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Il commissario europeo Johannes Hahn arriverà mercoledì fra le rovine di Pompei. A lui il compito di sbloccare i finanziamenti per il grande piano di rinascita degli scavi disastrati: 105 milioni in tutto, è stato detto. Ma purtroppo non è così.

Purtroppo non ci sono 105, ma nemmeno cento o cinquanta milioni per le rovine di Pompei. Alla fine, si potrà constatare che non sono realmente spendibili neanche dieci milioni per il rilancio degli scavi, questo patrimonio dell'umanità che si sbriciola ad ogni temporale.

La zona del muro perimetrale venuto giù venerdì scorso è ancora sotto sequestro. Ed è anche lì che il commissario Hahn arriverà per vedere lo stato delle rovine accompagnato dai ministri dei Beni culturali Giancarlo Galan e degli Affari regionali Raffaele Fitto. C'è un programma di interventi da 105 milioni approvato dal Consiglio superiore dei Beni culturali che Hahn deve sbloccare. Ma i soldi per gli scavi sono davvero pochi.

Guardiamolo, il piano. E per cominciare a fare i conti c'è una prima facile operazione di sottrazione: la cifra stanziata di 105 milioni non è tutta per Pompei, ma serve anche per opere di Napoli, della zona Flegrea, di Ercolano, Oplontis, Boscoreale, Poggiomarino. Dunque? Sulla carta per il rilancio degli scavi di Pompei rimangono quarantasette milioni e mezzo di euro, più o meno. Sulla carta.

Ma andiamola a leggerla quella carta. È un lungo elenco di lavori e di opere da realizzare per il restauro di Pompei. Trentanove voci, per l'esattezza. Trentanove progetti: purtroppo la maggior parte sono tutti in fase preliminare. Ovvero il risultato è una lista di cose da fare senza alcunché di operativo. Nulla per cui quei soldi stanziati possano essere spesi realmente, almeno secondo le leggi vigenti.

I progetti esecutivi, quelli cioè davvero operativi, non sono che otto, in tutto. Per un totale di nemmeno otto milioni di euro. Anzi: ce ne è uno in più. Lo stanziamento più caro fra i progetti esecutivi: quattro milioni e mezzo di euro per completare un bunker in cemento armato costruito nel bel mezzo delle rovine, fra porta di Nola e porta Vesuvio. Un deposito brutto che deturpa il panorama antico e che fino ad oggi è già costato quasi cinque milioni di euro.

Il bunker è in assoluto la cifra più impegnativa, seguita soltanto da quel milione e ottocentomila euro stanziato per il restauro della casa di Sirico, domus ignota alle guide turistiche, così come la casa del Marinaio (un milione e mezzo di euro) o la casa di Fullonica di Stephanius (600 mila euro).

Ci sono altre tre domus semisconosciute fra i restauri operativi, insieme ad interventi di muri nelle strade prima di cogliere un restauro degno di nota: quel milione e 769 mila euro per la domus dei Dioscuri, perla rara di restauro fra questi progetti.

In calce all'elenco ci sono quattro voci imponenti: otto milioni per il piano della conoscenza (rilievi e verifiche e indagini idrogeologiche); sette milioni il piano della fruizione della comunicazione; due milioni per il piano della sicurezza; 2,8 milioni per il rafforzamento. Non è specificato per quale sito debba servire. Ma sono in calce a tutte le opere e dunque da dividere ancora una volta per tutti i siti citati nell'elenco.

La gravità di quanto accaduto giovedì (ma reso noto solo oggi) a Pompei, oltre che nella perdita di un elemento del nostro patrimonio archeologico risiede soprattutto nella devastante dimostrazione che nulla o quasi è stato fatto in oltre un anno.

Italia Nostra denunciò una situazione di fortissimo rischio e alcuni crolli (Casa dei Casti Amanti) fin dal gennaio 2010; un anno fa, il 6 novembre, la distruzione della Schola Armaturarum parve riattivare un percorso virtuoso di attenzione sul sito.

Mesi di annunci e promesse, un decreto (il n. 34, del 31 marzo 2011) che sembrò poter cambiare la situazione in tempi brevi e apportare concrete risorse per il piano di recupero del sito stesso.

Ad oggi, alla Soprintendenza Archeologica di Napoli e Pompei, non sono state assegnate nè risorse economiche, nè umane. Addirittura, nel mese di giugno, è stato deciso lo storno di alcuni milioni da Pompei al polo museale di Napoli (Capodimonte).

Nessuno dei 25 funzionari promessi, archeologi e architetti, è mai stato assunto: il comma che doveva servire a sbloccare la procedura, fortunosamente inserito nel ddl stabilità (n.2968), giovedì scorso 19 ottobre è stato stralciato perchè palesemente incongruo con il provvedimento. Ultimo drammatico segnale di un livello di incapacità amministrativa del Mibac che ha ormai superato il livello di guardia.

E continuano a rincorrersi, al più alto livello, dichiarazioni a dir poco fuorvianti e pericolose sulla necessità di realizzare “servizi e infrastrutture” non meglio identificate all’esterno degli scavi, quasi a voler giustificare quello strano comma 6 del decreto di marzo che, come denunciò immediatamente Italia Nostra, rendeva possibili, con la deroga da ogni strumentazione urbanistica, operazioni di dubbia utilità se non addirittura dannose per il sito stesso.

Italia Nostra richiede con forza che il piano di recupero e manutenzione di Pompei sia avviato immediatamente, partendo dalle recommendations elaborate dagli ispettori inviati dall’Unesco nel gennaio scorso. A garanzia scientifica e operativa di tale piano è necessario attivare, al più presto, un board di esperti di riconosciuta competenza pompeiana a livello nazionale e internazionale (Pompei è patrimonio universale).

Compito del board sarà inoltre quello di un primo addestramento ai nuovi archeologi che devono essere assunti in tempi rapidissimi (con apposito provvedimento legislativo d’urgenza).

Occorre inoltre stanziare fondi aggiuntivi immediati nelle disponibilità della Soprintendenza, affiancandone il personale con un ristretto gruppo di esperti in procedure amministrative, in grado di avviare in tempi celeri gare e appalti: soluzione molto più idonea ed operativa rispetto ai soliti carrozzoni onerosi e privi di competenze specifiche quali Invitalia.

In prima battuta si potrebbe trattare di risorse non enormi, ma vi è bisogno adesso, subito, di dare il segnale che abbiamo ancora la capacità di tutelare il nostro patrimonio archeologico.

Un anno è passato invano: non c’è più un’ora da perdere.

Le macerie? Hanno cominciato a rimuoverle, ma si sono accorti che andando avanti sarebbe caduto il palazzo qui a fianco, poi quello a destra, quindi l’altro a sinistra…». Davanti alle rovine della dimora barocca Lo Jacono-Maraventano ridotta in polvere, il parroco della cattedrale, Mario Russotto - anche lui sfrattato dal tempio pericolante -, indica a perdita d’occhio pareti inclinate, balconi sbrecciati, stanze a cielo aperto, case storte. Una città di cartapesta. Il centro storico di Agrigento è come il gioco dello shanghai, quello dei bastoncini cinesi: basta che se ne muova uno e viene giù tutto. Nel silenzio, nell’indifferenza, nella distratta rassegnazione degli abitanti che poco più in là, davanti al municipio, si «vasano» cuffarianamente sulle due guance mangiando dolci di ricotta, la città dei Templi sta inghiottendo se stessa.

Un Titanic, già quasi del tutto affondato. «Che ci posso fare io? Sto a San Leone, sul mare, mi affaccio sulla terrazza e mi ‘nni futtu», taglia corto un passante. Di fronte, irreale, fungo gigante di cemento e serrande, c’è Palazzo Vita, il mostro dei mostri, cinquantatré metri di altezza che svettano sulle casupole antiche, costruito negli anni Sessanta: qualche comitato civico, di tanto in tanto, propone di abbatterlo, o almeno di tagliarne metà. Li chiamano «tolli», qui, questi alieni che svettano in cielo, parola che in dialetto vuol dire cosa inutile, ingombrante e fuori posto. «Il piano di fabbricazione dell’epoca spiega l’architetto Simona Sanzo, autrice di un volume sul sacco edilizio - imponeva un massimo di altezza di 25 metri, ma con la possibilità di deroghe». Sorride: «Questo palazzo non è abusivo».

Bisogna venire qui e guardare il panorama per capire la «corda pazza» agrigentina, il rovesciamento della realtà, lo spirito di una terra che ha partorito Pirandello. La terra che ha l’acqua più cara d’Italia, nonostante arrivi a singhiozzo. La provincia che ha il record di evasione fiscale (41,9 per cento) e il massimo della disoccupazione. Già, mentre Agrigento cresceva inghiottendo ogni metro cubo d’aria, mentre si lasciava alle spalle la memoria della frana del 1966 con cinquemila sfollati, mentre costruiva per loro quartieri satellite temporanei che sarebbero diventati definitivi, mentre piazzava uno dopo l’altro propri politici sulle più importanti poltrone romane e palermitane (Mannino, Cuffaro, Alfano, per citare solo gli ultimi), il centro storico restava solo e abbandonato.

Adesso si sta sbriciolando tutto. Sotto i colpi di due diverse scuri: la minaccia idrogeologica, perché parte della città sorge su una collina che scivola verso valle, e la fragilità degli edifici. A febbraio la cattedrale seicentesca, reinaugurata solennemente nel 2007 dopo decenni di chiusura, ha dato segni di cedimento insieme con tutto il costone su cui sorgono gli edifici religiosi di via Duomo. Sfrattato dalle sue stanze pure il vescovo, Francesco Montenegro, il primo a dare l’allarme, memore della tragedia di Giampilieri che aveva vissuto. Il primo a invocare un piano di sgombero, perché da questo quartiere non c’è una via di fuga. «È quasi pronto», dice Attilio Sciara, il responsabile della Protezione civile del Comune, uno che se piove non dorme dall’ansia.

A marzo è imploso Palazzo Schifano, danneggiando anche la vicina Casa della Carità delle suore di San Vincenzo de’ Paoli. Il 25 aprile, mentre gli agrigentini mangiavano e bevevano fuori porta, si è polverizzato il gigante nobiliare, Palazzo Lo JaconoMaraventano, dove l’impresa incaricata dal Comune aveva appena concluso gli interventi di messa in sicurezza. Pochi giorni dopo, inseguito da urla e contestazioni, il sindaco Marco Zambuto, 38 anni una parabola politica che ha attraversato quasi l’intero arco parlamentare -, ha fatto le valigie e ha trasferito il municipio nella palazzina di fronte.Come dire, l’istituzione è qui. Peccato che qualche giorno dopo abbia dovuto firmare un’ordinanza di auto-sgombero perché stava per crollare anche quella. Ora è tutto macerie, a due passi dalla solida villa del regista Michele Guardì, uno dei pochissimi che hanno voluto investire in un centro storico che per gran parte degli agrigentini è morto. Un caro estinto che i più avrebbero già seppellito sotto un sudario di cemento come le rovine di Gibellina terremotata, e che invece - fantasma inquieto - si ostina a far sentire la sua voce, tra boati e crolli.

«Più pericoloso vivere qui che in cima all’Etna», diceva negli anni Novanta l’allora capo della Protezione civile, Franco Barberi. Cinquantanove le famiglie sgomberate, e il numero si ingrossa a ogni pioggia. Quando arrivano i vigili con l’ordinanza in mano, qualcuno piange, qualcuno impreca, qualcuno in silenzio prende in braccio i figli e si rassegna all’ospitalità del Comune - finché dura nell’albergo «Bella Napoli». «Abbiamo speso 400 mila euro del nostro bilancio e 700 mila della Protezione civile regionale per tamponare le situazioni di massima urgenza - dice il sindaco Zambuto -, adesso non abbiamo più un soldo neanche per questo. L’unica cosa che possiamo fare è portare via le famiglie e pregare che non ci scappi prima il morto». Ristrutturazioni? «Quando sono arrivato - allarga le braccia - il Comune aveva un buco di 50 milioni di euro, adesso è risalito a meno quindici, l'unica speranza è nelle risorse esterne». Mostra una mappa della città, un lungo elenco di opere già finanziate: c'era anche il restauro di Palazzo Lo Jacono-Maraventano, per 2 milioni e 800 mila euro. Ma è già crollato.

Difendere le rive dal lago dall'assalto del cemento. È questo l'obiettivo del Comitato appena costituito a Desenzano, al quale hanno aderito 250 cittadini gardesani - di nascita o di adozione -, compreso il notissimo cantautore Roberto Vecchioni, vincitore dell'ultima edizione di San Remo. Coinvolgimento dettato dagli stretti legami fra l'autore di «Luci a San Siro» e il Garda, visto che il «professore» ha insegnato al liceo Bagatta ed ha abitato a Barcuzzi.

«Il valore di Desenzano è sotto minaccia - ha recentemente dichiarato Vecchioni -. Il progetto del lungolago che invade con il cemento le rive del lago ha dell'incredibile. Per me, milanese di nascita e gardesano d'adozione che ha scelto di frequentare questi luoghi abitandovi, il dispiacere è grande. Ma è anche grande la volontà di sostenere tutti coloro come il Comitato "Difendiamo le rive dal cemento", che si sono ribellati a questo stato di cose».

Postilla

ottima cosa, che per la tutela del paesaggio e delle risorse naturali del paese, si schieri anche una voce molto importante in termini di visibilità, come quella di un cantante. Se ne ricordano in molti, di cosa ha voluto dire ad esempio il concerto dello stesso Vecchioni a sostegno dell’allora considerata impossibile candidatura di Giuliano Pisapia a Milano. E l’impegno contemporaneo dei musicisti per le questioni urbanistiche a memoria del sottoscritto risale almeno alla fine degli anni ’50, quando il giovane cantautore Bob Dylan fu contattato dall’attivista Jane Jacobs per comporre una ballata in difesa del loro quartiere Greenwich Village, minacciato dal progetto di un’autostrada urbana.

Ma per fare a tutti i costi l’avvocato del diavolo, le attuali dichiarazioni di Vecchioni, pur certamente in ottima fede, potrebbero rischiare di apparire poco più di un’espressione nimby , magari a difesa della veduta dal terrazzo del soggiorno, più che degli interessi generali. Perché è giusto ricordare che appena l’anno scorso lo stesso Vecchioni senza troppo pensarci su si dichiarava favorevolissimo a spostare le sue famose Luci a San Siro, insieme a tutto l’impianto dello stadio, dentro al Parco Agricolo Sud Milano. Sicuramente preso alla sprovvista, per carità, magari anche per colpa di chi queste cose le capisce, ma sempre si spiega poco e male fuori dal dibattito di bottega. Cerchiamo, tutti, di far meglio in futuro, eh? (f.b.)

Una lettera della dottoressa Barbera, Soprintendente della Toscana spiega che a San Casciano i nostri cronisti sono stati respinti da una persona che ha agito in proprio senza indicazioni del suo ufficio. Ma le immagini dimostrano che un funzionario ha ribadito che i giornalisti non potevano fare riprese.

Dalla dottoressa Mariarosaria Barbera, Soprintendente per i beni Archeologici della Toscana, riceviamo e pubblichiamo questa precisazione sull'episodio accaduto a San Casciano dove i nostri cronisti sono stati respinti mentre riprendevano il cantiere di scavo archeologico oggetto di una dura polemica tra lavoratori della Laika e ambientalisti. I fatti, però, stando alle immagini da noi pubblicate, sono andati diversamente.


Gentile Direttore,

una troupe di Repubblica. it si è recata alcuni giorni fa sul cantiere di scavo archeologico di S. Casciano Val di Pesa, loc. Ponterotto per riprendere l'area dell'erigendo stabilimento Laika. Uno scavo recentemente oggetto di una campagna di stampa che, tra i primi effetti, certamente non desiderati ma oggettivi, ha generato l'interesse di malintenzionati che già due volte sono entrati e hanno danneggiato le protezioni di scavo.

Nel video, pubblicato sul vostro sito, un'archeologa perde la calma e tenta di allontanare i giornalisti, pur rimasti in area pubblica a ridosso del cantiere, risolvendosi infine a chiamare i Carabinieri. Fin qui la cronaca.

Poi un pesante tocco di fiction: "la Soprintendenza - commenta il giornalista - ha ordinato agli archeologi sul cantiere di tenere alla larga i giornalisti e diffidarli dal pubblicare le immagini". Come dire: la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, da me attualmente diretta, ha di certo qualche "scheletro nell'armadio" e per questo complotta contro il quarto potere.

Sono francamente dispiaciuta per l'incidente. Ma non riesco a comprendere la ragione di tutto ciò: proprio la settimana scorsa ho rilasciato a Francesco Erbani un'intervista telefonica, né breve né omissiva, rispondendo alle domande poste e spiegando posizione e motivazioni della Soprintendenza (di cui peraltro ho assunto la direzione solo a gennaio). Perché non propormi di visitare lo scavo insieme, con la vostra telecamera? Avremmo organizzato tempestivamente e secondo regole che avrebbero tutelato sia la sicurezza dello scavo sia il diritto di cronaca. Senza spostare l'attenzione dalla consistenza dei reperti, il nocciolo della questione, alla reazione personale di un'archeologa.

Perché è dalla consistenza dei reperti che dipende la decisione del Ministero: le cui valutazioni tecniche e scientifiche saranno presto consultabili dal pubblico sulla rivista archeologica digitale Fasti on line, con un'ampia presentazione dello scavo e dei suoi risultati a cura della Soprintendenza. Le stesse valutazioni che forniamo in questi giorni a parlamentari e associazioni.

Mariarosaria Barbera - Soprintendente per i Beni Archeologici della Toscana

Ed ecco la risposta dei nostri inviati

“La replica della soprintendente di Firenze è stupefacente ed è smentita dal video che attesta come sono andati i fatti. E lascia senza parole l'intenzione di addossare ogni responsabilità all'archeologa che era sul sito di San Casciano e che avrebbe "perso la calma" e agito spinta da una "reazione personale". Noi siamo stati invitati con veemenza ad allontanarci dal cantiere e a non proseguire le riprese in virtù di una motivazione infondata ("lo vieta il Codice dei Beni culturali") che un funzionario della soprintendenza ribadisce parlando al telefono con il maresciallo dei carabinieri. Ciò è ampiamente dimostrabile sulla base della testimonianza di tutti i presenti alla scena, compreso il maresciallo dei carabinieri che ci riferisce il contenuto della telefonata".

Francesco Erbani e Mario Neri

Postilla

Non paia un fraintendimento di lieve entità quello descritto nello scambio epistolare fra Soprintendente e giornalisti. Fortunatamente, in questo caso le riprese consultabili sul sito rendono giustizia ai fatti.

Grave è sicuramente che una Soprintendenza, quindi un’istituzione pubblica, cerchi di porre ostacoli al diritto di cronaca accampando inesistenti norme del Codice dei beni culturali, ma se possibile ancora peggiore è il fatto di rovesciare le responsabilità di una scorrettezza su chi, per posizione professionale, si trova in una condizione di debolezza e ricattabilità, quale è l’archeologa precaria presente sullo scavo al momento delle riprese.

Esemplare illustrazione dell'atavico, desolante atteggiamento “forti con i deboli, deboli con i forti". (m.p.g.)

Gentile Presidente, gentile Direttrice,
come forse sapranno, alcune settimane fa sono intervenuto con una breve nota (http://eddyburg.it/article/articleview/17623/1/92) in merito alla questione dei rinvenimenti archeologici di San Casciano. Il mio intervento, come archeologo e come cittadino italiano interessato alla conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, si limitava a brevi considerazioni e soprattutto a porre alcune domande, che nel frattempo non hanno ricevuto alcuna risposta. E nessuna risposta, mi sembra, ha ricevuto anche Salvatore Settis, che ha espresso pubblicamente i suoi dubbi e le sue riserve.


Poiché non conosco la situazione, non disponendo di informazioni di prima mano (e come me, credo, nessuno, al di fuori della stretta cerchia degli addetti ai lavori), non posso e non voglio entrare, anche in questa occasione, nel merito del significato e del valore, dell’entità scientifica e culturale del ritrovamento, né del perché dell’assenza di indagini preventive che probabilmente avrebbero evitato questa contrapposizione, e nemmeno delle scelte - a mio parere assolutamente discutibili, anche se certamente legittime e, in altri casi eccezionali, praticate - di ‘delocalizzare’ i resti archeologici (uso volutamente questa brutta espressione), pur restando dell’idea, come avevo già scritto, che:


a) «se i ritrovamenti sono relativi a “pochi muretti”, come qualcuno sussurra, si abbia il coraggio di portare la decisione alle estreme conseguenze, si documenti e si pubblichi l’intero contesto archeologico, e lo si sacrifichi autorizzando la costruzione del capannone al di sopra dei resti»;


b) «se, invece, si trattasse di elementi di grande interesse storico-archeologico, tali da richiederne addirittura lo smontaggio e la ricollocazione in altro luogo, allora forse sarebbe il caso di riesaminare più attentamente la questione, privilegiando la conservazione in situ».


Il problema che invece pongo, a questo punto, è un altro, forse ancor più significativo, perché tocca la concezione democratica e trasparente dell’archeologia. Perché non si sono fornite notizie sui ritrovamenti? Perché non si sono aperti i cantieri ad archeologi, ad esperti, ad associazioni, ai cittadini, come avviene in tutti i paesi europei, anche in problematici contesti urbani e rurali? Corrisponde a verità quanto si dice a proposito della minaccia dell’intervento delle forze dell’ordine per impedire alla stampa la ripresa fotografica e video dei resti?

L’opacità produce sempre dubbi e sospetti. L’archeologia ha bisogno di trasparenza e di coinvolgimento sociale.

Il prossimo anno terremo a Firenze un convegno sull’Archeologia Pubblica, al quale un gruppo di archeologi, tra cui chi scrive, sta lavorando da tempo. Come potremmo parlare di archeologia pubblica, di ruolo sociale dell’archeologia, di partecipazione democratica, mentre non si garantisce nemmeno, in situazioni come queste, un minimo di trasparenza?


Sono sicuro che, anche in questa occasione, la Regione Toscana, regione di solide tradizioni democratiche e modello di politiche di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, saprà offrire una risposta capace di fugare quei dubbi e quei sospetti che finora questa triste vicenda ha oggettivamente prodotto.
Con i saluti più cordiali e con grande stima


Giuliano Volpe

Con il comunicato di ieri del presidente della Regione Enrico Rossi e con l’intervista di oggi su Repubblica di Antonella Mansi, presidente di Confindustria Toscana, la vicenda Laika al Ponterotto passa ad una nuova fase. E’ vero, abbiamo cercato di impedire il trasferimento dei reperti archeologici che per quasi tutti (tranne i responsabili, per l’appunto) è uno scempio senza senso, che ci coprirà di ridicolo. Una soluzione poteva anche essere trovata, lasciando i reperti al loro posto e modificando la planimetria del capannone: ma non ne hanno voluto sapere. Vogliono far presto e bene, come dice spesso Rossi: perderanno un sacco di tempo (e di soldi) e faranno male, diciamo noi.

Tutto ciò ha contribuito a rimettere in luce una vicenda lunga dieci anni, pieni di dubbi e di passaggi poco chiari. Il terreno, agricolo, è stato venduto a prezzo industriale come dice oggi il direttore di Laika De Haas, e ripete il presidente Rossi, oppure no? Circa 20 € al metro quadro, nel 2002, sono tanti o pochi? Quali erano le alternative, se sono state cercate, e se no, perché? E la lunga procedura della valutazione, richiamata dal Sindaco, è stata una cosa seria o una farsa? E le cosiddette mitigazioni, a cui ancora oggi ci si appella, hanno ancora senso, dopo la scoperta dei reperti? E perché non è mai stato fatto un serio rilievo del terreno, quando era il momento? E chi, fra i responsabili ai vari livelli, conosce davvero la consistenza dei ritrovamenti, sui quali non è ancora stata prodotta alcuna relazione? E perché tutta questa segretezza, nel tenere nascoste decisioni già prese più di un anno fa, nell’impedire addirittura la visione dell’area ai “non addetti ai lavori”?

Queste domande resteranno senza risposta, anche se si può dire che se prima se ne parlava solo a San Casciano, ora se ne parla in tutta Italia. Ma partiamo dall’episodio di giovedì 13 ottobre, ben documentato su: http://inchieste.repubblica.it/. Nel corso della preparazione di un servizio sul caso Laika due giornalisti di Repubblica, Francesco Erbani e Mario Neri, si avvicinano con la telecamera per riprendere, dall’esterno, la zona degli scavi più vicina alla strada provinciale, dove stanno lavorando alcuni addetti della Soprintendenza: i quali accorrono subito al cancello del cantiere, intimano ai due giornalisti di andarsene e minacciano l’intervento dei carabinieri. Il tutto in nome del “Codice del Paesaggio”, che dovrebbe, a sentir loro, tutelare la riservatezza degli operatori, anche quando si tratta di beni culturali oggetto di discussioni pubbliche (e di fotografie sui giornali). Un simile trattamento non era certamente stato riservato, solo due giorni prima, ai rappresentanti delle categorie, inclusa Confindustria, invitati dal Sindaco alla presentazione del progetto e alla visita degli scavi. Il Codice non dice niente di simile, ovviamente, ma l’episodio è indicativo di un certo modo di procedere, che d’ora in avanti sarà bene cambiare profondamente.

Il quadrato intorno a Laika, come titolava la settimana scorsa il giornale locale Metropoli, formato da amministrazione comunale, partiti (PD + PdL) sindacato e Confindustria, è così “magico” che ha sempre pensato di far scomparire con un tocco di bacchetta ogni forma di dibattito fondato sulla conoscenza dei fatti. Se la scoperta dei reperti archeologici è venuta a galla, già all’inizio dei lavori nella primavera del 2010, lo dobbiamo al fatto che alcuni cittadini curiosi, che ben conoscono questa parte del territorio, seguivano con molta apprensione lo sviluppo del cantiere, ben sapendo che quel terreno nascondeva notevoli sorprese, come infatti si stava puntualmente verificando. L’impresa non poteva far altro che chiamare la Soprintendenza archeologica, che in un primo tempo accettava qualche forma di dialogo con i visitatori (i curiosi) locali. Quando le prime pietre cominciano a venir fuori dal terreno, secondo i solerti scavatori sono solo tracce di quei muretti che si mettono intorno agli olivi (forse in Puglia?): al che un agricoltore del posto fa notare che in quel fondovalle gli olivi non si coltivano, bisogna salire un centinaio di metri più su. Si trattava infatti del sito di origine etrusca, che emergeva ai piedi della collina accanto a una fontana settecentesca: proprio quello che i curiosi locali si aspettavano. Ne dà conto, del ritrovamento, un breve trafiletto su Repubblica del 7 giugno, che fa imbestialire la Soprintendenza. E qui si chiude ogni possibilità di rapporto amichevole con le autorità preposte allo scavo.

A una mia cortese richiesta via mail, l’ispettrice Alderighi rispondeva: “Le comunico che la situazione è del tutto tranquilla; è stato previsto un controllo archeologico dell'area su mia indicazione fin dal momento della procedura per la VIA; gli scarsi rinvenimenti che possono avere un interesse archeologico sono di minima importanza e verranno valorizzati nel miglior modo possibile”. E proseguiva con un tono sempre più seccato: “La curiosità sua e della popolazione deve attendere ancora un po’ in quanto è norma di questa Soprintendenza non rendere noto alcun risultato né agli studiosi né ai curiosi se non al termine dei lavori e, per iscritto, sul Notiziario della Soprintendenza che viene pubblicato l'anno successivo; pertanto, da parte di questa Soprintendenza, come per tutte le attività in altri siti, non è autorizzato alcun sopralluogo né rilasciato alcun comunicato durante i lavori; ad ogni modo si tratta di un cantiere privato e quindi, anche per quanto riguarda l'intero cantiere, a prescindere dai miseri ritrovamenti, un eventuale sopralluogo deve essere autorizzato dalla Proprietà”.

La mail è del 9 giugno dell’anno scorso. Soltanto di recente, nel mese di settembre, veniamo a sapere che nello stesso mese di giugno quella stessa Proprietà, con la maiuscola, aveva avanzato la richiesta di trasferire i “miseri ritrovamenti”, che allora comprendevano solo il sito etrusco-ellenistico, in altra sede: per poi estendere la richiesta, tre mesi dopo, a proposito del sito della villa romana. La richiesta era stata accolta dalla Soprintendenza regionale, e inviata a Roma al Ministero, che poi finirà per accoglierla, come è noto. Di tutto questo non trapela nulla, né sulla stampa né negli atti dell’amministrazione comunale.

Ogni tentativo di saperne di più era stato frettolosamente respinto. Cito dall’ordine del giorno presentato il 29 settembre da Lucia Carlesi:

“con domanda di attualità (delibera CC n. 26 de1 12 aprile 2010) furono richieste informazioni circa i ritrovamenti che stavano emergendo a Ponterotto avanzando richiesta di massima trasparenza e conoscenza del progetto e l'Amministrazione assicurò la presentazione di una relazione; la commissione Ambiente e Territorio nella seduta del 16 giugno 2010 esaminò la richiesta di sopralluogo sul cantiere Laika avanzata dei gruppi consiliari Laboratorio per un'Altra San Casciano-Rifondazione Comunista, Futuro Comune e Popolo della Libertà, per prendere visione degli scavi in corso e che tale richiesta fu respinta;”

Del trasferimento dei reperti si viene a conoscenza soltanto nello scorso agosto, anzi alla fine del mese, perché chi va a pensare che una delibera così importante venga presa dalla Giunta comunale il primo di agosto, senza alcuna pubblicità. E chi si poteva aspettare che il primo atto ufficiale in cui si parla di “accordo per la disciplina dei rapporti per la rimozione, ricollocazione, restauro e valorizzazione delle strutture archeologiche rinvenute in San Casciano Val di Pesa, località Ponterotto” venga non dalla Soprintendenza o dalla Regione, ma dalla Giunta che anticipa – senza neppure interpellare il Consiglio: e qui hanno commesso anche un errore procedurale, molto probabilmente – un protocollo che tutti gli interessati dovrebbero poi firmare. Qui si può dire che l’abitudine a lavorare di nascosto aveva preso un po’ la mano, ai nostri amministratori, forse convinti che nessuno si sarebbe accorto di quello che stavano facendo. Tanto più che se poi andiamo alla ricerca di qualcosa che somigli a un progetto di questa famosa “ricollocazione e valorizzazione” dei reperti dobbiamo andare a pescarlo in una deliberuccia precedente, risalente al 27 giugno, dal misterioso titolo “progetto esecutivo di valorizzazione dei siti archeologici e del parco sportivo ‘la Botte’ attraverso un sistema integrato di segnaletica turistica”.

Come mai il Sindaco avrà aspettato l’11 ottobre per presentare ufficialmente un progetto che se ne stava ben nascosto da tre mesi e mezzo? Come mai avrà scelto di presentarlo ai rappresentanti delle associazioni di categoria, e soltanto a loro: con successiva visita a “quei quattro sassi”, come li ha definiti la presidente di Confindustria? La risposta è semplice: perché solo nel mese di settembre un serio lavoro di denuncia e di comunicazione ha impegnato associazioni e comitati, oltre all’unica forza di opposizione rappresentata in Consiglio Comunale, quella di Laboratorio per un’altra San Casciano – Rifondazione Comunista. E’ stato sufficiente inventare un sito (http://archeopatacca.blogspot.com/), preparare qualche comunicato che dava pubblicità alla protesta per la mancanza di trasparenza. I primi attestati di solidarietà sono venuti proprio dal mondo degli archeologi, per i quali la stessa idea dello spostamento dei reperti suonava come uno scherzo di cattivo gusto. “La cosa che sollecita la mia curiosità e presenta, fin da subito, alcuni lati enigmatici è relativa al progetto di rimozione e ricollocazione dei resti archeologici: una procedura, tecnicamente assai problematica, alquanto rara e costosa”, così Giuliano Volpe il 12 settembre sul sito eddyburg, uno dei principali luoghi del dibattito sul territorio su scala nazionale.

Al resto ci hanno pensato proprio i sostenitori del progetto Laika, che per difenderlo con ogni mezzo hanno finito per contribuire a fare da cassa di risonanza: fino all’invasione del Consiglio Comunale in occasione della discussione su un ordine del giorno presentato da Lucia Carlesi, l’unica consigliera contraria all’operazione, accusata di voler togliere il lavoro agli operai e sottoposta a un vero e proprio tentativo di linciaggio politico. Antonella Mansi attacca gli “ambientalisti in cachemere”, e l’assessore Anna Marson risponde per le rime. Ma anche in questo caso quella che sembrava una posizione isolata, a San Casciano, è stata oggetto di una solidarietà ben più vasta e significativa, estesa a tutte le componenti dell’ambientalismo vecchio e nuovo. Anche fra le forze politiche che sostengono la Giunta regionale si sono manifestati seri dubbi sulla correttezza dell’operazione, fino al momento in cui Enrico Rossi ha chiuso ogni spiraglio annunciando la prossima firma del protocollo su “ricollocamento e valorizzazione” dei reperti, visto che è tutto in regola, con il benestare degli organi di tutela. L’archeopatacca si farà, dunque?

A questo punto possiamo promettere solo una cosa: che non staremo a guardare passivamente. Il lavoro di questi due mesi ha fatto emergere tutti i vizi di una vicenda nata male e continuata peggio. Un errore urbanistico iniziale, un disegno campanilistico in nome di presunti interessi dei lavoratori che coincidono con quelli dell’azienda, finisce per produrre una gaffe culturale senza precedenti. Ci dispiace che i dipendenti Laika siano stati tirati in ballo a sproposito per coprire responsabilità politiche (qualcuno ha anche parlato di “scudi umani”). E allora anticipiamo fin d’ora quelle che saranno le nostre domande nei prossimi mesi.

Quanto tempo ci vorrà per spostare i reperti in condizioni di sicurezza? Si parla di completare tutta l’operazione a primavera, del 2012: vogliamo scommettere che si arriverà a quella del 2013?

Quanti soldi costerà l’operazione? Si parla di 400.000 € da parte dell’azienda: e il resto? Il Comune dove li trova, i soldi (cosa che le delibere non chiariscono minimamente)? Li metterà la Regione, e con quale giustificazione? Ricordiamo che per rimpinguare le scarse risorse finanziarie il Comune ha già provveduto a vendere pezzi del proprio patrimonio: continuerà così?

Che aspetto avrà il sito-patacca? Le opere murarie saranno davvero “restaurate” come si sente dire, e inserite in un bel giardino pubblico? Quante risate si faranno i visitatori? O ci sarà da piangere?

E infine, quanti operai resteranno senza lavoro, una volta completata la nuova struttura produttiva, in nome della razionalizzazione invocata dall’azienda? E quali diritti spetteranno ai dipendenti che si sono schierati con il padrone (non si dice più?) legandosi mani e piedi alle sorti dell’azienda?

Sarà molto triste, fra qualche anno, dire che avevamo ragione: quando la frittata sarà fatta, con tutto il danno irreversibile a quel bene comune che è il paesaggio con i suoi valori storici e culturali. Se non possiamo impedire lo scempio, possiamo almeno dire che chi lo ha voluto se ne dovrà assumere la responsabilità, che l’operazione non potrà mai più essere sepolta sotto le formule del “è tutto sotto controllo” e “lasciateci lavorare”. Ci hanno provato, a fare tutto di nascosto: ma non ci sono riusciti. Questa è la nostra modesta vittoria, per ora: provino a sostenere il contrario.

Claudio Greppi si esprime anche a nome della Rete dei comitati per la difesa del territorio.

Come conciliare le ragioni della tutela di paesaggio e beni culturali e le ragioni della crescita industriale? La questione continua a proporsi in un paese come l'Italia ricco di un patrimonio inestimabile, sul quale gravano incuria e indifferenza. Talvolta le due ragioni riescono a convivere, ma molto spesso l'elemento che prevale è il conflitto. Nascono lunghi e faticosi contenziosi che producono solo paralisi. Tanto più insopportabili in un periodo di crisi.

Questa inchiesta si muove fra la Toscana e il Molise. L'ha realizzata Francesco Erbani insieme a Mario Neri per il video della parte toscana. A San Casciano vengono rinvenuti i reperti di due edifici, uno etrusco, l'altro romano, nel cantiere dove si costruisce un capannone industriale di 300 mila metri cubi. Il Comune e l'azienda decidono di smontare i reperti e di rimontarli su una collinetta artificiale. È un'archeopatacca, insorgono le associazioni ambientaliste, che già avevano contestato la localizzazione della fabbrica. Il braccio di ferro è durissimo. I nervi tesi, come dimostra il fatto che la Soprintendenza di Firenze, favorevole alla ricollocazione, ha fatto chiamare i carabinieri per impedire ai nostri giornalisti di filmare o fotografare il sito archeologico.

Nel Molise, invece, potrebbe sorgere un impianto eolico lungo il crinale di una collina che sovrasta il sito archeologico di Saepinum, città prima sannitica e poi romana. Inoltre le pale, alte centotrenta metri, verrebbero impiantate lungo un antico tratturo. La strada, dove è visibile la pavimentazione romana, è stata ricoperta di pietrisco e usata come strada di cantiere. La Procura indaga e il Gip ha sequestrato il sito.

Qui l’inchiesta con video e documenti

MILANO — Crescono perfino gli alberi, sulla torre del castello di Ludovico il Moro a Cusago. Ma da Milano, la «capitale morale d'Italia» che sta a un tiro di schioppo, non lo vedono, il degrado che sta sgretolando l'antica e maestosa residenza. Niente «danèe», niente restauro. Ha tenuto duro mezzo millennio, tenga duro ancora finché non arriverà (auguri) la ripresa...

C'è chi dirà che è tutta «colpa» dell'abbondanza di opere d'arte, di monumenti, di borghi medievali di cui il nostro Paese può menare vanto.

Certo, tanti Paesi se lo sognano, un castello come quello, edificato da Bernabò Visconti tra il 1360 e il 1369, sui resti di una fortificazione longobarda, a una dozzina di chilometri in linea d'aria da piazza Duomo. E se lo avessero lo curerebbero con amore. Ma come possiamo, noi italiani, badare a tutte le nostre ricchezze? Lo diceva già, diversi anni fa, Alberto Ronchey ricordando, nel libro-intervista «Fattore R» con Pierluigi Battista, che da altre parti è più facile gestire tre o quattro grandi musei e una decina di città d'arte. Solo da noi si possono «trovare tante opere d'arte, una sedimentazione stratificata per ventotto secoli. Dall'VIII secolo a. C. ai tempi nostri, non si ricorda un'era che non abbia lasciato la propria eredità in Italia: Etruschi, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanno-Svevi, Medioevo comunale, Rinascimento, Barocco, Neoclassicismo fino al Modernismo». È un patrimonio straordinario, ma anche un problema.

Ma non è uno dei tanti, quel castello. Come ricorda nel libro (in via di pubblicazione) Castelli fratelli Simona Borgatti, che da anni si batte con un comitato di volontari per salvarlo, l'edificio è un pezzo della storia milanese. Fin da quando fu costruito perché i Visconti e poi gli Sforza potessero godere di quella splendida «riserva di caccia distesa su un territorio che andava da Milano a Vigevano tra boschi, risorgive e fontanili». Un paradiso terrestre per raggiungere il quale Filippo Maria, diventato troppo grasso per andare a cavallo a causa degli eccessi a tavola, «si fece scavare un ampio canale, il "Naviglietto", derivandolo dal Naviglio Grande all'altezza di Gaggiano. Su questo canale la corte poteva agevolmente arrivare a Cusago dalle altre sedi ducali, come Abbiategrasso». In barca.

Scelto come rifugio durante la peste del 1398 e poi adibito a lazzaretto, il castello «tornò a nuovo splendore nel 1480 con Ludovico Sforza detto il Moro, che diede a Cusaghino l'aspetto di "una villa di delizie", una residenza dove potersi "mettere in libertà" e dimenticare per un momento gli affanni legati al governo del Ducato per dedicarsi alle feste, alla caccia, alla pesca e alle amanti».

Donato da Ludovico alla moglie Beatrice d'Este e passato successivamente a Lucia Marliani, una delle favorite del Moro, il castello finì più tardi nelle mani del conte Massimiliano Stampa. E giù giù, di eredità in eredità, nel patrimonio dei Casati-Stampa. Per essere acquistato infine nel 1973, insieme con la villa di Arcore, dall'astro nascente dell'edilizia milanese, Silvio Berlusconi.

Di secolo in secolo, ormai, era diventato una cascina abitata da una trentina di famiglie: «L'imponente portale di legno, ormai in decadenza, immetteva in un ingresso nel quale razzolavano le galline. Cumuli di fieno venivano accatastati sotto le volte a crociera del portico un tempo affrescato e il fattore, stanco, si tergeva il sudore appoggiandosi a una colonna di marmo. Dai locali del piano terra adibiti a trattoria e recanti i simboli dei duchi di Milano, usciva un profumino di pesce fritto».

«Gli attrezzi agricoli riposavano dove una volta trovavano ricovero i cavalli di Ludovico (...) Le donne rimestavano la polenta nel paiolo posto sulle braci dei camini decorati con l'impresa dei "tizzoni e delle secchie" e lo stemma visconteo: gli stessi dove cinquecento anni prima solerti ancelle alimentavano il fuoco per asciugare abiti di broccati e damaschi bagnati dalla pioggia di un improvviso temporale...».

Il Cavaliere, più che al castello, era interessato ai terreni. E al «marchio». Prova ne sia il nome del quartiere tirato su dalla Edilnord su alcuni ettari della tenuta: «Milano Visconti». Qualche anno di attesa per capire bene cosa si poteva fare del nobile ma ingombrante e malridotto maniero, poi la società berlusconiana si decise. E nel 2003 vendette tutto a «Il Castello di Cusago s.r.l.», una cordata di imprenditori.

Sulle prime, racconta Simona Borgatti, «la società si presentò con molta coscienza ed entusiasmo alla conferenza tenutasi al Museo del Duomo dall'Istituto Italiano dei Castelli». Tanto più che, quasi ignoto a tanti milanesi, la residenza fortificata è tra i «Luoghi del cuore» del Fai, il Fondo ambiente italiano.

L'ipotesi era quella di fare del castello una scuola di floro-vivaismo legata al Parco Sud. Ma poi, di mese in mese, di anno in anno, ogni progetto finì per rivelarsi complicato, costoso, impossibile. Finché la «Castello di Cusago s.r.l.» decise di arrendersi. E di mettere tutto in vendita. È il 2008.

Ecco l'acquirente: l'immobiliare «Kreiamo s.r.l» di Cesano Boscone. Annunci a effetto: «Emozioneremo Cusago con il nostro progetto di recupero». L'idea: destinare l'immobile a un uso misto, pubblico e privato. Investimento: quattro e due milioni di euro. Ma prima ancora che la Soprintendenza possa dire la sua, salta tutto: gli amministratori della società vengono arrestati nel quadro dell'inchiesta «Parco Sud» sulle infiltrazioni nel sud-ovest milanese della 'ndrangheta.

«Noi non possiamo fare niente — dice il sindaco Daniela Pallazzoli —. Le casse del Comune non sono assolutamente in grado di farsi carico dell'acquisto e del restauro. E di questi tempi di magra mi pare difficile che se ne occupino lo Stato o la Regione. L'unica speranza è che possa passare l'idea di coinvolgere i privati e far rivivere il castello facendone ad esempio una Università del gusto. Un centro congressi. Una foresteria di eccellenza a tre chilometri dall'Expo 2015». Il guaio è, spiega, che «non si possono affrontare questi problemi sulla base di un Regio Decreto del 1912. Per capirci, ogni ipotesi alberghiera è legata all'obbligo di mettere gli impianti a norma, fare i bagni, aprire nuove finestre... Noi ci teniamo al pieno rispetto del castello, però...».

Anche alla Soprintendenza lo sanno. Cosa fare? Lasciare che il castello in mano ai privati e oggi impossibile da comprare con i soldi pubblici venga divorato dal degrado? O consentire che, come male minore, sia parzialmente modificato da interventi che consentano ai proprietari di rientrare dagli investimenti? L'architetto Alberto Artioli, soprintendente per i Beni architettonici e paesaggistici, sospira: «È un problema col quale abbiamo a che fare tutti i giorni. Ma non è vero che siamo barricati nella trincea del "non si tocca niente". Se c'è la buona volontà di trovare una soluzione saggia, noi siamo qua. Basta fare le cose con buon senso...».

Presto, però. Occorre fare presto. Un nuovo inverno si avvicina. La vegetazione, dopo avere sbranato le impalcature tirate su anni fa per la messa in sicurezza, sta attaccando i muri. Tra le capriate dei tetti si sono aperti squarci che, con le piogge e la neve, sono destinati a spalancarsi e crollare. Le bellissime finestre sono ogni giorno più sgangherate. Le erbacce hanno ormai attaccato non solo il cortile ma la pavimentazione interna. E gli alberi sulla torretta continuano a crescere, crescere, crescere...

postilla

Chi ha partecipato alla Scuola Estiva di Pianificazione di Eddyburg forse si ricorda la bella relazione di Serena Righini su Milano alla conquista della Cintura Nera, dedicata agli sviluppi del sistema delle Tangenziali e a come queste sottendano un modello di crescita metropolitana disperso e privo di attenzione agli equilibri territoriali. Quello dell’area di Cusago è forse uno dei casi più evidenti di come cresce nel tempo (una generazione, circa) il processo: territorio agricolo fra l’attuale tracciato della Tangenziale Ovest e il margine meridionale del Parco Sud ai confini del Parco Ticino, si è visto via via assimilare quasi senza soluzione di continuità alla città compatta milanese, in una specie di partita a scacchi intricata. Se ne leggono però chiaramente i segni percorrendo una qualunque delle strada in uscita da Milano, che sia la provinciale per Abbiategrasso, l’ex poderale di Assiano (raccontata da Biondillo e Monina nel loro Tangenziali), o quel capolavoro di trascuratezza che è l’area industriale di Settimo, culminante nell’office park suburbano Italtel. Il degrado del castello è solo la punta di un iceberg, segno di crollo dell’abitabilità e logica, in un territorio che continua a buttare va la sua vera ricchezza: speriamo che l’Expo 2015, nel nuovo percorso che pare oggi imboccato, riesca almeno a fermare il peggio, valorizzando appunto le aree agricole di cintura per quello che sono, e ponendo quindi anche le premesse ovvie per far crescere alberi nel posto giusto, e non sul tetto del Castello (f.b.)

Siringone o Formigone? Dopo mesi di polemiche terra-terra su polveri sottili, traffico e super-vitalizi, il dibattito politico a Milano è tornato d’improvviso a volare in quota. Per la precisione a 230 metri dal suolo, dove da un paio di giorni si combatte una battaglia decisiva per il futuro della città: quella per il titolo di grattacielo più alto d’Italia. Roberto Formigoni era convinto di avere il trofeo in tasca grazie ai 161,3 metri del Pirellone-bis, monumento proporzionato alla gloria dei suoi 16 anni da governatore della Lombardia.

Peccato non avesse fatto i conti con "The Spire", l’antenna piazzata a tradimento sabato mattina sul tetto di Torre Garibaldi di Cesar Pelli. In meno di sette minuti, grazie a un’operazione in stile commando di un elicottero Superpuma, il tetto di Milano (e del Paese) è stato alzato di 68,7 metri. A quei 230 metri, appunto, della guglia d’acciaio che ha trasformato il capolavoro del maestro argentino in una copia - scala 4.600 a uno - di una siringa Pic indolor.Il governatore non l’ha mandata giù. E ha puntato i piedi: «L’antenna non vale!». Il Guinness dei primati - sostiene - misura i record dal punto calpestabile più alto di un edificio. E i 161,3 metri del Formigone (come gli intimi chiamano la sede della Regione) svettano di ben 9,3 metri sopra i 152 del dirimpettaio.

La città, dilaniata dalla polemica, ha messo in pista le sue menti migliori. L’Ordine degli architetti, nel timore di offendere uno dei suoi associati, ha preso una posizione netta: «Hanno ragione tutti e due». Stefano Boeri, collega prestato alla politica, la butta in ironia: «Nemmeno a Kuala Lumpur (dove le Petronas di Pelli si perdono tra le nubi a quota 452 metri, ndr) fanno a gara sulle altezze dei grattacieli». Sarà. L’importante è che la guerra del pennone finisca presto. Ne va dell’umore del governatore. Lui sta provando a farsene una ragione: «Un’antenna di mille metri sul Rosa non cambia la geografia: il Bianco resta la montagna più alta d’Europa», ha buttato lì senza convincere nemmeno se stesso.

Il problema resta: ogni mattina, quando entra nel suo ufficio al 36esimo piano del Pirellone-bis e alza la tapparella, si ritrova sotto il naso (anzi, sopra il naso) la punta beffarda di Torre Garibaldi. La Madonnina, dal basso dei suoi 108 metri, assiste silenziosa. Lei – malgrado frequentazioni con il regno dei cieli più solide di Formigoni – non ha fatto polemiche quando è stata superata dal Pirellone. Il resto della città abbozza. Tra pochi giorni, passato l’effetto-favonio, il solito cappotto di Pm10 tornerà a coprire Milano. Lo Spire e la cima del Formigone spariranno nel grigio del cielo metropolitano e il dibattito meneghino, dopo quest’escursione a 230 metri di quota, tornerà con i piedi per terra. Di problemi da risolvere, in fondo, ce ne sono più che a sufficienza anche ad altezza d’uomo.

Nota: avevo già tentato di esprimere, con meno autorevolezza di commentatore of course, i medesimi concetti . qualche giorno fa su Mall (f.b.)

La Repubblica

In arrivo la rivoluzione del Pgt indici più bassi per le costruzioni

di Alessia Gallione



C’è il Parco Sud, che non genererà più volumetrie da far atterrare in altre parti della città. E ci sono le grandi aree di trasformazione, dagli scali ferroviari alle caserme, dove si costruirà di meno, così come saranno limitati - a seconda del contesto - gli indici anche nella città già "consolidata". Ma nel nuovo Pgt targato Pisapia, Palazzo Marino promette anche di riprendere in mano la regia degli interventi: rivedendo il piano dei servizi (per l’ex giunta i privati avevano vasti margini di scelta) per essere in grado di decidere sui bisogni dei diversi quartieri (dalle biblioteche agli asili), aumentando il verde e gli spazi pubblici. Si punterà anche sui trasporti e sull’housing sociale, con «correttivi che rendano effettive previsioni che ad oggi non potrebbero avere riscontri». Sono le linee guida politiche che l’assessore Ada Lucia De Cesaris porterà oggi in giunta: saranno la via maestra da seguire per riscrivere il Piano di governo del territorio attraverso la rilettura delle quasi 5mila osservazioni di cittadini e associazioni. Solo l’inizio, però, di una rivoluzione dell’urbanistica. Nel segno del cambiamento, è la promessa.

Si parte dal Pgt e dalle regole da modificare. Il documento non è stato cancellato, ma l’impianto immaginato dall’ex assessore Carlo Masseroli con queste linee guida subisce un cambiamento notevole. A cominciare dalla perequazione del Parco Sud che scompare, fino alla possibilità che alcuni di quei vasti ambiti di trasformazione, quelli «che comportano un ingiustificato consumo di suolo», vengano addirittura eliminati. «L’obiettivo - è il senso - è superare le previsioni attuali di fatto inattuabili»: troppe costruzioni. Anche nei quartieri già esistenti tornerà, a seconda del contesto, un indice massimo. Ma l’assessore all’urbanistica De Cesaris con questi indirizzi traccia anche una filosofia più vasta, da applicare non solo agli interventi futuri, ma anche - dove sarà possibile - a quelli in corso.

Si parte dalla realtà, da una città che si sta già trasformando, ma che sta vivendo anche una crisi del mercato immobiliare dalle possibili «gravi conseguenze: rischi di sovrapproduzione, rallentamento o blocco di grandi progetti». Anche per questo si pensa a un «tavolo con gli operatori» e, soprattutto, Palazzo Marino traccia una nuova rotta: meglio puntare su una nuova politica di risparmio energetico e ambientale e su una visione metropolitana che guardi ai trasporti, ad esempio, in chiave più vasta. L’assessore guarda alla «crescita "senza governo"» della città e rivendica un ruolo centrale di regia per l’amministrazione. «Il processo non sarà privo di ostacoli», scrive.

Nella nuova visione dovranno rientrare anche i progetti già approvati o i cantieri già aperti (da Porta Vittoria a Porta Nuova fino a Citylife): dove possibile si tenteranno «modifiche in ascolto delle esigenze dei quartieri». Fino a Santa Giulia, definita una «ferita da rimarginare e, in parte, necessariamente da ripensare». I tempi: dopo la giunta di oggi, gli indirizzi politici arriveranno in commissione dalla prossima settimana e, successivamente, in consiglio comunale insieme alla delibera di revoca del Pgt. Allo stesso tempo partirà un tour di ascolto della città, dai consigli di zona agli operatori fino alle associazioni. Seguendo gli indirizzi dell’informativa, si ripasseranno in rassegna le osservazioni, un’operazione che durerà per tutto il 2011. Il nuovo libro mastro dell’urbanistica sbarcherà in aula dal 2012.

Corriere della Sera

Nuovo Pgt: il cemento lascia spazio al verde

di Rossella Verga

Più pubblico e meno privato. Più verde e servizi, meno cemento e «di qualità». Blindatissimo il Parco Sud, da valorizzare prima e dopo Expo. «Potenziato» l'housing sociale. La giunta Pisapia approva oggi il documento di indirizzo per il governo del territorio, ribaltando l'impianto costruito dall'amministrazione di Letizia Moratti e riportando in capo al Comune la regia del Pgt.

L'assessore all'Urbanistica, Lucia De Cesaris, dopo aver illustrato ieri sera il piano ai capigruppo e ai partiti della maggioranza, presenterà la «manovra correttiva» ai colleghi di giunta, illustrando tutti i passaggi per un «rilancio della qualità urbana» che dovrà passare attraverso la «revisione degli indici edificatori connessi al sistema perequativo» del Parco Sud, «con l'eliminazione delle potenzialità edificatorie previste per gli ambiti di trasformazione periurbana», ma anche attraverso la riduzione degli indici per gli ambiti di trasformazione urbana (Ato), dalle caserme agli scali ferroviari.

«Limitazione» è illeit motivdel nuovo Piano di governo del territorio, che segue la stella polare della «città come bene comune» dove si potrà costruire meno. Per l'assessore De Cesaris, per esempio, il piano immaginato dal predecessore Carlo Masseroli avrebbe prodotto «potenzialità edificatorie virtualmente illimitate» nella città «consolidata», ed è anche qui che la giunta Pisapia intende porre rimedio con l'introduzione di un indice massimo compatibile con le singole zone.

Oggi il via libera della giunta. Dalla prossima settimana il documento arriverà nelle commissioni consiliari. Ma saranno necessari ancora un paio di mesi per completare l'esame delle osservazioni che l'amministrazione ha voluto riaprire per dare risposta alle «istanze inascoltate della città». Il piano riveduto e corretto dovrebbe infine approdare all'esame dell'aula di Palazzo Marino nei primi mesi dell'anno prossimo.

Tante le novità nel documento di indirizzo, ma alcuni passaggi per la giunta Pisapia assumono il carattere di pietre miliari. Si parla di «rivisitazione del piano dei servizi» e di «incremento» delle dotazioni pubbliche negli ambiti di trasformazione, dove sarà il pubblico a definire le priorità. Sul tema degli scali ferroviari, si sottolinea nella relazione, occorre separare le esigenze di riqualificazione da quelle d'interesse pubblico, «anche attraverso un nuovo accordo di programma». Va inoltre ripensata la politica della casa, «rilanciando l'affitto». Occorre «rimarginare» alcune ferite, a cominciare dall'intervento di Santa Giulia.

Il documento urbanistico in discussione oggi tratteggia una città dinamica mortificata negli anni. «Da almeno vent'anni — si legge — la dinamicità sociale si accompagna a una scarsa capacità di governo, un vuoto di politiche pubbliche». Si è affermata, rincara De Cesaris, la logica «condominiale» nell'affrontare i problemi della città. Il Pgt per la giunta Pisapia offre anche l'occasione di ribaltare questa concezione. Ma l'assessore non si fa illusioni: il processo verso il ritorno della regia pubblica «non sarà privo di ostacoli e contraccolpi». Ci vuole il «massimo di umiltà» e «chiarezza di obiettivi realistici».

Per ridurre drasticamente il traffico in centro la giunta punta non solo sulla congestion charge, il super pedaggio che da gennaio dovranno pagare tutte le auto che entrano nell’area protetta dalle telecamere, ma anche su un tracciato di nuove isole pedonali sparse per la città. Un progetto ambizioso che mira a rendere più sostenibile la vita, a cui Palazzo Marino sta giù lavorando.

Nel mirino dell’amministrazione c’è sempre il cuore dell’alta moda, via Montenapoleone: 500 metri di strada che la scorsa giunta non riuscì a pedonalizzare per le proteste dei commercianti. Pisapia non solo rispolvera il progetto rimasto in un cassetto per anni, ma si spinge ancora più in là. All’arteria del Quadrilatero si sta pensando di aggiungere via Manzoni (da piazza Scala a piazza Cavour) e via Torino (dal Duomo al Carrobbio) in modo da costruire la più lunga strada commerciale della città, due chilometri di vetrine che vanno dalle firme degli stilisti alle jeanserie che piacciono ai giovani, dove ci si muoverà solamente a piedi. O in tram, visto che il progetto prevede il passaggio dei mezzi pubblici, sul modello di Berlino e Istanbul.

«Ne parleremo con commercianti e residenti - spiega l’assessore alle Attività produttive Franco D’Alfonso -. Ma come è già stato dimostrato dall’esperienza di via Dante, un’arteria commerciale pedonale non fa che favorire le vendite, oltre a rendere il passeggio più piacevole e la città più bella». Ecco allora che nel progetto per la città del futuro c’è un reticolato di piccole zone senz’auto distribuite per la città. «Non solo grandi interventi come quello dei Navigli che faremo insieme alla riqualificazione della Darsena - continua D’Alfonso -, ma anche piccole aree pedonali vicine agli assi di scorrimento che aiutino a alleggerire il traffico in centro. E perché no, anche a ridistribuire in maniera più equilibrata la movida che oggi si concentra in poche zone città».

La giunta guarda avanti, l’obiettivo è il 2021: dieci anni per ridisegnare la mobilità del centro storico e cambiare le abitudini dei cittadini. Gli uffici sono già al lavoro perché l’intenzione del sindaco è quella di realizzare i primi interventi entro un paio d’anni. Il primo potrebbe essere proprio quello di via Torino e via Manzoni, due strade commerciali che diventerebbero zone a traffico limitato dove l’unico mezzo di trasporto che vi avrà accesso sarà il tram. Ma ci sono altre idee.

A partire dalle strade della Milano romana, dalla basilica di Sant’Ambrogio alla Biblioteca Ambrosiana, progetto presentato a Letizia Moratti da Italia Nostra che ora la giunta Pisapia vuole analizzare. «Personalmente vedo bene la pedonalizzazione della parte a Est di piazza Duomo, oggi morta sia dal punto di vista commerciale e della vita notturna: piazza Beccaria, piazza Liberty, piazza Santo Stefano e largo Augusto. Quest’ultima soprattutto. Era il vecchio Verziere, un centro di scambi commerciali importanti, oggi sfruttato poco. Basterebbe riqualificarlo per renderlo un luogo di aggregazione sia diurno che serale». Stessa cosa per piazza Beccaria: la prova generale sarà a dicembre verrà allestito il mercatino di Natale. Ma un domani la chiusura alle auto potrebbe essere permanente.

Silvio Berlusconi non si fida di quello che non può comprare: per questo, quando sente parlare di cultura, mette mano al portafogli, cioè a Mediaset, a Publitalia, o comunque a qualcuno dei suoi stipendiati. Il penultimo ministro della Cultura, Sandro Bondi, era stato il suo segretario particolare; l’attuale – quel Giancarlo Galan il cui avvento aveva suscitato qualche speranza (o piuttosto illusione) – deve la sua carriera politica all’esser stato direttore centrale di Publitalia.

È questa la chiave per capire perché proprio Galan ha nominato Giulio Malgara alla presidenza della Biennale di Venezia. Questa mossa, infatti, non è solo l’ennesima epifania della concezione dinastico-patrimoniale dello Stato in base alla quale Berlusconi nomina deputati o ministri i suoi avvocati, i suoi dipendenti, i suoi testimoni, i suoi lacchè o le sue fornitrici di patonza. No: mettere l’inventore dell’Auditel (vale a dire il marchingegno che ha sradicato dal sistema televisivo italiano financo il concetto di qualità) a dirigere la massima manifestazione culturale del Paese è uno sbrego di immenso valore simbolico. Equivale a neutralizzare la cultura, sancendo una volta per tutte che essa è un prodotto, una merce come un’altra: e che conta solo a quanta gente la vendi e quanti quattrini ci tiri su.

E non è una mossa isolata, bensì lo ‘scacco al re’ di una partita che dura da un pezzo. Chi dirige, per esempio, la Triennale di Milano? L’ex direttore artistico di Canale 5 ed ex responsabile della comunicazione Fininvest, Davide Rampello. Chi è stato nominato da Galan al vertice di Cinecittà-Istituto Luce? Rodrigo Cipriani, direttore di Media digit (la sezione di Mediaset che si occupa dei new media) ed ex Publitalia. E chi dirige la Valorizzazione del patrimonio artistico italiano? Il consigliere di amministrazione della Mondadori Mario Resca.

Quest’ultimo, per esempio, sta cercando (in perfetta buona fede) di mettere in piedi un marketing fatto di eventi spettacolari, mostre a getto continuo, ‘noleggi’ di opere a privati e spedizioni di ‘capolavori’ all’estero. L’idea è quella di trasformare Caravaggio o Raffaello in commessi viaggiatori di un’Italia a sua volta trasformata in Disneyland, a cui dovrebbero portare vantaggi di immagine ed utili economici (secondo una petizione di principio, questa sì, puramente ideologica e non suffragata da un mezzo numero reale). Così la ‘valorizzazione’ diventa un lavoro da pierre o da piazzisti, completamente indifferenti alla funzione e all’identità stessa del prodotto che vendono. Nessuno sembra ricordare che la Costituzione italiana tutela il patrimonio artistico perché esso produca cultura, cittadinanza consapevole, senso critico, educazione e crescita morale: e che, se lo si trasforma in una merce da vendere o in un intrattenimento di tipo televisivo, non solo lo si danneggia materialmente, ma lo si rende completamente inerte, inutile, perfino dannoso.

Ma forse il fine è proprio questo: smantellare, dopo la scuola e l’università, anche il sistema dell’arte e della cultura – pericoloso vivaio di dissenso e pensiero libero –, sottraendolo alle detestate e inaffidabili ‘persone di cultura’ e consegnandolo invece a fidati pubblicitari, dipendenti delle aziende del Presidente del Consiglio. E in tutto questo si riesce ad avvertire – quasi fisicamente – il rancore, la diffidenza, la paura verso la libertà della cultura. Quella cultura, a cui, prima o poi, bisognava pur riuscire a imporre un auditel, un guinzaglio, una museruola.

Tutela e rilancio del parco agricolo sud, dotazione di servizi di qualità che prevedano anche la collaborazione tra pubblico e privato, incentivo al social housing e riqualificazione energetica del patrimonio edilizio esistente, ridimensionamento delle volumetrie edificabili, costruzione di un progetto per il “dopo Expo” , riorganizzazione del sistema dei trasporti milanesi. Sono i sei punti chiave del documento “Un Pgt che si fa progetto, per il rilancio di Milano” redatto da molte delle associazioni e dei gruppi che in questi anni hanno fatto propria la battaglia per un Piano di Governo del Territorio più vicino alle esigenze della città e di chi la vive. Non solo.

Il documento ha visto la collaborazione pressoché inedita di mondi diversi e opposti: ACLI, AGCI, ARCI, ANCE, Associazione delle Imprese Edili e complementari, Federazione Lombardia Confcooperative, Fiab Ciclobby, Genitori Antismog, Legacoop Abitanti Lombardia, Legambiente Lombardia, Libertà e Giustizia. Imprese edili, cooperative edilizie, associazioni cittadine e ambientaliste da quest’estate si sono riunite con l’obiettivo di consegnare all’Amministrazione un ulteriore contributo in fase di revisione del Piano di Governo del Territorio deliberato dalla Giunta precedente, destinato a tornare in Consiglio Comunale dopo la revoca della delibera di approvazione per la discussione integrale delle osservazioni dei cittadini.

Più qualità e meno quantità, ovvero minor sfruttamento del suolo e investimenti sul patrimonio edilizio esistente.

Se per Damiano Di Simine di Legambiente è fondamentale consolidare il patrimonio agricolo del Parco Sud annullando la logica della perequazione introdotta nel Piano dalla Giunta precedente (che prevedrebbe il dirottamento delle volumetrie di proprietà privata all’interno del parco su altre zone della città), per Claudio De Albertis di Assimprendil è necessario recuperare i vecchi edifici, quelli degli anni 60-70, costruiti con materiali di scarsissima qualità e fortemente inquinanti, e che oggi rappresentano il 70% del costruito. Tutti concordi, questa volta anche i costruttori, sul fatto che l’attuale situazione economica impone un ripensamento sul progetto di espansione e cementificazione ipotizzato dal Piano dell’ex Assessore all’urbanistica Carlo Masseroli.

Un Masseroli inedito, quello intervenuto alla presentazione del documento, improvvisamente –azzardiamo “miracolosamente”- favorevole alla revisione del suo Pgt, dopo aver svilito per mesi il diritto al coinvolgimento della città nella sua stesura e aver sostenuto strenuamente la necessità di costruire case per oltre mezzo milione di nuovi abitanti. “Potrei metterci la firma anche io su queste richieste- ha detto l’ex Assessore di fronte ad una platea quasi incredula- In fondo sono solo piccole modifiche al Piano che abbiamo deliberato. L’incremento del social housing, l’impossibilità di costruire all’interno del Parco Sud, gli incentivi sul risparmio energetico: sono tutte cose già stabilite da noi. Per quanto riguarda la riduzione dei volumi, mi sembra un tema di poco interesse: dipende dai gusti. Il centro città ad esempio è sovraedificato ma piace così e ci si vive bene”.

Sono pochi mesi che Masseroli non ha più lo scettro dell’urbanistica di Milano ma sembra aver già dimenticato alcuni passaggi fondamentali del lungo iter che ha portato all’approvazione del Pgt; di come sia stato duro il lavoro in consiglio comunale del centro sinistra per riuscire a salvaguardare il parco agricolo sud dalla cementificazione (su cui per altro vige la legge regionale che vieta l’edificazione al suo interno), per porre vincoli più stretti alla realizzazione di social housing, per garantire un rafforzamento delle politiche di risparmio energetico per le nuove costruzioni.

“La pianificazione territoriale richiede dialogo tra i soggetti coinvolti e questo documento è la strada giusta- ha detto Lucia De Cesaris, assessore all’Urbanistica- ne terremo certamente conto in sede di redazione del documento di indirizzo che porteremo entro ottobre in consiglio comunale”. A gennaio dovrebbe cominciare invece la discussione di quelle 4765 osservazioni che la Giunta precedente ha ritenuto di liquidare nel giro di una manciata di votazioni. Chissà questa volta come voterà l’ex Assessore Masseroli, ora capogruppo dell’opposizione: prevarrà il sentimento di tutela del Pgt di cui si è orgogliosamente fatto padre o il nuovo spirito ambientalista?

Caro Eddyburg, venerdì 7 ottobre, dalle ore 12.00 alle ore 19.00 “Sacile Partecipata e Sostenibile” ha indetto in Via Cartiera Vecchia un presidio composto da esponenti della suddetta lista civica e di associazioni ambientaliste, così come da tutti i cittadini che vorranno passare e partecipare al nostro pacifico appuntamento.

Lo scopo è quello di manifestare la nostra gratitudine al Sovrintendente ai Beni Architettonici e Paesaggistici del Friuli Venezia Giulia, arch. Luca Rinaldi, per la decisione dello stesso di effettuare di persona un sopralluogo nella zona della Mineraria Sacilese SpA al fine di verificare più precisamente nel merito le istanze prodotte dall’attuale Amministrazione di Sacile favorevole all’avvio della prevista lottizzazione successiva al trasferimento della società.

Riteniamo che la presenza del Sovrintendente sia una preziosa dimostrazione di chi compie con convinzione e competenza il suo dovere di vigilare sul territorio inteso come bene pubblico. Con i tagli subiti dal Ministero ai Beni Culturali (un miliardo di euro in tre anni) pare essere più un Ministero agli sgoccioli, o quanto meno allo sbando. Avere nel territorio Uffici che, sebbene sguarniti di tutto, ancora lavorano con tanta accuratezza, merita come minimo una attestazione di stima. Trattandosi poi della previsione di una tale devastante edificazione si trasforma anche in una grande e probabilmente ultima speranza per molti sacilesi.

Una buona notizia, e insieme il segno del disastro nel quale viviamo, e la speranza per un futuro possibile. La buona notizia: che il funzionario pubblico, appartenente a un’amministrazione devastata dal privatismo arrabbiato dei padroni di oggi, voglia comprendere con i suoi occhi le ragioni di una protesta per prendere i provvedimenti necessari. Il segno del disastro: che questo atto assomigli a un gesto eccezionale, anziché il comportamento normale di un pezzo dello stato. La speranza per un futuro possibile: la presenza attiva e combattiva di un gruppo di cittadini come il vostro, che ha “osato” fare politica nel modo giusto. Cioè, darsi da fare per difendere gli interessi e i beni comuni delle donne e degli uomini di oggi e di domani contro i saccheggiatori. Auguri per il vostro presidio. Chi volesse approfondire la questione di merito, può rivolgersi qui: Sacile partecipata e sostenibile, e conoscere e sostenere così anche il vostro lavoro.

Dopo una lunga battaglia in assise civica, il consiglio comunale di Monza ha adottato la variante al Pgt (Piano di governo del territorio) che ridisegna la città brianzola e consente di edificare 580mila metri cubi di case e uffici alla Cascinazza, il celebre terreno che il fratello del presidente del Consiglio acquistò negli anni Ottanta per costruirci Milano4. Il provvedimento è sempre stato molto a cuore al ministro Paolo Romani. Il titolare del Sviluppo economico, del resto, a Monza è assessore con delega all’Expo 2015, ma prima di entrare nel Governo Berlusconi rivestiva la carica di assessore all’Urbanistica. I più maligni, dicono addirittura che il premier l’avesse inviato lì proprio per occuparsi della cambio di destinazione d’uso di quei terreni, che da agricoli rischiano di diventare edificabili.

Una bella rivalutazione dell’area che, calcolando il costo al metro quadro prima e dopo la modifica, la fa valere oggi circa 120 milioni di euro in più rispetto al 2007. Ma la Cascinazza non è l’unico esempio a Monza di terreni agricoli o a verde pubblico che valevano poco o nulla quando sono stati acquistati e che ora, con la variante del centrodestra adottata ieri mattina, sono diventati edificabili per svariati milioni di metri cubi. Chi possiede quei terreni ha potuto beneficiare di una riqualificazione complessiva che si avvicina ai 500 milioni di euro. Di certo una bella fortuna, in tutti i sensi.

Ma la vera sorpresa arriva quando, per soddisfare una semplice curiosità, si va a vedere chi sono i proprietari di alcune delle aree in questione. Un lungo lavoro di controllo che è emerso anche in consiglio comunale e che sta interessando adesso la Procura, alla quale spetterà capire se si tratta solo di coincidenze. Perché laLenta Ginestra, la società che ha incorporato nel 2008 la Istedin diPaolo Berlusconicon un finanziamento soci infruttifero di scopo per corrispettivi 40 milioni di euro, non possiede a Monza solo il terreno della Cascinazza. Ne ha almeno due direttamente controllati che si stima valgano 49 milioni di euro in più grazie all’intercessione dell’assessorePaolo Romani, tra cui un’area, all’interno del Parco della Boscherona, dove si potranno costruire 375mila metri cubi di cemento. La Lenta Ginestra è controllata al 70% dal Gruppo Brioschi Sviluppo Immobiliare della nota famigliaCabassi. L’altro 30%, invece, è in mano alla Axioma Real Estate srl diAngelo Bassaniche a sua volta è controllata per il 75% dalla Marconi 2000 Spa diGabriele Sabatinie di Bassani stesso.

E proprio quest’ultima società possiede altri tre terreni che si stima siano stati rivalutati per circa 11 milioni di euro nel documento urbanistico promosso dall’allora assessore all’Urbanistica Romani e poi concluso da altri. Risultato: rivalutazione complessiva dei sei terreni della società per un totale di circa 180 milioni di euro. MaPaolo Berlusconinon aveva venduto tutto? Non proprio. Gli addetti ai lavori ravvisano nella struttura statutaria la caratteristica per la quale gli introiti delle operazioni vengono divisi tra i soci, tra cui anche la Istedin stessa, acquisita per incorporazione. Il che significa solo una cosa: in un modo o nell’altro, anche il fratello del premier in questo momento sta sorridendo. Anche perché la Cascinazza era sempre stata la spina nel fianco delle sue operazioni immobiliari.

Acquistato nel 1980 daiRamazzotti(quelli dell’Amaro), il terreno era costato 11mila lire al metro quadro perché era considerato agricolo (vi sorgeva solo l’antica Cascina, da cui la zona prende il nome). I nuovi proprietari però avevano chiesto subito l’edificabilità appellandosi a un vecchio piano di lottizzazione del 1962 già decaduto. Tentativi di edificare tutti falliti, fino a quando la Cassazione nel dicembre 2006 aveva espresso l’ultima parola, condannando laIstedina pagare le spese legali per aver fatto causa al Comune di Monza che non gli permetteva di edificare. “Deve essere rigettato il ricorso che chiedeva diritto ad edificare e nessun indennizzo è dovuto alla proprietà”, stabilì la Cassazione, chiudendo così la questione. Già il ‘Piano Benevolo’, voluto qualche anno fa dalla Lega, rendeva inedificabile l’area. Questo prima che arrivasse Romani e facesse ben altre scelte. Ma adesso quel “terreno maledetto” rischia di tornare ad essere una bella spina nel fianco.

Nota: sul caso della Cascinazza questo sito ha seguito la vicenda sin dall’inizio e in alcuni sviluppi chiave; come sempre per trovare gli articoli basta digitare la parola chiave nel motore di ricerca interno (f.b.

La prima azione antismog della giunta Pisapia è dettata dalle regole scritte dall'ex sindaco Moratti. È in base a quella vecchia ordinanza, che risale al 24 gennaio ed è ancora in vigore, che da oggi vengono bloccate circa 120 mila auto. E domenica nessuno potrà circolare tra le 8 e le 18. Domenica a piedi, dopo la serie di 12 giorni con lo smog sopra le soglie.

Fermi da oggi i veicoli a benzina Euro 0, i diesel Euro 0, 1 e 2 senza filtro antipolveri e le moto e i motorini a due tempi Euro 1 e, se a gasolio, Euro 0 e 1. Il divieto è in vigore a Milano, ma se si considerano tutte le auto immatricolate in Provincia e che spesso entrano in città, i mezzi coinvolti dal blocco potrebbero essere quasi 300 mila. Lo stop al traffico di domenica, invece, riguarderà tutti i mezzi. Queste sono le misure della «Fase 1» della vecchia delibera. Non si dovrebbe arrivare alla «Fase 2» (dopo il 18esimo giorno «rosso») perché, secondo le previsioni meteo, nel fine settimana vento e pioggia dovrebbero disperdere l'inquinamento. La domenica a piedi arriverà probabilmente con lo smog già rientrato nei limiti (per informazioni sui divieti e i blocchi, oltre a visitare il sito del Comune, si possono contattate i seguenti numeri: 020202; 800368636; sabato e domenica, dalle 7 alle 19, 02-77270398).

Potrebbe comunque essere l'ultimo blocco domenicale stabilito all'ultimo momento: insieme alla bozza di modifica per inasprire le misure antismog (fino alla quasi totale chiusura al traffico della cerchia dei Bastioni), l'assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran, sta valutando l'ipotesi di una serie di domeniche «ecologiche» decise a tavolino, probabilmente una al mese.

Un progetto sul quale è molto critico il Verde Enrico Fedrighini: «Una o anche due domeniche a piedi al mese non servono a nulla per combattere l'emergenza smog». L'ambientalista suggerisce altre misure: «Accesso gratuito in tutti i parcheggi di corrispondenza Atm, tra le 7 e le 9 del mattino, alle auto con 3/4 persone a bordo; tariffa agevolata del biglietto Atm a 2 euro per l'intera giornata; accesso e sosta libera delle biciclette all'interno dei parcheggi di interscambio lungo tutte le linee del metrò; corsie preferenziali riservate al trasporto pubblico che proviene dall'hinterland e alle auto con almeno 3 persone a bordo». Diversa la posizione del capogruppo del Pdl, Carlo Masseroli: «Programmare le domeniche a piedi per favorire altre forme di mobilità può avere senso, ma se può anche essere un'occasione per le grandi arterie commerciali, non si può assolutamente pensare di bloccare tutta la città. Ad esempio, nel periodo natalizio, bisogna lasciare aperto il traffico in periferia e far vivere quei quartieri con eventi e manifestazioni».

Su un altro tavolo di lavoro aperto a Palazzo Marino, ieri sono andati avanti gli incontri con le categorie produttive sulla trasformazione dell'Ecopass incongestion charge, il ticket da 5 euro per tutti. Il Comune sta cercando di capire che tipo di deroghe e agevolazioni potrebbero eventualmente essere concesse al trasporto merci. In piazza San Babila, oggi, partirà invece una raccolta firme per l'abolizione dell'Ecopass. A guidarla, l'assessore regionale del Pdl Stefano Maullu, che spiega: «Occorre creare una cabina di regia che ponga in essere delle linee guida uguali per tutti. Non bastano soluzioni tampone come i blocchi palliativi, le targhe alterne e quant'altro. Adesso si rischia che per entrare a Milano pagheranno tutti. Ecopass è una tassa e basta».

postilla

Sono lustri che la stagione invernale (adesso anche il fine estate virtuale) ci riserba sforamenti clamorosi di tutte le soglie di attenzione e rischio possibili, e che i cosiddetti interventi si limitano in pratica all’emergenza, alla speranza in Giove Pluvio, mentre in parallelo la gestione business as usual evita scrupolosamente qualunque passo per favorire un tipo di mobilità (magari personale, magari volontario, magari chissà) diverso da quello automobilistico privato di massa, unica “soluzione per la vita moderna” in una logica che sarebbe comica, da film di Totò e Peppino, se non ci fosse di mezzo la salute, l’efficienza economica vera, la qualità della vita metropolitana. Le cose proposte in questo articolo sono le stesse di cui si parla da vent’anni, cioè da quando i primi virtuosi e lungimiranti passi (la chiusura totale del centro alle auto, che doveva aprire politiche generali più organiche e meno repressive per un’area vasta) sono stati buttati alle ortiche da particolarismi così meschini da apparire quasi inimmaginabili se non si è dei complottasti. La differenza è che forse, finalmente, come si dovrebbe capire dal piccolo elenco di cose fattibili subito, forse sono davvero cose che si possono fare subito: aprire i parcheggi (realizzati da lustri coi soldi dei contribuenti e lasciati a marcire vuoti), sostituire alla logica dell’azione simbolica ed emergenziale cose prevedibili e a cui ci si può abituare e adeguare, evitare la frammentazione. Tanto per fare qualche esempio. E invece? No: ci vuole una grande Commissione per valutare … e tirare tardi finché passa la nottata, ci si dimentica del passato e si risale in macchina sgommando verso il futuro. Magari un futuro come quello emerso dalle dichiarazioni del “caso Penati”, quando l’imprenditore spiegava che i suoi finanziamenti al partito servivano naturalmente a evitare che si inserisse la linea tranviaria nel piano regolatore, per favorire i suoi torpedoni neorealisti ingolfati nel traffico, no? Oppure per lasciare che le piastrelle di un parcheggio da centro commerciale, di fronte a una stazione delle linee Nord Milano, fossero quasi totalmente scalzate da ALBERI cresciuti mentre quel parcheggio realizzato, recintato, con tanto di casetta del custode, se ne stesse perfettamente VUOTO dieci anni. Ma si sa, il problema è un altro … (f.b.)

Prima ancora di apparire in Italia (dove uscirà l’8 ottobre per le Edizioni Skira), L’inverno della cultura di Jean Clair si è imposto all’attenzione pubblica, chiamando in causa il mondo della critica. La sua denunzia della deriva dell’arte contemporanea, ridotta a mero oggetto di speculazione nelle mani di pochi mercanti, non può, in effetti, lasciare indifferenti. Non solo perché viene da un critico insigne, membro dell’Académie française ma anche da uomo del mestiere, già direttore del Museo Picasso e commissario di mostre celebri come quelle monografiche consacrate a Duchamp o a Balthus, o quelle tematiche sulla "Malinconia" o su "Delitto e castigo". La riflessione di Jean Clair non si limita d’altronde ai mali che affliggono il mondo dell’arte.

È, più in generale, la perdita di memoria storica di cui soffre l’Europa, e la crisi di identità che ne consegue, che è al centro delle sue preoccupazioni.

Signor Jean Clair, lei si definisce un reazionario; cosa intende dire con questo?

«Il reazionario è colui che reagisce, obbedendo in questo a una legge quasi generale. In fisica, il mondo è regolato dalla coppia azione/reazione. Nel mondo dell’arte, la vita delle forme è un susseguirsi di azioni e reazioni, il Rinascimento reagisce al gotico, il neo-classicismo al Romanticismo, ecc. Nell’antropologia freudiana, la reazione, l’anamnesi, "il ritorno indietro", è un fenomeno di difesa e di salvezza. Ma senza dubbio mai come ora si è sentita l’urgenza di questa "reazione", di questo ritorno, di questa anamnesi. La celebre formula di Marx: "i filosofi si sono limitati a interpretare in modi diversi il mondo; quel che importa è trasformarlo" è ormai superata. Ciò che oggi importa non è più cambiare il mondo ma conservarlo. Ma un simile sforzo suppone una reazione proporzionale a questo sforzo, senza dubbio smisurato, di salvaguardia. Non sono sicuro che il mondo, almeno quello occidentale moderno, sia ancora capace di provocarla, vista la nostra convinzione della ineluttabilità del progresso, della crescita indefinita, del senso della Storia e via dicendo».

Qual è il posto dell’arte in questa diagnosi?

«L’arte funge da sismografo, da rivelatore estremamente sensibile, soprattutto in quegli empori-depositi che sono i musei. Che senso ha questo accumulo prodigioso di ricchezze? A chi sono destinate e a qual fine? L’arte è sempre stata al servizio di una comunità o di una causa: favorire la caccia presso gli uomini preistorici, conciliarsi la benevolenza delle potenze infere, rappresentare la bontà di un dio, incarnare il progresso dei Lumi, annunciare, accompagnare, illustrare le utopie politiche degli anni ‘30 o, infine, esaltare, come avviene oggi, l’onnipotenza dell’artista: un artista rimasto solo, senza nessuno a cui dovere rendere conto, e che gode del singolare privilegio dell’impunità quali che siano le stupidaggini o le provocazioni senza precedenti delle sue "opere". L’arte per l’arte è al servizio di chi e di che cosa? Quali Lumi e quale Universale possiamo portare noi francesi con la creazione, sotto il patronato del Louvre, di un Museo a Abou Dhabi, nelle sabbie degli Emirati? L’arte ha un senso, una funzione, una destinazione, un pubblico. Un’arte che abbia in se stessa la propria finalità è una buffonata. O, peggio ancora, l’obbiettivo cinico di un mercato di traders».

Qual è stata, a suo giudizio, la frattura irrimediabile, il punto di non ritorno da cui ha preso l’avvio la deriva dell’arte contemporanea?

«Il 1968, l’avvento di una società caratterizzata dall’efebismo e l’edonismo e in cui – a suo dire – non esiste più il male. È anche l’epoca del Women’s Lib, delle manifestazioni contro la guerra del Viet Nam. L’arte non ha più finalità, diventa, con gli happening, le azioni, le installazioni, effimera, transitoria, autodistruttiva. È il momento che Robert Klein chiamerà "L’eclissi dell’opera d’arte"».

Lei dedica pagine di grande interesse alla riproduzione perfetta delle opere d’arte raggiunta dalla tecnologia moderna, in contrasto con la celebre tesi di Walter Benjamin sulla perdita dell’"aura" in un’epoca di riproducibilità delle immagini.

Preferisco un’opera che ritrova la sua destinazione e il suo senso, fosse anche una copia, a un’opera originale dislocata nel vacuum semantico e spirituale di un museo. Benjamin dimenticava che, assieme a quelle popolari, tutte le incisioni da Dürer a Goya, hanno permesso di inondare l’Europa di "repliche" magnifiche. Nel Settecento molte opere d’arte religiosa erano copie originali celebri, magari fatte semplicemente di cartapesta. Solo il culto della firma inimitabile, della mano impareggiabile, del genio unico - tutti fantasmi generati dal culto sfrenato dell’ego romantico - hanno potuto far credere che un’opera non poteva essere riprodotta. In compenso, la delocalizzazione delle opere senza tener conto della loro funzione, com’è avvenuto per la Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi, staccata dalla cappella d’origine per essere esposta nella scuola vicina, più adatta ad accogliere folle di visitatori, mi pare uno snaturamento. È quanto avviene oggi con le opere nei musei: il loro accatastamento mi ricorda i cabinets de curiosités, i bric à brac surrealisti, quali che siano i criteri – cronologici, tematici, di paese, di tecniche, di materiali, ecc. – in base ai quali si pretende di ordinarli».

Ne L’inverno della cultura, così come nel precedente Dialogues des morts, lei ribadisce l’esistenza di un legame imprescindibile tra l’arte e il sacro e insiste sulla necessità dell’artista di continuare ad intessere "il filo di un dialogo continuo con il trascendente", sul fatto che l’arte è "un capitale spirituale". Che significato dare oggi a queste parole?

«Tento di descrivere il passaggio dalla "cultura del culto" – quando l’arte, con la musica, la pittura, l’architettura serviva a celebrare Dio nelle cerimonie religiose – al "culto della cultura", una sorta di religione laica e repubblicana che pretende di farci vedere nell’arte la più alta realizzazione del genio umano messo al suo proprio servizio, quello che Nietzsche e i tedeschi hanno chiamato lo Selbstvergötterung, una sorta di auto-deificazione dell’uomo. Tre tappe e, a mio giudizio, tre gradini discendenti: il culto, ossia l’arte e la fede, la cultura, ossia l’arte e l’umanesimo, il culturale, ossia l’arte e il suo mercato».

Lei afferma che "non c’è mai stata cultura senza religione e che quella laica viaggia nel deserto", eppure sembra fare sua la concezione moderna del museo, nato con la Rivoluzione, dove le opere sono esposte secondo una gerarchia dettata dal divenire storico. Non era questa una espressione del tutto laica della cultura?

«Confesso il mio imbarazzo. Il museo come collezione pubblica aperta a tutti è stato creato nel 1793 nel solco della Rivoluzione. Era inizialmente un modo di salvaguardare il patrimonio della Nazione dalle degradazioni, i saccheggi, i vandalismi che accompagnano tutte le rivoluzioni. Era anche il mezzo, per il popolo vincitore, di appropriarsi del passato, della storia, dei suoi testimoni e, grazie al museo e ai suoi tesori, di diventarne in qualche modo il legittimo depositario. Il museo custodiva il patrimonio della Nazione e al tempo stesso serviva da strumento per trasmetterne a tutti la memoria, vale a dire la storia su cui fondare l’identità collettiva. Bisogna però riconoscere che, tre secoli dopo, questo ideale non è stato realizzato. Dei milioni di curiosi rumorosi e indifferenti circolano nelle sale, senza riguardo, senza rispetto per la sicurezza delle opere, ma ugualmente senza più essere in grado di capire, di leggere ciò che hanno sotto gli occhi, che è la loro storia, il loro passato, la loro fede, le loro lotte. Il museo assomiglia ormai a un parco giochi, stile Disneyland. È una cosa derisoria».

Nonostante tutto questo, lei ha espresso più volte il desiderio di potere creare un museo dell’arte europea, stigmatizzando il fallimento di quello di Bruxelles che porta questo nome.

«Sarebbe, in effetti, una grande occasione per restituire al museo, e all’arte che esso racchiude, il suo ideale e il suo significato. Penso a un museo della storia d’Europa, che non solo riunisca una serie di capolavori provenienti da tutti i musei d’Europa a testimoniare l’unicità del suo genio, ma che si sforzi soprattutto di rintracciare la storia del nostro continente, le sue origini, la cristianizzazione, le guerre di religione e quelle di conquista, le imprese coloniali, la nascita dei totalitarismi, l’antisemitismo, i campi di sterminio… Il Deutsches Museum a Berlino ha già tentato di mettere in scena museograficamente una storia della Germania vista attraverso la storia dei suoi vicini europei. È un’iniziativa coraggiosa e spesso sconvolgente. Ma bisognerebbe fare lo stesso su scala europea, perché l’Europa del passato aveva una unità intellettuale e spirituale fatta di circolazione di idee, dove gli scambi letterari, filosofici, artistici erano costanti, immediati, intensi. Ma l’Europa di Bruxelles è un mostro acefalo, un animale senza cervello. Il museo, in quanto entità materiale che espone delle opere aventi l’autorità di capolavori, una autorità che non consenta replica, potrebbe essere quella testa, quel capo superbo e generoso che ci restituirebbe il piacere di guardare, di sentire, di capire e di amare la nostra eredità».

«La crisi, paradossalmente, può rappresentare un'occasione».

Non scherziamo.

«Tagliare le spese non deve coincidere con la riduzione dei servizi di trasporto. Ci sono attività che fatte dal Comune determinano costi pesanti e sono poco sfruttate dalla collettività». La crisi, insiste il capogruppo pdl Carlo Masseroli, «può accelerare una riforma quanto mai urgente dell'ente locale. Dobbiamo alleggerire la "macchina" e aumentare l'efficienza dei servizi grazie a un approccio liberale di coinvolgimento dei privati».

La giunta ha investito sulla spending review. Non basta?

«Non è chiaro cosa vuole sacrificare e con quali obiettivi».

Il suo modello, Masseroli?

«L'Inghilterra di Cameron. Il controllo rigido e totale indebolisce la responsabilità, deprime l'iniziativa e l'azione civica. Favoriamo la crescita dal basso, non soffochiamola».

Proposte concrete?

«Partiamo dai 2 milioni di tagli tra progetti di infomobilità e interventi di mobility management. Cos'è stato azzerato? Un uso intelligente dei dati comunali per orientare i flussi di traffico. Ecco l'idea, che presenterò in un emendamento al bilancio: "Pubblicazione e libero utilizzo di tutte le informazioni sulla mobilità". A Londra si chiama "London data store", a Parigi è il "Paris open data". Non è solo questione di trasparenza, ma è soprattutto un'opportunità di business per giovani e innovatori che possano generare applicativi per i parcheggi, gli ingorghi, gli orari di aerei e treni...».

La manovra colpisce anche car pooling e radiobus Atm. Controproposte, consigliere Masseroli?

«Novità. I mezzi serali, per dire, girano semivuoti. Ogni passeggero costa all'Atm circa 5 mila euro l'anno. Troppo. Puntiamo sui taxi collettivi».

postilla

La politica come dicono certi poeti a gettone è l’arte del possibile, ma a volte può anche rivelarsi solo artigianato delle balle un po’ più ben confezionate della media. Non ci vuole una gran memoria per ricordarsi, solo la primavera scorsa (quando avevamo ancora addosso le stesse magliette leggere di oggi) l’adesso serioso e british Masseroli lanciarsi con la sindaca Moratti in sbracate imbrattature del marciapiede, dove verniciava sinistre sagome di biciclette assassinate, e spiegava garrulo as usual ai passanti che toccava stringersi un po’, per far passare le macchine, senza le quali non c’è sviluppo. Passano un po’ di settimane, il voto dei cittadini lo toglie dall’inopinato seggiolino di governo, ed ecco la miracolosa transustanziazione ecologista e tecno-progressista, nel segno dell’altro paravento di oltre Manica, David Cameron. Il quale col tono pensoso e appunto molto british che ha imparato a tenere come cifra personale, copre tutte le miserabili magagne di una classe dirigente tory fatta di servi degli interessi particolari, che se ne fregano di cittadini ed elettori, quando non sono rigorosamente ricchi e finanziatori di campagne elettorali.

Queste brevi note si rivolgono in particolare a chi (beata gioventù) trovasse magari condivisibili tutti quei giri di parole, pieni di termini simil-specialistico-internescional. Che però non ricordano mai la montagna di sciocchezze disservizi e altro combinate dalla maggioranza di chi ora parla con tono tanto saggio, in lustri di governo della città. Studi pure da leader dell’opposizione, questa reincarnazione di Tory allo zafferano: magari in convento di clausura, come si addice a un dichiarato credente (f.b.)

Se l’Italia somigliasse al condominio in via Caduti nelle missioni di Pace 3, vivremmo nel Paese più giovane d’Europa. Se in città valesse la proporzione fra bimbi e adulti che fa risuonare di gridolini e pianti notturni il palazzo, il Comune dovrebbe convertire in asili tutti i centri anziani, i musei, i consigli di Zona. «Cento dei 300 abitanti non raggiungono i 10 anni», dice Bianca Giorgi, portavoce del comitato del quartiere Rubattino.

Una situazione simile riguarda tutti gli undici palazzi di nove piani costruiti dal 2003 a oggi nel quartiere alla periferia Est di Milano: 4mila abitanti, destinati ad aumentare con l’innalzamento, già previsto, di altri tre blocchi di edifici.

L’anomalia di Rubattino è il risultato del piano di edilizia voluto dall’assessore all’Urbanistica della prima giunta Albertini, il ciellino Maurizio Lupi. Una convenzione con i costruttori prevedeva per le giovani coppie vantaggi sull’acquisto di case costruite da zero nell’ex area Innocenti. Ha funzionato: hanno comprato, hanno avuto figli e si è creata la piccola città dei bambini. A Milano gli under 10 sono 127.968, il 9,6 per cento della popolazione. Al Rubattino gli abitanti che non hanno finito le elementari sono quasi uno su tre. E qui viene il problema. «Quando il Comune presentò il progetto - racconta Giovanni Berta Mauri, presidente del comitato - ci furono mostrati rendering del quartiere dove avremmo vissuto. Abbiamo comprato casa proprio perché erano previsti parchi gioco, scuole, campi da calcio». E invece niente.

Il sogno del quartiere dei bimbi si è arenato in una giungla di convenzioni non rispettate, lungaggini burocratiche, fondi mai spesi. La scuola (nido, materna ed elementare), per cui il Comune ha stanziato 3,1 milioni nel 2006, non esiste. I bambini che vivono in via Caduti in missione di pace e in via Caduti di Marcinelle ogni mattina devono percorrere oltre un chilometro per raggiungere via Cima o via Pini. «Un gruppo di nonni e genitori li accompagna a piedi in comitiva - racconta Carla, due figli in età da asilo - ma la buona volontà non basta, ci vuole la scuola». Il campo da calcio, promesso dal Comune nel 1998, non ha porte, il terreno è dissestato e l’erba non viene tagliata. In pratica, non c’è. Come non c’è il campo giochi attrezzato. «È una fregatura», taglia corto Berta Mauri. Eppure, senza dovere spendere un euro, il Comune avrebbe gli strumenti per completare il sogno. Ed è quello che i residenti chiedono a Palazzo Marino e al Consiglio di zona.

«Parte dei servizi previsti dal Piano di riqualificazione del 1998 sarebbe a carico di Aedes, l’azienda che ha costruito le case - dice Bianca Giorgi - ora il Comune pretenda quanto dovuto». Oltre alle strutture per i bambini, sono molti gli interventi previsti e mai realizzati. La Casa di cristallo, immersa nel parco, doveva diventare «centro per sport, spettacoli e aggregazione», invece è una struttura abbandonata. Il piano parcheggi, che prometteva «un posto d’auto per ogni famiglia», si riduce a un silos da 800 posti, chiuso dalle 21 alle 8 e la domenica. Al posto della farmacia, in piazza Vigili del fuoco è arrivata una parafarmacia e si aspettano barriere anti-rumore che isolino le case dalla Tangenziale est. L’ultima richiesta all’assessorato provinciale ai Trasporti è del 2 maggio scorso. «Potrebbe essere il quartiere più felice di Milano - dice Rocco, 36 anni, padre di due bimbe bionde - basterebbe che chi amministra tenesse presente che esistiamo».

Comune e Regione obbligati ad andare d'accordo, con Palazzo Marino che entra con il 34,6 per cento (quindi la medesima quota del Pirellone) nella società Arexpo creata per l'acquisizione delle aree dell'Esposizione universale. E con il consiglio comunale che potrà dire l'ultima parola sui piani di sviluppo per il dopo Expo 2015: avrà poteri decisionali di indirizzo e anche di veto. Mettendo sul piatto 32 milioni di euro la giunta Pisapia ha deliberato ieri il passaggio molto atteso.

Mettendo sul piatto 32 milioni di euro la giunta Pisapia ha deliberato ieri il passaggio molto atteso dell'ingresso in Arexpo, con coordinate che danno forma, secondo l'assessore a Expo Stefano Boeri, a «una società di scopo e non immobiliare».

Il provvedimento ora dovrà passare al vaglio del consiglio comunale, presumibilmente entro la metà di ottobre, e prevede un esborso per il bilancio di Palazzo Marino di 28 milioni di euro, perché quattro saranno scontati per il conferimento di terreni di proprietà comunale. Sette milioni saranno versati subito, mentre la restante parte arriverà in quattro rate annuali.

L'assetto societario di Arexpo vede accanto al Comune e alla Regione la Fondazione Fiera con il 27,7 per cento (ieri anche il consiglio generale di Fondazione Fiera ha approvato all'unanimità la partecipazione nella società), la Provincia con il 2 e il comune di Rho con l'1 per cento e stabilisce che per ogni decisione ci sia l'accordo, appunto, del Pirellone e di Palazzo Marino.

Soddisfatto l'assessore. «Le indicazioni del consiglio comunale — spiega — ci hanno dato una grande forza nella trattativa. È stato sancito il carattere pubblico della società, che sarà una società di scopo e non immobiliare. E stata inoltre definita la possibilità del Comune di avere un ruolo effettivo sull'iter di approvazione delle scelte e degli indirizzi per le fasi successive». L'impostazione di Boeri, però, non piace alla Regione: «Sbaglia il Comune a metterla sul piano dei diritti di veto — fa sapere il Pirellone — La nostra è un'ottica puramente costruttiva».

La delibera di ieri fissa dunque alcuni passaggi importanti, tra cui il costo «congruo» delle aree. «I prezzi restano indicati alla forbice più bassa, 164 euro al metro quadrato», segnala ancora Boeri.

Nel Cda di Arexpo siederanno 5 membri, 3 con diritto di voto (Comune, Regione e Fondazione Fiera, e due osservatori, la Provincia e il comune di Rho. Ma l'assessore assicura che i costi «saranno bassissimi»: «Il presidente sarà a costo zero e ai consiglieri verranno rimborsate solo le spese».

Sugli scenari successivi all'Esposizione universale l'assessore ricorda che il Comune ha di fronte «la stella polari del referendum». «Sono in campo varie ipotesi — sottolinea — ma il futuro dell'area è legato a un interesse collettivo pubblico».

Ma l'aspetto su cui l'assessore delegato a Expo insiste è «l'ampissima garanzia di governo e controllo sulla trasformazione dell'area». «È un risultato politico di grande valore», commenta. Boeri infine ringrazia gli interlocutori «che sono stati disponibili a rivedere posizioni inizialmente rigide».

Il 25,26 e 27 ottobre il Bie sarà a Milano. Il giorno prima il sindaco e l'assessore inviteranno tutte le comunità straniere presenti in città a una grande convention su «come lanciare Expo».

Intanto si lavora anche sul fronte della deroga al Patto di stabilità. Giuliano Pisapia ieri ha annunciato di essere stato convocato per il 5 ottobre in audizione davanti alla commissione Lavori pubblici del Senato.

«È un segnale che il Parlamento si sta occupando del problema — afferma il sindaco — in quella sede si discuterà anche la deroga al Patto per Milano, e spero anche per la Provincia e per la Regione, per tutte le spese di investimento per Expo 2015. È un passaggio fondamentale per le istituzioni, anche perché vogliamo ricordare ancora una volta che l'evento riguarda tutto il Paese e non solo Milano».

Salvate il Parco Agricolo Sud. Dalle ruspe, dalla cementificazione, da strade e autostrade «che rischiano di frantumare i poderi dei contadini», dalla destrutturazione di un patrimonio «fondamentale per Milano». Il presidente onorario del Fai, Giulia Maria Mozzoni Crespi, rinnova il suo appello a difesa della cintura verde cittadina, 47 mila ettari di coltivazioni, cascine, abbazie. E con lei scendono in campo gli agricoltori e il Comitato Expo, sostenuti da Intesa Sanpaolo. Con una priorità: far conoscere ai milanesi le ricchezze del Parco Agricolo Sud. Il primo appuntamento: domani in piazza dei Mercanti e domenica nelle campagne. All'aria aperta.

Un weekend di itinerari storici, naturalistici, di laboratori, assaggi, visite guidate, gite in bicicletta. Si chiama «Via Lattea» l'iniziativa promossa dal Fai, dalla Confederazione italiana agricoltori, da Expo. Il progetto è quinquennale, da qui al 2015 i milanesi saranno accompagnati alla (ri)scoperta del Parco Sud, «polmone» agricolo della città (ma non sufficiente a nutrirla: l'autonomia alimentare della Provincia è di circa 35 giorni) e culla identitaria della millenaria cultura lombarda.

Ecco quindi il programma. Domani, dalle 10 alle 18, tra piazza e via Mercanti saranno allestiti stand con degustazioni di prodotti lattiero caseari. Si possono portare anche i bambini: per loro ci saranno laboratori, pannelli illustrativi e una piccola fattoria con gli animali. E il giorno dopo si parte: domenica i volontari del Fai Lombardia accompagneranno i milanesi lungo quattro percorsi (pedonali e ciclabili) nei luoghi della produzione del latte (per informazioni, www.fondoambiente.it). C'è il circuito Albairate-Cascina Forestina, quello di Gaggiano, di Zibido San Giacomo, del Parco delle Risaie. Natura e cultura. In mezzo, chiese, cascine, musei, borghi, marcite.

La filosofia, tanto semplice quanto efficace, è quella che accompagna il Fai dal 1975: «Si difende ciò che si ama e si ama ciò che si conosce». Obiettivo non facile. «Ma siamo una squadra unita», dice il vicepresidente esecutivo del Fai, Marco Magnifico. E combattiva: «È necessario conservare questo patrimonio che non è riproducibile — è il messaggio di Giulia Maria Mozzoni Crespi al presidente della Provincia, Guido Podestà —: non servono nuove autostrade (dalla Brebemi alla Tem) che frammentino il territorio». La risposta di Podestà: «Condivido, ma non posso dire che tutto è semplice». Sarà una lunga battaglia. Ma al Fai ci sono abituati: «Certe tendenze vanno invertite. Dobbiamo pensare al domani, non all'oggi».

L’impianto del Salaria Sport Village ha ottenuto il nulla osta idraulico, e dunque il parere favorevole, il 31 marzo 2008, da parte di Roberto Grappelli, segretario generale dell’ Autorità di Bacino del Fiume Tevere (ABT), dopo che il Commissario delegato ai Mondiali di Nuoto Roma ’09, Angelo Balducci prima e Claudio Rinaldi poi, presentarono il progetto come “opera di interesse pubblico non residenziale, non delocalizzabile e come tale trattata ai sensi degli articoli n.46 delle Norme Tecniche di Attuazione (NTA) del Piano di Assetto Idrogeologico (PAI)”. Il Salaria Sport Village situato tra le aree esondabili del Piano di Stralcio – PS1 dell’ABT, classificate come ‘Zona A’, si trova in un’area dove è vietata qualunque attività di trasformazione dello stato dei luoghi (morfologica, infrastrutturale, edilizia), ma dove possono essere realizzati impianti destinati ad attività sportive compatibili con l’ambiente senza creazione di volumetrie (p.es., un campo di calcio senza spogliatoi attigui), purché venga consentita la libera attività espansiva delle acque per la sicurezza di tutti gli abitanti di Roma e dove l’attività edificatoria è fortemente limitata, salvo che per le opere pubbliche o di pubblico interesse. L’art.46 recita infatti: “all’interno delle fasce fluviali e delle aree a rischio idraulico ed idrogeologico è consentita la realizzazione di opere pubbliche e di interesse pubblico purché compatibili con le condizioni di assetto idraulico e/o geomorfologico definite dal PAI e non altrimenti localizzabili”.Quali sono dunque le motivazioni che hanno portato l’ABT a rilasciare il nulla osta idraulico per la realizzazione dl Salaria Sport Village ? Sostanzialmente tre: 1) opera di interesse pubblico 2) opera non delocalizzabile, 3) opera compatibile con le condizioni di assetto idraulico e/o geomorfologico. In dettaglio:

1. OPERA DI INTERESSE PUBBLICO.


Secondo la sentenza del TAR del Lazio nr.00906/2011, a seguito del ricorso nr.2834/2010 presentato dallo stesso Salaria Sport Village, l’impianto non può considerarsi di ‘interesse pubblico’. Ricordiamo che si definisce ‘opera pubblica’ un’opera che prevede la materiale modificazione e trasformazione di un bene immobile, che è destinata all’interesse pubblico e che è realizzata da un ente pubblico. Un’opera di interesse pubblico (poiché i termini “pubblica utilità”, “pubblico interesse”, “interesse generale” sono sostanzialmente equivalenti) deve avere gli stessi requisiti, ma è realizzata da parte di un soggetto privato – anche per perseguire utilità di natura privata – ferma restando la soddisfazione di un concreto interesse pubblico (per esempio un privato può costruire un parcheggio tramite project financing e ricavarne utili per soddisfare l’interesse pubblico, quello di dotare l’area di un parcheggio necessario ai cittadini). Ne segue che ogni opera pubblica è di pubblica utilità (ma non sempre è vero il contrario) e che un’opera di pubblica utilità deve comunque avere un interesse pubblico. Inoltre, la definizione di ‘interesse pubblico’ di un’opera deve essere dichiarata esplicitamente dalla pubblica amministrazione. Il Salaria Sport Village è stato dichiarato opera di interesse pubblico dal Commissario delegato ai Mondiali di Nuoto Roma ’09, pertanto doveva assolvere finalità di carattere generale legate alla sua funzione nel contesto della città di Roma. Non era allora, e non lo è nemmeno ora, possibile assumere ogni generico interesse pubblico (nel caso specifico, mancanza di piscine) per disattendere i limiti imposti dall’ordinamento urbanistico.

Su questo tema si è inserito il Comune di Roma che nella deliberazione di Giunta Comunale n.196 del 30 giugno 2010 ha ribadito l’interesse pubblico e fatto propri i relativi progetti di soli 5 impianti sportivi realizzati su aree di proprietà comunale in occasione dei Mondiali di Nuoto Roma ’09, escludendo da tale determinazione gli impianti di proprietà privata come il Salaria Sport Village. In base a ciò il TAR ha sentenziato quanto segue: “Si rivela un assunto indimostrato che, ai fini in discorso, ogni intervento compreso nel piano delle opere per i Mondiali di Nuoto 2009 sarebbe dovuto essere considerato d’interesse pubblico in quanto realizzato per un’iniziativa rispondente a tale interesse, a prescindere dalla circostanza che sia stato posto in essere su strutture di proprietà pubblica o privata”. Secondo il TAR dunque il Salaria Sport Village non è un’opera di interesse pubblico. Si attende l’espressione del Consiglio di Stato, che doveva esprimersi il 30 giugno.

2. OPERA NON DELOCALIZZABILE


Sostenere che in tutto il IV Municipio non ci fosse un’altra area dove realizzare delle piscine per ‘interesse pubblico’, non è credibile. Anche perché il Comune di Roma ha sempre espresso con chiarezza “parere non favorevole all’ampliamento e al potenziamento degli impianti” (conosciuti anche come ex centro sportivo della Banca di Roma, a Settebagni), così come negativo è stato il parere della Provincia di Roma. Come ha potuto dunque Roberto Grappelli, segretario generale dell’ABT, autorizzare il 31 marzo 2008 come “non altrimenti localizzabili” i 160 mila metri cubi di cemento del Salaria Sport Village in area esondabile? Non si sa, quello che invece si sa è che Grappelli è stato premiato, il 13 agosto del 2008, con la nomina a Presidente di Metropolitane di Roma”, carica che ha mantenuto fino al 19 gennaio 2010, per divenire poi amministratore unico di Officine Grandi Revisioni (OGR), la società interna dell’Atac, società responsabile della manutenzione dei treni delle metropolitane. Così come si sa che l’impresa che ha eseguito i lavori al Salaria Sport Village era della moglie di Diego Anemone, Vanessa Pascucci, a sua volta socia e finanziatrice della moglie di Angelo Balducci di una casa di produzioni cinematografiche . La realtà è che nessuno ha mai detto fino ad oggi perché, per dotare di un impianto natatorio il IV Municipio, si dovesse a tutti i costi posizionarlo proprio lì, sul fiume. Perché non era ‘altrimenti localizzabile’?

3.OPERA COMPATIBILE CON LE CONDIZIONI DI ASSETTO IDRAULICO E/O GEOMORFOLOGICO

L’area del Salaria Sport Village è indicata come area esondabile nel Piano di Stralcio – PS1 dell’ABT e classificata come ‘Zona A’, caratterizzata appunto da costante rischio di naturale esondazione delle acque del fiume Tevere. La normativa su di essa, come riportato all’art.39 del PAI, è quella del 1° Stralcio Funzionale – PS1, “Aree soggette a rischio di esondazione nel tratto del Tevere compreso tra Orte e Castel Giubileo”. Se l’area non fosse stata imposta come ‘opera di pubblico interesse’ dalle dichiarazioni del Commissario Delegato, sarebbe stato al massimo consentita la “realizzazione di aree destinate ad attività sportive compatibili con l’ambiente senza creazione di volumetrie” (art.4, c.4, lett.f), il tutto armonizzato con le norme tecniche del piano paesistico territoriale n.4 “Valle del Tevere” della Regione Lazio. In pratica, non poteva esistere il Salaria Sport Village.

Invece, dichiarandolo come ‘opera di pubblico interesse’, il caso del Salaria Sport Village è stato fatto rientrare sotto l’art.7, in cui in pratica si impone soltanto che venga convocata una Conferenza dei Servizi per studiare, con l’ABT, come realizzare l’opera prevista. L’ABT, in questi casi, deve imporre una serie di prescrizioni realizzative che devono essere rispettate alla virgola, compresa tutta la parte relativa all’impiantistica. La mancata attuazione di queste prescrizioni, e dunque l’eventuale riduzione dell’area a disposizione dell’espansione delle acque del Tevere in caso di esondazione, è motivo di mancato rilascio del nulla osta idraulico da parte dell’ABT. Questo vale soprattutto per l’area subito a monte di Castel Giubileo, in sinistra idraulica, dove le quote del terreno sono tali per cui la S.S. Salaria può essere inondata per circa 2 Km, così come anche il centro di Settebagni (la ferrovia Roma – Firenze si trova invece in quota di sicurezza). Le linee tecniche di indirizzo per il rilascio dei pareri in materia di concessioni edilizie prevedono per esempio che le quote di calpestio dei manufatti edilizi che possono essere realizzati nelle aree a rischio di esondazione, devono essere a quota superiore a quella del massimo livello prevedibile delle acque in caso di esondazione. Analogamente, la struttura portante demandata a sostenere il piano di calpestio, deve essere realizzata mediante i cosiddetti “pilotis” ad elementi verticali, la cui dimensione massima di ingombro non può essere superiore a 100 cm posti ad un interasse non inferiore a 9.00 mt a luce libera, senza tamponature. E così via, con tutte le eccezioni dei casi ‘non residenziali’ in cui quasi sicuramente è stato fatto rientrare il Salaria Sport Village. Ora di queste prescrizioni non è mai stata data informazione e sarebbe opportuno che l’ABT, per maggior chiarezza del suo operato, le rendesse pubbliche al fine di permettere non certo un’ispezione popolare sul realizzato, ma per chiarire tutti i dubbi che ancora esistono sulla regolarità dei controlli effettuati prima del sequestro dell’opera.

Riassumendo: fino ad oggi del Salaria Sport Village si è parlato in termini di vicinanza al fiume, cioè della sua collocazione in area esondabile, incolpando solo il Comune di Roma per non aver controllato i poteri del Commissario Delegato. In realtà l’esistenza del Salaria Sport Village la si deve al nulla osta idraulico dell’ABT, nulla osta che si basa sui tre punti sopra esposti.
Gli scenari futuri allora sono due, entrambi legati al parere del Consiglio di Stato. Se riconoscerà che non è opera di pubblico interesse, come già sostenuto dal TAR, tutti gli impianti vanno demoliti perché l’ABT dovrà gioco forza ritirare il nulla osta idraulico (per questa ragione LabUr non ha mai compreso le motivazioni della raccolta di firma per l’acquisizione a patrimonio pubblico del Salaria Sport Village). Se invece il parere del Consiglio di Stato rovescerà l’espressione del TAR, bisognerà verificare che tutte le prescrizioni dell’ABT siano state rispettate, cosa che fino ad oggi nessuno ha mai fatto (che ci risulti, neppure la Procura, dove l’ABT è stata ascoltata sul caso ben 9 volte).
Resta l’amarezza che nessuno, ma proprio nessuno, ha mai fatto rispettare la Legge sul Salaria Sport Village, creando un groviglio tale di interpretazioni che lasciano solo spazio a chi ha interessi, sicuramente non pubblici.


postilla

LabUr (laboratorio di urbanistica) è un’associazione no profit, con sede a Roma, il cui impegno essenziale è aiutare tecnicamente, culturalmente e politicmente i comitati, le associazioni e i gruppi di cittdinanza attiva nelle loro vertenze per la difesa del territorio, sulla base i principi molto vicini a quelli di eddyburg e della sua scuola.

La tramvia di Desio va in pensione. Oggi, dopo 130 anni, i vagoni che hanno trasportato generazioni di studenti e lavoratori dalla Brianza a Milano si fermeranno dopo l’ultima corsa delle 23.10. Carrozze vecchie di quarant’anni e rotaie senza manutenzione da due anni l’hanno reso «pericoloso per gli utenti», ha sentenziato il ministero delle Infrastrutture in una relazione di sei mesi fa. I Comuni attraversati dal tracciato, Desio e Nova Milanese su tutti, però non ci stanno e annunciano battaglia.

Dal centro della cittadina brianzola fino al capolinea a Milano, in via Ornato, in zona Niguarda, le rotaie in alcuni punti sono così malmesse che i conducenti devono procedere alla velocità di cinque chilometri all’ora. «La linea non viene chiusa, solo sospesa per disposizione del Comune di Milano e di Atm. Mantenerla in attività non aveva senso, in gioco c’è l’incolumità dei passeggeri», taglia corto Giovanni De Nicola, assessore provinciale ai Trasporti. Per ora, al posto delle carrozze scende in campo un servizio sostitutivo di autobus, che si dovrà fare carico dei mille pendolari che ogni giorno usano il tram. «Bus di 18 metri che finiranno per congestionare ancora di più il traffico - replica Roberto Corti, sindaco di Desio - . Ancora non ci hanno nemmeno fornito il percorso e non sappiamo dove sono previste le fermate».

Entro marzo dovrebbero partire i lavori per spostare la vecchia linea che passa dal centro della cittadina brianzola per portarla in periferia, in via Milano. Il progetto, 230 milioni di investimento, è pronto da dieci anni. Il 60 per cento dell’opera è già stato finanziato dal governo, il restante 40 è da suddividere tra Regione, Province di Milano e Monza e Comuni interessati. «Col Patto di stabilità voglio vedere dove troveremo i soldi», si domanda Corti. «In primavera partiranno i lavori e per giugno 2014 tutto sarà a posto», assicura l’assessore. Ma il primo cittadino di Nova Milanese, Laura Barzaghi, è scettico: «Nel 1981 a Vimercate tolsero il tram dicendo che a breve sarebbe arrivata la metropolitana, tutto era pronto. A distanza di trent’anni i cittadini aspettano ancora che inizino gli scavi. Non siamo disposti a fare la stessa fine».

postilla

Quella di smantellare artificiosamente le reti di linee tranviarie di superficie usando via via motivazioni tecniche per modernizzazioni, sicurezza, diseconomicità e compagnia bella, è una pratica iniziata verso la metà del ‘900 dalle grandi compagnie automobilistiche americane a livello nazionale, che faceva tra l’altro anche, localmente, il gioco di alcuni speculatori immobiliari. Là si acquisiva la maggioranza azionaria della compagnia e poi con sotterfugi di vario genere (finanziari, accordi apparentemente vantaggiosi con la pubblica amministrazione, ricerche addomesticate ..) si arrivava al classico trionfo del mezzo privato, e comunque della rete stradale con la sua controparte di “indifferenza localizzativa” e impossibilità di politiche pubbliche territoriali serie. Non è un sospetto da urbanisti dietrologi, ma un fatto documentato da parecchie ricerche storiche negli archivi delle compagnie colpevoli. Si veda ad esempio il bell'articolo di Al Mankoff sul sito istituzionale Trasporti New Jersey.

Noi, indipendentemente da modi e tempi, seguiamo a ruota: ha senso, in un’epoca di discussione su mobilità dolce, spazi condivisi, primato del trasporto su rotaia in diretto collegamento agli spazi pubblici centrali e alla multifunzionalità, cancellare, e/o decentrare una linea del genere? Credo che la risposta non sia necessaria, e neppure un esercizio di dietrologia. Al massimo, di psichiatria (f.b.)

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