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«Un articolo del professor T. Montanari su “In Cristo, uno scambio di opere d’arte fra Mosca e Firenze”, uscito il 1 settembre pare basato su frammenti e pettegolezzi assai sfocati. Il suo pezzo, foto inclusa, indica ai lettori come oggetto dello scambio opere sbagliate, svela battaglie di fatto mai esistite, equivoca le date, erra nell’indicare le istituzioni titolari dei prestiti italiani, inventa pressioni e resistenze di cui il sottoscritto – che effettivamente da alcuni anni si dedica a questo lavoro connesso all’edizione critica dei concili – gli avrebbe potuto certificare la totale insussistenza. Padrone Montanari di considerare l’inesistente scambio che ha raccontato ai lettori di “Saturno”, o quello vero di cui ha letto sul “Corriere fiorentino” del 2 settembre e che vedrà a suo tempo, come un errore, in nome d’un certo rigorismo: ma per essere rigoristi, bisognerebbe pure essere rigorosi. E il Montanari di venerdì scorso non lo era.

Alberto Melloni»

Il 22 aprile scorso l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, ha scritto una lettera alla soprintendente Cristina Acidini in cui chiedeva di spedire in Russia la Croce di Giotto di Ognissanti. In quella lettera, il prelato provò a blindare l’operazione sventolando il consenso «delle più alte cariche dello Stato, in particolare della Presidenza della Repubblica e della Presidenza del Consiglio». Non so come la chiami Melloni: per me si tratta di una pressione indebita e spiacevole su funzionari dello Stato. E quelle parole hanno anche un’aria vagamente millantatoria, perché dubito che il presidente Napolitano sia mai andato oltre un generico compiacimento per l’iniziativa in sé. Quanto al presidente del Consiglio, è lecito dubitare che egli sappia chi sia Giotto.

Comunque, il 20 maggio l’Opificio delle Pietre Dure ha coraggiosamente emesso una relazione tecnica che si concludeva in questo modo: «Come si evince da tutte le osservazioni presentate sia nella parte relativa allo stato di conservazione, sia in quella della movimentazione, i problemi di conservazione sono molti, ed alcuni assai gravi e difficilmente risolvibili in maniera soddisfacente, tanto da far ritenere che sia quasi impossibile pensare di poter organizzare una movimentazione che non presenti rischi gravissimi». Ciò vuol dire che se Giuseppe Betori e Alberto Melloni avessero potuto fare ciò che desideravano, un’opera capitale di Giotto sarebbe stata esposta a «rischi gravissimi». Ma – si dirà – come avrebbero potuto saperlo, visto che di mestiere uno fa il vescovo e l’altro lo storico della Chiesa? Una risposta che non farebbe una grinza, se essi non stessero organizzando una mostra d’arte antica italiana a Mosca.

Ed è esattamente questo il senso principale del mio articolo. La maggior parte delle infinite mostre che ogni anno si inaugurano in Italia non scaturisce dalla ricerca storico-artistica o dal desiderio di aumentare e diffondere la conoscenza dell’arte figurativa: più radicalmente, la maggior parte delle mostre non ha più a che fare con un progetto culturale.

Essa si deve invece all’iniziativa estemporanea e alla volontà autopromozionale di amministratori, politici, imprese, associazioni laiche o enti religiosi. O, ancora, allo scoccare di centenari e anniversari; alla disponibilità di un finanziamento; all’interesse di uno sponsor.

Negli ultimi tempi, poi, si è registrata una decisa propensione della gerarchia cattolica verso l’organizzazione di mostre “confessionali” che riempiano l’intrattenimento culturale di contenuti accuratamente orientati. È il caso, per esempio, della mostra sul Potere e la Grazia. I santi patroni d’Europa tenutasi a Roma tra 2009 e 2010. La mostra – promossa da un certo Comitato San Floriano – non aveva il minimo valore scientifico e ostentava anzi una connotazione pastorale e proselitistica: nondimeno essa è stata ospitata a Palazzo Venezia, e ha goduto di prestiti davvero straordinari (tra cui il San Giorgio dell’Accademia di Venezia, negato invece all’importante mostra monografica di Mantegna al Louvre), oltre a essere inaugurata dal presidente del Consiglio (insieme, s’intende, al cardinale segretario di Stato vaticano). Lo stesso si può dire della reclamizzatissima mostra su Gesù. Il corpo e il volto nell’arte che ha accompagnato l’ostensione della Sindone nella primavera 2010: un’esposizione priva di qualunque rigore storico che raccoglieva opere importantissime all’insegna della più stucchevole retorica religiosa. E qui non si tratta di girare un documentario o di pubblicare un libro, ma di utilizzare (e quindi potenzialmente compromettere) opere di proprietà dello Stato, per alimentare un’operazione non culturale, ma puramente confessionale. Non meno interessanti, in tal senso, sono le iniziative dell’ambasciatore Antonio Zanardi Landi. Quando rappresentava l’Italia presso la Santa Sede, egli ha, per esempio, osato chiedere in prestito (ottenendole!) le celeberrime formelle bronzee di Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi per il concorso del 1401. Queste opere venerabili sono state strappate al Museo del Bargello per presenziare alle celebrazioni dell’ottantesimo anniversario dei Patti Lateranensi: un gesto che ha lo stesso valore culturale che avrebbe l’esposizione di un busto di Pio XII per festeggiare un centenario di quel concorso per la porta orientale del Battistero di Firenze. Nel giugno dello stesso 2009, l’ambasciata di Zanardi Landi ha poi ospitato il gigantesco modello per la Fontana dei Fiumi di Bernini conservato presso i privati che possiedono le ultime reliquie dell’eredità dell’artista. Si tratta di un’opera dall’attribuzione alquanto problematica: ma soprattutto non si vede che senso abbia esporla in occasione della presentazione della trentesima edizione del Meeting riminese di Comunione e Liberazione, immancabilmente avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri, Franco Frattini. Siamo evidentemente di fronte a un sistematico sfruttamento del patrimonio artistico, che viene letteralmente abusato, al di fuori di ogni controllo. Ora che rappresenta l’Italia in Russia, l’ambasciatore Zanardi Landi sta gestendo brillantemente il vertiginoso valzer delle opere d’arte che il nostro Paese dissennatamente gli spedisce: e si capisce che dopo tanto maneggiare opere d’arte, egli sia diventato anche un virtuoso dell’ecfrasis, come si evince dalle parole che ha pensato bene di pronunciare ricevendo la Medusa di Bernini a Mosca: «questa scultura, tra tante, non è stata una scelta casuale: Medusa ha lasciato una traccia nella storia dell’arte russa del passato e contemporanea; è pure un personaggio ricorrente nei libri russi per bambini e ha ispirato le canzoni di vari gruppi rock e punk».

Ma torniamo allo scambio Mosca-Firenze. Grazie all’articolo di Melloni sul «Corriere Fiorentino» del 2 settembre (dal significativo titolo Betori, il Battistero e le icone del dialogo) si apprende che il casting non si è chiuso sulla Croce di Lippo di Benivieni (per la quale il 27 luglio la Soprintendenza di Firenze aveva già compilato la scheda conservativa preliminare al prestito), ma che ora si sta riprovando a scritturare un Giotto autografo (la Madonna di San Giorgio alla Costa) e uno di bottega (il Polittico di Santa Reparata). Quale miglior conferma della mancanza di serietà di un’operazione che continua a sfogliare il catalogo del padre dell’arte italiana come se fosse una margherita?

Ed è proprio questo l’aspetto più inquietante del testo di Melloni: l’esibita, financo sprezzante, ignoranza della storia dell’arte. E siccome è raro trovare una dichiarazione tanto esplicita di un sentimento invece piuttosto diffuso tra gli accademici italiani, non è inutile guardare quel testo un po’ più da vicino (lo riprodurrò ampiamente, evidenziandone le citazioni in grassetto; chi lo vuol leggere tutto, lo trova qui). Lo si può dividere in una premessa, nella spiegazione del senso dell’evento fiorentino e moscovita, e infine nella risposta alle critiche del sottoscritto (mai, tuttavia, nominato).

La premessa è articolata in due parti. Nella prima si afferma (invero piuttosto confusamente) che la storia dell’arte è «una disciplina a sé stante» che si occupa solo di «estetiche e tecnicalità» e «che non può che prescindere dalla funzione esercitata da oggetti di cui il committente ha pagato l’oggettività e nei quali l’artista ha usato linguaggi suoi». Ma per fortuna arriva lo storico della Chiesa, che sa decifrare i «significati terzi: che non necessariamente differiscono e non necessariamente coincidono con quelli del committente e dell’autore. Significati legati alla memoria, alla comunicazione o alla fede». Insomma, lo storico dell’arte può dire se una Madonna di Giotto è bella o brutta, e com’è fatta la carpenteria della sua tavola, ma per capirne il significato storico e morale, ci vuole uno storico della religiosità.

Di fronte ad affermazioni di questo tenore viene solo da commentare che le constatazioni che Roberto Longhi faceva nel 1951 (in Il livello medio della nostra cultura artistica) sono validissime ancora a sessant’anni di distanza: riguardo all’arte figurativa «la cultura media in ogni strato non è al livello che si vorrebbe, anzi incredibilmente più in basso». Davvero in ogni strato: anche tra i professori universitari di storia della Chiesa, visto che Melloni ignora non solo Longhi stesso, Panofsky, Baxandall, Haskell o Shearman, ma pure Ghiberti, Vasari, Bellori o Burckhardt. Più semplicemente, egli ignora che la storia dell’arte, da seicento anni a questa parte, è una “storia” (che si occupa anche di funzione e significati), esattamente al pari di quella che insegna lui, e non un gergo per imbonitori o un lessico tecnico per restauratori.

Nella seconda parte della premessa, si tirano le somme di tutto ciò sul piano dell’uso del patrimonio artistico. E sono somme davvero drastiche: dal momento che la storia dell’arte non è una storia, le preoccupazioni relative alla conservazione materiale e a una corretta lettura storica dell’opera nel suo contesto figurativo e culturale sono ubbie di romantici snob. E non sto esagerando: Melloni sbeffeggia e liquida tutti coloro che hanno a cuore la tutela delle opere d’arte definendoli letteralmente «fautori di una degustazione romantica in situ di opere che spesso in quel luogo ci sono finite per caso, o per rapina o per disgrazia e che invece esibendosi, fuori di contesto o per prestito sono diventate patrimonio comune di milioni di esseri umani in carne e ossa, talora perfino giovani, e dunque sprovveduti dell’armamentario critico-linguistico dello specialista, cose che un tempo erano riservate a una eletta schiera di degustatori». Il che tradotto in italiano vuol dire: «signori, finalmente farò capire Giotto ai giovani, e lo farò prendendo un’opera delicatissima, sbattendola nell’inverno russo e recidendone ogni intellegibile legame col contesto figurativo e culturale ancora visibile a Firenze. Alla faccia di quei quattro snob elitaristi degli storici dell’arte».

Dopo averci dunque spiegato in quanta considerazione egli tiene i musei italiani (che per lui sono il frutto non di una luminosa storia culturale plurisecolare, ma del caso e della rapina), Melloni viene al concreto e presenta lo scambio di opere d’arte che pianifica da anni. Per intendere bene quanto segue, bisogna sottolineare il notevole understatement del professore, capace di parlare in questi termini dell’operato della Fondazione per le Scienze Religiose che egli stesso presiede: «un lavoro scientifico finissimo il cui valore non è sfuggito su scala internazionale (è stato presentato da Romano Prodi all’Expo di Shanghai e dal Patriarca ecumenico a Istanbul, capitale della cultura europea) e che ha rafforzato la credibilità di un interlocutore scientifico di prima grandezza». Accanto al lavoro di Melloni, ecco quello di Betori, presentato in modo altrettanto defilato: «la nuova traduzione della Bibbia in italiano – di cui l’Arcivescovo di Firenze, monsignor Giuseppe Betori, è stato protagonista – ha attirato sulla sua fine costruzione l’attenzione di diverse istituzioni accademiche e teologiche russe, alla prese con i problemi di una versione della Scrittura consacrata dalla liturgia e difficile per i fedeli». Come una conseguenza logica e ineluttabile di tutto questo dolciastro fumo di turiboli, ecco entrare in scena l’idea della mostra: «Questo ha permesso di formulare la proposta di impreziosire l’anno Italia/Russia con uno scambio di capolavori dell’arte sacra che dicessero esattamente questo: cioè la profondità del legame e la ricchezza della diversità che si basa sulla fede comune del Niceno II». Eccola finalmente, quella funzione delle opere d’arte che i poveri storici dell’arte non sono in grado di capire: venire imballate, imbarcate su un cargo e quindi essere scambiate allo scopo di «impreziosire» un evento a esse radicalmente estraneo, e invece sinistramente prossimo a una smaccatissima operazione di autocelebrazione degli organizzatori.

Come sempre, la scelta delle parole è illuminante, e l’idea che l’arte figurativa abbia il ruolo ancillare e superfluo di «impreziosire» qualcos’altro meriterebbe un’analisi a sé: ma qui basti notare quanto sia impressionante che un professore universitario di storia si esprima esattamente «come il più cafone degli antiquari, o come la sciùra milanese che impreziosisce il centro tavola con una composizione di peonie» (secondo le icastiche parole di un collega reduce dalla lettura del «Corriere Fiorentino»).

Naturalmente non si poteva «impreziosire» con un’opericciuola qualunque, e Melloni dichiara che «la proposta aveva bisogno di capolavori auteloquenti, per nome e per portata». In queste poche, cruciali parole il l’incenso si dirada, e Melloni getta la maschera: il fine esegeta dei profondissimi significati religiosi (quelli che sfuggono alla storia dell’arte) lascia destramente il campo al pratico uomo di marketing che vuole grossi nomi e opere «di portata», quasi si parlasse di un toro da monta o di una vacca da esposizione. E invece no, niente animali: si tratta della «Maestà di San Giorgio alla Costa e del Polittico di Santa Reparata attribuito al “Parente” di Giotto: queste due opere saranno esposte nella sede centrale del celebre museo moscovita, alle spalle della Chiesa della Madonna ‘gioia di tutti i sofferenti’ di cui è titolare il Metropolita di Volokolamsk, Hilarion Alfeev, capo del dipartimento delle relazioni esterne della Chiesa russa. Dalla Tretyakov, per decisione della sua direttrice Irina Lebedeva e della vice Tatiana Gorodkova, verranno a Firenze tre opere senza pari: la Madre di Dio Odighitria di Pskov, la Crocifissione di Dionisij e una Ascensione nella cui straordinaria qualità gli specialisti vedono la mano di Andrej Rublev. Queste icone verranno esposte, con le cautele di tutela del caso, non in un museo: ma nel Battistero di Firenze». Traduciamo: per celebrare un Concilio del 787, Mosca spedirà a Firenze tre icone del XV secolo, e Firenze spedirà a Mosca due dipinti realizzati tra il XIII e il XIV secolo. Un’operazione fumista quasi quanto la prosa che la difende, e in cui è davvero arduo trovare la benché minima traccia di senso storico, o anche un significato morale qualunque. E non si venga a parlare di ecumenismo, visto che un’ora qualsiasi della vita spirituale e sociale di Taizé o di Bose produce frutti cento volte più ricchi di questo micidiale concentrato di retorica, vanità e frusciar di mitrie e corone.

Infine, ecco la risposta alle critiche: il progetto «aveva bisogno di verifiche tecniche negli organi di tutela che sono state richieste e adempiute (hanno dato corso a qualche pettegolezzo fasullo, incautamente raccolto e agghindato con piccole bugie anticlericali, come da noi talora accade). E ha incontrato l’entusiasmo delle massime istituzioni dei due Stati, che hanno gli strumenti per distinguere fra uso e abuso delle opere d’arte».

In questo brano mirabile si contano almeno tre motivi interessanti.

Il primo è l’alterazione dei dati di fatto. A me non risulta affatto che le verifiche tecniche siano state adempiute. Con una solenne gaffe istituzionale, Melloni ha annunciato la partenza di due opere sul cui prestito non si sono ancora espressi gli organi centrali del Ministero per i Beni Culturali. E quando lo faranno, voglio sperare che la boccino, perché sarebbe criminale spedire nella gelida ed umida Mosca invernale un’opera chiave per la ricostruzione del giovane Giotto (peraltro danneggiata dalla bomba mafiosa del 1993), e l’antica pala d’altare della cattedrale di Firenze. Se il valore culturale di una mostra è davvero rilevante, si può anche accettare che opere uniche di settecento anni fa corrano qualche rischio. Ma non certo per «impreziosire l’anno Italia/Russia con uno scambio di capolavori dell’arte sacra».

Il secondo motivo notevole è il disprezzo per le regole, per le procedure e per le riserve degli storici dell’arte, cui si oppone l’entusiasmo dei politici. È davvero curioso che un professore di una pubblica università contrapponga alle garanzie del sapere e delle competenze l’arbitrio del principe: ma evidentemente i venticinque anni di plebiscitarismo berlusconiano hanno profondamente sfigurato l’etica pubblica di questo paese.

Infine la comoda spiegazione, ideologica e pregiudiziale, del dissenso: l’anticlericalismo! Su questo punto vorrei davvero rassicurare Melloni: non avrei scritto niente di diverso se questa irresponsabile iniziativa fosse stata animata da un assessore del PD, da un rabbino o dall’amministratore delegato di un’azienda privata. Ma, da cittadino e da cattolico, non posso far finta di non vedere che la gerarchia cattolica italiana sta facendo un uso assai spregiudicato del patrimonio dell’arte sacra del passato. Pochi giorni fa proprio l’Opera del Duomo di Firenze ha avuto, per esempio, la pessima idea di istituire una tessera tagliacoda a pagamento per l’accesso in Cattedrale, e in molte chiese della città di Betori (a partire proprio dal Battistero che ospiterà le icone russe) si entra versando moneta sonante, con una malcelata simonia che riesce a vanificare contemporaneamente il significato civile e quello religioso di questi indispensabili polmoni dello spirito.

Dettagli per Melloni, che sentendosi evidentemente un novello Giovanni Crisostomo (cioè «dalla-bocca-d’oro», per la sua eloquenza), si getta in una conclusione che sta tra l’omelia e l’esaltazione mistica: «Un catalogo della mostra, nella quale si vedrà l’impegno della Enciclopedia Italiana e si sentiranno le voci delle autorità degli Stati, dei governi, delle Chiese, delle autorità, degli studiosi, dei teologi, accompagnerà queste opere: nel cui viaggiare ciascuno riuscirà soltanto a leggere qualcosa di sé. È giusto così». Personalmente, non riesco a consolarmi pensando che Giotto sarà scortato da un catalogo siffatto, dove la voce degli «studiosi» (e quali? Forse gli storici della Chiesa, non già i disprezzati storici dell’arte!) sarà una su sei, essendo le altre cinque tutte riservate al potere (e perché sia chiaro la parola «autorità» ricorre ben due volte), o alla teologia. Pare davvero inverosimile che l’Enciclopedia Italiana di Giuliano Amato si presti a un’operazione del genere, ma si deve sapere che Melloni siede nei consigli scientifici di Treccani e Dizionario Biografico: dunque conta di fare tutto in casa.

Con il piglio di un vero direttore di coscienze, infine, il professor Melloni prescrive ciò che ciascuno di noi dovrà leggere nel viaggiare di Giotto a Mosca: «soltanto qualcosa di sé». E quindi la chiusa, memorabile: «È giusto così». Mi dispiacere deludere Melloni, ma io in questo «viaggiare» (che spero le istituzioni tecniche-scientifiche dello Stato abbiano ancora la forza di impedire) vedo solo uno dei tanti segni della notte culturale in cui siamo immersi: una notte in cui brillano solo la celebrazione dell’ego e il potere del marketing.

Ed è per questo che vorrei rammentare al professor Alberto Melloni (il quale presiede la fondazione di Giuseppe Dossetti; e il cuore sanguina, a pensarlo) che proprio il costituente Dossetti avrebbe voluto nella Costituzione un articolo che recitasse così: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino».

Ecco, temo che per difendere l’articolo 9 della Costituzione – quello per cui «la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione» – sia venuta l’ora in cui gli storici dell’arte, e tutti coloro che amano e conoscono l’arte del passato, diano vita a una vera resistenza nei confronti di ogni tentativo di strumentalizzare, abusare, privatizzare e mettere a rischio quello straordinario bene comune che è il nostro patrimonio storico e artistico.

Il bilancio del premio Nobel a 100 giorni dall'insediamento. "La cultura del Pd è sempre quella". E su Penati: "Non è certo un caso che fosse il braccio destro di Bersani. Era lui a consigliare"

Giuliano Pisapia è sindaco da cento giorni, e Dario Fo, suo grande sostenitore, adesso un po’ lo compiange: «Non vorrei essere al suo posto».

Perché?

«Deve tirare calci come un cavallo imbizzarrito per scacciare la gramigna che gli sta attorno».

Gramigna, erba infestante. Forse è il caso di spiegare la metafora botanica.

«Giuliano è stato capace di suscitare un movimento straordinario, e ha vinto perché ha saputo dare un taglio netto a un certo modo di fare politica tipico della sinistra, anzi del Pci milanese. Gli è andata — ci è andata — bene perché la cultura del Pd è rimasta sostanzialmente quella. E non parlo solo della vicenda Penati».

E allora andiamo con ordine: di quale cultura politica parla?

«Prima degli aspetti giudiziari, che contano eccome, bisogna considerare quello che è successo alle primarie del centrosinistra».

E cioè?

«Si è ripetuto lo schema del 2006, quando mi candidai alle primarie: stessa logica di potere, il partito che cerca di imporre il proprio uomo in una competizione che invece dev’essere il più possibile libera. Certo, Boeri era meglio del questurino Ferrante. Aggiungo anche che non faccio accostamenti tra lui e Penati. Ma la logica è stata quella».

Ecco, veniamo al caso Penati.

«Pisapia si è trovato a gestire una situazione in cui un uomo politico indicato come poco onesto gli è stato messo vicino. Anche se di lato: anzi, contro. Questo non è certo bello».

E secondo lei come si è comportato il sindaco?

«L’ho detto: ha scalciato. Insomma, ha deciso di non farsi tirare dentro in quello che io chiamo il mercato dei gestori economici della Lombardia, cercando di farla finita con un andazzo che a Milano ha una storia tragica. Quella della commistione tra una certa sinistra e il potere. Con grossi speculatori che hanno fatto scempio della città, comprandosi i terreni e costruendo grattacieli. C’è da diventar matti».

In che senso?

«Giuliano vince contro queste persone, ma poi qualcuna se la ritrova dentro».

Non crede che occorra distinguere?

«Non sto dicendo che tutto il Pd è Filippo Penati. Resta il fatto che questo partito, almeno alle primarie, ha fatto una campagna contro Pisapia. Che poi ha vinto, facendo diventare vincitore anche il Pd. Un Pd che tuttavia non si accontenta di aver contribuito alla vittoria: continua a fare la sua politica».

Tornando a Penati?

«Non è certo un caso che fosse il braccio destro di Pier Luigi Bersani. Era lui a consigliare, contribuiva a dare la linea. Questo per dire che la logica degli affari andava avanti».

Nel merito, come giudica i primi cento giorni di Pisapia?

«Ultimamente sono stato lontano da Milano, prima di rispondere voglio documentarmi, e soprattutto parlare con lui».

Ma secondo lei il "vento nuovo" della primavera milanese soffia ancora?

«Io lo spero. Ma è dura, quando sei continuamente messo di mezzo da certi personaggi e da una certa politica. Lui non c’entra niente, ma deve fare un lavoro della madonna per buttare alle spalle logiche e comportamenti che perpetuano vecchi schemi».

Insomma, bisogna salvare il soldato Giuliano?

«Confido sia capace di salvarsi da solo. Ma, ripeto, è dura, se il panorama è questo. Prenda D’Alema, che ha brigato per avere un titolo onorifico dal Vaticano. Poi va in tv, e quelli gli chiedono anche che cosa pensi della situazione politica... Uno così dovrebbe essere solo sbeffeggiato, e invece nel Pd conta ancora moltissimo».

Il funzionario della soprintendenza deve andare a fare un sopralluogo sull’Appia Antica, a decine di chilometri dal centro di Roma e ben oltre il Grande Raccordo Anulare? Che ci vada in tram. O in autobus, se preferisce. Peccato che gli antichi romani, ignari del declino civile dei discendenti italici, costruendo la Regina Viarum 2250 anni fa non pensarono di affiancare alle basole in pietra rotaie per tram e corsie preferenziali per autobus. Al ministero dei Beni culturali non importa. Bisogna risparmiare e non è il caso di andare per il sottile: ispettori, funzionari, archeologi in giro per l’Italia a bordo della propria auto non si vedranno più rimborsate le spese di benzina. Se le paghino da sole, come mecenati o volontari, oppure si arrangino con i mezzi pubblici.

Tutti in tram, dunque. Anche se la missione sui cantieri comporta il trasporto di pesanti zaini con attrezzature e vestiti di ricambio. Anche dove i mezzi di trasporto pubblico non arrivano, come in genere capita sulle rovine di civiltà antiche. Anche se la località da raggiungere dista centinaia di chilometri, con due o tre cambi di treno e diverse ore di viaggio, quando in autostrada basterebbe mezz’ora. Anche se la missione richiede più spostamenti in una giornata, incompatibili con le coincidenze dei bus locali. Il risultato, come paventato in un’assemblea di funzionari a Roma, è la paralisi. Ieri qualcuno ha già annullato missioni programmate da tempo per l’impossibilità di raggiungere la destinazione.

Le nuove disposizioni nascono da una norma della manovra finanziaria del 2010 che vieta i rimborsi delle missioni. Il ministero aveva cercato di eluderla, ma esponendosi alla scure della Corte dei Conti, che ad aprile ha interpretato la regola senza eccezioni. Il ministero si è adeguato con una circolare rivolta a tutte le soprintendenze, gli organi sul territorio che tutelano quelle bellezze archeologiche, paesaggistiche e architettoniche di cui lo stesso governo si vanta negli spot televisivi.

I soprintendenti, a loro volta, devono obbedire per non esporsi a processi davanti alla Corte dei Conti per danno erariale. Anna Maria Moretti, capo della Soprintendenza archeologica di Roma, l’ha fatto con una laconica nota che ha lasciato sbigottiti gli archeologi che ogni giorni macinano chilometri per raggiungere musei, ruderi, scavi: «Si comunica a tutto il personale che a decorrere dal 5 aprile 2011 non potrà essere riconosciuto il rimborso per l’utilizzo del mezzo proprio». Al massimo, un euro: il costo del biglietto integrato a tempo da 75 minuti dell’Atac. La disposizione è retroattiva: per le spese sostenute dal 5 aprile a oggi, regolarmente autorizzate, vale la strofa della tarantella napoletana: «Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto... chi ha dato, ha dato, ha dato... scurdámmoce ‘o ppassato...».

Oltre al danno, la beffa. Non solo le soprintendenze, prive di quell’autonomia che consentirebbe di aumentare gli introiti promuovendo le gestioni virtuose, vengono strangolate dai tagli lineari (20/30% ogni anno) e, cancellando i rimborsi, ai tecnici viene impedito di svolgere metà delle funzioni di salvaguardia del patrimonio culturale. Il governo che non vuole imporre un balzello agli evasori che hanno beneficiato dello scudo fiscale perché «lo Stato violerebbe il patto di lealtà», rifiuta di rimborsare ai suoi dipendenti spese già effettuate nel suo interesse, violando il patto con cui aveva garantito il ristoro.

Cose che capitano, perché come spiegano al ministero «alla fine i tagli incidono sulla carne di chi lavora». I numeri sono implacabili, in un settore che ha il record di siti Unesco, produce oltre 40 miliardi di euro l’anno con 550 mila lavoratori. In un decennio, il budget culturale ha perso 500 milioni di euro su 2 miliardi, riducendosi dal già esiguo 0,39% del bilancio statale al misero 0,21%. Un decimo di quanto spendono Francia, Gran Bretagna e Germania. Senza l’Appia Antica da raggiungere in tram.

La tutela del patrimonio archeologico di Roma sembra avere il valore di 1 euro, pari ad un biglietto integrato a tempo, che dura, com’è noto, settantacinque minuti. «Chissà se in settantacinque minuti riusciamo a salire e scendere dai mezzi pubblici e ad avventurarci a piedi nelle aree archeologiche del suburbio?» A chiederselo ieri, riunita in assemblea presso Palazzo Massimo, tutta la rappresentanza del personale tecnico, della Soprintendenza speciale ai beni archeologici di Roma, allarmata per l’ennesimo "schiaffo" alla professionalità di chi lavora al servizio della cultura. La bizzarria è che per i vari dirigenti e funzionari archeologi che effettuano sopralluoghi costanti ai cantieri, il rimborso alle spese per l’uso della propria vettura corrisponde all’uso di un autobus.

Una beffa che si va ad aggiungere al mancato riconoscimento dei rimborsi per le spese della benzina della macchina personale con cui i dipendenti della Soprintendenza svolgono i servizi esterni. A far scattare la mobilitazione è stata una circolare interna alla Soprintendenza del 5 settembre che richiama una nota del segretariato generale del 23 giugno scorso che, a sua volta, interpretava in modo restrittivo una sentenza della Corte dei Conti del 5 aprile. «In sostanza, si stabilisce non solo che non potrà essere riconosciuto il rimborso delle spese connesse, che l’uso della macchina viene pagato come un autobus, ma che tale disposizione ha validità retroattiva a partire dal 5 aprile», dichiara Roberto Egidi direttore del Foro Romano e del Palatino.

«Dal 5 aprile gli archeologi si vedono tagliati dagli stipendi, che vanno da 1300 a 1700 euro al mese, circa 200, 300 euro al mese per sostenere autonomamente le spese per garantire la tutela del patrimonio di cui sono responsabili» - incalza la direttrice dell’Appia Antica e di Palazzo Massimo Rita Paris. «Il nostro lavoro è basato sulla tempestività, visto che sul territorio di Roma ci sono in atto almeno un centinaio di cantieri preventivi - sottolinea Egidi - E con la macchina, a proposito di economicità, noi riusciamo a fare più sopralluoghi nella stessa giornata. Che dobbiamo fare, aspettare le coincidenze degli autobus o andare a piedi?». Per questo, l’assemblea ha scritto una lettera per la Soprintendente Anna Maria Moretti in cui si chiede di far presente al Ministero la gravità della situazione in presenza del patrimonio archeologico più importante del mondo e ancora sotto regime di Commissariamento. «Fin da domani - dice Paris - parte del personale, non utilizzerà più il mezzo proprio. Questo significa innescare uno sciopero bianco permanente, un black out dei cantieri. Si andrà verso la paralisi». A rischio, gli stessi cantieri del Commissario Cecchi. Dall’Appia Antica, a Ostia Antica, fino a tutto il Parco di Veio nella parte romana.

Postilla

La situazione denunciata nell’articolo di cronaca romana è purtroppo comune a tutte le Soprintendenze d’Italia, non solo archeologiche.

Al di là della gravità formale di un atto a valenza retroattiva (al Collegio Romano sembra ormai sconosciuto anche l’abc dell’amministrazione), questa restrizione che impedisce de facto il monitoraggio del territorio assesta un colpo micidiale al sistema della tutela in Italia.

Aree vastissime, non servite regolarmente dai mezzi pubblici, sono così abbandonate ad un destino da Far West.

Ciò che manca, da sempre, a questo paese, è un’efficace rete di controlli e monitoraggi. Per quanto riguarda il territorio, questo compito, a difesa del nostro patrimonio culturale e del nostro paesaggio, era svolto, da decenni, dal personale di Soprintendenza, spesso unico, fragile presidio della legalità territoriale.

Privare le Soprintendenze di questo compito, significa snaturarne radicalmente le funzioni e comprometterne l’attività, spesso irreparabilmente: eventualità che poco preoccupa, evidentemente, gli altri vertici del Ministero. (m.p.g.)

7 settembre 2011

QUESTO CAPANNONE S’HA DA FARE:

PIUTTOSTO SPOSTIAMO GLI ETRUSCHI

Comunicato del gruppo cosiliare

di: Laboratorio per un'altra San Casciano -

Rifondazione Comunista

5 settembre, seduta della Commissione consiliare ambiente e territorio per discutere il Regolamento Urbanistico Comunale di San Casciano in val di Pesa: i rappresentanti del gruppo Laboratorio per un’altra San Casciano – Rifondazione Comunista abbandonano la seduta perché ritengono inutile partecipare a una discussione, pur fondamentale perché relativa ad ulteriori incrementi del consumo di suolo, quando sono stati negati trasparenza e coinvolgimento su un intervento assolutamente rilevante per il nostro territorio come l'area archeologica di Ponterotto emersa nel corso dei lavori del cantiere Laika, e chiedono l'immediata discussione dell'intero progetto nella commissione medesima.

Sorprese estive. Nel mese di agosto la Giunta comunale di San Casciano ha approvato una delibera dal titolo “Approvazione accordo per la disciplina dei rapporti per la rimozione, ricollocazione, restauro e valorizzazione delle strutture archeologiche rinvenute in località Ponterotto”. Erano diversi mesi, per lo meno dall'aprile 2010, che era stato chiesto ufficialmente un chiarimento in merito agli scavi in atto nel sito del cantiere Laika. Fu risposto, dall’Amministrazione comunale e anche dalla Soprintendenza, che la situazione era sotto controllo, che si procedeva tranquillamente al rilievo dei reperti e che, una volta chiusa l'indagine archeologica, sarebbe stata resa nota la relazione finale con la quale avremmo potuto conoscere la natura e l'entità dei ritrovamenti.

Anche nel successivo mese di settembre, in occasione dell'approvazione della delibera per lo stanziamento di fondi per un non ben identificabile “Museo Laika” denunciammo la mancanza di trasparenza non essendo assolutamente chiaro il tipo di intervento che si andava delineando sul sito archeologico. Adesso con la delibera del primo agosto scopriamo che già nel giugno 2010 il gruppo Hymer (proprietario di Laika) aveva avanzato la proposta di una “rimozione” del complesso dei reperti archeologici (etruschi e romani, ossia dell'intero insediamento edificato) e successiva “ricollocazione” in altra sede, e che questa proposta era stata accolta favorevolmente sia dal Comune che dalla Soprintendenza. Per più di un anno, quindi, si sono svolti tutti i contatti che hanno portato a questa delibera, presentata come una originale “valorizzazione” di un sito archeologico, ma l'Amministrazione in tutto questo periodo non ha ritenuto opportuno discuterne in modo esauriente in consiglio comunale e neanche in commissione urbanistica.

Di norma in situazioni di questo genere i casi sono due: o i reperti non hanno gran valore, e allora se ne fa il rilievo e se ne pubblicano i risultati scientifici, per poi ricoprire il sito, oppure lo scavo si rivela importante e allora saranno i progetti di nuove opere che si dovranno adeguare. E’ quanto è successo a Gonfienti, nel caso del centro intermodale di Prato, ma anche sulla Grosseto-Siena, dove il tracciato è stato “rialzato” per lasciare la possibilità di studiare reperti etruschi importanti, vicino a Roselle. Qui al Ponterotto, invece, Hymer dichiara che la presenza degli scavi è incompatibile con quella del capannone progettato: e allora? Allora si spostano quelle quattro pietre che (in fondo) non interessano a nessuno, nella prevista “Area archeologica di Ponterotto” collocata in adiacenza alla zona de La Botte in prossimità della percorso pedo- ciclabile. Meglio ancora, così ci si va anche in bicicletta a visitare la (falsa) area archeologica.

Non è nostro compito mettere in discussione l’avallo che la Soprintendenza e il Ministero dei Beni Culturali hanno dato all’operazione, certamente ci proponiamo di approfondire le scelte fatte con la collaborazione di esperti qualificati. Intanto ci sembra inevitabile rilevare la mancanza di trasparenza da parte della Giunta comunale in tutta questa vicenda, nonostante le assicurazioni date. E perché nessuno viene a spiegare ai più diretti interessati, cioè ai dipendenti Laika, come mai si sono persi dieci anni senza che nessuno dei responsabili, pubblici e privati, si accorgesse che qualche centimetro sotto terra c’ erano tracce di insediamenti di più di duemila anni? Non avevano mai sentito parlare di archeologia preventiva?

Ma l’errore risale proprio a quella scelta di dieci anni fa, quando fu individuata un'area agricola che doveva essere per forza proprio quella, senza nessuna possibile alternativa, un'area ad alto valore ambientale e paesaggistico, evidentemente inadatta ad ospitare un insediamento industriale. Se davvero c’era l’urgenza che allora ci dicevano, non era meglio cercare soluzioni diverse? La “ricollocazione” del sito archeologico del Ponterotto non è che l’ultima forzatura per coprire le responsabilità di chi ha voluto a tutti i costi un’operazione immobiliare che nulla ha a che vedere con l’interesse dei lavoratori.

8 settembre 2011

QUANTO VALE UNA STORIA DI 2000 ANNI

di Archeopatacca

Per consentire a LAIKA la realizzazione di un capannone si progetta lo spostamento in altra sede degli insediamenti etruschi e romani trovati negli scavi: una vera e propria “archeopatacca”!

Da più di 10 anni il Comune di San Casciano persevera nella scelta di una localizzazione sbagliata e ad alto impatto ambientale e paesistico per il capannone richiesto dalla multinazionale Hymer, proprietaria di LAIKA caravan. Usando il ricatto occupazionale l’azienda ha ottenuto una variante ad hoc, su terreni agricoli acquisiti in un sito lontano dal distretto della camperistica, al di fuori di ogni pianificazione e neanche indagato con i necessari rilievi di archeologia preventiva.

Dopo 7 anni dalla adozione della variante non un mattone della fabbrica è stato posato, a dimostrazione di come si sarebbe potuto tranquillamente scegliere una localizzazione più adatta e di come la “urgenza” imprenditoriale nascondesse solo un lucroso investimento immobiliare.

Ad accrescere la miopia della scelta, durante gli scavi per il capannone emergono nell’anno 2010 importanti resti di un fabbricato etrusco e della pars rustica di una villa romana. Invece di valorizzare tali testimonianze storiche, imponendo al privato di adeguare l’intervento al mantenimento della stratificazione emersa durante gli scavi, l’amministrazione comunale interviene CON PROPRIE RISORSE per rendere possibile la demolizione di muri e fondazioni, e la loro ricostruzione a guisa di “finte rovine” lontano dal perimetro previsto del fabbricato industriale: una vera e propria “archeopatacca”!.

Le alternative c’erano, si poteva ipotizzare uno spostamento dei volumi o una loro riduzione, stante la banalità architettonica del manufatto (un parallelepipedo di metri 300X100X11). Inoltre: LAIKA è una azienda in crisi, che dopo un periodo di crescita (nelle sedi della Sambuca) dal 2006 al 2010 ha perso mercato riducendo la produzione e soprattutto la forza lavoro impiegata. Il nuovo capannone non si giustifica quindi in nessun modo, visto che le stesse previsioni aziendali parlano di limiti alla produzione dovuti alla crisi mondiale. Ma evidentemente l’interesse privato a realizzare tutta la volumetria concessionata vale più di duemila anni di storia.

La traslazione di muri e fondazioni in mattoni e ciottoli non potrà che essere distruttiva, e la demolizione dello scavo sicuramente toglierà alla ricerca scientifica la possibilità in futuro di analizzare un insediamento rurale importante per capire gli ordinamenti della campagna in epoca etrusco-romana. Non si tratta di edifici, che possono eventualmente essere smontati e rimontati, ma di tracce e resti di manufatti che hanno senso solo se rimangono nel proprio sito.

Che tutto questo si faccia non per realizzare un’opera di pubblico interesse ma semplicemente per venire incontro alle richieste di un investitore privato suscita perplessità e sconcerto.

Da più di un anno, in segretezza, l’amministrazione comunale e la Hymer hanno percorso l’iter autorizzativo evitando ogni confronto pubblico e addirittura negando ogni visibilità e informativa sul caso (era dal giugno 2010 che andava avanti il progetto che definiamo “archeopatacca”).

Facciamo perciò appello alla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Ministero per i beni culturali, alla Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana, alla Direzione regionale (settore musei ed ecomusei) della Regione Toscana, perché non sia ratificato l’accordo per la rimozione delle strutture archeologiche. In particolare, facciamo appello agli assessorati regionali competenti perché sia possibile aprire un confronto tra gli esperti del settore in vista di un approfondimento scientifico sul sito archeologico, sospendendo temporaneamente ogni decisione.

Legambiente circolo “Il Passignano”, AMAT Montespertoli, MDT Montespertoli, Rete dei Comitati per la difesa del territorio, Italia Nostra Firenze, WWF sezione di Firenze, Legambiente toscana

La data fatale è il 2014. Forse il 2015. Con una coda al 2020. Entro il decennio, comunque, il ministero per i Beni culturali potrebbe restare senza personale. O quasi. Bastano alcuni dati: l´età media dei funzionari è di 58 anni, sei dirigenti su dieci sono nati negli anni Quaranta e Cinquanta, le assunzioni sono poche e ancora meno lo saranno in futuro. Molto prima di quella data, chi dice gennaio prossimo, chi marzo, una ventina di soprintendenze, in particolare storico-artistiche, potrebbero sparire accorpate a quelle architettoniche. Ed è anche andata bene: l´eliminazione era prevista per Ferragosto, con un blitz, poi scongiurato, di Salvatore Nastasi, onnipotente capo di gabinetto con il ministro Sandro Bondi e ora con Giancarlo Galan molto in ombra.

Sono tanti i nuvoloni neri che si addensano sul nostro patrimonio e su chi svolge la tutela. Domani e dopodomani si incontreranno nella Certosa di Padula, in provincia di Salerno, una sessantina di neo-soprintendenti oltre a dirigenti di altri istituti del ministero, di archivi e biblioteche. È la prima volta che si riunisce un´assemblea così ampia. Verrà fuori il malessere di cui soffrono la protezione del paesaggio, dei siti archeologici, dei musei, di biblioteche e archivi. Un malessere dovuto a tagli che impediscono missioni e sopralluoghi, a un carico burocratico ossessivo che impedisce la conoscenza e la cura dei territori da tutelare. E che chiama in causa politici e governi di tutti gli schieramenti. Ma nelle intenzioni di alcuni dei partecipanti c´è anche di evitare autofustigazioni e geremiadi e di rilanciare il profilo culturale di un mestiere che negli ultimi anni, andata in pensione la generazione degli Adriano La Regina e dei Pier Giovanni Guzzo, si è sbiadito.

I soprintendenti che saranno a Padula hanno frequentato un corso di formazione, seguito da uno scambio fitto di mail. Poi l´idea di un convegno molto low profile, organizzato senza che nelle stesse soprintendenze se ne sapesse nulla e che pian piano è cresciuto nelle dimensioni fino a cambiare forma. Saranno infatti presenti anche il segretario generale del ministero Roberto Cecchi, e i direttori generali Antonia Pasqua Recchia e Luigi Malnati.

Come sopravvivere in una condizione di assoluto disagio e come esercitare al meglio gli obblighi che la legge, a cominciare dalla Costituzione, impone loro? Racconta Luca Caburlotto, soprintendente storico-artistico del Friuli e con due incarichi ad interim che coprono tutto il Veneto tranne Venezia (di fatto regge l´intero nord-est): «A luglio hanno tagliato al mio ufficio il 35 per cento dei fondi. Mi domando: o erano inutili prima oppure ci stanno tagliando il minimo indispensabile». Negli ultimi tempi sono diventati impellenti i rendiconti di spesa e delle attività svolte. «Fra un monitoraggio e l´altro cerchiamo di fare tutela», insiste Caburlotto. «Sono misurazioni puramente quantitative. E inoltre vale di più la rapidità con la quale rispondiamo a una richiesta di verifica di interesse avanzata da un privato che, poniamo, vuol vendere un bene, anziché quanti vincoli mettiamo». «Sulla base di questi dati veniamo valutati», dice Marta Ragozzino, soprintendente a Matera. E se sono insufficienti si può essere rimossi o trasferiti.

Una struttura come i Beni culturali ha bisogno di ricambi periodici, anagrafici e culturali. Che da anni sono impossibili, visto che almeno due generazioni di architetti, storici o archivisti sono rimaste fuori dalle strutture pubbliche di tutela. «Ricordo quant´era importante, per me giovane funzionaria, seguire il collega più anziano nei sopralluoghi», insiste Ragozzino. «Un sapere fresco di studi si intrecciava con l´esperienza, la conoscenza di luoghi e persone. Noi siamo le sentinelle di un territorio. Da quando sono a Matera ho imparato quant´è importante fare le cose insieme. Insieme nell´ufficio e insieme agli enti locali e alle fondazioni. E quanto è decisivo portare per mano un privato e farlo diventare agente diretto della tutela di un bene». Ma anche a Matera si è abbattuta la scure: 55 per cento in meno i fondi, pochissimi custodi e il Museo nazionale che, senza custodi, potrebbe chiudere nel fatidico 2014.

Da più parti si sente il bisogno anche di rivedere il proprio ruolo. La carenza di soldi e l´impressione di essere su una nave alla deriva, rende però difficile riflettere sulle ragioni per le quali è indispensabile incrementare la protezione di un patrimonio che a sua volta è in continuo incremento. «I beni crescono, ma noi diminuiamo», dice Maura Picciau, soprintendente ad Avellino e Salerno, fra le organizzatrici dell´incontro, che ogni lunedì è a Cagliari perché non ci sono altri storici dell´arte in Sardegna che possano firmare i vincoli. Gli scavi archeologici sono il segnale di un patrimonio che sfugge a ogni controllo e a ogni conoscenza: se ne compiono tantissimi, a causa dei lavori per un elettrodotto o per un parcheggio, ma quanto del materiale rinvenuto viene schedato, restaurato e reso pubblico? I magazzini delle Soprintendenze sono pieni di pezzi impolverati. «Ci si muove solo per emergenze», interviene Micaela Procaccia, soprintendente archivistico di Piemonte e Val d´Aosta, «e solo quando si deve fronteggiare il pericolo che corre un bene immediatamente percepibile». E per questo gli archivi sono la cenerentola di un settore che è cenerentola a sua volta. «Noi siamo meno visibili, meno spendibili in termini di mercato. L´anno scorso il mio ufficio aveva 38 mila euro per finanziare interventi in archivi non statali. Quest´anno sono 26 mila. Nel 2004 avevamo 19 dipendenti, 5 dei quali archivisti, oggi ne abbiamo 10 e 4 sono archivisti. Ognuno di loro cura 300 comuni. E solo un paio sono quarantenni».

In tutta la zona delle ex Varesine, i lavori edili che negli ultimi anni hanno fatto tanto discutere sono ormai a uno stato piuttosto avanzato. È pienamente operativo il nuovo palazzo delle Regione, ad opera dello studio americano Pei; resta da aprire il lato di via Restelli, dove il recente arrivo di alberi lascia immaginare una rapida conclusione dei lavori. A buon punto anche l'edificio di Cesar Pelli, che ospiterà tra l'altro 4 mila dipendenti di Unicredit. Oltre la stazione Garibaldi, si intuisce ormai appieno la fisionomia dello stabile progettato da Stefano Boeri: un giardino verticale di nuova concezione per la città, su cui si appuntano le curiosità di molti osservatori. Anche gli altri edifici sono piuttosto avanti; un'occhiata al plastico in visione nella villetta della Fondazione Catella, dice con chiarezza quanto poco manca alla conclusione.

Nella parte viaria, i lavori infrastrutturali sono certamente più indietro; tuttavia il disegno è percepibile. La prossima apertura del primo tratto della linea 5 della metropolitana — quello diretto al Nord, fino a Sesto San Giovanni — renderà la zona quella meglio servita della città, con tre linee di metrò, il passante, la stazione ferroviaria di Garibaldi, e Centrale a due passi. Una volta conclusa la parte stradale, grazie al nuovo tunnel di viale della Liberazione, sarà possibile camminare praticamente senza macchine da via Pola fino a Piazza XXV Aprile (dove, si spera, un giorno termineranno gli eterni lavori del parcheggio).

A nord, l'area si appoggia all'Isola, che per ora è rimasta a guardare, cercando di mantenere la sua fisionomia di quartiere di carattere, con le abitazioni a misura d'uomo, e, negli ultimi anni, un buon numero di locali, a vivacizzare la vita serale e notturna con una movida non eccessiva e perfettamente sostenibile. Rispetto al nuovo che avanza, l'Isola non ha proprio manifestato entusiasmo, tra opposizioni alle nuove costruzioni, un pò di nostalgia e molto scetticismo. A noi pare invece che, pur con qualche evidente difetto (per esempio i nuovi edifici di via Confalonieri incombono sulla strada, troppo stretta per sopportare la mole di quelle altezze), il risultato finale sia più che condivisibile.

Sugli edifici del viale della Liberazione, c'è però un cartello, «La location per il business del futuro» che, al di là dell'agghiacciante anglitaliano, induce al timore che gran parte della zona si trasformi in una pura sede di lavoro, destinata all'abbandono serale. È già accaduto, per esempio, a Bicocca; con risultati certo non encomiabili la notte e i weekend; una volta che è successo, recuperare diventa praticamente impossibile.

Alle Varesine il rischio è evitabile, a patto che si sfrutti adeguatamente la vicinanza con l'Isola, avviando un'integrazione con la sua vita diurna e notturna. Allo scopo, si raccomandano politiche che favoriscano l'apertura di negozi e locali, e mantengano alto il tasso di abitazioni, evitando la proliferazione incontrollata degli uffici. È inoltre essenziale che nelle nuove aree vengano organizzate da subito occasioni frequenti di vita e ritrovo serale, per far sì che, più che una «location», nasca un quartiere, dove oltre che «business» c'è anche vita.

postilla

Per chi ha conosciuto quell’area fino agli anni ’80, forse il paragone è possibile e lecito: meglio un quartiere bombardato, di aree ferroviarie dismesse ma sgomberate, di improvvisati praticelli e giardinetti a uso di pendolari in transito, o la baracconata anni ’60 fuori tempo massimo che sta spuntando adesso? Di questo si tratta, infatti, con poche differenze, ovvero del Centro Direzionale vagheggiato a suo tempo, in salsa aggiornata per quanto riguarda le architetture, i serramenti, i boschi verticali. Per nulla cambiato invece per l’orientamento automobilistico, con lo stradone multi corsia ubiquo, gli edifici buttati lì (si capisce un po’ anche dalla descrizione nell’articolo: architetture singole, non ambienti) sul campo aperto. E il “business” visto che non siamo più negli anni ’60 della millecento e delle sigarette doppio filtro per la signora elegante è solo quello immobiliare, come a modo suo racconta il cartello anglofono LA LOCATION PER IL BUSINESS eccetera.

Ovvero quella stilisticamente attempata curtain wall è probabilmente destinata a coprirsi di polvere nell’attesa di qualche inquilino in grado di iniziare un po’ a popolarlo almeno di impiegati in pausa pranzo, quel sedicente quartiere. L’unica speranza è che, come al solito, ci pensino il tempo, e l’adattabile improvvisazione umana, a scavare nel nulla urbanistico di questa ennesima tragicomica caricatura, a dargli un senso diverso dal vuoto pneumatico che ci lascia in eredità il pubblico-privato di marca ciellina & company (f.b.)

La crisi del turismo e la condanna a morte del sistema insediativo minore – dallo spopolamento più che dalla manovra del governo – sono questioni che stanno insieme. E andrebbero trattate insieme, con decisione: il momento non consente il punto interrogativo nel titolo – quale futuro? – dello stesso dibattito da quarant'anni. Non mancano le visioni coraggiose sul turismo, ma in genere l'approccio è titubante e rituale. Nessuno sa più di tanto sul fenomeno – molto aleatorio – e d'altra parte la confusione rende più facile il grande o piccolo affare mentre il frullatore omogeneizza tutto nel mercato delle vacanze: gelatai e palazzinari, albergatori e faccendieri.

Dovremmo ammettere che non ce l'hanno detta giusta. Perché c'è qualcosa che va oltre le difficoltà globali. Il turismo avrebbe segnato la svolta, e invece eccoci qua. Ci hanno detto che avrebbe prodotto benessere e bellezza e invece solo qualcuno si è arricchito e la bruttezza è diffusa e socializzata; che ci avrebbe collegati facilmente con il mondo e invece abbiamo meno navi; che le filiere si sarebbero evolute e invece è il tripudio di congelato dell'Atlantico in ogni mensa. Abbiamo immaginato la stagione lunga e invece si sono allargate le schiere di case vuote a prezzi inarrivabili per le giovani coppie.

L'occupazione nel turismo è di 40/50 giorni: per fare un anno di lavoro ci vogliono dieci estati. Meglio di nulla, dicono nei centri delle ferie dorate, dove la Caritas è più attiva che altrove. Il Pil relativo al turismo è poca roba e dovremmo leggerlo in confronto ai costi elevati della metropoli turistica sparpagliata, energivora e dissipatrice, a regime per un un mese e mezzo. Poi c'è il capitolo del quanto sfugge al fisco.

Meno arrivi, meno presenze, meno tutto, e i dati peggiori sono ovviamente nei luoghi più marginali e inaccessibili senza mezzi propri. Le ragioni della crisi sono confuse, ma qualcosa si capisce nell' incerto complesso di cose, come nella canzone di Paolo Conte. La Sardegna ha prezzi inammissibili, come se la rendita del metroquadro costituisse ormai il modello: come spiegare altrimenti un chilo di ravioli a 28 euro? E se fosse che l'isola ha perso fascino perché la “troppa Sardegna” – secondo Giuliano Amato – è una sceneggiata mediocre, invadente, debordata oltre le marine dei vip? E se fosse che le risposte deprimono i mercati – come si dice oggi ? (se le istituzioni locali chiamano Briatore a consulto vuol dire che siamo molto vicini ai riti propiziatori per l'estate che verrà).

Racconti ingannevoli da decenni. Come se avessero messo in giro bond-spazzatura, appendendo il futuro di più generazioni a una fiction fondata sul consumo dei paesaggi. E' vero: ci sono eccellenti operatori turistici, ma sono pochi e ai bordi del ciclo edilizio.

Le comunità piccole sono il pesante lato b. L'altra Sardegna: quei comuni passati per numerose avversità e sfide epocali (la formula “vidazzone/paberile” per l'uso della terra ha tenuto uniti pastori e contadini). La proposta di privarli di assemblee civiche è insensata – e infatti accantonata – , ma è servita a evidenziare il deserto che avanza oltre la scorza costiera. Ci riguarda tutti e dovunque stiamo dovremmo preoccuparci di territori senza presìdi. Di paesi privati del futuro solo perché la bassa densità abitativa non merita riguardi e servizi. Lo spopolamento, si sa, procura disservizi. Se non ci sono i numeri non vale metterci un bancomat ad Abinei, il paese-metafora di Giorgio Todde, fermo a 808 abitanti; figurarsi un maestro, un medico, un carabiniere. E più si toglie e più si fiacca l'orgoglio di stare lì, la voglia di provare a resistere senza la prospettiva di un lavoro, difficile da realizzare senza sostegno. L' umiliazione inflitta ai pastori è inaccettabile ed è un grave errore che non si vada in soccorso di quel disagio, anche con generose rinunce. E qualcuno prima o poi chiederà conto dei fondi europei pensati per aiutare le comunità più deboli e spesi per opere inutili in aree più fortunate. O la Sardegna si farà carico con ogni mezzo di salvare ogni parte dell'isola – dove sia bello vivere – o non c'è futuro. E i turisti, appunto, preferiscono i luoghi autentici e abitati con piacere.

«Le scuole materne statali vanno eliminate». Fa sul serio Remo Sernagiotto, la sua non è una sparata di fine estate ma la base di un progetto pilota da presentare al ministro Mariastella Gelmini il 16 settembre, a Cortina. La sua segreteria ha appena finito di metterlo nero su bianco. «É un piano di riforma della scuola dell’infanzia, che parte dal Veneto—spiega l’assessore regionale al Sociale —. Consiste nell’affidare le materne statali e comunali alla gestione di Chiesa, parrocchie, cooperative e famiglie riunite in Ipab, perché così si risparmierebbero circa 300 milioni l’anno, da poter ridistribuire alle famiglie e allo stesso sistema formativo. É il principio della sussidiarietà orizzontale: è dimostrato che gli istituti parificati "puri" costano meno. Soltanto convertendo le comunali paritarie, risparmieremmo 18 milioni: oggi ne costano 33». I numeri in effetti lo confermano.

In Veneto ci sono 1183 materne, il 68% sono parificate e il 32% statali. Le paritarie autonome accolgono 87.952 bambini, al costo di 2.800 euro l’uno all’anno per un totale di 243 milioni; le paritarie comunali contano 6480 iscritti per 5.120 euro ciascuno e una spesa complessiva di 33 milioni; le statali seguono 45.434 piccoli a 6.331 euro pro capite, con un’uscita generale di 287,6 milioni. «Ecco perchè vorrei eliminare le statali — insiste Sernagiotto —o la Gelmini lo capisce o intraprenderò una battaglia mortale per far passare questo modello. E dico una parola anche sui nido: ora diamo 17,5 milioni a quelli di famiglia, i pubblici hanno costi più alti, perciò vanno chiusi e riconvertiti in tre mesi». Ecco, questa è la ricetta del responsabile del Sociale per risolvere l’annosa questione dei tagli e dei ritardi imposti dal governo ai contributi statali per le materne, che ha sollevato le proteste anche dei vescovi. Il Veneto sta ancora aspettando i 50 milioni relativi all’anno scolastico 2010/2011.Ma nessuno si sente di sostenere la scomparsa delle statali, nemmeno la Chiesa.

«Il sistema educativo di formazione e istruzione si basa sulla pluralità dell’offerta— osserva don Edmondo Lanciarotta, coordinatore del Comitato per la parità scolastica—se viene a mancare, cadono anche la libertà di scelta dei genitori e il principio di autonomia. Alla Gelmini chiediamo invece di riconoscere il risparmio di 6,5 miliardi all’anno favorito in Italia dalle scuole paritarie e di ridistribuire parte della cifra alle stesse, per consentirne la sopravvivenza». «Conosco il piano, l’assessore ce lo ha presentato il 12 luglio — rivela Ugo Lessio, presidente regionale della Federazione italiana scuole materne — capisco le buone intenzioni dell’autore, ma è una follia pensare di eliminare 560 scuole pubbliche, con 1700 sezioni e 3400 insegnanti, per affidarle a cooperative e parrocchie che sicuramente non le vorranno. Tra l’altro non puoi toccare i contratti nazionali di lavoro. E poi la presenza delle statali non è un danno ma un arricchimento della proposta formativa ». «L’idea di consegnare al privato la scuola statale è demenziale— insiste Roberto Fasoli, consigliere regionale del Pd ed insegnante — vengono dall’estero a studiare i nostri modelli educativi, tra imigliori d’Europa. Costa di più perchè i contratti sono gestiti dal Miur e perchè il pubblico garantisce diritti non contemplati dal privato. Visto che l’offerta statale è insufficiente, la si sostenga e nel contempo si finanzi adeguatamente le parificate, che integrano il servizio. Se il piano Sernagiotto arriverà in consiglio, il Pd farà di tutto per sbarrargli la strada».

Un agosto terribile ma settembre non sarà certo tranquillo e, oltre ai problemi tutti interni al Pd, restano comunque sul tappeto due questioni milanesi di fondo: l´Expo e il Pgt. Dell´Expo continuiamo ad avere brandelli di notizie sul "come" ma il dibattito sul "perché" non lo si vuole affrontare. Prudenza politica, forse incertezze. Quanto al Pgt, dopo che il centrosinistra si è convinto che le operazioni in corso sono solo una sorta di argine contro il peggio, resta da sciogliere il vero nodo: che tipo di prospettiva si vuol dare alla città? Si è dalla parte di chi crede allo sviluppo mosso solo dalla crescita o pensiamo che vi possa essere sviluppo senza crescita? Per capirci: si è con chi in fondo in fondo pensa che ci vogliano più abitanti e più territorio edificato o chi pensa a un diverso equilibrio? Per dirla con Presidente della Repubblica: in che direzione deve andare il "motore del desiderio"? Il presidente Sarkozy nel 2008 ha incaricato una commissione (la Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi) di studiare modelli e indicatori diversi dal Pil e tra questi indicatori ha incluso alcune azioni «quotidiane»: camminare, fare l´amore, fare esercizio fisico, giocare, leggere (non per lavoro), mangiare, pregare.

E ancora, riposarsi, cucinare, prendersi cura del proprio corpo, lavori domestici, lavorare, usare il computer (non per lavoro), prendersi cura dei figli, viaggi/spostamenti e altro ancora.

L´Istat ha avviato un "Gruppo di indirizzo sullo sviluppo della società italiana" basato sul criterio del "benessere equo e sostenibile" il Bes. Che se ne pensa? Ai sostenitori della crescita propongo una riflessione. Nel 1973 Milano contava 1.743.000 abitanti, nel 1993, vent´anni dopo, 1.330.000. Come sono stati questi vent´anni? Un pianto? Una desolazione? La mortificazione della città? Tutt´altro. Sono stati anni di progresso, si è molto aumentata la rete della MM, il traffico e il numero delle immatricolazioni è cresciuto tanto che nel 1977 si è deciso di chiudere piazza del Duomo al traffico. Nel 1978 la Regione si è comprata il grattacielo Pirelli, la Scala ha fatto magnifici spettacoli, la vita culturale e i circoli politici hanno conosciuto momenti di grande fervore e favore,

Cologno Monzese è diventato il regno delle televisioni di Fininvest che nel 1988 si comprava la Standa. Nel 1990 si è fatto il terzo anello di San Siro. Insomma, una città vivace. Partendo da Milano e ritenendo di interpretarne lo spirito, nel 1994 Berlusconi scende in campo e Milano conta 1.333.000 abitanti. Nessuno si sognava di parlare di crisi della città. Oggi, diciassette anni dopo siamo poco più di 1.300.000. Da una decina di anni si parla di crisi della città. Sarà una coincidenza ma da quando è salito al governo della città il centrodestra le cose per Milano non si sono messe bene: una politica non condivisa. Sperare di uscirne con una crescita della popolazione, non solo è illusione ma è follia pensare di far leva sull´edilizia per arrivarci. Adesso si pensa che Expo possa essere una sorta di colpo di reni per rimettere Milano in piedi. Come dicevo all´inizio: perché? E comunque dovendo, ma soprattutto potendo, investire 4 miliardi di euro, questo tipo d´investimento è quello che darà un "rendimento" migliore di qualunque altro per il futuro di Milano?

Morale e politica, questioni non separate

di Luciano Muhlbauer

«Nessuno aveva nulla da obiettare sui privilegi dei nobili di Francia, fin quando essi assicuravano un governo alla nazione». Forse quelle parole di Voltaire non dicono tutto,ma indubbiamente illuminano il nocciolo della questione. Cioè, ieri come oggi, questione morale e questione politica sono inscindibili. Anzi, il dilagare dell’immoralità pubblica è direttamente proporzionale all’intensità della crisi politica. Ecco perché non ha senso discutere della questione morale come se fosse una cosa separata. Sarebbe soltanto un esercizio di ipocrisia e di autoassoluzione.

Vale in generale e vale anche per il caso Penati, comunque vada a finire la sua vicenda giudiziaria. Già, perché quei «dimettiti» e «rinuncia a» sparati ormai a raffica all’indirizzo di Penati, dopo la reticenza iniziale, non convincono. In fondo Filippo Penati non è proprio una meteora. È stato sindaco, segretario provinciale, presidente della Provincia, coordinatore della segreteria nazionale, candidato alla presidenza regionale e vicepresidente del consiglio regionale.

Ma soprattutto è stato l’ispiratore, il simbolo e il capofila di quel Pd del Nord che postulava la risalita della china in terra nemica mediante un’operazione culturale che portasse i democratici ad assomigliare sempre di più all’avversario e ad integrarsi sempre maggiormente nel sistema di potere esistente.

Ed ecco, dunque, il Penati che parlava come la Lega e De Corato, coltivava rapporti ravvicinati con Cl e annessi, emetteva scomuniche contro la cultura del ’68 e, ovviamente, definì una politica delle alleanze incentrata sulla rincorsa del centro e sulla rottura a sinistra. Molto difficile, dunque, sostenere che il caso Penati riguardi soltanto Penati. Beninteso, il punto non è processare il Pd, come vorrebbe la destra. Infatti, anche nel periodo di massima forza del penatismo vi fu chi dentro il Pd dissentì e si oppose, così come fuori dal Pd vi fu chi non si oppose e, anzi, condivise. No, il punto è un altro ed è tutto politico. Cioè, occorre finirla con quella tragica rimozione della politica, perché a disintegrare ogni presunta «diversità» e a costruire il brodo di coltura dell’affarismo fu proprio la concezione penatiana della politica.

E, peraltro, senza nemmeno realizzare l’obiettivo che doveva giustificarla, cioè la risalita della china. Anzi, il penatismo è stato foriero di sconfitte e arretramenti.

L’esempio forse più lampante sono le elezioni regionali del 2010. Penati non ha solo ha rotto il fronte dell’opposizione a Formigoni, estromettendo Rifondazione senza peraltro arruolare l’Udc, ma soprattutto ha realizzato un risultato assolutamente negativo, collocandosi ben 10 punti sotto quello del compianto Riccardo Sarfatti del 2005. Soltanto un anno più tardi Giuliano Pisapia avrebbe vinto le elezioni a Milano, con una politica che era l’esatto opposto di quella di Penati. Anche per questo risultano più che stucchevoli i tentativi di coinvolgere Pisapia, specie se provengono da esponenti dello stesso centrosinistra.

Sarebbe un errore straordinario se il Pd insistesse nella rimozione della questione politica, illudendosi di salvare il salvabile. È vero il contrario, basta guardarsi attorno. La primavera dei sindaci e dei referendum sembra già lontana, le due manovre finanziarie hanno un segno classista esplicito e il governo sembra redivivo e capace di sopravvivere a questo autunno, mentre l’opposizione parlamentare si azzuffa addirittura sullo sciopero generale. Insomma, o il Pd trova la lungimiranza di cogliere l’occasione per un rinnovamento politico serio oppure il prezzo lo pagheremo tutti, con altri Penati e nuove sconfitte.

«Bersani rompa il sistema delle spartizioni al Nord»

Intervista a Marco Cappato, di Daniela Preziosi

Le espulsioni sono «roba buona per i partiti stalinisti, fascisti, dipietristi e leghisti», anziché pensare «a nuove purghe» il Pd dovrebbe «rompere con la politica di complicità con il potere formigoniano e di Comunione e lottizzazione». Marco Cappato, consigliere comunale radicale, a Milano è inmaggioranza con il Pd ma ricorda che alle regionali in cui Penati era candidato del centrosinistra, i radicali non lo votarono: «Perché, lo abbiamo detto, non era alternativo al sistema di potere trasversale che c’è in Lombardia e nel Nord».

Faccia qualche esempio.

Da anni i grandi appalti delle infrastrutture, della sanità e dei trasporti sono esclusiva di reti trasversali di affari della galassia di Cl e della Compagnia delle opere insieme alle cooperative rosse. Il presidente della Regione Formigoni è l’elemento forte. E il Pd, con Penati, si limita a occuparne la quota di minoranza. Non parlo di reati, parlo di una spartizione politica. Penati doveva essere il capo dell’opposizione alla Regione, e invece ha accettato di diventare vicepresidente del consiglio della Lombardia.

Altro esempio: ci sono mille persone che hanno dichiarato alla Procura che le firme sulla candidatura di Formigoni sono false? È un potenziale attentato alla democrazia, ma il Pd non fa niente, se non per una cosa meno grave sotto il profilo democratico chiedere le dimissioni della Minetti. Sulla vicenda del limite dei due mandati di Formigoni, Penati ha aderito in anticipo alla tesi di Formigoni.

Il democratico Errani è nella stessa condizione.

Appunto. In Lombardia il Pd ha chiuso un occhio sulla ineleggibilità del consigliere Pdl Pozzi, che ha sottoscritto dimissioni tardive da aziende controllate dalla Regione, perché ne ha uno proprio, Costanzo, nelle stesse condizioni.

L’allontanamento di Penati dal Pd non basta?

No, né basta rottamare un pezzo di classe dirigente, o fare le scarpe allo stesso Bersani, se non cambia la politica. Ora nel Nord c’è un sistema di spartizione in cui le cooperative rosse sono forti in Emilia, quelle bianche e quelle verdi nel Veneto, quelle bianche di Cl in Lombardia. Se il Pd non cambia questo, e non si batte per regole di trasparenza, non cambia niente.

L’assessore comunale Maran, indicato come uomo di Penati, si deve dimettere?

No. Gli arrivano accuse indirette e fumose. Dimostri di essere fuori da questo sistema. Pensi subito per esempio a realizzare la volontà popolare espressa nei cinque referendum ambientali.

postilla

per chi segue questo sito, forse è abbastanza “consolante” leggere le condivisibili interpretazioni politiche (se vogliamo usare questa parola a dire il vero un po’ impropria) di un caso di cui la cronaca si occupa esclusivamente coi soliti toni un po’ giustizialisti e sbrigativi. Consolante perché emerge chiara, addirittura lampante, la spiegazione di anni, anni e anni di scelte territoriali. Strascico pesante di una cultura industrialista dura a morire? Certo, sicuro, ma poi? Il meccanismo da manuale, quasi caricaturale a dire il vero, con cui da un lato si delineavano scenari di sviluppo anni ’60 a colpi di strade capannoni e centri commerciali, dall’altro si cooptavano direttamente o indirettamente pezzi e diramazioni del mondo che in teoria avrebbe dovuto far muro contro queste ipotesi, adesso un po’ si illumina. E lascia esterrefatti soprattutto scoprire (per i non addetti ai lavori, se si consente, è una scoperta) quanto ramificato e solido fosse, il patto d’acciaio. C’è da sperare proprio che la magistratura possa procedere, ma soprattutto che emerga chiaro quanto e come lo sfascio ambientale e lo spreco di risorse e ricchezza, questioni legali a parte, derivi dal pneumatico vuoto culturale di una classe dirigente e dei suoi tirapiedi e tuttologi a gettone. Che naturalmente ritroveremo presto a pontificare sotto altre insegne. Per alcuni aspetti di questa patologia bi-partisan da Sesto all'eternità, si veda anche il recente commento di Sergio Brenna (f.b.)

Diversi commenti al mio post del 18 agosto affermavano che in Italia di grandi opere non se ne vedono poi molte. Se è un rammarico, come penso, lo ritengo sciocco, per le ragioni che ho già spiegato. Peraltro c’è effettivamente una grande opera che non vede la fine (oltre alla leggendaria autostrada Salerno-Reggio Calabria). Essa è nata nel lontano, mitico 1968 e non si è appunto ancora conclusa. E sarebbe meglio non si concludesse, come dirò in seguito. E’ l’Autostrada Tirrenica, da Livorno a Civitavecchia.

Dicevo, nata nel 1968, con la costituzione di una società che avrebbe dovuto realizzarla (la Sat – Società Autostrada Tirrenica), l’opera rimase nei cassetti fino al 1982 (governo Craxi), anno in cui fu rispolverata. Nel 1993 fu realizzata la tratta Livorno-Rosignano, ma non di autostrada trattavasi, bensì di una nuova superstrada a quattro corsie, realizzata appunto dalla Sat. Restava da coprire il residuo tratto Rosignano-Civitavecchia.

Per questo tratto, subito fu presentato un progetto che potremmo tranquillamente definire demenziale, che prevedeva un tracciato interno, che se ne andava a spasso senza alcun senso per le colline della Maremma, creando un elevatissimo impatto ambientale. Talmente alto che il progetto fu bocciato dalla Commissione Via di allora (ministro per l’Ambiente Giorgio Ruffolo). Era il 1990.

Passarono più di dieci anni e nel 2001 l’Anas – in un soprassalto di saggezza – presentò un progetto che semplicemente prevedeva, al posto dell’autostrada, l’ammodernamento dell’Aurelia, portandola a quattro corsie ed eliminando tutti i punti pericolosi esistenti. Ipotesi evidentemente troppo semplice e troppo poco costosa: in Italia le opere pubbliche devono costare molto per essere approvate. E infatti fu così che nel 2004 l’Anas mise in un cassetto saggezza e progetto.

Ed ecco, come l’araba fenice, con a capo del governo Berlusconi e Lunardi ministro alle Infrastrutture, ricomparire il vecchio tracciato demenziale fra le colline maremmane. Scontato coro di proteste ampiamente giustificate e anche questo progetto viene accantonato, per lasciare posto a quello attuale: un’autostrada che si sovrappone alla vecchia Aurelia, nel senso che a nord di Grosseto essa si sovrappone alla variante Aurelia (superstrada a quattro corsie), a sud di Grosseto si sovrappone proprio all’attuale strada statale.

A questo punto, gli ambientalisti, gli intellettuali, gli studiosi e i sindaci dei comuni di Capalbio, Manciano, Montalto di Castro e Cellere, recuperano uno studio scientifico del 2003 firmato dal prof. Marco Ponti dell’Università Cattolica di Milano (lo stesso che ha dimostrato l’insensatezza della Tav) e dal prof. Andrea Boitani del Politecnico di Milano. Lo studio dimostra che i costi di un ammodernamento dell’Aurelia sono di gran lunga inferiori rispetto a quelli di un’autostrada costruita ex novo e che la scelta autostradale è irrazionale sotto vari punti di vista (consumo di territorio, impatto, riassetto della viabilità, costi maggiori per la comunità).

Nulla da fare: irrazionalità e opere pubbliche vanno a braccetto, così come destra e sinistra (in questo caso, Governo Berlusconi e Presidenza Regione Toscana). L’ultimo tracciato è stato inserito fra le priorità del Cipe e i lavori dovrebbero iniziare a breve. L’autostrada sarà realizzata dalla sempiterna Sat, come già previsto nel 1968, la quale così si troverà il percorso già in gran parte realizzato, lo acquisirà in concessione e farà pagare il pedaggio. Risultato: i cittadini che fino ad oggi percorrevano strade statali, si troveranno a percorrere un’autostrada a pagamento.

Presidente della Sat è Antonio Bargone (avvocato Pd, buon amico di D’Alema), un tempo sottosegretario ai Lavori pubblici, e poi consulente della Regione Toscana in materia di opere pubbliche, e, pensate un po’, dal 2010 anche Commissario straordinario del governo per la costruzione dell’autostrada tirrenica, col modesto stipendio di 214mila euro lordi all’anno. Nominato da chi? Da Altero Matteoli (Pdl, già sindaco di Orbetello e, tra l’altro, noto per essere stato il primo cacciatore a ricoprire la carica di ministro dell’Ambiente). Aspetto per lo meno curioso: nel 1998 – governo D’Alema e Bargone sottosegretario ai Lavori Pubblici con delega alle autostrade – la Sat (che allora navigava in pessime acque) ricevette 172 miliardi e 500 milioni grazie ad un aumento di partecipazione pubblica nel suo azionariato.

MILANO — Prima la legge sui parchi, adesso le moto. Non c'è pace per le aree protette della Lombardia. La Regione sta lavorando a un accordo quadro con la Federazione motociclistica italiana (Fmi) per permettere ai bolidi su due ruote di entrare nelle zone sottoposte a tutela ed «entro l'anno — spiega l'assessore Alessandro Colucci, che si occupa di parchi e foreste — ci auguriamo di poter definire la nuova normativa».

I motociclisti sono, ovviamente, d'accordo. «Ci stiamo lavorando da diversi mesi — spiega Alessandro Lovati, presidente regionale della Fmi — abbiamo 30 mila soci, quasi 25 mila famiglie che votano, e chiediamo di poter andare anche noi in queste aree, usando però percorsi prestabiliti e un tesserino di identificazione». In Lombardia ci sono 24 parchi regionali che, insieme a quelli sovracomunali e alle riserve, si estendono su 450 mila ettari dalle Alpi al Po.

«Ma a noi di queste trattative per far entrare le moto nelle aree protette non ha detto nulla nessuno — replica Milena Bertani, presidente del Parco del Ticino e di Federparchi Lombardia — anche perché è molto tempo che non abbiamo più un tavolo di confronto con Colucci. Per i parchi le priorità siano altre. E poi se i motociclisti hanno 30 mila soci, solo sui nostri sentieri ciclopedonali lungo il Ticino passano oltre mille persone al giorno». Intanto lo stesso assessore ammette che «la materia non è facile e ha risvolti delicati: vanno posti limiti, regole e, dove il caso lo richieda, anche divieti assoluti. Visto che qualche problema c'è».

Al Parco Adda Sud (fra Lodi e Cremona), dopo il boom dei danni causati dai motociclisti negli ultimi mesi, hanno appena deciso di schierare 60 guardie ecologiche per controlli a sorpresa, riprese video e foto.

«Oltre alle multe chiederemo i risarcimenti — spiega Silverio Gori, presidente dell'Adda Sud. — Nel parco si può venire a piedi, in bicicletta e a cavallo proprio per garantire il rispetto della natura, mentre le moto rovinano i sentieri, emettono fumi di scarico e lanciano raffiche di polvere e pietrisco». Una situazione che in passato ha riguardato anche le ex aree di cava del Parco Adda Nord (fra Lecco, Monza, Milano e Bergamo) e il Parco del Mincio, sulle Colline Moreniche e fra Monzambano e Cavriana. Dopo l'aumento dei controlli, i crossisti hanno traslocato.

«Quelli che fanno danni sono "cani sciolti" non iscritti ad alcuna associazione e che non seguono i nostri corsi di educazione stradale», dice il leader lombardo della Fmi. «Ma in ogni caso — commenta Alessandro Benatti, presidente del Parco del Mincio — anche valutando le singole situazioni, nelle aree di rilevanza ambientale non vedo molte zone per il motocross. E se la natura va tutelata, il peso non è solo di quelli che votano».

Salvare la fabbrica era un po' come vincere alla lotteria. Ora — e solo ora — quelli dell'Innse possono dire di avere in tasca il biglietto vincente. Tra un mese si va all'incasso. Il piano regolatore dell'area è stato cambiato in extremis prima delle elezioni comunali, nel maggio scorso. A settembre, l'imprenditore bresciano che ha rilevato l'attività, Attilio Camozzi, diventerà finalmente proprietario anche di terreni e capannoni. E allora si potrà cominciare a fare sul serio.

«Cavaliere» e figli prevedono di investire qui altri cinque milioni di euro (quasi altrettanti sono già stati spesi). Oggi in via Rubattino lavorano in 47. L'anno scorso erano 36 più dieci in cassa. Il rientro di questi ultimi è iniziato. Ma la grande novità sono le nuove assunzioni. Sette giovani hanno già firmato un contratto. Un inizio. Secondo i piani del «padrone» qui a regime lavoreranno in 150-200.

La storia di quando quelli dell'Innse costrinsero il cerchio a farsi quadrato è cominciata il 4 agosto di due anni fa.

«Allora ragazzi, qui si fa lunga, ci andiamo a prendere un caffè?». Questa fu la parola d'ordine dei cinque per allontanarsi senza insospettire i poliziotti, lì in tenuta antisommossa per garantire l'uscita delle macchine. Un'operazione che avrebbe messo la parola «Fine» sulla storia della ex Innocenti.

Guardandosi le spalle Vincenzo Acerenza, Massimo Merlo, Roberto Giudici, Fabio Bottaferro e Luigi Esposito girarono dietro la fabbrica, entrarono da un pertugio e salirono sul famoso carro ponte. Scelta meditata.

«Avevamo vagliato diverse ipotesi — raccontano oggi —. Prima pensavamo di incatenarci a una delle macchine. Ma poi ci siamo resi conto che così avremmo resistito ben poco tempo. E allora ci è venuta l'idea del carro ponte».

Nessuno del variegato popolo in attesa degli eventi davanti ai cancelli della fabbrica avrebbe scommesso un centesimo sull'Innse. Cronisti, poliziotti, persino molti sindacalisti pensavano che questa fosse l'ennesima storia dall'esito scontato. Un pugno di reduci illusi e uno stabilimento già morto anni prima. Forse non ci credevano fino in fondo nemmeno loro, i cinque che salirono sul carro ponte. Un gesto estremo, dettato dalla determinazione a essere coerenti fino all'ultimo più che da una reale speranza di tenersi stretto il lavoro.

Fecero scuola quelli dell'Innse. Da allora molti si sono arrampicati sulle scale della protesta. Senza fortuna. I cinque di via Rubattino restano un unicum. Ma meglio sarebbe dire i «quattro più uno». Quattro tute blu e un funzionario della Fiom. Roberto Giudici, che continua a occuparsi di aspetti organizzativi per i metalmeccanici della Cgil, abituato a intervenire nelle situazioni più difficili. Vincenzo, Massimo, Luigi e Fabio in questi due anni sono rimasti al solito posto. In fabbrica. Lo sguardo sempre rivolto in avanti: «Quel che è stato è stato — taglia corto al telefono Massimo Merlo —. Non abbiamo niente da festeggiare. Noi pensiamo al futuro. E alle assunzioni che devono venire. Dopo tutto quello che abbiamo fatto l'abbiamo fatto anche per loro. I ragazzi che arriveranno».

postilla

Quando la fabbrica milanese si conquistò le prime pagine sulla stampa nazionale, su questo sito se ne sottolineava il ruolo simbolico, forse anche qualcosa in più, rispetto alle politiche di sviluppo territoriale. Era l’epoca di formazione del piano di governo del territorio diretto discendente della strategia privatistica e banalizzante, di una Milano fatta di metri cubi a prezzi decisi a tavolino, e parallele speculazioni di varia natura. Mentre la resistenza degli operai Innse, proprio di fianco al quartiere Rubattino figlio degenere della “riqualificazione di aree dismesse” a senso unico, poneva l’accento sul possibile futuro della città e dell’area metropolitana: campo giochi per finanzieri e indistinta folla di servi, o città vitale multifunzionale, con uno spazio anche per le attività produttive?

Oggi è cambiata la maggioranza comunale, si sta cercando di intervenire a modificare auspicabilmente in meglio il Pgt, si parla auspicabilmente in modo serio di città metropolitana. Mentre si sviluppa la vicenda di queste aree industriali sull’asse dalla Tangenziale Est verso il nuovo margine urbano della Tangenziale Esterna, a poche centinaia di metri nel territorio dei comuni di prima cintura crescono altri enormi progetti di trasformazione, come quello del megacentro commerciale Westfield-Percassi sull’ex scalo ferroviario. E sorge spontanea la domanda: quale futuro? Si può ancora pensare in termini strategici, oppure le legittime battaglie per difendere un territorio vivo e vario sono solo una specie di ritirata, strategica? La città metropolitana è davvero un obiettivo essenziale progressista (f.b.)

Il futuro di Metanopoli va presentato in busta chiusa e consegnato alla sentenza d'una giuria segreta. È una gara con la storia. Siamo nella città ideale di Enrico Mattei, il quartier generale costruito sull'energia del boom economico, con Agip, Eni e Snam, la San Donato industriale e gigantista romanzata da Bianciardi «che compare in mezzo alla campagna, improvvisa, come dipinta su un fondale da un'urbanistica megalomane». Questo tessuto di calcestruzzo e vetro si rinnova, ancora, a sessant'anni dalla fondazione. L'Eni torna a investire in casa, ha selezionato dieci archistar per costruire il nuovo centro direzionale «Exploration and Production» (E&P), il sesto dell'insediamento originario, un sistema composto da tre torri «ad uso terziario-uffici» e un quarto edificio per funzioni «complementari e accessorie».

I progetti devono essere consegnati entro il 26 agosto. Disegni e plastici anonimi. Cifrati. Trasparenza e merito vengono prima dei nomi. Le parole chiave del concorso: sostenibilità ambientale, flessibilità degli spazi e trasporti ecocompatibili. Gli obiettivi (o aspirazioni): «Fornire un'immagine architettonica che si basa sulla tradizione del XX secolo di Metanopoli e riflettere il "global status" di Eni».

Nascerà una San Donato glocal sulla vecchia via Emilia, a dieci minuti dal Corvetto, Milano Sud. Il distretto E&P sarà inaugurato «entro il 2014» su un'area di 65 mila metri quadrati delimitata da viale De Gasperi, via Ravenna, via Correggio e via Vannucchi e, secondo le linee guida del concorso, dovrà costituire «il segno riconoscibile e rappresentativo di Eni sul territorio». La sfida è affidata a dieci studi internazionali. Dieci big e nel gruppo c'è un solo architetto italiano ammesso alla procedura ristretta: il milanese Mario Bellini (suo il dipartimento dell'arte islamica al Louvre e la sede di Deutsche Bank a Francoforte). Deve confrontarsi, tra gli altri, con il francese Dominique Perrault (il progettista della Biblioteca François Mitterrand a Parigi), il giapponese Arata Isozaki (autore-visionario di una delle tre torri di CityLife, il grattacielo più alto d'Italia) e l'americano Richard Meier (che ha firmato il Getty Museum a Los Angeles e il Museo dell'Ara Pacis a Roma).

L'incarico sarà assegnato entro l'anno. Il gruppo di Paolo Scaroni ha programmato un'operazione complessiva da circa 60-70 milioni di euro, che sarà completata da alcune opere per il Comune (la cessione di un terreno di 150 mila metri quadri in località Monticello per la costruzione di housing sociale e la riqualificazione dello storico e blasonato centro sportivo Snam, che sarà intitolato a Mattei).

Se Adriano Olivetti risollevò Ivrea, Enrico Mattei scelse San Donato Milanese. Erano i primi anni Cinquanta. Metanopoli nacque con la stazione di servizio Agip disegnata dell'architetto Mario Bacciocchi e il complesso industriale Snam ideato da Bacigalupo e Ratti. Mattei decise di riunire in un unico quartiere le attività direzionali e gestionali della Snam, e gli appartamenti degli operai, degli impiegati e dei dirigenti. Casa e bottega. Il primo Palazzo uffici, «il castello di vetro» a forma esagonale — modellato sulla struttura molecolare degli idrocarburi — fu realizzato tra il 1956 e il 1957 in piazza Vanoni. Estetica e metafora a servizio del business. È cresciuta così, San Donato. Sull'Eni. Capitalismo paternalista.

Decenni di sviluppo. Crisi, polemiche e picchetti negli anni Ottanta. Gli edifici più recenti, nel settore Affari progettato da Kenzo Tange, sono stati completati tra il 1996 e il 2000. Ai cinque poli direzionali esistenti, di qui al 2014, si aggiungerà il centro «Exploration and Production».

«È un passaggio storico per la nostra comunità, un'occasione irripetibile», ha sottolineato il sindaco Mario Dompè: «Le scelte aziendali, a partire dal 2000, hanno portato il gruppo energetico sempre più lontano dal territorio. Per questo, appeni arrivati al governo della città, abbiamo lavorato per intrecciare rapporti migliori tra pubblico e privato. L'Eni è un simbolo di San Donato Milanese». Almeno tremila abitanti lavorano per il cane a sei zampe.

L'espansione dell'Eni «garantirà altri 3.600 nuovi posti di lavoro» e «consentirà di recuperare 42 mila parcheggi e riqualificare strade, servizi, aree verdi» (grazie a 12 milioni di euro incassati dal Comune con gli oneri di urbanizzazione) in un'area d'interesse paesistico vincolata dai Beni culturali e «sbloccata» dal Pgt. Il concorso di progettazione chiede agli architetti di «creare un ambiente di lavoro integrato e sostenibile», proporre «un design all'avanguardia in relazione alla sostenibilità energetica» e «ottimizzare le connessioni e la relazione con il contesto urbano esistente». Nello spirito di Mattei, per la Metanopoli che sarà: «A misura d'uomo».

Il programma elettorale di Giuliano Pisapia indicava la necessità di sostanziali modifiche al Piano di governo del territorio adottato dalla precedente amministrazione, anche nel senso di un ridimensionamento delle potenzialità edificatorie. Tale indicazione era e resta opportuna per una serie di ragioni, quali l’inaudito sovradimensionamento delle previsioni insediative, funzionale alla creazione di una pericolosa bolla immobiliare più che al rilancio dell’attività edilizia, la scarsa tutela dei pochi preziosi sistemi verdi, la mancanza di un coordinamento con i progetti e le idee delle centinaia di Comuni dell’hinterland.

Questa tipologia di modifiche non è praticabile, nel nostro sistema giuridico urbanistico, nella fase della discussione delle osservazioni che è quella che, per ora, la nuova amministrazione ha deciso di riaprire. Questo non significa che la decisione di ripartire dalla discussione e poi dal voto sulle migliaia di osservazioni sia sbagliata: tutt’altro. Significa soltanto che essa costituisce solo il primo passo in ordine cronologico per la modificazione del piano, passo opportuno, necessario, ma non sufficiente. Infatti le modifiche annunciate nel programma della nuova amministrazione comportano necessariamente, come si è evidenziato, una riadozione del piano.

Quanto sarà complicato elaborare il piano da riadottare, e quanto tempo ci vorrà per arrivare, alla fine, alla sua approvazione? Bisogna considerare che il Pgt lasciato ai milanesi dalla precedente amministrazione, benché onusto di migliaia di pagine, è tuttavia privo di molti dei pezzi fondamentali di un buon piano: la condivisione delle prospettive di sviluppo, di tutela ambientale e di dotazione infrastrutturale con i Comuni circostanti e con le zone, l’individuazione di efficaci linee di crescita della competitività per il sempre più debole sistema economico milanese, la verifica di coerenza tra previsioni insediative, sistemi di mobilità ed effetti ambientali, la promozione efficace della qualità urbana e di più alti standard di giustizia sociale, la fattibilità finanziaria.

La sinistra, al governo a Milano per la prima volta dopo tanti anni, deve mostrare di saper attingere, essendo libera da interessi particulari, questo superiore livello delle grandi finalità di interesse generale.

Quanto tempo ci vorrà per riempire il piano di questi contenuti essenziali? Difficilmente sarà possibile confezionare e approvare un piano così fatto entro il 31 dicembre 2012, come la legge regionale vorrebbe. È perciò indispensabile adoperarsi per allentare questo nodo troppo stretto, mentre occorre avviare subito il processo partecipato, politico e tecnico, di definizione dei nuovi obbiettivi, in parallelo e non in successione o in subordine all’esame delle osservazioni. La strada da percorrere è lunga: non c’è un minuto da perdere.

A chi capitasse di entrare a Pessina Cremonese, nella grande pianura una decina di chilometri a est del capoluogo, non può certo sfuggire il vistoso cartello che recita Comune libero da pregiudizi razziali, premio per la Pace 2010. E per fortuna, si potrebbe anche dire, visto che cose del genere anche nell’Italia del terzo millennio dovrebbero essere banali come l’acqua fresca, garantite dalla Costituzione e compagnia bella. Ma in epoca di verdastri figuri che ne sparano di tutti i colori in nome di improbabili identità territoriali, diritto di sangue ecc., ben venga anche un territorio che ha messo nero su bianco sul cartello da qui in là siamo ufficialmente liberi da pregiudizi razziali. La cosa poi fa il paio con la notizia che a cavallo tra fine luglio e primi di agosto è rimbalzata su vari giornali nazionali e locali: a Pessina Cremonese fra un paio di settimane si inaugura il più grande Tempio Sikh d’Europa. Bello, no?

foto f. bottini

Una volta nella pianura grassa dei fossi da irrigazione e delle vacche da latte li chiamavano bergamini, gli addetti alle stalle. Perché venivano dalla più povera alta pianura bergamasca a cercare lavoro dove scorre la crema, anzi addirittura la cremona da tanta che ce n’è. Poi nei territori asciutti bergamaschi hanno trovato una coltura che pare rendere meglio, quella dei capannoni, e i bergamini nella grande pianura irrigua hanno cominciato a importarli da più lontano, addirittura dal subcontinente indiano. Magari pensando, a torto o a ragione, che chi viene da un posto dove alcuni considerano sacra la vacca, chissà come le coccola, quelle preziose bestie, che produrranno sempre più crema. E basta imboccare una qualunque delle traverse che incrociano la Padana Inferiore 10, per iniziare lunghi percorsi a serpentina fra lontani orizzonti di silos, edifici bassi, e l’onnipresente più o meno sottile odore di stalla, per vedere che da queste parti la popolazione dotata di turbante, lunga barba, eleganti abiti etnici per le signore, e incarnato diciamo poco padano, sta perfettamente inserita nel territorio.

Oppure, per una immagine meno bucolica, si può fare una spedizione comparata fra i centri commerciali che spuntano dai campi di granturco più o meno tra la fascia della Padana Inferiore 10 e quella (svariati chilometri più a nord) della 235 bresciana-cremasca, o della Padana Superiore 11 già sull’orizzonte alpino. Qui soprattutto il sabato la popolazione dei neo-bergamini in prevalenza sikh salta davvero all’occhio, con le numerose e corpose famiglie in spedizione automobilistica shopping-relax ai confini del consumismo, versione postmoderna del vecchio detto tutti casa e bottega ma anche no. Eravamo però partiti da Pessina Cremonese col suo Tempio, e adesso ci torniamo subito, ma dopo aver ripassato un paio di cose. Dove si vedono (dove presumibilmente stanno soprattutto) gli amici sikh? Fra stalle e agresti decentratissimi dintorni, poi al sabato nelle decentratissime cattedrali della religione consumista. Ma finalmente adesso li vedremo e incontreremo in pompa magna a Pessina, nel loro Tempio più Grande d’Europa, di fianco a quel cartello che proclama giustamente e orgogliosamente Comune libero da pregiudizi razziali. Sbagliato!

Sbagliato, sbagliatissimo, perché dietro a quel cartello c’è il villaggio o nucleo comunale che dir si voglia di Pessina Cremonese, con qualche grosso impianto di stalle ai margini, il campanile, il campo sportivo dell’oratorio eccetera. E invece il Tempio Sikh più grande d’Europa, per trovarlo, bisogna andare proprio da tutt’altra parte, e a piedi non è certo una passeggiata, neanche in bici a ben vedere. Tocca uscire dal paese, passare di fianco al cartello anti-discriminazione, scendere fino alla linea della Padana Inferiore, seguire il tracciato della statale verso est, e poi giù per il curvone verso Piadena oltre la casa cantoniera in disuso e la vecchia cascina dove molti anni fa qualcuno aveva aperto decisamente on the road l’innovativo Bar dell’Autista. Ancora oltre, passato un più prosaico distributore, si imbocca a destra la strada per Torre de’ Picenardi (per i letterati è l’ex feudo del manzoniano Fra’ Cristoforo, personaggio realmente esistito) e finalmente appare la modesta capannonata. Perché di questo si tratta: il Tempio Sikh più grande d’Europa, è un capannone fra capannoni, indistinguibile salvo un rivestimento vagamente più curato da quelli che ci stanno accanto, magari (senza nessuna offesa naturalmente) anche da quello che un paio di chilometri più avanti sulla statale inalbera l’insegna Biberon Lapdance.

Se si scorrono gli articoli di giornale che in questi giorni stanno raccontando brevemente la storia della singolare struttura, naturalmente c’è anche la perfetta spiegazione tecnica, contestuale, amministrativa, finanche culturale. Per quanto riguarda la comunità Sikh quello pare sia l’unico terreno trovato con dimensioni adeguate da comprare e edificare: circa 25.000 metri quadrati di spazi sociali, di culto, incontro divisi in vari ambienti su due livelli. Per quanto riguarda il consorzio di comuni più amministrazione provinciale che si sono fatti carico di coordinare l’iniziativa è una posizione più o meno baricentrica, adatta, con destinazione d’uso sostanzialmente compatibile. L’architetto progettista da par suo inizia a ragionare a fil di parete, racconta di funzioni interne, di scelta dei materiali, di adeguamento di cose locali a esigenze diverse (si era anche parlato di importare da chissà dove cupole dorate). Ma resta qualcosa che non va, proprio non va: capannone, centro commerciale, deposito, lottizzazione industriale, strada a cul-de-sac. Tutto converge a evocare la parolina magica che da mezzo secolo perseguita i sonni di urbanisti, sociologi, ambientalisti: sprawl, ovvero segregazione urbanistica che si traduce in segregazione sociale, piaccia o meno a chi la subisce o magari se la cerca.

Quel baccello cementizio a fondo chiuso sulla diramazione della Padana 10, a un paio di chilometri abbondanti da Pessina vera e propria, e almeno altrettanti dal resto del mondo civile in tutte le direzioni, forse non a caso alla fine ha messo d’accordo tutti, emarginando anche le solite opposizioni del legaioli duri puri e coglioni. Quelli che non capiscono, come sottolineano ovviamente gli altri, che l’economia locale - su cui campano pure terra sangue e diritto - senza la comunità sikh andrebbe in malora in una settimana. Bisognerebbe fargli il monumento, oltre al Tempio! Ma anche quelli che capiscono, che parlano di integrazione, magari non di multiculturalismo perché gli echi europei meglio lasciarli dentro la televisione, pare non vedano l’evidenza: perché la chiesa di Pessina sta al centro del paese e il tempio sikh a tre chilometri di distanza da tutto? E tanto per dirla chiara, perché un centro che si rivolge a un territorio immenso non sta nel posto più ovvio, ovvero direttamente a Cremona, il capoluogo? Di aree industriali dismesse a cui dare una nuova e nobile funzione ce ne sono a bizzeffe, a ridosso del centro: una cupola dorata ad affiancare il Torrazzo non ci starebbe magnificamente?

foto f. bottini

E invece no: è la sottile pervasività della religione ecumenica dello sprawl a mettere d’accordo tutti. La comunità sikh che trova un terreno edificabile economico. Gli amministratori locali che si fanno belli con le dichiarazioni di principio e i cartelloni con stampato su un bello slogan assessorile. E sotto sotto i biliosi legaioli irriducibili che accettano questa forma di perfetta integrazione segregata, che a suo modo declina localmente il globale “aiutiamoli a casa loro”. Lontano dagli occhi lontano dal cuore. Oppure, letto da sinistra, oggi la fabbrica-territorio può svolgere il medesimo ruolo di integrazione del grande impianto centralizzato di una volta. Peccato che manchi una cosuccia: la città attorno all’impianto, e che un processo di integrazione schizofrenico come quello del costante pendolarismo da sprawl non sia da augurare neanche ai peggiori nemici. Insomma tanti auguri alla comunità sikh che il 21 agosto inaugura il più grande Tempio d’Europa, ma anche a noi perché la prossima volta proviamo a fare meno cazzate. Non basta, ma di sicuro aiuta.

foto f. bottini

Un’alleanza che promette la nascita del centro commerciale più grande d’Europa, a due passi da Linate. L’hanno stretta il gruppo Stilo, controllato dal fondatore Antonio Percassi, e l’australiana Westfield, uno dei maggiori gruppi mondiali del comparto. Quello che nascerà sarà uno shopping center di 170mila metri quadrati sull’area dell’ex dogana nel centro di Segrate, da anni abbandonata, e si chiamerà appunto Westfield Milan. È previsto l’insediamento di centinaia di negozi di livello medio-alto, soprattutto di lusso: Prada, Versace, Gucci e Armani sono alcuni dei marchi che potrebbero aprire proprio nel nuovo mall a due passi dall’Idroscalo.

Sull’area lo stesso gruppo Percassi aveva previsto una cittadella del tempo libero, con negozi, ristoranti, multisala, teatro, albergo e spa, progetto che sembra abbandonato a favore di quello nuovo, per cui è previsto un investimento da 1,25 miliardi, con 5mila posti di lavoro sia per i lavori che per la gestione: Westfield ci metterà 115 milioni, in due tranche, il resto dovrebbe essere a carico del gruppo di Percassi, patròn dell’Atalanta. Inizio lavori, si annuncia, nel 2012, la fine per l’Expo 2015, quando forse, a Forlanini, arriverà anche la fermata del metrò 4.

Il progetto, di cui si parla da anni, desta preoccupazione tra i residenti per il traffico che potrebbe generare. Inizialmente previsto sull’area davanti alla sede dell’Ibm, a San Felice, il piano fu modificato per l’opposizione degli abitanti: al posto del mall sorgeranno case, realizzate sempre dal gruppo di Percassi. Soddisfatto dell’operazione il Comune di Segrate, di lì passerà la parte finale della Brebemi e ancora mancavano i fondi per la viabilità locale da Pioltello verso Milano, svincoli e pure percorsi ciclopedonali: «Così, con gli oneri, abbiamo trovato gli 85 milioni per la viabilità speciale legata alla Brebemi - spiega Adriano Alessandrini, sindaco di Segrate (centrodestra) - da Pioltello fino allo svincolo di Lambrate realizzeranno la nuova Cassanese, 3 chilometri in galleria e trincea che alleggeriranno il traffico su Segrate. Poi con gli altri oneri di urbanizzazione realizzeremo altre opere utili».

Ma non tutti fanno i salti di gioia. Tra questi, i cittadini della frazione di Tregarezzo, decine di famiglie che vivono a bordo della Cassanese che attendono da anni di sapere il loro destino quando la Brebemi passerà vicino alla loro finestre: «Ci avevano promesso la delocalizzazione proprio sull’area dell’ex dogana dove faranno il centro commerciale - critica Daniela De Stefani del comitato Tregarezzo - ma evidentemente avevano altri piani e noi ancora non sappiamo che fine faremo».

postilla

Il Comune di Segrate nasce con l’ondata migratoria “interna” del Secondo Dopo Guerra, quando molti immigrati milanesi, a causa dei prezzi delle case e della scarsa qualità dei servizi offerti da Milano, si stabilirono nella prima corona suburbana. Una rapida lettura dei dati demografici di Segrate (6.950 abitanti nel 1961, 32.368 nel 1991, fino ad arrivare agli oltre 34.000 residenti di oggi) può agilmente spiegare alcuni problemi che questo territorio, cresciuto troppo in fretta, si porta dietro da decenni: frammentazione territoriale e sociale, congestione, assenza di gerarchia urbana, ecc. Di fatto Segrate è un agglomerato di diversi quartieri (uno dei quali, certamente il più glamour, è Milano2) e cittadelle (come il S. Raffaele, nell’ultimo periodo certamente meno glamour che in che in passato), che si caratterizzano per il carattere monofunzionale e autoreferenziale; un insieme di recinti chiusi, a sé stanti, dipendenti dall’automobile e generatori di traffico.

Qualcuno penserà che siano i soliti commenti di qualche fanatico e benpensante urbanista che, alle soglie della Grande Milano, è contrario alle regole dell’economia e del mercato. E invece non è altro che il riassunto delle centinaia di pagine, prodotte per il futuro Piano di Governo del Territorio di Segrate, nelle quali, con qualche giro di parole in più, si indica la necessità di intervenire per riconnettere le diverse parti della città trasformando quello che ora si presenta come un “arcipelago suburbano” in una “cittadina più compatta, con un’adeguata dotazione di servizi: trasporto pubblico più efficiente, verde, strutture civiche e sociali”.

Ma, come spesso accade a queste latitudini lombarde, dove sembra che la crisi abbia ulteriormente rafforzato quei venti di sregolazione e speculazione che qui soffiano da oramai un ventennio, i progetti che vengono realizzati se ne infischiano delle analisi e delle indicazioni contenute nei piani urbanistici. Ed ecco il nuovo centro commerciale del gruppo Percassi, che promette di diventare lo shopping center più grande d’Europa e che, oltre a fare una serrata concorrenza alle altre strutture commerciali esistenti nei paesi limitrofi (peraltro non poche!), planerà come un’astronave in un’area dismessa, ex proprietà delle Ferrovie dello Stato, che la nuova viabilità in cantiere (Bre.Be.Mi. e T.e.e.m.) renderà fortemente appetibile per la sua posizione strategica-

Non resta che aggiungere un altro esempio, the Westfield Milan case , all’elenco delle “occasioni perse” di questo territorio, quello del margine est della regione urbana milanese, che, ancora oggi, appare piuttosto incerto e indefinito a causa del suo passato industriale che ha lasciato in eredità numerosi vuoti urbani da ripensare, ma che rischia sempre più di soffocare a causa di una serie di operazioni immobiliari miopi e localistiche. L’area ex dogana di Segrate, una delle aree dismesse di maggiore estensione di questa zona, diventerà un altro caso di speculazione immobiliare di stampo ambrosiano nonché l’ennesima occasione mancata per elaborare un modello di sviluppo che guardi al futuro con politiche territoriali di più ampio respiro che, da un lato sappiano guidare uno sviluppo di qualità e, dall’altro, rompano quel circolo vizioso, imparato oramai così bene da molti amministratori locali, che ha reso la finanza immobiliare la principale entrata dei bilanci comunali. (s.r.)

L'Accademia della Crusca è l'istituto, ospitato in una villa medicea presso Firenze, che cura e vigila sulla lingua italiana dal 1612. Per i 150 anni del nostro paese si sono sprecate le affermazioni sull'importanza dell'italiano come elemento che ha legato un territorio diviso. Ora la Crusca rischia di venir soppressa con la manovra: è tra gli enti con meno di 70 dipendenti insieme all'Istituto per l'Africa e l'Oriente, quel che rimane del Coni e altri istituti.

A rischio anche la storica Accademia della Crusca di Firenze: è infatti uno degli enti, una trentina in tutto, che sono sotto i 70 dipendenti e dunque che potrebbe rientrare nella norma della manovra varata ieri dal consiglio dei ministri. Nella stessa situazione ci sarebbero anche l'Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente, l'Agenzia per il Terzo Settore, il Museo Storico della Fisica e quel che è rimasto del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, il Coni, dopo la privatizzazione dell'ente. Nel decreto legge non c'è una indicazione precisa degli enti che potrebbe essere fatta in un secondo momento con un provvedimento ad hoc.

Nicoletta Maraschio, docente universitaria e presidente dell'Accademia, è incredula: “Non posso credere che la cancelleranno”.

Professoressa, stando alla manovra voi siete candidati a sparire.

Non posso credere che lo faranno davvero. Non si sapeva se l'Accademia era davvero nell'elenco, invece pare di sì. Nel 2009 Brunetta e Calderoli la salvarono tirandola fuori dall'elenco degli enti inutili, ora non se si farà riferimento a un decreto legge di dicembre che ne riprende uno del 2009. Fatto sta che siamo tra gli enti non economici con meno di 70 dipendenti.

Quanti siete?

Abbiamo 6 dipendenti, tre in biblioteca e tre in segreteria. Poi gli accademici che saranno più di 50 studiosi di tutto il mondo, e che lavorano a titolo gratuito, come me. Poi abbiamo i collaboratori che vivono in condizioni di totale precarietà con contratti a progetto in base ai soldi che troviamo. Variano da 20-30 persone e sono quelli che concretamente mantengono il sito, digitalizzano le opere, aggiornano l'archivio e così via.

Cosa vi servirebbe?

Da tre anni cerchiamo di avere una legge apposita che definisca una nostra natura giuridica pubblica e preveda una dotazione ordinaria, finora non ci siamo riusciti. Noi e i Lincei di Roma siamo le uniche accademie pubbliche italiane: non credo loro abbiano 70 dipendenti ma hanno una legge che forse li tutela. Non posso credere che il governo cancelli un'istituzione secolare come la Crusca legata al nostro vocabolario, che è un riferimento fondamentale per l'italiano dal 1612 a e oggi siamo un istituto di ricerca attivo in tutti i settori. Vedremo se hanno il coraggio di farlo.

Quale è il vostro ruolo?

Tutti i paesi del mondo hanno un'istituzione che si occupa della lingua nazionale. Questo è nostro ruolo da secoli e abbiamo fatto da modello per gli altri paesi. Cancellare la Crusca cosa significa? Nel 2011 si è detto e ridetto che la lingua è il collante fondamentale e l'identità in un paese diviso socialmente e linguisticamente. E si cancella l'istituzione che è garante della lingua?

Siete un ente che spreca soldi?

(scoppia in una sonora risata, ndr). Passo il tempo in accademia, non prendo un euro, è un lavoro volontario come quello degli accademici. Dal ministero dei Beni culturali riceviamo circa 190mila euro. Tutti gli altri soldi, oltre un milione di euro, li dobbiamo trovare noi attraverso rapporti con enti, istituzioni, grazie all'associazione degli Amici della Crusca, con una convenzione con Cnr, con il contributo annuale della Regione (per il 2011 darà 200mila euro). Attraverso un lavoro enorme nostro ci procuriamo soldi per sopravvivere ma senza poter programmare il futuro: sono sicura dei soldi fino al 31 dicembre ma dopo non so cosa succederà. Se mi arrivassero solo i fondi del ministero, allora non importerebbe nemmeno fare il decreto, chiuderemmo.

Si, la vicenda di Rimigliano è durata troppo. I ritardi amministrativi vanno combattuti, ma, aggiungo, perseguendo il bene comune, perché la rapidità, di per se, non è detto che generi effetti socialmente positivi. A Rimigliano devono essere analizzati tutti gli interessi in gioco.

É interesse legittimo, non un “sacrosanto diritto acquisito”, quello della società “Rimigliano srl” che, in base alle previsioni del Piano Strutturale, chiede di poter realizzare un albergo di 6.000 mq. e di trasformare in circa 180 abitazioni tutti i fabbricati rurali, demolendo e ricostruendo gran parte del patrimonio edilizio, per scorporarle poi dalla tenuta agricola e venderle liberamente sul mercato come seconde case.

É interesse legittimo anche quello di chi chiede di istituire l’ANPIL [Area naturale protetta d’interesse locale], dopo decenni di ritardo, e di realizzare il parco naturale come era stato concepito negli anni 70 e 80, con la conservazione dell’uso agricolo nella tenuta (non l’esproprio) e la pubblicizzazione della fascia a mare, con impegni finanziari sicuramente sostenibili per un Comune che ha più case che abitanti e alti incassi da oneri di urbanizzazione e ICI. Qui, più che altrove, è necessario tutelare le residue aree agricole e le coste pubbliche.

Questi interessi sono entrambi attuali e concreti, perché prima della sottoscrizione di convenzioni con i privati o del rilascio dei permessi di costruzione, qualsiasi decisione urbanistica può essere modificata. Atti che mancano a Rimigliano. Il Comune può quindi decidere liberamente cosa fare di quel territorio. Se in passato le amministrazioni avessero assunto come “vincolo” il piano regolatore che prevedeva 300.000 metri cubi di volumi turistici lungo la costa, oggi non si parlerebbe neppure del parco. Lo stesso vale per i parchi di San Silvestro, Sterpaia, Populonia e Baratti dove sono state cancellate previsioni urbanistiche per milioni di metri cubi e centinaia di ettari di cave. Se quei terreni avessero mantenuto le destinazioni originarie, avrebbero prodotto grandi rendite per i proprietari, ma non sarebbero stati realizzati i parchi della Val di Cornia.

La “Rimigliano srl” rivendica la costruzione dell’albergo e delle seconde case ricordando che “il prezzo pagato per l’acquisito della tenuta è stato di 30,5 milioni di euro, mentre se avesse avuto destinazione solo agricola il suo valore sarebbe stato solo di 6 milioni di euro”. Dunque la “Rimigliano srl” ha acquistato per 24,5 milioni di euro la “rendita immobiliare” regalata dal Comune alla Parmalat quando, nel 1998, decise di fargli costruire un grande albergo nel parco. Per questo chiede ora di attuare remunerative operazioni immobiliari. I dirigenti del PD sollecitano il Comune a chiudere rapidamente la vicenda e gli amministratori comunali obbediscono, assicurando che faranno presto.

E’ la conferma che il sistema politico ha sposato la tesi secondo cui la rendita creata dalle decisioni pubbliche in materia urbanistica costituisce “titolo esigibile” dai proprietari e vincola i Comuni a non modificare più le scelte compiute. Al più si contratta. Ma nessuna legge lo prevede. Addirittura la legge regionale 1/2005 stabilisce che “le previsioni soggette a piani attuativi perdono efficacia se entro 5 anni non viene stipulata la convenzione” tra Comune e privati. Contrariamente alle leggi, si è invece consolidata una prassi che “garantisce perennemente” le rendite. E’ per questo che si è investito più nella rendita che nella produzione e sono stati distrutti beni essenziali non riproducibili, come il paesaggio e il patrimonio culturale.

San Vincenzo non si sottrae a questa logica e dimostra che il centrosinistra non è in grado di contrastare il dominio del “partito trasversale della rendita”. Anzi, non sembra neppure interessato a valutare soluzioni alternative che a Rimigliano esistono con la costruzione di un albergo fuori dal parco, il rilancio dell’agricoltura e un qualificato progetto di recupero del patrimonio esistente per fini agrituristici, come integrazione del reddito agrario. La disputa vera, quindi, non è tra chi persegue lo sviluppo e chi lo avversa, ma tra chi sta acriticamente dalla parte della rendita immobiliare e chi chiede maggiore considerazione dei beni comuni e dell’interesse generale.

Massimo Zucconi è stato il costruttore, e per molti anni il presidente, della “Parchi Val di Cornia”. Ora è capogruppo della lista civica Comune dei Cittadini.

Trattandosi di faccende del Vaticano, la delibera approvata dal Comune di Roma scomoda il latinorum e parla di ius aedificandi, cioè diritto a costruire. Un diritto ampio, per tantissime costruzioni, proprio nel momento in cui, ironia della sorte, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica, in pratica l’immobiliare della Santa Sede, sta accelerando sugli sfratti in città, da via del Gonfalone a via di Porta Pertusa, come sottolinea al Fatto il segretario dei Radicali, Mario Staderini. Al Vaticano il Campidoglio concede 65mila metri quadrati di superficie utile lorda, 210mila metri di cubatura, per un valore di circa 400 milioni. Quattrini che in Vaticano si ritrovano da un giorno all’altro in cassa grazie alla reverente prodigalità del Campidoglio. Un regalone, in pratica, uno di quei doni che meritano riconoscenza eterna.

Riconoscenza a chi? Ovviamente al sindaco, Gianni Alemanno, che però deve dividere il “merito” con i consiglieri presenti, opposizione compresa e Pd in prima fila. Perché quando si è trattato di votare, nessuno ha voluto “sfigurare” con le alte prelature. In un afflato bipartisan tutti si sono devotamente genuflessi ai desideri della Santa Sede e hanno votato sì. Solo un consigliere ha fatto il bastian contrario, un pasdaran del Pdl che si è astenuto, non si sa bene se a ragion veduta oppure se si è confuso.

La faccenda è stata ufficialmente presentata come uno “scambio” tra Comune di Roma e Vaticano, ma dello scambio, cioè dell’operazione alla pari, la decisione assunta non ha proprio nulla. Il comune incamera 60mila metri quadri dei 117mila di proprietà del Vaticano inseriti nel parco regionale urbano di Valle Aurelia a Roma conosciuto come il parco della tenuta di Acquafredda e in cambio dà alla Santa Sede il diritto ad edificare su una superficie all’incirca equivalente in una qualche zona della città. Dove non è ancora chiaro. Al momento il diritto non è “atterrato”, come dicono i tecnici, cioè non è incardinato a un’area precisa. Una volta individuata o acquisita l’area, il Vaticano potrà procedere alla costruzione dei palazzi oppure, più verosimilmente, potrà vendere il diritto acquisito a un terzo, magari a qualche grande costruttore capitolino. In altri termini: il Comune di Roma ottiene dal Vaticano poco o nulla, un’area che è già parco naturale da destinare di nuovo a parco, mentre il Vaticano incassa il diritto a costruire, che equivale a moneta sonante. Tanta. Ironizza il presidente laziale dei Verdi, Nando Bonessio: “Quando il Vaticano chiama, il Campidoglio risponde”, mentre Angelo Bonelli, presidente nazionale conferma: “È un regalone con il fiocco”. La delibera è stata presentata a ridosso di Ferragosto quasi sicuramente non a caso, forse per poter contare sulla generale rilassatezza pubblica. Per di più il consiglio capitolino è stato riunito in seconda convocazione quando, a norma di statuto , per approvare delibere non c’è bisogno del 50 per cento più uno dei presenti.

La delibera, infatti, è stata votata solo da 27 consiglieri su 60. Con questo voto Alemanno ha bruciato sul filo di lana la collega di partito Renata Polverini, presidente della Regione Lazio, che già nei mesi passati si era prodigata per venire incontro ai desiderata del Vaticano. Sono almeno 15 anni che la Santa Sede cerca di risolvere a modo suo la faccenda dei terreni di quella zona, un’ampia area verde nel cuore di Roma nord, tra Aurelia e Boccea. Nel 1997, ai tempi di Francesco Rutelli sindaco, il comune approvò una variante al piano regolatore del 1964 con una delibera detta delle “certezze” in forza della quale i terreni del Vaticano fino ad allora in parte edificabili, ma solo per servizi pubblici (scuole, ospedali, teatri etc..), venivano trasformati in area agricola. La scelta fu ribadita subito dopo dalla regione Lazio che destinò tutta la zona a parco. Undici anni dopo, a marzo del 2008, con l’approvazione del nuovo piano regolatore, la giunta di Walter Veltroni confermò implicitamente la scelta. All’articolo 19, quello in cui vengono individuate le compensazioni a favore dei proprietari dei terreni che hanno subìto variazioni d’uso, non c’è infatti alcun riferimento alle aree di Acquafredda. Negli ultimi mesi il Vaticano aveva cercato di accelerare le pratiche di sfratto della decina di famiglie di contadini che ancora lavorano quelle terre, forse con l’intento di spianare la strada alla delibera comunale. Che infatti è arrivata puntualmente, alla vigilia di Ferragosto.

Caro direttore, nel 2003 la Coppa America rappresentò un pretesto per stravolgere la pianificazione e realizzare un immenso porto dentro la colmata e parte del parco, ridurre lo stesso parco, aumentare le volumetrie. Stravolgimento formalizzato in un accordo di programma voluto da quello stesso Bassolino che, solo 10 anni prima, aveva fatto del recupero ambientale di Bagnoli lo slogan della campagna elettorale. Oggi la situazione è diversa ma questo non vuol dire meno grave. Diversa perché la giunta ha escluso ogni deroga. Grave perché in venti anni nulla di quanto promesso è stato realizzato. L’errore originario è stato prevedere una società di trasformazione urbana con una mission sbagliata, perché impostata secondo una gestione prevalentemente finanziaria.

I risultati sono: 1) un indebitamento di 339 milioni di euro al 2010 che i revisori dei conti considerano preoccupante; 2) realizzazioni stupefacenti, come la porta del parco, un ettaro di cemento armato - auditorium e centro benessere costruito peraltro ben lontano dalle fonti termali – lì dove il piano prevede "attrezzature di quartiere" (ciò che fa dubitare della conformità urbanistica); 3) grovigli giuridici infiniti (dall’esproprio dei suoli, annullato dal Tar, alla vicenda relativa al porto, la cui ultima versione, il porto partenope, prevista in una recente conferenza dei servizi, è stata giustamente annullata dal Consiglio di Stato); 4) inchieste penali che da anni stanno verificando la correttezza della bonifica, stranamente non ancora concluse; 5) la mancata realizzazione del parco; 6) l’approvazione del progetto del primo lotto del parco di soli 40 ettari, più pavimentato che verde; 7) l’aumento delle cubature residenziali deciso dalla Iervolino; 8) la "seconda" gara in corso per la vendita dei suoli più pregiati di Bagnoli, quelli a ridosso del mare; 9) la realizzazione con sperpero di soldi pubblici di barriere artificiali sulla battigia e coperture della sabbia inquinata con teli e sabbia pugliese per rendere possibile l’elioterapia.

Eredità pesantissima che crea ancora più difficoltà a chi come de Magistris intende finalmente realizzare il progetto originario. La riduzione del parco, l’aumento dei volumi e la trasformazione della colmata in porto erano obiettivi espliciti dell’accordo di programma del 2003. Oggi lo stravolgimento del disegno originario non passa per la Coppa America, ma deriva dalla mala gestione. Certamente se si dovesse utilizzare la colmata come base delle barche la speculazione potrebbe avere un facile pretesto per chiederne la conservazione: sarebbe quindi un errore e occorre trovare una soluzione alternativa.

Ma la vera questione Bagnoli oggi è rappresenta dall’eredità disastrosa (economica, giuridica e amministrativa) che è stata lasciata. Questa eredità costringe la giunta de Magistris a ricercare una difficilissima soluzione alla quale devono partecipare tutte le energie sane della città e tutti coloro che in questi anni si sono opposti con forza a questa gestione. Occorre un radicale cambiamento di strutture, mission, pratiche amministrative sinora seguite e degli uomini, che sia studiato per realizzare quanto promesso da venti anni: rimozione della colmata, ricostituzione della morfologia naturale della linea di costa, come previsto dalla legge dello Stato e dal vincolo paesistico, recupero della balneazione (senza nessun porto) e realizzazione del parco urbano.

L’autore è presidente della commissione Urbanistica del Comune di Napoli

Si narra che nel 250 a.C. per trasbordare 140 elefanti catturati ai cartaginesi, al console Lucio Cecilio Metello era venuto in mente di costruire un ponte che collegasse la Sicilia al continente. E che poi il progetto si fosse arenato per la paura che la faraonica struttura non reggesse il passaggio dei corpulenti pachidermi.

Un paio di millenni più tardi ci si riprovò ma da subito gli ingegneri più avveduti sconsigliarono vivamente la costruzione di un’opera così monumentale per le impervie condizioni ambientali dello stretto, i fondali irregolari, le burrascose correnti, le raffiche di vento, l’elevata sismicità…

Nel 1985 è Bettino Craxi ad annunciarne la prossima realizzazione. Un testimone che l’attuale presidente del Consiglio non poteva non raccogliere… E infatti pochi giorni fa la notizia ufficiale che, tuttavia, il premier Berlusconi ha preferito non sbandierare nel suo inconsistente intervento alla Camera e al Senato, forse per evitare polemiche: il progetto definitivo del Ponte sullo Stretto di Messina è stato approvato. Con la viva e vibrante soddisfazione, per dirla con Crozza, dello stesso Silvio Berlusconi, di Gianni Letta, del ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, e dell’amministratore delegato della società Stretto di Messina e presidente dell’Anas Pietro Ciucci.

Quello che sembrava uno spettro lontano prende orribilmente corpo: un ecomostro lungo oltre 3,5 chilometri sospeso a quattro cavi d’acciaio con due piloni posti sulle sponde. Per realizzarlo servono poco meno di 9 miliardi di euro, due in più di quelli precedentemente ipotizzati. Praticamente il costo di una Finanziaria, poco meno del fabbisogno delle principali banche italiane, un decimo del finanziamento dello Stato per il Servizio Sanitario Nazionale (già ampiamente ridotto).

9 miliardi di euro. Una parte ce li metteremo noi, dirottandoli da grandi arterie ferroviarie e stradali che avrebbero urgente bisogno di interventi ben più cospicui di quelli fin qui destinati, o che magari potevano essere utilizzati per la ricostruzione (mai iniziata) dell’Aquila.

Un’altra ancora (circa 4 miliardi di euro) verrebbe raccolta sui mercati finanziari ma a nessuno sorge il dubbio che in questo momento di grave crisi dalle conseguenze incalcolabili possa essere un pò complicato racimolarli…

La terza tranche verrebbe dall’Unione europea. Peccato che l’Ue sembra voler voltare le spalle all’inutile e pericolosa costruzione e che i fondi verranno convogliati sul “corridoio” Berlino-Palermo che è da anni bloccato a Napoli.

Ora, ammesso e non concesso che Berlusconi troverà i fondi mancanti, sottraendone magari altri alla sanità, alla scuola pubblica o alla ricerca resta un banalissimo interrogativo: come la mettiamo con le frane a rotta di collo sul versante messinese e ancora peggiori sul fronte calabrese? E con la relazione di progetto in cui c’è scritto che quella è una delle zone a maggior rischio idrogeologico d’Italia? E con gli elevatissimi rischi sismici paventati da autorevoli geologi?

E una volta completato dovremo testarlo con 140 elefanti prima di farlo attraversare da migliaia di camion e automobili?

Perché dunque questa ostinazione nel voler realizzare un’opera così pericolosa e per niente redditizia dal momento che le grandi strutture di questo tipo, dal Golden Gate Bridge al Canale sotto la Manica sono tutte in perdita?

Forse la risposta ce la fornisce il diplomatico americano J. Patrick Truhn, console generale a Napoli in cinque dispacci datati tra il 2008 e il 2009 e pubblicati da Wikileaks: “La mafia potrebbe essere tra i principali beneficiari della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina”…

Un piano che prevede la trasformazione delle colline di Serravalle Scrivia. Una nuova realtà, che già qualcuno chiama “Serravalle 2”, dovrebbe nascere alle spalle di uno degli outlet più “visitati” del Nord Italia. L’ormai “vecchio” Designer McArthurGlen non basta più, ora si pensa alla “Serravalle bis”. Cementificazione dell’ambiente o riqualificazione del paese? Il timore degli abitanti della zona è quello di «assistere, impotenti, a una totale devastazione del paesaggio. Una colata di cemento sul verde e sulle vigne». I residenti, forse spaventati dai trascorsi della costruzione dell’outlet, temono di vedere le proprie verdi colline trasformate in un mare di mattoni.

Il piano - chiamato “Masterplan Bollina” - è stato portato in Comune dalla società Pragaotto, la stessa Praga holding che nel 1999 ha gettato la prima pietra della zona commerciale di Serravalle. «È stato presentato alla commissione edilizia - conferma il sindaco Antonio Molinari -, il completamento dell’area della Bollina».

Un nuovo quartiere che ospiterà residenze e alloggi. Quasi due milioni di metri quadri di sbancamento dei verdi colli piemontesi. «In termini turistici è a mio avviso - puntualizza il sindaco - un progetto che va a completare e a offrire nuove strutture ricettive e ulteriori opportunità di lavoro. Con le nuove attività che verranno offerte, si migliorerà e si valorizzerà il sito che gravita intorno all’orbita dell’outlet. La sfera commerciale andrà a fondersi con quella turistica». L’amministratore delegato della Praga holding, la ditta che si occupa dei lavori, rassicura: «L’obiettivo è quello di puntare alla rivalutazione di un territorio prevalentemente collinare. Saranno anche inseriti, nella nuova costruzione, diversi dettagli che puntano all’eno-turismo».

«Le colline del Gavi, comunque sia, verranno invase dalle piastrelle dei viali e dai mattoni delle ville», sostengono quelli che si oppongono.

«Seguendo le linee del progetto - specifica Roveda - c’è l’intenzione di ricostruire tutta l’area alle spalle del centro commerciale, con una parte nuova, dedicata alla residenza per privati, ma attenta al mantenimento del verde. In più i vigneti attuali verranno ampliati». È, inoltre, prevista la formazione di un parco divertimenti, una nuova cantina di vini e diversi impianti a carattere turistico ricettivo. Verrà anche ridisegnato il campo da golf della “Bollina”.

Il nuovo look, a detta dei promotori, sarà attento all’ambiente. Tutto il nuovo quartiere otterrà energia da fonti di energia rinnovabile. Ecologia, dunque, e non solo. Verranno realizzati diversi percorsi e, una volta coperti dagli alberi, saranno calpestabili grazie a una rete di passerelle e ponti. I lavori sembrano voler contribuire alla formazione di «un grande parco con molto verde, in cui verranno create palestre e impianti sportivi», specifica l’amministratore delegato Roveda.

«I progetti innovativi, che andranno a prendere vita sulla collina, saranno attenti anche al rapporto tra il turismo e i quartieri residenziali», puntualizza il primo cittadino.

Residenziale, si, ma - secondo gli scettici - solo per pochi eletti. Il mercato a cui sono dedicati i nuovi villini, sembrerebbe rivolto a una clientela ben definita.

D’altra parte la ditta e le istituzioni provano a mettere sul piatto della bilancia il progresso. Con la formazione delle nuove colline, spiegano i responsabili, si provvederà a dotare tutta l’area di nuove attrazioni. Un cinema multisala, una grossa rete di ristoranti. «In più - sottolinea Roveda - verranno creati alberghi e quelli già presenti saranno potenziati, in modo da offrire il migliore servizio possibile a chi desideri fermarsi dopo la visita all’outlet». In paese non si parla d’altro. La nuova Serravalle e la durata dei lavori per la sua trasformazione. «Quanto tempo ci vorrà per finire», si domanda qualcuno seduto ai tavolini di un bar. L’amministratore delegato non si sbilancia, lasciando intendere che è impossibile stabilirlo. «I fattori burocratici sono i primi bastoni tra le ruote che rallentano l’avanzamento del cantiere stesso», precisa.

Tra dubbi, progetti e qualche protesta, i modelli e i disegni sono stati presentati.

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