, l´ha fatto per non essere accusato - strumentalmente - di fermare il "prorompente" mercato dell´edilizia. Non mi permetto di dare consigli a nessuno ma, se fossi il sindaco, chiamerei gli scontenti, quelli che temono la paralisi e terrei un breve discorso: «Cari amici, non vorrei proprio danneggiarvi e dunque fatemi un elenco delle operazioni urgenti che avevate in animo di far partire e che questo modesto rinvio dell´approvazione del Pgt - qualche mese - inchiodano al palo. Fatemi l´elenco e corredatelo di una seria analisi dell´offerta e della domanda di mercato e non è detto che a fronte di un´evidenza drammatica io non possa accedere alle vostre urgenze». Sarebbe un discorso giusto e che reintrodurrebbe nel dibattito il concetto di mercato, tanto estraneo al documento del Pgt. Sia ben chiaro che stiamo parlando del mercato del mattone e non del mercato finanziario o del salvataggio di bilanci pericolanti di società immobiliari o dell´edificabilità dei demani pubblici (ferroviari e altro) che alimentano solo l´oligopolio immobiliare del quale già Milano è vittima.

L'accordo di programma che dovrebbe definire gli impegni di enti pubblici e soggetti privati per lo svolgimento di Expo, prevede invece anche gli impegni sulla riqualificazione urbanistica e il riutilizzo delle aree interessate. Espropria cioè i comuni di Milano e Rho della loro funzione di pianificazione urbanistica. È dunque necessario stralciare dall'accordo le competenze illegittimamente introdotte ed escludere dalle decisioni sull'assetto del territorio quella parte privata che ha solo la funzione strumentale di assicurare la disponibilità dei terreni.

Mi è capitato di scorrere la versione del 10.6.2011 dell’accordo di programma(Adp) che, una volta sottoscritto dalle parti, credo sarà sottoposto alla ratifica dei consigli comunali diMilanoe diRho; l’accordo, per propria statuizione (art. 3), definisce gli impegni “degli enti pubblici sottoscrittori e dei soggetti aderenti al fine di (…) consentire lo svolgimento dell’Esposizione Universale 2015”. Ma l’accordo pretende di definire anche gli impegni “tra i medesimi soggetti” “atti a favorire, nel periodo successivo allo svolgimento” dell’Expo “la riqualificazione urbanistica delle aree interessate dall’evento espositivo nonché il loro riutilizzo per l’insediamento di funzioni pubbliche o private”.

CHI PIANIFICA IL TERRITORIO

Quest’ultimo obiettivo, tipicamentepianificatorio ed urbanistico, è però del tutto estraneo all’oggetto proprio dell’Adp che viene perciò illegittimamente utilizzato non “per la definizione e l'attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l'azione integrata e coordinata di Comuni, di Province e Regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, (...) per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento” (art. 34 decreto legislativo n. 267/2000), bensì per definire ed in parte affidare anche a terzi (per di più privati) l’attività pianificatoria urbanistica necessaria per disciplinare l’assetto post-Expo dell’intero comparto.

Infatti, la bozza di Adp contiene, tra l’altro, la previsione (puramente urbanistica, per il post-Expo) dell’insediamento, nel comparto, anche di uncomplesso residenziale privatodeterminato nella sua consistenza (30mila m2 di pavimento) stabilendo (art. 10) che una quota (edilizia “sociale”) dello stesso non vada computata nell’indice di fabbricabilità territoriale, indice di cui non conosco la fonte originaria (contrattuale?), ma che viene così aumentato.

Ma vi è di più: l’Adp stabilisce che la disciplina urbanistica più puntuale dell’intero comparto, per il post-Expo, sarà dettata “mediante unprogramma integrato di intervento(Pii: ndr) unitario (…) che definirà lo sviluppo delle aree in ottemperanza ai contenuti della Variante urbanistica” “allegata al presente accordo” (art. 4), variante che riguarda non opere, interventi o programmi destinati a dar vita all’Expo, bensì l’assetto successivo dell’intero comparto. Così, cogliendo l’occasione dell’Expo, i comuni di Milano e di Rho vengono espropriati di una loro funzione che viene assunta anche da un gruppo di soggetti pubblici e privati, i quali non hannonessuna competenzaper disciplinare l’assetto del territorio dei due comuni, in assenza di un programma di opere o di interventi pubblici da realizzare nella fase post-Expo.

Si tratta, cioè, di contenuti esclusivamente pianificatori urbanistici che non possono essere legittimamente veicolati a mezzo di un Adp, dovendo avere, allo stato, la propria sede esclusiva negli strumenti comunali. Peraltro, i comuni di Rho e di Milano sono addirittura chiamati (art. 11) ad impegnarsi ad “approvare tempestivamente il Pii”, senza conoscerne, al momento, né i contenuti né la portata modificativa rispetto allo strumento generale e rispetto alla stessa variante allegata all’Adp. All’esproprio di potere si aggiunge anche l’obbligo di fare in fretta.

L’Adp, insomma, non può delineare la disciplina urbanistica di parti del territorio per futuri interventi (anche) privati. Può, invece, produrre - con la ratifica del Consiglio comunale (art. 34, 5° comma) - l’effetto di variare lo strumento urbanistico generale solo se ed in quanto la variante stessa consegua necessariamente alla sistemazione delle opere e degli interventi pubblici costituenti, nel nostro caso, la sede dell’Expo.

DUE PREVISIONI ILLEGITTIME

Altre due brevi considerazioni:

A) l’Adp è sottoscritto, per adesione, anche da soggetti di natura giuridica privata (l’uno – forse – ad esclusiva partecipazione pubblica, l’altro – pare – a partecipazione mista) ed attribuisce (art. 9) ai soggetti medesimi funzioni proprie di enti pubblici, quali quella urbanistica di coordinare il processo di sviluppo dell’area, nella fase post-Expo, attraverso la proposizione di un Pii, e quella di “assicurare il coordinamento e l’integrazione delle scelte progettuali con la riqualificazione dell’area medesima, anche nella fase post-Expo”. Ma l’adesione di soggetti privati e, ancor più, la loro assunzione di specifiche funzioni ed obbligazioni è esclusadall’art. 34 Dlgs n. 267/2000 che, perciò, viene violato anche sotto questo profilo. Nemmeno ove fossero utilizzabili le disposizioni in materia di Adp promossi dalla Regione (art. 6 Lr n. 2/2003, erroneamente richiamato nell’Adp), la partecipazione di soggetti privati consentirebbe loro di assumere (come avviene nel testo in esame) la qualifica di vere e proprie parti dell’Adp e del procedimento organizzatorio, riservata esclusivamente ai soggetti pubblici.

B) L’Adp istituisce (art.12) uncollegio di vigilanzacon potere non solo di vigilare sull’attuazione dell’accordo, ma anche, tra l’altro, di “dirimere in via bonaria le controversie che dovessero insorgere tra le parti” e di “approvare eventuali integrazioni o modifiche” dell’Adp, funzioni queste ultime non previste dalla legge, nemmeno da quella - inapplicabile al caso di specie - regionale. Si tratta pertanto di previsioni illegittime che sottraggono ulteriore potere ai comuni.

Senza voler adesso considerare il tema (sconcertante ed insidioso) dell’acquisizione delle areeper l’Expo e dei relativi vantaggi pubblici e privati, posso concludere queste brevi considerazioni prospettando di stralciare dall’Adp quanto in esso illegittimamente introdotto così da preservare il perseguimento, con esso, delle finalità relative all’organizzazione dell’Expo e di escludere almeno quella parte privata (Arexpo spa) che, essendosi assunta, per volontà della Regione, una funzione strumentale, non ha altro spazio se non quello di assicurare la disponibilità dei terreni.

Qui i Napolitano nascono come funghi. Ci è nato anche il presidente della Repubblica. Area nolana, a nord-est di Napoli, terrà di civiltà antica e di dinastie di camorra. Oggi ci si vive senz’altro meglio di ieri, quando Carmine Alfieri e il suo clan la facevano da padroni. Perfino la civiltà antica vi è stata riportata alla luce e ha smesso di essere retorica o libri di storia. Ma nessuno pensi alla lungimiranza di qualche ministro che ha investito sui celebri giacimenti culturali o a sovrintendenze in lotta per restituirci antichi tesori. All’origine di questo recupero di arte e di storia c’è un gruppo di cittadini senza potere, si chiamano “Obiettivo III millennio”. “Eravamo partiti in tanti, ma a resistere sempre siamo in venti”, dicono Ferdinando e Pellegrino, “quaranta pensando alle coppie”, ridono, “perché poi si fa così, la moglie o il marito lavora e l’altro aiuta a ruota”.

Il patrimonio incalcolabile riportato alla luce grazie alla loro mobilitazione civile è il complesso delle basiliche di Cimitile, un comune di seimila abitanti cresciuto accanto a Nola. Sette edifici di culto cristiano che partono dal terzo secolo e avanzano verso la fine del millennio, che si incrociano e si sovrappongono e si affiancano in un gioco turbinoso e suggestivo di stili, sopra una specie di necropoli tardo-antica. Qui è sepolto San Felice, qui si stabilì alla fine del Trecento Paolino di Nola governatore della Campania e poi vescovo di Nola. Un autentico polo della cultura paleocristiana passato per alluvioni e crolli repentini che hanno cambiato mappe e architetture. Quelli dell’associazione conducono con orgoglio e gentilezza i loro ospiti a vedere i posti dell’incanto: qui le antiche tombe, qui i fazzoletti sbiaditi e meravigliosi degli affreschi di un tempo, qui i capitelli eccentrici, qui le geometrie solenni. Può essere un avvocato coltissimo, Elia Alaia si chiama, il presidente, ad accompagnarvi . Ma può anche essere, lo ha fatto per molto tempo, un ragazzino quattordicenne che lasciava di sasso i turisti cimentandosi con disinvoltura anche con i dettagli più arditi. Un giorno tutto questo non valeva una lira.

Il patrimonio di storia di cui raccontiamo era nascosto tra le erbacce, recintato e lasciato in abbandono dalle amministrazioni. Finché i “nostri” cittadini, invece di lamentarsi dello Stato, si rimboccarono le maniche e iniziarono ad agire come un gruppo di pressione: non per sé ma per la loro terra. Un convegno iniziale su “Basiliche paleocristiane: sentimento e burocrazia”, per denunciare le inerzie degli uffici comunali. Poi “Nola-Cimitile. Apriti Sesamo”, contro la chiusura al pubblico del parco. E ora finalmente eccole qui le basiliche. Eccole diventate luogo di rispetto e di cultura; non più rovine inaccessibili, dove i ragazzini andavano a giocare a pallone. “Lo choc in paese ci fu quando arrivò in visita papa Wojtyla. Venne qui proprio perché considerava questo sito uno dei simboli della cristianità. Si dovette fare in fretta e furia quel che non si era mai fatto, venne sistemato perfino un prato artificiale. Era il maggio del ’92. Poi venne tutto richiuso. Noi nascemmo nel ‘94”.

L’associazione pensò presto di collegare il parco con qualche evento pubblico e si inventò un premio letterario lanciando lo slogan “il libro incontra le basiliche”. Nacque una fondazione “premio Cimitile”, con dentro Regione, Provincia e Comune, e con l’”alto patronato del presidente della Repubblica”. Lo presiede, verrebbe da dire naturalmente, un Napolitano: il dottor Felice, informatore farmaceutico, il primo attivissimo presidente dell’associazione. Altri due Napolitano tra i sostenitori. Una settimana di appuntamenti con la cerimonia finale tenuta nella spettacolare cornice serale delle basiliche illuminate. Allora le istituzioni, i politici si mobilitano. Arrivano le tivù e ogni maligno potrebbe pensare all’ennesimo spreco di soldi pubblici, ignaro della fatica e della passione quasi ventennale di un gruppo di volontari. Premio per la migliore opera di narrativa inedita, che viene pubblicata dall’editore Guida. E poi le migliori opere di narrativa , saggistica e attualità. Premio di giornalismo, premio speciale e anche - pensate l’audacia - per la migliore opera edita di “archeologia e cultura artistica in età paleocristiana e altomedievale”.

Il premio, un campanile d’argento per ricordare che qui venne inventata la campana, è arrivato alla sedicesima edizione. Il presidente del comitato scientifico è Ermanno Corsi, gloria del giornalismo campano dalla schiena dritta. Tra i premiati Sergio Zavoli, Miriam Mafai, Luca Goldoni, Giulio Andreotti, Antonio Ghirelli, Michele Santoro, Giampaolo Pansa, Massimo Cacciari, Michele Prisco, Luciano De Crescenzo, Lucia Annunziata. Felice Napolitano presenta allora il tutto dal palco con una disinvoltura conquistata sul campo (“doveva vederlo le prime volte”, sorridono gli amici, “si emozionava e faceva le pause”). Poi passa la palla ai professionisti, alla musica e ai libri. “Perché lo facciamo? Per valorizzare la nostra storia”, risponde lui, “Per promuovere il nostro territorio tutto l’anno. Per fare diventare queste terre un’attrazione culturale, anche se oggi si parla solo dei rifiuti. Per promuovere la lettura, perché sono 28 su cento i campani che leggono un libro all’anno, contro i 44 della media nazionale”. Sembra quasi un programma di governo. E invece, stringi stringi, sono solo venti civilissimi cittadini. Contando le coppie, quaranta.

sono solo venti civilissimi cittadini. Contando le coppie, quaranta.

«Ma in quali mani si trovano, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?» . Così scriveva, nel 1775, Alphonse de Sade, inorridito dalle condizioni in cui erano i capolavori di Pompei. «Ma in quali mani si trovano, gran Dio!» , ripetono oggi i giudici della Procura di Torre Annunziata che hanno sequestrato, finalmente, il teatro di Pompei. Sottoposto l’anno scorso a una ristrutturazione con il calcestruzzo che lo ha letteralmente stuprato. Come fosse fino al 2009 il teatro della città annientata dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. descritta da Plinio il Giovane, si può vedere nelle foto di milioni di visitatori passati in questi decenni e ancora presenti in Internet: i gradini erano stati erosi dal tempo e coperti di erba. Amedeo Maiuri, grande archeologo e «protettore» di Pompei (un uomo di valore tale che quando Mario Resca, già a capo della McDonald’s Italia, si insediò come nuovo direttore generale dei Beni culturali gli spedì una richiesta di collaborare nonostante fosse morto da 47 anni) aveva avuto un’idea. Per consentire nella stagione estiva qualche spettacolo che restituisse la vita all’arena al posto dei gradini era stata collocata una struttura di ferro leggera. Quando c’era un’esibizione, ci posavano sopra delle tavole che, finita la rappresentazione, venivano rimosse lasciando tutto come prima. Finché non arrivò, imposto dall’allora ministro Sandro Bondi, il commissario straordinario Marcello Fiori, stretto collaboratore di Guido Bertolaso. Una decisione contestata dalla Corte dei conti in una delibera che ricordava come per legge la Protezione civile può intervenire nel caso in cui sia necessario difendere «l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri grandi eventi» . Tutte cose che con Pompei non c’entravano niente. La reazione della «Protezione» fu irritata: «A nostro avviso la Corte dei conti ha deliberato riconoscendo la legittimità del nostro operato» . No, replicò la Corte spingendosi a fare addirittura un affilato comunicato ufficiale: «Come si evince dalla lettura della delibera, la Corte ha escluso che nel caso dell’area archeologica di Pompei sussistessero i presupposti per la dichiarazione dello stato d’emergenza. Pertanto non appare corretta l’affermazione che la Corte dei conti avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile» . Come siano stati spesi 79 milioni di euro in due anni (soprattutto nei 18 mesi della gestione Fiori) è da tempo oggetto di inchieste giornalistiche, come quella di Emiliano Fittipaldi e Claudio Pappaianni su l’Espresso, e di amare risate. Per i 55.000 euro spesi per comprare mille bottiglie di vino (mille!) con l’etichetta Villa dei Misteri», della cantina Mastroberardino e per un terzo spedite in giro per le ambasciate e i consolati nel mondo e per due terzi lasciate in un magazzino. Per i 102.963 euro spesi nel «censimento» di 55 randagi al modico costo di quasi duemila euro per ogni cane non allontanato ma «censito» e messo in Internet con una scheda «autobiografica» : «Mi chiamo Menade, ho appena compiuto un anno e, come ogni sacerdotessa del dio del vino, vivo davanti alla casa del mio unico sposo: Bacco. Sono nera e lucida come la notte. Quando danzo alle stelle per lui piena del suo nettare...» . Per non dire dei 3.164.282 euro dati alla Wind per il progetto «Pompeiviva» il cui cuore è, nell’omonimo sito internet, un video stupefacente dove un ragazzo entra nella magica «Villa dei Misteri» , scatta una foto a una donna dipinta sulla parete e tutti i personaggi affrescati si mettono a fare un coretto cantando una cover (in inglese) di «I Will Survive» di Gloria Gaynor. O ancora degli 81.275 euro spesi per la visita (poi annullata!) di Silvio Berlusconi, preparativi che avevano visto il loro surreale capolavoro nella posa, lungo il cardo che porta alla domus di Lucrezio Frontone, di una «moquette» di stoffa poi coperta da un po’ di carriole di ghiaia lavica. Ma fino a qui, con rabbia, si ride. Assai più grave, invece, è la scelta denunciata da Antonio Irlando (presidente dell’Osservatorio archeologico che tenta di arginare gli stupri sulla meravigliosa città d’arte) di avviare la costruzione, ad esempio, tra porta Vesuvio e porta di Nola, in piena area vincolata, di un mostruoso hangar di cemento armato definito «deposito di materiale archeologico e spogliatoi per il personale» . Il tutto 35 anni dopo l’inizio dei lavori dell’Antiquarium, chiuso per restauro nel lontano 1975 in cui Steve Jobs fondava la Apple e si separavano Ike &Tina Turner, e non ancora riaperto. È in questo contesto che il Corriere, con un articolo di Alessandra Arachi, denuncia il 25 maggio 2010 lo scempio oggi al centro dell’indagine della magistratura: «Già il rumore non lascerebbe dubbi: i martelli pneumatici producono quelle vibrazioni perforanti inequivocabili. Ma poi basta scavalcare una piccola recinzione ed ecco che sì, diventa complicato credere ai propri occhi. I martelli pneumatici diventano quasi un dettaglio nel terribile cantiere del Teatro Grande di Pompei, invaso da betoniere, bobcat, ruspe, cavi, levigatrici e chi più ne ha ne metta. Nel condominio sotto casa vostra sarebbero più prudenti nel fare i lavori. E invece qui, roba di archeologia del II secolo avanti Cristo, gli operai si muovono in mezzo alle rovine come elefanti dentro una cristalleria» . Foto alla mano, alla fine di maggio Irlando scrive a Bondi una lettera allarmatissima: «Sono in corso nell’area archeologica lavori definiti nella tabella di cantiere "Restauro e sistemazione per spettacoli del complesso dei teatri in Pompei Scavi"che hanno sin qui comportato evidenti stravolgimenti dello stato originario dei monumenti e dei luoghi archeologici, con gravi danni al loro stato di conservazione. L’evidenza della gravità degli interventi è facilmente e banalmente dimostrabile attraverso una rapida ricognizione dell’attuale consistenza del teatro, in particolare della cavea, che, rispetto a una qualsiasi foto o disegno di diversi momenti della vita degli scavi, risulta completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura» . Risposta del ministero? Zero: zero carbonella. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti: il teatro lasciato fino a due anni fa così come era stato trovato, è stato stravolto. Gradino per gradino sono stati gettati dei cordoli di cemento armato e su questi sono stati posati mattoni di tufo giallognoli che somigliano a quelli usati nell’Appennino meridionale per costruire i tuguri di campagna e i ricoveri per le bestie. I lavori di «restauro» dovevano costare 449.882 euro più Iva: sono costati undici volte di più, cioè 5 milioni 966 mila. Appalto dato (senza gara) a un raggruppamento temporaneo di imprese trainato dalla Caccavo Srl di Pontecagnano, scelta in meno di due anni dal commissario per 26 interventi per un totale di 16 milioni e mezzo di euro. «In quali mani, Gran Dio...» .

Bene ha fatto Luigi de Magistris a lanciare il cuore oltre l'ostacolo, anche se l'ostacolo è una montagna di spazzatura enorme. Ho sentito molti amici, sostenitori di De Magistris della prima ora, scorati e arrabbiati per la gaffe del sindaco con la sua promessa di superare l'emergenza rifiuti nel giro di cinque giorni.

Personalmente credo che il sindaco di Napoli non abbia nulla di cui pentirsi, nemmeno dell'annuncio. Aveva le carte in regola per farlo, data l'esistenza di un preciso accordo con la Provincia di e la Regione, accordo che non ha avuto seguito non certo per sua responsabilità non avendo l'autorità per controllare e garantire l'effettiva apertura dei siti fuori dal Comune.

Voglio invece insistere sulla legittimità dell'annuncio per due ordini di motivi. Il primo: sottolineare la differenza con gli annunci di soluzioni miracolistiche sistematicamente fatti da Berlusconi. Il secondo è più sottile, forse irrilevante, ma interessante dal punto di vista culturale. Comincio da questo. Dalla scuola di quel grande sociologo e filosofo che era Massimo Troisi ho scoperto l'importanza della scaramanzia, del non dare per scontate anche cose sicure, del non fidarsi del fato e degli uomini perché non si sa mai. Insomma una sorta di pessimismo che lascia solo un angolino alla speranza che l'evento giusto e fortunato si realizzi. Troisi ne diede una lezione magistrale in occasione dello scudetto al Napoli ai tempi di Maradona. Lo scudetto era già stato vinto aritmeticamente con tre domeniche di anticipo e Troisi in una celeberrima intervista a Gianni Minà affermava: «Questa volta penso proprio che forse ce la possiamo fare». La scaramanzia è un dato culturale napoletano - del quale forse faremmo bene a liberarci - nel quale io stesso purtroppo mi ritrovo.

Non così De Magistris. Poteva non fidarsi degli accordi o, per scaramanzia, non parlare troppo, non annunciare la soluzione concordata. Ma perché? Poteva mostrare maggior cautela: forse sarebbe stato più utile e opportuno, o forse no. Comunque, dato il personaggio, non c'era proprio da aspettarselo. Poteva solo con determinazione insistere sul suo progetto e il suo programma e chiedere, a testa alta e senza vittimismi, la collaborazione di chi ha il potere di affrontare l'emergenza (garantendo da parte sua quanto è di competenza del Comune). Questo è ciò che ha fatto. E dobbiamo solo augurarci che Governo, Regione e Provincia facciano la loro doverosa parte, controllando gli attacchi eversivi della Lega.

In questo consiste la differenza con gli annunci miracolistici berlusconiani. Non c'è la genialità di un capo. C'è - e soprattutto ci dovrà essere - il rispetto dei compiti istituzionali di ciascuna delle parti in causa in questo dramma. Più di una volta Berlusconi e Bertolaso hanno affrontato l'emergenza rifiuti "in modo definitivo" (salvo vederla ricomparire a ogni pie' sospinto) manu militari ed extra legem. Gli interventi di Bertolaso e Berlusconi (con la incredibile fiducia accordata al primo anche dalle amministrazioni di sinistra) hanno rappresentato un disastro immane oltre che una pratica diseducativa. Penso a questo riguardo al perennemente richiamato intervento dell'esercito. Ma penso soprattutto alla pratica di operare fuori da ogni regola e ogni norma di legge. I grandi interventi di Berlusconi sono consistiti sostanzialmente nel nascondere la spazzatura sotto il tappeto. Fuor di metafora, la spazzatura - vorrei pregare di non usare il termine monnezza - venne collocata in discariche il cui uso era stato vietato per motivi ambientali o di altro genere dalla magistratura, grazie al controllo militare delle operazioni. Purtroppo, quando questo accadde anche all'epoca del passaggio dal secondo governo Prodi all'ultimo governo Berlusconi molti nella sinistra plaudirono all'iniziativa con una grande e malcelata ammirazione per la virilità con la quale era stata condotta l'operazione. Anche a Caivano e ad Acerra (i siti indicati nell'accordo con la Provincia) si poteva fare la stessa cosa. O no?

Meglio di no. E c'è da auspicare che i nuovi accordi, con il governo e il ministro competente, per il trasporto dei rifiuti fuori dalla regione in questa fase di emergenza siano rispettati. Non sarà facile. Da una parte abbiamo le dichiarazioni di impegno da parte del ministro dell'ambiente per "l'emergenza" e per "l'ordinarietà", dall'altro abbiamo la Lega, altro partito di governo, che butta benzina sul fuoco minacciando dura opposizione a interventi per il trasferimento dei rifiuti fuori della Campania. Benzina sui cassonetti è gettata anche dalle squadracce che cercano di far esplodere la situazione e di delegittimare De Magistris. E qui è bene ricordare che le montagne di rifiuti si sono accumulate a Napoli ben prima delle ultime elezioni, mentre l'incapacità di gestione dello smaltimento dei rifiuti all'interno della regione va attribuita alla giunta regionale (ormai da un bel po') in mano alla destra.

Certo, ci sono colpe e responsabilità antiche. In primo luogo quella di Antonio Bassolino per non aver voluto denunciare subito, appena eletto presidente della regione, lo scandaloso accordo con Impregilo per il monopolio dello smaltimento di tutti i rifiuti della regione tramite un unico - sempre malfunzionante - inceneritore. Se si fosse provveduto a denunciare subito quell'accordo capestro, si sarebbe potuto dare inizio a una nuova politica di gestione dei rifiuti in chiave ambientalista. Ma si è preferito non farlo. Ci sono poi i problemi connessi alla mancata scelta della raccolta differenziata che, tra l'altro, non riguarda solo il comune di Napoli. Su questo c'è l'impegno realistico a operare da parte della nuova giunta. E l'obiettivo di procedere in tal senso evitando il ricorso agli inceneritori - tra lo scetticismo di tutti - non era solo del programma di De Magistris ma finanche in quello del prefetto Morcone.

Su questa linea bisogna andare avanti nella Napoli assediata in primo luogo dalla Lega, ma non solo. La destra sta tentando di organizzare "quinte colonne" sulle quali c'è necessità di investigare. Non si tratta solo di camorra. Ad esempio - mi suggerisce un amico napoletano - una ditta subappaltatrice della Asìa (l'Azienda per la raccolta dei rifiuti) si sarebbe rifiutata di procedere alla raccolta nel centro storico a partire dai giorni dell'elezione di De Magistris. Sarà un caso, ma è significativo dell'assedio. Le clientele napoletane e nazionali di ogni ordine e grado non apprezzano il nuovo stile di governo

Delegittimare il nuovo sindaco ora serve a dare un colpo alla possibilità di affrontare in prospettiva e nell'emergenza la questione dei rifiuti, ma anche a rendere più difficile la possibilità di rinnovamento. De Magistris ha vinto contro le clientele di destra (e la camorra) ma anche contro le clientele di sinistra. La serietà del suo operato nei primi giorni si può vedere dalle nomine per il governo del Comune e degli apparati tecnici, a partire proprio da quelle che riguardano la gestione del problema ambientale e dei rifiuti in particolare. E per ora c'è solo da apprezzarle.

Per dirla ancora una volta con Troisi, «forse questa volta ce la possiamo fare», nonostante l'assedio.

ROMA— «Costruiremo il ponte di Messina, così se uno ha un grande amore dall’altra parte dello Stretto, potrà andarci anche alle quattro di notte, senza aspettare i traghetti...» Da quando Silvio Berlusconi ha pronunciato queste parole, era l’ 8 maggio 2005, sono trascorsi sei anni, e gli amanti siciliani e calabresi sono ancora costretti a fare la fila al traghetto fra Scilla e Cariddi. Sul ponte passeranno forse i loro pronipoti. Se saranno, o meno, fortunati (questo però dipende dai punti di vista). La storia infinita di questa «meraviglia del mondo» , meraviglia finora soltanto a parole, è nota, ma vale la pena di riassumerla. Del fantomatico ponte sullo Stretto di Messina si parla da secoli. Per limitarci al dopoguerra, la prima mossa concreta è un concorso per idee del 1969. Due anni dopo il parlamento approva una legge per l’attraversamento stabile dello Stretto. Quindi, dieci anni più tardi, viene costituita una società, la Stretto di Messina, controllata dall’Iri e affidata al visionario Gianfranco Gilardini.

Che ce la mette tutta. Coinvolge i migliori progettisti, e per convincere gli oppositori arriva a far dimostrare che il ponte potrebbe resistere anche alla bomba atomica. Passerà a miglior vita senza veder nascere la sua creatura. La quale, nel frattempo, è diventata un formidabile strumento di propaganda. Ma anche un oggetto di scontro politico: mai un ponte, che per definizione dovrebbe unire, ha diviso così tanto. Da una parte chi sostiene che sarebbe un formidabile volano per la ripresa del Mezzogiorno, se non addirittura una sensazionale attrazione turistica, dall’altra chi lo giudica una nuova cattedrale nel deserto che deturperà irrimediabilmente uno dei luoghi più belli del pianeta. Fra gli strali degli ambientalisti, Bettino Craxi ci fa la campagna elettorale del 1992. E i figli del leader socialista, Bobo e Stefania, proporranno in seguito di intestarlo a lui. Mentre l’ex presidente della Regione Calabria Giuseppe Nisticò avrebbe voluto chiamarlo Ponte «Carlo Magno» attribuendo il progetto di unire Scilla e Cariddi al fondatore del Sacro Romano Impero.

Nientemeno. Finché, per farla breve, arriva nel 2001 il governo Berlusconi con la sua legge obiettivo. Ma nemmeno quella serve a far decollare il ponte. Dopo cinque anni si arriva faticosamente a un passo dall’apertura dei cantieri, con l’affidamento dell’opera (fra polemiche e ricorsi) a un general contractor, l’Eurolink, di cui è azionista di riferimento Impregilo. Quando però cambia la maggioranza. Siamo nell’estate del 2006 e il ponte finisce su un binario morto. Il governo di centrosinistra vorrebbe addirittura liquidare la società Stretto di Messina, concessionaria dell’opera, ma il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, sventa la mossa in extremis. Nessuno lo ringrazierà: ma se l’operazione non si blocca il «merito» è suo. Nel 2008 torna dunque Berlusconi e il progetto, a quarant’anni dal suo debutto, riprende vita. Certo, nella maggioranza c’è qualcuno che continua a storcere il naso. Il ponte sullo Stretto di Messina, la Lega Nord di Umberto Bossi proprio non riesce a digerirlo. Ma tant’è. Nonostante le opposizioni interne ed esterne, la cosa va avanti sia pure lentamente. E si arriva finalmente, qualche mese fa, al progetto definitivo. Nel frattempo, sono stati già spesi almeno 250 milioni di euro.

Sarebbe niente, per un’opera tanto colossale, se però gli intoppi fossero finiti. Sulla carta, per aprire i cantieri, ora non mancherebbero che poche formalità, come la Conferenza dei servizi con gli enti locali e il bollino del Cipe, il Comitato interministeriale che deve sbloccare tutti i grandi investimenti pubblici. Sempre sulla carta, non sarebbe nemmeno più possibile tornare indietro e dire a Eurolink, come avrebbero voluto fare gli ambientalisti al tempo del precedente governo: «Scusate, abbiamo scherzato» . Il contratto infatti è blindato. Revocarlo significherebbe essere costretti a pagare penali stratosferiche. Parliamo di svariate centinaia di milioni. Ma nonostante questo il percorso si è fatto ancora una volta più che mai impervio. Non per colpa dei soliti ambientalisti. Nemmeno a causa della crisi economica, il che potrebbe essere perfino comprensibile. Piuttosto, per questioni politiche. Sia pure mascherate da difficoltà finanziarie.

Per dirne una, il «decreto sviluppo» ha materializzato un ostacolo imprevisto e insormontabile. Si è stabilito infatti che le cosiddette «opere compensative» , quelle che i Comuni e gli enti locali pretendono per non mettere i bastoni fra le ruote al ponte, non potranno superare il 2%del costo complessivo dell’opera. E considerando che parliamo di 6 e mezzo, forse 7 miliardi di euro, non si potrebbe andare oltre i 130-140 milioni. Una cifra che, rispetto agli 800– 900 milioni necessari per le opere già concordate con le amministrazioni locali, fa semplicemente ridere. Bretelle, stazioni ferroviarie, sistemazioni viarie…. Dovranno aspettare: non c’è trippa per gatti. Basta dire che il solo Comune di Messina aveva concordato con la società Stretto lavori per 231 milioni. Fra questi, una strada (la via del Mare) del costo di 65 milioni. Ma soprattutto il depuratore e la rete fognaria a servizio della parte nord della città, che ne è completamente priva: 80,7 milioni di investimento. Adesso, naturalmente, a rischio. Insieme a tutto il resto. Anche perché le opere compensative sono l’unica arma che resta in mano agli enti locali. Portarle a casa, per loro, è questione di vita o di morte. A remare contro c’è poi il clima politico.

Dopo la batosta elettorale alle amministrative la Lega Nord, che già di quest’opera faraonica non ne voleva sentire parlare, ha alzato la posta e questa è una difficoltà in più. Fa fede l’avvertimento lanciato dal leghista Giancarlo Gentilini, vicesindaco di Treviso: «La gente non vuole voli pindarici, non è interessata a opere come il ponte sullo Stretto di Messina perché è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Quindi anche tu, Bossi, quando appoggi questi programmi da fantascienza, ricordati piuttosto di restare con i piedi per terra, perché gli alpini mettono un piede dopo l’altro» . Con l’aria che tira nella maggioranza basterebbe forse questa specie di «de profundis» che viene dalla pancia del Carroccio per far finire nuovamente il ponte su un binario morto. Senza poi contare quello che è successo in Sicilia. Dove ora c’è un governo regionale aperto al centrosinistra, schieramento politico che al ponte fra Scilla e Cariddi è sempre stato fermamente contrario.

Una circostanza che rende estremamente complicato al governatore Raffaele Lombardo spingere sull’acceleratore. E questo nonostante i posti di lavoro che, secondo gli esperti, quell’opera potrebbe garantire. Sono in tutto 4.457: un numero enorme, per un’area nella quale la disoccupazione raggiunge livelli record. Ma il fatto ancora più preoccupante, per i sostenitori dell’infrastruttura, è il disinteresse che sembra ormai circondarlo anche negli ambienti governativi. Evidentemente concentrati su ben altre faccende. La società Stretto di Messina ha diramato ieri un comunicato ufficiale per dare notizia che «il consiglio di amministrazione ha avviato l’esame del progetto definitivo del ponte» . Un segnale che la cosa è ancora viva, magari nella speranza che Berlusconi si decida a rilanciare il ponte, annunciando l’ennesimo piano per il Sud? Forse. Vedremo quando e come l’esame si concluderà, e che cosa accadrà in seguito. Sempre che il governo vada avanti, sempre che si trovino i soldi per accontentare gli enti locali… Intanto nella sede messinese di Eurolink, dove lavoravano decine di persone, sembrano già cominciate le vacanze. Come avessero fiutato l’aria.

la Repubblica

Pgt, domani l´ok alla trasformazione

di Alessia Gallione

Pgt: si riparte dalla osservazioni. Domani la delibera che cancellerà l'approvazione del Piano di governo del territorio arriverà in giunta. La proposta dell’assessore all’Urbanistica De Cesaris è quella di riprendere in mano le osservazioni, valutarle e, dove necessario, modificare il documento. «Sulla base di queste osservazioni - spiega Pisapia - ci sarà un Pgt sicuramente migliorato rispetto a quello attuale». Una scelta che non piace al Pd. Pur appoggiando la necessità di rivedere il piano anche in maniera sostanziale, il partito propone di non bloccarne l’entrata in vigore. «Le modifiche si possono fare anche a Pgt pubblicato» commenta il capogruppo Rozza.

La trasformazione delle regole urbanistiche arriverà sul tavolo della giunta già domani: la prima importante decisione dell’era-Pisapia. Perché è lì che l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris condividerà con gli altri assessori la delibera che, di fatto, cancellerà l’approvazione del Piano di governo del territorio. Un passo indietro per riaprire l’ascolto con la città che, per modificare il Piano, aveva presentato 4.765 richieste di cambiamento. «Si tornerà alla possibilità per il consiglio comunale di esaminare e votare le osservazioni dei cittadini», ha ribadito ieri il sindaco. Disegnando anche il nuovo orizzonte che potrà delinearsi per lo strumento urbanistico. E per la Milano dei prossimi vent’anni: «Sulla base di queste osservazioni - ha aggiunto Giuliano Pisapia - ci sarà un Pgt sicuramente migliorato rispetto a quello attuale».

Dopo l’ex assessore Carlo Masseroli, che del Pgt è il padre e che ha già ipotizzato una difficile «stagione di ricorsi e controricorsi», anche il capogruppo del Pdl Giulio Gallera promette battaglia in aula: «Difenderemo il Piano. Questa è una scelta irresponsabile che creerà un danno e un buco di bilancio e bloccherà lo sviluppo della città. L’ascolto della città è una finzione. Si vuole solo stravolgere il Pgt». D’accordo con la possibilità di riprendere in considerazione le richieste di modifica, invece, è il presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo. Che dice: «La mia posizione non cambia rispetto a quella che avevo come consigliere dell’opposizione: anche ora ritengo necessario che la politica ascolti e valorizzi le osservazioni dei cittadini».

Il documento, approvato lo scorso febbraio, secondo la tabella di marcia della precedente amministrazione avrebbe dovuto essere pubblicato il prossimo lunedì. Per ora, quindi, non è ancora entrato in vigore. Ed è proprio da questa certezza che riparte la giunta Pisapia. Da un Piano adottato (il primo passo in aula) e da una delibera che riporta indietro le lancette al momento della valutazione delle osservazioni: una scelta che, dopo il voto della giunta, dovrà arrivare in consiglio comunale per il via libera. Da questo momento gli uffici dovranno riprendere in mano le 4.765 richieste e, dopo averle riconsiderate, accorparle in gruppi «omogenei e di identico contenuto» e sottoporle nuovamente al voto dell’aula: non soltanto otto blocchi, come fece l’allora maggioranza. Una decisione duramente contestata dal centrosinistra che aprì lo scontro e presentò un ricorso al Tar.

la Repubblica

Il Pd tenta di fermare lo stop totale "Piano in vigore, poi le modifiche"

di Teresa Monestiroli

Il primo passo della giunta Pisapia fa accendere le scintille con il Partito democratico. Se infatti il maggior gruppo della coalizione che sostiene il neo sindaco è totalmente d’accordo sulla necessità di rivedere il Piano di governo del territorio varato dalla precedente amministrazione, dando valore alle osservazioni presentate dai cittadini, non c’è sintonia sulla modalità che sembra aver scelto l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris per procedere. A spiegare le divergenze è Carmela Rozza, il nuovo capogruppo dal Pd: «Sono perplessa sull’ipotesi di ritirare la delibera di approvazione del Piano e ritornare allo step precedente, quello della valutazione delle osservazioni - racconta il consigliere comunale - . Forse sarebbe più appropriato tenere in piedi lo strumento e valutare contemporaneamente le osservazioni introducendo delle modifiche là dove lo ritenessimo necessario».

È il regolamento urbanistico della Milano dei prossimi vent’anni il primo banco di prova della tenuta della squadra di Pisapia, scelta esplicitamente senza seguire le vecchie logiche della spartizione delle poltrone tra i partiti. Di questo si parlerà in una riunione già chiesta dal partito a sindaco e assessore: «Ci sarà un momento di confronto - prosegue la Rozza - per discutere come affrontare il problema delle osservazioni. Personalmente ritengo che il Piano non vada fermato. La legge 12 della Regione dà la possibilità ai Comuni di apportare delle modifiche anche a Piano in vigore. Quindi la mia proposta è quella di pubblicarlo nei tempi previsti e poi in consiglio comunale discutere le osservazioni e valutare, strada facendo, i punti da rivedere». Una posizione, quella di procedere con le varianti mantenendo attivo il Piano, che anche Stefano Boeri, oggi assessore alla Cultura, aveva sposato in campagna elettorale quando parlò davanti a una platea di immobiliaristi e costruttori che difendevano a spada tratta il Pgt.

Ma è una proposta totalmente diversa quella che la De Cesaris sembra portare avanti: fermare le macchine e, prima di far entrare in vigore le nuove regole, riportare in aula le richieste di cambiamento dei cittadini, tenendo conto che la data massima di approvazione fissata dalla Regione Lombardia è il 31 dicembre 2012. Scelta appoggiata anche da Sel, con il consigliere Patrizia Quartieri che spiega: «Non dobbiamo avere nessuna fretta di pubblicare e quindi far entrare in vigore il nuovo Piano. Prima rivediamolo e correggiamo quello che c’è da correggere. Sono totalmente d’accordo con la decisione di Pisapia perché l’iter seguito dal centrodestra a gennaio era stato improprio, e perché è necessario ridare voce ai cittadini che con le osservazioni hanno dato un importante contributo al Piano».

Corriere della Sera

Urbanistica scontro Moratti-Pd

di Maurizio Giannattasio e Elisabetta Soglio

Urbanistica e Pgt, in Comune è subito scontro tra Letizia Moratti e il Partito democratico. L’ex sindaco Letizia Moratti: «Ci spieghino le intenzioni» . Il capogruppo del Pd Carmela Rozza: «Da noi le scelte non si fanno nei salotti».

Prima riunione dei capigruppo e primo botta e risposta tra l’ex sindaco, Letizia Moratti e la capogruppo del Pd, Carmela Rozza. La questione è di quelle roventi: il Piano di governo del territorio. Martedì scorso, l’assessore all’Urbanistica, Lucia De Cesaris ha annunciato che Palazzo Marino revocherà «per autotutela» l’approvazione del Pgt per tornare alla discussione delle 4.765 osservazioni presentate a suo tempo dai cittadini. Ieri, il sindaco Giuliano Pisapia ha confermato che questa sarà la strada maestra: «Per il Pgt si tornerà alla possibilità per il Consiglio Comunale di esaminare e votare le osservazioni dei cittadini. Sulla base di queste osservazioni ci sarà un Pgt sicuramente migliorato rispetto all’attuale» .

Non l’ha presa bene Letizia Moratti che ieri durante la riunione dei capigruppo ha chiesto con forza la presenza dell’assessore De Cesaris: «Abbiamo appreso la decisione dai giornali. Chiediamo che l’assessore venga a spiegarci cosa intende fare del Pgt» . La replica secca arriva da Carmela Rozza, neocapogruppo del Pd: «È necessario attendere prima la riunione di giunta con la relativa delibera e la nomina delle commissioni e poi ci confronteremo con l’assessore. È questa la prassi giusta. Non quella che avevate messo in pratica voi con le riunioni in casa Moratti, quando anche noi apprendevamo le notizie dai giornali» . La vicenda Pgt sta preoccupando anche i costruttori, che avevano sostenuto il documento dell’allora assessore Carlo Masseroli. Il presidente di Assimpredil, Claudio De Albertis per ora è cauto: «Stiamo cercando di capire che cosa significhi questa decisione e che cosa comporti» .

Di certo, c’è una diffusa preoccupazione sui tempi, dal momento che la Regione ha dato ai Comuni come termine massimo per l’approvazione dei Pgt il 31 dicembre 2011. L’ex assessore Masseroli insiste: «Stanno scegliendo una strada che dà l’impressione di portare all’impantanamento dell’iter amministrativo del piano, con effetti di impoverimento per i singoli cittadini e per la città intera» . Continua intanto a far discutere anche il tema dell’austerity che Palazzo Marino sta imponendo, in attesa della relazione sul bilancio che l’assessore Bruno Tabacci porterà domani in giunta. Il giro di vite riguarderà nel frattempo l’ufficio stampa che, come annunciato ieri dal capo di gabinetto Maurizio Baruffi a tutti i dipendenti di questo settore con contratto a tempo determinato, sarà ridotto di un terzo e diversamente organizzato.

Tagli anche ai budget a disposizione degli assessori: da una spesa di 70mila euro per i 16 assessorati dell’amministrazione Moratti (1.120.000 euro in totale) a una spesa di 86 mila euro per i 12 assessorati attuali (1.032.000 euro in totale) con una riduzione della spesa complessiva del 7,86 per cento. L’opposizione attacca con il capogruppo pdl Giulio Gallera: «Continuano le bugie del sindaco Pisapia. Dopo quelle sui tagli delle auto blu, già fatti dalla giunta Moratti, ecco quella sui budget. Peccato che si tratti solo di una colossale bugia: ogni assessore infatti potrà spendere 86 mila euro, il 23 per cento in più rispetto alla scorsa amministrazione. Il governo di centrodestra ha tagliato il numero dei consiglieri e degli assessori per ridurre i costi della politica, la giunta Pisapia li aumenta incrementando la spesa per i consulenti degli assessori» .

Ma da Palazzo Marino viene fatto notare che «la riduzione degli assessorati ha portato a un conseguente accorpamento delle deleghe, nel mantenimento delle stesse funzioni da parte del Comune» . Ma piovono critiche anche dalla Provincia: «Troverei ipocrita — commenta il presidente del consiglio provinciale, Bruno Dapei — un Comune che si attribuisse il merito di una diminuzione del 20%del costo degli staff degli assessori, naturale conseguenza del taglio operato dalla legge. Qui poi c’è addirittura un incremento delle spese: come cittadino, mi sento cornuto e mazziato» .

Pgt, la giunta ricomincia da capo "Discutiamo tutte le osservazioni"

di Alessia Gallione

Palazzo Marino è pronto a riavvolgere il nastro del Piano di governo del territorio. E ad annullare l’ultimo passaggio del lungo iter che ha portato, lo scorso febbraio, il consiglio comunale a dare il via libera finale al documento destinato a cambiare le regole urbanistiche della Milano dei prossimi vent’anni. Riaprendo così la procedura, allora duramente contestata dal centrosinistra, della valutazione e della discussione delle 4.765 osservazioni presentate da cittadini e associazioni. E, soprattutto, rimettendo in gioco la possibilità di cambiare, anche in modo sostanziale, il Pgt. Un passo importante da compiere in fretta: la revoca dell’approvazione del "libro mastro dell’urbanistica" potrebbe arrivare in giunta già alla prossima riunione, per poi sbarcare in aula. E far ricominciare la nuova corsa verso il "sì" del consiglio comunale.

Il Piano sarebbe pronto per essere pubblicato e diventare legge: lunedì 27, aveva annunciato l’ex amministrazione. Ma non sarà così, anche se la strada scelta dalla nuova giunta non fa ripartire il percorso dall’inizio. È stato Giuliano Pisapia, nel suo discorso alla città, ad annunciarlo: «Ci impegniamo a esaminare e a valutare con attenzione le osservazioni dei cittadini e delle associazioni: non solo per rispetto di quella democrazia partecipativa alla quale crediamo fermamente, ma anche perché siamo profondamente convinti che in quelle osservazioni vi sia una grande ricchezza per il futuro della città».

Adesso è l’assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris, a spiegare come verrà riaperto questo capitolo: tecnicamente la giunta proporrà al consiglio comunale una delibera di revoca in autotutela che dovrebbe arrivare entro l’estate. E, in questo modo, le lancette dell’orologio torneranno indietro alla fase dell’esame delle osservazioni «per ridare voce a tutti coloro, soggetti pubblici o privati, che si erano espressi» dice l’assessore. Che spiega: «Dopo un’attenta valutazione con gli uffici e l’avvocatura per ricostituire la legittimità del procedimento, si ritorna alle osservazioni per valutarle con l’attenzione dovuta e richiesta dalla legge». Ed è proprio la riconsiderazione di quelle migliaia di richieste che «ci potrà aiutare a modificare alcune parti». A questo punto, senza cancellare il Piano, gli uffici torneranno ad analizzare le osservazioni e poi si riaprirà la discussione in aula. Quanto ci vorrà? De Cesaris assicura tempi rapidi. L’unica scadenza stringente per legge è il 31 dicembre del 2012, fissata dalla Regione per l’approvazione dei Pgt. «Ma noi non impiegheremo così tanto tempo» assicura l’assessore.

Per contestare la discussione lampo sulle osservazioni, decisa dalla giunta Moratti, e l’accorpamento delle richieste, un gruppo di consiglieri allora all’opposizione presentò ricorso al Tar. «Con gli uffici e gli avvocati del Comune - spiega la De Cesaris - invece di rischiare una pronuncia del Tar abbiamo ritenuto che questa fosse la scelta più opportuna. Indipendentemente dal ricorso, però, siamo convinti che ci fossero gravi lacune nel procedimento». Eppure, l’ex assessore Carlo Masseroli non solo critica la scelta, ma prefigura grane: «Attendo di vedere la delibera, ma temo che si apra una stagione di ricorsi e controricorsi che potrebbero essere presentati da chi ritiene di avere acquisito diritti. Questa scelta mi sembra di improbabile efficacia e un tentativo di mediazione tra chi, come me, vorrebbe vedere il Piano depositato e chi vorrebbe vederlo cancellato».

Plaude all’iniziativa, invece, il presidente di Legambiente Damiano Di Simine: «Bene fa Pisapia a mettere mano al Pgt, Trovo la scelta di ripartire dalle osservazioni un atteggiamento responsabile. Non bisogna buttare tutto ai rovi, ma ci sono alcune cose che devono cambiare in maniera sostanziale».

Meno cemento, più spazio al verde oltre 4.700 le ipotesi di modifica

di Teresa Monestiroli

Le più articolate sono senza dubbio quelle presentate da Legambiente, Libertà e Giustizia, Acli e Arci: sedici osservazioni per chiedere regole più certe, meno cemento, la salvaguardia del Parco Sud, più alloggi a basso costo e la tutela dei servizi pubblici al cittadino. Poi ci sono quelle presentate dai soggetti direttamente interessati, come gli imprenditori - Salvatore Ligresti, i Cabassi, Caprotti - , o i costruttori - Assimpredil - , le squadre di calcio - Inter e Milan - fino ai comitati di quartiere e ai singoli cittadini.

In tutto sono 4.765 le richieste di cambiamento del Piano di governo del territorio che ora Palazzo Marino ha deciso di riprendere in mano e discutere di nuovo, una ad una. Osservazioni al nuovo strumento urbanistico che avrebbe dovuto regolamentare, da qui al 2030, lo sviluppo della città e che lo scorso gennaio l’allora maggioranza di centrodestra scelse di accorpare in otto gruppi tematici detti "omogenei" - termine su cui si spesero ore di dibattito in aula - per arrivare all’approvazione del Piano entro i termini di legge, il 14 febbraio. Un metodo contestato dal centrosinistra che invece chiedeva di discutere le osservazioni singolarmente, eliminando solo i doppioni.

Ma cosa c’è scritto in quelle migliaia di pagine che gli uffici comunali hanno analizzato lo scorso autunno? Un po’ di tutto, dalle precisazioni pretestuose di chi ha cercato di boicottare il Pgt alle osservazioni di merito che chiedono sostanziali modifiche alle nuove regole. La maggior parte riguarda gli ambiti di trasformazione urbana, quelle aree in attesa di una radicale riqualificazione come gli ex scali ferroviari: il Comune ha catalogato in questo ambito 1.539 osservazioni, di cui solo 32 sono state accolte, anche solo parzialmente. Tutte quelle respinte rientrano nella categoria delle "proposte discordanti con lo strumento" perché, secondo l’amministrazione, mettono in discussione i pilastri su cui poggia l’intero Pgt.

L’altro maxi gruppo è quello che riguarda la perequazione, il meccanismo che permette lo spostamento delle volumetrie da una parte all’altra della città: in questo ambito sono state catalogate 1.366 richieste di modifica, solo 138 quelle accolte. Seguono, per grandezza, il gruppo dedicato ai servizi (606 osservazioni, di cui 550 non accolte), le infrastrutture e la mobilità (573, di cui 549 respinte), il verde (320, con 243 rifiutate), le varie (225, con 206 non accolte) e l’housing sociale (71 osservazioni con 69 rifiuti). In questo marasma di richieste i firmatari sono i più disparati. Ma quel che conta è che le risposte degli uffici comunali (le controdeduzioni) sono nella stragrande maggioranza dei casi negative. Solo 349 osservazioni, infatti, sono state accolte, e sono tutte annotazioni di carattere tecnico. Di sostanziale non è stato cambiato nulla, in nessuna direzione.

Il Comune, infatti, ha rifiutato sia la richiesta delle quattro associazioni (Legambiente, Libertà e Giustizia, Acli e Arci) di diminuire le volumetrie negli ex scali ferroviari per aumentare la quantità di verde e le case low cost, sia quella presentata da Ferrovie dello Stato (proprietario delle aree) che chiedeva esattamente l’opposto: la possibilità di costruire di più, di abbassare la percentuale di housing sociale e di rivedere la grandezza dei parchi. Sono state respinte anche le osservazioni di Ligresti e Cabassi, entrambi proprietari di aree strategiche per lo sviluppo dei prossimi anni: il Parco Sud e i terreni di Expo. In particolare, Ligresti contestava all’ex assessore Masseroli uno dei punti cardine del piano, lo spostamento delle volumetrie che sarebbero state assegnate al parco nell’area dell’ex Macello dietro Porta Vittoria. La risposta del Comune è stata negativa.

E proprio intorno alla questione del Parco Sud è ruotata la dura contestazione delle associazioni ambientaliste e del centrosinistra a Palazzo Marino. Una delle più sentite richieste era infatti quella di escludere i terreni del Parco dall’assegnazione di volumetrie. Il fatto che restasse il divieto di costruire nelle zone agricole, per loro, non era sufficiente a tutelare la zona e creava comunque dei pericolosi precedenti. Inoltre, per gli ambientalisti, le quantità di costruito previsto in alcune aree di trasformazione urbana strategiche come via Stephenson - la futura Défense milanese, nei sogni di Masseroli - e Cascina Merlata «sono davvero mostruosi» scrivevano.

Fra le migliaia di osservazioni che ora il consiglio comunale dovrà riprendere in mano ci sono anche quella presentata dal patròn di Esselunga, Bernardo Caprotti, che vorrebbe costruire un ipermercato alla Bovisa, quella di una cooperativa (La Liberazione) che chiede l’immediata bonifica della zona dietro Porta Vittoria e dell’apertura di un giardino temporaneo in attesa di conoscere le sorti della Biblioteca universale e quella di Inter e Milan che hanno contestato la destinazione d’uso dell’area davanti al Meazza stabilita dal Pgt in «infrastrutture viarie esistenti». Dicitura che, per loro, escluderebbe in futuro la costruzione di residenze ed edifici per l’intrattenimento.

Le prime mosse di Matteo Renzi appena eletto sindaco di Firenze furono molto efficaci. In molte dichiarazioni affermò che la sua città non doveva consumare più neppure un metro quadrato di territorio: era già sufficiente la grande periferia metropolitana. Poi criticò la svendita del patrimonio pubblico voluta dal governo affermando che nelle caserme localizzate nel centro della città sarebbero sorte case pubbliche invece di alberghi a cinque stelle. Chiuse infine al transito delle auto piazza del Duomo, restituendola alla città.

E il suo atteggiamento era tanto più importante per quante ombre erano rimaste sull’immagine della precedente giunta comunale: dal pranzo del sindaco Domenici con Ligresti e Della Valle in cui confessava di preferire il cemento all’ipotesi del parco della piana; dal nuovo piano urbanistico che aggrediva le meravigliose colline tutelate da tanti amministratori e urbanisti del passato; dallo scandalo della scuola dei Marescialli; la cricca degli architetti “pigliatutto”. Sembrava dunque che Renzi, facendo tesoro della bocciatura del piano strutturale volesse voltare pagina. Ma evidentemente il cemento armato deve avere il suo fascino se nel breve volgere di due anni, il sindaco vuol fare approvare dal consiglio comunale un piano strutturale della città che non è a “crescita zero”.

Già in questi due anni la società civile e il valido gruppo che ruota intorno a Ornella De Zordo, consigliera comunale già protagonista nella lotta contro gli scempi urbanistici e ambientali della passata amministrazione, avevano svelato che anche nella nuova stesura di quel piano c’erano scempi ben mimetizzati a prima vista. C’era ancora la possibilità di aggredire le colline realizzando di attività sportive o sanitarie; la cementificazione della pianura verso Prato; l’accordo con le Ferrovie dello Stato per l’inutile tunnel dell’alta velocità in cambio di enormi cubature. Ma la pressione della società civile era riuscita ad attenuare i danni del piano ereditato dai precedenti cementificatori. Nelle osservazioni dei comitati e del gruppo “perunaltracittà” si denuncia la costruzione di qualche milione di metri cubi di cemento solo in parte localizzato in aree industriali dismesse. Il resto è un’ulteriore sciagurata fase di espansione urbana.

Il sindaco Renzi vuole far approvare oggi dal consiglio comunale un piano ancora peggiore di quello di Domenici. E’ già stato infatti approvato anche un “provvedimento dirigenziale” che consente l’attuazione in deroga dei piani di recupero urbano presentati fin quì. Renzi, insomma, con una mano approva e con l’altra apre a una nuova fase di deroghe e contrattazioni!

Se non ci saranno ripensamenti, in due anni si è mestamente consumata la parabola del sindaco decisionista legato alla sua città. I segnali premonitori di quanto stava per accadere li abbiamo visti pochi giorni fa, quando Renzi si è schierato contro il referendum per l’acqua pubblica. Quando argomentava a favore della privatizzazione (la Toscana e Firenze sono aree di conquista della romana Acea) aveva lo stesso piglio che userà oggi, per convincere il consiglio comunale a votare un provvedimento che renderà ancora più invivibile Firenze.

Speriamo che perda anche stavolta. E per scongiurare questo voto, i movimenti fiorentini che si battono per una città come bene comune si sono dati appuntamento questa mattina alle 12 sotto Palazzo Vecchio. Firenze non merita di diventare un immenso campo di speculazioni come la scuola dei Marescialli.

A me pare che 25 milioni di euro per il restauro del Colosseo, il "totem", cioè il monumento più visitato e più "visto" della romanità in cambio dell'"esclusiva" del medesimo da ogni punto di vista mi sembra un ottimo affare per Diego Della Valle e un mediocre affare, per contro, per il Ministero dei Beni Culturali, in particolare per la Soprintendenza archeologica di Roma, ancora commissariata nonostante non vi sia alcuna reale emergenza né a Roma né a Ostia antica. Parecchi anni fa, quando c'era ancora la lira, la Banca di Roma propose all'allora soprintendente Adriano la Regina una quarantina di miliardi di lire, ma, da allora, il valore della moneta è molto cambiato... Ora, che il Colosseo abbia bisogno di restauri seri e diffusi non v'è dubbio da anni: sono rilevanti e profondi i danni inferti dalle intemperie, dai fulmini, dai terremoti in zone vicine, dal traffico anche pesante che prima lo circondava e che oggi comunque gli passa accanto e dal solo passare dei secoli. Ma da quando c'è un ticket da pagare l'area archeologica del Colosseo e dintorni frutta al MiBAC un terzo degli incassi di tutti i Musei e monumenti statali. Una gallina dalle uova d'oro, da curare a fondo e bene. Siamo proprio sicuri che 25 milioni di euro siano sufficienti in cambio di una esclusiva per un quindicennio su tutto ciò che riguarda il Colosseo, anche fotografie, anche immagini televisive in movimento e il loro utilizzo, mentre Della Valle potrà mettere il proprio marchio sui biglietti d'ingresso (oltre 5 milioni l'anno i visitatori), sui tendaggi che copriranno i restauri degli archi di tutto il primo ordine e così via? Inoltre il marchio Colosseo potrà finire sui prodotti delle aziende Della Valle. Qualcuno, il segretario della Uil-Bac, Giafranco Cerasoli, ha valutato il ritorno di immagine e altro superiore ai 200 milioni di euro. Non so se la cifra sia esatta, però i 25 milioni sembrano davvero pochini. Tanto più che se non saranno sufficienti per coprire tutte le spese di restauro (quando la si comincia non si sa mai bene quanto costerà un'operazione colossale del genere), dovrà pensarci lo Stato, il MiBAC con le sue risorse: 25 milioni sono e 25 restano. Infine, se il ticket per il Colosseo fosse stato aumentato di 0,50 euro "pro-restauro", in un anno il MiBAC avrebbe incassato (tenuto conto di anziani e bambini, riducendo quindi da 5 a 3 milioni gli ingressi annui) 1 milione e mezzo di euro l'anno che moltiplicato per 15 dà 22,5 milioni di euro, ma sarebbe stato libero di affittare per campagne limitate, giornate, convention, la vista del Colosseo e altro a industrie ed enti di vario genere ricavando sicuramente di più, nel complesso, dei 25 milioni di Della Valle, che invece gli legano totalmente le mani.

Non sosterremo uno sviluppo astratto. Milano deve fare i conti con la realtà». Il nuovo assessore comunale all'Urbanistica, Lucia De Cesaris, al terzo piano di via Pirelli 39 si è subito messa al lavoro per risolvere la questione Pgt. Avvocato amministrativista, 51 anni, sa bene che gli operatori immobiliari attendono risposte certe sul destino del Piano di governo del territorio, approvato dalla giunta Moratti e in attesa di pubblicazione.

Ancora senza una scrivania (il predecessore, Carlo Masseroli, preferiva un tavolo per le riunioni), ha già incontrato il suo team di dirigenti: «Stiamo cercando di correggere alcuni errori che sono stati fatti. Entro la fine della settimana, dopo le verifiche di legittimità tecnica, comunicheremo la nostra scelta procedurale», spiega l'assessore, alla sua prima intervista dopo le elezioni. Dalla finestra può controllare di persona l'avanzamento del grande cantiere di Porta Nuova.

Crede ci sia stata una sovraprogrammazione edilizia negli ultimi anni a Milano?

Credo si sia un po' confusa la volontà di costruire una città moderna con la necessità di rapportarla alle esigenze reali dei cittadini e di chi la vive. Vediamo alcuni progetti, forse molto belli, ma che rischiano di rimanere in parte vuoti, per molto tempo. Stiamo costruendo case con valori inaccessibili ai cittadini medi. Amo la nuova architettura e le sfide urbanistiche, ma dobbiamo fare i conti con la realtà, e questa città si sta spopolando, proprio perchè per molti non è più accessibile. In giro per Milano si vedono una quantità di "Affittasi" che fa paura. Ci dobbiamo fermare un attimo e fare i conti con la crisi.

Parliamo del tanto discusso Pgt. Lo pubblicherete così com'è stato approvato?

In realtà quando abbiamo ricevuto la fiducia dei cittadini non vi erano ancora le condizioni per la sua pubblicazione. L'iter richiedeva ancora tutta una serie di sistemazioni e poi il passaggio procedurale in Regione. Ora l'amministrazione sta facendo alcune riflessioni: in accordo con gli uffici e la dirigenza vedremo se prima della pubblicazione è possibile apportare alcune correzioni. Non possiamo negarci che ci sono due ricorsi pendenti sul Pgt: se sarà possibile in qualche modo prevenirli faremmo un servizio all'amministrazione.

Pensate a una rivalutazione delle osservazioni?

Stiamo studiando la soluzione procedurale per fare in modo che questo piano venga approvato in modo legittimo, tendendo conto delle numerose osservazioni fatte e che non sono state valutate con la giusta attenzione. Rivalutando le osservazioni si potrebbero apportare alcune modifiche. Senza stravolgere il testo, il nostro interesse è arrivare comunque alla sua pubblicazione quanto prima.

Con questa procedura, però, non sono possibili modifiche sostanziali...

L'istituto delle osservazioni consente di riprendere in mano alcune problematiche e, comunque, di ricominciare un colloquio con la città. Sapendo che, poi, come accade in qualsiasi città moderna, dopo la pubblicazione del Pgt si aprirà un nuovo dibattito per migliorare ulteriormente le scelte territoriali. Gli operatori già lo sanno, perché la normativa prevede la modifica dell'indirizzo politico.

Doppio step, dunque: prima le osservazioni e poi, dopo la pubblicazione, inizierete a lavorare per una variante?

Quale sarà la mia scelta procedurale ancora non lo so. Forse, però, abbiamo trovato un iter possibile che consentirebbe di operare in modo ragionevole. Dobbiamo vedere se è possibile salvare questo piano, migliorandolo.

Cosa pensa di un superpiano integrativo, che detti delle priorità per i prossimi 5 anni?

Credo ci si possa lavorare. Anche perché noi abbiamo delle priorità. Dobbiamo risolvere il problema delle cittadelle universitarie, del rapporto con i servizi. Dobbiamo consolidare e preservare lo storico, ma dentro lo storico dobbiamo sostituire nel tempo ciò che non funziona e non è più operativo. Sicuramente dovremmo lavorare sulle priorità, stabiliremo insieme delle linee e degli obiettivi di intervento che consentiranno il miglioramento.

Intendete rimodulare gli indici edificatori?

Alcune cose effettivamente vanno sistemate. Spero addirittura di riuscire fin da ora a inserire delle misure che consentano il riequilibrio. Forse è possibile correggere anche lo strumento della perequazione in questa fase, dandogli dei riferimenti certi. Questo Pgt non verrà stravolto, ma corretto in base alle nuove linee programmatiche. Milano deve fare i conti con la difficoltà di assegnare alloggi nuovi e con la desertificazione di alcune parti della città. Su questo dobbiamo riflettere molto, introducendo poi elementi di qualità della vità, come un giusto rapporto tra l'abitato e il verde, e un giusto rapporto con i servizi.

Promette una città «a misura di bambino», dove «nessuno si senta solo o straniero». Una città «più verde e più vivibile» in cui il tema della sicurezza «rientrerà nel registro della normalità e non in quello dell´emergenza perenne». Una città «in cui non vi siano più abitanti senza casa e case senza abitanti» e che diventi «la capitale di un welfare che non lasci ai margini le persone anziane e quelle in difficoltà». È questa la Milano che il neo sindaco Giuliano Pisapia immagina per i prossimi cinque anni perché, spiega nel suo primo discorso alla città, «i milanesi hanno deciso di aprire una nuova stagione politica» e lui, insieme alla sua giunta, ha tutta l´intenzione di non deluderli. «Lavoreremo con impegno per ridare speranza a una Milano che vuole riprendere a crescere e alle famiglie che domandano nuove politiche sociali».

Sono le otto meno un quarto di sera quando Pisapia prende la parola nell´aula del Consiglio di Palazzo Marino di fronte alla nuova assemblea, insediatasi un paio di ore prima. Fra i banchi dei consiglieri, che hanno appena eletto Basilio Rizzo nuovo presidente dell´aula con l´appoggio compatto di tutta la maggioranza, solo due assenti: Riccardo De Corato per il Pdl e Francesco De Lisi per il Pd. In piedi, Pisapia scandisce le promesse del suo mandato. «Milano vuole ritrovarsi di nuovo unita intorno a un obiettivo comune - spiega - , vuole trasformare il sogno in realtà, vuole tornare a essere la capitale morale ed economica del nostro Paese». Per questo Pisapia si impegna a siglare un «nuovo patto per la città», definendo quella appena aperta «una legislatura costituente».

Un discorso ampio in cui, dopo aver ringraziato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il cardinale Dionigi Tettamanzi, il sindaco annuncia un vero e proprio cambio di passo rispetto alla precedente amministrazione: «Riprenderemo in mano le osservazioni al Piano di governo del territorio presentate dai cittadini», «tradurremo in atti di governo» gli indirizzi espressi dai milanesi ai cinque referendum ambientali, «rilanceremo i Consigli di zona e le scuole civiche». Fino alla stilettata conclusiva sulla disastrosa situazione economica del Comune: «Il primo esame conferma quanto già i revisori del Comune di Milano avevano rilevato e cioè che dal controllo sugli equilibri di bilancio emerge un andamento assai negativo delle entrate, che compromette l´equilibrio di bilancio sia di parte corrente che dei saldi utili ai fini del rispetto del patto di stabilità». E in materia di bilancio, ricorda che la sua squadra non avrà più auto blu, ma solo «piccole utilitarie in condivisione, utilizzate con la dovuta sobrietà» perché la scelta è quella «di rinunciare a quei piccoli privilegi che hanno contribuito a un fossato tra cittadini e i loro rappresentanti».

Alla fine l´aula, almeno la parte della maggioranza, applaude fragorosamente. «Siamo orgogliosi di vedere il centrosinistra al governo dopo 20 anni - commenta Carmela Rozza, nuovo capogruppo del Pd - . Lo spirito con cui affronteremo la nuova legislatura sarà quella del dialogo». Il grillino Mattia Calise, alla sua prima seduta, porta avanti i temi cari ai suoi sostenitori chiedendo «la diretta Internet non solo del Consiglio ma anche dei luoghi dove si prendono le decisione, come le commissioni consiliari». Manfredi Palmeri promette «una opposizione senza pregiudizi, ma che entri nel merito di tutte le questioni che interessano la città», mentre Matteo Salvini, capogruppo della Lega, attacca: «Pisapia comincia male prendendo in giro i milanesi con una bugia enorme sulle auto blu. Grazie alla Lega erano già state tolte, se si vuole fare di più che la giunta si impegni ad andare in metropolitana».

La Provincia dia retta ai sindaci della zona sulla questione Toem, la futura tangenziale ovest esterna in progetto. Lo dice il Fai, Fondo ambiente italiano: «Sono loro, i sindaci, la reale testimonianza del patrimonio del Parco agricolo sud che il Fai con loro vorrebbe strenuamente tutelare: a nome degli agricoltori e degli appassionati del Parco chiedo di dare a questi soggetti il massimo ascolto, accettando le loro istanze in quanto depositari di esigenze reali e della cultura del territorio, per avviare un reale processo partecipativo».

Parole di Giulia Maria Mozzoni Crespi, che del Fai è presidente onorario. L’appello è rivolto al presidente della Provincia, Guido Podestà, che giovedì assieme agli assessori competenti incontrerà una ventina di sindaci dell’est Ticino e del sud milanese: amministratori bipartisan ma tutti ostinatamente contrari al progetto Toem. Una cinquantina di chilometri di asfalto da Melegnano a Magenta, a chiusura del raddoppio dell’anello delle tangenziali nei piani futuri di Palazzo Isimbardi, ma non voluti dal territorio. Il Fai si schiera dunque con i Comuni mobilitati da mesi tra assemblee e mozioni per dire no all’opera:

«I terreni agricoli - aggiunge Mozzoni Crespi - quando vengono frammentati da infrastrutture vedono crollare drammaticamente il loro valore e la loro qualità produttiva, fino a morire. Polmone verde, fonte di prodotti agricoli fondamentali, luogo di svago e di ristoro dalla vita cittadina, ricco di luoghi di alto valore ambientale e culturale: troppo spesso i vincoli che tutelano il Parco sono stati calpestati in nome di un dubbio progresso che non ha favorito il bene comune. Piuttosto, il grave problema della viabilità potrebbe venire risolto con l’impegno a fornire nuovi mezzi pubblici, come a Londra e a Parigi».

Rincarano la dose i sindaci del no, guidati da quello di Albairate, Luigi Tarantola: «Alla Provincia chiederemo di stralciare l’opera proprio perché non è condivisa con il territorio: chiederemo su quali basi sia stata ipotizzata e, in alternativa, se non sarebbe meglio riqualificare le strade già esistenti. Se sarà picche, partiremo con la raccolta firme e continueremo nella battaglia». La Provincia si mostra disponibile al confronto sul progetto di sei corsie pensate per togliere traffico anche dalla Statale dei Giovi, in project financing e con caselli per il pedaggio: «Ascolteremo le richieste dei sindaci - anticipa l’assessore ai Trasporti, Giovanni De Nicola - oggi c’è solo un disegno e vanno ancora trovati i fondi»

Nota: altro che "c'è solo un disegno" quello è un micidiale " piano" (f.b.)

Come ci hanno raccontato recentemente i giornali, la Brianza operosa sta operando a spron battuto anche per accogliere stuoli di nuovi immigrati. Stupiti? Certo, ma solo se per caso non avete ascoltato Bossi dal palco di Pontida ringhiare che da un momento all’altro caleranno su Monza impiegati ministeriali a più non posso. Caleranno a lavorare nelle fiammanti sedi che l’alacrità padana sta già predisponendo, anche se questo fa incazzare quei reazionari corporativi romani, tipo Napolitano, chi sarà mai. E caleranno anche a dormire da qualche parte, dopo il duro lavoro amministrativo (perché qui si lavora, mica sempre a bere il caffè come nella capitale corrotta).

Dove alloggiare gli auspicabili futuri impiegati di Trota Primo, quando a secessione avvenuta i loro ranghi fisiologicamente cresceranno ancora? La necessaria efficienza di questa soluzione alloggiativa di certo mal si concilia con una dispersione nei pur abbondantissimi alloggi sfitti e invenduti della città, o magari portando a termine certi cantieri lasciati lì da anni e anni. Non sia mai! Come pure enunciato dal Lider Maximo sul palco bergamasco, non è ancora il momento di troncare i rapporti con l’alleato tattico Berlusconi, e quale miglior suggello di alleanza del solido brick & mortar, di quella cosa che a tutti piace, che fa tirare sempre l’economia e tutto il resto? Ma si, il sacro metro cubo nuovo di zecca, su greenfield tonalità padana di proprietà adeguata.

La Cascinazza appunto, un bel triangolo verde, uno di quei cunei che abbondano là dove la crescita spontanea delle nostre vitali metropoli avviene dove è più conveniente, ovvero lungo le strade, e lascia quei bei fazzolettini liberi per gli investimenti di lungo termine di chi ha un respiro strategico, che guarda oltre. La famiglia Berlusconi guarda così oltre da aver addirittura venduto a prezzo di realizzo (così ci dice la stampa) quel terreno a un altro operatore, a patto di incassare il giusto prezzo una volta che sia fatta giustizia, ovvero che il piano regolatore ne riconosca il ruolo strategico per lo sviluppo urbano. Ruolo a lungo negato dai comunisti, sin da quando quell’oscuro burocrate, tale Luigi Piccinato, negli anni ’60 pur con una crescita stimata a 300.000 abitanti diceva che lì doveva starci un parco. Ma quale parco, al massimo uno di quei central park ideati nel terzo millennio dall’amministratore di condominio sindaco di Milano: tante, tantissime case, e poi un paesaggista californaino che ci disegna in mezzo eleganti panchine e aiuole.

Là il parco ci stava, oltre che per confermare l’ideologia totalitaria comunista, anche per via del fiume: lui, il fiume, quando piove esce dagli argini, e tecnicamente le aree che si bagnano in quel modo di solito non si costruiscono. Orrore! Ecco che per decreto il fiume non esonderà più, aiutato da grandi opere idrauliche, per ora solo sulla carta e di dubbia efficacia, ma solo per chi non ha fede. Per chi la fede ce l’ha, rigorosamente nella tasca interna della giacca, arriva anche la variante al piano regolatore. Di cui si allega di seguito l’estratto relativo agli Ambiti di Trasformazione strategici, in cui la Cascinazza occupa la ancor più simbolica e strategica posizione P4 (leggere per credere). Si rinvia appunto alla lettura diretta del documento, con un paio di premesse:

1) I Poli strategici sono tutti tematici tranne uno, la Cascinazza appunto. Vuol forse dire che gli altri hanno un senso funzionale, mentre il P4 ha senso assoluto, in sé e per sé?

2) Il central park impanato alla milanese qui assume anche ufficialmente (leggere per credere) una veste del tutto virtuale e ideologica, diventando “parco tematico”. Insomma basta con tutta questa storia del verde che aggiunge qualità all’ambiente urbano, roba da sinistra novecentesca di cui non sappiamo che fare. Meglio, molto meglio ispirarsi a Walt Disney, o a Gardaland, a Mirabilandia, è questo il tipo di parco, con comodo parcheggio, che piace ai sudditi del Trota Primo.

Insomma vedi allegato, notare e confermare che quel triangolo a sud a cavallo del fiume è una vera colmata, e speriamo davvero che la piena se li porti via, questi qui.

A Londra si accettano scommesse. Si farà davvero l'Expo a Milano nel 2015? Le quote di gioco cambieranno mercoledì prossimo, quando il segretario generale del Bie Vicente Lascertales sarà in Italia "per fare chiarezza", visto che in questi anni "si è fatta troppa confusione". Anni sì, perché dal 31 marzo del 2008, giorno in cui l'Italia si aggiudicò l'esposizione contro Smirne, nel generale tripudio, sono ormai passati quasi 1.200 giorni di scontri, ricatti, furbizie, lotte di potere. Regione contro Comune, Formigoni contro Moratti, Tremonti, scettico fin dall'inizio, contro tutti, restio ad aprire i cordoni della borsa dinanzi a una simile baraonda. E Berlusconi interessato soltanto a controllare, attraverso gli uomini disastrosamente delegati all'inizio della partita e rapidamente bruciati, l'utilità dell'Expo per i suoi interessi immobiliari in Lombardia. Sullo sfondo gli interessi monetari: prima ancora degli investimenti miliardari previsti, boccone ghiotto per la 'ndrangeta, il valore dei terreni su cui sorgeranno gli impianti dell'Expo, un milione di metri quadri, che frutteranno 50 milioni alla famiglia Cabassi e 120 alla Fondazione Fiera, oltre agli indici di edificabilità per il dopo.

Troppo poco o troppo, come ritiene il neo assessore della giunta Pisapia Stefano Boeri, che vorrebbe rivedere gli uni e gli altri ? Su questo aspetto è in atto una bella diatriba con l'amministratore delegato dell'Expo Giuseppe Sala. E il nuovo sindaco si trova già tra le mani un fuocherello che rischia di diventare un incendio per la giunta arancione, salutata come l'evento che cambierà l'intero destino politico dell'Italia liberandoci dopo tre lustri dal berlusconismo.

Per gli scommettitori sono suonate come campane a morto le parole del presidente della Commissione del Bie Steen Christensen: se non si perfeziona l'acquisto, chiudendo anche quello delle aree di alcuni piccoli proprietari, se non partono subito le gare e se non cominciano i lavori entro ottobre nei siti previsti, "se ne dovranno trarre le conseguenze". Una formula che si può tradurre: "Expo di Milano addio".

La grana è così acuta che il presidente della Lombardia Formigoni, la cui religione oltre a quella di Comunione e Liberazione è quella del potere, sta riflettendo se gli conviene prendere il ruolo di commissario al posto della dimissionaria Letizia Moratti o se la faccenda può trasformarsi in un boomerang per il suo sogno a occhi aperti: succedere a Berlusconi a palazzo Chigi. Tanto più che oltre alla questione dell'acquisto dei terreni, dei finanziamenti che Tremonti non vuole sganciare, delle gare e dell'inizio dei lavori tra poco più di novanta giorni, l'architetto Boeri, iniziale progettista, non ha mollato sulla sua idea iniziale di un "orto planetario" nel quale i paesi partecipanti dovrebbero coltivare dall'inizio alla fine dell'Expo i loro prodotti per esporli. Sala non ne vuol sapere, preferisce le future cementificazioni. Ma questa è una partita interna al centrosinistra che dovrà giocarsi tutta il sindaco arancione Giuliano Pisapia. Un altro prezioso indizio per gli scommettitori londinesi.

la Repubblica ed. Milano

Via al cemento sulla Cascinazza per Berlusconi affare da 60 milioni

di Gabriele Cereda

Un quartiere residenziale, insediamenti direzionali e commerciali per un totale di 420mila metri cubi su 120mila metri quadrati. È il futuro della Cascinazza, la più grande area ancora verde di Monza, vecchio pallino immobiliare di Berlusconi che meno di quattro anni fa ha ceduto la proprietà a Brioschi sviluppo Immobiliare e Axioma Real Estate.

Il consiglio comunale, guidato dall’accoppiata Lega-Pdl, seppur con qualche mal di pancia, ha bocciato l’emendamento del centrosinistra che mirava alla conservazione dell’area agricola. Ora il via libera alla colata di cemento è definitivo. Varato dal ministro dello Sviluppo Paolo Romani, plenipotenziario del premier in città, fino a un anno e mezzo fa regista dell’operazione nella veste di assessore all’Urbanistica monzese, il piano del governo del territorio ora marcia verso l’approvazione. Un affare anche per la vecchia proprietà, la Istedin di Paolo Berlusconi, che aveva ceduto i terreni per 40 milioni di euro. Nell’ottobre del 2007, nell’atto di compravendita venne inserita una clausola: nel caso in cui la zona fossa stata resa edificabile la vecchia proprietà avrebbe ricevuto altri 60 milioni.

«Sulla Cascinazza il sindaco Mariani, l’assessore-ministro Romani e tutta la destra hanno gettato la maschera dando il via libera ad uno scempio che cancellerà una zona di pregio e di esondazione del Lambro» dice Roberto Scanagatti, capogruppo del Pd a Monza. Bastano due gocce d’acqua e l’area, circondata dal fiume Lambro e dal Lambretto, finisce a mollo; lo dice il Pai, il piano di assetto idrogeologico della Regione Lombardia.

Un inconveniente "cancellato" nel 2004, durante il Berlusconi ter, quando il consiglio dei ministri approvò la progettazione di un canale scolmatore: 168 milioni di euro per tagliare in due la città, a partire dal Parco. «Non finisce qui - annuncia il capogruppo del Pd - utilizzeremo tutti gli strumenti amministrativi per salvare una delle aree più belle di Monza». Non è d’accordo il sindaco leghista Marco Mariani: «Adesso quella è una zona inutilizzata, con questo intervento la restituiremo ai cittadini. E bisogna sottolineare che accanto agli edifici verranno lasciati 330mila metri quadri di verde»

Vorrei, rivista online di Monza

Mariani paga la cambiale? 400.000 metri cubi di cemento sulla Cascinazza

Quando si candidò, nel 2007, con una campagna faraonica molti individuarono lo "sponsor" nella proprietà dell'area agricola a sud est di Monza. Giovedì 16 giugno 2011 il Consiglio comunale ha respinto un emendamento della minoranza e per la prima volta nella storia, per colpa della Giunta Mariani, arriverà una valanga di cemento sulla più grande area agricola della città

Giovedì sera quando Roberto Sacanagatti e Michele Fagliahanno presentato l’emendamento cherichiedeva di ripristinare la Cascinazza come area agricola. Si è andati al voto per chiamata nominale, in aula e fra i cittadini presenti è calato un silenzio d’attesa.

Per 22 voti contro l’emendamento e 15 a favore, dopo 50 anni la principale area verde della città è stata occupata, cementificata e svenduta.

Il paradosso politico è che i 2 voti che hanno determinato la differenza al numero legale, sono di due consiglieri (Dalla Muta e Boscarino) eletti nella Lista Città Persone della minoranza, mentre con Pd, Sel e Città Persone, coraggioso il voto di sostegno del Fli e incomprensibile la “fuga” dall’aula di “ambientalisti” dell’ultima ora di Forza Lombarda (Brioschi e Scotti) che non erano presenti al voto.

È bene ricordare cosa significa questa scelta: più di400 mila metri cubi di edificazione residenzialee aservizi dopo che ai tempi lo stesso Mariani con il Piano Benevolo prevedeva per l’area il parco di cinturaurbana (una voltafaccia da ricordare quella degli sbiaditi verdi padani) un affare che vale oltre 60milioni di euri.

Un voto in aula che paga così la cambiale elettorale del 2007.

Una cambiale pagata, in una situazione proprietaria non chiara e che dopo il pronunciamento del Consiglio di Stato contro i privati ricorrenti, dava la possibilità all’Amministrazione pubblica di dettare le regole e le tutele necessarie per quest’area agricola..

Una operazione che in nome dell’Expo smentisce nettamente gli obiettivi dell’Expo stesso:ambiente e alimentazione! Un affare che ha un mandante con nome e un cognome: l’attuale Ministro Paolo Romani regista sin dal 2007 di questa interessata operazione

Le timide repliche dell’Assessore Clerici agli intereventi argomentati di Scanagatti e Faglia si sono centrate (come per il resto della variante) sulla risibile e falsa motivazione che “tanto se va bene, se ne farà il 20% di quanto previsto”.

Ma chi si vuole prendere in giro?Se è vero che questa variante, per la sua quasi interezza sembra stata fatta solo per giustificare il principale obiettivo: la Cascinazza; è altrettanto vero che una volte assegnate, aree di questo valore permetteranno alla speculazioni finanziarie ed ediliziedevastanti per l’economia e per la mancata tutela ambientale monzese.

Nelle prossime serate Partito democratico e Lista Città Persone, resteranno ancora “in trincea” nel presentare le decine di emendamenti presentati sulla Cascinazza, per cercare almeno di ridurre il danno; ma il danno (gravissimo) il centrodestra con la scelta di ieri sera è stato fatto.

A pagare il prezzo sarà l’intera città e i cittadini che sono chiamati a far buona memoria di tali devastanti scelte; tra un anno infatti… giusto di questi tempi si andrà al voto!

Nota: su questo sito la vicenda è stata ampiamente documentata in tutta la sua evoluzione, basta cercare " Cascinazza" nel motore di ricerca interno

CASALE SUL SILE (TV) - Sedici miliardi da investire. Di cui oltre 14 ancora da trovare. La strada dell'Alta velocità ferroviaria in Veneto è tutta in salita e le magre disponibilità dei fondi pubblici non fanno pensare a soluzioni a breve. I protocolli d'intesa Governo-Regione si sprecano (l'ultimo è di ieri) ma i fondi sono un'altra cosa. E intanto la logistica locale scoppia, i costi di trasporto sono oltre la media europea, l'Expo 2015 è già un appuntamento perso.

Così gli imprenditori veneti decidono di alzare il pressing, facendosi parte attiva nel reperimento dei capitali per realizzare l'opera. Progetto ancora embrionale, che partirà avviando un tavolo con la Regione, e che tuttavia identifica un nuovo approccio ai problemi. «Non possiamo solo lamentarci - ricorda il leader di Confindustria Veneto Andrea Tomat - occorre anche un impegno diretto». Che però, per concretizzarsi in un disegno reale di project financing, richiede alla politica soprattutto certezze. Nelle regole di remunerazione del capitale, nella durata delle gare, nei costi da sostenere, nei tempi per la realizzazione dell'infrastruttura.

Tre ore da Milano a Treviso. Tre ore da Milano a Roma, con il doppio dei chilometri però. Il problema, in fondo, è tutto qui. È il motivo per cui gli imprenditori del Nord Est chiedono con forza che l'alta velocità ferroviaria coinvolga anche il territorio più industrializzato d'Italia, quello in cui però logistica ed efficienza dei trasporti non riescono a tenere il passo con le esigenze crescenti dell'economia. A Casale sul Sile, due passi da Treviso, imprenditori ed amministratori locali provano ad uscire dalla routine del solito dibattito per proporre un'azione autonoma.

'La Tav ce la facciamo da soli' è lo slogan della giornata, legato a un progetto proposto da Confindustria e Ance del Veneto che punta a coinvolgere i capitali privati nell'operazione. Impegno ciclopico, considerando che le tratte di binari mancanti, da Treviglio a Padova e da Mestre a Trieste prevedono 15,8 miliardi di investimenti, di cui - ricorda il vicepresidente di Confindustria Cesare Trevisani -, solo 1,4 miliardi già finanziati con risorse pubbliche. «Ma non sono i soldi a mancare - osserva -, i capitali privati si trovano, a patto di poter offrire agli investitori certezze su tempi, regole e costi. Per fare questo occorre ridurre l'impatto dei veti locali, sfoltire ulteriormente le conferenze dei servizi, garantire un ritorno sul capitale investito che possa convincere i privati della bontà dell'operazione».

Il primo passo le imprese venete lo compiono aprendo un tavolo di confronto con la Regione, già accettato da Zaia, per studiare una proposta «semplice e concreta sia sotto il profilo tecnico che finanziario». L'idea è quella di allargare il consenso, cercando anche sponde finanziarie dirette, come ad esempio Veneto Sviluppo. Nessun dubbio tra imprenditori ed enti locali sul fatto che la Tav a Nord Est debba essere considerata un'opera prioritaria dall'intero paese.

«Le infrastrutture - spiega il presidente di Ance Veneto Luigi Schiavo - sono il motore per l'intero territorio». «È il sistema dedicato all'export - rilancia il presidente dell'Autorità portuale di Venezia Paolo Costa - che chiede a gran voce di eliminare strozzature e colli di bottiglia». E i soldi? Possibilista è Mario Ciaccia, ad di Biis, il 'braccio' infrastrutturale di IntesaSanpaolo. «Pronti a strutturare un'operazione - spiega - e disponibili anche a prendere direttamente una piccola quota del progetto, per dare un segnale e invitare altri investitori a partecipare.

L'auspicio è l'avvio di uno schema di project financing, valutando magari la creazione di una società della mobilità del Nord Est per avere un'unica regia. A patto però che ci siano regole chiare e che si agisca in un'ottica di sistema per incrementare il traffico attuale». Tema fondamentale, quello dei volumi gestiti sui binari, anche per Trevisani.

«La domanda attuale non è sufficiente e la connessione con i sistemi portuali - chiarisce - diventa un tassello fondamentale per rendere conveniente l'operazione. In questo senso i progetti di sviluppo dei porti di Venezia e Trieste non sono e non devono essere considerati alternativi. Ecco perché a mio avviso occorre agire anche a livello costituzionale, riportando le infrastrutture strategiche all'interno della competenza statale».

E intanto? Qualche passo avanti in realtà c'è e proprio ieri la Regione ha siglato l'8° atto aggiuntivo all'accordo quadro Regione-Governo sulle opere strategiche, atto che prevede le priorità a cui destinare le risorse, tra cui appunto la Tav. L'Università Bocconi intanto stima che i costi del 'non fare' arrivano a 112 milioni per chilometro. Per la sola linea Milano-Verona si tratta di 16 miliardi, pagati in ritardi, inefficienze, appuntamenti mancati ecc.. E anche turisti che non arrivano. Per quanto il pressing delle imprese possa accelerare i tempi, è già chiaro che l'Expo 2015 sarà un lontano ricordo quando i primi cantieri inizieranno a operare.

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