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1. Nel corso della Giunta del 13 luglio scorso ho votato a favore dell'Accordo di programma Expo 2015 siglato dal Sindaco Pisapia, pur avendo espresso da tempo dissensi profondi e motivati sul suo contenuto. Come ho più volte detto, in un momento molto difficile per i bilanci pubblici, le amministrazioni locali coinvolte nell'ADP dovranno pagare ai privati proprietari dei terreni del sito EXPO valori ben superiori al loro attuale prezzo di mercato come terreni agricoli. Inoltre, gli indici edificatori consentiti dall'ADP rischiano di condizionare pesantemente la possibilità di rispettare l'esito referendario del 12-13 giugno; quel voto di 454.995 milanesi che ha chiesto di mantenere sull'area Expo dopo il 2015 un parco agroalimentare utile, attrattivo e finanziato da soldi pubblici; certo non le 40 torri di 100 metri di altezza che questo accordo permetterebbe di costruire al posto del Parco.

La mia scelta di approvare, nonostante il dissenso, l'ADP sulle aree EXPO si basa sulla volontà di riconfermare, anche in questo difficile passaggio, la mia grande fiducia nel Sindaco e nella Giunta. Una Giunta che fin dai primi giorni di attività ha dovuto misurarsi con le scelte spesso irresponsabili della precedente amministrazione comunale: i ritardi accumulati in tre anni di inconcludente gestione politica della vicenda EXPO hanno infatti determinato la mancata acquisizione delle aree e il verificarsi di una fortissima urgenza nell’avvio delle opere e nella soluzione dei nodi ancora aperti. Ma non c’è solo questo: la mia decisione di votare a favore dell’ADP è legata anche alla convinzione che sia ancora possibile ridurre i danni ambientali e politici prodotti dall’ADP, attraverso un Documento di indirizzo del Piano Integrato di Intervento sulle aree EXPO che il consiglio comunale dovrà approvare nei prossimi mesi. Con l'approvazione in consiglio comunale dell'ADP, si aprirà infatti una nuova fase di gestione - difficile e delicata - del progetto Expo. Si tratterà infatti di salvaguardare i contenuti originali del progetto, di rafforzare il ruolo del Comune nell'indirizzo delle società Expo e Arexpo, di promuovere finalmente una grande partecipazione della città all'evento e di difendere il Parco Agroalimentare dall'eccessiva cementificazione dell'area che l’ADP rende possibile.

2. Voglio ancora ricordare che il Parco Agroalimentare, confermato come scelta dal referendum popolare del 13 giugno scorso, non è una serie di orticelli di melanzane e frutti esotici, come a qualcuno piace dire. Chi in queste settimane, come il Presidente della Regione Lombardia e l’AD di Società Expo, ha cercato di ridicolizzare e svilire un progetto approfondito e sviluppato da un gruppo internazionale di studiosi di botanica, agronomia, alimentazione e urbanistica – un progetto che è stato approvato a novembre dai 157 Paesi del BIE – dovrebbe assumersi fino in fondo la responsabilità delle sue parole e dirci a quale EXPO davvero pensa. Il Parco Agroalimentare di EXPO 2015 è l’idea innovativa di un’infrastruttura ad alta tecnologia, alimentata da energie rinnovabili e dotata di costruzioni leggere e riciclabili, dove sarà possibile mettere in scene l’intera filiera agroalimentare di tutti i Paesi del mondo e – dopo l’EXPO – delle regioni italiane.

Un sistema di terreni e serre per la coltivazione e la rappresentazione delle tradizioni agricole e delle biodiversità dell’intero pianeta: padiglioni per esporre le tecnologie più avanzate per la trasformazione dei prodotti agricoli in cibo; aree per la commercializzazione dei prodotti agricoli e alimentari; centri per ricerca sulle sementi e l’alimentazione. Il parco agroalimentare è dunque un luogo di sperimentazione, ricerca, sviluppo produttivo, divulgazione scientifica e intrattenimento, che deve restare in eredità dopo il 2015 a Milano, alla Lombardia a tutto il Paese. Un’infrastruttura finanziata quasi totalmente da soldi pubblici (1 miliardo e 300 milioni), che sarebbe uno spreco imperdonabile dismettere dopo l’EXPO per dare spazio all’ennesimo quartiere di residenze ed uffici destinati con tutta probabilità a restare vuoti.

3. Per queste ragioni, e per rispettare il mandato del referendum consultivo sul parco agroalimentare, in questi giorni e su mandato della Giunta ho collaborato con i capigruppo dei partiti di maggioranza per elaborare un ordine del giorno che impegna il Consiglio comunale a redigere un Documento di indirizzo per il Piano Integrato di Intervento dell’area EXPO. Un documento di indirizzo che potrà essere confermato nelle sue scelte dal futuro Piano di Governo del Territorio e che stabilisce alcuni punti fermi. Ne segnalo qui tre: Punto primo. Per evitare ulteriori ingiustificabili spese per le amministrazioni pubbliche, il documento pretende che il costo delle eventuali bonifiche sul sito Expo venga addebitato agli attuali proprietari e non ai soci, in prevalenza pubblici, della nuova società acquirente.

Punto secondo.

Per contenere al massimo ogni futura edificazione, il documento chiede di inglobare nell’indice di edificazione per il dopo Expo (circa 400mila mq) tutti i volumi già realizzati per l’evento (più di 200 mila mq) e di sottomettere ogni nuova costruzione alle regole del regolamento edilizio e di igiene del Comune di Milano, oltre che alle norme sulle fasce di rispetto dalle infrastrutture.

Punto terzo. Per salvaguardare l’unitarietà e la permanenza dopo l’EXPO del Parco Agroalimentare il documento di indirizzi chiede di considerare la sua futura dimensione in rapporto all’intera superficie dell’insediamento e non al netto delle sue infrastrutture (canali, strade, svincoli) com’è oggi prevista dall’ADP. Questi vincoli sono indispensabili per assicurare il rispetto della volontà dei milanesi e per applicare concretamente le indicazioni e lo spirito del Masterplan di Expo 2015 approvato dal BIE. È bene precisare che questi vincoli non incidono al ribasso sul valore delle aree calcolato dall’Agenzia delle Entrate e confermato nell’ADP. Il loro prezzo, infatti, non è stato calcolato considerando su tutta la zona interessata un indice di edificabilità dello 0,52, che costituisce in realtà solo un valore soglia che non è possibile superare.

4. Ma la vera grande sfida dei prossimi anni riguarda l’intera società urbana e rurale milanese. Riguarda la possibilità che Milano diventi davvero una delle capitali mondiali di un nuovo rapporto, fertile e avanzato, di scambio reciproco di beni e saperi tra campagna coltivata e territori urbani. Per questo, da domani, dovremo tornare a concentrare l’attenzione della politica, della cultura, del mondo dell’impresa e del lavoro sul grande tema della nutrizione. Da domani dovremo far diventare questo tema uno dei caratteri identitari della nostra Milano. Il che significa, tra le altre cose: - attivare le 60 cascine comunali come epicentri di scambio di prodotti e saperi tra città e agricoltura; - costruire un nuovo rapporto tra Milano e il Parco Sud che ne valorizzi il ruolo di grande polmone alimentare per il sistema delle mense pubbliche e i mercati milanesi; - promuovere un evento annuale sul cibo che anticipi e prepari l’EXPO del 2015 coinvolgendo le filiere dell’agricoltura di prossimità, della ristorazione, del commercio enogastronomico; - sviluppare con le università milanesi riflessioni e ricerche sui temi dall’alimentazione, della protezione della natura, delle biotecnologie; - attivare, in rapporto con i Consolati e le Ambasciate, la rete delle comunità straniere di Milano per promuovere iniziative che rendano da subito Milano una capitale planetaria dell’agroalimentare; - studiare forme di complementarietà con le altre regioni italiane e in particolare con le vicine città del Nord Italia.

5. Per lanciare questa grande sfida culturale, economica, politica, l'Amministrazione Comunale di Milano dovrà avere un ruolo di guida e orientamento nelle scelte delle due società (Expo e Arexpo) che gestiranno le prossime scelte. E oggi, alla luce del parere della Corte dei Conti, le mie perplessità rispetto all’opportunità e alle modalità di adesione alla newco appaiono ancor più fondate. Per questo è ancora più importante, oltre che avere conferma del ruolo del Sindaco come Commissario Straordinario per EXPO, chiarendo a priori quali poteri verranno attribuiti alla società Expo, che la presidenza di Arexpo sia espressa dalla nostra amministrazione comunale. Chi nella Giunta sarà chiamato a gestire i prossimi passi della vicenda EXPO dovrà dunque avere un ruolo chiaro e poteri ampi di coordinamento, all'altezza della sfida che ci aspetta. Ma soprattutto, il Comune dovrà attivare un'ampia partecipazione dei cittadini e ottenere il consenso necessario per tornare ad incidere positivamente sulla realizzazione di un’EXPO che porti vantaggio a tutta la città e non solo a pochi e circoscritti interessi.

Vita da archeologo. Marco Martignoni, bolognese, quarant’anni, due figli, laurea, specializzazione in archeologia cristiana e dottorato in età tardoantica e altomedievale, lunghe esperienze di scavo in cantieri universitari, poi una trafila di contratti a progetto, ha deciso di smettere. Niente più piccone e scalpello, bàsoli e capitelli. Farà il promotore finanziario. L’ultima esperienza da archeologo la rammenta come un incubo. A Modena si costruiva un grande parcheggio nel parco Novi Sad. Dovendo scavare in profondità si affidarono le ricognizioni archeologiche a due imprese. «Tutte le mattine il capocantiere ci accoglieva con un cronometro e segnava i minuti di ritardo. Poi a fine mese tirava le somme e ci toglieva i soldi dal compenso». Occorreva far presto. Incombevano le penali. Ma lei aveva un contratto a progetto, non era tenuto a rispettare orari. E poi il suo era un lavoro specializzato, di lunga tradizione disciplinare, uno dei vanti della cultura italiana... «Sì, ma nessuno, neanche io, ha protestato. Siamo pagati a ore - sette, otto euro lorde. A poche settimane dalla scadenza del contratto mi sono ammalato di otite. Lavoravamo sotto la neve, mattina e sera. Il medico mi ha imposto di restare a casa dieci giorni. Ho mandato il certificato. Ma dopo due giorni mi ha chiamato il capocantiere: il mio contratto era annullato».

La storia di Martignoni svela uno spaccato di come si pratica l´archeologia in Italia. A Modena sono emersi rilevanti reperti (una strada romana utile per capire i collegamenti nord-sud, un pozzo e una sequenza di sepolture medievali...). I pezzi vengono asportati e rimontati sopra il parcheggio, si allestisce una piccola mostra. Italia Nostra, Legambiente e Wwf presentano denuncia alla Procura. Protestano contro la distruzione di un patrimonio. Il magistrato chiede che sia archiviata, ma il Gip impone nuove indagini. Nel frattempo il parcheggio è quasi completato.

A Modena, comunque vada, l’archeologia è l’effetto secondario prodotto dai lavori per un parcheggio. Non il risultato di un’iniziativa culturale e di tutela. È stata chiamata "archeologia preventiva". Qualcun altro preferisce la formula "archeologia selvaggia". Lo Stato non ha un soldo per gli scavi e si accorda con imprese piccole e grandi, pubbliche e private che devono a loro volta scavare per le linee ad alta velocità o per piazzare cavi elettrici, fondazioni, tubature. Sono queste che pagano gli archeologi. Ma per loro l’archeologia, la tutela e la conoscenza, non sono il fine ultimo. Il fine ultimo è far presto e risparmiare.

Che questa sia la norma dell’archeologia in Italia lo ammette Luigi Malnati, direttore generale per le Antichità del Ministero per i Beni culturali: «Il 90 per cento degli scavi archeologici si fanno così». Nel 2006 fu approvata una norma che stabilisce siano le imprese ad avviare sondaggi archeologici preventivi e ad inviare una documentazione alla soprintendenza che decide se approfondire gli accertamenti. Queste attività sono svolte da archeologi (o da cooperative o da piccole imprese) a carico delle ditte, ma sottoposti spesso a condizioni di lavoro che dire precarie è un eufemismo. E dunque ricattabili. «Questi giovani sono fra l’incudine dell’impresa che li paga e il martello della soprintendenza alla quale devono riferire», aggiunge Malnati. Con un’aggravante, che è sempre il direttore generale a raccontare: «Le soprintendenze devono vigilare e dirigere l’attività di scavo. Ma con poco personale e sempre più anziano questo è un compito del tutto aleatorio». E il risultato qual è? «Il materiale rinvenuto, quando va bene, viene depositato in magazzini della soprintendenza, dove forse è al sicuro, ma dove nessuno lo studia, lo cataloga, lo porta a conoscenza della comunità scientifica, lo rende visibile al pubblico. Raramente l’impresa paga un’indagine successiva, una pubblicazione, una mostra. Uno scavo così è come non farlo».

Questo quando va bene. Quando va male, se si trova qualcosa di importante, ma di intralcio al cantiere, si chiude un occhio e poi anche l’altro. «A Modena noi archeologi abbiamo lavorato bene, pure nelle condizioni che ho raccontato. Ma in genere gli archeologi hanno meno diritti dell’ultimo operaio. E sono soggetti a ogni forma di pressione», racconta Martignoni, uno dei pochi che compaia con nome e cognome, mentre innumerevoli sono le storie anonime di vessazioni e di tutela che va a ramengo (alcune vicende sono raccontate sul blog archeologiainrovina. wordpress. com).

In sé l’archeologia preventiva non sarebbe il male assoluto. «In Francia questa attività è coordinata da un’istituzione statale, l’Inrap, che è finanziato con il 5 per cento del fatturato di tutte le imprese edili francesi», spiegano all’Ana, l’Associazione nazionale archeologi, che con la Cia, Confederazione italiana archeologi, organizza la gran parte dei professionisti. «L’Inrap interviene in ogni lavoro che comporti scavo. Ha un suo personale (archeologi, operai), un suo tariffario, garantisce tempi certi». In Grecia la situazione è simile a quella italiana, «ma i funzionari pubblici sono molti di più e molto più giovani», spiegano all’Ana. Esperienze considerate positive non mancano in Italia. A Napoli, in occasione dei lavori per la metropolitana, la soprintendenza (Daniela Giampaolo e altri) ha scavato ottenendo risultati eccellenti. Sono state allestite mostre e pubblicazioni. E i reperti sono in gran parte visibili. A piazza Municipio, piazza della Borsa, piazza Nicola Amore sono stati rinvenuti strati profondi risalenti a un bacino portuale fra IV e III secolo a. C. e di lì fino agli sventramenti ottocenteschi, passando per angioini, aragonesi e viceré spagnoli: l’intera storia napoletana.

Per mettere ordine nella giungla dell’archeologia preventiva, l’ex direttore generale, Stefano De Caro, aveva approntato un documento che fissava le linee guida di intervento. Le norme si sarebbero applicate a tutti i lavori pubblici o di interesse pubblico e anche a quelli privati di pubblica utilità. La filosofia era esplicita: «Una villa romana ovvero un villaggio preistorico conservato nei buchi di palo delle capanne possono, anzi debbono condizionare il progetto di una ferrovia o di un ospedale, ma affinché la cittadinanza che patirà il disagio del ritardo, comprenda la necessità di tale sacrificio collettivo è necessario che la stessa villa sia al più presto portata a conoscenza del pubblico non meno che degli specialisti». Ma, andato in pensione De Caro a fine 2010, di quel testo non c’è più notizia. Nel frattempo è stato sottoscritto un accordo che garantisce alla società Terna, proprietaria delle reti di trasmissione dell’energia elettrica, che per i loro lavori si applica l’archeologia preventiva solo per gli scavi superiori ai 5 chilometri lineari.

L’archeologia resta dunque una terra di nessuno, dove si sprecano saperi ed energie di cui l’Italia menava vanto. Dicono all’Ana: «Anche in Turchia hanno fatto passi da gigante, investimenti, assunzioni: in Italia invece lavorano nelle soprintendenze appena 350 archeologi e all’ultimo concorso per 30 posti si sono presentati 5.500 candidati, destinati a rimanere l’esercito dei precari sfruttati e privati anche del diritto di pubblicare i risultati di ciò che scavano». L’Ana elabora periodicamente un censimento degli archeologi. Sono molto giovani (oltre il 75 per cento hanno meno di 40 anni), specializzati (il 40 per cento), prevalentemente donne (70 per cento), ma solo il 3 per cento lavora in strutture pubbliche (soprintendenze, musei...) e appena il 15 è impegnato in scavi «programmati, finalizzati alla ricerca scientifica». Nel 2006 le partite Iva erano il 14 per cento, quest’anno sono il 27. Ultimo dato, forse il più inquietante: solo il 3,98 per cento ha un’anzianità di servizio di 10 anni. Vuol dire che la gran parte degli archeologi, laureati, specializzati, dottorati, dopo un po’ abbandona. Come Marco Martignoni.

La Repubblica

Malpensa non decolla, battaglia sulla terza pista

di Ettore Livini



MILANO - Decolla nella bufera il sogno della terza pista a Malpensa. I 2.400 metri d´asfalto più "caldi" di Lombardia sono per ora solo un disegno su una mappa topografica, parcheggiato al Ministero dell´Ambiente per l’ok alla valutazione di impatto ambientale. Ma il fronte del no al progetto («partirà solo se e quando ci saranno le condizioni per giustificarlo» mettono le mani avanti alla Sea) si sta rivelando ben più ampio e agguerrito del previsto. Ci sono gli ambientalisti, in trincea per proteggere 400 ettari di bosco nel Parco del Ticino, Succiacapre e Averla minore; molti sindaci - uno schieramento che va da Pdl e Lega fino al Pd - in difesa di un territorio che all’espansione (e poi alla crisi) dello scalo ha già pagato un pedaggio salatissimo. E ora persino le compagnie aeree convinte che l’opera da 300 milioni sia - per dirla con il direttore generale di Assaereo Aldo Francesco Bevilacqua - «di dubbia utilità».

IL NODO DELLA DOMANDA

È il quesito di tutti, come confermano le migliaia di pagine di obiezioni piovute sul tavolo di Stefania Prestigiacomo. Perché fare una nuova pista a Malpensa quando le due attuali sono sotto utilizzate e l’aeroporto, orfano di Alitalia, è una cattedrale nel deserto? La risposta della Sea, la società di gestione, è semplice: «Nel 2025 nell’aeroporto transiteranno 42,4 milioni di passeggeri contro i 18,9 di oggi». Lo confermano i dati della Bocconi - dicono - assieme alle stime di Iata, Airbus e Boeing. È vero? La storia, sostiene il fronte del no, dice il contrario: Malpensa aveva 23,8 milioni di passeggeri nel 2007, il 23% in più del 2010 e dopo l’uscita di scena di Alitalia e Lufthansa Italia il sogno di un hub a Milano è svanito. Qualche dubbio, come testimonia il verbale di una riunione all’Enac, ce l’ha persino Easyjet, la compagnia leader a Malpensa: «La Iata ha rivisto al ribasso le sue stime - ha detto Enzo Zangrilli, numero uno in Italia del vettore - e per questo va ripensata l’opportunità della terza pista».

IL REBUS DELL’OFFERTA

Quanti aerei possono atterrare nell’aeroporto bustocco? Perché Heathrow con due piste muove 60 milioni di passeggeri l’anno (il triplo di Milano), Monaco 34 e Londra Gatwick con una e mezza ne gestisce 31,3? Malpensa è nata male, spiega Sea. Le due piste sono troppo vicine (808 metri) e non si possono gestire atterraggi paralleli come a Londra e in Baviera. Allontanarle è impossibile. Ergo, quando il traffico crescerà sarà necessaria la terza pista. «Storie - dice Bevilacqua a nome delle compagnie iscritte a Confindustria - . Le strutture attuali bastano per gestire i volumi in aumento previsti. Servono solo pochi miglioramenti tecnologici e procedure più efficienti».

«I numeri sono chiari», dicono i sette sindaci dell’area che si sono messi di traverso alla "Grande Malpensa": l’aeroporto ha un limite normativo di 70 movimenti (decolli e atterraggi) l’ora, pari a 840 al giorno e 300mila l’anno. Ma in realtà non riesce a farne più di 55-60 («per problemi d’inquinamento acustico», dicono in Sea). Nel 2007, l’anno dei record, è arrivata a gestirne oltre 800 al dì mentre nel 2011 la media è poco sopra i 512. Come dire che c’è spazio per aumentare del 56% la capacità senza gettare nuovo asfalto.

Non solo: su ogni volo che atterra nello scalo bustocco ci sono in media 120 passeggeri contro i 170 di Parigi e i 180 di Londra. Certo, non si può costringere le compagnie a far volare mega-jet su uno scalo "regionale". Ma la matematica, calcola il Consorzio del Parco del Ticino, non è un’opinione: 300mila movimenti possibili l’anno per 120 passeggeri l’uno significano una capienza di 36 milioni, quasi il doppio di oggi. E se si riuscisse a salire a 150 «Milano potrebbe gestirne 45 milioni» senza interventi strutturali.

L’INCOGNITA AMBIENTALE

La terza pista andrà a cancellare un pezzo di brughiera e un insediamento abitativo in zona Tornavento. Ma la valutazione di impatto ambientale - dice la Sea - serve proprio per stabilire le compensazioni. Ai 500 cittadini che dovranno traslocare e al bosco da ripiantare. Ma l’operazione, per gli ambientalisti, non è indolore. «La perdita dell’esempio più esteso di brughiera italiana non è risarcibile», dicono, perché non si può riprodurlo in nessun’altra zona della Regione.

Qualcuno timidamente suggerisce di ripensare la gestione di tutti gli aeroporti del Nord. In fondo il governo Cameron ha appena bloccato la costruzione di nuove piste a Londra (dove gli scali sono saturi) per redistribuire i voli sulle altre infrastrutture inglesi, potenziando i collegamenti ad alta velocità. Milano è a due passi da Linate, Bergamo, Brescia, Parma, Verona e Torino. Ma la pianificazione è un’arte sconosciuta in Italia dove ogni aeroporto è un campanile.

La partita comunque è aperta. La valutazione d’impatto ambientale è solo il primo passo. Alla prova dei fatti i difensori del brugo, l’erica lombarda che dovrà lasciar spazio alle ruote degli aerei, si sono rivelati una pattuglia meno brancaleonesca delle attese. E la strada della terza pista dell’aeroporto milanese, oltre che lunga 2.400 metri, pare più in salita del previsto.

La Repubblica ed. Milano

Le associazioni: vogliamo un ruolo nella gestione dei parchi lombardi

di Franco Vanni

Coinvolgere le associazioni ambientaliste nella gestione dei parchi lombardi. È la richiesta che Wwf, Fai e Legambiente avanzano alla Regione, che si appresta a varare la legge di revisione della governance delle aree protette. «Serve una vera riforma - dice Paola Brambilla, presidente di Wwf Lombardia - si faccia per ogni area quel "consorzio di gestione nazionale" previsto dalla legge sui parchi del 1991, con il coinvolgimento delle associazioni e di un rappresentante del ministero dell’Ambiente al fianco di Comuni, Province e Regione». Oggi i parchi sono gestiti da Comuni e Province del territorio, che eleggono un cda. Il testo licenziato della commissione Ambiente del Pirellone, che giovedì andrà al voto del consiglio, prevede nel cda (massimo 5 membri, presidente compreso) anche un uomo nominato dalla Regione. Le associazioni sarebbero invitate solo a un "tavolo sull’ambiente" senza poteri.

La partita sulla governance dei parchi, che interessa 21 aree verdi in Lombardia, è terreno di scontro fra maggioranza e opposizione, ma anche nello stesso centrodestra, con la Lega che un mese fa bocciò in aula la proposta di legge del Pdl. A due giorni dal nuovo voto, le associazioni tentano di bloccare l’approvazione. Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente onorario del Fai, in una lettera al governatore Formigoni e al consiglio, scrive: «Lo scopo della legge è accentrare nel governo regionale il sistema delle aree protette». Dopo avere definito la bozza «punitiva per gli enti locali», a cui resterebbe l’ordinaria amministrazione, ma non le scelte strategiche, la Crespi fa un appello: «Queste norme sono destinate a creare un progressivo degrado delle aree protette, si chiede pertanto di non approvarle». A spaventare è in particolare la norma che prevede la possibilità per i Comuni di rivedere i confini dei parchi, con il rischio che le aree vicine all’abitato possano essere edificate.

Un’altra questione sollevata dagli ambientalisti è quella dei finanziamenti: «Se la Regione conterà di più nelle decisioni - si legge nel documento unitario di Fai, Wwf e Legambiente - garantisca le risorse per il funzionamento dei parchi, che oggi gravano sui bilanci di Comuni e Province, o avremo enti privi di mezzi. La Regione spende ogni anno per i parchi l’equivalente del costo di costruzione di 200 metri dell’autostrada Brebemi». Un ultimo fronte aperto è quello della necessità stessa del varo della legge. La Regione sostiene che la norma sia un adeguamento al decreto Milleproroghe, che prevede il riordino degli "enti inutili". Una visione a cui si oppone il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, che definisce il decreto «un ingenuo espediente per sostenere la necessità delle innovazioni, trascurando invece quanto previsto dai principi della legge quadro sulle aree protette». Cioè quella stessa legge del 1991 che prevederebbe un ruolo nella gestione dei parchi per le associazioni ambientaliste.

La Repubblica ed. Milano

"La Brebemi diventa inutile se il governo non sblocca la Tem"

di Andrea Montanari



A due anni dall’apertura del cantiere della Brebemi è di nuovo allarme sulla nuova autostrada direttissima Milano-Brescia. A mettere a rischio la prima infrastruttura stradale interamente finanziata dai privati, questa volta, non sarebbero i costi quasi raddoppiati pari a oltre 1,6 miliardi di euro, le associazioni ambientaliste o i comitati di cittadini contro l’asfalto, ma addirittura il governo. Lo hanno detto a chiare lettere ieri il governatore Roberto Formigoni e il presidente di Brebemi spa Francesco Bettoni durante un sopralluogo organizzato a Calcio, in provincia di Bergamo, per fare il punto sullo stato dell’arte. quasi metà del tracciato è già stato realizzato. Assenti, anche se annunciati, sia il premier Silvio Berlusconi che il ministro alle Infrastrutture Altero Matteoli, quest’ultimo colpito da un grave lutto familiare.

Se il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) non darà il via libera entro pochi giorni al progetto definitivo della Tem, la nuova tangenziale esterna che collegherà la Milano-Brescia alla metropoli, slitterà l’apertura della Brebemi. «Non apriremo se non avremo la Tem - ha annunciato Bettoni - . Il rischio è reale. La nuova tangenziale esterna è essenziale. Non possiamo pensare di portare un flusso di traffico di 60/70mila veicoli in uscita dalla nuova autostrada nei campi di Melzo. Fosse per noi potremmo addirittura anticipare l’inaugurazione al dicembre 2012. Non capiamo perché il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, mentre noi siamo qui a soffrire, non dà il via libera a un’opera che non costa nulla allo stato. Francamente questo ritardo non si giustifica. È incredibile quello che sta succedendo».

Proprio ieri è stato raggiunto l’accordo tra il pool di banche, oltre al gruppo Banca Intesa, che coprirà l’intero costo dell’opera.

Anche Formigoni ha attaccato sia il governo che l’Unione europea. «Se finalmente il ministero competente convocherà il Cipe - ha sentenziato dal palco il governatore - potremmo accelerare i tempi. L’Unione europea, che delle volte è un mostro di burocrazia, ci ha già fatto perdere due anni». Il presidente della Regione non cita il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, ma è a lei che si riferiva quando ha aggiunto: «C’è stato un ministero che ci ha fatto perdere un altro anno perché ha voluto effettuare dei controlli ambientali che, come sempre, avrebbero potuto essere realizzati più rapidamente dalla Regione».

Al viceministro alle Infrastrutture Roberto Castelli, che non ha chiarito se il Cipe si riunirà questa settimana, non è rimasto che ammettere che «la Lombardia e la Brebemi viste da Roma sono molto lontane. Vedremo cosa fare. Il Cipe risponde a logiche vaste. Spesso si assiste a episodi incomprensibili. Non si capisce perché ci sia indifferenza verso quest’opera che crea posti di lavoro e sviluppo».

Lunga 61,1 chilometri, la nuova autostrada avrà sei caselli, quattro viadotti, due gallerie artificiali, quattro aree di servizio e sei chilometri in trincea.

Corriere della Sera ed. Lombardia

Brebemi al bivio burocrazia Il rischio? Finire in un prato

Di Claudio Del Frate



La Brebemi è un’autostrada, ma a suo modo è anche una strettoia: il nuovo nastro d’asfalto che unità Brescia a Milano è atteso a un passaggio sul quale incombono i tempi lunghi della burocrazia e i tempi stretti imposti dalla finanza. E il combinato tra i due fattori rischia di far lievitare i costi della prima infrastruttura d’Italia costruita interamente con capitali privati. Ieri mattina a Calcio, dove è ben visibile uno dei viadotti della nuova Brebemi, il presidente della società Francesco Bettoni ha fatto il punto della situazione che può essere sintetizzata in pochi numeri: il costo finale dell’opera comprensivo di Iva e oneri finanziari sarà di 2 miliardi e 400 milioni di euro; l’entrata in esercizio è prevista per il 2013 dopo di che i finanziatori avranno 19 anni e 6 mesi di tempo per ripagare l’investimento. A conti fatti, percorrere i 62 chilometri della Brebemi costerà per l’automobilista un pedaggio di circa 6 euro e 25.

«La cifra può essere perfezionata — ha puntualizzato Bettoni — ma più o meno è quella» . Qualcosa in più dei 5 euro e 60 che oggi si pagano per fare lo stesso percorso lungo la A4 «ma lì il viaggio è più lungo e più trafficato» dicono quelli di Brebemi. Comunque sia, il tempo gioca contro gli investitori della nuova infrastruttura: «Ci sono ritardi inaccettabili — ha denunciato ieri Bettoni — da parte della burocrazia; primo fra tutti il nuovo via libera alla tangenziale esterna di Milano: se quei 7 chilometri di strada non verranno realizzati per tempo, la Brebemi sbucherà in mezzo ai prati di Melzo» .

Il numero uno della società avrebbe voluto dire di persona queste cose al premier Berlusconi, invitato ieri mattina a Calcio, ma il capo del governo ha dovuto declinare l’invito. In rappresentanza del governo c’era il viceministro delle infrastrutture Roberto Castelli: «Di fronte alle banche che si sono esposte per questo investimento gli enti romani restano indifferenti — si è rammaricano l’esponente leghista — ma la Lombardia è diversa dal resto del paese e sono certo che quest’opera verrà conclusa nei tempi previsti» .

Sulla «diversità» lombarda ha insistito anche il presidente della giunta regionale Roberto Formigoni: «Qui i soldi investiti in infrastrutture aumentano mentre nel resto d’Italia calano. Peccato che l’Unione Europea ci abbia fatto perdere due anni per rilievi rivelatisi infondati e un anno un ministero (indovinate quale) che da Roma pretendeva di valutare l’impatto ambientale della Brebemi» . Ostacoli che non fanno perdere l’ottimismo a Bettoni che ieri si è addirittura sbilanciato: «Se la burocrazia non metterà ostacoli noi siamo pronti ad aprire l’autostrada il 31 dicembre del 2012. L’opera è ormai completamente finanziata» .

La società ha infatti raggiunto un accordo con le banche per la copertura di 1 miliardo e 900 milioni mentre gli altri 500 milioni del capitale sociale permettono di raggiungere i 2 miliardi e 400 milioni di costo. «Certo, se i tempi di allungassero il piano finanziario dovrebbe essere rivisto» ha avvertito Bettoni. Ed è questo in definitiva ciò che assilla di più. La Brebemi era partita con un costo ipotizzato di 800 milioni euro; ma poi i cosiddetti costi di compensazione (le opere aggiuntive richieste per acquisire il consenso dei 45 comuni attraversati dalla strada) hanno fatto raddoppiare il saldo, ulteriormente dilatatosi per effetto degli interessi bancari. Ed è chiaro che ogni ritardo farebbe lievitare nuovamente la cifra finale costringendo poi la società di gestione ad aumentare il pedaggio da far pagare agli utenti.

Salvare il salvabile. È la missione delle associazioni di cittadini che spingono i Comuni di Milano, Pero, Rho, Cornaredo e Settimo Milanese a creare un parco nei propri territori: 180 ettari con piste ciclabili, alberi e panchine, per avvicinare i cittadini al poco che resta del passato agricolo dell’Ovest milanese, guastato dall’inceneritore, dalla Tav, dall’autostrada e dalla tangenziale. «Salviamo ciò che resta - dice Salvatore Crapanzano, del Coordinamento dei comitati - i vincoli del Parco Sud non hanno fermato il cemento». Il progetto, presentato ai sindaci, costa tre milioni.

Salvare il salvabile. È la missione delle associazioni di cittadini che spingono perché i Comuni di Milano, Pero, Rho, Cornaredo e Settimo Milanese creino un parco attrezzato al confine dei propri territori. Dopo decine di riunioni e workshop di progettazione, quello che c’è è un nome, "Parco dei cinque Comuni", un’area individuata di 180 ettari e una relazione di 17 pagine che indica dove dovrebbero posizionati piste ciclabili, filari di alberi, bacheche di informazione e panchine. Una rete di infrastrutture leggere, quasi invisibili, per fare conoscere ai cittadini quel che resta del passato agricolo di un’area dell’Ovest milanese che più di tutte ha subito l’invasione delle grandi opere pubbliche. Costo totale del progetto, circa tre milioni di euro.

Sul terreno che si vorrebbe valorizzare, fra cascine e fontanili superstiti, si trovano l’inceneritore Silla Due, un depuratore fognario, la Tav, l’autostrada Milano-Torino e la tangenziale Ovest. «L’unico modo per salvare quel che resta è farlo conoscere ai cittadini - dice Salvatore Crapanzano, presidente del Coordinamento dei comitati milanesi, attivo nel progetto - visto che nemmeno i vincoli paesaggistici sono riusciti a fermare il cemento». Sembra incredibile, ma l’area si trova infatti nel Parco agricolo Sud Milano. Nonostante questo, è stata fatta a pezzi a suon di deroghe ed eccezioni. «La speranza di chi crede nel progetto è che tutti i Comuni dimostrino interesse al parco, e sembrano esserci segnali positivi», dice Gianluigi Forloni, oggi assessore all’ambiente a Rho, e già presidente del coordinamento di associazioni che spinge per salvare ciò che resta del verde: Comitato del quartiere Figino (Milano), Gruppo Salute (Pero), Italia Nostra Nord Ovest (Cornaredo), La Risorgiva (Settimo Milanese) e la sezione di Legambiente a Rho.

L’unica area già riqualificata, nei 180 ettari che si vogliono recuperare, è il piccolo parco dei Fontanili di Rho. Ora si tratta di tutelare e collegare fra loro anche le risorgive, la Cascina Ghisolfa, l’area che lambisce la cava Bossi a Pero. Il sogno è fare del "Parco dei cinque Comuni" un corridoio verde, per quanto possibile, che colleghi il parco del Ticino a Bosco in Città. «Il progetto è interessante, ha il nostro appoggio, e in tutte le sedi possibili ci spenderemo per sostenerlo», dice Rosario Pantaleo, uno dei vicepresidenti del Parco Sud. In passato, l’unica amministrazione che non ha dimostrato di appoggiare il progetto è stata quella di Milano, ma la speranza delle associazioni è che con il cambio di giunta le cose cambino. Per questo i cittadini dei comitati due settimane fa hanno presentato il progetto al sindaco Giuliano Pisapia, intervenuto a un incontro con i residenti del quartiere Figino, alla presenza dei sindaci degli altri Comuni coinvolti. «Quello che manca, come sempre, sono i soldi - dice Forloni - la speranza è che il piano possa essere finanziato anche con le opere compensative di Expo».

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È dagli anni ’20-’30, ovvero da quando con la prima timida diffusione del trasporto motorizzato si accelerano le spinte a un confuso decentramento insediativo, che nell’area milanese (come del resto in tutte le regioni urbane simili d’Europa e del mondo) si pone il problema dell’ intercomunalità. Da subito chi vuol capire capisce che esistono due percorsi, non necessariamente alternativi, per governare i processi: quello discendente dell’organo di governo metropolitano, e quello ascendente dell’associazione di Comuni. Mentre per decenni il primo provoca al massimo qualche dibattito politico e parlamentare (dal coordinamento urbanistico territoriale, ai comprensori, ai piani provinciali di altalenante efficacia) il secondo fa sentire molto di più gli effetti di un’alleanza via via commisurata all’estensione dei problemi.

Si comincia da alcuni consorzi promossi dagli organismi del PNF, attraverso un vero e proprio piano intercomunale per l’area Groane immediatamente successivo all’introduzione dello strumento nella legge del 1942, fino al noto PIM nell’epoca più fertile di sperimentazioni e risultati. Non va dimenticato che anche il Parco del Ticino nasce a cavallo degli anni ’60-’70 da una spinta dal basso, e non per una decisione propulsiva di organi superiori.

È quindi un ottimo segnale quello del gruppo di Comuni che si alleano per quello che dovrebbe essere un cosiddetto Parco Locale di Interesse Sovracomunale (PLIS) a tutela della qualità del territorio e dell’abitabilità di un’area dove ormai le grandi trasformazioni a casaccio stanno letteralmente affettando gi ultimi brandelli di spazio aperto lasciati dallo sprawl produttivo e residenziale degli ultimi decenni.

Meglio ancora sarebbe, se a queste iniziative “di reazione” ad aggressioni dall’esterno se ne aggiungessero altre di carattere più propulsivo, di coordinamento dello sviluppo e non solo di resistenza. È auspicabile che il solo accenno da parte della nuova giunta Pisapia di farsi promotrice di politiche di cooperazione metropolitana (indipendentemente da quelle che sono forse solo le ennesime chiacchiere di partiti e istituzioni sull’Ente sovraordinato) possa, magari col traino dell’Expo e delle sue complesse tematiche intrecciate al territorio, essere la scintilla in grado di innescare qualcosa di simile allo storico PIM (f.b.)

Un recente rapporto stima il fatturato della cultura, nella Ue, sui 650 miliardi di euro, contro i 250 dell’industria dell’auto. E però, da noi, la cultura è sotto lo zero rispetto alla Fiat. Secondo lo stesso rapporto, la cultura produce il 2,6% del Pil europeo, contro il 2,1 delle attività immobiliari. E però – grazie all’immobiliarista Berlusconi – da noi la politica edilizia pesa tanto e la cultura niente. Nonostante 3500 musei, 500.000 complessi storici (il dato è del segretario generale del MiBAC, Roberto Cecchi), 95.000 fra chiese e cappelle, 2.100 aree archeologiche, ecc. Che muovono un terzo di tutto il turismo il quale, da solo, contribuisce al Pil quasi come la tanto esaltata edilizia. Nella crisi in atto, Francia e Germania hanno accresciuto gli investimenti nella cultura considerata motore di creatività e di sviluppo. Da noi il governo li ha assurdamente tagliati: dal 2004 a oggi la spesa del MiBAC è scesa dallo 0,34 (ed era già poco) allo 0,21% del bilancio statale, ultimo posto nella Ue. Al non-governo generale si è sommata la latitanza, anche fisica e quindi decisionale, del ministro Sandro Bondi, tardivamente sostituito. Con una serie di commissariamenti straordinari, egli ha però espropriato le Soprintendenze (dall’Aquila a Pompei, alla Domus Aurea), con crolli, manomissioni e/o paralisi. La dissennata politica di esodi di dirigenti di alta professionalità ha disossato la tutela. Ben 31 Soprintendenze sono gestite “ad interim” da titolari di altre aree. Aggiungeteci la drastica diminuzione di risorse già misere, e avrete un Belpaese ferito e allo stremo. Tornano i turisti stranieri e non ci sono i custodi. C’è un (costoso) direttore generale alla Valorizzazione…

Gli “interim” riguardano otto Soprintendenze ai Beni architettonici. Come volete che possano contrastare abusi edilizi, irregolarità di ogni sorta, quanto erode, ogni giorno, un pezzo del nostro ammirato Paese? Bondi aveva giurato di dar corso ai piani paesaggistici Stato-Regioni. Non ha fatto nulla: con grande sollazzo per gli speculatori e con danno enorme per tutti noi. Poi c’è il grande capitolo dello spettacolo dal vivo, anche questo svenato dal taglio feroce di risorse (dallo Stato ai Comuni costretti a loro volta a ridurre) e dal non-governo. Qui, malgrado un modesto recupero del Fondo Unico per lo Spettacolo, la scure è calata sui teatri lirici più efficienti e più dotati di fondi propri come su quelli immersi in un clientelismo disperante. Senza vero rispetto per i meriti. Il teatro di prosa – che negli ultimi anni aveva incrementato biglietti e spettatori – sta prendendo una autentica mazzata.

E che dire della multimedialità contagiata dalla crisi produttiva, creativa della Rai sempre meno competitiva, avvilita da spartizioni partitiche sempre più al ribasso? Nella sola Roma, anni fa, c’erano oltre 100mila addetti al multimediale. Col non-governo, anche qui la crisi morde, sacrifica nuove professionalità. Una mattanza.

Torna lo scontro in Regione sulla legge ammazza-parchi

di Andrea Montanari

Torna in consiglio regionale la battaglia sulla nuova legge sui parchi dell’assessore regionale pidiellino Alessandro Colucci. A nemmeno un mese dall’ultimo scivolone del centrodestra quando, a sorpresa, undici franchi tiratori (tra leghisti e pidiellini) avevano rinviato il testo in commissione, la maggioranza che governa il Pirellone ci riprova. Anzi, giovedì ripresenterà in aula la stessa legge nonostante le proteste degli ambientalisti che temono l’arrivo di una nuova colata di cemento sui parchi lombardi. «Non nego che anche al nostro interno ci siano stati dei mal di pancia - ammette il capogruppo del Pdl in Regione Paolo Valentini - ma ora sono superati. Non è assolutamente vero che questa legge non tutela i parchi.

Le opere di interesse pubblico come le autostrade si potevano costruire nel verde anche prima. Se non passa questa volta, tutti i parchi saranno commissariati dalla Regione. Se qualcuno ha intenzione di farla saltare si dovrà assumere anche questa responsabilità». Un provvedimento inserito dal ministro per la Semplificazione leghista Roberto Calderoli nel decreto Milleproroghe, infatti, prevede l’abolizione degli attuali consorzi che governano i parchi. Senza un nuovo testo, saranno tutti commissariati dal Pirellone.

L’opposizione di centrosinistra non ci sta. Annuncia che scenderà in piazza e presenterà centinaia di emendamenti. «È un pasticcio - attacca il consigliere regionale del Pd Agostino Alloni - abbiamo bisogno di una riforma che rilanci i parchi, non di una legge che crea ancora più confusione. C’è tutto il tempo nei prossimi mesi per approvare una riforma vera per mettere ordine. Invece, si vuole fare in fretta solo perché la Regione vuole avere il controllo per poter costruire nei parchi. È vero che le opere di interesse pubblico come le autostrade sono già consentite, ma attraverso un percorso di confronto. Se passa la legge, deciderà solo la giunta del Pirellone».

Il progetto prevede non solo la trasformazione dei consorzi dei parchi lombardi in enti di diritto pubblico ma anche la semplificazione delle procedure per la pianificazione delle aree protette; la ridefinizione dei confini dei parchi, escludendo le zone limitrofe ai centri abitati che sono già state parzialmente edificate; la designazione di un componente della Regione nei nuovi comitati di gestione dei parchi che prima erano eletti solo dai comuni; la possibilità di realizzare infrastrutture come strade e autostrade nei parchi «se previsti negli strumenti di programmazione regionale».

Si tratta delle cosiddette deroghe, che erano ancora più esplicite nel testo della legge che fu bloccato al termine della scorsa legislatura. All’epoca in cui l’assessore regionale al Territorio era il leghista Davide Boni, oggi presidente del consiglio regionale.

Proprio dai banchi del Carroccio questa volta erano arrivate le perplessità sul nuovo testo. «La legge ci vuole, ma non vogliamo nuove cadreghe» aveva tuonato Renzo Bossi, figlio del Senatùr. «Non vogliamo una legge per lottizzare nuove poltrone. Siamo grati a chi ha bloccato una legge antifederalista» ha scritto sul suo blog il consigliere regionale leghista Giacomo Longoni.

Il capogruppo del Carroccio in Regione, Stefano Galli, ammette che si tratta solo «di una legge tampone», ma in vista del nuovo passaggio in aula non ha dubbi: «Il gruppo voterà compatto. Spero che lo abbiano capito anche loro. Abbiamo avuto il via libera anche del segretario nazionale Giancarlo Giorgetti. Il testo è stato profondamente modificato. Domani incontrerò l’assessore Colucci per un ultimo chiarimento, ma c’è tutto il tempo per fare la riforma».

L’alleanza tra sindaci e costruttori per il cemento con vista sul verde

di Franco Vanni

Mentre decine di Comuni seguono con apprensione l’evoluzione della legge sui parchi, c’è chi stappa champagne. Letteralmente. «Il parco è una prigione, qui per fare una veranda in cortile aspetti vent’anni, adesso basta», dice un imprenditore di Gambolò, provincia di Pavia. E a Gambolò, come nelle vicine Bereguardo e Gropello, l’amministrazione spinge per il cemento. «Con la nuova norma – dice un sindaco della zona – diventeremo un posto normale». E ha ragione: il parco del Ticino fino a oggi non è stato mai un posto normale.

Il parco del Ticino non è un posto normale per volere di 30mila abitanti che nel 1974 firmarono perché lungo il fiume fosse creata la prima zona a tutela regionale d’Italia. L’eccezionalità del parco, che ospita 4.932 specie viventi in 91.410 ettari di terreno, è riconosciuta dall’Unesco: è l’unica area protetta regionale che ingloba l’intero territorio dei 58 Comuni che la compongono, comprese abitazioni, chiese, parcheggi e capannoni. E per questo rischia più di tutti. «La previsione della legge per cui i confini del parco potranno essere rivisti - dice Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano - è cucita sul nostro caso. Se ogni sindaco decide dove si può costruire, è la fine».

E la nuova norma, nonostante le smussature chieste da Pd e Lega, dice proprio questo. Rimarrebbe inviolabile la porzione di 22.249 ettari (meno di un quarto del totale) di Parco naturale: le sponde e poco altro. Ed è proprio la labilità dei confini fra parco e "aree di iniziativa comunale", disciplinate dai piani regolatori dei Comuni, a spaventare gli ambientalisti.

Oltre al parco del Ticino, un altro contesto che sarebbe stravolto dalla «ridefinizione dei confini di area» è il parco delle Groane, ente fragile, già al centro di inchieste giudiziarie. Bollate e Garbagnate spingono per costruire abitazioni "vista verde" sul terreno tutelato, ma l’opposizione dell’ente parco - formato dai Comuni e dalle Province del territorio - frena.

«Alle Groane è successo un miracolo - dice Paola Brambilla, presidente del Wwf lombardo - nonostante la fame di terreni edificabili, la zona tutelata si è estesa verso Senago. Ora il rischio è che si scateni la gara a fare marcia indietro». E a minacciare il verde non sono solo le abitazioni.

Il secondo allarme per chi sostiene l’integrità dei parchi è l’introduzione delle deroghe ai vincoli ambientali e paesaggistici per costruire opere di «interesse pubblico», non per forza di interesse nazionale. E cambia tutto. L’esempio è l’impatto che la strada Pedemontana potrebbe avere sulla Pineta di Appiano Gentile, nel Comasco. Se la strada è ritenuta di interesse nazionale - e si sarebbe fatta comunque - lo stesso non vale per gli svincoli che dovrebbero affiancarsi alle strade locali esistenti. «Gli svincoli sarebbero potuti essere fermati dai Comuni - spiega Brambilla - ma essendo nel Piano territoriale regionale guadagneranno quell’interesse pubblico che permetterà di asfaltare le aree protette».

Stessa storia al parco Adda Nord, 34 Comuni in quattro province, interessato dalla Bre-Be-Mi: «All’opera si potrebbero aggiungere bretelle di collegamento, previste dalla Regione, e non ci potremmo fare nulla», dice il presidente del parco, Agostino Agostinelli. La Provincia di Milano, grazie al "bollino" regionale, potrebbe tirare fuori dal cassetto il progetto della tangenziale Ovest nel parco agricolo Sud, bocciato dai Comuni. Ma anche sulle deroghe la partita vera si gioca nel parco del Ticino. E riguarda la terza pista all’aeroporto di Malpensa.

Milena Bertani, presidente del parco, si oppone all’ipotesi cara al Pirellone di dotare lo scalo varesino di un’altra pista: il Cda, nominato dagli enti locali, ha espresso all’unanimità parere negativo. Ora i 16 Comuni interessati dall’opera sperano in uno stop. In particolare, sperano gli abitanti di Lonate Pozzolo, che all’aeroporto dovrebbe cedere 400 ettari. Ma cosa succederebbe se nel Cda del Ticino sedesse uno uomo della Regione, come prevede la nuova legge? «È probabile che il consiglio si sarebbe diviso sul parere, perdendo forza», dice Bertani. Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia, attacca: «Se la Regione entra nel Cda dovrebbe assicurare fondi, ma non sembra così». Per Carlo Borghetti, consigliere regionale del Pd, «Comuni e comunità montane passeranno in secondo piano».

Come nel parco delle Orobie bergamasche, dove i Comuni sono arrivati a fare combaciare esigenze di caccia, sci, tutela e urbanizzazione. Sono pronti a scrivere («in tempi lunghi, tribali», scherza un sindaco) il documento di pianificazione del parco, che manca. «Con il dirigente regionale e l’obbligo di votare uno statuto litigheremo - racconta il sindaco - saremo commissariati, perderemo la nostra identità e qui comanderà la gente di pianura».

L’allarme del Fai: così si rischia di massacrare il paesaggio lombardo

intervista aIlaria Borletti Buitoni, di Franco Vanni

Ilaria Borletti Buitoni, presidente del Fondo ambientale italiano, che cosa cambierà nella gestione dei parchi con la legge che la Regione si prepara a votare?

«Se sarà approvato il testo licenziato in commissione saranno ridotte le tutele per il patrimonio naturale e paesaggistico, nel malcontento degli enti locali. Non si capisce per quale necessità sia fatta una simile legge».

La Regione sostiene che sia il decreto Milleproroghe a prevedere il riordino degli enti che governano i parchi

«Lo sostiene, ma non è vero. I nostri legali hanno analizzato la materia e i parchi lombardi non rientrano fra gli enti di cui andava rivista la governance».

Avete intenzione di opporvi?

«Vedremo se sarà possibile rendere l’applicazione della legge difficile o impossibile, se necessario anche con azioni legali».

Significa che comincerete a fare ricorsi al Tar il giorno dopo l’approvazione?

«Il tribunale è l’ultima delle possibilità che prendiamo in considerazione. La speranza è che la politica riesca quantomeno a evitare il peggio».

E cos’è il peggio, in questo testo di riordino dei parchi?

«Un cambio radicale delle regole sarebbe dovuto essere sostenuto da investimenti. Così non è una riforma, ma un contenitore vuoto. E la possibilità di revisione dei confini dei parchi è quantomeno inopportuna».

Quale rischio immagina nella facoltà di restringere le aree di parco da parte dei Comuni?

«Il rischio è che i parchi vadano riducendo la propria estensione, e che a forza di deroghe nelle zone protette il paesaggio sia massacrato. Bisogna evitare che succeda altrove quello che già è accaduto in Brianza».

Che cosa è successo in Brianza?

«A forza di permessi ed eccezioni si è costruito senza freni. Stendhal definiva la Brianza come il giardino d’Europa, la meraviglia dell’intero continente. Oggi non penso userebbe le stesse parole».

Guardando al futuro, qual è l’area a maggior rischio di cementificazione in Lombardia?

«Un fronte aperto è quello del Parco agricolo Sud Milano, a cui teniamo molto. La sua dignità culturale dovrebbe essere tutelata, invece le costruzioni mangiano territorio. E nessuno si premura di dichiararlo parco regionale. Ma il problema è generale, in Lombardia è avvenuto il più ampio scempio paesaggistico in Italia».

Ha mai rappresentato le sue preoccupazioni a Formigoni, proponendo una collaborazione con il Fai?

«È stata una delle prime cose che ho fatto un anno fa, quando ho assunto la presidenza. Ma da allora non mi sembra che la Regione si sia occupata molto di paesaggio, anzi».

Non crede che entrando negli organi di gestione dei parchi la Regione voglia farsi carico del problema ambientale?

«Di per sé la presenza della Regione nel governo dei parchi non è negativa, ma il timore è che sia un’accelerazione verso una minor tutela, e allora l’ingerenza sarebbe insopportabile. Sono troppi i casi in cui il Pirellone spinge per grandi trasformazioni infrastrutturali. Sulla terza pista di Malpensa, cara alla Regione, abbiamo presentato ricorsi insieme con il Wwf».

Sopite nel crepuscolo della giunta Moratti, le idee sul futuro del Meazza e dei due ippodromi tornano a fermentare. Trovando i primi punti di contatto, tra Consorzio San Siro e Trenno, e tra gestori e giunta. Che mostra di gradire, già ieri alla presentazione della seconda "Notte Bianca dello stadio" (si farà la sera del 2 settembre), la volontà di Milan e Inter di rilanciare l’area esterna alla vecchia Scala del calcio, figlia di quel vecchio progetto del "quarto anello" commerciale che aveva in Stefano Boeri uno dei suoi padri. «Il progetto di rilancio dell’area c’è, il Comune lo seguirà - assicura proprio l’assessore alla Cultura, sfidando le possibili accuse di conflitto d’interessi - e sarà coinvolto nell’Expo anche perché l’area è in un punto strategico nell’asse tra il sito di Rho-Pero e il centro di Milano. Arriveranno fra poco la metropolitana, servizi ricettivi, sportivi e commerciali, può essere il volano di un parco molto più ampio per tutti i cittadini».

Schizzi, non ancora quadro completo, ma già le possibili intese tra i due club calcistici e Trenno per lo sfruttamento commerciale di alcuni spazi inutilizzati dell’ippodromo del trotto possono essere l’inizio di una saldatura. Milly Moratti, punto di congiunzione tra calcio e Palazzo Marino, benedice il progetto: «Questo è un quartiere che i milanesi non conoscono, dietro i muri e il grigio dello stadio c’è un polmone verde da riscoprire: potremmo rilanciare il progetto di un biglietto d’accesso per tutte le aree, ippodromi e Meazza».

Anche l’assessore a Benessere e Sport, Chiara Bisconti, alla prima uscita pubblica con i rappresentanti dello stadio, approva: «Proprio la Notte bianca è l’esempio più ficcante e nobile - spiega - di quello che intendiamo fare, aprendo gli spazi sportivi ai cittadini». L’evento è appunto il primo banco di prova della collaborazione tra consorzio e ippodromi, visto che quello del galoppo sarà aperto per mercatini, caccia al tesoro per i piccoli e discoteca per i grandi, e all’esterno sarà interamente ridisegnato: il chilometro di muro di cinta in viale Caprilli sarà interamente colorato da 12 crew di writers dell’associazione Stradedarts.

Novità anche dentro lo stadio: «Partirà Radio San Siro - annuncia Pierfrancesco Barletta, ad del consorzio in quota Inter - che trasmetterà musica in settimana e sarà personalizzata per le squadre la domenica». Nella Notte bianca anche tornei di biliardino e trisball, la mostra "Scatti a San Siro" dei fotografi di Contrasto, corsi di guida sicura e stand di Slow Food. «Ovviamente - aggiunge Barletta - sarà aperto il museo. Che quest’anno ha portato i suoi visitatori da 94mila, al 90% stranieri, a 153mila con un 30% di italiani». Museo il cui ampliamento è imminente. «Sempre con l’idea - chiude Alfonso Cefaliello, l’ad dello stadio in quota Milan - di restituire l’area alle famiglie, anche se noi ci occupiamo di pallone e cavalli».

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Nonostante il trionfale concerto a sostegno della candidatura di Giuliano Pisapia, per fortuna ci sono orientamenti del cantante Roberto Vecchioni non tradotti in realtà, come l’inopinato spostamento del polo sportivo-servizi altrove, dove non darebbe fastidio agli abitanti. Magari qualche abitante dei quartieri a ridosso dello stadio poteva anche esserne entusiasta, della proposta di decentramento, ma molto, molto meno, il resto della popolazione metropolitana. Spostare gli impianti, soprattutto ma non solo nella nuova logica del complesso multifunzionale sportivo-commercial eccetera, da un lato avrebbe aperto la strada a chissà quali ingovernabili trasformazioni nell’area dismessa, dall’altro innescato (accoppiato all’idea del nuovo anello di tangenziali) un doppione del caso Cerba. E polo di eccellenza dopo polo di eccellenza, addio fascia agricola metropolitana, sostituita al massimo da un po’ di parchi con piste ciclabili e cascine trasformate in centri congressi. Teniamoci stretti, con tutte le contraddizioni del caso, la localizzazione centrale, con buona pace degli abitanti inferociti per il rumore e il traffico: a quelle cose un rimedio si trova, alla scomparsa della terra su cui mettere i piedi no (f.b.)

L'acciaio incombe sulla Domus Aurea

Luca Del Fra

La damnatio memoriae rischia di abbattersi nuovamente sulla Domus Aurea di Nerone: se negli anni successivi al suicidio dell’imperatore avvenuto nel 68 d.C. per dimenticarlo i suoi concittadini ne sotterrarono la reggia, stavolta a sommergerla rischia di essere una colata di metallo. È quanto prevede il nuovo progetto di restauro, che porta la firma del commissario Luciano Marchetti e lo sponsor politico del sottosegretario ai Beni Culturali Francesco Maria Giro (PdL): ben 45 pali d’acciaio confitti nella carne viva delle antiche vestigia, la presenza di tre ascensori e addirittura un museo pensile. Uno stupro archeologico o, se volete, un progetto in stile Las Vegas, dai costi altissimi e non risolutivo dei problemi che hanno portato alla chiusura e al commissariamento del monumento.

Dopo 19 secoli di interramento la Domus è riaperta nel 1999 grazie a uno scavo dal basso, senza alleggerire la collina sopra l’edificio che, svuotato, non è più in grado di sostenerla. L’incongruità strutturale è nota ma si pensa di aprire ai visitatori e in breve di avviare i lavori di alleggerimento, da allora però i cantieri restano chiusi. Presto la legge di gravità e le intemperie bussano alla reggia neroniana, che nel 2005 viene chiusa per le infiltrazioni d’acqua e gli evidenti segni di cedimento. L’anno dopo l’allora ministro dei Beni Culturali Rutelli commissaria la Domus affidandola alle cure di Marchetti: scelta forse non lungimirante, già direttore regionale in pensione, il commissario comparirà nella lista Anemone, dice di stimare Angelo Balducci, è lambito dallo scandalo della ristrutturazione con fondi Arcus del palazzo di Propaganda Fide a piazza di Spagna – in cui compare la compagna Francesca Nannelli –, e vive al centro storico di Roma in una casa presa in affitto proprio da Propaganda Fide.

Ma il compito di Marchetti appare in discesa: nel 2007 è pronto un progetto del Ministero, approvato da soprintendenze e comitati, che risponde agli obiettivi del commissariamento: «l’eliminazione di situazioni di pericolo per le cose e le persone». Costo 15 milioni di euro, che vengono anche stanziati.

Benché nel giugno 2009 con il solito trionfalismo Giro annunci il progetto appaltato, in un mese l’inizio dei lavori e in due anni l’apertura del sito, l’unica cosa evidente è il crollo nel 2010 di una parte del complesso, la galleria Traianea. Nel 2011 invece della riapertura Marchetti porta una troupe del Tg3 nella Domus e senza volerlo ammette il suo fallimento: dichiara che lì dentro piove ancora e le immagini mostrano lo scorrere dell’acqua sugli affreschi. Negli stessi giorni il direttore per le antichità del Ministero, Luigi Malnati, sottolinea che delle 150 stanze solo 2 sono state impermeabilizzate. Siamo a 5 anni dall’inizio del commissariamento: a questo ritmo vorticoso l’impermeabilizzazione durerà 370 anni.

La débâcle del commissario è funzionale a soddisfare appetiti e voglia di visibilità: ecco la nuova mirabilia, con 45 pali d’acciaio infilzati nella Domus per sorreggere una copertura, poi ben 3 ascensori, vecchia mania di Marchetti, che da direttore regionale ne ha piazzato uno al Vittoriano causando non poche polemiche poiché sbuca ben oltre il tetto del monumento. Giro già da tempo parla ed esalta il progetto e il 14 luglio assieme a Marchetti dichiara che è cosa fatta, aggiungendo un museo pensile, ma alla stampa non sono presentate planimetrie o simulazioni dell’impatto. Poco importa se tra i compiti del commissariamento non compaiano né coperture, né musei pensili, né ascensori, e dunque Marchetti non avrebbe mandato per realizzarli: il capolavoro siderurgico costerà tra i 35 e i 50 milioni di euro, con un incremento di spesa del 300%. Il tutto avviene prima che la soprintendenza e i comitati tecnico-scientifici del Ministero abbiano espresso il loro vincolante parere, in un chiaro tentativo di forzargli la mano.

Si è scatenata un’aspra polemica col Pd in prima linea: per il senatore Marcucci è «un progetto invasivo da apprendisti stregoni» e presentato un’interrogazione parlamentare, mentre per il coordinatore del settore cultura del Pd Matteo Orfini: «La Domus Aurea è l’ultimo di una serie di scempi perpetrati durante il governo Berlusconi. Per Pompei il ministero aveva garantito risultati inesistenti, è finita nel dramma e nel discredito internazionale».

Nei giorni scorsi con cautela la soprintendenza ha sottolineato come il nuovo progetto non abbia sufficienti consolidamenti e dà via libera solo ai lavori compresi nel primo progetto, rimandando ai pareri dei comitati tecnico scientifici, dove molti prevedono scontri gladiatori. Piuttosto che la salvezza della Domus Aurea, per ora ha prevalso la voglia di appalto – che in regime commissariale avviene senza bando, in stile Protezione civile. Stile che Marchetti conosce bene come vicecommissario per la ricostruzione di l’Aquila con deleghe ai Beni Culturali.

La regola d’oro? Più kolossal è l’appalto, meglio è

Vittorio Emiliani

Il Ministero per i Beni Culturali agonizza per mancanza di risorse, di tecnici, di custodi? Niente paura. Il sottosegretario Francesco Giro – che si è fatto una fama (pensate un po’) durante la latitanza di Sandro Bondi – sostiene a tutta forza il costosissimo progetto di risanamento della Domus Aurea del suo quinquennale commissario, sinora a secco di risultati, ingegner Luciano Marchetti (ben descritto, qui, da Luca Del Fra). Sono 35-50 milioni. Da pescare nel solito “tesoro” degli incassi del Colosseo. Che però, per una parte, alimentano il vastissimo bacino archeologico Roma-Ostia. Al quale - notizia di ieri - sono stati sottratti, con un colpo di mano, 5 milioni di euro per esso vitali e che rientrano in un bilancio da approvare, al massimo, entro marzo e che a fine luglio non lo è ancora. Andranno a coprire i debiti del Polo Museale di Napoli…

Quello dell’ingegner Marchetti, commissario senza risultati, dal 2006, è un progetto “pesante” (acciaio+cemento). Dall’esito certo? No. Si sa però che installerà nella Domus neroniana, o marchettiana, ben tre ascensori, speciale passione dell’”ingegnere”. Suo è quello che da tutta Roma si “ammira”, e si maledice, in cima al Vittoriano. Al suo costosissimo progetto se ne contrappone uno della Soprintendenza, più soft e meno costoso, ovviamente. Ma il sottosegretario Giro non ci sta, vuole “chello ca costa ‘e cchiù”, forse per passare alla storia. Una volta, nell’Italia dei beni culturali vigevano almeno criteri di dirittura morale e di efficienza tecnica (in Tangentopoli non ci fu un solo Soprintendente inquisito). Ora, da una parte il Ministero agonizza e dall’altra si varano appalti kolossal. Più kolossal è l’appalto, meglio è. Ecco la regola. Aurea, è il caso di dirlo.

Il grottesco è senza fine. Dal 2006 dunque la Domus Aurea è commissariata con Marchetti. Dal 2009 lo è pure l’intera area archeologica Roma-Ostia, prima con Guido Bertolaso e poi con Roberto Cecchi che è pure il segretario generale del MiBAC. Chi è che ora ha spostato 5 milioni di euro dall’archeologia di Roma-Ostia ai Musei di Napoli? Lo stesso Cecchi, immagino. Che, in veste di segretario generale, toglie quella cifra importantissima dalla matrioska Cecchi commissario per l’archeologia romana. Si sperava che il nuovo ministro, Giancarlo Galan, sciogliesse il groviglio, congedando chi aveva avuto – al Petruzzelli, all’Aquila o altrove – rapporti con Angelo Balducci leader della famigerata “cricca”. Nulla di tutto ciò. Ognuno resta dov’è. Semmai sono gli uomini di Galan a restare fuori.

Giorni fa, nel cuore di Roma, mi si è materializzato davanti, di colpo, il direttore generale che tanto criticammo anni fa, Francesco Sisinni (1). Mi ha chiesto secco: “Mi rimpiangete, eh?” E sorrideva, vendicativo e soddisfatto. Già, chi l’avrebbe mai immaginato?

1- L’incontro stradale con Franciscus Sisinnius non è una invenzione polemica, esso è realmente avvenuto poco tempo fa, davanti a Palazzo Madama. Del tutto inopinatamente.

Affaritaliani.it

Un immobiliarista accusa Penati. Da Risanamento a Sesto Immobiliare, ecco come nasce l'inchiesta

All’origine dell’inchiesta che vede Filippo Penati indagato assieme ad altre 15 persone per corruzione e concussione, ci sono le dichiarazioni di Giuseppe Pasini, costruttore sestese, proprietario delle aree Falck dal 2000 al 2005, come rivela Il Fatto Quotidiano. Circa un anno fa, Pasini si è presentato spontaneamente alla Procura di Milano, denunciando di essere “vittima di soprusi da parte di alcune amministrazioni locali”, racconta il suo legale Carlo Enrico Paliero. Il costruttore - che è anche un consigliere di area centrodestra del Comune di Sesto ed ex sfidante dell'attuale sindaco Oldrini alle ultime amministrative - si dichiara concusso e fa il nome di Penati, quindi gli atti sono trasmessi alla Procura di Monza, competente su Sesto. Nell’inchiesta sarebbero finite anche altre vicende, e lo stesso Pasini potrebbe essere indagato.

L’area finita sotto la lente degli investigatori riguarda buona parte delle zone ancora occupata dai padiglioni industriali. I lotti di proprietà della Falck a fine anni Novanta vengono acquistati da Giuseppe Pasini, il cui gruppo però fallisce. Nel marzo 2005 La Risanamento, società del gruppo Zunino, si impegna ad acquisire, per 88 milioni di euro, il 100% di Immobiliare Cascina Rubina, azienda del Gruppo Pasini e proprietaria dell’area ex Falck.

L’operazione, secondo la società (poi coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica di Santa Giulia) dovrebbe permette alla società immobiliare di inserire nel proprio portafoglio un’area industriale dismessa dall’estensione di 1.300.000 metri quadrati sita nel comune di Sesto San Giovanni dove sorgevano, un tempo, le Acciaierie Falck.

Nel 2010 l’area passa ufficialmente di mano. Dopo un mese di rinvii tecnici, Risanamento chiude l’operazione, vendendo l’asset di Sesto San Giovanni (Milano) alla cordata Sesto Immobiliare, capitanata dal costruttore Davide Bizzi. E all’orizzonte si intravede l’apertura, entro il 2013, del più grande cantiere d’Europa.

A sbloccare la vendita da 405 milioni di euro. In quell’anno la cordata di Bizzi versa l’85% del prezzo complessivo, vale a dire 345 milioni: di cui circa 274 milioni attraverso l’accollo del debito di Cascina Rubina nei confronti di Intesa Sanpaolo (circa 274 mln) e la restante parte in ‘cash’ (71 milioni). Gli altri 60 milioni verrano pagati dopo aver ottenuto le approvazioni, rispettivamente, al programma di intervento da parte del Comune di Sesto San Giovanni e al progetto definitivo di bonifica dal Ministero dell’Ambiente.

La Repubblica ed. Milano

Quindici anni di piani e fallimenti

di Luca Pagni

DAGLI anni d’oro della siderurgia al declino della grande industria. Dalla bolla immobiliare che ha garantito per qualche stagione ricche plusvalenze, alla polvere che da quindici anni si accumula in attesa del via ai lavori del più grande cantiere d’Europa. C’è poco da dire: il progetto che dovrebbe trasformate le aree ex Falck, oltre un milione e mezzo di metri quadrati, nei nuovi quartieri di Sesto San Giovanni non è proprio nato sotto una buona stella. Nonostante tre diversi proprietari e un’archistar come Renzo Piano.

Più che con la coda della parabola, però, l’inchiesta aperta dalla magistratura sulle ex aree Falck ha a che fare con il classico peccato originale. I magistrati, infatti, si stanno concentrando sui rapporti tra i vertici dell’amministrazione comunale di Sesto e Giuseppe Pasini, l’imprenditore che per primo si era cimentato nel "sogno" di ridare un volto e un disegno urbanistico alle aree industriali dismesse tra le più famose d’Italia.

Un progetto che ha rivelato, fin da subito, tutte le sue difficoltà. Per l’enormità dell’impresa, innanzi tutto. Basti ricordare che la Pirelli - più o meno negli stessi anni - è quasi fallita nel tentativo di trasformare l’ex città del pneumatico alla Bicocca. Salvata poi dal trasferimento della nuova sede della Statale, in un primo tempo pensata al quartiere Porta Vittoria.

Ma le aree Falck sono grandi una volta e mezza l’ex Pirelli. Una parete di sesto grado da scalare, e Pasini non riesce a trovare la quadra. Ci ha provato per quasi nove anni: nel 1996 si ferma l’ultimo altoforno e i cancelli si chiudono per l’ultima volta alle spalle dei 970 dipendenti superstiti dei 16mila degli anni Sessanta, massima espansione della siderurgia italiana, quando gli impianti Falck sono arrivati a produrre fino all’8 per cento della produzione di acciaio in Italia.

Pasini - che ha comprato le aree dai Falck per 367 miliardi di vecchie lire - prima si scontra con le regole dell’urbanistica comunale. Poi, dopo nove anni, quando le banche cominciano a temere di non rientrare dai debiti contratti per l’acquisto delle aree per un cantiere che non parte mai, si trova costretto a passare la mano. Sono sempre le banche - in testa Intesa Sanpaolo, la più esposta - a individuare il successore. E lo trovano, corre l’anno 2005, in Luigi Zunino, astro emergente degli "sviluppatori urbanistici", uno che pensa in grande come ha dimostrato nel progetto per certi versi gemello a Rogoredo.

Per le ex aree della Montedison a Rogoredo, oltre un milione di metri quadrati, ha scelto l’architetto Norman Foster per disegnare il quartiere, ribattezzato Santa Giulia, e i nuovi palazzi da diecimila euro al metro quadrato. Sono gli ultimi fuochi della bolla immobiliare che ha causato la grande crisi scoppiata nel 2007: Zunino compra per 218 milioni di euro i terreni, fa abbattere un po’ di muri diroccati, lasciando gli scheletri delle fabbriche di maggior pregio per la storia dell’architettura industriale e chiama Renzo Piano a disegnare il nuovo masterplan.

Ma la crisi lo travolge: si scopre che la maggior parte delle proprietà immobiliari controllate dalla sua Risanamento sono in pegno alle banche e i debiti sono stati garantiti solo da un vorticoso scambio di immobili con altri immobiliaristi, sfruttando plusvalenze e la salita dei prezzi che per qualche stagione è sembrata non avere mai fine. Quando il giochino si esaurisce arriva la bancarotta, e Risanamento rischia di diventare il peggior dissesto italiano dopo Parmalat. Per scongiurare il pericolo di un fallimento - come richiesto dai magistrati - alle banche non rimane che cercare un nuovo soggetto cui affidare il progetto. Lo trovano in Davide Bizzi, uno di quei classici imprenditori che è cresciuto lontano dai riflettori e che si è fatto le ossa nel turismo (ha costruito, tra gli altri complessi, un albergo a Cuba). Il cui progetto più grande è un grattacielo di 60 piani a New York, e che ha come socio un fondo pensionistico coreano.

Bizzi compra nell’ottobre del 2010 per 405 milioni (ma 300 sono di crediti delle banche) e conferma Renzo Piano, il quale rivede il progetto riducendo il numero di nuovi appartamenti e ridisegnando la viabilità. I cantieri non sono ancora partiti. Ma con questo la magistratura non c’entra.

Corriere della Sera

´ I milioni bruciati nel grande affare dell’ex Stalingrado

di Sergio Bocconi

Progetti faraonici, futuribili, sostenibili: l’area da circa 1,4 milioni di metri quadrati dell’ex Falck di Sesto San Giovanni è dal Duemila oggetto di compravendite e piani di investimento. Il giro di soldi è impressionante: dai 341 miliardi di lire pagati per il terreno dal costruttore Giuseppe Pasini undici anni fa e i 3 miliardi di euro ipotizzati allora per lo sviluppo, ai 400 milioni di euro per l’area e i 2,6 miliardi per i progetti urbani pianificati dalla cordata guidata da Davide Bizzi.

Un pool eterogeneo, al quale partecipano investitori coreani, americani, gli alleati di Bizzi Paolo Dini (Paul&Shark) e Mario Bandiera (Les Copains) e il Consorzio cooperative costruzioni, che l’anno scorso ha rilevato gli asset dalla Risanamento che prima era stata di Luigi Zunino e, dopo un fallimento chiesto dalla Procura e sventato in extremis, è passata alle banche creditrici. Milioni, miliardi, montagne di idee ma soprattutto montagne di debiti. In pratica «passati di mano» con rendering e terreni.

Per un caso, proprio ieri l’ultimo compratore, la Sesto immobiliare di Bizzi, immobiliarista diventato famoso per un grattacielo a New York e che ha «fatto la scuola» presso il raider Ernesto Preatoni, ha nominato presidente Piero Gnudi, professionista che ha seguito fin dall’inizio l’acquisto di Bizzi ed è stato fino ad aprile presidente dell’Enel, e vicepresidente Mario Resca che, dopo aver guidato fra l’altro la McDonald’s Italia, è stato dirigente del ministero dei Beni Culturali e oggi commissario straordinario dell’Accademia di Brera.

Nomi che danno conto delle ambizioni di una riqualificazione e valorizzazione dell’area che una volta era la capitale delle acciaierie italiane e che ora è di nuovo affidata per disegni, progetti e sogni allo studio del super architetto Renzo Piano. Il giro di miliardi, passaggi e debiti comincia dunque verso la fine del Duemila quando Pasini rileva (con finanziamenti bancari forniti in particolare da Intesa) l’area da Alberto Falck, che ormai ha abbandonato colate e altoforni. Filippo Penati, allora sindaco della ex Stalingrado d’Italia, accoglie in modo favorevole il passaggio di mano: «La vendita delle aree è un segnale positivo per accelerare lo sviluppo della città» .

Un applauso ovvio, anche perché più che accelerare lo sviluppo si trattava di fermare il declino di un ex polo industriale, ormai dismesso. Pasini si muove su più fronti. Per una delle aree acquistate, la ex Ercole Marelli, confida nel trasferimento della sede centrale di Banca Intesa. Progetto che però muore in fretta nei fatti ma il cui tramonto è ufficializzato dall’amministratore delegato Corrado Passera qualche tempo dopo. Il costruttore costituisce poi una commissione scientifica per l’ex area Falck che viene presentata a fine 2001 quando sindaco è ancora Penati: ci sono l’architetto Mario Botta, autore del primo grande progetto di riqualificazione, e altre personalità di spicco fra cui il rettore del Politecnico Adriano De Maio e il docente Alessandro Balducci, lo storico Giulio Sapelli e l’economista Marco Vitale.

Che subito si convince di almeno due cose: il costruttore non ha le spalle adeguate alle ambizioni; per personalità e professionalità non è adatto a «fare corridoio» in Comune: lo invita perciò a non andarci e a cercare al più presto un partner adeguato ai progetti come un fondo immobiliare internazionale. Consigli che Pasini non segue finché, dopo aver presentato nel maggio 2002 (pochi giorni prima dell’elezione di Giorgio Oldrini a sindaco di Sesto) il superprogetto firmato Botta, nel marzo 2005 vende tutto alla Risanamento di Zunino, che compra l’area per 88 milioni finanziato ancora una volta da un pool di banche guidato da Intesa.

Altro megaprogetto, affidato a Renzo Piano e presentato anche in consiglio comunale introdotto da Ermanno Olmi e da un suo filmato sulla vita delle accierie. Questa volta però il destino di Sesto viene segnato dalla fine della «bolla» degli immobiliaristi. Il «maggior investimento mai fatto in un’area dismessa» , come l’aveva definito Pasini (che nel 2007 sfida con il centrodestra Oldrini per la poltrona di sindaco e perde) ancora una volta non va in porto. Zunino è travolto dai debiti e Risanamento viene salvata in extremis dalle banche che, Intesa Sanpaolo capofila, diventano poi gli azionisti della società oggi guidata da Claudio Calabi. L’area ex Falck passa alla cordata Bizzi. Che di nuovo mette in campo tre miliardi per ridare a Sesto la «missione» perduta.

Corriere della Sera ed. Milano

Il tesoro dell’urbanistica

di Edoardo Segantini

L a vicenda che vede indagato per concussione e corruzione l'ex sindaco di Sesto San Giovanni e alto esponente pd Filippo Penati suggerisce alcune riflessioni generali sul modo in cui vengono gestiti i grandi progetti di trasformazione urbanistica in Italia. Riflessioni che vanno al di là del «caso Sesto» — dove è stato da poco presentato un bellissimo progetto di Renzo Piano per l'ex area Falck— e prescindono dal merito giudiziario dei fatti, su cui si pronuncerà la magistratura. Lasciamo da parte per una volta il basso livello della classe politica. La prima riflessione è che l'equilibrio tra amministrazioni locali e immobiliaristi è troppo sbilanciato a favore di questi ultimi.

Roberto Camagni, economista urbano del Politecnico di Milano, ha messo a confronto il beneficio che le operazioni urbanistiche trasferiscono al pubblico in Europa, in termini di oneri di urbanizzazione e contributi di costruzione. I risultati sono impressionanti. A Milano e in altre città italiane questo beneficio arriva, al massimo, all'8 per cento del valore del costruito. A Monaco di Baviera raggiunge il 30. Che, tradotto, significa migliori trasporti, parchi, strutture di svago. Grazie a queste risorse, i bavaresi vedono realizzarsi buona edilizia pubblica e social housing per i ceti meno abbienti.

È vero, si obietterà, sono tempi duri anche per il mattone. Ma i costi della crisi devono essere ripartiti più equamente fra i privati e la comunità. Oggi la filiera degli immobiliaristi incamera una quota troppo grande: in questo modo — è un ragionamento del tutto teorico — aumenta proporzionalmente anche la sua capacità corruttiva potenziale. Un'altra considerazione riguarda le tecnostrutture che presiedono alla realizzazione delle opere.

Dal confronto internazionale emerge che le città più dotate— da Monaco a Barcellona (in passato si sarebbe potuto aggiungere anche Milano) hanno apparati di primissima qualità. Ovvio che la tecnostruttura non è un antidoto alla corruzione. Tuttavia un buon ufficio tecnico, orgoglioso della sua reputazione, può portare, se non proprio deterrenza, maggiori capacità di controllo. E qualità. In urbanistica si è passati dai piani regolatori alla trattativa con le forze del mercato. Un passaggio che troppo spesso avviene senza trasparenza. Aprendo nuovi spazi alla corruzione. Serve perciò un meccanismo che fissi l'obbligo di una più alta ricaduta per la comunità e imponga trattative alla luce del sole. Come in Germania, dove le operazioni vanno su Internet. O come in Spagna, dove l'obbligo che una quota consistente delle plusvalías urbanistiche vada a beneficio della Comunidad è scritto addirittura in un articolo della Costituzione.

A Firenze non mancano le esperienze di trasformazioni urbanistiche o edilizie finite in tribunale. Anche se i processi devono ancora iniziare, la doverosa presunzione di innocenza per gli imputati nulla toglie al clamore suscitato, non soltanto in città, dai casi Castello e Quadra. Nel primo scandalo, relativo alla progettata "urbanizzazione" della maxiarea di Castello, in primavera sono stati rinviati a giudizio per corruzione Salvatore Ligresti, patròn di FonSai, due suoi stretti collaboratori come Fausto Rapisarda e Gualtiero Giombini, e l'ex assessore Pd all'urbanistica Gianni Biagi. Il secondo è invece legato alla società di progettazione Quadra, con l'ipotesi di accusa che parla della creazione di un autentico monopolio sull'edilizia privata fiorentina. Un monopolio durato dal 2007 al 2009, creato coinvolgendo politici, imprenditori e dipendenti tecnici di Palazzo Vecchio. Fra i primi spicca l'ex capogruppo democrat Alberto Formigli. Rinviato a giudizio lunedì scorso insieme ad altre 21 persone, fra cui l'ex presidente del locale Ordine degli architetti Riccardo Bartoloni, altri professionisti, alcuni costruttori edili, e gli ex responsabili dell'ufficio comunale edilizia privata Bruno Ciolli e Giovanni Benedetti. In questo caso i reati ipotizzati, a vario titolo, parlano di associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, truffa aggravata e falso ideologico.

Per Castello, ultimo grande spazio (quasi) libero dell'intero territorio comunale, ereditato da Ligresti quando la sua Sai incorporò Fondiaria, c'era in cantiere una grande traformazione urbanistica che prevedeva la realizzazione di 1.500 appartamenti; un centro commerciale; un campus scolastico (dove l'allora presidente provinciale Matteo Renzi voleva far traslocare numerosi istituti secondari); una sede direzionale pubblica, e un parco da 80 ettari. Dal momento in cui la procura fiorentina guidata da Giuseppe Quattrocchi sequestrò l'area, il 26 novembre 2008, Ligresti non ha mai chiesto il dissequestro. Né ha riavviato trattative con l'amministrazione fiorentina. Ben diverso il clima nel 2005, quando Ligresti aveva stipulato la convenzione su Castello con l'allora sindaco Leonardo Domenici. A seguire l'ok del consiglio comunale - a sinistra contrari solo Rifondazione e Ornella De Zordo di Unaltracittà e Comitati cittadini - infine il passaggio della pratica nelle mani di Gianni Biagi. Al quale la magistratura contesta «di aver adottato iniziative e provvedimenti in contrasto con gli interessi pubblici», rilasciando fra l'altro nell'agosto 2008 i permessi per le edificazioni private senza che fossero stati avviati i lavori per il parco. Lavori considerati come prioritari dall'assemblea di Palazzo Vecchio, nel momento in cui aveva dato l'assenso alla trasformazione urbanistica dell'area. Lavori che invece stavano slittando, e che probabilmente sarebbero stati abbandonati del tutto. In favore del nuovo progetto della "cittadella viola", avanzato dai fratelli Della Valle e già giudicato verbalmente dal sindaco Domenici come ben più interessante.

Su Castello, i pm Monferini, Mione e Tei che hanno indagato insieme al Ros dei carabinieri ritengono che non ci sia stata una corruzione "classica" - favore in cambio di mazzetta - ma una corruzione "liquida" fatta di scambi, consulenze, favori nella carriera anche grazie all'entrata in giri che contano. Quanto al caso Quadra, la società di progettazione edilizia di cui Bartoloni era socio e Formigli (all'epoca anche presidente della commissione urbanistica) "socio occulto", la pubblica accusa ritiene che godesse di una corsia preferenziale per l'approvazione di progetti di nuove edificazioni e ristrutturazioni, anche di notevole entità. Il tutto in cambio di favori o regali, e potendo contare sul ruolo di Formigli come intermediario politico. Insomma una sorta di cavallo di Troia negli uffici tecnici comunali.

Il campanello d’allarme è suonato scrutando quella norma nel Decreto sviluppo. Un piccolo comma che fa slittare da cinquanta a settant’anni l’età che deve avere un edificio per essere meritevole di tutela. Vent’anni di più. Che lasciano senza protezione molto di ciò che l’architettura italiana ha realizzato fra il 1941 e il 1961: Pier Luigi Nervi, Franco Albini, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa, Lodovico Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers, Piero Bottoni, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi e altri ancora. L’allarme ha destato più profonde preoccupazioni: è a rischio tanta parte dell’architettura di tutto il Novecento. «Secolo fragile», concordano gli storici dell’architettura Carlo Olmo e Piero Ostilio Rossi. Dominato da un materiale friabile come il cemento armato, insiste Franco Purini, professore a Roma e progettista. Un secolo, ricorda Purini, inaugurato dalla profezia del futurista Edoardo Sant’Elia: ogni generazione costruirà la propria casa.

Un Novecento oggetto di consumo, dunque, affetto da una forma di minorità che deriva per paradosso dall’essere molto familiare. Sembra che su di esso non si sia depositata una sufficiente quantità di storia e di attenzioni culturali che rendono invece automatica la salvaguardia di un edificio del Trecento e del Quattrocento. Eppure, spiega Olmo, professore a Torino e direttore de Il giornale dell’architettura, «se si lasciano deperire i quartieri di edilizia pubblica sorti dopo la guerra, gli stabilimenti industriali ora dismessi, gli insediamenti organizzati intorno al lavoro, è in discussione una parte essenziale delle nostre città».

La buona architettura del Novecento rischia di essere inghiottita nella massa di costruzioni che ingombrano la scena delle nostre città, dove si stima che i nove decimi dell’edificato risalgano al dopoguerra (Roma era costruita su sei ettari fino al 1951, ora si espande su cinquanta e oltre) e la cui qualità è giudicata pessima. Ma quali sono i morbi che affliggono quelle architetture? Alessandra Vittorini, che al ministero per i Beni culturali cura un catalogo dei migliori prodotti novecenteschi (circa duemila edifici dal 1945 in poi, trecento dei quali eccellenti), indica soprattutto il loro cattivo uso: «Non si distingue fra un palazzo di speculazione e una palazzina di pregio: gli interventi su infissi e intonaci, gli adeguamenti per sicurezza o isolamento termico possono essere compiuti con uguale trasandatezza, badando a risparmiare più che a mantenere leggibili i tratti architettonici».

D’altronde un manufatto, anche prezioso, che ha cinquanta o settant’anni, è vissuto, abitato, calpestato - ed è nell’essere usato e non musealizzato la sua ragion d’essere.

A Roma destarono impressione, anni fa, gli interventi sulla palazzina Furmanik di Mario De Renzi, il cui intonaco è stato stravolto e dalle cui balconate sono sparite le persiane scorrevoli. Ma si è arrivati anche alle demolizioni: il Velodromo, delicato impianto realizzato per le Olimpiadi del 1960 da Cesare Ligini, è stato abbattuto e rase al suolo finiranno anche le torri di Ligini all’Eur di Roma: operazioni "ingiustificabili", dice Purini: «l’Eur è un riferimento per l’architettura di tutto il mondo, non può finire preda di speculazione». Altri emblemi del Novecento romano sono in pericolo: lo stadio Flaminio e il Palazzetto dello Sport, entrambi opera di Nervi ed entrambi oggetto di piani di ampliamento che, denunciano in molti, li snaturerebbero (ma per lo stadio, grazie all’intervento di Renzo Piano, si fa avanti l’idea di una struttura smontabile).

A Pozzuoli, vicino a Napoli, la fabbrica Olivetti realizzata da Luigi Cosenza, Marcello Nizzoli e Pietro Porcinai e raccontata da Ottiero Ottieri in Donnarumma all’assalto, è stata venduta e i molti proprietari hanno diviso gli interni, abbassato le altezze e costruito soppalchi. Manomissioni vengono denunciate a Ivrea, dove il settanta per cento di tutto il costruito si deve alle idee comunitarie di Adriano Olivetti, ma dove almeno vigila, sensibilizzando gli utenti, la Fondazione intitolata al grande imprenditore-intellettuale. «L’enorme spazio delle Officine di Luigi Figini e Gino Pollini è stato diviso per ricavarne piccoli box», racconta Patrizia Bonifazio, che per conto della Fondazione segue il patrimonio di Ivrea. «La mensa di Gardella è diventata un call center e sono stati smantellati gli impianti di areazione che avevano un grande impatto formale».

In un appello promosso da Gino Famiglietti, direttore regionale dei Beni culturali in Molise, e firmato da migliaia di persone, viene allegato un elenco di opere di proprietà pubblica o ecclesiastica che, con la tutela spostata da cinquanta a settant’anni, potrebbero essere vendute o alterate: il Salone per le Esposizioni e il Palazzo del lavoro di Nervi a Torino; la chiesa della Sacra Famiglia di Quaroni a Genova; il Padiglione d’arte contemporanea di Gardella a Milano.

Ma nella lista figurano anche quartieri di edilizia popolare, il QT8 di Milano (Piero Bottoni, Vico Magistretti, Giancarlo De Carlo, Marco Zanuso), la Falchera di Torino (Giovanni Astengo), il Borgo La Martella di Matera, voluto da Olivetti e progettato da Quaroni.

Italia Nostra si è mobilitata. La conoscenza, si sente dire, può valere persino più dei vincoli, perché sensibilizza chi quelle architetture le vive. L’associazione Docomomo scheda con cura le opere per le Olimpiadi del 1960 e segnala gli edifici meritevoli di protezione a L’Aquila. «Può bastare una piccola targa accanto al portone, come si fa in Francia», ricorda Alessandra Vittorini, «per sapere di abitare in un palazzo che ha qualità architettonica». Marco Dezzi Bardeschi, architetto e professore al Politecnico di Milano, ha raccolto nella mostra "Salvaguardare l’architettura contemporanea a rischio" casi emblematici di abbandono: il Foro Boario di Giuseppe Davanzo a Padova (1965), l’Istituto Marchiondi di Baggio (Vittoriano Vigano, 1957), la Villa Saracena progettata da Luigi Moretti a Santa Marinella.

«L’architettura del Novecento dura programmaticamente poco», dice Purini. «Questo vale per Ville Savoy di Le Corbusier, che è costantemente in restauro, e per i Grand Ensemble, i giganteschi complessi francesi o dell’ex Urss, per i quali è stato necessario intervenire per dare solidità a posteriori». Ma come agire correttamente? Tanti citano un caso virtuoso, il restauro del grattacielo Pirelli di Gio Ponti a Milano, dopo l’incidente provocato nel 2002 da un aereo. A Roma esiste una Carta per la qualità curata da un gruppo guidato da Piero Ostilio Rossi, storico dell’architettura alla Sapienza (milletrecento edifici dall’inizio del secolo indicati come meritevoli di tutela). Il documento fa parte del Piano regolatore, fissa criteri per intervenire, ma resta lettera morta. «Per il passato basta una data a segnalare come pregiata un’architettura», spiega Rossi, «ma per il Novecento non si riesce a dar vita a giudizi di valore condivisi».

Più ci si avvicina alla contemporaneità, più la percezione estetica si fa debole. Ma oltre le questioni propriamente culturali, le malversazioni si moltiplicano. Quella subìta dal Memoriale per gli italiani caduti nei lager nazisti, per esempio, un’opera che nel 1980 vide la collaborazione dell’architetto Belgiojoso, del pittore Mario Samonà, dello scrittore Primo Levi e del musicista Luigi Nono. La struttura, voluta dall’Associazione ex deportati e allestita nella baracca 21 di Auschwitz, consiste in un percorso a spirale, rivestito all’interno da una serie di illustrazioni. È un’opera d’architettura e d’arte, la cui visita era accompagnata dal brano di Nono, Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz. Il memoriale è in condizioni precarie, avrebbe bisogno di restauri: ma su di esso incombe addirittura la minaccia di demolizione.

postilla

Anche nell’articolo, fortemente improntato ad una logica conservazionista, si cita la necessità di “non musealizzare” le opere degli architetti del ‘900. Ecco: basta essere coerenti con questo assunto per fare il passo successivo, ovvero che da tutelare, e in modo attivo, c’è l’idea di città alle spalle delle singole opere. Un percorso che del resto è già stato compiuto ad esempio nella tutela dei centri storici o degli edifici di interesse monumentale in area non urbana, almeno in teoria. E che proprio dai lavori di almeno due generazioni di progettisti emerge evidente, ovvero la capacità di immaginare e suggerire contesti spaziali assai più ampi di quelli direttamente interessati dalle realizzazioni.

Non a caso si parla di esperienze a cavallo fra l’emergere della cosiddetta figura di architetto integrale (che comprende sia l’urbanista, che il progettista, che il designer e il critico) e la transizione verso la successiva riorganizzazione, secondo molti in negativo, e l’emergere delle figure attuali, archistar o comunque più fortemente improntate a un approccio individualista.

Il che non significa ovviamente musealizzare intere aree metropolitane: la “morte dell’architettura moderna” in questo senso è stata ufficialmente sancita a livello internazionale già negli anni ’70. Ma sicuramente recuperare il meglio delle suggestioni urbane di queste generazioni di architetti, andando se non altro oltre la pura logica del restauro e/o del “diradamento edilizio” di buona memoria (f.b.)

La Sardegna e quinta nella classifica di Legambiente sull' abusivismo edilizio. Vuol dire che se non è al primo posto poco ci manca. Il conto è presto fatto, dato che Campania e Sicilia hanno tre quattro volte tanto gli abitanti di Sardegna e pure il flusso turistico e più intenso in quelle Regioni.

Non siamo messi bene ed è meglio non minimizzare. La Sardegna brutta c'è, e tra insediamenti illegali e legittimi è proprio una bella gara. E ferma restando la condanna degli abusi, è bene dire che troppo spesso leggi e regole urbanistiche servono per convalidare scelte inammissibili.

Si legge spesso di interventi della Magistratura contro un'ondata di aggressioni al territorio, favorita dal clima che da anni mette il bene comune al margine. Gli espedienti per eludere vincoli e scansare autorizzazioni non si contano, la posta in gioco è rilevante e, come vediamo dalle cronache recenti, ci sono spesso complicità autorevoli. Colpiscono i casi di Arzachena e Olbia, ma non sorprendono. Spiegano il clima afferra-afferra. Il piatto è ricco. Con i paesaggi che ci ritroviamo si va sicuri, metti uno e prendi sei, se va male, ma molto di più se ci sai fare. A basso investimento (il costo di costruzione più di tanto non cresce anche con l'impiego di pregiati materiali) corrisponde un utile inimmaginabile con altre imprese.

Il valore – è bene ricordarlo – è dato da quel quid che mettiamo noi, il paesaggio non de-localizzabile. Eppure verso la manomissione dei luoghi – del paesaggio di tutti – c'è tolleranza da parte dell'opinione pubblica, come verso gli evasori fiscali.

Preoccupa oggi la forma assunta dall'abusivismo, il numero di “lottizzazioni scoperte per caso” nelle coste. Case che passano per attrezzature agricole ma con vistamare, piscina e prato verde, denominatore comune di casi in costa ogliastrina, in quella gallurese, in quella algherese, in quella di Quartu. Nei baluardi del turismo ti aspetteresti un'alta vigilanza a presidio della risorsa su cui si fonda il futuro. D'altra parte il trucco è lo stesso, come nel gioco delle tre carte nella rambla di Barcellona o nei vicoli di Napoli. Numerose sentenze spiegano il reato, evidente prima di materializzarsi già nella fase del frazionamento del suolo (la lottizzazione “cartolare”).

Ecco, se gli azzardi sono tanti e così scoperti vuol dire che l'idea di farla franca si è diffusa.

Per questo è urgente dare segnali di grande fermezza nelle amministrazioni locali, per mettere fine a questi intrecci di disorganizzazione, indifferenza, connivenza (a proposito del responsabile dell'edilizia privata di Arzachena che concorre a un abuso). E' un compito della politica che spesso è stata in grado di reagire. Inammissibile, ad esempio, che le città ad alta tensione edilizia, come Olbia e Alghero, abbiano vecchissimi piani urbanistici aggiustati nel tempo, mai adeguati alle disposizioni degli ultimi decenni. Su questo prima di tutto e la sfida: lasciare l'idea che il territorio sia privo di un governo e di un progetto è un danno per tutta la comunità sarda.

La prima battaglia di Tornavento venne combattuta dagli Spagnoli contro i Francesi, per il controllo di Milano, il 22 giugno del 1636; la seconda è cominciata ieri negli uffici del ministero dell’Ambiente: qui sono state depositate le motivazioni con le quali nove piccoli Comuni lombardi si oppongono al nuovo super ampliamento dell’aeroporto di Malpensa; progetto che comporterebbe la costruzione della terza pista, una maxi area cargo, il sacrificio di 600 ettari di bosco e anche quello, appunto, del paesino di Tornavento: 500 abitanti che vivono in riva al Ticino ma che dovrebbero sloggiare qualora il progetto andasse in porto. I sindaci dei nove Comuni hanno illustrato ieri mattina le loro ragioni, supportati nella loro battaglia dall’ente Parco del Ticino (in cui Malpensa è compresa) e da un pool di associazioni ambientaliste tra cui Italia Nostra, Wwf e Fai.

L’avversario ha le spalle grosse, perché a volere la terza pista è la Sea, la società di gestione degli aeroporti di Malpensa e Linate di cui il principale azionista è il Comune di Milano. Sea, tanto per dare un’idea degli interessi in gioco, ha annunciato di voler investire nell’aeroporto fino a un miliardo di euro e di portare il traffico dello scalo, entro il 2030, a 50 milioni di passeggeri l’anno. «Ma ditemi voi come si può voler ampliare un aeroporto che già oggi ha una capacità di 30 milioni di passeggeri ma che nell’ultimo anno ne ha movimentati appena 18; noi non siamo certo per la chiusura di Malpensa ma il fatto che Alitalia prima e Lufthansa poi abbiano deciso di non scommettere su questo scalo qualcosa dovrebbe insegnare...» : Piergiulio Gelosa, sindaco di Lonate Pozzolo, sintetizza con efficacia il senso della battaglia intrapresa. Ieri, come detto, ha depositato al ministero dell’Ambiente 40 osservazioni contro il masterplan depositato da Sea per la «super Malpensa» ma dietro Gelosa c’è una nutrita e composita compagine: lui è del Pdl, così come i suoi colleghi di Ferno e Somma Lombardo, mentre leghista è il primo cittadino di Samarate, del Pd quello di Cardano al Campo e espressione di liste civiche quelli di Vizzola Ticino, Casorate Sempione, Arsago Seprio e Golasecca, tutti i centri interessati al progetto.

Milena Bertani presidente del Parco del Ticino, viene invece dall’Udc ma è sulla stessa linea dei sindaci: «Ci sono atti amministrativi e di indirizzo che dicono che la terza pista non può essere fatta senza una valutazione di impatto strategico sull’intera zona. Il progetto così come è stato presentato distruggerebbe una delle poche aree protette della Lombardia, ad altissimo valore faunistico e naturale» . Ma se gli svassi e le farfalle dei boschi attorno a Malpensa dovessero apparire un argomento troppo debole, ci pensa di nuovo Piergiulio Gelosa a scoprire le carte e a chiarire il vero nodo della questione: «I 50 milioni di passeggeri e i 2 milioni di tonnellate di merci ipotizzati, per noi sono un’utopia; in compenso il piano prevede insediamenti per 200 mila metri quadrati dentro la nuova area dell’aeroporto. Immobili che farebbero molto bene ai bilanci del Comune di Milano e della Sea che sta per quotarsi in Borsa» .

Milano, via libera all’accordo sulle aree di Expo

Tregua armata tra Boeri e Pisapia

di Gianni Barbacetto

La rottura tra il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e il suo assessore più ingombrante, Stefano Boeri, diventa ufficiale nel giorno in cui trova una composizione provvisoria. Ieri, la riunione straordinaria di giunta sull’Expo si è conclusa con l’approvazione all’unanimità dell’Accordo di programma per le aree di Expo 2015, sottoscritto martedì da Comune e Provincia di Milano, Regione Lombardia, Comune di Rho e Poste Italiane.

Boeri, che aveva già convocato una conferenza stampa dopo la giunta per comunicare il suo disaccordo su un Expo trasformato in mera operazione immobiliare, l’ha fatta saltare dopo aver incassato l’impegno di Pisapia a far sorgere sull’area il più grande parco d’Europa, con almeno il 56 per cento dei terreni destinati al verde, e l’incarico di stilare il testo di un ordine del giorno e di un documento di indirizzo che accompagnerà la ratifica dell’Accordo di programma.

Che tra Pisapia e Boeri ci sia un disaccordo pesante sull’Expo è un segreto di Pulcinella. Loro negano, ma è chiaro che sull’esposizione universale del 2015 hanno idee ben diverse. Pisapia, ereditato l’evento da Letizia Moratti, ha subito trovato un accordo con il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, per approvare l’Expo del cemento. Indice di edificabilità 0,52: un diluvio di circa 750 mila metri quadri.

Per Formigoni è un’operazione immobiliare necessaria per far quadrare i conti della Fondazione Fiera, proprietaria di due terzi dell’area. Per Pisapia è una proposta che non si può rifiutare: o così o niente, gli ha fatto intendere Formigoni. L’alternativa è passare alla storia come il sindaco che appena arrivato a Palazzo Marino fa perdere l’Expo a Milano. Boeri, che da architetto aveva progettato l’Expo del grande parco planetario delle biodiversità, è andato in questi giorni sostenendo che è invece ancora possibile cambiare rotta. Ridurre il volume di cemento innanzitutto. E poi cercare di portare sull’area funzioni pubbliche (dalla nuova facoltà di Agraria all’Ortomercato), invece che residenza privata e uffici. Gli hanno fatto eco Carlin Petrini, di Slowfood, e anche Elio (di Elio e le Storie tese), che ha rivolto un appello a Pisapia proprio sul Fatto affinché non cadesse “nel tranello di Formigoni”. Legambiente aveva poi ricordato al sindaco che i milanesi si sono espressi per il parco con il referendum consultivo del 12 e 13 giugno. Vedremo se Boeri riuscirà a far quadrare il cerchio.

Smiracolo a Milano

di Marco Travaglio

Era il 4 novembre 2010 quando Giuliano Pisapia ruppe gli indugi e annunciò al corriere.it   la sua candidatura alle primarie di Milano per l’aspirante sindaco del centrosinistra. Disse di farlo per “far tornare Milano una città che sorride, che dà case e lavoro, dove l’aria è respirabile e le esigenze di tutti hanno diritto di cittadinanza”. Quando gli domandarono che differenza c’era fra lui e l’architetto-urbanista Stefano Boeri, candidato ufficiale del Pd, Pisapia dichiarò: “Boeri parla molto bene di progetti e di cose; io parlo delle persone e dei loro bisogni, delle loro necessità: su questo ho impegnato tutta la mia vita”. Chissà se immaginava che, di lì a sette mesi, una volta vinte le primarie e poi le comunali, avrebbe nominato proprio Stefano Boeri, quello che parla molto bene di progetti e molto meno delle persone, ad assessore alla Cultura, Moda, Design ed Expo. Un omonimo dello Stefano Boeri che aveva seguito il “concept plan” dell’Expo 2015, regolarmente retribuito per il suo incarico professionale? No, proprio lui.

Si dirà: almeno Boeri di Expo se ne intende. Certo, almeno quanto s’intende Berlusconi di televisioni, visto che ne controlla tre da trent’anni. Il che non è un buon motivo per fargli fare il concessore e il concessionario delle stesse. Ora l’assessore Boeri deve pronunciarsi su un progetto di Expo fatto (anche) dall’architetto Boeri. E, guarda un po’, esplode fra il sindaco e il suo assessore un conflitto, solo apparentemente superato ieri, proprio sul destino dei terreni dell’Expo.

L’oggetto del contendere è noto (ne abbiamo parlato più volte sul Fatto, con gli articoli di Gianni Barbacetto e con l’appello al sindaco del cantante Elio): da un lato l’idea tradizionale e speculativa di un’esposizione tutta cemento e asfalto, caldeggiata dalla lobby dei costruttori e subìta passivamente da Pisapia, nel solco delle decisioni già prese dal duo Formigoni-Moratti e dall’amministratore delegato della società Expo 2015, Giuseppe Sala; dall’altro il progetto, davvero affascinante e innovativo, degli “orti planetari” sostenuto da Boeri: un gigantesco parco verde, unico al mondo, destinato a ospitare per sempre una rassegna delle “biodiversità” esposte da tutti i paesi ospiti. Chiunque abbia un minimo di sale in zucca, a meno che non si chiami Cabassi o Ligresti o non abbia interessi nella mega-colata di cemento del piano Formigoni-Moratti, non può che auspicare la seconda soluzione. Ma ecco il paradosso: il principale alfiere della soluzione di gran lunga migliore è proprio l’assessore Boeri, che aveva collaborato a pensarla e a disegnarla nella Consulta di Architettura dell’Expo, affidandola poi ai professionisti della società che trasformarono il concept plan in masterplan.

Cioè: Boeri ha ragione da vendere a difendere il parco contro il cemento, ma è l’unica persona che non ne dovrebbe parlare. Un paradosso che, è inutile girarci intorno, si chiama “conflitto di interessi” (non di soldi, ma d’immagine e gloria personale). L’altroieri Boeri ha scritto nella sua bacheca Facebook: “Stasera sono in grande difficoltà. Mi aspetta una giunta su Expo, una giunta in cui credo moltissimo che deve decidere su un accordo di programma che non condivido. Difficile”. Si era pensato che avrebbe rimesso almeno la delega all’Expo. Invece l’ha mantenuta e, pur borbottando, ha votato pure lui, insieme al resto della giunta Pisapia, l’accordo di programma sulle aree espositive (che fino all’altroieri non condivideva) che è una penosa resa senza condizioni ai poteri forti e alla linea Formigoni-Moratti. Linea clamorosamente bocciata dai milanesi non solo alle amministrative, ma anche al referendum comunale sulla destinazione a parco di quelle aree anche dopo la fine dell’Expo. Un mese dopo la cosiddetta “rivoluzione arancione”, sulle speranze di cambiamento dei milanesi cala una doccia gelata. Cambiare la faccia del sindaco è una bella cosa. Uscire dal berlusconismo, che divora la politica tutta, resta un sogno.

Un rapporto-fantasma su Pompei, Ercolano e Torre Annunziata circola al ministero dei Beni Culturali. Esiste, ma è come se non ci fosse. Autori tre illustri studiosi, due francesi e un inglese. Promotori l´Unesco, l´organizzazione dell´Onu per l´educazione e il patrimonio culturale, in collaborazione con l´Icomos, altro organismo internazionale per la conservazione storico-artistica. Periodo dell´indagine: tre giorni a dicembre 2010, tre a gennaio 2011. Scopo: accertare lo stato degli scavi vesuviani dopo il crollo della Schola Armaturarum. L´esito è stato moderatamente positivo: i tre siti non finiranno nella lista dei luoghi a rischio, ma fra due anni subiranno un nuovo esame. Tutto bene, quindi? Non proprio.

Quel rapporto, cinquantuno pagine scritte in un inglese fluido, è, appunto, un fantasma. Qualche dirigente del ministero dice di non sapere neanche se è arrivato. Il motivo del riserbo, si sente ripetere, è uno: il documento contiene critiche agli interventi adottati negli ultimi tre anni e indica soluzioni diverse.

Il rapporto è stato consegnato alle autorità italiane, le quali possono rispondere e fare osservazioni. Ma di un lavoro di integrazione non c´è traccia. I tre relatori, Jean-Pierre Adam e Alix Barbet, archeologi con una ricca bibliografia pompeiana, e Christopher Young, una lunga esperienza di gestione presso il World Heritage Centre, rilevano come sia fondamentale per Pompei un lavoro capillare e programmato di manutenzione e restauro. Le strutture tecniche, aggiungono, vanno rinforzate e non svuotate come sta accadendo (709 unità nel 2004, 505 ora: depauperati il settore dei restauratori e le fasce intermedie, quelle che svolgono il monitoraggio). Parole sferzanti i tre relatori dedicano all´entertainment archaeology, l´ossessione per la valorizzazione del sito con mezzi virtuali, verso la quale sono stati dirottati molti fondi durante la gestione commissariale, che tanto stava a cuore all´ex ministro Sandro Bondi. Pompei, si legge nel documento, non ha bisogno di «theatrical presentation»: Pompei «naked in all its glory is enough» (Pompei, nuda nella sua gloria basta a se stessa). In sostanza l´Unesco chiede che si torni al piano avviato nel 1997, soprintendente Pier Giovanni Guzzo, messo da parte nel 2008.

Il rapporto, poi, segnala il caso dell´Herculaneum Conservation Project - l´organismo finanziato dal magnate americano David Packard, che da dieci anni opera a Ercolano, dove ha speso 16 milioni - come esemplare di una buona relazione fra pubblico e privato. Peccato, però, che la collaborazione fra la Soprintendenza, la direttrice degli scavi, Maria Paola Guidobaldi, e gli studiosi guidati dall´archeologo Andrew Wallace-Hadrill e dall´architetta Jane Thompson, entrambi inglesi, non goda di molte attenzioni al ministero. Anzi, sia trascurata fino a irritare i vertici dell´Herculaneum Conservation Project, mettendo a rischio la loro permanenza a Ercolano.

Un brutto colpo per i Beni culturali. Che arriva mentre per Pompei si vara un piano di 105 milioni di cui si sa ancora poco. Sono previste sofisticate indagini geologiche (8 milioni) che il preside della facoltà di Architettura di Napoli 2, Carmine Gambardella, sostiene di aver già compiuto e aggiunge di poterle offrire gratis. Il piano di interventi sul campo, invece, è stato stilato dalla Soprintendenza e delinea operazioni di manutenzione e il restauro di 39 domus. Ma le assunzioni di nuovo personale sono incerte (si parla di una trentina di persone, ma non sono chiari i profili professionali). A Pompei si ipotizza anche che un gruppo di imprenditori francesi finanzi progetti di restauro (le trattative sono ancora in corso). Mentre fuori delle mura c´è il rischio di una cementificazione alla quale sarebbero interessati imprenditori napoletani: un piccolo comma prevede interventi in deroga alle norme urbanistiche. E, quasi lo presagissero, gli esperti Unesco raccomandano di mantenere integre le visuali dentro e fuori gli scavi (su questo c´è un allarmato intervento di Italia Nostra).

La situazione non è gravissima, dicono gli estensori del rapporto, che suggeriscono quindici raccomandazioni. Fra queste, insistere con il lavoro che l´Herculaneum Conservation Project sta realizzando a Ercolano ed estenderlo altrove. Packard scansa i riflettori e non vuole ritorni d´immagine. Non è uno sponsor classico come Diego Della Valle al Colosseo. In compenso mette a disposizione uomini, competenze e soldi per fare manutenzione e restauri. Il lavoro è svolto fianco a fianco con gli archeologi e gli architetti del posto. Con loro, insiste Wallace-Hadrill, si sperimenta un metodo di gestione del sito che, una volta concluso il progetto, le strutture pubbliche possano poi proseguire. Ma con quali mezzi e con quali risorse, se entrambe scarseggiano? Wallace-Hadrill cita preoccupato la decisione di stornare da Pompei il 25 per cento dei suoi fondi per dirottarli altrove.

Ercolano trae grandi benefici dalla cura Packard. Ma in questi giorni è stato ingaggiato un braccio di ferro con i vertici del ministero. Motivo: il finanziamento con poche decine di migliaia di euro, di Fasti Online, l´archivio elettronico degli scavi compiuti in tutto il mondo sostenuto da Packard e dal ministero. Che ora potrebbe non metterci più un soldo, irritando ulteriormente Packard.

La Repubblica

Una pietanza indigesta

di Roberto Rho

La variante che consentirà ai futuri proprietari dei terreni dell’Expo di costruire su oltre 400mila metri quadrati (quasi metà dell’intera area) con un indice di edificabilità pari a 0,52 metri quadrati di cemento per ogni metro quadrato e che, sulla base di questi coefficienti, moltiplica il valore di quei terreni acquistati dagli attuali proprietari come terreni agricoli, era una pietanza indigeribile quando a servirla erano Letizia Moratti e Roberto Formigoni e non ha cambiato sapore oggi che in fondo al menu c’è pure la firma di Giuliano Pisapia.

Davvero non si poteva intervenire per modificare quell’accordo, che è il fiocco sul pacco regalo da diverse decine di milioni di euro per i Cabassi e per Fondazione Fiera, e che – chiunque ne sia il proprietario – dopo il 2015 affollerà di palazzoni alti e invadenti quelle terre alle porte di Milano? Davvero non c’era qualche mese di tempo per studiare una soluzione migliore, dopo che per tre anni e mezzo i signori del Bie si sono bevuti senza fare una piega le menzogne e le eterne promesse non mantenute della Moratti, inzuppate con i veleni della sorda guerra di potere tutta interna alle amministrazioni di centrodestra?

La giunta Pisapia, che ha dimostrato coraggio scegliendo di fermare e riavvolgere il nastro del Pgt per ascoltare e discutere le osservazioni dei cittadini cestinate dalla Moratti, nel caso dell’Expo ha deciso di deglutire tutto d’un colpo, senza neppure rimasticarlo, il boccone immangiabile cucinato dall’ex sindaco e, soprattutto, da Formigoni. Che è già oggi il dominus incontrastato dell’Expo.

Dice Pisapia che il Comune metterà «paletti fortissimi», che «intende salvaguardare il territorio da qualsiasi tipo di speculazione edilizia», che nella governance della società proprietaria dei terreni (Arexpo) «i soggetti istituzionali dovranno avere quote uguali per avere nella governance le stesse possibilità di intervento». Ma al di là delle buone intenzioni, che non sono in discussione, dopo la firma dell’accordo di programma e la sua approvazione in giunta (oggi) e in Consiglio comunale, il sentiero per evitare che il dopo-Expo si trasformi in una colossale operazione immobiliare diventerà strettissimo e tortuoso. Per non dire impraticabile.

Formigoni – che questa soluzione ha fortemente voluto, a costo di grigliare la Moratti per mesi – ha ormai in mano tutte le leve. Partecipa alla società Expo 2015, che gestirà l’evento. Presiede il tavolo infrastrutture, con una dotazione superiore alla decina di miliardi di euro. Partecipa alla società che sta acquistando i terreni dai Cabassi e, comunque vadano le cose, resterà il socio dominante. Per due ragioni. Alla quota della Regione, quale che ne sia la dimensione, si sommerà di fatto quella della Fondazione Fiera: è pur vero che Cantoni (berlusconiano) non è Roth (appendice del governatore), ma l’infrastruttura dirigenziale della Fondazione risponde a Formigoni, e comunque la Fondazione ha interesse a massimizzare il reddito del suo investimento. La seconda: tra gli azionisti di Arexpo (così come di Expo 2015) Formigoni è l’unico che ha fieno (soldi) in cascina. In Comune c’è aria di carestia, in Provincia già muoiono le vacche.

Il resto è appeso alle nuvole. Quale società immobiliare, potendo costruire con un indice di 0,52 (più o meno lo stesso che il Pgt morattiano prevedeva come media per le nuove aree di sviluppo urbano) si accontenterebbe di meno? Quale soluzione consentirà un più facile realizzo delle plusvalenze (350-400 milioni) previste dal piano d’investimento? Una bella infilata di palazzi residenziali o commerciali, oppure un insediamento immobiliare destinato a funzioni pubbliche? L’ipotesi del centro di produzione Rai, ventilata ancora ieri, è realistica? Quali sono le alternative? E che ne sarà del grande parco agroalimentare, già decurtato di orti e serre a vantaggio dei padiglioni?

Comunque la si rigiri, incrociare il percorso imboccato da Regione e Comune con quello indicato dai risultati del referendum di metà giugno, nel quale 470mila milanesi hanno esplicitamente chiesto che l’area Expo non sia cementificata e che il parco agroalimentare resti in eredità alla città, pare veramente una scommessa temeraria.

Corriere della Sera

Pisapia firma per Expo, la sinistra lo attacca

di Andrea Senesi

Almeno su una cosa, tutti d’accordo: «È il passo della svolta» . I cantieri apriranno in ottobre, la corsa contro il tempo è scattata. L’accordo di programma farà nascere un parco pubblico da 400 ettari («Il più grande d’Europa» , secondo i protagonisti dell’accordo), «che s’estenderà sul 56 per cento delle aree a disposizione» . Ma anche un nuovo quartiere residenziale con un indice di edificabilità piuttosto alto: 0,52. «Senza questa firma avremmo affossato Expo» , spiega Pisapia. Che davanti a telecamere e taccuini difende la «linea» e rassicura: «Non ci saranno né speculazioni né colate di cemento» . A Palazzo Marino la speranza è che la partita, quella vera, inizi con la costituzione della società che acquisirà i terreni e nella quale il Comune avrà una quota identica a quelle della Regione, con un significativo potere d’interdizione (la Provincia entrerà invece con una quota molto bassa, inferiore al cinque per cento). Roberto Formigoni rivendica il (lungo) percorso fatto.

La scelta della newCo al 100 per cento pubblica («I privati li abbiamo tenuti fuori dai piedi, più di così?» ), soprattutto. E però, con buona dose di realismo, il governatore disegna pure uno scenario post 2105 non esattamente «bucolico» : «Oltre al grande parco urbano nascerà un nuovo quartiere. D’altra parte dovremo pur rientrare dagli investimenti sostenuti?» . Il rischio, spiega il governatore, è quello di Torino, che dopo le sue Olimpiadi si è svegliata con le casse pubbliche vuote. Stamani la giunta di Palazzo Marino è chiamata a ratificare l’accordo. In sofferenza, oltre agli assessori della sinistra radicale, c’è Stefano Boeri, che oggi potrebbe addirittura rimettere sul piatto le deleghe ad Expo, conservando invece quelle alla Cultura. La battaglia si trasferirà poi in aula, lunedì 25 luglio. Lì i malumori della sinistra radicale e di parte del Pd si faranno sentire. L’antipasto è però tutto nelle primissime reazioni alla notizia dell’accordo firmato.

I referendari sono i più delusi. Secondo il radicale Marco Cappato, per dire, «mancano garanzie contro la speculazione» . Del tutto analoga la posizione di Edoardo Croci, ex assessore alla Mobilità della giunta Moratti e presidente del comitato per i referendum milanesi. «Oltre all’elevato indice di edificabilità, costituisce un elemento di preoccupazione l’indeterminatezza del piano complessivo sul futuro dell’area, per quanto riguarda la tipologia degli insediamenti e la distribuzione dei volumi» . «Preoccupato» anche Antonello Patta, della Federazione della Sinistra: «Se lo 0,52 fosse realizzato, rappresenterebbe una gigantesca speculazione rispetto ad un'area agricola dal valore dieci volte inferiore a quanto convenuto. Ma anche prendendo come buono il valore delle aree definito dall’agenzia delle entrate, un indice intorno allo 0,15 sarebbe stato più che sufficiente a remunerare il valore stabilito per i terreni di 120 milioni» .

Il sindaco incassa invece in serata il sostegno a distanza di Nichi Vendola: «Sta resuscitando il cadavere di Expo» Sul fronte opposto, «stuzzica» il capogruppo della Lega Matteo Salvini: «Pisapia inganna i cittadini. Che fine hanno fatto gli ambientalisti e i loro referendum?» . La discontinuità c’è, assicura Pisapia. Per i risultati raggiunti, non fosse altro: «La Moratti per tre anni ha litigato, noi in un mese abbiamo fatto partire Expo» . Chiusura affidata a Diana Bracco, presidente della società che gestirà l’appuntamento del 2015: «Con la firma di oggi , Expo non è più un sogno. È un fatto» .

Il Sole 24 Ore

«In agosto partono le gare Expo»

di Attilio Geroni

Expo 2015 al giro di boa? Giuseppe Sala, manager, amministratore delegato della società di gestione dell'evento internazionale, ne è convinto. Soprattutto dopo la firma (si veda l'articolo a fianco) dell'Accordo di programma, che formalizza il conferimento dei terreni alla newco Arexpo: «Una questione, quella dei terreni – ammette Sala in questa intervista al Sole 24 Ore – che in passato ha dato qualche mal di pancia ai funzionari del Bie, ma la cui soluzione ci permette di passare finalmente alla fase operativa».

Ed è fatta di numeri inediti – date e impegni finanziari – questa fase che prenderà il via in agosto, più o meno in linea con i tempi sollecitati dal segretario generale del Bureau International des Exposition, Vicente Loscertales. Aveva chiesto entro luglio, in tono più o meno perentorio, quand'era venuto in visita nei giorni scorsi a Milano, per l'avvio delle prime gare. Stavolta ci siamo, giorno più giorno meno: il "d-day" per il passaggio dalla fase di una gestazione faticosa a quella dell'operatività è stato fissato. E non solo quello.

Dottor Sala, la suspence eterna sui terreni è finita, almeno quella. Siete pronti a partire con le gare, come richiesto dal Bie?

Siglato l'Accordo di programma entriamo nel vivo della fase operativa di Expo 2015. Da qui a fine anno abbiamo preparato tre momenti fondamentali. Il primo è fissato per il 5 agosto, giorno in cui, ufficialmente, pubblicheremo la prima gara, quella sulle interferenze, per un valore complessivo di 91 milioni. Pensiamo che l'assegnazione possa arrivare ai primi di ottobre. Dopodiché, il 25 dello stesso mese, in concomitanza con l'International Participant Meeting che si terrà a Milano con i Paesi aderenti all'Expo, organizzeremo una cerimonia simbolica di posa della prima pietra. Quel giorno daremo formalmente il via ai lavori di Expo 2015. Terzo momento importante, entro la fine di novembre, quando lanceremo la seconda gara, da 310 milioni.

È la gara per la realizzazione della piastra, di tutto ciò che riguarda i lavori di superficie e i servizi collegati, quindi sistemi energetici e tecnologici, per preparare la piattaforma sulla quale poggeranno le strutture.

Il calendario è impegnativo e soprattutto in passato si è spesso avuta l'impressione di un certo affanno nel rispettare i tempi. Cosa la porta a dire, oggi, che Expo 2015 rispetterà i tempi?

Prima di tutto il nostro piano di lavoro, tarato per farci arrivare all'Expo nei tempi giusti. Poi il fatto che gran parte delle architetture che vedremo saranno architetture leggere: molte opere, una volta chiuso l'evento, saranno smontate. L'aspetto più complesso è nella preparazione della base, della cosiddetta piastra, ma anche lì non dobbiamo pensare a opere mastodontiche da un punto di vista infrastrutturale.

Nota: per farsi un'idea, la Variante Urbanistica disponibile sul sito del Comune di Milano (f.b.)

Claudio Lotito ha parlato chiaro: il Colosseo sarà il nuovo marchio della sua Polisportiva Lazio. Temo che Lotito non legga molto i giornali. Un suo diretto concorrente, il patron della Fiorentina Diego Della Valle, re delle scarpe, lo ha largamente preceduto stringendo col commissario straordinario (eterno?) all’archeologia di Roma e di Ostia, Roberto Cecchi, un contratto di sponsorizzazione, che riserva per quindici anni il marchio del Colosseo a lui. Che, inoltre, potrà stampigliare il proprio logo aziendale sugli oltre 5 milioni di biglietti annuali. In quindici anni, coi prevedibili incrementi, 80-90 milioni. Souvenirs che andranno in tutto il mondo. Il marchio Tod’s campeggerà pure sui tendoni di 2 metri e 40 che nasconderanno i restauri, non brevi. A fronte di 25 milioni di euro, il Ministero apparecchia una ricco set di ritorni pubblicitari.

Della Valle, alla conferenza-stampa, è stato molto corretto: “Noi non facciamo beneficenza”. Cioè questa non è una donazione liberale. Poi – forse per l’assenza quasi totale di rilievi critici sulla convenzione genuflessa predisposta dal MiBAC – è montata l’euforia. Al convegno organizzato in materia al Teatro Argentina la responsabile di Confculture (Confindustria), Patrizia Asproni è partita bene: “Noi siamo imprenditori e vogliamo fare profitti. Della Valle prima investiva nello sport, ora nel Colosseo. Lo sport non ha più appeal a causa della corruzione e del doping”. Poi ha calato l’asso di bastoni: “Sono stanca del Ministero per i Beni e le Attività culturali. Non ne abbiamo più bisogno. Il patrimonio culturale del Paese deve entrare nella competenza del Ministero dello sviluppo economico”. Insomma, è la redditività dei beni culturali a dettare l’agenda. Non più la ricerca: scientifica, artistica, archeologica. Non più il valore “in sé e per sé” della cultura. I professori studino pure; priorità e usi spettano al profitto. E la tutela del patrimonio? Un bel fastidio, oggettivamente. Roba da “talebani della tutela”, come disse Andrea Carandini nel sostituire (in 4’) Salvatore Settis, dimissionario, alla presidenza del Consiglio Superiore dei Beni Culturali.

L’operazione-Colosseo come modello per l’ingresso in forze dei privati nei beni culturali? Un po’ di milioni versati a fronte di “esclusive” pluriennali per l’utilizzo fotografico, televisivo, commerciale, ecc. In qualche caso – vedi Palazzo delle Esposizioni e Scuderie del Quirinale (ne ha parlato ieri il “Corriere della Sera” nella pagine romane) – si accenna a far gestire a privati quegli spazi pubblici restaurati con ingenti fondi statali e comunali, Per sdemanializzarli e rinsanguare le esauste casse municipali? Forse. Riecco due spettri: a) la Patrimonio SpA di Tremonti creata per dismettere edifici pubblici anche di pregio storico; b) la privatizzazione dei musei avanzata da Giuliano Urbani, sommerso dall’unanime sollevazione dei direttori di musei del mondo intero.

Della Valle aggiunge: “Speriamo di dare presto notizie concrete di restauri anche a Pompei, Venezia, dove bisogna pensare al Canal Grande, e di un grande intervento anche a Firenze. Voglio fare un bel regalo al sindaco Renzi”. Sino a ieri la famiglia era molto interessata al business del nuovo Stadio, condizione essenziale per tenersi la Fiorentina, e già sull’area prescelta s’erano accese fiere polemiche. Aspettiamo e vediamo ‘sto regalo. In questi giorni è riemersa una parola magica: mecenatismo. Qui bisogna chiarirsi le idee: queste sono sponsorizzazioni con un chiaro profitto privato sotto forma di ritorno di immagine; il mecenatismo è altra cosa. Lo si può capire con una gita ad Ercolano. Qui opera da anni la donazione di David W. Packard, dell’omonimo gigante dell’informatica. Che, in silenzio, finanzia, attraverso la Packard Humanities Insititute, manutenzione ordinaria e straordinaria di quel magnifico sito, sulla base di un’intesa progettuale con l’ottimo soprintendente del tempo, Piero Guzzo (lo stesso messo in croce a Pompei da un commissariamento che ha stravolto il grande teatro romano, ed ora in pensione). Sono state ripristinate le fogne e le canalizzazioni della città antica.

Packard – come ha scritto Francesco Erbani su “Repubblica” – è il figlio del fondatore dell’azienda, viene da studi classici e si è fidato in pieno degli archeologi a cominciare da Guzzo, lavorando con loro (e non con pretesi manager) a sbrogliare l’intrico burocratico al fine di riparare subito i danni, sempre gravi nelle città antiche, prodotti dalle acque piovane che ruscellano dai tetti, o dal guano dei piccioni, oppure dagli scarichi intasati sottoterra da materiali remoti. E’ stato messo norma l’impianto elettrico dando ad Ercolano una efficiente illuminazione notturna. Senza contropartite? Esatto. Questo si chiama mecenatismo.

La Repubblica

Se sui campi dell´Expo nascerà solo cemento

di Carlo Petrini

L’hidalgo Vicente Loscertales, segretario generale del Bie in visita a Milano qualche giorno fa, avrebbe «messo una pietra tombale» sul masterplan dell’Expo 2015, il progetto che contemplava tanti orti e altri esempi di produzioni alimentari per rappresentare la biodiversità globale e come si nutre il Pianeta. «No a una ripetizione di campi», ha detto. Ha usato queste parole: «Non è per vedere tanti orti tutti uguali che 150mila visitatori al giorno pagheranno un biglietto. Le distese di melanzane sono uguali in Italia o in Togo. Il tema di Expo, "Nutrire il Pianeta", è più complesso: per vivere serve più di un orto, non vuol dire che dobbiamo essere tutti vegetariani». Detto da uno che si è sempre occupato di cooperazione internazionale e ha approvato il tema con cui Milano ha vinto l’Expo a Parigi nell’ormai lontano 2008 suona come una rivelazione d’incompetenza, sufficienza e ignoranza colossale.

Non aver capito niente del masterplan dopo così tanto tempo è sconcertante, ma bisogna prenderne atto. Siccome al Bie l’unica cosa che interessa sono le royalties che prenderanno su ogni biglietto staccato durante l’Expo, è chiaro che la sua visionarietà - e quella di tutti coloro che gli sono andati dietro sottoscrivendo la sua pochezza - si riduce a quello: pecunia. Ciò che ha guidato sin qui ogni mossa, ogni parola, ogni intendimento lasciando la macchina organizzativa senza uno straccio d’idea su come si farà questa imponente manifestazione. E i tempi stringono come non mai.

«Bisogna dare un’accelerata», dicono, e infatti nel mese di luglio consiglio comunale e giunta milanese dovranno fare alcuni passaggi decisivi e molto delicati per quei nuovi equilibri politici che hanno fatto sognare molti milanesi nel dopo-elezioni. L’area dove sorgerà l’Expo, a meno di quattro anni dalla manifestazione, è ancora in mano ai privati. Il Comune dovrebbe cambiare l’indice di edificabilità, perché altrimenti il prezzo sarebbe quello agricolo: si propone un indice che calcolato sugli ettari totali darebbe origine, nel dopo-Expo, o a una piccola Manhattan (se edificata in altezza) o alla costruzione su tutta l’area di un nuovo quartiere. Peccato che questo vada contro la volontà dei cittadini, che si sono espressi con un referendum che parla chiaro: i milanesi lì sopra ci vogliono un parco agroalimentare e la salvaguardia dalla cementificazione. La patata in mano al consiglio comunale non è bollente, di più. I contratti vanno fatti adesso perché le ruspe dovranno entrare in azione a ottobre.

Questa fretta nel decidere e le casse vuote del Comune non sono imputabili ai nuovi eletti. Perché dovrebbero digerire la polpetta avvelenata di una becera speculazione che non rappresenta il nuovo corso milanese? Intanto, gli abitanti di Milano stanno iniziando a mobilitarsi. È difficile prevedere cosa succederà, ed è anche comprensibile che nessuno stia paventando di lasciar perdere l’Expo (cosa che pur avrebbe i suoi perché): sarebbe una sconfitta politica e sarebbe come dire che ci sono soltanto due alternative, le speculazioni edilizie o il nulla. La terza via invece c’era sin dall’inizio, e non era soltanto un orto. Un parco complesso come complesso è il tema che si è data la manifestazione, un nodo cruciale per il futuro di tutto il Pianeta. Era l’occasione unica per l’Expo di diventare qualcosa di nuovo in un mondo che ha bisogno di nuovi paradigmi. Si è persa l’occasione per mobilitare grandi masse di giovani e meno giovani per interrogarsi sulla domanda crescente di cibo, sul cambiamento del clima e sull’avanzare delle zone aride, sulla sicurezza alimentare, sul complesso rapporto città-campagna; tutto questo non in una dimensione bucolica o poetica, ma con il pieno coinvolgimento della piccola produzione, dell’artigianato e dell’industria alimentare. Chiamando in causa anche il mondo della ricerca, delle nuove tecnologie, e garantendo comunque quel piacere alimentare che tutte le comunità del mondo hanno saputo esprimere nei secoli. Questo era l’Expo da auspicare, che avrebbe fatto di Milano un laboratorio del futuro.

Ma sono mancate la politica, la cultura, il progetto, il coraggio, e con il falso pragmatismo che chiede di costruire una kermesse turistica e intanto si sono persi il tempo e il sogno. L’Expo è così diventata una mastodontica macchina invecchiata su se stessa, valida per le masse cinesi, ma che ha perso da decenni la capacità di essere fulcro d’innovazione.

Giunti a questo punto, chiederei che almeno cambino il tema e che ognuno faccia il suo mestiere. Perché c’è spazio per un grande progetto politico nella nuova Milano, partendo dall’agricoltura periurbana di questa grande città, per poi guardare al mondo nel 2015 con una grande chiamata alle reti di donne, giovani, contadini e cittadini che rivolgono lo sguardo a un futuro basato su un concetto di alimentazione che rispetti la terra e i suoi figli. Il giocattolo Expo sarà altra cosa e, viste le figure che stanno facendo mentre il tempo passa e resta un vuoto colossale d’idee, la figura da peraccottai diventerà presto globale. Quella sì, è uguale in Italia come in Togo.

La Repubblica

Pisapia firma l’Expo della Moratti

di Alessia Galione

La firma all’accordo urbanistico di Expo verrà firmato oggi: nella variante c’è lo stesso indice e la stessa quota di costruzioni (400mila metri quadrati) già previste ai tempi della giunta Moratti. Il Pdl esulta: «Scelta la continuità». Basilio Rizzo annuncia, se non ci saranno cambiamenti, un voto contrario. Ma è proprio sull’eredità del 2015 che Giuliano Pisapia inizierà la vera trattativa anche attraverso le quote della newco: «L’importante - dice il sindaco - è che la maggior parte dell’area resti verde». Il Pd presenterà un ordine del giorno per limitare l’impatto del cemento.

E a siglare il verbale conclusivo del documento che darà il via libera alla trasformazione dei terreni di Rho-Pero e ai cantieri del 2015 saranno tutti i protagonisti della partita: da Palazzo Marino alla Regione, dal Comune di Rho alla Provincia fino alle Poste. È il passo atteso, dopo l’ultimatum del Bie, per far partire la macchina dell’Esposizione, sbloccare le gare e permettere l’arrivo (a ottobre) delle ruspe su quel milione di metri quadrati.

Eccolo, il documento atteso che oggi verrà siglato e che, domani, dovrà essere votato dalla giunta comunale per poi (entro 30 giorni) sbarcare in Consiglio per l’approvazione finale. «Arriva a termine un altro percorso essenziale per la realizzazione di Expo - dice il presidente della Regione Roberto Formigoni - l’accordo è forte, solido e va nella direzione giusta». In tutto sono 35 pagine di articoli e premesse e 11 allegati tra cui uno fondamentale: è la variante urbanistica che rende edificabile il milione di metri quadrati oggi agricoli e mette le basi per «la riqualificazione dell’area successivamente allo svolgimento dell’evento». Ed è proprio attorno a questa variante che si è giocata e si giocherà una battaglia politica. Impossibile, dicono da Palazzo Marino, cambiarla in corsa: troppo il pericolo di bloccare tutto l’Expo. Anche se la corsa non è finita qui. Ma cosa si prevede per il post-2015? Quando i padiglioni verranno smontati, su quell’area si potrà costruire sfruttando un indice di edificabilità di 0,52 metri quadrati su metro quadrato: in tutto oltre 400mila metri quadrati, senza contare gli edifici dell’Esposizione permanenti. Le costruzioni non potranno essere distribuite sull’intera superficie, ma il 56 per cento dei terreni dovrà essere mantenuto a verde. Contenuti identici a quelli studiati dalla giunta di centrodestra, sottolinea l’ex assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli: «È una decisione positiva di continuità con il passato. Finalmente un passo indietro dell’estrema sinistra e di Boeri». Anche l’ex sindaco Letizia Moratti lo sottolinea non senza un fondo polemico: «Vuol dire che avevamo fatto le cose per bene». Dal Pd, la capogruppo in consiglio comunale Carmela Rozza in questo momento punta però sull’importanza di non bloccare il percorso verso il 2015: «La strada maestra è fare in modo che Expo parta il prima possibile perché sono stati già persi tre anni», dice. Ma, dopo la giunta che si riunirà domani per dare il via libera all’accordo, la discussione è destinata a spostarsi in Consiglio.

Il documento che verrà siglato oggi nella sede di Expo è considerato da tutti il passo concreto verso le gare e le ruspe. All’interno si cita anche la newco che dovrà acquisire i terreni e si mettono le basi dell’interno percorso. A vigilare su impegni e accordi sarà un "Collegio di vigilanza" presieduto dal sindaco Giuliano Pisapia che potrà apportare anche modifiche in corso. A firmare sarà anche il neo sindaco di centrosinistra di Rho, Pietro Romano. Che esprime la soddisfazione per una serie di nodi - dalla viabilità ai parcheggi - che si sono sciolti. «Sono state rispettate le condizioni che il territorio aveva richiesto», dice. E sulla variante urbanistica: «Non c’era più tempo per cambiarla, ma la vera partita sul dopo-Expo si giocherà successivamente attraverso la newco».

Pisapia gioca l’ultima carta "Nella newco la vera trattativa"

Si giocherà tutta sul post-2015 la partita di Expo. Su quanto cemento colerà sul milione di metri quadrati di Rho-Pero e, soprattutto, su cosa verrà realizzato dopo che i padiglioni verranno smontati. Perché è quello il nodo centrale attorno a cui ruotano anche tutti i dubbi e i tormenti di pezzi importanti del centrosinistra. E perché è lì, sull’eredità che l’Esposizione dovrà lasciare la città, che Giuliano Pisapia punterà per lanciare un segnale di discontinuità rispetto alla giunta Moratti. Un tentativo di migliorare tutto quello che si potrà migliorare, salvaguardando il parco e vincolando il futuro a una funzione pubblica per tutta la città. Che viene affidato, però, a due passi successivi rispetto all’accordo di programma che verrà firmato oggi: il voto in consiglio comunale e, soprattutto, le trattative all’interno della società a maggioranza pubblica che acquisirà le aree. Ed è proprio la newco la vera chiave per decidere le sorti di Expo.

Alla fine è toccato al sindaco, ieri pomeriggio, scandire una rassicurazione politica sullo sviluppo dell’area. Un messaggio che Giuliano Pisapia ha voluto dare alla sua maggioranza che avrebbe voluto un cambiamento più profondo sulla variante urbanistica avviata dalla Moratti. È toccato a lui ribadire: «L’importante è che la maggior parte delle aree resti a verde: una quota dal 52 al 58 per cento, come hanno chiesto i milanesi con il referendum e come dicono le linee politiche dell’attuale maggioranza». La promessa di una discussione (futura) sulla quantità di costruzioni del post 2015: quello 0,52 previsto nell’accordo «è un indice massimo, ma non significa che sarà quello utilizzato». Sarà oggetto di trattative all’interno della newco. Perché, spiega ancora Pisapia, «chi ha la proprietà dei terreni farà le valutazioni sugli indici di edificabilità». Ed è per questo che sarà importante «avere lo stesso potere di veto» degli altri soggetti. Affidata al futuro è anche la decisione su cosa potrà essere costruito dopo: nell’accordo si parla di 30mila metri quadrati - su 400mila - di housing sociale. Ma per il resto? Arriverà la Rai? Torneranno in ballo le ipotesi di trasferimento dell’Ortomercato e della Cittadella della giustizia?

Parole necessarie, quelle del sindaco. Perché i dubbi del centrosinistra hanno tormentato un’altra vigilia di Expo. Il presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo lo dice chiaramente: «Se l’accordo è quello del sindaco Moratti contro cui mi ero battuto, non penso che potrò cambiare opinione. Spero che si possano introdurre cambiamenti significativi perché non possono nascere operazioni speculative». In pratica: se sull’area arriverà un quartiere residenziale di lusso, lui non voterà l’accordo. Ma anche il Pd, con in testa Stefano Boeri, da tempo sta cercando margini di miglioramento. Un piano che la giunta Pisapia ha ereditato e che sembrava impossibile bloccare senza paralizzare gare e cantieri. Con un’unica via d’uscita per il sindaco: puntare le carte su passi successivi. Si inizia dal consiglio comunale, dove il Pd presenterà un ordine del giorno che impegnerà politicamente la giunta a vincolare lo sviluppo futuro a una funzione pubblica, riducendo il più possibile l’indice edificatorio.

La Repubblica

Ermolli: niente rischi per il 2015 ma bisogna comunicare meglio

intervista a Bruno Ermolli della Camera di Commercio,

di Andrea Montanari

Bruno Ermolli, presidente di Promos, l’azienda speciale della Camera di Commercio, e uno dei consiglieri più ascoltati da Silvio Berlusconi, coglie l’occasione della conferenza euro-araba sulle piccole e medie imprese, per fare il punto su Expo 2015.

Presidente Ermolli, il Bie di recente ha lanciato una sorta di allarme. Bisogna nominare un nuovo commissario?

«In politica preferisco sempre non entrare. Esiste una società di gestione. Però, se c’è stato prima un commissario, o era inutile e io non credo o è utile anche oggi. Il fatto che ci sia è benvenuto. Perché dovrebbe avere dei poteri per accelerare ciò che è ritenuto indispensabile».

Il Bie, però, per la prima volta sembra preoccupato.

«Non siamo in ritardo. Andiamo a vedere che cosa è successo in Cina. Abbiamo iniziato a dire che eravamo in ritardo quasi a sette anni data. Poi a sei, a cinque. In realtà, è un discorso sistemico. Se c’è una progettazione esecutiva estremamente chiara la realizzazione fisica si fa in un anno e mezzo come a

Shanghai. Noi magari ce ne metteremo due e mezzo, ma non precipitiamo».

Parigi dice che le prime gare devono partire entro luglio.

«È una deadline che viene posta dal Bie e dobbiamo rispettarla. Ma in chiave organizzativa non siamo in ritardo».

Vede dei rischi?

«C’è la necessità di comunicare di più e meglio. Bisogna far metabolizzare l’importanza dell’organizzazione di un’Expo di questo genere ai milanesi e poi se possibile al resto degli italiani. Non si tratta solo di una grande fiera, ma di una grandissima occasione di vetrina per tutte le nostre eccellenze che possono essere presentate al mondo in un modo molto più facile».

Che cosa intende dire?

«Ci si sofferma sempre sul numero dei visitatori, ma è l’indotto quello che conta. La ricaduta che potrà avere. Le imprese che potranno nascere».

Per esempio?

«L’alimentazione italiana è salubre. Se la paragoniamo a quella statunitense ci rendiamo subito conto che la nostra sembra quasi predisposta da un dietologo. In questo campo noi possiamo diventare ufficialmente i leader nel mondo. È un’occasione da cogliere. Altro esempio. Abbiamo una Milano inquinata. Con i nove tavoli spontanei che abbiamo organizzato abbiamo coniato lo slogan Milano come Saint Moritz nel 2030. Ci sono dei brevetti che non sarebbero mai nati se non ci fossimo posti il problemi di come sarà il traffico all’epoca di Expo. A2A si è addirittura fatta coinvolgere in un progetto per produrre di aria pulita. Queste sono le ricadute. Invece si continua solo a parlare del resto».

Cioè?

«Ora che la vicenda dei terreni è stata risolta, bisogna concentrarsi su come saper cogliere tutte le ricadute economiche e culturali dell’Expo».

Corriere della Sera

Continuità per Expo Ma la sinistra critica Pisapia

di Andrea Senesi

L' ex sindaco Letizia Moratti lo dice con una punta di perfidia: «Stanno per firmare un accordo di programma che ricalca gli impegni presi dalla mia amministrazione. Evidentemente non abbiamo lavorato così male» . La firma è attesa per stamani alle nove in via Rovello, la sede della società Expo 2015.

L’accordo che le parti sottoscriveranno e che servirà a modificare la destinazione d’uso dei terreni di Rho-Pero prevede certo la realizzazione del grande parco urbano da 800 ettari, ma allo stesso modo mette nero su bianco la quantità di volumetrie da edificare dopo l’evento del 2015. Con l’indice dello 0,52 come tetto massimo.

«Expo non si può fermare, gli impegni presi davanti al Bie vanno rispettati» , è la linea scelta da Palazzo Marino. Dove però si conta di modificare in corso d’opera alcuni contenuti del protocollo. Anche perché dietro la firma di stamani si nasconde una vigilia di tensioni, anche all’interno del Pd. Alla fine il compromesso raggiunto è che si lavorerà in Consiglio per emendare alcune passaggi dell’accordo. Il presidente dell’aula, Basilio Rizzo (Federazione della Sinistra), mette però le mani avanti: «Se fossero confermati i contenuti di aprile, io per coerenza non potrei votare la delibera» . Il sindaco Giuliano Pisapia preferisce invece mettere l’accento sulla futura governance della società che acquisirà i terreni.

Conferma che il Comune entrerà con una quota di minoranza, tra il 25 e il 33, ma sottolinea l’opportunità di ottenere dagli altri soci un significativo potere di veto all’interno della newCo. «Noi lavoriamo per avere lo stesso potere di veto degli altri soggetti su qualsiasi decisione, indipendentemente dalla percentuale di partecipazione nella società» . Lo strumento per ottenere il potere di veto, ha aggiunto ieri Pisapia a margine del Consiglio comunale, «possono essere patti parasociali, così come accordi sulla governance» . Anche il neocapogruppo del Pdl (ed ex assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli) plaude però alla scelta dell’amministrazione Pisapia: «Finalmente un passo indietro dell’estrema sinistra e di Boeri. Siamo contenti che si sia scelta la continuità con il passato» .

Expo 2015, Elio scrive a Pisapia:

“Niente cemento, o si finisce all’inferno”

In un articolo scritto per il Fatto, il cantante degli Elio e le storie Tese invita il sindaco di Milano e Roberto Formigoni a non snaturare il progetto dell'esposizione del 2015 e a realizzare gli orti planetari

Nei prossimi giorni, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, firmeranno l’Accordo di programma per l’Expo. Elio, di Elio e le Storie tese, lancia a Pisapia questo appello: non accetti il cemento, non cada nella trappola che sta snaturando il progetto degli orti planetari per trasformare l’Expo 2015 in affari cementificazione.



Roberto Formigoni andrà all’inferno. Uno come lui, che appartiene a Comunione e liberazione e dice di credere in Dio, deve sapere che la cementificazione è uno dei peccati più gravi che possono essere commessi. Certo, quando sono state scritte le Tavole della Legge, quel peccato non esisteva ancora e non era neppure immaginabile, ma se fossero scritte oggi, le Tavole della Legge, la cementificazione sarebbe uno dei peccati più gravi in assoluto, perché ha conseguenze pesanti sulla vita nostra, dei nostri figli e dei figli dei figli.

Io sono nato in una zona di Milano in cui negli anni Ottanta sono state costruite quattro torri, orribili. Sono ancora lì. E sono vuote. Vogliamo continuare così? L’Expo di Milano 2015 era nato con una idea bellissima: creare degli orti planetari con le coltivazioni di tutto il mondo. Finita l’esposizione universale, sarebbe rimasto alla città un grande parco con le biodiversità del pianeta: una cosa che non esiste in nessuna altra parte del mondo. Ma ora l’Expo si sta invece dimostrando un trucco: prendere aree che oggi sono agricole e trasformarle in aree edificabili, cementificando e costruendo l’equivalente di venti nuovi Pirelloni, il grattacielo di via Melchiorre Gioia detto Formigone, costruito come nuova sede della Regione dopo aver abbattuto il Parco di Gioia, altro grave crimine o peccato.

La volontà dei cittadini milanesi si è espressa in modo molto chiaro nel referendum del 12 e 13 giugno. Oltre ai quattro referendum nazionali, a Milano ce n’erano altri cinque, consultivi, sull’ambiente. Uno di questi chiedeva: volete che resti a parco l’area dell’Expo, una volta finito l’evento del 2015? Hanno vinto i sì. Dunque Formigoni non può andare contro la volontà dei cittadini. I milanesi che hanno espresso la loro volontà in modo tanto chiaro, adesso devono farsi sentire.

Altrimenti continuerà a succedere quello che è successo in questi vent’anni di cattiva amministrazione della città. In questi decenni sono scomparse tante cose che caratterizzavano Milano: la Centrale del latte, la Fiera campionaria… E la Scala? È stata oltraggiata dal restauro. Non è stata restaurata: le hanno aggiunto sul tetto una clinica svizzera. L’anima di una città è fatta di tante cose concrete. Ebbene, la cosa più grave successa a Milano in questi anni è che ha perso la sua anima. E i cittadini hanno così perso il legame con la loro città.

La grandezza della idea dell’Expo era poter fare qualcosa che mostrasse la città com’era, collegandola alla città che sarà. Invece si è passati alla furbata di prendere prati e trasformarli in cantieri e poi in palazzi e grattacieli. Così un’area che valeva uno viene trasformata in un affare che vale mille. Soldi e cemento. Ma chi ci guadagna? Non certo noi cittadini, non certo i nostri figli e i figli dei nostri figli. Allora, milanesi, alzate la voce! Facciamo rispettare la nostra volontà espressa nel referendum. E tu, caro sindaco Giuliano Pisapia, non cadere nel tranello di Formigoni, che ti dice: o fai come dico io, oppure l’Expo non si fa e Milano farà una figuraccia planetaria. Così dicono: o si fa come vogliono loro, o niente. Ma è possibile? Non si riesce davvero a salvare il parco degli orti, o almeno a costruire di meno? Io credo che se i cittadini faranno sentire la loro voce, potremo evitare una nuova, inutile supercementificazione, fatta con la scusa dell’Expo. Formigonideve pensarci, altrimenti l’inferno lo aspetta.

Affaritaliani.it

Aree Expo, la firma dell'accordo. Pd: ormai è tardi per cambiarlo

"L'Expo è una partita in corsa, ormai è tardi per cambiare il programma".Carmela Rozza, capogruppo del Pd o in Consiglio, spiega adAffaritaliani.itla posizione del partito rispetto all'accordo sui terreni Expo firmato da Comune e Regione.

Malumori nel Pd?

"La questione è un'altra: non ci sono i tempi per fare grandi cambiamenti. E' la stessa posizione di coerenza che ho preso anche sul Pgt. L'Expo è un treno in corsa, abbiamo già buttato via tre anni. Oggi non ci sono i tempi per fare le cose come avremmo voluto. Piuttosto che arrivare tardi o non farla proprio si fa avanti così. Poi il Pd abbinerà alla delibera un ordine del giorno dove cercheremo di stabilire degli impegni per la giunta nella fase posteriore al progetto il cui obiettivo sarà il rispetto dell'ultizzo dell'area per una grande funzione pubblica. Cercando di dare un senso migliore. E poi...".

Dica?

"Anche attraverso il Pgt si può cercare di limare l'accordo di programma".

Che cosa pensa dei 400 metri quadrati edificabili?

"Potrebbe farsi housing sociale che è una grande funzione pubblica".



Stessa quota di cemento e stessa percentuale di verde pubblico.

Il sindaco Pisapia e il governatore Roberto Formigoni firmano l'accordo sui terreni dell'Expo. È il passo atteso, dopo l’ultimatum del Bie, per far partire la macchina dell’Esposizione,sbloccare le gare e permettere l’arrivo (a ottobre) delle ruspe su quel milione di metri quadrati. Ma che cosa prevede l'accordo? Dopo l'Expo su quell’area si potrà costruire sfruttando un indice di edificabilità di 0,52 metri quadrati su metro quadrato: in tutto oltre 400mila metri quadrati, senza contare gli edifici dell’Esposizione permanenti. Le costruzioni non potranno essere distribuite sull’intera superficie, ma il 56 per cento dei terreni dovrà essere mantenuto a verde.



Contenuti identici a quelli studiati dalla giunta di centrodestra

Lo sottolinea l’ex assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli: "È una decisione positiva di continuità con il passato. Finalmente un passo indietro dell’estrema sinistra e di Boeri". Anche l’ex sindaco Letizia Moratti lo sottolinea non senza un fondo polemico: "Vuol dire che avevamo fatto le cose per bene".

Malumori a sinistra e nel Pd.

La capogruppo democratica in consiglio comunale Carmela Rozza punta sull’importanza di non bloccare il percorso verso il 2015: "La strada maestra è fare in modo che Expo parta il prima possibile perché sono stati già persi tre anni", afferma. IL presidente dell'Aula Basilio Rizzo (Federazione della Sinistra) non è però dello stesso avviso e mette le mani avanti: "Se fossero confermati i contenuti di aprile, io per coerenza non potrei votare la delibera", precisa. La partita Expo è solo all'inizio.

il Giornale

Expo, Pd e sinistra vogliono demolire l’intesa sull’edificabilità delle aree

Expo? «Abbiamo ancora dei punti di criticità ma io sono convinto che si possano risolvere oggi stesso». Parola di Giuliano Pisapia, alla vigilia della firma dell’accordo di programma sulle aree che ospiteranno la manifestazione del 2015. L’«oggi» di Pisapia era ieri, perché questa mattina in via Rovello è attesa la sigla finale sugli impegni. Promotore il Comune di Milano con Regione, Provincia, Comune di Rho e Poste Italiane spa, aderiscono la società di gestione Expo 2015 e Arexpo, la newco a maggioranza pubblica al momento interamente della Regione. Poi mercoledì il testo arriverà in giunta e infine in consiglio comunale per l’approvazione finale. Ma il tempo promette burrasca.

Così com’è, l’accordo non piace al Pd, che è pronto a dare battaglia in giunta, né al suo assessore Stefano Boeri e neanche alla sinistra radicale. Tutti chiedono modifiche. Basilio Rizzo, presidente del consiglio comunale, annuncia il suo voto contrario: «Se, e sottolineo se, il testo è uguale a quello di aprile della Moratti, io voterò no per coerenza». Il capogruppo del Pdl, Carlo Masseroli, ironizza: «Ho l’impressione che si arrampichino sui vetri inventando soluzioni inopportune. Qualsiasi passo indietro sarebbe fatale per l’Expo».

L’indice edificatorio di 0,52, cioè 400mila metri quadrati edificabili, i 30mila metri quadri destinati all’edilizia privata, i 42 milioni di euro da versare ai Cabassi per l’acquisto delle aree sono i numeri più importanti sul piatto. Pd e Boeri sono a caccia di una soluzione per non cedere su tutta la linea. Il problema riguarda il dopo Expo e la linea Boeri-Pd sarebbe destinare le aree a una funzione pubblica. Tra le ipotesi, il trasferimento dell’Ortomercato e della Facoltà d’Agraria.

Lo 0,52, ovvero l’indice edificatorio, è ritenuto difficilmente modificabile, anche se il referendum ha chiesto di mantenere integralmente il parco agroalimentare dell’Expo. Pisapia dice che si tratta di «un limite massimo, non è detto che sarà quello utilizzato successivamente». Ma se si acquistano le aree dai Cabassi e poi si abbassa l’indice, facendo perdere di valore all’area, si rischia una contestazione da parte della Corte dei conti. Si sta anche valutando di ricorrere alla perequazione, strumento urbanistico che prevede di trasferire altrove il diritto di costruire. In quel caso, però, bisognerebbe indicare l’area in cui si vuole costruire. E sarebbero nuovi guai.

La Repubblica

Verde e nuovi grattacieli un anno per cambiare il Pgt

di Teresa Monestiroli

Il Piano di governo del territorio «non rispecchia l´idea di città dell´attuale maggioranza». Quindi, all´unanimità, la giunta ha deciso «di mettere alcuni paletti al documento» prima che entri in vigore, in attesa di «riscrivere le regole dello sviluppo del territorio». In particolare: verrà tutelato di più il Parco Sud, verrà data priorità al verde, saranno rivisti i volumi previsti all´interno degli ex scali ferroviari e gli indici di costruzione negli ambiti di trasformazione urbana perché «in alcuni casi spaventano». Un anno per la revisione. Nel frattempo, il Comune lavorerà a un nuovo Piano che «rispecchi meglio «la città dei nostri sogni».

È Ada Lucia De Cesaris, il nuovo assessore all´Urbanistica, a illustrare la strada che ieri la nuova amministrazione ha scelto per modificare il Pgt, ancora in attesa di pubblicazione. Scartate le ipotesi di revocare l´adozione - ci vorrebbe troppo tempo - e di pubblicare il Piano avviando contestualmente le procedure per la variante - come chiesto da una parte del Pd - , la giunta Pisapia torna alla valutazione dei pareri degli enti e delle 4.765 osservazioni presentate dai cittadini per modificare, dove è possibile, il documento il più in fretta possibile in modo da rispettare la scadenza del 31 dicembre 2012 fissata dalla Regione.

La revoca dell´approvazione, che prima sarà votata dalla giunta poi passerà al vaglio del consiglio comunale, «ripristina il diritto di partecipazione dei cittadini - spiega De Cesaris - e consente di superare i ricorsi presentati al Tar», permettendo al contempo «di apportare alcune importanti modifiche al Piano, anche tenendo conto degli indirizzi usciti dai recenti referendum cittadini». Un processo che prenderà tempo ed energie. Il primo passo sarà quello di rileggere tutte le osservazione e stabilire quali accogliere. Il secondo il passaggio in consiglio comunale, seguendo il metodo dell´accorpamento per gruppi questa volta «davvero omogenei» assicura l´assessore. Un iter lungo e che preoccupa il Pd, con il capogruppo Carmela Rozza che dice: «Continuiamo ad avere le preoccupazioni evidenziate al sindaco sui tempi di questo percorso, ma prendiamo atto della decisione e sosterremo i provvedimenti lavorando affinché siano approvati nei tempi più brevi possibili».

Timori a cui risponde lo stesso Pisapia: «Ci impegniamo a concludere entro la prossima estate - garantisce - . La nostra decisione non bloccherà lo sviluppo dell´economia né i lavori già approvati o che possono essere approvati, ma soprattutto impedirà quella carneficina che avrebbe significato nuovi grattacieli e nuove case per soggetti che non sono in grado di pagarle». Al contrario, «sarà un passo avanti perché eviterà quei ricorsi, del tutto fondati, che sarebbero arrivati se il Pgt fosse stato pubblicato così come l´ha pensato il centrodestra». Non a caso, conclude Pisapia, la precedente amministrazione ha deciso di rinviare l´atto di pubblicazione. «O erano convinti di perdere le elezioni - ironizza - oppure non erano convinti del Piano». «La scelta della giunta - commenta Basilio Rizzo, presidente del consiglio comunale - corrisponde bene alla doppia esigenza di consentire agli operatori di svolgere la loro attività in un sistema garantito di regole e rispettare l´impegno assunto da Pisapia con i cittadini».

La Repubblica

Coraggio

di Roberto Rho

Con il primo gesto di coraggio di un inizio mandato guardingo, la giunta Pisapia ha ufficializzato lo stop al Piano di governo del territorio. Annunciando contestualmente il riesame delle osservazioni dei cittadini e soprattutto l´avvio di una riflessione per redigere un piano radicalmente nuovo. È una scelta equilibrata e coraggiosa insieme, che supera d´un balzo l´obiezione falsa e strumentale della destra – che da mesi continua a camuffare la fretta di immobiliaristi e costruttori di veder subito in vigore il Piano, confezionato su misura dei loro interessi, come una necessità imprescindibile della città – e anche le molte resistenze di un´ala del centrosinistra (del Pd, in particolare), che ancora ieri preferiva sottolineare le perplessità per il percorso scelto dalla giunta. È la stessa ala che più o meno dodici mesi orsono, assecondando probabilmente le pressioni degli interessi immobiliari "rossi", lasciò cadere centinaia di emendamenti spianando la via all´adozione del Pgt in Consiglio Comunale. I milanesi, con il voto di metà e fine maggio e con i referendum di metà giugno, hanno detto esplicitamente come la pensano.

Il Pgt Masseroli-Moratti, che attribuisce indici di edificazione anche alle aree agricole del Parco Sud, salvo poi trasferire i diritti in altre zone della città (con ciò regalando rivalutazioni milionarie ai proprietari) non va. Gli indici di edificazione attribuiti agli ex scali ferroviari e ad altre zone di prossima cementificazione non vanno. Ma non va l´intero Pgt, perché è costruito su principi sbagliati: la previsione di un aumento della popolazione di diverse centinaia di migliaia, l´assunto secondo cui sarà l´offerta (esorbitante) a muovere la domanda, e non viceversa, la sproporzione tra nuove costruzioni di fascia alta – largamente prevalenti – e nuovi alloggi a prezzi popolari o calmierati, il disinteresse per le migliaia di appartamenti e uffici vuoti, perché sfitti o invenduti.

Dunque, revocare l´approvazione del Pgt e riesaminare le osservazioni dei cittadini frettolosamente cestinate dalla Moratti è, oltre che doveroso, utile per intervenire chirurgicamente sui punti nevralgici del Pgt. Ma è politicamente ancor più rilevante l´intenzione espressa dal sindaco di voler scrivere un Pgt nuovo, costruito su un´idea di città radicalmente diversa da quello della Moratti (ammesso e non concesso che ne avesse una). È il mandato che la maggioranza dei milanesi – con la loro partecipazione al voto entusiasta e contagiosa – hanno affidato al nuovo sindaco. E sarebbe bene che tutti i partiti di centrosinistra ne tenessero conto.

La Repubblica

"Hanno deciso di fermare tutto così saranno travolti dai ricorsi"

Intervista all’ex assessore Carlo Masseroli, di Rodolfo Sala

«Tra le scelte possibili, hanno fatto quella peggiore». È il commento a caldo dell´ex assessore all´Urbanistica Carlo Masseroli, padre del Pgt revocato dalla nuova giunta. «Così - aggiunge - ha vinto l´élite borghese e ha perso la politica».

Spieghiamo, consigliere Masseroli?

«Il nostro Piano non piace al sindaco e ai suoi assessori? Bene, allora sarebbe stato molto più onesto da parte loro buttarlo via e rifarlo daccapo. E invece non dicono che cosa vogliono cambiare del Pgt, lo modificheranno in base alle osservazioni che sono pervenute. Si va alle calende greche».

Anche riscrivere daccapo il Pgt comporta tempi molto lunghi.

«C´era un´altra strada, la stessa che aveva suggerito il Pd. In sintesi: alcune cose le condivido, altre voglio cambiarle, quindi si può depositare il Pgt approvato dalla vecchia giunta e fare una variante».

Però Pisapia assicura che Milano avrà il nuovo Pgt entro il termine di legge del 31 dicembre 2012...

«Mi sembra alquanto improbabile. Non solo si allungano i tempi, ma si apre una fase di ricorsi da parte degli operatori che non potranno cominciare a lavorare. Quando prevalgono gli aspetti giuridici, la politica è finita, si ferma tutto e vince l´élite borghese composta da quanti non hanno alcun interesse all´housing sociale».

Scusi, ma allora perché il Pgt non l´ha fatto entrare in vigore lei?

«Perché, come scrive il nuovo assessore De Cesaris nella sua informativa, non si è ancora concluso il lavoro di adeguamento dei documenti alla luce delle osservazioni arrivate in Comune. La verità è un´altra».

E cioè?

«Può anche starci che alla nuova giunta non piaccia la modalità con la quale noi volevamo restituire il Parco Sud alla città, attraverso il meccanismo delle perequazione. Ma quel metodo era stato condiviso almeno dal Pd. E poi i grattacieli: vanno bene solo i due progettati da Boeri a Porta Garibaldi? Ripeto, era meglio la variante. Ma non l´hanno fatta per ragioni politiche».

Quali?

«Avrebbero dovuto far ritirare il ricorso contro il nostro Pgt presentato da Rizzo e compagni. Non sono stati in grado di convincerli, vuol dire che non sono compatti. E che il Pd è stato sconfitto».

La Repubblica

Il Parco Sud appeso a un indice la giunta prepara il salvataggio

di Teresa Monestiroli

Se si vuole preservare il Parco Sud come area agricola, perché assegnare ai terreni verdi un indice volumetrico da riversare altrove? E ancora: tutto quel cemento "in potenza" accumulato nel parco dove atterrerà? La città sarà in grado di assorbirlo? Il futuro del Parco Sud si gioca tutto intorno a queste domande, riassunte in una delle tante osservazione al Pgt che la giunta Moratti ha respinto.

Osservazione che ora la nuova amministrazione vuole riprendere in mano e valutare di nuovo. Perché se l´obiettivo è quello di «tutelare la vocazione agricola del Parco Sud», come dichiarato dal sindaco Pisapia e dal suo assessore all´Urbanistica Ada Lucia De Cesaris, la prima cosa da fare sarà quella di rivedere una ad una le decine di richieste di modifiche al Piano che riguardano proprio l´area verde alle porte della città. E se le risposte alle richieste di privati, come Salvatore Ligresti e la Fondazione Policlinico, che vogliono costruire all´interno del Parco non cambieranno - le respinse anche la giunta Moratti - sarà accolta quella presentata da Legambiente, Libertà e Giustizia, Acli e Arci che pone proprio quelle domande, centrali per la salvaguardia dell´area. Chiedendo l´azzeramento dei diritti volumetrici generati dai singoli proprietari, in cambio della cessione dei terreni al Comune di Milano.

Per salvare il polmone verde alle porte della città, dunque, e rilanciare l´agricoltura bisogna partire da lì, dall´esclusione del Parco Sud dal meccanismo della perequazione che permette lo spostamento delle volumetrie da una parte all´altra di Milano. A chiederlo sono proprio le associazioni che, in una delle sedici osservazioni al Piano presentate (e respinte), scrivono: «Del tutto incomprensibile e irrazionale appare in particolare l´applicazione di indici trasferibili generati da superfici agricole che, in seguito a cessione di tali edificabilità, divengono patrimonio pubblico». Che in termini meno tecnici significa semplicemente che non ha senso assegnare un diritto volumetrico là dove comunque resta il divieto di costruire, solo per incentivare i privati a cedere all´amministrazione degli appezzamenti di terre affinché vi si svolga un´attività agricola.

L´intenzione della nuova giunta, ora, è quella di una marcia indietro radicale, nel limite delle possibilità previste dalla legge. Se infatti non sarà possibile cancellare completamente la perequazione nelle aree del parco - gli uffici stanno verificando tutte le ipotesi - , si cercherà comunque di limitare il più possibile l´assegnazione delle volumetrie. Rivedendo comunque quell´indice assegnato dall´ex assessore Carlo Masseroli (0,15) pari a venti volte quello attuale. «La perequazione nel parco è stata pensata per regalare diritti di costruzione - commenta Stefano Pareglio, del consiglio di presidenza di Libertà e Giustizia - e non per realizzare un progetto organico di città e di parco. Il Parco Sud invece ha bisogno di una valutazione complessiva, magari prevedendo anche una perequazione differenziata a seconda delle aree e della loro vocazione». Un esempio? «A Est, nella zona del fiume Lambro, dove non c´è molta agricoltura, si potrebbe mantenere anche un piccolo indice volumetrico, mentre a Sud bisognerebbe spingere solo l´agricoltura».

Una sola osservazione, dunque, che se verrà accolta potrebbe stravolgere completamente i piani della precedente giunta e di tutti gli imprenditori - in primis Ligresti - che con il giochino della perequazione avrebbero guadagnato "diritti" dal nulla. Una strategia che l´ex sindaco Moratti ha concordato con il presidente della Provincia Guido Podestà che, nel dare il suo benestare al Pgt pochi giorni prima dell´approvazione in consiglio comunale, ci tenne a sottolineare che l´ultima parola sul futuro del parco spetta al direttivo del Parco Agricolo Sud di cui è il presidente. Un dettaglio che ora potrebbe trasformarsi in uno scontro tra il nuovo sindaco e la Provincia, dal momento che i Piani di cintura urbana, di competenza appunto di Palazzo Isimbardi e ancora in via di definizione, comprendono anche quelle aree del Parco all´interno del Comune di Milano.

Corriere della Sera

Pisapia blocca il Pgt della Moratti

di Rossella Verga

Il Pgt riparte dalle osservazioni dei cittadini, ma per la giunta non è un passaggio indolore. Alla fine vince la linea Pisapia-De Cesaris: revoca dell’approvazione per correggere dove possibile lo strumento ereditato dall’amministrazione Moratti e dare a Milano, entro un anno, un piano «partecipato» . Non mancano malumori da parte del Pd preoccupato per i ritardi ma costretto a battere in ritirata per intervento del sindaco. Timori sui tempi sono stati espressi anche dall’assessore Bruno Tabacci, che nei prossimi mesi impegnerà l’aula con una discussione non facile sul bilancio.

La giunta, dopo la relazione dell’assessore all’Urbanistica, Lucia De Cesaris, ha deciso «all’unanimità» di revocare la delibera di approvazione del piano di governo del territorio e di rivalutare le 4.765 osservazioni presentate dai cittadini, senza ammetterne tuttavia di nuove. La delibera di revoca arriverà in giunta la prossima settimana e poi passerà all’esame del consiglio comunale. Obiettivo finale: inserire alcuni paletti, come il fatto che non verranno assegnati indici volumetrici, sia pure da spalmare altrove, al parco Sud, che manterrà in tutto e per tutto la caratteristica agricola.

Più tutele e riduzioni dei volumi per scali ferroviari (per esempio Farini e Romana) e negli ambiti di trasformazione urbana. Tutto ciò, promette la giunta, rispettando la scadenza di legge, cioè la necessità di varare il nuovo piano entro il 31 dicembre 2012, data oltre la quale si rischierebbe il commissariamento. «Il nostro impegno — precisa il sindaco, Giuliano Pisapia— è fare molto più in fretta, per avere il nuovo piano entro l’estate del prossimo anno» . Per ora, insomma, sul Pgt si mette una toppa, ma si comincia già a lavorare a un nuovo piano (magari sotto forma di variante) che rifletta l’idea di sviluppo della città del centrosinistra e tenga anche conto del risultato dei referendum. «Il verde è una priorità» , ribadisce l’assessore.

E ancora: più housing sociale, indici volumetrici più bassi e ritorno alle destinazioni d’uso. «Questo piano — sottolinea Lucia De Cesaris — sicuramente non esprime la nostra visione di città» . E in ogni caso, non essendo pubblicato «non è efficace» , quindi nessuno può vantare diritti. La scelta di rivalutare le osservazioni, rincara il sindaco, permette di impedire la «carneficina di Milano» limitando i grattacieli, nonché di tener fede alle promesse di ascolto fatte in campagna elettorale.

Senza «bloccare l’economia e lo sviluppo della città— assicura Pisapia—. Esattamente il contrario, perché, se fosse stato pubblicato il Pgt adottato dal centrodestra, i ricorsi, del tutto fondati, sarebbero stati accolti e si sarebbe tornati indietro» . L’assessore Stefano Boeri, reduce da una riunione con il Pd che avrebbe preferito una scelta diversa (pubblicazione per non rischiare ritardi e variante di piano), insiste sulla fase due: «Abbiamo concordato — sottolinea — di elaborare un documento di indirizzo che deve essere la stella polare delle politiche del territorio e dovrà essere presentato a ottobre» .

Ma la capogruppo del Pd, Carmela Rozza, conferma le sue «preoccupazioni» sui tempi. «Comunque prendiamo atto della decisione del sindaco— dice— sosterremo i provvedimenti in aula e lavoreremo perché siano approvati nei tempi più brevi possibili» . Plaude alla decisione il presidente del consiglio comunale, Basilio Rizzo: «Risponde bene — commenta— alla doppia esigenza di consentire agli operatori di svolgere senza ostacoli la loro attività in un sistema garantito di regole e di rispettare l’impegno esaminare le osservazioni» . Bocciatura totale da Pdl e Lega. «E’ una scelta irresponsabile — attacca anche MariolinaMoioli, capogruppo di Milano al Centro — Significa bloccare la città e rinunciare agli oneri di urbanizzazione» .

Corriere della Sera

«Si cambi una volta sola oppure la città si blocca»

Intervista a Claudio De Albertis rappresentante del costruttori, di Sacchi

«Cambino pure, ma una volta sola e in tempi certi» . Lo ripete più volte, chiede che «non ci siano ritardi o altri intoppi» , che il quadro normativo sia chiaro e definitivo nel giro di un anno. Claudio De Albertis, presidente di Assimpredil, numero uno dei costruttori milanesi (nella foto), è visibilmente preoccupato.

Non si aspettava questa svolta da parte della giunta? «In realtà un cambio di rotta era previsto, prevedibile e legittimo. Milano ha una nuova amministrazione ed è giusto che voglia dare una sua impronta al governo del territorio. Però una volta sola» .

Teme una serie di modifiche in corsa?

«Se vogliono riaprire l’iter di variante, significa che per un anno, un anno e mezzo, avremo un periodo di salvaguardia in cui valgono le norme più restrittive tra vecchio Prg e nuovo Pgt. Poi si passerà alle regole del "Pgt con osservazioni"e, infine, si avrà una terza rivoluzione con altre norme» . Troppo? «E insomma... Se tutta questa operazione avviene in cinque anni e noi operatori dobbiamo confrontarci su tre regolamenti diversi, la prospettiva diventa davvero preoccupante» .

Per chi?

«Per tutti. Per i costruttori e per gli investitori» .

Ha ragione chi dice che la città si blocca?

«Se non c’è più una certezza di riferimento, allora il rischio c’è» .

Auspicio?

«Lo ripeto, cambino le cose una volta sola, rispettando le scadenze e senza ulteriori colpi di scena. Milano ha bisogno di stabilità. Anche da questo punto di vista» .

il GiornalePisapia scontenta tutti e affossa il Pgtdi Mario Sorbi

Guai a chiamarlo blocco. Quello sul Pgt è «un passo avanti». E il sindaco Pisapia ci tiene perfino a scandire il concetto: «A-van-ti». Sarà. Di fatto la revoca della delibera di approvazione del piano di governo del territorio provoca uno slittamento di un anno. Se va bene. Di un anno e mezzo se le discussioni si prolungheranno, come è prevedibile. Si ferma tutto, compresi gli investimenti immobiliari. La città potrà avere il suo Pgt la prossima estate e ci saranno solo due anni di tempo per prepararsi ad Expo.

Alla fine è prevalsa la linea strong sostenuta dall’assessore all’Urbanistica Lucia De Cesaris, autrice dell’informativa presentata ieri alla giunta: da avvocato aveva paralizzato l’attività del Comune con 150 ricorsi, da assessore blocca tutto fermando la delibera sul Pgt. A nulla sono serviti i tentativi del Pd più moderato per evitare l’azzeramento del piano. La linea prudente è stata scalzata da quella più estremista creando non pochi mal di pancia nella maggioranza.

«Manteniamo la nostra preoccupazione - spiega il capogruppo del Pd Carmela Rozza - pur rispettando la scelta del sindaco. Lavoreremo in aula per velocizzare il più possibile e creare meno disagio possibile». Entro la fine dell’anno il Pgt dovrebbe tornare in aula. Se il piano non dovesse essere pubblicato entro la fine del 2012, il Comune rischierebbe infatti il commissariamento.

In questi mesi non sarà scritto un nuovo documento ma verrà rivisto e corretto quello esistente, ripartendo dalla fase delle 4.765 osservazioni dei cittadini e dai pareri degli enti. Poteva andare peggio. Cioè, si poteva rifare tutto daccapo revocando il piano per riscriverlo. «Il nostro - spiega il sindaco Giuliano Pisapia - è un passo avanti e non indietro. Ci sono infatti due ricorsi che pendono sul Pgt che avrebbero allungato i tempi molto di più. Assicuro che non bloccheremo la città». I due ricorsi contestano uno il metodo con cui sono state accorpate le osservazioni sul piano, e l’altro il procedimento con cui si è arrivati all’approvazione.

E se dovessero essere presentati nuovi ricorsi? «Cercheremo di operare nel massimo rispetto della legittimità» puntualizza Pisapia che, da avvocato, si appella a un «vizio di forma»: «I ricorsi saranno tutti inammissibili perché si riferiscono a un testo mai pubblicato. La legge ci consente di fare tutto ciò e vogliamo anche lanciare un grande messaggio agli imprenditori». La De Cesaris, che già (a amministrazione appena cominciata) pensa a un nuovo piano territoriale, ammette: «Non avremo mai il Pgt dei nostri sogni, ma almeno qualcosa che ci assomigli, che valorizzerà di più il verde».

Tra i punti cardine su cui la giunta intende lavorare ci sono il Parco Sud («l’indice di edificabilità indicato da pgt ci spaventa»), gli scali ferroviari e gli indici volumetrici: niente grattacieli e un ritorno all’indicazione delle destinazioni d’uso dei terreni.



Il Sole 24 Ore

La Giunta Pisapia revoca il Pgt varato dalla Moratti. Il Pd è «preoccupato», ma appoggia il sindaco

di Sara Bianchi

LaGiunta Pisapiaha deciso la strada da seguire per modificare, come promesso in campagna elettorale, il Piano di governo del territorio della passata amministrazione: il provvedimento di approvazione sarà revocato -come anticipava sul nostro sito Lucia De Cesaris, assessore all'urbanistica del Comune di Milano - e si tornerà alle osservazioni dei milanesi che verranno rivalutate. La decisione è stata presa all'unanimità. La proposta di delibera di revoca sarà portata in Giunta già la prossima settimana e sottoposta successivamente all'esame del Consiglio comunale.

Lo hanno comunicato il sindacoGiuliano Pisapiae l'assessore all'Urbanistica Ada Lucia De Cesaris. La quale ha sottolineato che il piano «non è stato pubblicato dalla precedente amministrazione e non era neppure pubblicabile. È stata una loro scelta». Adempimenti che erano «necessari affinchè il piano potesse acquisire efficacia e quindi divenire operativo esplicando i suoi effetti». Secondo il sindaco Pisapia l'ex maggioranza di centrodestra «ha fatto degli errori che avrebbero comportato l'annullamento» del piano. Se fosse stato pubblicato il Pgt adottato dal centrodestra «ci sarebbero stati decine di ricorsi, del tutto fondati - ha sostenuto Pisapia - e sarebbero stati accolti, facendoci tornare indietro».

Non si ricomincia da capo, ma si torna comunque indietro. Per riportare in aula il nuovo documento, si dovrà attendere la fine dell'anno, mentre per l'approvazione definitiva, secondoil sindaco Giuliano Pisapia, «il nostro impegno é quello di arrivare quantomeno entro l'estate del 2012». Se così fosse i tempi globali di approvazione del documento sarebbero rispettati, essendo la scadenza di legge fissata al 31 dicembre 2012, scadenza oltre la quale si rischierebbe il commissariamento. Nel frattempo vigerà il regime di salvaguardia e il vecchio Piano regolatore generale.

Il comune dovrà tenere conto anche del rischio di possibili ricorsi, specialmente riaprendo la fase delle osservazioni di cittadini ed enti, anche se, ha sottolineato il sindaco, «due ricorsi già pendevano sul vecchio piano di governo presso il Tar, due ricorsi - ha detto Pisapia - che secondo i nostri rilievi sono fondati».

Nelle intenzioni della Giunta, gli uffici comunali dovranno rileggere e rivalutare le 4.765 osservazioni giunte dai milanesi entro l'autunno, per poi portare il nuovo pacchetto in Consiglio, con le modifiche proposte dai cittadini accorpate per uniformità tematica, entro fine anno. «Il nostro impegno è di fare molto in fretta e di approvarlo entro l'estate prossima», è stata l'assicurazione di Pisapia. Nel mirino delle osservazioni al pgt ci sono in particolare l'indice di edificabilità nel parco Sud, la partita degli scali ferroviari e l'indice unico volumetrico.

Una decisione che il Pd non ha preso a cuor leggero. Il capogruppo democratico a Palazzo Marino, Carmela Rozza precisa che il partito ha espresso la propria preoccupazione a Pisapia. Preoccupazione, dice Rozza che «manteniamo pur rispettando la scelta del sindaco». A questo punto «lavoreremo in aula - ha aggiunto - per velocizzare il più possibile» i tempi. Faccenda alla quale guarda con attenzione anche il segretario metropolitano dei democratici,Roberto Cornelli. «Per il Pd - precisa -la questione veramente cruciale è quella dei tempi».

Per l'ex assessore Mariolina Moioli, oggi all'opposizione come consigliere comunale di Milano al Centro si tratta di «una scelta irresponsabile». Che significa «bloccare lo sviluppo della città a tempo indeterminato», ma anche rinunciare nel bilancio di quest'anno ai soldi che sarebbero arrivati dagli oneri urbanistici. Secondo l'ex assessore è «una presa di posizione ideologica e contro gli interessi dei milanesi, della città, ma anche dello sviluppo di tutto il Paese».

Per una questione che si apre, il sindaco prova a chiuderne un'altra, quella con il ministro della Difesa,Ignazio La Russa, sulla presenza dei militari in città. Che rimarranno per presidiare i siti sensibili, mentre per il resto la sicurezza sarà garantita dalla polizia e da una maggiore presenza dei vigili sul territorio con 500 nuovi vigili di quartiere. Al riguardo, «alla prossima riunione con il prefetto e con i soggetti interessati porteremo la nostra indicazione», ha spiegato Pisapia.

Poco prima il ministro La Russa aveva annunciato che i militari a Milano passeranno dagli attuali 653 a poco più di 200.

Da Marrazzo a Carlino. “Le mani su Roccacencia

Il 19 maggio 2011 la giunta capitolina vara un provvedimento a firma dell’assessore alla casa Antoniozzi per acquisire cinque fabbricati di nuova costruzione da assegnare ai punti “numero dieci” delle graduatorie per le case popolari, ossia quelle persone con gravi necessità. Saranno 150 le abitazioni che il Comune comprerà alla “modica” cifra di 2598 euro al metro quadro, non appena l’iter dell’acquisto sarà terminato in Campidoglio.

Casualmente proprio all’angolo tra via Prenestina e via di Rocca Cencia, accanto al polo impiantistico per l’immondizia di Ama e Colari, sorgono cinque palazzi uguali, ultimati nell’estate 2010, su un terreno che il piano regolatore destinava a verde pubblico, poi sottratto ai cittadini per mezzo d’una variante approvata nel giugno 2007 dalla giunta regionale Marrazzo. Davanti vi campeggiano ancora gli annunci di vendita dell’Immobildream di Roberto Carlino, consigliere e presidente della commissione ambiente e cooperazione tra i popoli e membro della commissione urbanistica in Regione Lazio. Guarda il caso l’Immobildream ha già “chiuso” le vendite del complesso (per scoprirlo è bastato chiamare l’ufficio vendite dell’agenzia).

Nel dicembre del 2009 era stato pubblicato un bando dal Comune per acquisire 150 alloggi destinati all’emergenza abitativa. E’ scaduto ad aprile 2010 e la gara, stando a quanto riportano le agenzie, è stata vinta dalla “Tam Sas”, che ricaverà dalla vendita delle case circa 30 milioni di euro, una cifra esorbitante se pensiamo agli attuali prezzi di mercato dell’estrema periferia. La descrizione degli immobili fatta dall’assessore Antoniozzi coincide con i cinque fabbricati che la società Immobildream aveva inizialmente commercializzato come “complesso Le Gardenie”, oggi non più in vendita. Bisogna capire allora se ci sono collegamenti tra il proprietario dell’agenzia immobiliare, Roberto Carlino – con un conflitto di interessi grande come una casa – e la “Tam Sas”.

Chi c’e’ dietro la “Tam sas” e come si lega all’Immobildream? Risolto il mistero con una “web-inchiesta”

C’è una sola “Tam Sas” (fino ad aprile del 2009 “Tam Srl”) di Roma impegnata nelle costruzioni: è di Giuseppe Dell’Aguzzo. Un nome che ritroviamo in vari forum e blog dedicati alle lamentele dei cittadini verso costruttori e intermediari. Eccolo spuntare in una discussione del Torrino-Mezzocammino: il titolo è “Immobildream Marronaro… disavventure” e Dell’Aguzzo è membro della “Costruzioni Immobiliari 2005 srl”, che fa capo ai costruttori Marronaro. Il problema è la mancata consegna degli alloggi.

Un’altra denuncia in cui ritracciamo il responsabile della “Tam Sas” è rivolta da un blog di Lunghezza contro l’intermediaria “Progedil 90” (coinvolta nello scandalo “Coop Casa Lazio” e inquisita per una serie di truffe) e contro il costruttore “Immobiliare Lunghezza 2006 srl”: il 19/06/2008 è diventata “Immobiliare Lunghezza 2006 SAS con socio accomandatario Giuseppe Dell’Aguzzo. Ma le “magagne” di Immobildream e Marronaro non trovano sfogo solo nelle denuncie dei forum, e non sono estranee alle cronache che citano anche società oscure e “fortunate” come la “San Vitaliano 2003 srl”: negli articoli degli ultimi anni si parla, per esempio, dei residence per famiglie rom sia nel quadrante nord-ovest sia in quello orientale, pagati a peso d’oro dalla giunta Veltroni per far fronte all’emergenza abitativa (come succederà a via di Rocca Cencia oggi) oltre alle solite carenze dei lavori segnalate nei forum.

In sostanza i costruttori del “Gruppo Marronaro” hanno spesso beneficiato dell’intermediazione di Immobildream, e insieme a Marronaro ha lavorato, con le sue società di costruzioni dai molteplici nomi, anche Dell’Aguzzo, il titolare dell’impresa che si è aggiudicata l’appalto per vendere le case popolari a Rocca Cencia. Si possono ricostruire alcune parti del rapporto Dell’Aguzzo-Marronaro: la sede della “Tam Sas” di viale Bruno Buozzi 98 (un palazzo al centro di Roma, sede di molteplici società) è anche sede di altre attività di Dell’Aguzzo (come la citata “Immobiliare Lunghezza 2006 sas ”, “Investire 2009 sas ”, Marroimpresa sas ecc.). Tra le varie c’è anche la “Sviluppo Z36C società in accomandita semplice”che insieme a Marronaro era proprietaria dei terreni nella zona del Torrino-Mezzocammino (come si evince da vari documenti pubblicati online riguardanti i progetti delle costruzioni); sempre nel palazzo di viale Bruno Buozzi c’è la “Iris Costruzioni”di Dell’Aguzzo, e Marronaro Vincenzo è un dirigente della società.

Tornando all’angolo tra via di Rocca Cencia e la Prenestina, bisogna menzionare la “Marroimpresa srl (attualmente “Marroimpresa sas di Giuseppe Dell’Aguzzo” e diversi soci con il cognome Marronaro): stando a quanto riportato dalla Land srl, che effettua rilievi archeologici, la “Marroimpresa srl” le aveva commissionato delle “indagini archeologiche preliminari” proprio tra la Prenestina e Rocca Cencia: forse preliminari alla costruzione, effettuata da “Marronaro”, dei cinque palazzi venduti dall’Immobildream.

“In questa vicenda – dichiarano Simone Paoletti e Paolo Amarisse, presidente e vice del WWF Borghesiana – sembra emergere un fatto gravissimo e inquietante, ovvero che l’amministrazione pubblica, invece di tutelare gli interessi dei cittadini, abbia agito a solo vantaggio di pochi speculatori privati: dapprima nel 2007 consegnandogli un prezioso cuscinetto di verde pubblico di 5 ettari, tra il deposito AMA e la borgata Pratolungo, generando un profitto pazzesco per chi ha potuto costruire su un terreno non edificabile e successivamente nel 2010 ricomprando dallo stesso privato quelle abitazioni a circa 2.600 euro al metro quadro, in una zona dove i prezzi di mercato oscillano tra i 2000 e i 2400 euro/mq, come ci confermano le locali agenzie immobiliari”.

Insomma si prova a risolvere il problema delle classi più emarginate confinandole in un “ghetto” a ridosso della “monnezza”, pagato a peso d’oro grazie ai contribuenti.

Come per la vicenda dei residence veltroniani sopraccitati ci potrebbe essere stato un preciso disegno speculativo, oppure, come ipotizza il WWF Borghesiana, potrebbe essere accaduto che “in seguito alle difficoltà di trovare acquirenti, dovute da un lato all’eccessivo stock edilizio invenduto della zona, dall’altro all’aria insalubre proveniente dal vicinissimo deposito della “monnezza”, il Comune sia venuto in soccorso del privato, facendosi carico dell’acquisto per confinarvi cittadini bisognosi, che attendevano una casa popolare dal 2000. Il tutto a 20 Km dal centro città, senza servizi e con vista gabbiani”.

A questo punto bisogna ricordare cosa è successo prima in via di Rocca Cencia.

I precedenti: dalle case dell’Immobildream “erette” dalla variante del centrosinistra fino all’ annuncio di Antoniozzi

Nel 2007 l’Assessore all’urbanistica della giunta Marrazzo, Massimo Pompili (oggi deputato PD), dichiarava che era stata fatta qualche “concessione” ai meritevoli e caritatevoli costruttori, durante l’approvazione del “Piano Particolareggiato” della “Zona O n.86 Pratolugo”: cubature in cambio di servizi, addirittura un impianto sportivo. Poi, come immediatamente denunciato dagli attuali rappresentanti del WWF Borghesiana, cominciano a “crescere” proprio dov’era previsto “verde pubblico” le case rivendute dall’immobiliarista, presidente della commissione ambiente e membro di quella urbanistica, un ossimoro vivente!

Una storia degna di uno “sketch” di “Cettolaqualunque”, però ambientato a Roma: il verde pubblico si trasforma magicamente in “tronchi di cemento”. Il protagonista di questo “film” è un “trombato” (tradotto dal gergo giornalistico: “scartato”) delle elezioni europee 2009 e neoletto in regione: è lui, quello che aveva iniziato come agente immobiliare ed è divenuto esponente del partito con a capo Casini, il genero di Caltagirone. Roberto Carlino per quell’affare deve ringraziare i colleghi della Giunta Marrazzo.

Degne di nota sono anche le tre pubblicità dell’Immobildream per via di Rocca Cencia: in una prima campagna pubblicitaria si punta sul “fascino” della “Roma antica”, nonostante l’odore dell’impianto Ama ti riporti subito ai giorni nostri. Per non parlare di quella con lo slogan “a tu per tu con la natura” e l’immagine fuorviante di due giovani immersi nel verde, un picnic e un uomo con cavallo sullo sfondo; “non sogni” dice la voce di Carlino negli spot, ma “solide realtà”: forse bisognerebbe cambiare la denominazione sociale in “Immobilnightmare spa”.

Nel 2008 arriva un altro provvedimento riguardante “via di Roccacencia”: non sappiamo se abbia avuto seguito oppure no, ad ogni modo prevedeva variazioni di destinazione d’uso sulle cubature in possesso da una dozzina di soggetti per realizzare alloggi in tutta Roma. In cambio il Comune avrebbe ricevuto circa il 30% delle abitazioni, per destinarle a case popolari. L’atto era firmato nell’ambito dell’ “emergenza casa” dall’allora prefetto Mario Morcone, oggi candidato perdente a sindaco di Napoli e fallito anche come vertice dell’ Agenzia per i beni confiscati alle mafie (Maroni gli ha preferito il prefetto palermitano). In via di Rocca Cencia c’erano circa 7600 metri cubi della Sorain-Cecchini Due Srl (società del gruppo Sorain Cecchini comandato da Manlio Cerroni) pronti per ospitare 250 alloggi . E’ curioso notare almeno altri due beneficiari di questo provvedimento, oltre alla citata “Sorain”: la “Tribufrigo srl” (coinvolta nel 2005 in uno scandalo con protagonisti il figlio del craxiano Montali come rappresentante legale della società ed Enrico Nicoletti) e la “Cuma 6 srl” con Giuseppe Dell’Aguzzo in qualità di rappresentante legale.

Infine la notizia di un mese fa: cinque fabbricati, dopo un bando scaduto nel 2010, saranno comprati dal Comune. Si trovano in via di Rocca Cencia dal lato della Prenestina e l’appalto è stato vinto dalla “Tam Sas”. Questa la reazione delle opposizioni, riassunta da un comunicato di Stefano Pedica dell’Idv: “Leggendo gli annunci di compravendita immobiliare appare chiaro che il comune di Roma non ha fatto nessun buon affare. Si compra a botte di 150 alloggi allo stesso prezzo di quanto viene venduto un singolo appartamento, cercando poi fra le occasioni nella stessa via di Rocca Cencia, sulla Prenestina, il comune ha addirittura pagato di più. Non credo che l’emergenza abitativa si possa risolvere comprando case dai privati, serve invece un progetto di riqualificazione urbanistica di ampio respiro per risolvere la questione una volta per tutte ed evitare che fra dieci anni il problema si riproponga”.

Immobildream: non vende sogni ma… incubi che, invenduti, vengono comprati dal Comune per costruire ghetti, laddove c’era il verde pubblico.

Qui il tra il presidente dell'Immobildream (e consigliere regionale, presidente di commissione) e gli autori dell'articolo

I francesi salveranno Pompei? Di sicuro vogliono farlo. E sono già pronti a staccare assegni milionari. Ma devono fare i conti con la burocrazia e i ritardi dei nostri apparati pubblici, oltre che con una possibile diffidenza «diplomatica» per la colonizzazione di un simbolo italiano.

La vicenda è in pieno svolgimento e prende le mosse dal crollo della Scuola dei gladiatori il 6 novembre 2010, definito da Giorgio Napolitano «una vergogna per l’Italia» e raccontato impietosamente da tutti i giornali e le tv del mondo. Tra dicembre e gennaio l’Unesco (che nel 1997 dichiarò Pompei patrimonio dell’umanità) invia una missione speciale. In primavera, gli inviati dell’Unesco scrivono una relazione con diversi appunti critici (in particolare sul commissariamento in ambito Protezione civile, chiuso l’anno scorso).

A giugno, quando si teme che l’Unesco inserisca Pompei nella «danger list» dei «siti in pericolo», accade qualcosa. Un gruppo di importanti industriali francesi si rivolge all’Unesco, offrendo massiccia disponibilità economica per il sito archeologico. L’organizzazione internazionale, che non ha compiti diretti di gestione, offre il suo prestigio internazionale come «facilitatore». Contatta il ministero per i Beni culturali e organizza un incontro a Parigi tra gli imprenditori e gli emissari di Giancarlo Galan.

Ci sono almeno due riunioni riservate tra la metà e la fine di giugno. La cordata francese spiega le sue buone intenzioni. Ad ascoltarle Massimo De Caro, braccio destro di Galan, e un dirigente della struttura ministeriale di valorizzazione del patrimonio culturale diretta da Mario Resca.

Manca però un rappresentante della sovrintendenza o del ministero in grado di spiegare ai francesi quali sono le esigenze di tutela da soddisfare. Insomma i francesi hanno già in mano il carnet degli assegni, ma vorrebbero sapere che cosa intende fare l’Italia dei loro quattrini.

Non solo. Forte di una lunga esperienza sul campo con studiosi «pompeiani» di valore, l’Unesco fornisce suggerimenti. La storia di Pompei è lastricata di finanziamenti annegati in progetti insensati. Dunque, più che una generosa donazione una tantum tra un’emergenza e un’altra, serve un impegno finanziario di lungo periodo. Per dire: attualmente nell’area archeologica di 65 ettari (di cui 45 scavati con 15 mila edifici e solo 15 ettari visitabili) lavora un solo archeologo, mentre l’ultimo mosaicista andato in pensione nel 2001 non è mai stato rimpiazzato.

Serve un progetto a lunga scadenza con scadenze precise, per ipotizzare un contributo di dieci-venti milioni di euro l’anno per diecivent’anni. Nelle riunioni di giugno, i francesi chiedono garanzie. Il ministero non è in grado di presentare una «lista della spesa». Dunque si prende atto dei buoni propositi e ci si aggiorna, in attesa di un progetto del ministero. Anche perché una questione con riverberi mediatici di portata internazionale richiede una valutazione ulteriore. Si pensa infatti di interpellare anche il ministero degli Esteri. Insomma, accettare i soldi francesi per salvare Pompei richiede un ok del governo. Nel frattempo, l’Unesco concede altri due anni di tempo congelando la «danger list». E il report conclusivo della missione di gennaio, contrariamente a quanto previsto, viene inviato al ministero per i Beni culturali ma non reso pubblico.

Resta un ultimo capitolo. Gli industriali campani vogliono accodarsi ai francesi. Ma mentre i transalpini sono disposti a pagare i restauri di domus e mosaici, gli imprenditori napoletani sono interessati ad attività collaterali: biglietteria, servizi turistici, opere edilizie. Business. Il che fa temere a Italia Nostra che all’ombra del mecenatismo francese si nasconda l’ennesima speculazione italiana. Anche perché la legge salva-Pompei prevede deroghe ai piani urbanistici anche per interventi slegati dalla tutela. E quindi alberghi, sale ricevimenti, outlet...

Salina. Un insediamento turistico a cinque stelle mascherato da progetto culturale, “I Giardini dell’Eden”, per il quale sarebbero stati chiesti finanziamenti regionali da parte di una società i cui titolari sarebbero finiti in passato nel mirino delle indagini dei carabinieri di Messina. La demolizione di fabbricati rurali per fare spazio a decine di villette di un residence. Una strada che conduce ai “Giardini” che cancellerebbe svariati ettari di aree verdi e incontaminate. E poi aggressioni e danneggiamenti ai cittadini che denunciano e ricorrono al Tar per respingere quest’ondata di cemento senza precedenti, ritenuta dai residenti illegale e forse anche criminale, che sta per abbattersi su Pollara, la contrada di Salina, nelle Eolie, che fu il set di Troisi nel film Il postino, premio Oscar nel ’94 per la migliore colonna sonora, uno dei luoghi più belli del Mediterraneo, dichiarato, come l’intero arcipelago, patrimonio mondiale dell’Unesco.

Proprio all’Unesco, oltre anche alla regione siciliana, al ministero dell’Ambiente, alle associazioni ambientaliste da Legambiente al Wwf (ma anche ai carabinieri e alla procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto) si è rivolto un gruppo di residenti, turisti e non, che ha firmato un esposto denunciando il clima insostenibile che si respira nell’isola: tra gli aderenti al comitato spontaneo costituito per fronteggiare la colata di cemento vi sono anche i fratelli registi Paolo e Vittorio Taviani e l’eurodeputato Claudio Fava, ma altre firme note sono in corso di raccolta.

“Pollara è stata oggetto nel corso degli ultimi anni di una preoccupante espansione edilizia tale da minarne il pregresso assetto bioambientale – scrivono i residenti nell’esposto – nonché le normali dinamiche civili, essendosi verificata un’escalation di aggressioni e fatti violenti ai danni di alcuni cittadini, regolarmente denunciati alle competenti Autorità”.

Dopo i numerosi esposti e le denunce al Tar per fermare gli scempi edilizi il clima si è fatto incandescente e sono stati gli stessi Carabinieri a mettere in guardia i residenti dal non esporsi eccessivamente, suggerendo loro di riunirsi in un comitato che portasse avanti le legittime istanze di ripristino della legalità.

La battaglia dei residenti si muove verso un obiettivo: fermare il progetto “Il Giardini dell’Eden rubati agli Dei”, in contrada Mancuso (in zona Ovest rispetto al mare) ritenuta una mega-speculazione edilizia che trasformerebbe totalmente, stravolgendoli, i luoghi del set di Troisi, protetti da un vincolo di immodificabilità assoluta, sancito dal piano paesistico delle Eolie, la legge regionale 78 del 1976. Secondo i residenti il progetto, che prevede l’istituzione di “fattorie didattiche”, una fortunata formula di agriturismo già sperimentata con successo in varie parti d’Italia, dall’Emilia Romagna, al Veneto al Trentino Alto Adige, per avvicinare turisti e residenti alla cultura (e alla coltura) della terra, nasconderebbe una colossale speculazione edilizia.

Il comitato ha già chiesto l’accesso agli atti del progetto, per controllarne la legittimità, ma nell’esposto denuncia che “è in corso di redazione il piano regolatore generale, nel quale sarebbe prevista anche la costruzione di una imponente strada che dalla via Leni condurrebbe, sventrando parte delle attuali aree verdi, alla ctr. Mancuso ed alla “fattoria didattica”, prevista dal progetto del “Giardino dell’Eden”.

La variante è il primo atto giuridico del progetto che i residenti intendono fermare, una colata di asfalto davanti al mare di Salina che stravolgerebbe intere aree verdi, rimaste intatte da millenni. Il destinatario dell’appello è, in questo caso, il comune di Malfa al quale i cittadini chiedono di “disporre il non luogo a procedere e/o il rigetto espresso della istanza o delle istanze pendenti che violino o ledano il patrimonio naturalistico ambientale di Pollara, con particolare riferimento alla prevista strada ed agli interventi di natura alberghiero-ricettiva di contrada Mancuso, e delle altre opere ‘agricole-didattiche’ in territorio di Pollara”.

LA NOTIZIA/La giunta ha deciso "unanimemente nonostante gli approfondimenti di intraprendere la strada della revoca della delibera di approvazione del Pgt". Lo ha annunciato l'assessore all'Urbanistica Lucia De Cesaris dopo la riunione della giunta di palazzo Marino.

RUMORS

Secondo quanto risulta ad Affaritaliani.it, la riunione di giunta che ha portato alla decisione di riportare indietro le lancette al momento della pubblicazione del Pgt, rimettendo quindi sul piatto tutte le osservazioni che erano state presentate, è stata tutt'altro che tranquilla. La discussione è stata accesa, da una parte non solo Stefano Boeri e il gruppo del Pd ma anche altri assessori, hanno sostenuto con forza che la scelta del sindaco di tornare indietro alle osservazioni avrebbe comportato rischi enormi. Il primo, legato ai tempi: ridiscutere tutto vorrebbe dire tornare in aula per un anno e mezzo, con tutti i pericoli del caso. Il secondo rischio: andare a ridiscutere il Pgt senza un documento politico di indirizzo, già condiviso, sul piano di governo, vorrebbe dire non sapere quali osservazioni accettare e quali no. Il terzo rischio: che dopo 18 mesi di discussione, i cambiamenti all'impianto profondo del Pgt sarebbero comunque poco rilevanti. Il quarto rischio (che ha "colpito" soprattutto Tabacci): ridiscutere il Pgt vuol dire rinunciare agli oneri di urbanizzazione già iscritti a bilancio, aggravando così una situazione già difficile.

LA DICHIARAZIONE AD AFFARI

Carmela Rozza, capogruppo del Pd a Palazzo Marino, commenta così la decisione della Giunta: "Il Pd ha espresso al sindaco la propria preoccupazione, manteniamo la nostra preoccupazione pur rispettando la scelta del sindaco. Lavoreremo in aula per velocizzare il più possibile e creare meno disagio possibile, ripeto: rispettando la scelta del sindaco"

GIULIANO PISAPIA

La scelta della giunta sul Pgt "permette di impedire" la "carneficina di Milano". Lo ha detto il sindaco Giuliano Pisapia, spiegando la decisione dell'esecutivo di palazzo Marino di revocare la delibera di approvazione del Piano di governo del territorio votata il 4 febbraio dal consiglio comunale. Per Pisapia la scelta di oggi non "bloccherà" l'econmomia e lo sviluppo della città ma "esattamente il contrario. Se fosse stato pubblicato il Pgt adottato dal centrodestra ci sarebbero stati decine di ricorsi, del tutto fondati, sarebbero stati accolti e si sarebbe tornati indietro. Invece la scelta che abbiamo fatto - ha spiegato - permette di sviluppare economia a Milano, di continuare i lavori già fatti, di proseguire lavori già approvati o che possono essere approvati e soprattutto permette di impedire quella carneficina di Milano, scusate il termine, che significherebbe nuovi grattacieli e nuove case per soggetti che non sono in grado di pagarle. Noi invece vediamo la necessità che a Milano ci sia più verde, più housing sociale, più edilizia popolare, quello di cui hanno bisogno i cittadini di Milano".

MARIOLINA MOIOLI

“È una scelta irresponsabile quella di ridiscutere il Piano di Governo del territorio, pronto dopo la conclusione del suo iter burocratico per essere pubblicato”. Questa la prima reazione del capogruppo di Milano al Centro, Mariolina Moioli alla revoca della delibera di approvazione del Pgt. “Significa bloccare lo sviluppo della città a tempo indeterminato – incalza Moioli - rinunciare agli oneri di urbanizzazione già previsti in entrata di bilancio 2011, aggravare la situazione già difficile di tutte le imprese del settore e di tutto l’indotto. Ma quello che è più grave è il blocco dell’occupazione nei settori trainanti per l’economia”. “Si tratta – conclude - di una presa di posizione ideologica e contro gli interessi dei milanesi, della città, ma anche dello sviluppo di tutto il Paese. Non ci limiteremo a posizioni contrarie ma faremo, come opposizione, tutto quello che è possibile”.

La Repubblica

Meno cemento, più tutele al Parco Sud la giunta oggi decreta lo stop al Pgt

di Teresa Monestiroli

Il comune è pronto a revocare il provvedimento di approvazione del Piano di governo del territorio e tornare all’analisi delle osservazioni presentate dai cittadini. In particolare, di quelle 4.765 richieste di modifica respinte quasi interamente dalla scorsa giunta, Palazzo Marino vuole ripensare la perequazione - il meccanismo che permette di spostare le volumetrie da una parte all’altra della città - soprattutto all’interno del Parco Sud, e limitare la quantità di nuovi palazzi in quelle zone di Milano in cui non è sostenibile come il centro storico e alcuni scali ferroviari.

Dopo aver studiato le carte con attenzione, e dopo aver preso in considerazione tutti i possibili intoppi di una retromarcia, oggi l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris porta in giunta un’informativa spiegare ai colleghi il percorso scelto per rivedere, almeno in parte, il Piano del territorio che fissa le regole urbanistiche per i prossimi vent’anni. La strada che oggi verrà proposta alla giunta, già concordata con il sindaco Pisapia, è quella di ritornare indietro alla discussione in consiglio comunale delle osservazioni in modo da ritoccare, dove è possibile, il Pgt. L’idea, visto il numero delle richieste di modifica, resterebbe quella di fare degli accorpamenti in modo da ridurre sia le discussioni in aula che le votazioni, ma questa volta rispettando il criterio dell’omogeneità delle osservazioni all’interno di ogni singolo gruppo. In questo modo, ha detto Pisapia qualche giorno fa, «ci sarà un Piano sicuramente migliorato rispetto a quello attuale».

L’intenzione di rivedere il documento scritto dall’ex assessore Carlo Masseroli era stata annunciata già in campagna elettorale. Il problema, però, era capire in che modo, visti i tempi lunghissimi di ogni passaggio burocratico del Piano e visto che la Regione fissa al 31 dicembre 2012 il limite massimo per l’approvazione. Sul tavolo c’erano tre opzioni: la revoca dell’approvazione, la revoca dell’adozione, la pubblicazione del Piano e la votazione di possibili varianti una volta entrato in vigore. La giunta oggi dovrebbe accordarsi sulla prima, escludendo la seconda perché implicherebbe troppo tempo e la terza per una questione politica. Lo stesso Pisapia, infatti, nel suo primo discorso in consiglio comunale, disse parole molte esplicite: «Ci impegniamo fin d’ora a esaminare e a valutare le osservazioni presentate da cittadini e da numerose associazioni al Pgt - disse in aula Pisapia - , non solo per rispetto di quella democrazia partecipativa alla quale crediamo fermamente ma anche perché siamo profondamente convinti che, in quelle osservazioni, vi sia una grande ricchezza per il futuro della città».

Corriere della Sera

Pgt all’esame dei cittadini Tutele per centro e parco sud

di Rossella Verga

Il Pgt torna un passo indietro e riparte dalle osservazioni dei cittadini. Verranno discusse tutte e 4.765, accorpate per aree omogenee di contenuto. Per raggiungere nell’arco di qualche mese (l’amministrazione spera non più di 4-5) due obiettivi: ascoltare quello che i milanesi hanno voluto dire al Comune senza riuscirci e mettere qualche paletto qua e là per evitare la «cementificazione selvaggia» . In arrivo, in concreto, più tutele per centro storico, scali ferroviari e Parco sud rivedendo in particolare la perequazione. Previsti ritocchi verso il basso per gli indici volumetrici in alcune zone. Il tutto, assicurano in Comune, nel rispetto dei tempi fissati dalla Regione per completare le procedure (31/12/2012) e delle direttive di legge.

Questa la strada maestra individuata da Palazzo Marino per rivedere il piano di governo del territorio e gettare basi solide per le pianificazioni del futuro. Il Pgt dunque non verrà pubblicato adesso, anche se sull’argomento continua il gelo tra una fetta del Pd tra cui la capogruppo Carmela Rozza e l’assessore all’Urbanistica, Lucia De Cesaris. In ogni caso, la pubblicazione in questo momento non sarebbe tecnicamente possibile anche per la mancanza di alcuni documenti. Non verrà messa in discussione, comunque sia, l’adozione del piano.

Oggi l’assessore porterà sul tavolo della giunta una relazione e una proposta. Non ancora una delibera. Si aprirà il dibattito, ma la linea indicata da Lucia De Cesaris ricalcherà nella sostanza quella espressa dal sindaco, Giuliano Pisapia, nell’aula consiliare. «Per il Pgt si tornerà alla possibilità per il consiglio comunale di esaminare e votare le osservazioni dei cittadini— aveva preannunciato il sindaco — Sulla base di queste osservazioni ci sarà un Pgt sicuramente migliorato rispetto a quello attuale» . In giunta verranno ripresentate stamattina le tre opzioni valutate nelle ultime settimane dall’assessorato. Revoca degli atti di adozione, pubblicazione del piano così com’è, revoca del provvedimento di approvazione con ritorno al momento delle osservazioni.

Quest’ultima è appunto la soluzione preferita dal sindaco e dall’assessore all’Urbanistica: la «mediazione» trovata tra la necessità di ridurre al minimo ritardi e non bloccare la città, l’esigenza di tutelarsi dai possibili ricorsi e l’intenzione di garantire ai milanesi un Pgt migliore e più «partecipato» . Resta da capire quali saranno le modifiche sostanziali al piano. L’idea è di mettere una serie di paletti a tutela del territorio, ma non è ancora del tutto chiaro quanti e quali saranno. Gli uffici comunali stanno studiando cosa è possibile rivedere nel rispetto dei tempi dei vincoli già fissati dalla precedente giunta. Lucia De Cesaris è abbottonatissima. Unico messaggio che filtra: ogni decisione sarà collegiale.

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