Studi che sembrano copia-incolla da Internet. Di più: relazioni stilate da dietro la scrivania, senza aver visto i luoghi. C’è chi si è dimenticato di un vulcano sommerso. Si presentano al ministero dell’Ambiente e permettono di piantare pozzi petroliferi a pochi passi da isole come Pantelleria, Favignana e Marettimo.
Lo dice in un comunicato anche la Northern Petroleum, una delle società interessate: “La legislazione italiana che vieta le trivellazioni off-shore entro le 12 miglia dalla costa avrà un effetto irrilevante...”. Come dire: le trivellazioni vanno avanti. Un mistero, gli abitanti sono contrari. Enti locali di entrambi gli schieramenti hanno votato “no”. Ma lungo le coste della sola Sicilia incombono 40 concessioni per ricerche ed estrazione petrolifera. Alcune con procedura in corso, altre già rilasciate. Insomma, si può cominciare. Da Pantelleria, per esempio. Proprio qui, domenica prossima, abitanti e frequentatori (tra cui gli attori Luca Zingaretti e Isabella Ferrari) si ritroveranno per protestare. “Vogliamo risposte e chiarimenti. Troppi punti sono oscuri”, chiede Alberto Zaccagni, uno degli organizzatori.
Il Fatto Quotidiano ne aveva parlato nel maggio 2010. Erano passati cinque giorni dal disastro della piattaforma della Louisiana quando l’allora ministro Claudio Scajola, con sfortunato tempismo, aveva varato un decreto “per semplificare le procedure per le attività di ricerca petrolifera svolte d’intesa con le Regioni”. Uno dei suoi ultimi atti prima delle dimissioni.
E dire che già l’Eni negli anni Ottanta aveva abbandonato i pozzi perché antieconomici. Stavolta, secondo l’associazione AltraSciacca, molti permessi sono già stati concessi in gran segreto, “senza la pubblicità prescritta”. I primi cinque arrivano nel novembre 2006 (governo di centrosinistra). “Ad aggiudicarseli sono stati la Shell e la Northern Petroleum (tra Marettimo e Favignana). Poi tocca alla Audax Energy e nel 2009 (era Berlusconi) alla San Leon Energy”, è la ricostruzione di Ignazio Passalacqua, consigliere provinciale di Trapani (centrosinistra), in prima fila contro le trivellazioni. Concessioni vecchie di anni, alcune forse scadute, ma ottengono una sospensione “sine die” pubblicata sul Bollettino Ufficiale degli Idrocarburi e delle Georisorse.
Tutti vogliono trivellare il mare siciliano. Colossi e società sconosciute: “La San Leon Energy è una srl con capitale di diecimila euro. La sede è in un paesino della Puglia. Anche il Fatto ha provato a contattarli, ma ai recapiti forniti rispondono altre società. Non solo: la ditta risulta inattiva ed è stata ceduta a una società madre in Irlanda”. Niente di irregolare, però elementi che, secondo le associazioni, suscitano allarme: “Come si fa a concedere a un soggetto di queste dimensioni sondaggi tanto delicati? In caso di disastro su chi rivalersi?”, si chiedono l’ingegner Mario Di Giovanna e l’associazione AltraSciacca. La Audax Energy, altra società che vanta diritti importanti, ha un capitale di 120mila euro e rientra nella galassia di imprese del geologo Luigi Albanesi. Un nome che ricorre in questa storia: come esperto, ha firmato studi per le società petrolifere. Anche le proprie. E qui Mario di Giovanna ha qualcosa da dire: “Niente di illecito, ma ci pare poco opportuno che lo stesso amministratore firmi le relazioni tecniche delle sue imprese”. Studi, come ha ammesso l’interessato, compiuti senza recarsi sul luogo, perché in Sicilia ci va, “ma al mare”.
Dopo le polemiche dell’anno scorso si era cercato di frenare le trivellazioni, ponendo limiti (da 5 a 12 miglia dalle coste e dalle zone protette) per le ricerche. Alcune domande erano state bocciate. La corsa, però, è ripresa indisturbata.
Ma perché così interessati alla Sicilia? No, non pare che sotto l’isola si nasconda un mare di oro nero. Le ragioni sono altre: le royalties che le compagnie pagano alla Sicilia sono tra le più basse d’Italia (l’Emilia Romagna con quantità inferiori di idrocarburi incassa 33 volte di più), che già vanta royalties tra le più basse del mondo. Lo dicono i produttori nei loro siti: “La struttura delle royalties in Italia è una delle migliori del mondo. Per i permessi offshore le tasse sono solo del 4 per cento, ma nulla è dovuto fino a 300.000 barili l’anno”. E pensare che in Libia si arriva all’85 per cento, in Norvegia e Russia all’80.
Così nel rapporto annuale di una delle società, la Cygam, il nostro Paese viene eletto “il migliore per l’estrazione di petrolio off-shore”, forse anche per “l’assenza di restrizioni e limiti al rimpatrio dei profitti”.
Par di capire: di petrolio ce n’è pochino, magari si provocano danni ambientali. Ma il profitto è garantito. Ai petrolieri.
LUCA ZINGARETTI
POZZI NEL MEDITERRANEO, UN GIALLO PER MONTALBANO
“Ci stiamo giocando alcuni tra i tesori del Mediterraneo, diamo il via libera a pozzi di petrolio che nasceranno ovunque. E tutto questo sta avvenendo nello stile aumma aumma, come i compagnucci della parrocchietta”. Luca Zingaretti, il commissario Montalbano, è tornato sul luogo del delitto, la Sicilia. Anzi, nella sua Pantelleria: “Quando sono sbarcato qui la prima volta, appena sceso dall’aereo ho capito che il mare per me sarebbe diventato questo, così scuro, difficile da raggiungere. Stupendo”. Ma stavolta sarà una vacanza di protesta: domenica 14 manifestazioni anti-trivellazioni petrolifere.
Ma Zingaretti ci tiene a fare una premessa: “Non vogliamo difendere soltanto Pantelleria, perché qui viviamo o abbiamo la casa. No, protestiamo contro le trivellazioni che mettono in pericolo molti tratti delle coste italiane. Dalla Sicilia alla Riviera Romagnola”.
Montalbano riuscirà a risolvere il giallo delle trivellazioni a Pantelleria?
Non ci illudiamo di fermare la corsa al petrolio. Ma in Italia ci stiamo giocando il nostro mare senza che se ne parli, senza che nessuno se ne accorga. Non ci rendiamo conto di che cosa vuol dire mettere decine di pozzi di petrolio in un mare come il Mediterraneo.
Ce lo dica lei…
Avete visto che disastro terribile è successo in Louisiana perché si è guastato un pozzo petrolifero. Pensate se la stessa cosa succedesse nel Mediterraneo che è, appunto, un mare chiuso. Qui, se si rompe un impianto, la marea nera invade le coste di tutti i paesi. E poi nessuno parla di quelle vere e proprie bombe di profondità che vengono utilizzate per rilievi sottomarini con effetti devastanti sulla flora e la fauna.
Un rischio ambientale enorme…
Noi abitiamo in mezzo al mare, l’Italia è fatta di mare. È l’elemento centrale del nostro Paese, quasi la sua anima. Altrove è la campagna, sono i monti. Da noi credo davvero sia il mare. Dobbiamo trattarlo con maggiore cura. Ma non è soltanto una questione ambientale, è molto di più.
I sostenitori del petrolio dicono che porta denaro e autonomia energetica…
Ecco il punto. I pozzi a due passi da gioielli come Pantelleria, Favignana, Marettimo non convengono a nessuno, nemmeno da un punto di vista economico . La vera ricchezza del nostro Paese, che resta il più bello del mondo, non sarà mai il petrolio, ma semmai il turismo. E, in zone come queste, anche attività come la pesca. Ora immaginatevi concretamente l’impatto dei pozzi di petrolio sull’economia legata al mare: si rischiano migliaia di posti di lavoro.
Eppure qualcuno le deve aver date le concessioni a queste imprese...
Questo è il punto. Non si capisce chi abbia dato il via libera al petrolio. E come. Sembra impossibile: si parla di operazioni da decine di milioni di euro e a portarle avanti sono società con pochi euro di capitale. Non si riesce a sapere in base a quali criteri si affidino le concessioni. I politici, gli amministratori dovrebbero dare, a tutti noi, delle risposte. Invece niente, silenzio. Contano sul fatto che la gente si stufi di chiedere, che si arrenda. Ma stavolta non sarà così.
Non solo i farmers market, i mercati degli agricoltori dove acquistare prodotti a chilometro zero direttamente da chi li produce (in Lombardia sono già un centinaio, di cui quarantacinque tra Milano e provincia) ma anche gli spacci nelle cascine sono molto apprezzati dai consumatori, sempre più convinti, con la spesa sul campo, di portare in tavola cibo buono e sano spendendo meno. La vendita diretta nelle aziende agricole ha avuto un vero e proprio boom, e gli spacci aziendali sono passati da 73 a 372 in poco più di un anno, fa sapere la Coldiretti Lombardia: un incremento del 500 per cento.
Che si inserisce dentro il progetto Campagna Amica, la struttura su cui Coldiretti sta costruendo la filiera agricola italiana con il sistema della vendita senza intermediari. E che si serve, per raggiungere lo scopo, della espansione dei mercati dei contadini, degli spacci all’interno dei luoghi di produzione e delle "botteghe di Campagna Amica" (per ora solo quattro in Lombardia, a Legnano, Parabiago, Cremona e Biassono), negozi in cui gruppi di produttori si mettono insieme in modo da offrire ai clienti più scelta e ottimizzare i tempi di acquisto.
Un successo dovuto anche «alla nostra sensibilizzazione per spingere i coltivatori a vendere in maniera diretta, in modo da arrivare più vicino al consumatore e tagliare la filiera - spiega Andrea Repossini, responsabile di Campagna Amica della Coldiretti di Milano e Lodi - . A chi compera si cerca di dare un prodotto di qualità al prezzo giusto, a chi vende di aumentare la redditività di ciò che produce, senza che questa venga decurtata da tutti i passaggi interni alla filiera, che lasciano nelle tasche dei coltivatori solo briciole. La forte espansione è iniziata due anni fa e oggi la rete, sia dei mercati che degli spacci, sta diventando sempre più capillare».
Carne, latte, formaggi, salumi, miele, vino, pollame, uova, marmellate, riso, frutta e verdura - fino a cose molto particolari come la birra cruda o le lumache - sono, per esempio, i prodotti offerti negli spacci di Milano e provincia, ora una quarantina (l’elenco sul sito lombardia.coldiretti.it). Ma centodieci spacci sono in attesa di essere accreditati. Per ottenere il logo Campagna Amica è necessario essere una vera azienda agricola, che coltiva e tratta ciò che poi vende e «accettare una serie di controlli da parte nostra - dice ancora Repossini - che accertino la provenienza locale e la corretta produzione del prodotto».
Ferdinando Cornalba, di Cascina Nesporedo a Locate Triulzi, è un veterano della vendita diretta, oggi così diffusa, e naturalmente è stato il primo ad entrare nella rete Campagna Amica. «Abbiamo cominciato nel 1985 con la carne e il riso, venticinque anni fa» racconta. E ci tiene a dire che «dalla fiala di fecondazione alla bistecca tutto viene rigorosamente fatto all’interno dell’azienda, compresa la macellazione, la trasformazione, la vendita. Siamo stati i primi a mettere il self service per il latte fresco, appena munto. Ma visto che i miei clienti mi chiedevano altri prodotti oltre a carne, riso, latte e miele, e che io certo non posso produrre tutto, ho organizzato un sistema di collaborazione infraziendale, un interscambio tra aziende. Io ti do la carne, tu mi dai la birra o il vino o l’olio. Vendo il prodotto di un’altra azienda che fa filiera corta come me, e loro vendono il mio».
La sua inventiva è andata anche oltre. Ha messo delle videocamere nelle stalle e ha pianificato l’adozione a distanza. «Con minimo 50 euro - spiega - si può avere il certificato di adozione. Su Internet il cliente può seguire ciò che accade nelle stalle, come vengono trattati gli animali. Un mese dopo può fare i suoi acquisti. L’importo viene scalato, ma con un 10 per cento in più».
Naturalmente tutto è bene ciò che finisce bene, e dunque pare assai positiva qualunque mossa in direzione di un rapporto più diretto e consapevole fra territorio, consumi, società. In fondo è proprio questo il senso dello slogan chilometro zero, oltre il fattore essenziale del contenimento di consumi energetici da taglio delle distanze di trasporto derrate. Però pare proprio che il percorso iniziato coi mercati contadini, invece di evolversi in una direzione – diciamo così – di massa, si stia orientando invece a crearsi una specie di altra nicchia segregata. E val la pena chiedersi: è un obiettivo intelligente, la pura individuazione di nuovi segmenti specifici di mercato, o magari in questo modo non si va molto oltre il ghetto di lusso di alcuni privilegiati, vuoi sul versante economico che culturale?
Il rapporto positivo che si instaura fra territorio e società locale con la “riscoperta” delle attività agricole anche per il consumo diretto dovrebbe andare un po’ oltre, magari coinvolgere direttamente la grande distribuzione, ideare un “marchio” riconoscibile sul modello di quelli della denominazione di origine, entrare visibilmente nei servizi alimentari di scuole e altre istituzioni locali.
Altrimenti, con le cascine e le aziende agricole che le circondano ridotte al ruolo di boutique territoriale per signore eleganti in cerca di autenticità sottovuoto, si va al massimo verso una replica di quanto già avvenuto nella seconda metà del ‘900 coi centri storici: prima il declino della funzione residenziale e popolare con tutte le attività connesse, poi la riscoperta e valorizzazione a uso e consumo di chi può permetterselo. E non pare una gran scoperta progressista, per la società, l’ambiente, la metropoli, pensare a una greenbelt futura dove al sabato fanno shopping le sciùre del centro, mentre i poveracci le guardano da dietro i cancelli. Anche per la gestione intergrata del territorio insomma cerchiamo di fare qualcosa un pochino di sinistra, o almeno provarci (f.b.)
MANTOVA — La bandiera dei pirati sventola in riva al Po: da Cremona fino al confine tra Lombardia e Veneto e ancora più a valle, questa è terra senza legge e bottino di guerra per troppe persone. L'ultima guerra che le comunità rivierasche hanno dovuto ingaggiare con scarsi mezzi e scarsi risultati è quella contro un fenomeno sorprendente: i predatori del pesce siluro.
Rifiutato dalle tavole italiane, dove anzi è stato a lungo considerato una specie infestante, il siluro è considerato una prelibatezza nell'Est Europa. Il risultato è che bande, prevalentemente ungheresi, calano in riva al Po, riempiono camion frigo di pesce catturato con metodi illegali e se ne tornano da dove sono venuti. Tutto approfittando dell'oscurità.
«Qualche sera fa stavo rientrando con la mia barca a riva, per poco non sperono un natante che procedeva a fari spenti; quelli dell'altra barca mi hanno pure inveito contro, in una lingua incomprensibile e uno mi ha fatto il segno di tagliarmi la gola...»: Vitaliano Daolio è uno che sul Po ci vive e ci lavora, accompagnando appassionati e turisti in battute di pesca (autorizzate). E' tra i tanti che hanno già denunciato la presenza di queste bande di predatori. «In Ungheria la pesca è molto regolamentata, qui trovano campo libero anche per l'assoluta mancanza di controlli — racconta Daolio — agiscono di notte usando anche reti ed elettrostorditori, strumenti assolutamente proibiti da noi: in poche uscite raccolgono anche 20, 30 quintali di pesce che in Ungheria vendono a 5 euro al chilo».
I segni dei bivacchi sono visibili in molti punti delle vegetazione tra Cremona e Viadana, ma anche sulla sponda emiliana a Luzzara e a Boretto. «Troviamo le carcasse dei siluri in riva al fiume — denuncia Maurizio Castelli, assessore alla caccia e alla pesca della Provincia di Mantova —, segno che il pesce viene ripulito e sfilettato sul posto per poi essere caricato sui camion frigo già in attesa».
Del business del siluro non approfittano solo gli ungheresi: numerosi siti tedeschi pubblicizzano i «wallercamp», pacchetti turistici tutto compreso: 1.600 euro la settimana con campeggio selvaggio sulla sponda lombarda (in Emilia è vietato), dove l'attrazione è proprio la pesca al siluro; una vacanza molto spartana, che in Italia nessuno apprezzerebbe. Non così in Germania, almeno a giudicare dalle foto pubblicate su questi siti e che ritraggono i partecipanti alle battute con le loro prede. «Mi piacerebbe che venissero controllate le imbarcazioni usate da questi signori, per vedere se è tutto in regola...» butta lì sibillino Vitaliano Daolio.
La frase introduce in qualche modo l'altra attività piratesca di cui il Po è diventato teatro negli ultimi mesi: i furti di motori nautici. A Boretto, qualche settimana fa, le telecamere sulla sponda hanno ripreso l'arrivo di un'imbarcazione dalla quale scendono uomini incappucciati; questi cominciano a prendere a martellate le barche ormeggiate e se ne vanno con i motori, senza tanti complimenti. Ma i furti si sono susseguiti nel porto di Cremona (sette natanti spogliati), a Revere (addirittura undici), a Motta Baluffi.
Il problema, come detto, sono i controlli: le polizie provinciali lungo la sponda pattugliano di giorno (non di notte, quando i predatori entrano in azione), ma sono composte da agenti disarmati. Anche i carabinieri disponevano fino a tre anni fa di una pilotina, ma il servizio è stato inspiegabilmente revocato. Insomma, col calare della notte il tratto lombardo del grande fiume diventa Far West. E i pescatori di frodo, i ladri di motori si aggiungono ai cavatori abusivi di sabbia, fenomeno meno recente ma sempre duro a morire. «L'ideale sarebbe un sistema di videosorveglianza — propone l'assessore Castelli — che terrebbe sotto controllo l'intero fiume».
Possibile? In ogni caso occorre fare presto perché persino il siluro comincia a scarseggiare. «Sono stato fuori sette ore — raccontava ieri Daolio — e ho percorso 30 chilometri di fiume senza catturare nulla».
Lui non ha catturato nulla, altri hanno riempito i camion.
Ieri, alle 12, è suonata la campanella: il limite massimo per la presentazione delle osservazioni al progetto previsto in zona Roncoduro, tra Dolo e Pianiga. Ora i due Comuni, in accordo con la Regione, dovranno classificarle, raggrupparle per tema e valutarle. A inizio settembre è previsto il primo incontro tra comuni e Regione, coordinato dal segretario regionale per le infrastrutture, Silvano Vernizzi. Le osservazioni sono dunque tantissime, e presentate da soggetti diversi, ma bisognerà capire quali verranno realmente ritenute pertinenti.
Comitati. Il maggior numero delle osservazioni è stato presentato con il coordinamento dei Cat (Comitati ambiente e territorio) in collaborazione con Legambiente, Confersecenti, Cia e un Fiume di ville. E’ possibile individuare tre filoni principali: la carenza di interventi per prevenire il rischio idraulico, il traffico sottovalutato, e i criteri che sanciscono il beneficio pubblico dell’operazione immobiliare.
Quest’ultimo è forse il nodo più delicato. «Dove sono l’urgenza, la pubblica utilità e l’indifferibilità di questo progetto?», si chiede Adone Doni, dei comitati. Lo strumento urbanistico usato per Veneto City - chiamato accordo di programma - permette infatti di accelerare le procedure per l’apertura dei cantieri, a patto che l’intervento abbia un palese risvolto pubblico.
Comuni. Osservazioni al progetto sono arrivate anche dai comuni vicini. Mira, oltre a sottolineare alcuni aspetti specifici, come il mancato studio sulle ripercussioni di traffico sulla Brentana, se la prende soprattutto con il metodo. «Che due Comuni decidano di sottoscrivere un accordo - dice il sindaco Michele Carpinetti - non sentendo le indicazioni o i semplici pareri dai “vicini di casa” mi sembra un modo di concepire la concertazione abbastanza singolare». Anche Mirano, con il commissario Vittorio Capocelli che ha consultato partiti e associazioni, ha presentato otto pagine di osservazioni sottolineando il rischio di perdere la stazione di Ballò (in favore di quella di Albarea, funzionale a Veneto City) e i tanti problemi della viabilità d’accesso (a Scaltenigo, Vetrego e Ballò) al mega centro direzionale.
Gottardo e Calzavara. I sindaci di Dolo (Maddalena Gottardo) e Pianiga (Massimo Calzavara) si preparano a fare, con consiglieri comunali e tecnici, gli straordinari. «Anche perché - spiega Calzavara - voglio che tutte le osservazioni, prima dell’incontro con la Regione, siano esaminate anche dalla commissione consiliare urbanistica. C’è la mia parola che le guarderemo tutte 5.300». E’ la stessa garanzia della Gottardo. «Dobbiamo ancora finire di protocollare tutte le osservazioni - dice - per fine agosto vogliamo esaminarle, così da incontrarci a inizio settembre con la Regione. Sono tante? C’era da aspettarselo, ma il nostro lavoro è anche quello di esaminarle».
I proponenti. Gli imprenditori di Veneto City Spa intanto stanno ad aspettare, con la convinzione che tutt’al più saranno chiamati ad apportare qualche piccola modifica, ma difficilmente verrà messo in discussione l’impianto urbanistico del progetto. «Aspettiamo che i comuni valutino le osservazioni - dice Rinaldo Panzarini, amministratore delegato di Veneto City -, per ciò che ci riguarda non ha senso dire se sono tante o poche, perché bisognerà capire quali sono pertinenti e quali no. Aspettiamo che Comuni e Regione facciano il loro lavoro e ci diano indicazioni».
Qui altre informazioni su Veneto City, nel sito del CAT
La natura, il Vesuvio, furono crudeli nel 79 dopo Cristo ma a modo loro più pietosi: in un paio di giorni Pompei venne sommersa da una colata piroclastica e per secoli giacque addormentata. In questi ultimi anni assistiamo invece alla progressiva agonia del sito archeologico, da ascriversi alle geometriche incompetenze certificate da un rapporto dell’Unesco; alla sottrazione di risorse preziose per la sua conservazione, grottescamente distolte in forza del decreto cosiddetto «Salva Pompei»; mentre una feroce speculazione minaccia di mortificare ulteriormente l’area strangolandola nel cemento. Brillante, presenzialista, gran dichiaratore, Giancarlo Galan aveva scelto proprio Pompei, epicentro della “débacle” del suo predecessore Sandro Bondi, per la sua prima conferenza stampa da Ministro dei Beni e delle Attività Culturali: era il 12aprile scorso e per il disastrato sito promise una nuova cura, nuovi fondi statali ed europei e, che noia!, il salvifico arrivo dei privati.
Il tutto facendosi forte di un decreto legge, il n. 34, approvato il 31 marzo: senonché proprio quel provvedimento sancisce de iure la futura agonia del sito. All’articolo 2, pomposamente intitolato «Potenziamento delle funzioni di tutela dell’area archeologica di Pompei», c’è la norma che permette al ministero di «disporre trasferimenti di risorse tra le disponibilità delle Soprintendenze».
E quindi, per potenziare la soprintendenza di Pompei, grazie a questo comma gli hanno subito sottratto 5 milioni di euro, destinati a ripianare i debiti del Polo Museale della città di Napoli, un carrozzone creato nel2003 dall’allora ministro Giuliano Urbani, a quanto si dice per poltronificare Nicola Spinosa da risarcire per la mancata nomina a Direttore regionale. Costo: una voragine di 12 milioni di euro in pochi anni. Per ripianare questo buco, oltre a Pompei, altri 5 milioni di euro sono stati sottratti alla soprintendenza di Roma, con lavori già pianificati e ora rinviati: a quando?
A Pompei la situazione è drammatica: l’anno scorso, dopo i crolli reiterati, mentre l’allora ministro Bondi incolpava la sinistra dei disastri, una commissione dell’Unesco era piombata nell’area archeologica per capire cosa davvero stesse succedendo. La relazione Unesco boccia l’opera di Marcello Fiori, commissario straordinario voluto da Bondi e preso dalla Protezione civile: in generale per la mancanza di manutenzione e di conservazione, e in particolare individuando le cause dei crolli nella mancata irreggimentazione della acqua piovana; giudica inutili e avventati i lavori promossi da Fiori per valorizzare il sito, come l’orribile rifacimento del teatro nuovo.
Tra gli ispettori Unesco c’è Alix Barbet, l’insigne archeologa esperta in pitture dell’età romana: non le sfugge la mancanza di alcuni affreschi smontati dalle collocazioni originali, ne chiede conto ma nessuno sa rispondere. Si reca in questura, fa un esposto: gli affreschi sono rintracciati in un magazzino, dove erano stati «dimenticati».
La relazione dell’Unesco si conclude con 19 raccomandazioni di fuoco allo Stato italiano: più di tutte brucia l’accusa di non aver capito l’importanza universale di Pompei. L’Unesco infatti non protegge siti belli o di per sé importanti e suggestivi, ma ciò che ha valore per tutta l’umanità e il cui significato deve essere conservato e non disperso. Torneranno nel 2013 gli ispettori dell’Unesco, nel frattempo segnalano una situazione di progressivo degrado e una decina di domus in immediato pericolo. Ma prima che arrivi l’inverno, come correre ai ripari se le risorse sono state tagliate? Il Ministro aveva promesso nuovo personale – ma fino a oggi nulla è stato fatto – e 100 milioni di euro europei prima dai fondi Fas, poi dai Poin.
In entrambi i casi si tratta di procedure lunghe e complicate, sulle quali a Bruxelles l’Italia si è guadagnata una triste fama. Arriveranno? E quando arriveranno? Impressionati dalla situazione di Pompei, gli ispettori dell’Unesco hanno contattato le fondazioni internazionali dedite al mecenatismo: si è interessata la Fondazione Défense, una cordata di imprenditori che può godere di agevolazioni fiscali per gli investimenti in cultura non solo in Francia ma in tutta la Ue. Si parla di 200 milioni di euro e, improvvisa, scende subito in campo un'altra cordata, di imprenditori napoletani questa volta: soldi zero, ma disposti a realizzare a pagamento – con i soldi dei loro colleghi francesi, che faranno bene a stare molto attenti – una serie di opere intorno al sito: alberghi, ristoranti, centri commerciali, info-point e vai così.
Il rischio di cementificazione intorno al sito è reale: sempre il decreto «Salva Pompei» prevede infatti che interventi cosiddetti urgenti «all'esterno del perimetro delle aree archeologiche (di Pompei) possono essere realizzati in deroga alla pianificazione urbanistica». A insorgere contro questo comma,quando il decreto venne trasformato in legge, è stata solo Italia Nostra, «vox clamantis in deserto». Pompei anno 2016: un anello di cemento, fatto di alberghi, centri commerciali e benessere con altisonanti nomi tipo Hotel Polibio, Epicurus Lounge, Resort Casti Amanti, circonda una area ex archeologica oramai ridotta a discarica del passato. Internet gratis per tutti.
«Seguitemi»: una guida fa cenno al suo gruppo perché si metta in coda. C´è anche un ragazzo disabile, in fila con la sua sedia a rotelle, Francesco. Migliaia di turisti, provenienti da ogni dove, affollano il piazzale. C’è un gran brusio, sono le quattro del pomeriggio, 30 gradi all’ombra. Al Colosseo è sempre caos, d’inverno ma soprattutto d’estate. Il ragazzo passa il primo blocco di tornelli, ma non va oltre. Torna indietro e ha stampata sulla faccia la delusione: «E dire che sono venuto da Napoli per fare questa visita. Non mi hanno fatto salire neanche al primo piano. Gli ascensori sono fermi. Non so se potrò ritornare...».
Francesco è solo uno fra i tanti disabili che da oltre due mesi non possono accedere al primo piano del monumento, quindi non ne possono "assaporare" la bellezza dell’insieme. I due ascensori che portano ai piani superiori sono guasti. «Già 3 o 4 mesi fa ogni volta che venivano utilizzati, si bloccavano e puntualmente qualcuno rimaneva dentro. A quel punto dovevamo chiamare il tecnico - dice un custode - perciò sono stati chiusi. Hanno 10 anni e le corde sono usurate. Devono essere sostituiti». Una giustificazione che non regge per i diversamente abili che scoprono questo problema dopo aver fatto il biglietto e la fila. I responsabili della sovrintendenza, che gestisce l’area monumentale, sentono però di avere la coscienza a posto: hanno esposto una serie di piccoli cartelli lungo il percorso che porta alle biglietterie "Si comunica a tutti i visitatori che gli ascensori per i diversamente abili sono attualmente in manutenzione".
Ma perché non si risolve il problema? Non si capisce di chi sia la responsabilità. Alla fine però la direttrice del Colosseo, Rossella Rea, annuncia la buona notizia: «I lavori inizieranno il 12 agosto e finiranno per fine ottobre». E poi accusa: «La colpa è dei custodi e delle guide che ne hanno fatto un uso improprio. Intanto l’ascensore può essere utilizzato con l’ausilio di un tecnico». Ma la presenza del tecnico è un problema nel problema: lo dovrebbero chiamare di volta in volta i custodi ma, secondo le persone diversamente abili, non lo fanno. La deputata Ileana Argentin, che è incappata in questo disagio al Colosseo, è stupefatta: «I custodi mi hanno detto che se volevo spiegazioni dovevo andare dalla direzione in Piazza dei Cinquecento. C’è un rimpallo di responsabilità. Non voglio farne una battaglia di opposizione, vorrei solo che tutti i disabili potessero visitare il Colosseo».
Inseriamo di seguito la prima parte, “Valutazione d’insieme”, del documento che fornisce il quadro generale alle migliaia di osservazioni al Piano territoriale regionale di coordinamento del Veneto, che decine di comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva hanno raccolto in numerose e affollate assemblee.
Il documento è stato composto nel corso di numerose riunioni di un “tavolo di lavoro”, promosso da Cantieri sociali Carta, Cgil Veneto ed eddyburg.it, al quale hanno partecipato i rappresentanti di comitati e associazioni e un gruppo di esperti, tra i quali: Stefano Boato, Walter Bonan, Lorenzo Bonometto, Paolo Cacciari, Luisa Calimani, Eliana Caramelli, Carlo Costantini, Andrea Dapporto, Cristiano Gasparetto, Carlo Giacomini, Salvatore Lihard, Sergio Lironi, Oscar Mancini, Roberta Manzi, Edoardo Salzano, Gianni Tamino, Mariarosa Vittadini. Il coordinamento dei contributi e la redazione del testo sono di Edoardo Salzano.
La seconda parte del testo (“Approfondimenti specifici”) raccoglie i contributi su una serie di aspetti: Gli aspetti naturalistici (Lorenzo Bonometto), L’agricoltura e il territorio agricolo (Gianni Tamino), Le aree produttive (Oscar Mancini), Dinamiche demografiche, politiche abitative e trasformazioni urbane (Sergio Lironi), Gli strumenti tecnico-giuridici (Carlo Costantini), Mobilità e infrastrutture per il trasporto (Carlo Giacomini), Verona: Un’anticipazione dello scempio veneto (gruppo eddyburg di Verona).
L’intero documento è scaricabile in .pdf qui sotto. Le osservazioni redatte a norma di disposizioni regionali, su cui si sono raccolte le firme dei cittadini, sono scaricabili dal sito www.estnord.it, insieme a numerosi altri materiali e documenti. In calce anche l'elenco delle associaizoni, comitati e gruppi che hanno sottoscritto il documento.
Tutto ciò nel silenzio della stampa locale e delle televisioni. Un altro insegnamento sulla realtà dei nostri tempi.
PARTE PRIMA:
VALUTAZIONE GENERALE
PREMESSA
Un piano atteso
Il Ptrc della Regione Veneto era un prodotto atteso, per molte ragioni. Dalla data del precedente piano molti anni sono passati e molti eventi accaduti. Basti pensare alle novità introdotte nel campo della tutela del paesaggio e dei beni culturali con il recepimento della direttiva europea e con il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Basti pensare alla critica che in ogni paese d’Europa e in tante città e regioni italiane denuncia il crescente consumo di suolo. Basta pensare alle drammatiche conseguenze della mutazione del clima. Basti pensare alle difficoltà, poste da tempo e accentuate con la crisi economica in atto, alla riconversione dell’apparato produttivo e al consolidamento delle attività lavorative nei settori innovativi..
La lettura della legge urbanistica regionale 11/2004 induceva a formulare, al tempo stesso, speranze e preoccupazioni. Essa infatti, se elenca puntualmente i campi e i settori cui il Ptrc deve riferirsi, non precisa che genere di indicazione la regione dovrà fornire per ciascuno di essi: se solo auspici e raccomandazioni, o se indicazioni più penetranti, capaci di indurre davvero le azioni che vengono nei fatti definite.
L’articolo 24 della legge infatti recita:
“Il piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc), in coerenza con il programma regionale di sviluppo (PRS) di cui alla legge regionale 29 novembre 2001, n. 35 "Nuove norme sulla programmazione", indica gli obiettivi e le linee principali di organizzazione e di assetto del territorio regionale, nonché le strategie e le azioni volte alla loro realizzazione. In particolare:
- acquisisce i dati e le informazioni necessari alla costituzione del quadro conoscitivo territoriale regionale;
- indica le zone e i beni da destinare a particolare tutela delle risorse naturali, della salvaguardia e dell’eventuale ripristino degli ambienti fisici, storici e monumentali nonché recepisce i siti interessati da habitat naturali e da specie floristiche e faunistiche di interesse comunitario e le relative tutele;
- indica i criteri per la conservazione dei beni culturali, architettonici e archeologici, nonché per la tutela delle identità storico-culturali dei luoghi, disciplinando le forme di tutela, valorizzazione e riqualificazione del territorio in funzione del livello di integrità e rilevanza dei valori paesistici;
- indica il sistema delle aree naturali protette di interesse regionale;
definisce lo schema delle reti infrastrutturali e il sistema delle attrezzature e servizi di rilevanza nazionale e regionale;
- individua le opere e le iniziative o i programmi di intervento di particolare rilevanza per parti significative del territorio, da definire mediante la redazione di progetti strategici di cui all'articolo 26;
- formula i criteri per la individuazione delle aree per insediamenti industriali e artigianali, delle grandi strutture di vendita e degli insediamenti turistico-ricettivi;
- individua gli eventuali ambiti per la pianificazione coordinata tra comuni che interessano il territorio di più province ai sensi dell'articolo 16.
Il punto delicato dei contenuti sopra elencati sta nel verbo che inizia ciascun alinea: “indica”, “individua”, “definisce”, “formula”. In che modo? Con raccomandazioni, indirizzi, suggerimenti, direttive, oppure anche con specifiche prescrizioni? Nel primo caso il messaggio trasmesso dalla Regione con il suo piano sarà futile, e potrà essere seguito o non seguito dalle province, dai comuni e dagli altri soggetti che operano sul territorio. Nel secondo caso esso sarà efficace, cioè indirizzerà davvero le trasformazioni nella direzione desiderata.
È necessario ricordare che comunque, nel merito delle azioni da compiere, a tutti i contenuti del Ptrc le decisioni relative alle trasformazioni (ai progetti, agli interventi, ai finanziamenti, alle autorizzazioni) spettano di fatto alla Regione. Se questa non avrà definito le scelte con precise regole chiaramente espresse, potrà agire in modo estremamente discrezionale: consentire a un comune ciò che nega a un altro, e così via. Meno il piano è preciso, più è discrezionale l’azione dell’autorità che pianifica e che in ultima istanza ha il potere decisionale.
La maggiore o minore efficacia di un piano va quindi cercata nell’analisi delle sue componenti che hanno efficacia precettiva: le norme tecniche d’attuazione, e le tavole cui esse esplicitamente e formalmente si riferiscono. Gli altri elaborati sono utili per comprendere la realtà cui il piano si riferisce e per argomentarne le scelte se tra essi e i precetti c’è coerenza e consequenzialità. Possono poi servire a comprendere la strategia che si intende seguire: il gioco di potere che si nasconde dietro al piano e a cui il piano serve.
I documenti di analisi, gli obiettivi dichiarati, le intenzioni espresse
Il lavoro preparatorio del Ptrc è stato ampio sia nel senso della ricchezza del materiale informativo e valutativo raccolto sia in quello della quantità e della qualità delle competenze, interne ed esterne all’amministrazione regionale, che sono state impiegate.
Ci si limita in questo paragrafo ad accennare ad alcuni elementi, che verranno poi ripresi e sviluppati nella parte successiva del documento.
Ricche e complete appaiono in primo luogo le analisi relative agli aspetti ambientali e naturalistici riassunte in vari capitoli della Relazione generale, esposte nella Relazione ambientale e raccolte in apposite componenti del Quadro conoscitivo. Ciò che ancor più interessante è il fatto che da tali analisi si ricavino, nel testo stesso delle relazioni fatte proprie dall’amministrazione regionale, indicazioni operative che spesso, più che volte a indirizzare, guidare, suggerire, sottolineano l’urgenza di prescrivere tutele e salvaguardie di immediata operatività. Così come interessante e positivo appare il fatto che vi si sottolinea la necessità di appositi istituti e provvedimenti, come ad esempio l’Osservatorio regionale del paesaggio e la Rete ecologica.
Molto positivo appare ancora l’insieme delle schede contenute nell’Atlantedegli ambiti di paesaggio. Se si prescinde da qualche valutazione critica e qualche proposta correttiva che si può formulare sull’una o sull’altra scheda, il lavoro avrebbe potuto costituire una delle due componenti (l’altra deve consistere nella individuazione dei beni appartenenti a ciascuna delle “categorie di beni” tutelati dalla legislazione nazionale e implementabili dalla pianificazione regionale) di un vero e proprio piano paesaggistico.
Del tutto condivisibili appaiono poi le valutazioni che si formulano, in più capitoli della Relazione generale, sull’entità dei danni provocati dall’abnorme consumo di suolo già avvenuto, in corso e programmato dalle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti. Lo sprawl (la disordinata espansione a bassissima densità dei centri urbani, la disseminazione di costruzioni d’ogni tipo e la proliferazione di strade di tutte le dimensioni) appare correttamente indicato come una delle principali cause del degrado progressivo dei paesaggi e dell’ambiente dal Veneto. I dati raccolti e la capacità di analisi precisamente territorializzata del fenomeno che essi rivelano appare come una base sufficiente a definire politiche mirate, immediatamente agibili e suscettibili di arrestare senza indugio il progresso della distruzione del territorio.
L’insieme delle analisi specifiche (di cui abbiamo qui sottolineato solo alcuni degli aspetti positivi) trovano una buona sintesi pre-operativa nel Quadro sinottico del sistema degli obiettivi. Tuttavia questo documento, più che indicare i traguardi raggiungibili con il Ptrc, potrebbe costituire l’utile sommario di una critica distruttiva.
Quattro elementi critici
Analizzando il Ptrc nella sua struttura complessiva emergono quattro versanti di critica:
critica all’efficacia del piano, nel senso della mancata coerenza tra le analisi e gli obiettivi positivi espressi nella parte illustrativa del piano e le scelte formulate nella parte precettiva;
critica, in particolare, al modo in cui la Giunta regionale tenta con il Ptrc di eludere le responsabilità che l’articolo 9 della Costituzione e i conseguenti provvedimenti normativi pongono a tutte le istituzioni della Repubblica (e in primis alle regioni) in ordine alla tutela del paesaggio;
critica allo forte riduzione dei poteri degli enti locali nell’esercizio delle loro competenze in merito al governo del territorio e alle conseguenti scelte territoriali;
critica alla strategia sottesa al Ptrc, dichiarata esplicitamente in alcuni documenti e convalidata dai contenuti precettivi del Ptrc.
In sintesi, mentre il piano afferma di voler tutelare l’ambiente e il paesaggio, contrastare il consumo di suolo, migliorare la vivibilità, rafforzare l’identità dei luoghi, migliorare la vivibilità, nella sostanza la giunta regionale attribuisce a se stesso il potere di decidere i grandi interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio e lascia mano libera ai piccoli, medi e grandi poteri immobiliari di trasformare a loro piacimento il resto del territorio, con una sostanziale finalizzazione al mero sviluppo immobiliare.
L’INEFFICACIA
Nessun vincolo
Il prologo delle norme tecniche d’attuazione rivela una cosa interessante. Si parla dei “vincoli giuridici gravanti sul territorio veneto”. A questo proposito va detto innanzitutto che quando si parla di “vincoli” sembra che si parli unicamente di utilizzazioni del suolo che non comprendono l’edificabilità. Dal linguaggio adoperato dai pianificatori regionali sembra che destinare un’area a un bosco, a un alveo fluviale o a un’attività agricola, alla fruizione di un’area archeologica o alla difesa dalle frane o delle falde idriche, significa porre un “vincoli”: meno si “vincola”, cioè meno si sottrae all’ urbanizzazione del territorio, meglio è.
Nei documenti del piano si afferma del resto esplicitamente l’inefficacia del piano. Sempre nel Prologo alle norme, quando si definisce “Il Ptrc di seconda generazione”, si dichiara che è un piano “di idee e scelte, piuttosto che di regole, un piano di strategie e progetti, piuttosto che di prescrizioni”. Si precisa che “il Ptrc persegue gli obiettivi non mediante prescrizioni imposte ai cittadini e limitative dei loro diritti”. Di quali diritti si preoccupa il piano appare evidente dal contesto: i “cittadini” cui ci si rivolge sono i proprietari immobiliari, interessati a uno “sviluppo del territorio”, senza fastidiosi “vincoli”.
Che c’è dietro l’inefficacia:
alcuni esempi
La rinuncia all’efficacia nasconde la possibilità dell’attività edilizia di procedere indisturbata su tutte le aree, anche in quelle per le quali a parole si esprime una intenzione di più adeguata utilizzazione. Facciamo alcuni esempi.
Le zone agricole
La valorizzazione del territorio agricolo e dei paesaggi rurali sono obiettivi più volte dichiarati. Nel merito, tutto il territorio rurale è suddiviso in quattro tipi di aree: “agricoltura periurbana”, “agropolitane in pianura”, “ad elevata utilizzazione agricola”, “ad agricoltura mista a naturalità diffusa”. Questa aree sono definite su di una cartografia a piccolissima scala e sono del tutto indeterminate nei loro confini.
Ragionevolmente, per contrastare il consumo di suolo e difendere naturalità e agricoltura, da tali aree dovrebbe comunque essere esclusa l’urbanizzazione. Ma non è così.
Nelle aree ad “agricoltura periurbana”, e in quelle “agropolitane in pianura” bisogna “localizzare prioritariamente lo sviluppo insediativo”. Inoltre, in quelle ad “agricoltura periurbana” bisogna “garantire l’esercizio non conflittuale delle attività agricole rispetto alla residenzialità”, e in quelle “agropolitane” bisogna addirittura “garantire lo sviluppo urbanistico attraverso l’esercizio non conflittuale delle attività agricole”.
Nelle stesse aree ad “elevata utilizzazione agricola” bisogna “limitare”, non vietare, “la penetrazione in tali aree di attività in contrasto con l’obiettivo della conservazione delle attività agricole e del paesaggio rurale”
Le norme, insomma, non solo non forniscono cartografie definite, criteri certi, limiti, indici, parametri oggettivi, metodi per salvaguardare le risorse naturali, ma addirittura sollecitano a non creare conflitti alla tranquilla crescita dell’edilizia nelle residue zone rurali del Veneto.
La continua preoccupazione di tutelare la possibilità dei proprietari di edificare sul loro terreno traspare in ogni norma. Perfino nel definire la “rete ecologica”, per la quale il piano non dà nessuna prescrizione tassativa, l’unica preoccupazione è nella direzione dell’edificabilità: bisogna ispirarsi “al principio dell’equilibrio tra la finalità ambientale e lo sviluppo economico” e bisogna evitare “per quanto possibile la compressione del diritto di iniziativa privata”!
Il sistema produttivo
Per il sistema produttivo il piano definisce numerose tipologie territoriali. Vi sono i “territori urbani complessi”, i “territori geograficamente strutturati”, quelli che sono invece “strutturalmente conformati”, e poi le “piattaforme produttive complesse regionali”, le “aree produttive con tipologia prevalentemente commerciali”, nonché le “strade mercato”.
Accanto a queste, che sembrano occupare, nell’indeterminatezza della cartografia, quasi tutto il territorio di pianura e di collina, il piano individua le “eccellenze produttive”, definite in termini settoriali e non territoriali,che attraversano orizzontalmente tutte le aree predette e che “la Regione valorizza mediante appositi interventi e progetti che ne assicurino lo sviluppo”.
In tutte queste aree (che non sono né perimetrate nelle cartografie né caratterizzate da regole definite) bisogna “contrastare il fenomeno della dispersione insediativa” individuando “linee di espansione delle aree produttive”, definendo “modalità di densificazione edificatoria sia in altezza che in accorpamento”. Meri suggerimenti, che peraltro invitano ad aumentare l’estensione e la quantità dei volumi destinati alle attività produttive.
Aree urbane
Molto simili sono le indicazioni del piano per le aree urbane. Dietro il titolo accattivante “Città, motore del futuro” si rivela il medesimo criterio. Nessun vincolo allo sprawl, al consumo di suolo, alla continua espansione disordinata e frammentata della città sul territorio rurale: guai a porre “vincoli”! In aggiunta alla prosecuzione e all’intensificazione dello “svillettamento” (del resto ulteriormente stimolato dalla recentissima legge per lo sviluppo dell’edilizia, impropriamente chiamato “piano casa”), si sospingono comuni, province, costruttori, proprietari a densificare le aree urbane esistenti, compattare, riempire, annaffiare il terreno di mattoni, cemento e asfalto per far crescere grattacieli.
Nelle relazioni si fornisce la giustificazione: c’è un drammatico problema della casa, un grande fabbisogno insoddisfatto di abitazioni. Ma si trascura il fatto che chi ha bisogno di un alloggio è il giovane o l’immigrato, il quale non ha le risorse per accedere a un mercato caratterizzato da prezzi sempre più alti: un mercato nel quale, come spiegano seri studi di economia, l’accrescimento delle costruzioni non porta a una riduzione e dei costi, ma anzi ad un loro aumento.
L’ELUSIONE DELLA RESPONSABILITÀ DI CONTRIBUIRE
ALLA TUTELA DEL PAESAGGIO
Premessa
Come è noto, la Regione Veneto dispone di un pano paesaggistico ai sensi delle leggi vigenti a partire dal 1992. Esso è costituito dal Ptrc adottato nel 1986 e approvato il 13.12.1991, cui è stata conferita la caratteristica di “piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali” ai sensi della legge 431/1985 (legge Galasso). Si tratta di un’analisi e una disciplina del paesaggio che risale a vent’anni fa, e che quindi meriterebbe certamente di essere aggiornata, specificata, integrata, sia per tener conto di elementi significativi che in quelli anni potevano non sembrare rilevanti e oggi invece lo sono, sia delle estese situazioni di degrado sopravvenute nel frattempo e che meriterebbero di essere segnalate e cui si dovrebbero attribuire specifiche azioni di restauro ambientale e paesaggistico, sia infine della sopravvenuta disciplina, ben più matura e incisiva, definita con le successive versioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs 42/2002 e successive modifiche).
Del resto, nella formazione del Ptrc ora in corso di discussione la Regione ha svolto una serie ampia e significativa di analisi sul paesaggio e l’ambiente, di qualità complessivamente notevole. I suoi risultati sono ulteriormente elaborati e rappresentati in alcuni dei documenti che compongono l’ampio pacco del Ptrc, e in particolare nell’Atlante ricognitivo degli ambiti del paesaggio, il quale definisce almeno alcuni degli elementi di tutela richiesti dal citato Codice.
Va considerata quindi una prima grave carenza del Ptrc, a proposito della tutela del paesaggio, la rinuncia ad aver costruito il nuovo piano conferendogli la qualità di “piano paesaggistico”, e quindi di non aver proceduto – per quanto riguarda la tutela – all’intesa con gli organi del Mibac (Ministero per i beni e le attività culturali), come la legge dispone. Una carenza indubbiamente d’ordine culturale, politico e sociale, se è vero che il paesaggio è un rilevantissimo patrimonio della collettività, cui è affidato il benessere attuale e futuro dell’intera popolazione.
É quindi molto grave l’affermazione che si formula nel “preambolo” dove, disattendendo sia la Convenzione europea sul paesaggio sia il Codice dei beni culturali e del paesaggio, la Giunta dichiara che provvederà solo successivamente (senza neppure precisare la data) a redigere il piano paesaggistico, e quindi a integrare il paesaggio nella pianificazione territoriale e urbanistica” – come richiede la Convenzione europea . Con questa decisione la regione rinuncia ad applicare l’unico strumento legislativo che richieda di porre vincoli di tutela del paesaggio, l’ambiente, i beni culturali. Rinuncia cioè all’unico strumento che avrebbe la forza di dare efficacia al piano e a tradurre le intenzioni proclamate in fatti. Ciò è particolarmente grave in una situazione nella quale, per effetto della legge regionale sull’edilizia, minaccia di scatenarsi l’edificazione senza remore né ostacoli. La tutela del paesaggio, seppure arriverà, lo farà troppo tardi.
Il tentativo di eludere la vigente tutela del paesaggio
La legge dispone che le previsioni dei piani paesaggistici “sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle provincie, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle diposizioni contenute negli atti di pianificazione” (Codice dei beni culturali e del paesaggio, articolo 145, comma 3).
La medesima legge dispone altresì che, per le regioni, come il Veneto, già dotate di un piano paesaggistico, questo venga adeguato alle nuove disposizioni entro una data, che è stata portata con successive proroghe al 31 dicembre 2009. Ovviamente, fino all’entrata in vigore della nuove disposizioni vigono le precedenti tutele, quindi la disciplina di cui al Ptrc1986/1991.
Viceversa la Giunta regionale tenta una pericolosissima violazione della legge. Si vorrebbe infatti disporre che le aree e gli ambiti di particolare tutela del Ptrc1986/1991 sopra citati, ancora sotto la tutela di competenza statale definita da quel piano, “possono essere disciplinati, fatto salvo il Piano Faunistico Venatorio regionale di cui alla legge regionale 5 gennaio 2007, n. 1, mediante i Piani di Area dell’art. 48 della legge regionale 23 aprile 2004 n. 11, oppure attraverso PAT o PATI” (articolo 72, comma 1, lettera b).
In altri termini un singolo comune, o un gruppo di comuni, è lasciato arbitro di una tutela che la Costituzione mette in capo alla Repubblica e che la stessa Costituzione, per quanto riguarda la tutela, attribuisce alla competenza esclusiva della legislazione statale. La tutela diviene “possibile” e non cogente, ed è comunque lasciata alla buona volontà di questo o quel comune, disomogenea e a pelle di leopardo.
Questo tentativo è particolarmente grave anche perché ingenera nel fruitore del Ptrc la convinzione che le disposizioni di tutela dei beni paesaggistici del Ptrc1986/1991 siano decadute. Si potrebbe pensare che esse vengano disattese dalla stessa Regione, per esempio nell’’attivazione di “progetti strategici” di cui all’articolo 5 delle Norme. Molti di tali progetti ricadono su aree opportunamente tutelate dal previgente Ptrc e dai suoi strumenti attuativi.
Una specifica osservazione presentata propone di conseguenza di eliminare, dall’articolo 72, l’intera lettera b), e di precisare con un apposito comma aggiunto che le tutele del Ptrc previgente esplicano ancora tutta la loro efficacia.
LA RIDUZIONE DEL POTERE DEGLI ENTI LOCALI
La tendenza generale
In Italia è già in corso da anni un trasferimento di poteri dal basso verso l’alto e dall’ampio al ristretto. Mentre da un lato si predica la partecipazione, dall’altro lato, e nei fatti, si trasferiscono competenze (e perfino conoscenze) dagli organi collegiali a quelli ristretti, da quelli che rappresentano la pluralità delle posizioni e l’insieme degli elettori a quelli che esprimono “chi ha vinto”: dai consigli ai sindaci e ai presidenti. In nome della governabilità si minano le radici della democrazia.
Alcune delle scelte più rilevanti del Ptrc si inseriscono perfettamente in questa linea. Ci riferiamo soprattutto a due elementi: il ricorso ai “progetti strategici” e il ruolo della rete infrastrutturale e delle sue connessioni col territorio. Ma si potrebbe aggiungere che la stessa genericità delle norme consente alla Regione il massimo di discrezionalità nelle procedure di approvazione degli atti degli enti locali, e quindi il massimo di potere nelle mani del Presidente e della Giunta regionale.
Ciò vale per i piani comunali come per quelli provinciali; l’approvazione di questi ultimi, del resto, è stata sempre rinviata dalla giunta regionale, in modo da ritardare il trasferimento delle competenze di approvazione dei PAT comunali.
Progetti strategici
Secondo la legge regionale 11/2004, articolo 26, “per l’attuazione dei progetti strategici l’amministrazione, che ha la competenza primaria o prevalente sull’opera o sugli interventi o sui programmi di intervento, promuove la conclusione di un accordo di programma, ai sensi dell'articolo 7, che assicuri il coordinamento delle azioni e determini i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”.
L’accordo di programma è uno strumento che consente di accordarsi tra i capi delle amministrazioni interessate, di tagliar via tutte le fasi di conoscenza allargata delle decisioni che si stanno assumendo anche in variante agli strumenti urbanistici, senza seguire la procedura di consultazione democratica che le procedure urbanistiche normali consentono. Il Consiglio comunale o provinciale, cioè l’organo collegiale eletto da tutti i cittadini e nel quale sono presenti le rappresentanze di tutte le posizioni politiche, culturali, sociali, viene informato solo all’ultimo momento, ed è competente per la mera ratifica di decisioni già prese.
L’accordo di programma è quindi lo strumento ideale per chi vuole decidere in fretta senza che nessuna sappia che cosa, a favore di chi e con quali conseguenze. É lo strumento adoperato con larghezza negli ultimi anni proprio per scardinare quel tanto di procedure democratiche e di decisioni sistemiche che la pianificazione urbanistica e territoriale consente.
La parte del leone nell’accordo di programma lo fa chi promuove l’azione e ne controlla materiali e tempi; nel caso specifico dei “progetti strategici” e delle grandi infrastrutture è la Giunta regionale che propone e, in ultima istanza, decide.
Guardiamo gli argomenti di alcuni dei “progetti strategici” (ma la Regione si autorizza a inserirne altri): l’attività diportistica (se vuole, di darsene e porti turistici ne progetta quanti ne vuole e li pianifica in barba ai comuni); l’ambito portuale veneziano; le neonate “cittadelle aeroportuali” (accanto agli aeroporti può autorizzare i comuni a “introdurre forme di valorizzazione delle aree sottoposte a vincolo […] attraverso misure di perequazione e compensazione che interessano aree contigue”, cioè regali di cubature); le aree circostanti le stazioni ferroviarie della rete metropolitana regionale e i caselli autostradali; quelli che il piano definisce “hub principali della logistica” (Verona Quadrante Europa, un analogo sistema policentrico tra Padova, Venezia e Treviso), e una serie di altri “terminal intermodali”. Ciascuno, ovviamente, col suo contorno di cemento, mattoni, asfalto, e soprattutto affari.
I caselli autostradali (e le stazioni del sistema ferroviario)
Il disegno complessivo della Giunta regionale per il territorio diventa chiaro via via che si procede alla sua lettura. È un sistema centrato sulla rete autostradale e sulla utilizzazione intensiva delle aree circostanti i caselli. Là devono addensarsi le attività direzionali nuove da promuovere, la ricettività alberghiera, i centri commerciali, tutti i centri d’interesse. Poco importa che non esista alcuna seria dimostrazione dell’esigenza di aumentare le sedi per tali attività senza verificare la possibilità di ospitarle nelle strutture edilizie esistenti o nelle aree dismesse. Poco importa che con questa operazione si svuotino le città e si condannino al deperimento i centri storici.
Ciò che conta è che le decisioni relative a questi nodi li assuma tutti la Giunta regionale. Le norme infatti stabiliscono (articolo 38) che “le aree afferenti ai caselli autostradali, agli accessi alla rete primaria ed al Sfmr per un raggio di 2 Km dalla barriera stradale sono da ritenersi aree strategiche di rilevante interesse pubblico ai fini della mobilità regionale. Dette aree sono da pianificare sulla base di appositi progetti strategici regionali”.
Le aree dove si prevede di concentrare lo sviluppo immobiliare e finanziario, e insieme con esse i cuori delle aree urbane (poiché tali sono spesso le stazioni ferroviarie) sono sottratte al potere dei poteri locali: sono affidati alla Giunta regionale.
I grandi assi infrastrutturali
Un’attenzione particolare il Ptrc pone agli assi infrastrutturali, e in particolare quello costituito dal Corridoio intermodale europeo V. Il piano definisce “territori strutturalmente conformati le aree e le macroaree produttive connesse” a tale corridoio, “nel tratto compreso tra Verona e Portogruaro, per una profondità non inferiore a km. 2,00 dalle infrastrutture”. Le province “determinano i criteri per il funzionale posizionamento degli ambiti produttivi rispetto al fascio infrastrutturale” articolo 43), “favoriscono la razionalizzazione della rete distributiva esistente attraverso la localizzazione di macroaree prioritariamente collocate in prossimità delle grandi vie di comunicazione”.
Benchè l’apparato grafico del Ptrc sia costituito da disegni ideogrammatici, del tutto indeterminati nell’individuazione delle aree specificamente interessate dai diversi tipi di insediamento, è facile comprendere che il Ptrc fornisce la base per rilanciare i grandi progetti di trasformazione del territorio avanzati da gruppi d’interesse cha assumono come obiettivo della loro azione la valorizzazione economica (cioè la speculazione immobiliare) delle aree di cui sono venuti in possesso. Si tratta in particolare delle iniziative denominate in altra sede Veneto City e Città della Moda lungo la direttrice tra Padova e Venezia, e Marco Polo City sul bordo Nord-Est della Laguna di Venezia, in corrispondenza all’aeroporto di Tessera, ribattezzato “cittadella aeroportuale”, e per ciò stesso dotato di cubature da perequare (articolo 40).
LA STRATEGIA
Una “seconda modernità” preoccupante
La strategia della Giunta del Veneto emerge con chiarezza dall’esame dei documenti che abbiamo riassunto nei precedenti paragrafi. Ma essa è ben descritta in un documento preliminare al piano: quello scritto da Paolo Feltrin, esperto di politiche amministrative, dedicato a “La seconda modernità veneta e il territorio”. Esso trova preciso riscontro nelle scelte contenute nella normativa, mentre vengono del tutto ignorati i contributi di altri esperti, tra cui i compianti Eugenio Turri e Mario Rigoni Stern.
In quello scritto l’analisi della situazione territoriale del Veneto è precisa, nella sua efficace sinteticità. Tutti i fenomeni più rilevanti vi sono descritti: dalla prevalenza dei modelli abitativi unifamiliari e sparpagliati (lo “svillettamento”, lo sprawl), l’inefficienza del sistema della mobilità (addebitato all’insufficienza della rete stradale), il ruolo assunto dai caselli autostradali (sempre più caratterizzati dalla presenza di strutture del terziario) la desertificazione della rete dei centri storici (addebitata all’alto livello dei canoni di locazione e alla concorrenza delle nuove strutture commerciali). Il fatto è che questi elementi, che vanno letti tutti come elementi di crisi da correggere o rimuovere, vengono visti come dati ineliminabili, segni di vitalità di un sistema che deve essere assecondato (e razionalizzato) nel suo trend.
Su questa linea si arriva ad affermazioni francamente aberranti.
Come quando si afferma (p. 36) che c’è ancora tanta campagna nel Veneto sicché il consumo di suolo non è un problema reale, poiché la percentuale di terreno rurale è di molto superiore a quella delle terre coltivate: come se l’attività economica del settore primario fosse l’unica ragione della salvaguardia del suolo dall’urbanizzazione, se l’obiettivo non dovesse essere quello della difesa del territorio rurale nel suo complesso, e se non fosse già gigantesca l’area laterizzata e sottratta al ciclo della natura.
O quando si assume come “una prima spinta per il futuro” il fatto che la domanda abitativa “continuerà a essere rivolta prevalentemente verso una casa individuale, una bifamiliare o una villetta a schiera”, senza domandarsi da quali ceti sociali questa domanda proviene, che cosa comporti in termini economici e territoriali soddisfarla e quali ne siano le ricadute sul prezzo che la collettività presente e futura deve pagare per un simile lusso.
Oppure quando si afferma che si devono assumere decisamente i caselli autostradali come le nuove polarità da incentivare. Anche qui, si assume come guida il comportamento spontaneo di un sistema sregolato, quale quello attuale, o regolato da un sistema di deroghe e “accordi di programma” a loro volta derogatori, e si individua come modello dell’auspicato futuro ciò che è accaduto attorno al casello di Padova est.
Si ribadisce così, per un verso (la prosecuzione dello svillettamento) e per l’altro (l’enfatizzazione delle autostrade), il cancro della tendenziale esclusività della motorizzazione individuale.
Aumentare, intensificare, estendere l’urbanizzato
É abbastanza singolare, e a suo modo rivelatore, il rapporto che si stabilisce tra la spinta verso la realizzazione di nuovi volumi per ospitare attività produttive, commerciali, ricettive, ricreative e sportive e la contemporanea tutela della vitalità dei centri urbani, e in particolare dei centri storici.
Si raccoglie in anticipo l’obiezione che prevedere nuovi insediamenti omnibus in corrispondenza dei caselli autostradali, ove tali operazioni avessero successo non solo in termini di valorizzazione patrimoniale ma i volumi realizzati si riempissero effettivamente di funzioni, queste verrebbero sottratte ai centri urbani esistenti. Ciò è avvenuto dovunque centri commerciali, direzionali e altri simili “non luoghi” hanno sottratto attività, in particolare al commercio e ai servizi urbani.
Si corre subito al riparo raddoppiando. Feltrin suggerisce di incentivare “uno sviluppo edilizio verticalizzato, in modo da trasferire all’interno del centro urbano il centro commerciale tout-court” (p. 41). E le Norme raccolgono il suggerimento: si invitano i comuni a individuare anche nei centri urbani e in quelli storici “aree ed edifici che consentano l’insediamento di grandi strutture di vendita” (articolo 47).
Nella stessa direzione spingono le scelte che la Giunta regionale compie per quanto riguarda la residenza. Si afferma categoricamente che l’incremento demografico registrato negli ultimi anni, che si prevede possa continuare, “rende inevitabile un ulteriore aumento dell’edificato. Inevitabile, non c’è scelta” (Relazione dei proto, p. 94). Si trascura del tutto la presenza di una enorme quantità di volumi inutilizzati, e una quantità ancora maggiore di volumi previsti dagli strumenti urbanistici vigenti. Si trascura del tutto di domandarsi per quali ceti, in quali luoghi, in relazione a quali redditi esiste un problema di accesso all’alloggio. E, nel concreto, non si fornisce alcuna indicazione, alcun programma, alcuna ipotesi di finanziamento, se non la sollecitazione a costruire, intensificare, proseguire e “governare” l’espansione delle villettopoli.
Questa spinta all’espansione dell’urbanizzazione si sposa, da un lato, al disegno delle grandi infrastrutture, dall’altro, al proliferare delle iniziative di bricolage immobiliare.
Sul primo versante la citata Relazione dei proto suggerisce immagini significative: “Il passante di Mestre e il GRA di Padova lasciano prefigurare diversi possibili scenari di sviluppo per le due città. Se guardiamo a Mestre, il Passante potrebbe essere interpretato come una nuova, più ampia cinta muraria, il nuovo confine di una diversa città con ambizioni di capitale regionale. In questa prospettiva, la convergenza delle strategie di densificazione con la capacità di dare soddisfazione alla domanda di capitale andrebbero nella direzione di processi di densificazione degli spazi compresi tra il nuovo passante e la vecchia tangenziale di Mestre. Secondo i criteri prima proposti: incrementare l’offerta abitativa e realizzare zone produttive e direzionali di dimensioni e caratteristiche tali da indirizzare qui la domanda”. Non è necessario lanciare una sfida ai politici, come il “proto” fa. L’hanno già raccolta in anticipo: si tratta dei progetti Veneto City e Marco Polo City, componenti della Città del Passante che ha già i suoi robusti sponsor, i suoi politici di supporto, e le sue proprietà immobiliari.
Sull’altro versante, quello del bricolage immobiliare, ecco la legge “veneta” che segue e raddoppia il “decreto casa” di Berlusconi , sbugiardando l’accordo stato-regioni che, grazie all’intervento moderatore delle regioni più responsabili, sembra prevedere misure molto più contenute e meno devastanti di quelle inizialmente prospettate. Una legge regionale, in attesa di approvazione all’indomani delle elezioni, che consente la moltiplicazione di tutte le cubature esistenti, residenziali e non residenziali, in deroga a qualsiasi strumento di pianificazione , perfino senza adeguare le aree a standards destinate ai Servizi.
La saldatura delle componenti del blocco edilizio
Appare ormai chiaro che dagli atti di politica del territorio dell’amministrazione regionale emerge una strategia che vede l’abile confluenza di due linee complementari.
Da un lato si programma l’ulteriore intensificazione della rete autostradale, in alcuni casi sostituendo strade statali e regionali oggi gratuite, l’utilizzazione dei caselli (e delle stazioni ferroviarie), dei passanti e dei raccordi autostradali, come sedi di nuove concentrazioni immobiliari e la sottrazione ai poteri comunali delle grandi trasformazioni del territorio.
Dall’altro lato, una normativa che lascia briglia sciolta a livello locale a tutti i piccoli (e meno piccoli) interessi immobiliari, rafforzata da una legge per l’edilizia che incentiva l’aumento indiscriminato di tutte le volumetrie disponibili sul martoriato territorio veneto. Le affermazioni virtuose di tutela della natura e dell’ambiente, dell’agricoltura e della montagna, sono vanificate da una normativa che proclama il buono senza negare il cattivo, utilizza termini accattivanti ma privilegia la libertà della proprietà di costruire senza vincoli; e premia con ulteriori volumi chi vuole continuare ad allargare la già gigantesca impronta ecologica del Veneto.
Al Sindaco di Milano
Noi cittadini milanesi, italiani e del mondo ci rivolgiamo a Lei, signor Sindaco, nel rinnovato tentativo di fermare lo scempio del parcheggio di piazza Sant'Ambrogio.
Sarebbe, infatti, un danno irreversibile trasformare nel tetto di un silos sotterraneo di cinque piani una piazza storica, che di Milano è fulcro simbolico, paragonabile in dignità e significato, pur con le sue eccezionali peculiarità, a piazza del Duomo e a piazza San Pietro. Questo luogo, infatti, custodisce nelle sue fondazioni millenarie le memorie di quei martiri, in onore di cui Ambrogio eresse la prima basilica, in seguito a lui dedicata. E qui è ancora evocata la sacralità dei riti religiosi che nella basilica si svolgevano e trovavano in questo spazio, vissuto dai fedeli di ogni tempo come sacro e pubblico, una loro naturale continuazione di liturgia e devozione. Per questo, ben più recentemente, proprio qui, in questa piazza, è stato edificato il Sacrario dei Caduti, perché, considerandoli nuovi martiri, venisse data continuità a quella memoria sacra, da cui trae origine la più profonda identità cittadina.
E’ la stessa Costituzione italiana (art. 9) e il Codice dei beni culturali (art. 10 e 20) a vietare di per sé la distruzione di una piazza di questa importanza.
Basterebbero, signor Sindaco, per fermare l’obbrobrio, anche semplici considerazioni urbanistiche e viabilistiche: concepito nel 1985, oggi tale parcheggio non ha più senso, perché si troverebbe inserito in modo incongruo in un centro storico che si vuole sempre più chiudere al traffico privato. La zona è inoltre ottimamente servita dai mezzi pubblici e posti-macchina liberi nelle vicinanze non mancano, come nel parcheggio da poco messo in funzione (come da anni si chiedeva) in via Olona.
Che bisogno c'è allora per l’utilità pubblica di costruire un altro parcheggio? Sarebbe solo l'ennesimo esempio di privatizzazione dello spazio pubblico a beneficio di pochi.
In campagna elettorale abbiamo accolto come una promessa la Sua affermazione che avrebbe sospeso i parcheggi delle piazze Lavater e Sant'Ambrogio.
Sappiamo che le titubanze della nuova Amministrazione sono di ordine economico, motivate dagli svariati milioni di euro di penali -hanno riportato i quotidiani- che il Comune di Milano dovrebbe pagare all’impresa costruttrice in caso di cancellazione dell'opera. La cifra, dovuta dal Comune a titolo di rimborso delle spese ad oggi sostenute dall’impresa (danno emergente), merita, a nostro avviso, una seria verifica pubblica e l’esame di forme alternative di risarcimento, che valgano di compensazione. Vorremmo, infatti, che sull'altro piatto della bilancia venisse considerato in tutto il suo peso il danno risultante dalla profonda e definitiva modificazione e banalizzazione della piazza, conseguente alla realizzazione di un parcheggio sotterraneo (con pensiline, griglie di aerazione, scivoli di entrata e uscita e stenti alberelli a cosmesi del tutto): questa sì una penale di cui pagare perennemente il prezzo per quanti, nel mondo intero, riconoscono in piazza S. Ambrogio una risorsa impareggiabile di ricchezza storica e artistica.
Qualcuno ha cercato di dimostrare che il parcheggio, lungi dallo snaturare la piazza, migliorerebbe quello che appariva oggi come spazio informe, snaturato dalla sosta selvaggia, profondamente alterato e ricostruito nei secoli, soprattutto dopo i devastanti bombardamenti che colpirono Milano nel 1943. Ma far dipendere la tutela di un bene storico dalla sua integrità “originaria” farebbe escludere da ogni protezione qualunque testimonianza del passato, anche il Duomo di Milano (la cui facciata attuale risale al XIX secolo) o la stessa Scala (bombardata nel 1943), solo per citare degli esempi. La piazza si può ben migliorare, liberandola dalle auto in superficie, anche senza il parcheggio!
Ripetiamo che, se anche l'opera ha tutti i nullaosta necessari, a partire dalle Soprintendenze, la conversione a tetto di pubblica autorimessa di un bene culturale è destinazione distruttiva e incompatibile con il vincolo di tutela: l'autorizzazione della Soprintendenza, concessa con molte incertezze e piegata, a detta degli stessi responsabili, a decisioni politiche, non vale certo a legittimare l'intervento vietato dal Codice dei beni culturali.
Per questo, signor Sindaco, ricorriamo alla Sua autorità perché quanto è stato compiuto di sbagliato nel passato venga ora corretto, riaffermando quei principi di tutela che con vigore si devono far valere. Per un ripensamento, sospenda i lavori in corso.
Tre giorni da "sogno" con la Riviera del Brenta in festa per i beni comuni. Dal 14 al 16 agosto al ristorante cooperativo La Ragnatela (a Scaltenigo di Mirano) ci sarà una tavolata per tutti, buona musica e come sempre grande attenzione al territorio. Quest'angolo di Veneto - fra ville palladiane e scampoli di natura - rischia di essere letteralmente sommerso da una colata di cemento. I Comitati Ambiente e Territorio dall'agosto 2007 sono impegnati a manifestare contro la "città delle gru" che mina il futuro di un'area a cavallo fra padovano e veneziano. «I nuovi progetti autostradali come la camionabile al posto dell' abbandonata Idrovia, il nuovo elettrodotto Terna da 380.000 Volt; la cosiddetta Romea commerciale con una bretella di collegamento al Passante di Mestre che attraverserebbe Sambruson di Dolo tagliando l'asse storico del Naviglio con le sue ville. E poi i nuovi progetti insediativi di milioni di metri cubi della cosiddetta Veneto City fra Dolo, Pianiga e Mirano, ma anche la Città della Moda a Fiesso d'Artico. Tutte ferite, forse mortali, per questo territorio e per il suo paesaggio» spiegano gli attivisti del Cat. Se ne riparlerà alla tradizionale festa estiva, promossa dalla coop La Ragnatela che ha ormai conquistato chiunque sia affezionato allo Slow Food e alla buona cucina con prodotti a chilometro zero.
"WeHave a Dream" recita lo slogan dell'edizione 2011 con tanto di Hyde Park a Scaltenigo per indignarsi e ritrovarsi nello spirito vincente dei referendum. Si comincia domenica 14 agosto alle ore 18 con Carlotta Mancuso che svela i sogni di Emergency e Libera, mentre alle 21 è annunciato Francesco Baldini con i suoi stravaganti ospiti incogniti in concerto.
A Ferragosto il programma prevede alle 12 cittadini comuni e ospiti "illustri" intorno alla stessa tavolata. Nel pomeriggio, Manjari e sapori dal Madagascar con la performance di Alessandro Ferrotti. Alle ore 18, “mi no digo gnente ma gnanca taso” (tipica espressione veneta: non dico nulla, me nemmeno taccio) con protagonisti proprio i comitati che si sono messi in testa di salvare la Riviera del Brenta dalle Grandi Speculazioni dei padroni del "ciclo del mattone". Intervengono Mattia Donadel e Roberta Manzi del Cat. In serata, blues e rock per tutti. Il bollettino InCATzati è più che esplicito: «Una decina d'anni dopo la costituzione della società Veneto City spa, il sogno dell'ingegner Luigi Endrizzi (che a Padova Est è stato l'artefice dell'operazione Ikea) comincia a concretizzarsi. Con la firma della bozza di accordo di programma tra Regione, Provincia, amministrazioni di Dolo e Pianiga e la società Veneto City spa (di cui Endrizzi è presidente, mentre Rinaldo Panzarini, già direttore della Cassa di Risparmio del Veneto, è l'amministratore delegato).
Progetto diviso in due fasi. La prima, che copre i prossimi dieci anni, prevede la realizzazione di 500mila metri cubi di superficie suddivisi secondo varie funzioni su di un'area di 715.000 metri quadri. Valore stimato dell'operazione, circa 2 miliardi di euro; alle amministrazioni interessate andranno i contributi di costruzione - stima sui 50 milioni - e i futuri proventi dell'Ici ripartiti all'80% per il comune di Dolo e il 20 % per quello di Pianiga». Ecco, in piena estate c'è ancora chi si prende la libertà di sognare ad occhi aperti un altro "sviluppo". Alternativo, finalmente, alla Veneto Connection di politica & affari. Un futuro di libertà, almeno dall'urbanistica formato cemento.
Nella città proibita la natura si riprende i suoi spazi. Avanza l’edera, la Bora semina fiori di campo che crescono fra le crepe dei balconi, sui muri, sui tetti. Le erbacce si moltiplicano lungo i binari che non portano più da nessuna parte. Strano, però. Non c’è nulla di cupo in tutto questo. Nessun senso di desolazione. Piuttosto una sensazione di quiete come quella che assale quando si entra in una chiesa. Silenzio e contemplazione. Eccolo, il Porto vecchio di Trieste, un luogo a parte. Unico, decadente eppure magnifico. Una città nascosta e vietata da sempre, con i suoi settecentomila metri quadrati di archeologia industriale, ruggine e storia, con le sue mille e mille finestre che sembrano occhi pronti a seguirti.
«Che posto fantastico» si dicono l’un l’altra due vecchie signore che camminano lente in direzione del Magazzino 26. E non hanno visto niente... Chissà che direbbero davanti all’incanto della vecchia locanda dal tetto ormai d’erba, chissà che facce estasiate di fronte all’hangar numero 6, fra il blu del cielo e del mare che si confondono e la gigantesca gru idraulica corrosa dal tempo ma ugualmente bella. Facile immaginare il loro stupore se potessero passeggiare lungo il boulevard principale di questa città latente, nata, cresciuta e abbandonata fra le braccia di una Trieste che l’ha sempre custodita senza conoscerla. Il boulevard e, in fondo, colle San Giusto. Ma non accadrà niente di tutto ciò. Non a breve, quantomeno. Le due vecchie signore dovranno accontentarsi di aver visto il maestoso Magazzino 26, ristrutturato e aperto al pubblico in via del tutto eccezionale per la Biennale diffusa.
Se proprio volessero potrebbero sbirciare un po’ fra le fessure dei container che delimitano la parte accessibile da quella no. Un’occhiata attraverso la rete, ecco: quella sì. Ma vuoi mettere? Entrare nella zona off-limits, osservare da vicino i vecchi edifici, arrivare fino ai moli, fermarsi sui dettagli delle colonne in ghisa, costeggiare gli abbeveratoi degli animali che un tempo partivano da queste banchine per paesi lontani... Non si può. Proibito. Perché siamo in un territorio di porto franco e le regole che valgono al di là del muro, cioè nella città di tutti, nel Porto vecchio diventano carta straccia. Entrano soltanto gli addetti ai lavori, in pratica. E da quando c’è il nuovo scalo sono sempre meno gli spedizionieri che si servono di quello vecchio. O meglio: della minima parte che ancora funziona.
«La maggioranza dei triestini non è mai entrata qui dentro» conferma Corrado De Francisco, direttore sviluppo di Portocittà, la società che ha ottenuto la concessione per rinnovare 45 ettari su 70. A dire il vero, qualche visita è stata possibile nel 2001 quando, con uno strappo alle regole, per poche occasioni fu aperto al pubblico e raggiungibile con le locomotive. «Ma è arrivato il momento di restituire questo posto bellissimo a Trieste e al mondo» , annuncia ora De Francisco. Facile a dirsi, complicatissimo a farsi. Soprattutto per le difficoltà giuridiche legate, appunto, al regime di porto franco. C’è voluta la famosa pazienza di Giobbe, prima ancora che i finanziamenti e i lavori, per far rinascere il Magazzino 26 e consegnarlo a triestini e turisti. Una sospensione delle regole possibile finché la mostra resterà aperta. E dopo?
L’intenzione è «resistere, resistere, resistere» , come direbbe l’ex procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli. Resistere con i cancelli aperti e nuovi eventi anche dopo la Biennale diffusa. Resistere perché la processione incessante di gente che arriva anche solo per dare un’occhiata ai Magazzini da lontano dimostra un interesse che nemmeno i più ottimisti avevano messo in conto. Resistere per fare di quest’apertura straordinaria un punto di partenza, non d’arrivo. E poi «perché è un peccato mortale avere edifici unici al mondo e tenerli nascosti e inutilizzati» , considera l’architetto Antonella Caroli, ex presidente di Italia Nostra di Trieste e da trent’anni a questa parte cresciuta a pane e Porto vecchio. Lei e questa città sconosciuta sono più o meno la stessa cosa e non c’è nulla che le sfugga: particolari, aneddoti, progetti, macchinari, planimetrie, riferimenti storici e architettonici.
«Qui si scaricavano cotone, noccioline, botti di vino, uva, qui il legname» descrive passando davanti a questo o quel fabbricato. «Le merci più leggere ai piani superiori, le altre e gli animali al piano terra» . Al Magazzino 26 c’erano sacchi e sacchi di caffè in transito, per esempio. La dottoressa Caroli dice che «i vecchi triestini che hanno lavorato qui raccontano che su quei sacchi si faceva anche all’amore, qualche volta» . La storia della città proibita è legata all’imperatore Carlo VI che nell’anno 1719 dichiarò la citta di Trieste porto franco. Nel 1891, mentre il Porto vecchio era in fase avanzata di costruzione, il territorio del porto franco venne ridotto: da quel punto in poi sarebbe stato delimitato da un muro di cinta e da varchi doganali. Ed ecco: la superficie coincise esattamente con l’area portuale vietata di oggi. All’inizio del Novecento il Porto vecchio era affollato di merci e gente.
E a passare davanti a questi edifici dove il tempo è rimasto immobile, quasi sembra di vederli, i portuali al lavoro. Quasi si sentono le voci, il rumore della centrale idrodinamica, delle gru, i treni e i carri che affiancano i «perron» , marciapiedi alti al punto giusto per facilitare le operazioni di carico-scarico. Si può immaginare la vita scorrere in queste strade ora deserte. Basta dare un’occhiata al Giornale edile, diario di bordo, diciamo così, di imprese e squadre di lavoro: sono annotati attività, particolari tecnici e condizioni del tempo. Prendi il 1901, per esempio. Dice la nota del 14 gennaio: «stato dell’atmosfera sfavorevole, causa mare agitato e alta marea non si può lavorare...» .
E l’immagine di quel giorno prende forma. Nel 1926, quando si chiudono le relazioni con i porti del Nord Europa (in particolare con Amburgo) comincia il declino. Nel 1929 la crisi mondiale e la riduzione degli scambi commerciali aggravano la situazione, bisognerà aspettare il dopoguerra per rivedere miglioramenti ma anche un’insidia: il nuovo porto, studiato per movimentare i container che invece nel vecchio scalo sono difficili da gestire. Il risultato è che negli anni Settanta gran parte del traffico portuale finisce sulla struttura nuova e la vecchia città proibita viene quasi del tutto abbandonata. Nei Magazzini 24 e 25 hanno resistito gli animali fino al 2007: mucche, capre, pecore, qualche maiale. Aspettavano l’imbarco nei locali-stalla del pian terreno e ancora adesso c’è del fieno stipato negli stanzoni del primo piano. Nel fabbricato 19 c’è un museo involontario: sono mobili, vettovaglie, soprammobili, oggetti di vita quotidiana appartenuti a istriani e dalmati che alla fine della guerra furono costretti ad abbandonare le loro terre per andare chissà dove.
Il Porto vecchio doveva essere un deposito temporaneo, «invece nessuno è più tornato a riprendere armadi, sedie, pentole... E su ogni cosa c’è ancora il cartoncino con nomi, cognomi e provenienza» spiega l’architetto Rossella Gerbini, progettista di Portocittà. Dentro, i fabbricati abbandonati sono uno spettacolo: gli occhi planano su archi e colonne in fila, sui colori delicati di pietre e mattoni, sulle nervature metalliche che dividono un piano dall’altro, sui raggi di sole che disegnano simmetrie di luce. Un po’ di tutto questo si può vedere nei film C’era una volta in America di Sergio Leone e Il Padrino, di Francis Ford Coppola, che per girare alcune scene hanno scelto come location proprio l’interno dei Magazzini del Porto vecchio. Chissà se lo sanno, le due vecchie signore...
Realizzare nuovi porti turistici riconvertendo quelli commerciali dismessi. Una soluzione semplice, economica, sostenibile per combattere la cementificazione delle coste italiane rispondendo, allo stesso tempo, alla continua richiesta di nuovi posti barca. Va in questa direzione il protocollo sulla nautica sostenibile sottoscritto da ministero dell'Ambiente, operatori del settore ed enti gestori delle aree protette.
''I porti in disuso - spiega Stefano Donati, della direzione Protezione Natura e Mare del Minambiente - sono un centinaio. La loro conversione può consentire la creazione di circa 30.000 nuovi posti barca, senza aumentare le superfici cementificate sulle coste''. Anche secondo Legambiente, le infrastrutture dedicate alla nautica da diporto sarebbero tra i principali responsabili dell'impatto ambientale, in un settore generalmente sano e poco incidente sull'inquinamento marino.
Colpa, secondo Sebastiano Venneri, vicepresidente di Legambiente, di un ''malcostume dilagante per cui la realizzazione di queste strutture spesso non ha niente a che fare con le esigenze della nautica''. Le richieste dei diportisti mirano soprattutto all'aumento dei 140mila posti barca presenti oggi in Italia. ''Richieste legittime - commenta Venneri - alle quali si potrebbe rispondere senza aumentare il volume commerciale a terra, riutilizzando le strutture già esistenti".
"Oggi, invece, la costruzione di porti turistici - aggiunge Venneri - nasconde speculazioni commerciali, con tutto l'impatto sull'ambiente che ne deriva: erosione della costa e artificializzazione del litorale con ricadute sull'ecosistema e sull'economia locale''. Il problema di fondo sta, secondo il vicepresidente di Legambiente, nella pianificazione dei porti turistici, ''sottratta al controllo nazionale e affidata alle autonomie locali, comuni e regioni".
"Naturalmente - spiega Venneri - ogni comune vuole il suo porto turistico ed è così che ci troviamo di fronte a situazioni come quella del Porto di Villasimius che si è mangiato la Spiaggia del Riso e altri esempi di cattive realizzazioni''. Ma non mancano i buoni esempi, come il Porto di Acciaroli voluto dal ''sindaco pescatore'', Angelo Vassallo, ''realizzato con grande garbo e delicatezza e senza nulla togliere all'atmosfera propria del borgo marinaro della località, a dimostrazione che volendo tutto si può fare, nel rispetto dell'ambiente'', sottolinea Venneri.
A favore della cultura e dello sviluppo di una nautica sostenibile, il protocollo sottoscritto dal ministero dell'Ambiente prevede anche la realizzazione di campi boa a basso impatto. Anche in questo caso, si tratta di realizzare posti barca attraverso l'ancoraggio di cavitelli al fondale, evitando così il ricorso al cemento o a strutture che potrebbero impattare in maniera significativa sull'ecosistema.
Sul versante inquinamento, ogni barca ha la possibilità di raccogliere le acque nere e grigie, ma il problema di fondo è di nuovo nei porti, non sempre attrezzati per lo smaltimento, e nella normativa: è infatti obbligatorio per i costruttori predisporre la barca alle casse di raccolta delle acque nere, ma l'acquirente può scegliere se acquistare le casse oppure no.
E mentre il mare è in grado di smaltire perfettamente i reflui, un problema più grave è rappresentato dall'inquinamento chimico causato dagli oli esausti e dalle vernici, sebbene il loro impatto rappresenti sempre una percentuale relativamente contenuta (per farsi un'idea, basta pensare che il lavaggio di una cisterna causa, da solo, un danno ambientale pari a quello derivato da tutti i turisti da diporto).
Per migliorare la sensibilità dei diportisti in materia di difesa dell'ambiente marino, ''sarebbe utile -spiega Stefano Donati, della direzione Protezione natura e mare del Minambiente- prevedere un corpus di norme ambientali per il rilascio della patente nautica. In genere, il diportista tende a non essere ben informato. Al massimo si informa quando ha già commesso delle infrazioni''.
Il vecchio Ovidio Marras guarda il grande resort della Sitas, sferzato dal vento di mare che solleva la polvere dei cantieri. Si trova proprio là, pochi metri dal suo antico furriadroxiu dove vive da una vita. I lavori di costruzione sono quasi finiti, c'è uno sfregio profondo nella natura magica di Tuerredda. Ma forse non per sempre, forse non è ancora finita.
Perchè Ovidio sorride, i suoi occhi brillano e lo sguardo si apre alimentato da un orgoglio che non si perde in facili trionfi: «Sì ho vinto io, me l'hanno detto. Adesso i padovani devono demolire...». Gliel'hanno detto ma non sa ancora tutto. Non sa che sulle pagine di Facebook è una specie di eroe dell'indipendenza sarda: quasi cinquemila link conducono alla notizia del pastore Davide che ha sconfitto in tribunale l'impresa Golia, l'alleanza fra costruttori, banchieri e finanzieri che vuole trasformare l'incanto naturale di Malfatano, sulla costa teuladina, in un paradiso per miliardari. Sul social network e sul sito della Nuova Sardegna i commenti sono segnati da grandi esclamativi di gioia: «Ovidio, sei un mito». Poi «Ovidio sei tutti noi» e «grazie Ovidio, la Sardegna è con te».
Fra opinioni in lotta e voci sparse che difendono comunque «i posti di lavoro» offerti dall'ultima grande speculazione turistico-edilizia della costa sarda, c'è chi ha postato l'immagine del pastore, quel corpo ossuto, la pelle bruciata dal tempo e dal sole, come fosse il simbolo vivente di un riscatto storico. Batman avrebbe un costume metallico e l'icona di un pipistrello sul torace, Che Guevara scruterebbe l'orizzonte dell'Avana con gli occhi tenebrosi del rivoluzionario. Ma lui è solo Ovidio di Malfatano, ha il nome di un poeta ma è nato e cresciuto a trecento metri dalle onde di Tuerredda. Un uomo di campagna che vorrebbe vivere quanto gli resta nel silenzio e tra i profumi del solo luogo compatibile con se stesso. Così l'estate la passa a torso nudo, i pantaloni appesi ai resti d'un cinto che sembra tenersi insieme grazie a un'ignota perizia artigiana: «Feis... feis.. itta esti...? No no lassaus perdiri». Allora lasciamo perdere Facebook e parliamo dell'ordinanza firmata dal tribunale di Cagliari, quella che ha disposto la demolizione dell'hotel messo in piedi dai costruttori nordisti, i nemici storici di Ovidio.
Mentre dal cantiere arrivano gli echi degli operai che mangiano e festeggiano chissà che cosa: «Quella è la strada mia - indica, in un dialetto stretto, accovacciato comodamente su una delle seggiole lillipuziane della sua dimora antica - gliel'avevo detto a novembre del 2009 che non dovevano toccarla. Il terreno è dei padovani, ma la strada è anche la mia. Allora? Ragione ho avuto?». Per i giudici sì, ha avuto ragione. Ed ora l'esecuzione dell'ordine dipende soltanto da Ovidio. E' lui che deve accendere il motore del bulldozer con una telefonata all'avvocato Andrea Pogliani, chiamato a mettere in esecuzione un provvedimento inappellabile: «Per me si demolisce - taglia corto e fa un gesto secco - solo che andava fatto prima, a novembre... E' allora che bisognava fermarli». Ed è qui, su questo ritardo sospetto e anomalo, che affiora dai ricordi dell'anziano pastore una vicenda da approfondire: quando la squadra di operai della Sitas ha piazzato il cancello sulla stradina, quella di cui Marras detiene il compossesso, la cosa non è passata liscia. Consulto familiare e subito una visita alla caserma dei carabinieri: «Abbiamo fatto la denuncia, la denuncia scritta...» ricorda Ovidio facendosi serissimo.
Poi però la denuncia è stata ritirata e in caserma è rimasta solo una fotocopia. Il perchè è confuso tra i tanti piccoli misteri che circondano questa vicenda di ordinaria speculazione, dove protagonisti e comprimari sembrano confondere i propri ruoli in base a interessi da verificare: «S'abogau - scuote la testa il vecchio pastore di Malfatano - è stato l'avvocato Paolo Francesco Calmetta di Milano a dirci che la denuncia andava ritirata». Ovidio scandisce i nomi e il cognome del legale lombardo, quasi volesse scolpirne i caratteri nella mente di chi l'ascolta: «Ce l'aveva consigliato un amico tedesco, quell'avvocato... bravo, diceva... s'è visto. Ci ha detto che non conveniva denunciare, che bisognava aspettare. Ecco qua, hanno costruito tutto e adesso va a buttare giù...».
Domanda inevitabile: perchè quell'attesa? Un ricorso d'urgenza al tribunale civile, com'è avvenuto solo un anno più tardi attraverso lo studio dell'avvocato Alberto Luminoso, avrebbe bloccato i lavori sul nascere. Poi, senza un'assenso scritto della famiglia Marras, la Sitas sarebbe stata costretta a rivoluzionare il progetto: spostare l'hotel e di conseguenza gli edifici di servizio che s'irradiano dal corpo centrale del resort. Varianti, nuove autorizzazioni, ricorsi e controricorsi: «Mai più avrebbero costruito» scuote la testa Ovidio, stringendo un po' di più la cinta sui pantaloni, più grandi di due taglie. C'è del vero nella sua riflessione semplice, che rispecchia una volontà espressa ossessivamente: «Vendere? No, io non vendo. Non vendo e basta... demoliscano, non demoliscano, io comunque resto qui». Con le sue poche pecore, un cagnetto («attenti, mussiara») nascosto sotto un vecchio attrezzo di legno e quattro gattini che volano agilissimi da un muretto all'altro alle spalle del furriadroxiu, dove c'è solo vegetazione intatta e il resort dei padovani non si vede. Da qui, da dietro la piccola casa arredata con le cose utili al lavoro, s'innalza una piccola collina da cui è possibile ammirare un panorama strabiliante: da Tuerredda fino a Malfatano dove attraccavano millenni fa le navi dei Fenici e dei Romani. Il porto della speranza che nel 2011 è minacciato da progetti di urbanizzazione, ville di lusso, edifici da offrire ai russi per fare cassa sull'ambiente.
I mattoni e il cemento, investimenti sulla morte dei luoghi e del paesaggio, pochi ricchi impegnati a cacciare dalle proprie terre chi le abita da secoli. E' contro questa minaccia, ormai realtà visibile, che il popolo di Facebook si è mobilitato e ha fatto del pastore di Malfatano il proprio eroe inconsapevole ma fiero. Il sole di mezzogiorno picchia duro su Tuerredda, dal piccolo orto del furriadroxiu si distinguono le voci dei bambini che giocano sulla spiaggia. Ovidio attraversa la porta e guarda da quella parte, dalla parte del mare. Poi va incontro agli operai del cantiere Sitas, al servizio dei padovani. Li saluta e sorride: gente che lavora, non è con loro che ce l'ha.
Su eddyburg vedi anche la denuncia di Maria Paola Morittu (Italia Nostra) che ha aperto la vertenza Malfatano, i pomodori di Ovidio e i mattoni dei padovani, e gli articoli Malfatano resort, 5 stelle di cemento e Malfatano, ultimo scempio
La politica oggi è fatta di immagine, dichiarazioni, slogan, e va bene così.
Infatti quando si è scarsini su quel fronte, nonostante risultati molto tangibili e concreti, il consenso latita, i voti se ne vanno altrove, la gente mormora anche se non ne avrebbe alcun motivo. Giusto. Partecipazione e trasparenza vuol dire poter capire al volo cosa succede anche senza essere esperti, e uno slogan, una immagine, funzionano. Però anche, non invece.
Prendiamo una piccola, piccolissima cosa, che poi non è affatto piccolissima a guardarla bene, ovvero la faccenda delle biciclette.
La giunta comunale milanese uscente e (per fortuna) uscita, durante la campagna elettorale aveva puntato anche su una propria strategia (se vogliamo chiamarla così) sulla mobilità ciclabile. Non solo il modaiolo bike-sharing, ma anche le nuove piste, inserite in quello che sindaco Moratti e garrulo assessore Masseroli declinavano come nuovo modello di spazio urbano condiviso: tutte le strade alle auto, e pedoni e ciclisti a farsi la guerra tra poveri nelle striscioline residue. Si facevano anche fotografare mentre pitturavano sinistre sagome gialle per terra. Beh: sappiamo come è andata a finire, ovvero che i cittadini badano all'immagine, ma pure alla sostanza, e li hanno bocciati.
Adesso comanda il socialismo, ogni mattina sorge il sole dell’avvenire dalle guglie del Duomo, e coi primi cento duecento e qualcosa giorni si capisce che davvero tutto è cambiato. Ad esempio col gesto drastico di sollevare dall’incarico ai vertici dell'Azienda Trasporti il potente Elio Catania, troppo esoso e troppo partigiano. Appunto la politica è fatta anche di dichiarazioni e di immagini: ma il prossimo signor o signora X che si siederà sulla poltrona ex Catania, che ci starà a fare oltre a prendere meno stipendio e non fare propaganda per l’opposizione? Forse c’è una piccolissima cosa che – fra le migliaia di altre – potrebbe fare. Ed è lasciare che qualcuno dei suoi sottoposti di prima, seconda, terza fila, porti avanti l’idea di far salire le bici sui mezzi pubblici. Suona poco strategico? Marginale? O peggio lobbistico, cose che riguardano una esigua minoranza che pretende troppo?
Non è affatto così. Si verifica in tutte le città del mondo come qualunque intervento, per quanto minuscolo, a migliorare infrastrutture e organizzazione della mobilità dolce, porti a una crescita sproporzionata degli utenti, segno che esiste una forte, fortissima domanda latente. E del resto il solo fatto che a Milano qualcuno si sposti in bicicletta per studio e lavoro è un chiarissimo segno di questa potenzialità. C’è però – lo sottolineano prima o poi tutti – il guaio della enorme discontinuità di percorsi, che non deriva semplicemente dall’assenza di piste dedicate, ma da altri ostacoli, di attraversamento, dislivelli, interferenza anche pericolosa con altro traffico ecc. Naturalmente si tratta di difficoltà gestibili con un po’ di impegno su percorsi relativamente brevi, ma che si moltiplicano all’infinito con l’allungarsi del tragitto. Ma se si potesse salire sul tram? Pagando quei cinquanta centesimi in più che fra mille polemiche sulla mazzata ai ceti deboli sono stati comunque imposti?
Sicuramente esiste un motivo “tecnico” per cui se cerco di portarmi sul tram, o sulla metropolitana, la bici, un gentile funzionario mi sbatte fuori, manco fossi Rosa Parks negli Usa segregazionisti anni ’50. Ma un ostacolo tecnico è per sua natura risolvibile, e questo magari neanche tanto difficile, per i dirigenti e responsabili che sostituiranno la gestione Catania. Nella sua lettera al manifesto (la riporto sotto) del 31 luglio spiega correttamente che l’aumento del prezzo del biglietto è una scelta resa obbligata dagli strascichi dell’amministrazione precedente e dal contesto economico nazionale. Fin qui nulla da eccepire. Poi aggiunge anche che in termini di mobilità ciclabile si lavorerà su bike-sharing e piste. Anche qui, scelte giuste, e però. Però da un lato sembrano una specie di scelta business as usual, e dall’altro paiono pure settoriali. A Parigi col Velib si effettuano il 2-3% degli spostamenti, a Copenhagen in bici si muove il 40%, una bella differenza, no? Che deriva anche dall’affrontare la questione in termini di sistema: si integra DAVVERO tutto ciò che non è mobilità automobilistica.
A partire esattamente dalla correzione dell’errore, del peccato originale di cultura segregazionista spaziale: qui i vasi non comunicanti della ferrovia veloce, qui quelli delle corsie automobilistiche, qui i sottopassi pedonali, lì le passerelle ciclabili … una enorme serie di infiniti insostenibili investimenti in opere che alla fine producono apartheid, insicurezza, costi di manutenzione, sacche di estraneità relativa e rispetto al tessuto dei quartieri. E invece, oltre a subire i danni dell’amministrazione Moratti, ci si potrebbe appropriare di una sua eredità, ovvero l’idea degli spazi condivisi, certo stavolta non declinata a scopi ideologici ed elettorali. Sindaco e garrulo assessore invitavano pedoni e ciclisti a adattarsi alle strisce residue ai margini della carreggiata dedicata alle onnipresenti automobili. Oggi si potrebbe iniziare a concepire una rete viva di mobilità integrata che si autoalimenta attraverso gli utenti, e via via in parallelo restringe gli spazi fisici e di legittimità del veicolo privato. A partire dall’accesso dei ciclisti ai mezzi pubblici anche nei giorni lavorativi. Anche questa a modo suo è una forma di rivendicazione di diritti di cittadinanza. In altre parole, attacchiamoci al tram, visto che ce l’hanno lasciato!
Il manifesto, 31 luglio 2011
L’aumento del tram è targato Moratti
di Giuliano Pisapia
A proposito dell’articolo «Pisapia azzera i vertici dell’Atm ma aumenta il biglietto del tram», sono costretto a fare alcune precisazioni. Credo non vi possano essere dubbi sul fatto che la giunta di Milano avrebbe ben volentieri fatto a meno di aumentare il prezzo del biglietto del tram e di introdurre l’addizionale Irpef. Purtroppo, però, l’aumento del biglietto era già previsto nel bilancio della giunta Moratti ed era imposto da una legge regionale. Inoltre l’introduzione dell’addizionale Irpef era di fatto obbligatoria per far fronte a una voragine nei conti ereditata dalla giunta Moratti e dalla manovra di governo.
Se non fossimo intervenuti su un bilancio disastrato, saremmo stati costretti a un drastico taglio dei servizi e a fine anno, non rispettando il patto di stabilità, sarebbero scattati gli ulteriori tagli previsti anche dall’ultima manovra del governo Berlusconi (circa 500 milioni di Euro in meno Milano). L’addizionale introdotta aMilano è comunque la più bassa d’Italia e il numero degli esenti è il più alto (circa 2/3 dei milanesi, quelli con minor reddito, non pagheranno). Inoltre nel provvedimento che sarà approvato dal Consiglio comunale la prossima settimana sono previste specifiche agevolazioni fiscali per anziani e disabili.
Per quanto concerne il costo del biglietto, anche al fine di incentivare l’uso dei mezzi pubblici, abbiamo escluso da ogni aumento gli abbonamenti (utilizzati per lo più dai lavoratori e dagli studenti); abbiamo previsto tariffe privilegiate per i giovani sotto i 26 anni e reso gratuito l’utilizzo dei mezzi agli over 65 anni sotto un determinato reddito. E’ stato previsto anche uno stanziamento per l’uso gratuito dei mezzi pubblici a disoccupati e cassintegrati. Contemporaneamente abbiamo iniziato il contrasto all’evasione e all’elusione fiscale e stiamo operando per un miglioramento del servizio pubblico e per un rafforzamento delle piste ciclabili e del bike-sharing.
Sono questi alcuni dei motivi per cui non comprendo il senso di quanto dichiarato dal segretario della Camera del Lavoro e cioè che altre erano le scelte da fare, quale quella «di introdurre una tassa sui grandi patrimoni» e di far pagare di più chi ha un reddito più alto. Parole del tutto condivisibili e per le quali mi sono battuto anche in Parlamento, ma che dovevano essere rivolte al Governo e non certo al Comune di Milano, visto che solo il Governo può imporre la cosiddetta «patrimoniale» o modificare gli attuali scaglioni dell’Irpef. Ecco perché sarebbe più utile per tutti, se si vuol dare una contributo «di sinistra» - soprattutto in presenza di una giunta che governa da meno di due mesi dopo 18 anni di sindaci della Lega o del Pdl - che le critiche, del tutto legittime, fossero accompagnate da indicazioni alternative realizzabili e non da «proposte» la cui realizzazione o è impossibile o dipende da altri.
A guardarla sulle mappe, la Tem (la nuova Tangenziale esterna di Milano) sembra solo una linea curva che collega Melegnano ad Agrate. Ma quando verrà costruita sarà molto di più: un ampio nastro d’asfalto, pieno di auto e camion che per 32 chilometri di lunghezza passerà in mezzo ai campi coltivati, vicino ai paesi, accanto a rogge e canali, ramificandosi poi con altri 38 chilometri di altre strade che nel linguaggio dei tecnici vengono chiamate "viabilità accessoria" ma che in pratica vogliono dire ancora asfalto e cemento.
Non so se la Tem risolverà, come molti dicono, i problemi del traffico di Milano. Qualche dubbio ammetto di averlo. Ma se il progetto resterà quello che ci hanno prospettato prima dell’approvazione dell’altro giorno al Cipe, credo che l’impatto sul territorio sarà molto pesante per tutto e per tutti: per gli abitanti che verranno stretti nella morsa dello smog dove adesso c’è il verde, per le piste ciclabili che inevitabilmente confineranno con una vera autostrada piena di auto e camion, per le rogge che dovranno essere coperte o superate o inglobate in sarcofaghi di cemento, per i campi coltivati che saranno tagliati in due da questa specie di "muro di Berlino orizzontale".
L’impatto sarà molto pesante anche per le duecento famiglie di agricoltori che verranno danneggiate dall’opera e si troveranno i cantieri al fianco di stalle e mais. Le strade sono importanti, ma bisogna mettere ordine, con regole che tutelino il territorio. Perché la terra non è un bene che puoi riprodurre a piacimento. Una volta che l’hai consumata, è finita per sempre. E senza la terra non finisce solo l’agricoltura, ma anche l’ambiente, lo sviluppo economico, la produzione di cibo, i servizi.
Tanto per fare un altro esempio, con la futura Toem (la gemella della Tem che dovrebbe svilupparsi in futuro sulla fascia ovest di Milano) saranno cancellate produzioni pari a 4 milioni all’anno di piatti di riso. E dopo che cosa ci resta? Solo l’asfalto.
Per questo prima di pensare a muove grandi opere sarebbe meglio potenziare e riqualificare la viabilità già esistente. Perché le valutazioni sull’impatto delle infrastrutture non basta farle sulle carte, a tavolino, nel chiuso di qualche ufficio, ma bisogna andare sul posto, nei paesi, nelle aziende agricole, guardare in faccia le persone, parlare con loro, trovare soluzioni alternative se possibili e soprattutto capire che dietro i numeri di un progetto, per quanto grande e importante che sia, ci sono sempre le vite delle persone, delle loro famiglie e il loro futuro.
(presidente Coldiretti Milano e Lodi)
Corriere della Sera
Da ottobre i cantieri della Tem
di Luigi Corvi
Partiranno in ottobre i cantieri per la costruzione della Tangenziale esterna milanese (Tem), un’opera attesa da molti anni e che entro il 2015, assieme a Pedemontana e Brebemi, dovrebbe garantire il decongestionamento dell’area milanese giusto in tempo per l’apertura dell’Expo. Ieri il Cipe (il Comitato interministeriale per la programmazione economica) ha dato il via libera alla realizzazione della nuova autostrada, il cui progetto definitivo era stato ultimato più di un anno fa e approvato da Cal, l’ente concedente, nel novembre scorso. La Tem costerà 1,7 miliardi di euro e sarà realizzata in project financing da una spa i cui azionisti principali sono Autostrade per l’Italia e Milano-Serravalle. Permetterà di aggirare a Est l’area metropolitana milanese, oggi vicina al collasso soprattutto nelle ore di punta, collegando l’autostrada del Sole con la A4 Torino Milano-Venezia, dalle porte di Melegnano (Cerro al Lambro), ad Agrate Brianza.
Un tracciato di 32 chilometri a tre corsie per ogni senso di marcia (più la corsia di emergenza) che farà risparmiare 9 milioni di ore annuali di viaggio, assorbendo 75mila veicoli al giorno di cui 35mila di traffico locale. Attraverserà tre province (Lodi, Milano, Monza Brianza) e avrà interconnessioni con le principali arterie dell’est Milanese, come Paullese, Cassanese e Rivoltana, attraverso sei svincoli (a Pessano con Bornago, Gessate, Pozzuolo Martesana Liscate, Paullo, Vizzolo Predabissi) e tre collegamenti con autostrade (A1, A4 e Brebemi).
La costruzione della nuova arteria, che con un accordo di programma ha visto la partecipazione degli enti locali interessati (tra cui venti comuni della provincia di Milano e 7 della provincia di Lodi), renderà necessario adeguare la viabilità ordinaria per rendere scorrevoli le interconnessioni, per ridurre il traffico di attraversamento di alcuni centri abitati e per risolvere situazioni che già oggi sono critiche. Il tutto si tradurrà in 38 chilometri di nuove strade e nella riqualificazione di tratti per un totale di 15.
Lungo il tracciato troveranno spazio 2,2 milioni di mq di verde che dovrebbero consentire di abbattere il 20%di inquinamento. «E’ la più grande operazione europea in project financing in questo momento» , ha sottolineato ieri il viceministro delle infrastrutture Roberto Castelli. Sull’autofinanziamento dell’opera, che sarà pagata con i pedaggi degli automobilisti, si è soffermato anche il presidente della Regione Roberto Formigoni. «Il sistema regionale — ha detto — ha dimostrato ancora una volta di essere capace di fare da sé» .
Soddisfatto anche l’assessore Raffaele Cattaneo: «Dopo Brebemi e Pedemontana abbiamo raggiunto un altro risultato importante. Ora ci batteremo per ottenere dal Cipe i finanziamenti necessari al prolungamento della M2 e della M3» . Critiche invece dal presidente della Commissione urbanistica del Comune di Milano, Roberto Biscardini: «La Tem non è una priorità, con la crisi che stiamo attraversando il progetto dovrebbe essere rivisto e ridimensionato» . La realizzazione della Tem vedrà entro il 2015 il completamento del sistema autostradale formato dalla Pedemontana, a Nord, e della Brebemi sull’asse est-ovest.
Non solo, alle tre nuove autostrade si aggiungerà, entro la stessa fatidica data, l’interconnessione tra Pedemontana e Brebemi, secondo un tracciato che da Treviglio raggiungerà Bergamo, con una bretella di collegamento alla Pedemontana, tra Brembate e Osio Sotto. Un tracciato di 18 chilometri il cui progetto, su incarico di Infrastrutture Lombarde, sarà realizzato da Autostrade Bergamasche, una spa di cui la Provincia di Bergamo ha il 24,71%e di cui fanno parte banche e costruttori della zona attraverso il consorzio Gol, di cui è capofila la Vitali di Cisano Bergamasco. Saranno nove i Comuni attraversati da questa interconnessione: Casirate, Pontirolo Nuovo, Fara Gerda d’Adda, Ciserano, Boltiere, Osio Sotto, Levate, dalmine e Stezzano. Oltre a Treviglio, che verrà a trovarsi in una posizione strategica avendo finalmente collegamenti rapidi con Bergamo e con Milano.
la Repubblica
Via libera finale alla Tem ma sindaci e agricoltori daranno ancora battaglia
di Andrea Montanari
Il sospirato sì del Comitato interministeriale per la programmazione economica al progetto definitivo e al piano finanziario della Tem è arrivato, ma il mondo politico si divide di nuovo sulla nuova tangenziale esterna. Trentadue chilometri che collegheranno l´autostrada del Sole con la Milano-Torino e soprattutto con la Brebemi, la nuova direttissima Milano Brescia. Costo complessivo dell´opera, poco meno di 1,6 miliardi di euro. Interamente in project financing. I sindaci della periferia est, gli agricoltori, gli ambientalisti e la sinistra radicale annunciano battaglia.
«Il Cipe ha approvato l´infrastruttura sbagliata - attacca Damiano Di Simine di Legambiente - . Cancellerà almeno mille ettari si superfici oggi agricole. Qualcuno ha informato il sindaco di Milano che deve attrezzarsi per accogliere in città 70mila auto al giorno in più?». Immediata anche la reazione del socialista Roberto Biscardini, presidente della commissione urbanistica di Palazzo Marino: «La Tem non è una priorità per Milano - spiega - con la crisi che stiamo attraversando questo progetto dovrebbe essere rivisto e ridimensionato». Massimo Gatti della Federazione della Sinistra aggiunge: «Vergogna, milioni di euro buttati, mentre il trasporto pubblico va a pezzi».
Di diverso avviso il Pd Matteo Mauri che però aggiunge: «Finalmente il Cipe ha autorizzato il progetto definitivo. Ora la priorità è la riqualificazione della viabilità ordinaria». Sulle barricate il sindaco di Paullo Claudio Mazzola: «Abbiamo chiesto precise garanzie, non ci faremo prendere in giro». E il direttore della Coldiretti di Milano, Carlo Greco: «Il tracciato divide in due duecento proprietà provocando danni enormi». Il dipietrista Roberto Biolchini parla di «ottimo risultato», ma chiede anche di «tutelare i pioltellesi».
Visibilmente soddisfatto il presidente di Brebemi Spa Francesco Bettoni («è un via libera fondamentale»). L´amministratore delegato di Tem Fabio Terragni annuncia: «Apriremo i cantieri entro fine anno».
Il governatore Roberto Formigoni canta vittoria: «Il sistema regionale ha dimostrato una volta di più di essere capace di fare da sé. Un metodo di cui possiamo essere tutti orgogliosi». Il vice ministro alle Infrastrutture Roberto Castelli precisa che con il via libera alla nuova tangenziale esterna «si completa l´iter burocratico di tutte le opere connesse all´Expo 2015». Il presidente della Provincia Guido Podestà segnala che la Tem ha «un problema di risorse. Adesso bisogna trovare la disponibilità di nuovi soci». Ma l´assessore regionale ai Trasporti Raffaele Cattaneo non ha dubbi: «Senza questo passaggio ci sarebbero stati grossi ostacoli all´avvio dei lavori, che in questo modo si concluderanno all´inizio del 2015, in tempo per l´Expo».
La nuova tangenziale permetterà di assorbire oltre 75mila veicoli giornalieri, di cui 35mila del traffico locale e risparmiare nove milioni di ore annuali di viaggio. Il progetto prevede la collocazione lungo tutto il percorso di 2,2 milioni di metri quadrati di verde. Cosa che secondo i progettisti assicurerà l´abbattimento del venti per cento dell´inquinamento.
La corte d'appello di Perugia ribalta il giudizio di primo grado. L'edificio di cinque piani è sorto nel centro storico grazie al piano parcheggi del Comune. Ora rischia di crearsi un precedente per tutte le città d'arte dell'Umbria
Un palazzo di cinque piani proprio a ridosso delle mura antiche. Un edificio nuovo di zecca in una zona sottoposta al massimo vincolo paesaggistico. Un “ecomostro” nel centro storico di Spoleto, città d’arte della civilissima Umbria, famosa per il Festival dei due mondi. Si può fare. Anche se governa una giunta rossa con Pd, Rifondazione comunista e Idv. Anzi, può diventare un precedente per le tante cittadine gioiello della regione.
E’ la sentenza a sorpresa della corte d’appello di Perugia, che ha cancellato le condanne inflitte in primo grado dal Tribunale di Spoleto a sei persone: costruttori, direttori dei lavori e funzionari comunali. L’(ingombrante) oggetto del contendere sorge in via Interna delle Mura, in una zona nota coma la Posterna. Alto 16 metri, su una superficie 80 metri per 20, per 14 mila metri cubi di volume destinato a edilizia privata in virtù di un permesso di costruire rilasciato dal Comune nel 2006. Ma naturalmente un manufatto del genere, e in quella collocazione, non passa inosservato. I lavori avanzano, molti appartamenti sono acquistati da famiglie che ci andranno ad abitare, fino a che la Procura spoletina apre un’inchiesta. In città, intanto, il palazzo si guadagna il soprannome di “Mostro delle mura”.
Quel permesso di costruire, argomenta l’accusa retta dalla pm Federica Albano, è illegale. Ha concesso indici di edificabilità troppo alti, 7,50 metri cubi per ogni metro quadro di superficie, di gran lunga superiore a quella consentita del centro storico di Spoleto, grazie a un contestato scambio di volumetrie nel progetto. L’iter, infatti, era partito nella seconda metà degli anni Novanta, quando la Findem, di proprietà del geometra Rodolfo Valentini, aveva presentato al sindaco della cittadina umbra un progetto per riconvertire un vecchio magazzino in un “edificio polifunzionale” comprendente un’autorimessa da 478 posti auto. Il piano comprendeva anche un’area di proprietà del Comune, che comunque ci avrebbe guadagnato in termini di posti auto.
Partiva in quegli anni il progetto “Spoleto città senz’auto” per la mobilità alternativa, e tutti quei parcheggi all’ingresso del centro storico sarebbero stati utili. Ma le cose prendono una piega tutta diversa. Dopo una serie di passaggi e ridefinizioni del piano di intervento presentato dai costruttori, e una serie di annullamenti da parte della Sovrintendenza di Perugia dovuti all’incompatibiltà con il vincolo paesaggistico, nel 2006 arriva finalmente l’agognato permesso, intestato alla società Madonna delle Grazie, subentrata alla Findem. Il parcheggio pubblico, che era il solo obiettivo di “Spoleto città senz’auto” diventa secondario, sovrastato dall’edificio di edilizia privata, dove è concentrata la volumetria disponibile.
In base a queste contestazioni, l’8 luglio 2010 il tribunale di Spoleto chiude il processo di primo grado con sei condanne per reati urbanistici, in quanto la costruzione lungo le mura interne avrebbe “distrutto e alterato le bellezze naturali del centro storico della città di Spoleto”. Ne fanno le spese Valentini, il patron dell’operazione, l’amministratore della Findem Francesco Demegni, gli architetti Giuliano Macchia e Alberto Zanmatti, direttori dei lavori, il dirigente dell’Urbanistica comunale Giuliano Maria Mastroforti, il funzionario comunale Paolo Gentili. La sorte del “Mostro delle mura” sembra segnata. Sui costruttori avanza l’ombra di una prossima demolizione.
Il 13 luglio di quest’anno, invece, arriva il colpo di scena. La sentenza della corte d’appello di Perugia assolve tutti: il cantiere della Posterna è regolare. Le motivazioni, attese in autunno, spiegheranno la scelta dei giudici, che potrebbe avere effetti pesanti sulla tutela dei magnifici centri storici della regione: “Questa è una sentenza pilota”, hanno commentato gli avvocati della difesa. ”In Umbria non vi sono, né vi sono mai stati, a partire dall’anno 2000, casi analoghi a quello in causa”, aveva sottolineato nella sua requisitoria il sostituto procuratore generale Roberta Barberini. “La domanda che in questo processo ci si pone”, ha continuato, “in fondo è: si possono costruire grattacieli in centro storico, effettuando un’apparente cessione di cubatura da un’area destinata alla realizzazione di un’opera pubblica (i parcheggi di “Spoleto senz’auto”, ndr)?
La risposta, evidentemente, è sì.
L´assessore Bruno Tabacci venerdì scorso, prima che il sindaco Pisapia annunciasse l´azzeramento del consiglio di amministrazione di Atm e quasi a creare un clima adatto, aveva informato i giornalisti: «Il governo a proposito del finanziamento della MM4 ci ha detto che il contributo dello Stato, ancorché stanziato e ripartito su più anni, ci sarà solo se le casse saranno in grado di erogarlo concretamente, trasferendo le somme al destinatario». Come dire: se ce li ho te li do. Tanto per capirci, sono una parte modesta dei 1.486 milioni di euro per i quali il governo si era impegnato a finanziare l´Expo. Giustamente l´assessore si domandava se fosse legittimo fare gare d´appalto senza sapere se ci saranno i soldi per pagare le imprese. Verrebbe da dire, quasi fossimo al tavolo da gioco: «Soldi sul tavolo». Non solo dirlo al governo ma a tutti i soggetti che nel dossier di presentazione al Bie sono indicati come finanziatori e cioè: governo per 1.486 milioni, Regione, Provincia e Comune per 851 milioni e per finire i privati per 891 milioni. Se il governo ha dato una risposta di questo genere cosa diranno gli altri partner? Chi sono questi privati? Il loro interesse a entrare nel gioco è rimasto immutato anche se i chiari di luna dell´economia e delle aziende sono notevolmente cambiati?
Tempo fa da queste colonne, prima dell´insediamento della nuova giunta, osservavo che era arrivato il momento che qualcuno desse autorevolmente un quadro complessivo dell´operazione Expo a oggi. Ripropongo la stessa questione perché ritengo necessaria una sorta di sportello unico del Comune che risponda alle domande dei cittadini e degli operatori su Expo. In base alle deleghe assessorili non saprei a chi rivolgermi, visto che la delega di Stefano Boeri, principalmente alla cultura ma l´unica in cui compaia la parola Expo, recita: «Promozione, valorizzazione e diffusione dei risultati della manifestazione del 2015». E dunque sembra escludere ogni attinenza al finanziamento e alla realizzazione. Si direbbe che solo al sindaco competano le attività delle quali ci stiamo occupando, perché tra le sue attribuzioni leggiamo: «Definizione degli indirizzi e coordinamento della realizzazione di grandi eventi di rilevanza nazionale e internazionale promossi da singoli assessori o d´interesse del Comune di Milano». Un lungo giro di parole per dire essenzialmente Expo. Allora, per via istituzionale, è da lui che dobbiamo aspettarci qualcosa sullo stato "realistico" dell´arte sull´evento e forse l´indicazione di un suo delegato speciale alla bisogna, visti i gravosi impegni che lo aspettano in futuro per dare attuazione al suo programma. Se poi, per dannata ipotesi, non si ottenesse dal governo una reale garanzia sui finanziamenti, cosa si dovrà fare? Per MM4 si possono limitare i lavori a un solo tratto, ma di Expo non se ne potrà fare un terzo o metà! Allora tanto ne abbiamo a lasciar perdere o, almeno prudentemente mettere allo studio un piano B che individui subito le opere "minime" necessarie a tagliare il nastro nel maggio 2015.
La notizia apparsa sabato sul vostro quotidiano a firma di Vittorio Emiliani è totalmente falsa e fantasiosa. Le considerazioni di carattere personale e le insinuazioni che mi vengono rivolte, le rispedisco al mittente, concentrandomi su cose più serie. Sulla vicenda invece del Polo Museale di Napoli voglio precisare che, il meccanismo perequativo secondo il quale le soprintendenze «più ricche» possono ripianare il rosso delle più «povere», è un fatto ordinario. La malevolenza con cui si insinua che, in quanto napoletano e sottosegretario ai Beni Culturali, avrei esercitato pressioni per attuare questo meccanismo a favore del Polo Museale di Napoli è falsa e priva di ogni fondamento, in quanto non me ne sono mai personalmente occupato. I 10 milioni di euro di passivo del Polo Museale, saranno ripianati secondo il citato meccanismo di perequazione, stornando 5 milioni rispettivamente dalle Soprintendenze Speciali Archeologiche di Roma e di Pompei, con il consenso delle stesse e senza alcuna pressione da parte di nessuno. In un momento in cui si parla tanto di stravolgimenti del Federalismo, sono certo di aver dimostrato di avere a cuore l'intero patrimonio artistico italiano e di aver, anzi, combattuto contro ogni forma distorta di campanilismo. Sono meridionale ed amo la mia terra, ma ho sempre lavorato per il paese e credo che, se anziché cercare fantasmi, ci si impegnasse nella ricerca delle vere storture del sistema, avremmo sicuramente un Patrimonio culturale ed artistico migliore.
Riccardo Villari
Il sottosegretario Villari omette due dati di fondo: 1) le Soprintendenze speciali devono essere autosufficienti, se quella del Polo Museale di Napoli non lo è, pur amando anche noi molto il Sud, va ridotta a Soprintendenza «normale» (meno spendereccia); 2) all'archeologia di Roma e Ostia i 5 milioni di euro sono stati sottratti «col consenso» dell'architetto Cecchi commissario straordinario all’ “emergenza»: se si lascia sfilare quei denari, l'emergenza-crolli e altro non c'è più, e dunque deve dimettersi. Il resto? Parole in libertà, transumanti come il senatore Villari.
Vittorio Emiliani
Chi legge eddyburg ha imparato a diffidare del termine “perequazione”, perché in genere nasconde operazioni di scambio quasi sempre a danno del nostro territorio. Il caso in questione conferma la regola.
Se è vero che sia legittimo andare in soccorso delle Soprintendenze economicamente male in arnese, questo meccanismo dovrebbe essere improntato a principi di trasparenza e razionalità: senza intaccare, cioè, i fondi per le somme urgenze (per di più di una Soprintendenza commissariata come è quella archeologica di Roma e Ostia, e quindi in emergenza) o per progetti in corso di ultimazione (al Sottosegretario sono noti i costi di arresto di un cantiere per oltre un anno?).
Al di là dell’incredibile ipocrisia con cui si è cercato di far passare questo scippo, inserendolo nel decreto “salva Pompei” quasi si trattasse di attribuire nuovi fondi al sito, mentre si stava progettando di sottrarne, questa vicenda sottolinea in maniera impietosa l’incapacità gestionale dei vertici del Ministero dei Beni Culturali.
Quanto alla visione federalista del Sottosegretario Villari, che si è fatto allestire, a poche ore dalla nomina, acconcio ufficio a Castel dell’Ovo, la sua attenzione esclusiva a tutto ciò che succede con vista Vesuvio si appaia perfettamente a quella, altrettanto a senso unico, del suo collega Giro per quanto riguarda ciò che accade all’interno delle mura Aureliane (o poco oltre).
Sarà un caso che le deleghe del Ministero, attribuite non certo per ambito culturale o tipologia di attività, come ci si sarebbe aspettato, coincidano esattamente con i bacini elettorali dei due Sottosegretari? (m.p.g.)
Sulla vicenda, in eddyburg
Si è tenuta oggi ai piedi dello storico monumento la conferenza stampa indetta dall’Italia dei valori contro l’accordo che affida a Della Valle la sponsorizzazione dei lavori di restauro. I dubbi del partito sulla legittimità del patto e sulle conseguenze per l’erario. Donadi: “In atto un magna magna a spregio del pubblico interesse”
“Un’operazione di pura svendita e dismissione di competenze che consegna nelle mani dei privati un immenso patrimonio artistico e culturale”. È la denuncia dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, che sulla sponsorizzazione dei lavori di restauro del Colosseo, affidata alla Tod’s di Diego Della Valle, vuole vederci chiaro. Questa mattina, una delegazione dell’Idv si è riunita ai piedi del “gigante buono” per annunciare il ricorso all’Autorità di Vigilanza dei Contratti Pubblici in vista della valutazione di legittimità dell’accordo con l’imprenditore marchigiano. Per i dipietristi, quella in atto, è “un’operazione condotta esclusivamente a fini commerciali, che in barba alla normativa vigente e a scapito dell’interesse pubblico, farà fare grossi profitti al privato”.
Il patto firmato, in data 21 gennaio 2011, fra la Tod’s spa, la Soprintendenza Archeologica di Roma e il Commissario Straordinario per gli interventi sulle aree archeologiche di Roma e Ostia, consente allo sponsor di costituire un’associazione che potrà registrare e utilizzare, in esclusiva mondiale e a tempo indeterminato, un logo con l’immagine del Colosseo “in maniera – denunciano i dipietristi - del tutto svincolata dall’iniziativa di restauro”. Un particolare che l’articolo 120 comma 2 del Codice Beni Culturali non prevede e che a fronte di un contributo iniziale da parte della società, di soli 25 milioni di euro (tasse incluse), permetterebbe allo sponsor di incassare ingenti somme di denaro. Se a questo poi si aggiunge la possibilità di dare vita a un centro per i servizi di accoglienza con area ristoro e attività commerciale, “la posta in gioco diventa ancora più alta”, ha chiosato la consigliera alla Regione Lazio, Giulia Rodano. “In questo modo – precisa – non solo si svende l’immagine di un gran pezzo del nostro patrimonio artistico e culturale, che andrebbe tutelato secondo Costituzione, ma anche la sua stessa gestione”.
Da un lato, dunque, l’incapacità di valorizzare beni culturali di inestimabile valore per il paese e dall’altro la poca trasparenza nelle procedure amministrative. “Governo e Comune – ha denunciato il capogruppo dell’Idv alla Camera dei Deputati, Massimo Donadi - si sono mossi con un’ingiustificabile opacità nel fare questa convenzione”. “Della Valle – spiega – ha bypassato la gara pubblica facendo la propria offerta in una trattativa privata che non chiarisce il ruolo degli enti pubblici”. Per esempio, non si dice se Comune, Provincia, Regione e Stato dovranno versare a Della Valle un corrispettivo monetario per tutte le volte che useranno l’immagine del Colosseo, come nel caso del logo che apparirà sui biglietti d’ingresso, stimati in oltre cinque milioni. “Altro che magnate”, affermano riferendosi all’imprenditore, patron tra l’altro della Fiorentina. “Se lo fosse veramente – incalza Donadi - avrebbe fatto come la Hewlett-Packard, la grande azienda informatica che oggi sta finanziando con 200 milioni di euro propri la ricostruzione delle rovine di Ercolano, senza nessuna contropartita, senza nessuna pubblicità e soprattutto senza nessuna connivenza poco chiara con questo governo e questa amministrazione cittadina”. Per il capogruppo Idv alla Camera dei Deputati, “qui c’è solo un magna magna a spregio del pubblico interesse”. Ma nessuno, a parte pochi, sembra volersene accorgere. “Stupisce – ha ammiccato il segretario romano dell’Idv, Roberto Soldà – che Comune e Regione siano rimasti silenti di fronte a questa situazione inaccettabile”. Eppure c’è poco da fare: i beni culturali, al pari di acqua e ambiente, sono costituzionalmente tutelati e considerati beni comuni. “Proprio per questo motivo – hanno affermato in chiusura – noi, come Italia dei Valori, ci impegniamo fin da ora a contrastare qualsiasi tentativo di privatizzazione dei beni culturali. Lo abbiamo fatto per l’acqua e continueremo a farlo anche per il Colosseo, come per il resto del patrimonio monumentale italiano”.
É stato presentato il 28 luglio a Bologna il Rapporto di Legambiente Emilia Romagna sulle infrastrutture. Il documento ha voluto mettere in fila le principali infrastrutture stradali previste in regione, mostrandone i limiti e gli impatti che porteranno.Nella Regione Emilia Romagna, i livelli di inquinamento sono quelli comuni a tutto il bacino padano (tra le regioni più inquinate del mondo)e il numero di auto per abitante è superiore alla media nazionale; l’Osservatorio Nazionale per il Consumo di Suolo (ONCS) ha stimato che in Emilia Romagna dal 1975 ad oggi si è costruito con un ritmo di 8 ettari al giorno. Pur in questa situazione, le principali opere in programma a scala regionale e provinciale sono nuove autostrade, tangenziali, strade provinciali.
Il comune denominatore di buona parte delle infrastrutture analizzate è quello di incentivare ulteriormente il traffico su gomma, secondo una logica vecchia, e di non prendere in considerazione alternative valide.
TERZO PONTE SUL PO: LE VALUTAZIONI DI LEGAMBIENTE
L'intervento consiste in un nuovo collegamento autostradale tra il casello di Castelvetro Piacentino e la SS 10 Padana inferiore, con attraversamento del fiume Po e collegamento con il porto interno di Cremona, ed opere connesse. In territorio emiliano le opere prevedono la realizzazione di un nuovo casello a Castelvetro, un raccordo autostradale con la SS 10 e la SS 234, con un nuovo ponte sul Po.
Così si legge nel rapporto sulle infrastrutture in Emilia Romagna: «Da uno studio interdisciplinare realizzato da autorevoli docenti ed esperti (in ecologia, botanica, pianificazione del territorio, urbanistica, architettura, estetica, conservazione della natura, tecnica e pianificazione urbanistica, scienze della terra e tossicologia degli inquinanti ambientali), si evince che il progetto del Terzo Ponte è in contraddizione con le scelte di sostenibilità ambientale, sociale ed economica che devono caratterizzare un futuro sostenibile».
«Il progetto ha ottenuto il via alla Valutazione di Impatto Ambientale ed è stato ripubblicato il 31/03/2010. Ma lo stesso (così come il Decreto VIA) ha recepito ben poco del parere della Regione Emilia Romagna, ovvero un documento di 53 pagine fitto di osservazioni. Tra i suoi punti deboli il progetto definitivo non ha preso in considerazione diverse alternative progettuali molto meno costose ed impattanti e non prende in considerazione il calo di flussi di traffico pesante del 7,5% nel biennio 2008-2009 e conseguentemente l’effettiva necessità dell’opera.
Per quanto riguarda il contesto ambientale e gli impatti si riscontra: sottrazione di suolo (quasi 300 ettari di aree golenali, zone agricole di pregio ed aziende agricole), con frazionamento ed inutilizzabilità delle aree agricole; forte impatto su tre aree Natura 2000 (SIC e ZPS), frammentazione di 1000 ettari di habitat di riproduzione, possibile impatto su numerosi animali tutelati; attraversamento di una zona di industrie a rischio di incidente rilevante; aumento dell’inquinamento dell'aria di Castelvetro poiché cinturato completamente dall'autostrada.
Esistono diverse possibili ipotesi alternative al terzo ponte, meno costose ed impattanti, fondate su premesse fondamentali quali l'intangibilità del comprensorio golenale a cavallo del Po, l'uso urbano del ponte in ferro esclusivamente per il traffico automobilistico leggero e il trasferimento di tutto il traffico pesante sulle circonvallazioni e sull’autostrada:
1. Chiusura del casello autostradale di Castelvetro piacentino, che ha dimostrato nei suoi oltre trent'anni una bassa utilità per il territorio emiliano (nessun insediamento produttivo sul territorio in funzione della sua presenza) a fronte di un esclusivo interesse per l'area lombarda. Mentre aree come quelle di Piacenza e dei Comuni di Caorso e Monticelli d'Ongina, hanno evidenziato lo sviluppo esponenziale, per quanto discutibile, di insediamenti a vocazione logistica a fronte di nessun simile insediamento in Castelvetro.
2. Liberalizzazione completa del tratto tra i caselli autostradali di Castelvetro e Cremona in entrambi i sensi in modo che diventi una superstrada senza pedaggio e praticabile come viabilità ordinaria, da rendere comunque in ogni modo obbligatoria per i mezzi pesanti che attraversano il Po. Il difetto di tale proposta è quello di presentare un percorso più lungo per i mezzi che devono raggiungere da sud la zona industriale, ma di certo è la soluzione più rapida, meno costosa e meno impattante per le aree ecologicamente pregiate presenti lungo il grande fiume.
3. Realizzazione della “Gronda nord”. L'accettazione del ruolo di questa direttrice dipende, oltre che da motivazioni derivabili dalla lettura dell'assetto infrastrutturale del comprensorio di Cremona, da giustificazioni sull'opportunità di raccogliere in questa posizione tutti i principali flussi est-ovest che attraversano l'area cremonese. Il tracciato dovrà svilupparsi in modo da assolvere a funzioni di scorrimento del traffico a livello comprensoriale e regionale, collegando le principali funzioni integrative della città
4. Sfruttamento della viabilità esistente e ponti sul Po già in uso. Si tratta di un itinerario raggiungibile dalla A21 attraverso il posizionamento di un nuovo casello o utilizzando quello di Caorso. Per la funzionalità piena di questo nuovo percorso sono necessari interventi meno impegnativi e meno costosi della realizzazione del terzo ponte e comunque molto meno impattanti sul territorio.
Questo sito ha già ricevuto a proposito del "terzo ponte" di Cremona memorie tecniche dettagliate in cui si spiega, sia in una prospettiva di mobilità a scala sovraregionale, che di area urbana, e ovviamente di tutela ambientale, quanto sia schematica, autoreferenziale, sostanzialmente arbitraria, la soluzione.
L'articolo che proponiamo ora riassume in breve più o meno le stesse motivazioni, ovvero che è possibile ottenere i medesimi risultati in termini di risposta alle esigenze di mobilità, accessibilità, e anche sviluppo, con una soluzione "sistematica" anziché puntando alla solita grande opera.
Possiamo sicuramente aggiungere almeno due considerazioni, la prima oggettiva e la seconda assai soggettiva, ma di una "soggettività" che crediamo coinvolga parecchie persone, abitanti e utenti della città e del fiume.
La prima è che il classico modello ad anello di tangenziali, caro ad un certo approccio meccanicistico allo sviluppo urbano, ha storicamente e puntualmente generato, più prima che poi, la crescita informe di insediamenti nota come sprawl, che in un territorio agricolo e naturale come quello cremonese e di Castelvetro a cavallo del fiume pare davvero del tutto incongruo. Questo anche se non fosse conclamato l'elevato valore naturalistico delle sponde interessate.
La seconda vorrei proporla semplicemente con due foto, e invitando i lettori a immaginarsi il resto. Quella "prima della cura" è uno scatto della sponda meridionale, in comune di Castelvetro, più o meno dove si propone l'attraversamento del terzo ponte. Quella "dopo la cura" è l'attuale scavalcamento della A21, un chilometro circa più a valle, vista dal parco urbano cremonese di sponda. Premetto che non ho alcun rapporto diretto e quotidiano con quei posti, abito a Milano e nessuno mi ha mai incaricato di studiare alcunché da quelle parti. Gli scatti sono del tutto casuali, uno del 2011, uno del 2008. Grazie per l'attenzione (f.b.)
|
per ulteriori informazioni e altre immagini vedi QUESTOsito - il citato Rapporto Legambiente con le critiche alle altre opere inutili in Emilia Romagna è scaricabile direttamente qui di seguito
Ad oltre 100 giorni dal così detto decreto “salva cultura” (n.34, 31/3/2011) con il quale si sarebbero dovuti rimpolpare i magri bilanci del Mibac, sull’orlo del collasso dopo i tagli lineari delle precedenti finanziarie, la situazione appare non solo ancora gravissima, ma a dir poco contraddittoria.
Nonostante i reiterati annunci, così come Italia Nostra aveva denunciato con tempestività (comunicato del 12 aprile 2011), nessuna risorsa certa risulta stanziata per Pompei.
Non solo, ma il comma 8 del decreto prefigurava, al contrario di quanto ci si sarebbe attesi da un provvedimento dedicato a – letteralmente - “Potenziamento delle funzioni di tutela dell’area archeologica di Pompei”, un trasferimento di fondi tra Soprintendenze.
All’epoca, solo Italia Nostra aveva sottolineato come si trattasse in realtà di rendere possibile il passaggio di risorse non verso Pompei, ma da Pompei verso altre Soprintendenze in difficoltà gestionale.
Gli annunci di questi giorni sugli storni di fondi a salvataggio della disastrata situazione finanziaria del Polo Museale napoletano, svelano le vere finalità del decreto.
Italia Nostra ribadisce che operazioni di trasferimento da Soprintendenze “ricche” verso istituzioni economicamente svantaggiate, ma non certo meno importanti come Capodimonte (ma probabilmente da ripensare come autonomia), sono del tutto legittime, ma vanno compiute nella massima trasparenza e con una strategia complessiva che, al contrario, nel caso in questione appare del tutto assente.
Come giustificare, infatti, che il prelievo delle risorse finanziarie della Soprintendenza Archeologica speciale di Roma e Ostia (assieme a Napoli e Pompei, l’altra Soprintendenza interessata dallo storno a favore di Napoli), vada a decurtare pesantemente il fondo per gli interventi di estrema urgenza, ovvero sia quelle risorse necessarie per sopperire a situazioni di emergenza (crolli, ecc.), del tutto prevedibili in una Soprintendenza come quella di Roma, addirittura commissariata con provvedimento di Protezione Civile?
E ancora, come è possibile che si sia deciso di sottrarre fondi su progetti già deliberati dal Consiglio di Amministrazione, dopo che negli ultimi anni, ai più alti livelli politici del Ministero si era continuato a ripetere che le Soprintendenze non erano capaci di spendere e che il problema erano i residui passivi?
Se questa è la situazione per quanto riguarda Roma, su Pompei i problemi sono, se possibile, ancora più gravi.
Nulla è stato fatto ancora per l’assunzione di personale specializzato, così come stabilito dal decreto e come a più riprese richiesto nel mission report Unesco successivo ai crolli dello scorso novembre; neppure concepita risulta la procedura di utilizzo (criteri, ecc.) delle graduatorie di idonei di recenti concorsi Mibac: così un’occasione più unica che rara, ovvero sia la possibilità di assumere personale pluriqualificato, selezionato con procedure pubbliche e trasparenti, viene persa a causa di inerzia gestionale.
Italia Nostra rileva inoltre che molti dubbi gravano sull’effettiva disponibilità dei fondi (105 milioni) che dovrebbero essere stanziati per la maggior parte dalla Regione Campania (POIN, FAS?) per l’attuazione del piano di recupero del sito pompeiano. Tali fondi, infatti, non risultano nella disponibilità esclusiva della Campania, ma, secondo l’iter procedurale approvato dalla Commissione europea, dovrebbero essere deliberati di concerto con le altre regioni meridionali interessate. Nulla o poco di tutto questo è stato fatto sino a questo momento e l’utilizzo dei fondi in questione risulta quindi relegato ad un futuro dai contorni sfumati.
Infine, per tornare alla vicenda del prelievo di fondi a favore del Polo museale napoletano, Italia Nostra sottolinea il rischio che tali decurtazioni possano mettere in discussione progetti già avviati e funzionali alle operazioni di tutela dei siti gestiti dalla Soprintendenza napoletano-pompeiana, così come addirittura la prosecuzione del Conservation Herculaneum Project, il progetto finanziato dalla Fondazione Packard che lo stesso mission report Unesco riconosce come modello di eccellenza cui fare costante riferimento nel piano di recupero.
Italia Nostra esprime quindi, da un lato, la propria profonda preoccupazione sulla situazione del sito pompeiano, e richiama l’attenzione sulle 15 recommendations espresse nel mission report Unesco, frutto di un’accurata indagine di studiosi internazionali di acclarata competenza e fino a questo momento a dir poco trascurate dagli organismi ministeriali.
Sul piano complessivo gestionale, infine, Italia Nostra riafferma la necessità di elaborare una strategia unitaria di gestione finanziaria che permetta alle Soprintendenze di uscire dalle impasses evidenti in cui si trovano, pressoché tutte, e che ne compromettono il fondamentale ruolo di tutela del nostro patrimonio culturale. Anche questa recentissima vicenda dei trasferimenti di risorse fra Soprintendenze, gestita in modo affrettato ed opaco tanto da trasformarsi in una tristissima “guerra tra poveri”, denuncia il fallimento delle scorciatoie commissariali e di una gestione amministrativa estemporanea ed emergenziale e ripropone l’urgenza di un ripensamento complessivo dei meccanismi di gestione: il nostro patrimonio ne ha bisogno. Al più presto.
Non c’è pace per Pompei. Come se non bastassero Domus crollate, scavi fermi, intonaci scrostati, allarmi dell’Unesco, ignobili lastroni di cemento sul teatro grande (sequestrato dalla magistratura) e sprechi faraonici, il sito archeologico che il mondo ci invidia subisce ora un taglio di fondi. La beffa è ancor più atroce pensando che il salasso nasce da un intervento istituzionale promosso per aumentarli.
«Merito» del decreto legge varato dal governo quattro mesi fa, denominato «Disposizioni urgenti in favore della cultura...» e presentato con plateale autocompiacimento come provvedimento salva-Pompei. Bel salvataggio: sul bilancio di quest’anno quasi 5 milioni di euro in meno, il 25 per cento circa. Un’eterogenesi dei fini tipicamente e maledettamente italiana, perché colpisce anche i beni archeologici di Roma e serve a mettere una pezza sugli scandalosi buchi contabili di un’altra soprintendenza napoletana.
Accade questo. Primavera 2011: il governo si mobilita dopo i crolli dei mesi precedenti. E inserisce una norma rubricata «Potenziamento delle funzioni di tutela dell’area archeologica di Pompei». Il diavolo si nasconde nell’ultimo comma, che prevede per il ministero dei Beni culturali la possibilità di spostare fondi da una Soprintendenza a un’altra, in caso di necessità.
Pare un toccasana: ora potranno finalmente arrivare i sospirati nuovi finanziamenti. Al contrario, nei giorni scorsi il ministero ha comunicato al CdA della Soprintendenza che sì, intende avvalersi di quella norma, ma per decurtare il bilancio di Pompei, non per rimpinguarlo. E dunque, dice il ministero, rifate i conti e arrangiatevi. La Soprintendenza ha già avviato le riunioni operative per distribuire i sacrifici, facendo i conti con le rimostranze di chi lavora sul campo.
Le conseguenze del taglio di budget sono presto spiegate: stop anche a progetti già deliberati, blocco di attività di tutela in corso, possibili danni al patrimonio. Un autogol che rischia di allontanare non solo gli imprenditori francesi che hanno offerto 20 milioni di euro per Pompei a patto di avere un piano chiaro e definito, ma anche i partner privati che già ci sono. Per esempio la Fondazione Packard, che su Ercolano ha adottato un modello lodato dall’Unesco (ma ignorato in Italia). Gli americani mettono un euro per ogni euro speso dal ministero e non gradiranno che la controparte se ne riprenda qualcuno a metà dell’anno.
Ma il ministero ha altre urgenze. I soldi tolti a Pompei servono a ripianare i debiti di un’altra Soprintendenza napoletana, il Polo museale che gestisce tra l’altro il museo di Capodimonte con risultati tutt’altro che memorabili (non figura tra i 30 musei statali più visitati, superato da realtà minori come Trieste, Ravenna, Sirmione).
Un carrozzone creato nel 2003 tra le perplessità degli addetti ai lavori e che garantisce prestigiose poltrone, stipendi maggiorati (un soprintendente speciale guadagna il 30 per cento più di uno ordinario) e un ricco budget da gestire direttamente. Il Polo museale sta affondando in un buco spaventoso: 12 milioni di euro di debiti accumulati in pochi anni. Tanto da indurre il ministero a svenare non solo Pompei, ma anche l’altra Soprintendenza archeologica speciale, quella di Roma che cura un patrimonio immenso, dal Colosseo all’Appia antica. Altri 5 milioni di euro sottratti da un giorno all’altro. Nella capitale si fermano dunque i lavori per il quarto lato di Palazzo Massimo. Un progetto a cui si lavora da anni e destinato a ospitare una caffetteria a concessione privata, abortito proprio in vista del traguardo per mano dello stesso ministero che ha puntato tutto su valorizzazione e gestioni esterne.
Non solo: la scure si abbatterà per 1,7 milioni anche sul fondo destinato agli interventi «di somma urgenza», accantonato per crolli, danneggiamenti, maltempo. La riduzione è di circa il 50 per cento. Dunque per quest’anno a soprintendente, archeologi e direttori dei musei non resteranno che amuleti e scongiuri.
Che le soprintendenze ricche (Pompei e Roma sono considerate le galline dalle uova d’oro) aiutino quelle povere, è naturale e s’è sempre fatto. Ma per esigenze tecniche e di tutela, con capitoli di bilancio preventivati e spalmando i benefici su diversi enti. Non in queste dimensioni. Non intervenendo con l’accetta in corso d’opera. E non per ripianare i debiti di un solo ente sprecone, alimentando «in modo affrettato e opaco» quella che Italia Nostra definisce «una guerra tra poveri».
Le beffe per Pompei non finiscono qui. Il decreto di marzo prevedeva anche un piano straordinario di salvaguardia, il dirottamento di 105 milioni di euro presi dal «bancomat» dei fondi Fas per le aree sottosviluppate, le nuove e agognate assunzioni di personale.
Tutte misure positive. Peccato che dopo quattro mesi siano ancora sulla carta. Il piano straordinario è molto contestato e va nella direzione diversa rispetto a quanto richiesto dai tecnici dell’Unesco. I fondi Fas non sono arrivati, la procedura per sbloccarli è lunga. E le assunzioni restano un miraggio. La richiesta al ministero è chiara: servono subito 25 nuovi tecnici, di cui 14 archeologi.
A Pompei oggi lavora un solo archeologo, mentre l’ultimo mosaicista andato in pensione nel 2001 non è mai stato sostituito. Gli operai per la manutenzione quotidiana sono scesi da 98 a 8. Spiegano gli esperti che senza personale adeguato i piani di tutela sono chimere: chi li attua?
Ma prima delle assunzioni, sono arrivati i tagli.
Verso uno sciopero generale nella cultura e nei beni culturali? Niente più cellulari di servizio, in tutta Italia, per soprintendenti, direttori,ispettori, tecnici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Comunichino a loro spese. Lo stesso per la benzina: neanche una goccia rimborsata. Chi deve girare l’immensa Puglia, arrampicarsi per i siti della Basilicata e della Liguria, o vigilare sull’estesissima area di Roma e Ostia, si arrangi. Ovviamente i cellulari e le auto blu della affollatissima direzione generale funzionano in pieno. Ma c’è dell’altro. Ricordate il senatore Pd che bloccò la Vigilanza Rai rifiutando di dimettersi da presidente essendo stato eletto coi voti del Pdl? Riccardo Villari è, da maggio, sottosegretario (in premio) ai Beni culturali. In realtà sarebbe stato più adatto alla Transumanza essendo stato Dc, Ppi, Cdu, Udeur, Ulivo, Pd, Pr, Mpa. Ora, placato, puntella il governo con Scilipoti.
Il 23 luglio le agenzie hanno annunciato che il fresco sottosegretario aveva incaricato i tecnici di aprire «in tempi brevissimi» una sede distaccata del MiBac a Napoli. Risposta soltatnto ironica ai Ministeri inaugurati della Lega (più la Brambilla) alla Villa Reale di Monza? Lui dice di sì. Però il prode Villari va sul concreto. E’ lui, dicono, che ha pressato con successo il segretario generale del MiBac Roberto Cecchi affinché stornasse 5 milioni di euro provenienti dal fondo della Soprintendenza speciale per l’archeologia romana, e ad essa già destinati, per dirottarli sul Polo Museale della sua Napoli. E ci è riuscito irritando non poco Cecchi: 1) perché oltre che segretario generale, è ancora commissario straordinario per l’archeologia romana e quindi deve, con quello storno, danneggiare gravemente se stesso; 2) perché, come come direttore generale ai beni storico-artistici, avrebbe dovuto vigilare più severamente sul Polo Museale partenopeo. In realtà, trattandosi di Mezzogiorno, pare che Villari abbia trovato l’alleato più risoluto nel capo di gabinetto, il giovane, potente, iperprotetto da Palazzo Chigi, Salvo Nastasi. Alla faccia della «valorizzazione museale».
Le denunce dei comitati locali (Giù le mani da Baratti, Comitato per Campiglia), di Legambiente, delle liste civiche della Val di Cornia e soprattutto del Forum per San Vincenzo (lista civica guidata dal giovane Nicola Bertini), ripropongono all’attenzione dell’opinione pubblica toscana e nazionale la vicenda del Parco di Rimigliano, nel Comune di San Vincenzo.
Un piccolo Comune lungo la costa dell’alta maremma con più case che abitanti (7856 abitazioni per 7002 abitanti censiti nel 2009) e un consumo di suolo cresciuto del 70% negli ultimi dieci anni. Un paese sul mare cresciuto a dismisura, trasformato radicalmente in ogni suo angolo e deprivato della propria memoria; irriconoscibile per chi ricorda com’era solo 40 anni fa. Una costa urbana con spiagge snaturate dalle costruzioni fin sugli arenili e, in ultimo, massacrate da un orrendo porto che negli ultimi anni ha obliterato per centinaia di metri anche la vista del mare. Le colline sopra il paese aggredite già negli anni 70-80 da un edilizia selvaggia e disarmonica, proseguita poi lungo gli stupendi viali di campagna che da San Vincenzo risalivano sulle colline fino a San Carlo, piccolo e ben conservato nucleo di abitazioni per i dipendenti della Solvay. Lungo quei viali sono sorti fabbricati di ogni genere, con vecchi edifici rurali deformati e lievitati volumetricamente a dismisura fino a diventare anonimi condomini. La bellissima campagna che degradava dalle colline verso il mare è oggi irriconoscibile, disseminata di seconde case costruite intorno ai vecchi poderi e massacrate da vere e proprie “micro lottizzazioni”, non si capisce come autorizzate nel territorio rurale. Questo è oggi San Vincenzo.
Qui, da 13 anni, è in corso un dibattito sulle sorti del parco di Rimigliano, dopo che nel 1998, con l’approvazione del primo piano strutturale, l’amministrazione comunale decise sciaguratamente di concedere, all’allora proprietario Callisto Tanzi, la possibilità di costruire un grande albergo di 15.000 mq. all’interno della tenuta agricola che da il nome al parco: 560 ettari di campi e pinete lungo la costa a sud del paese di San Vincenzo, con decine di fabbricati rurali storici sapientemente inseriti in uno straordinario paesaggio rurale. Quella stessa tenuta che, alla metà degli anni 60, aveva suggerito ad altre amministrazioni di sinistra la sua classificazione a parco naturale, insieme agli otto chilometri di litorale coperti da ottanta ettari di macchia mediterranea e da pinete.
Contro quella decisione intervennero associazioni ambientaliste e l’architetto Italo Insolera, ideatore e progettista del parco di Rimigliano, la cui storia è raccontata nel bellissimo libro “Parchi Naturali. L’esperienza di Rimigliano” di Luigi Gazzola e Italo Insolera. (Edizione delle Autonomie. Roma, 1982). Rimigliano fu il primo parco della costa livornese da cui trasse spunto il più vasto progetto del sistema dei parchi della Val di Cornia, delineato alla fine degli anni 70 con i piani regolatori coordinati dei comuni di Campiglia. Piombino, San Vincenzo e Suvereto.
Contro quella decisione intervenni pubblicamente anch’io (allora presidente della società “Parchi Val di Cornia” che i Comuni avevano costituito proprio per attuare il sistema dei parchi previsti dai piani regolatori coordinati) perché avvertivo che quella decisione rappresentava una ferita insanabile per Rimigliano, totalmente incoerente con le finalità del parco e foriera di ulteriori e peggiorativi sviluppi urbanistici. Sviluppi che, purtroppo, si sono poi configurati con la successiva variante del 2008 al piano strutturale, fino alla variante del 2010 al Regolamento urbanistico che riduce l’albergo da 15.000 a 6.000 mq. (spostandolo però nel centro della tenuta agricola) e apre la porta a circa 180 seconde case che saranno realizzate demolendo e ricostruendo, in luoghi diversi, circa due terzi dei 17.000 mq. di poderi e annessi agricoli d’interesse storico. Il cosiddetto piano di miglioramento agricolo ambientale, già approvato dalla provincia di Livorno e dallo stesso Comune di San Vincenzo, prevede solo il mantenimento di 650 mq. di annessi agricoli e nessuna abitazione rurale per una azienda di 560 ettari: uno scandalo che merita di essere indagato perché quelle scelte portano diritto alla dismissione della funzione agricola e non certo al suo miglioramento, in netto contrasto con gli indirizzi delle leggi regionali.
Sulla variante, con le osservazioni, hanno espresso giudizi fortemente negativi il Forum per San Vincenzo, il Comitato per Campiglia e la stessa Regione Toscana che ha avanzato precise richieste di chiarimento sugli effetti che saranno prodotti sui poderi storici, sul paesaggio rurale e sull’ambiente, a partire dai consumi idrici dell’albergo, delle seconde case e delle piscine previste nella tenuta, in una zona con gravi problemi di salinizzazione delle falde.
L’assessore all’urbanistica della Regione Toscana, Anna Marson, sollecitata da cittadini e comitati, ha manifestato la propria disponibilità a sostenere un percorso partecipativo qualora l’amministrazione comunale di San Vincenzo lo richieda. Per questo è stata redarguita dai dirigenti locali e regionali del PD.
Il professore Salvatore Settis, a più riprese, è intervenuto sulla stampa per denunciare lo scempio che si sta per consumare. Le occasioni sono state offerte da recenti dibattiti pubblici per la presentazione del suo ultimo libro “Paesaggio, Costituzione, Cemento” (Giulio Einaudi Editore. Torino. 2010) nel corso dei quali il caso di Rimigliano è stato sollevato per denunciare quanto sia arduo in Italia preservare il paesaggio, inteso come bene comune vitale per l’identità, il benessere dei cittadini e l’economia del paese. Tanto più in un Comune come San Vincenzo che ha dilapidato il patrimonio identitario del suo territorio per approdare ad una anonima conurbazione affogata nel cemento.
Tutto questo accade mentre il Comune di San Vincenzo ha deciso, nel 2009, di rivedere il vecchio piano strutturale, dichiarando, con atti amministrativi, di volersi allineare alla pianificazione degli altri Comuni (che, al contrario di San Vincenzo, hanno classificato tutti i parchi come “aree naturali protette” ai sensi della legge quadro 394/1991), di voler proteggere il residuo ecosistema comunale, di voler garantire che nelle campagne si faccia solo agricoltura. Tutti buoni propositi clamorosamente contraddetti, però, dalle decisioni che il Comune sta per assumere in via definitiva in questi giorni.
Per restituire un minimo di credibilità alla politica, occorre dunque sospendere le decisioni su Rimigliano. Occorre mettere mano con urgenza al nuovo Piano Strutturale di San Vincenzo, bloccare le scelte non ancora attuate che possono compromettere i beni comuni (e Rimigliano lo è), confrontare le strategie di governo del territorio con quelle degli altri Comuni e con i nuovi indirizzi del governo regionale e, infine, sarà necessario assumere decisioni coraggiose coerenti con la tutela dell’agricoltura e del paesaggio.
Decidere di far costruire un albergo e seconde case nella tenuta agricola di Rimigliano era un gravissimo errore già nel 1998, ma di fronte al consumo di suolo degli ultimi 10 anni, alla disgregazione del territorio rurale, alla crescita smisurata e patologica di seconde case, insistere ancora su questa posizione è semplicemente un attentato al bene comune e all’interesse generale, di San Vincenzo e della Toscana.
L’Autore è stato presidente della società Parchi Val di Cornia dal 1998 al 2007. Dal 2009 capogruppo della lista civica “Comune dei Cittadini” nel Comune di Campiglia Marittima.