«Per eliminare i controlli, di fatto si elimina una parte dal patrimonio culturale nazionale». la Repubblica, articolo9, blogautore, 29 luglio 2017 (c.m.c)
In questo Paese parlare di politica non vuol dire parlare di cose, ma di formule. Non di vita reale, ma di logiche astratte. Non di giusto e sbagliato, ma di tattico e conveniente.
Per esempio: martedì prossimo ci sarà al Senato il voto definitivo sul famoso ddl sulla concorrenza. E siccome con ogni probabilità il governo porrà la questione di fiducia (abusandone ancora una volta) tutto coloro che sostengono il governo voteranno sì, salvo poi venire a spiegare che hanno 'dovuto' votare una legge in parte sbagliata. Dannosa, distruttiva. E scritta sotto dettatura della lobby dei grandi mercanti d'arte.
Alcuni senatori di Articolo 1 - Mdp hanno provato a presentare un ordine del giorno che impegnava il governo a rivedere l'articolo relativo all'esportazione dei patrimonio culturale, perché reca «evidente pregiudizio per la certezza del diritto, la parità di trattamento fra i cittadini, la tutela del nostro patrimonio culturale». Con un discutibile cavillo procedurale si è loro impedito di farlo, ma la sostanza resta. E la sostanza è che il ddl Concorrenza non rimuove alcun ostacolo al libero mercato dell'arte, ma invece elimina i controlli che lo Stato esercita su antiquari, galleristi e case d'aste in funzione dei compiti di tutela del patrimonio culturale demandatigli dall'articolo 9 della Costituzione.
Per eliminare i controlli, di fatto si elimina una parte dal patrimonio culturale nazionale stabilendo che alcuni beni che oggi ne fanno parte, domani non vi rientreranno più e dunque non dovranno più, fra l'altro, passare al vaglio degli uffici esportazione del Ministero per lasciare il territorio del Paese. Per esempio lo fa innalzando da 50 a 70 anni la soglia in cui un'opera d'arte è tutelata: la norma, di carattere generale, impatta sull'intero patrimonio culturale, non solo su quello che interessa galleristi, antiquari e case d’aste, visto che coinvolge anche i beni degli enti pubblici, delle fondazioni, degli enti ecclesiastici e gli immobili e che, soprattutto, non riguarda solo l'esportazione, ma tutte le attività di tutela.
Dopo che il ddl sarà approvato tutte le migliori opere di architettura, design, pittura, grafica, scultura, realizzate fra il 1947 e il 1967 da maestri quali Luigi Caccia Dominioni, Gio Ponti, Ignazio Gardella, Figini e Pollini, BBPR, Vico Magistretti, Marco Zanuso, Luigi Moretti, Carlo Mollino, Achille Castiglioni, Bruno Munari e perfino da Balla, Carrà, Fontana, Burri, Melotti, Morandi, De Chirico, Guttuso e molti altri saranno libere di essere demolite, distrutte, danneggiate, vendute, alterate, adibite a usi non consoni, restaurate e trasformate senza controllo, perché non più protette dal Codice dei Beni culturali.
E tutto questo solo per consentire che le opere d'arte realizzate fra il 1947 e il 1967 escano liberamente dal Paese! E poi c'è la famosa autocertificazione: basta che chiunque autocertifichi che un'opera che possiede vale meno di 13.500 euro e potrà esportarla. Cioè la volpe potrà autocertificare che la gallina che sta per mangiarsi è una gallina piccola piccola, davvero irrilevante per l'integrità del pollaio.
Uscirà davvero qualunque cosa: senza rischi per nessuno, visto che le autocertificazioni false non sono sostanzialmente punite. E l’uscita automatica riguarderà non solo le opere con meno di 70 anni ma anche tutte quelle che, indipendentemente da età e autore (che potrebbe anche essere Michelangelo, o Caravaggio) siano ritenute di valore economico inferiore ai 13.500 euro. Il valore sarà autodichiarato direttamente dal richiedente l'uscita, vale a dire da chi ha un interesse concreto e diretto a sottostimare il bene.
L'uscita automatica di beni in regime di autodichiarazione favorirà la circolazione internazionale di beni rubati, contraffatti, falsi, inalienabili perché appartenenti a enti pubblici o parapubblici che necessitano di permessi previ alla commercializzazione, staccati da monumenti, complessi architettonici e collezioni senza le dovute autorizzazioni, posseduti illecitamente perché scavati o rinvenuti sottacqua dopo il 1909, oggetto di frode fiscale, riciclaggio, operazioni finanziarie gestite dalla criminalità organizzata sempre più spesso adusa a investire nel mercato dell’arte del ‘900 e contemporanea. Insomma, rispetto a Dario Franceschini, Sandro Bondi ci sembrerà un eroe della tutela del patrimonio culturale, un paladino della Costituzione!
Bisogna dare atto a Claudia Mannino (ex 5 stelle) alla Camera e a Michela Montevecchi (5 stelle) al Senato di essere state le più coerenti e forti oppositrici di questa grave umiliazione dell'articolo 9 della Costituzione. Sarebbe bello che anche tutti i politici che si richiamano alla sinistra (come i senatori di Mdp) fossero altrettano forti e coerenti nella loro battaglia parlamentare.
Perché i cittadini non sono più disposti ad accettare la logica autoreferenziale del gioco politico: e credono che se un governo mette la fiducia su una legge che vìola platealmente la Costituzione non si possa in coscienza votare quella fiducia. Perché la Costituzione vale più di un governo. E perché sono Paolo Gentiloni e Dario Franceschini ad essere al servizio del patrimonio culturale della nazione: non il contrario.
la Repubblica, 31 luglio 2017 con postilla
L’emirato del Qatar detta le norme per la gestione delle coste e chiede vincoli più leggeri, la Regione sarda targata Pd obbedisce. Nella scorsa primavera, Mario Ferraro, l’amministratore delegato di Sardegna Resorts e di Qatar Holding, proprietaria di Porto Cervo e dei blasonatissimi hotel della Costa Smeralda, si è presentato davanti alla commissione urbanistica regionale con in pugno un documento di quattordici cartelle firmate una per una, come si fa nei contratti civili, dove il manager propone un’ampia revisione della legge per l’edilizia, il piano casa del centrosinistra varato nel 2015 tra le proteste delle associazioni ecologiste.
Ferraro mette in chiaro una cosa, suggerendo parole, incisi e parametri: serve più cemento, più cubature vicino al mare, anzi vicinissimo. Persino là, nella fascia dei trecento metri dalla battigia vincolata dal piano paesaggistico di Renato Soru, dove non ha osato neppure l’amministrazione regionale berlusconiana, quella guidata da Ugo Cappellacci. La dettagliatissima proposta qatariota parte da un punto fermo: cari amici sardi, a chiedercelo è il mercato.
I turisti che contano, quelli che hanno le tasche piene, vogliono il frontespiaggia e noi, causa i divieti imposti dal Ppr, giochiamo una partita in perdita. «Le aree interessate da insediamenti turistici — scrive Ferraro — non possono essere considerate alla stessa stregua delle aree incontaminate, meritevoli invece di tutela integrale. Escludere la possibilità di riqualificare ed accrescere la potenzialità delle strutture che insistono in tali aree significa condannare le stesse a divenire inadeguate agli standard internazionali ».
In altri tempi la politica sarda, sempre gelosa della propria autonomia, sarebbe saltata sulla sedia e avrebbe gridato all’intrusione indebita nell’attività legislativa. Niente di tutto questo: i rapporti con il Qatar sono molto collaborativi, specie da quando l’emirato ha deciso di finanziare la realizzazione del mega ospedale Mater Olbia, nella città gallurese, un’incompiuta del San Raffaele per la quale si è speso di persona l’ex premier Matteo Renzi. Se qualcosa prendi — sembra aver ragionato il Pd sardo — qualcosa devi dare. Così nella legge urbanistica che sta per essere portata in consiglio regionale dalla maggioranza è sparito il vincolo dei trecento metri.
Resort e alberghi potranno allargarsi fino al 25 per cento «anche in deroga agli strumenti urbanistici». Le imprese avranno licenza di costruire nuovi corpi di fabbrica, spa e piscine aggravando un impatto che già oggi preoccupa il mondo ambientalista sardo. Come una città che diventa più grande di un quarto, con tutto il peso dei servizi, degli impianti idrici, delle strade, dell’illuminazione. Un impatto che in Sardegna sarà concentrato tutto nella fascia costiera, l’area più delicata e preziosa.
Un regalo miliardario che Sardegna Resort ha chiesto con forza e che i costruttori dell’isola attendevano da anni, contenuto in un sistema di norme che anziché rafforzare le tutele le riduce, in aperto contrasto con lo spirito del Codice Urbani. Poco male se a leggere il rapporto Ispra del 2016 la Sardegna occupa il quarto posto in Italia per consumo di suolo, dietro Sicilia, Campania e Liguria. L’addio al vincolo di inedificabilità — a sentire la Regione — servirà a semplificare il sistema di norme e a mettere ordine in un settore finora molto confuso. Insomma, un toccasana a base di mattoni e cemento.
E Soru? Uscito da un lungo letargo dovuto a complicazioni giudiziarie, quasi tutte risolte, il padre politico del Ppr sembra aver ritrovato lo smalto del 2004, quando si iscrisse al registro degli ecologisti duri e puri. In un documentato servizio uscito sull’Espresso parla della prossima legge urbanistica e manifesta preoccupazione «per la cecità di una classe dirigente che sta mettendo in pericolo il futuro della Sardegna ».
Gli ha risposto con una lettera indirizzata al settimanale il neosegretario del Pd sardo, Giuseppe Luigi Cucca, che nel tentativo di spegnere il nascente scontro interno nel partito annuncia un emendamento alla legge per “contemperare l’impatto” degli interventi sulla costa. In altre parole: il 25% di nuova volumetria non verrebbe calcolato sul totale dell’immobile, sarà previsto un tetto massimo per limitare i danni. Ma ora i senatori dem chiedono che Pigliaru venga sentito in commissione ambiente sui contenuti della legge. Il Pd chiama il Pd a render conto di se stesso.
postilla
E, utile precisare che l'inedificabilità nella fascia di 300 metri non è disposta al piano paesaggistico, ma da una legge nazionale tuttora valida in tute le regioni italiane (la legge Galasso, legge n. 431 dell'8 agosto 1985). Il piano paesaggistico regionale della Sardegna, formato sotto la guida di Renato Soru e in vigore fin dal 5 settembre 2006, sottopone a tutela una fascia litoranea ben più ampia, variabile dal minimo ex lege dei 300 metri fino a circa 3mila metri, definita sulla base di studi multidisciplinari in relazione alle diverse caratteristiche oggettive e alle qualità ambientali e paesaggistiche da tutelare. Di tutto ciò la Giunta Pigliaru, sta facendo strame, avendo ceduto la sovranità dell'Isola - una volta gelosa della sua autonomia - agli sceicchi immobiliari di alcune regioni dell'Arabia .
Una posizione e una proposta diametralmente opposte a quelle di progettisti, costruttori, immobiliaristi e via cementando, e perciò ragionevole. Arcipelagomilano.org online, 26 luglio 2017, con postilla (m.c.g.)
Cosa fare degli ex scali ferroviari di Milano? Con l’Accordo di Programma recentemente approvato si sono definite molte delle future funzioni, nonché le vocazioni delle singole aree, e a partire da lì architetti, tecnici e politici si stanno garantendo almeno un decennio pieno di dibattiti sul cosa, perché e come fare. E, per i più fortunati di costoro, anche un decennio di parcelle e incarichi.
Vorrei presentare una visione che sicuramente dispiacerà a quanti sono interessati a pilotare quel qualcosa che si dovrà muovere, non importa in quale direzione. Partiamo da una banale considerazione: è giusto investire delle risorse laddove queste servono a soddisfare i nostri bisogni. Bisogni ormai piuttosto complessi che richiedono trasformazioni del territorio, con la destinazione di parti di questo alla produzione di cibo, o a parco, o la costruzione di edifici, di strade e di altre infrastrutture che riteniamo indispensabili per la nostra sopravvivenza.
Sopravvivenza che per attuarsi pienamente deve trascendere il nostro tempo della nostra vita e proiettarsi verso le generazioni future, alle quali dovremmo lasciare un territorio che, pur trasformato secondo i nostri bisogni, lasci anche a loro lo spazio per soddisfarvi bisogni probabilmente diversi dai nostri. Se mi trovo costretto a enunciare tali banalità, è perché tutto ciò non sta avvenendo.
Perché per una sorta di horror vacui se c’è un pezzo di terra che si libera dauna funzione precedente subito bisogna destinarlo a qualcosa, che nella bipolarità grossolana della cultura corrente significa o costruirci sopra edifici o farci parchi, come di sicuro accadrà per gli ex scali ferroviari.
Bipolarità di comodo, che consente ad ambedue le parti (l’avrete capito, da una parte l’amministrazione pubblica per i parchi, dall’altra le imprese per gli edifici) di non guardare in faccia i veri problemi della città. Che non sono quelli di riusare gli ex scali ferroviari.
Innanzitutto, per quanto estese siano le aree degli ex scali, la superficie occupata da edifici pubblici e privati abbandonati, sparsi su tutto il territorio milanese, è meno appariscente ma ampia (guardate la mappa dell’edilizia abbandonata fatta dal Comune ) quanto quella degli scali in questione. Centinaia di ettari occupati da milioni di metri cubi in stato di degrado e abbandono (palazzi per uffici vuoti, cantieri lasciati a metà, abitazioni, fabbriche) quasi tutti in aree già densamente edificate. Di questi, molti recuperabili a nuovi usi, con un buon risanamento e le necessarie trasformazioni anche ad uso residenziale.
postilla
“L'horror vacui del pensiero urbanistico milanese” sottotitola l’autore, ed ha ragione: sembrerebbe puro buon senso, ma non lo è. E infatti non l’ha scritta un urbanista mainstream milanese questa riflessione, ma uno studioso che traduce grandi opere letterarie e di poesia dal polacco.
«Organizzazioni come Il Piccolo Cinema America Occupato, e artisti come Carl Brave e Franco126 sono l'ultima difesa all' identità storica degli storici rioni capitolino, rimpiazzando la politica (che da tempo manca)». Linkiesta online, 27 luglio 2017 (c.m.c.)
«Prima era un paesone, ci conoscevamo tutti, ognuno con il suo mestiere. Oggi i figli dei miei amici artigiani non portano più avanti quelle attività. Non sono business che portano soldi». Ecco, i soldi. L’espressione amareggiata del tassista che parla della “sua” Trastevere anni ’70 potrebbe diventare il simbolo di quel fenomeno globale che prende il nome di gentrificazione. Un fenomeno che, per restare a Roma, sta da tempo trasformando - non senza polemiche - quartieri storici come Testaccio, Pigneto o la stessa Trastevere. Il primo effetto di questo processo è autoevidente: sovente gli abitanti originari di questi quartieri ormai imborghesiti sono costretti a trasferirsi nelle periferie, a causa dei prezzi immobiliari e canoni di locazione che schizzano alle stelle, insostenibili per chi in quei posti ci è nato e cresciuto.
La politica ci prova, a difendere l’identità di quartiere: soprattutto, attraverso norme anti-sfratto, per mantenere vivo lo spazio urbano in questi quartieri. Funziona? Non esattamente. A Trastevere, al posto delle storiche botteghe artigiani, hanno iniziato ad aprire toasterie, paninerie, baretti per turisti. Nel frattempo, si sono moltiplicate le case in affitto ad americani, che di Testaccio e Trastevere hanno sentito parlare solo in un recente film di Woody Allen.
Al netto della politica, però, la lotta vera è soprattutto sociale. A Berlino, Londra , New York sono attivi diversi gruppi organizzati anti-gentrification. In Italia, al solito, siamo un po’ in ritardo, ma qualcosa si sta muovendo. Ne dà testimonianza il workshop tenuto all’Univerisità Roma Tre dello scorso ottobre, riguardante il tentativo di elaborare una comprensione comune su come identificare il processo di gentrificazione e come applicare politicamente le teorie “anti-gentrification” con partecipazione di attivisti provenienti da città dell’Europa del sud.
A Trastevere, però, senza riferimenti politici a cui aggrapparsi, la lotta alla gentrificazione è un affare per giovani. Rapper, ad esempio, come il duo trasteverino Carl Brave e Franco126, con l’album indie hip hop intitolato Polaroid, che in realtà più che una lotta dichiarata alla gentrificazione di Trastevere, raccontano per immagini un’identità romana che solo chi è nato nel posto riesce a comprendere. Dimostrazione del senso di appartanenza che i ragazzi del quartiere ancora sentono.
Lo stesso si vede anche nel cinema. Piazza San Cosimato, cuore e anima della vecchia Trastevere, è ormai protagonista di una lotta culturale incominciata e promossa dai Ragazzi del Cinema America, in Via Natale del Grande, storico cinema Trasteverino. Frequentato da gente come Carlo Verdone, che racconta di aver coltivato lì le sue prime passioni per la cinematografia, è stato poi abbandonato per diversi anni e solo nel 2012 è stato occupato da alcuni ragazzi in protesta contro il piano di rimpiazzare le sale storiche per farne appartamenti. L’occupazione, durata più o meno due anni è stata appoggiata da moltissime figure storiche del quartiere, felici di ritrovare nei ragazzi una voglia di mantenere viva la memoria e l’anima di un posto come Trastevere. Alla fine, dopo una lunga serie di battaglie legali, i ragazzi sono riusciti a bloccare il piano di abbattere il cinema.
Da quel momento, da strumento di occupazione, Il Piccolo Cinema America Occupato si è trasformato in un’associazione. Nelle ultime due estati, l’organizzazione, per riportare la cultura nelle piazze ha promosso, ogni sera, una proiezione “free entry” (a ingresso libero) per chiunque. Spesso accompagnata da presentazioni condotte da personaggi celebri: si pensi solo a Carlo Verdone, a Roberto Benigni, Ennio Morricone e Francesco Bruni. L’intento è chiaro: riportare la cultura nelle piazze, spesso ricreando il significato che aveva il cinema per i veterani del rione.
È, insomma, un vero e proprio movimento sociale, prima ancora che politico. L’organizzazione del Piccolo Cinema America Occupato ricorda che per ricostruire l’autenticità di questi posti bastano due elementi: la cultura e i giovani, gli unici (per ora) capaci di arrivare a tutti. Dimostrando che la musica e la cultura funzionano, forse meglio di qualsiasi politica perché si aprono a un pubblico e a una coscienza civica che – almeno nella Capitale – sono merce più rara dell’acqua potabile.
Breve replica a conclusione di in animato dibattito sull'avvio del piano per Bagnoli (la discussione può proseguire anche su eddyburg nello spazio apposito in calce)
Nel merito delle scelte ho già scritto che il porto turistico a Nisida è per me una soluzione non meditata e spero che gli organi di tutela dei beni paesaggistici e culturali agiscano opportunamente in difesa di un sito sublime. Inadeguate sono anche le soluzioni proposte per l’accessibilità, con una linea metropolitana non di attraversamento ma che non so perché fa capolinea all’istmo di Nisida. Un’ipotesi troppo esile che finisce con il favorire il trasporto privato a favore del quale sono anche previsti straripanti parcheggi in prossimità dell’Acciaieria recuperata. Era molto più efficace il progetto originario di servire l’area interrando e deviando la Cumana dall’abitato di Bagnoli (selvaggiamente spaccato in due dalla ferrovia a livello) fino alla stazione Campi Flegrei. Anche su questo punto decisivo spero che sia possibile rivedere le proposte in discussione.
«Il laboratorio sotterraneo ospita milioni di reperti. Ecco come un team di studiosi ricompone un puzzle che può rivelare nuovi scenari storici». la Repubblica, 25 luglio 2017 (c.m.c.)
La storia di Roma antica s’interpreta e, per qualche aspetto, ne viene rivisto il profilo economico e sociale in uno spazioso magazzino con i soffitti ribassati. È un deposito seminterrato, i tubi a vista, grande quasi mille metri quadrati sotto uno dei più chiassosi centri commerciali della capitale. Da un parcheggio si scende lungo una rampa, in fondo spuntano gli accessi per lo scarico merci, sulla destra, invece, ci sono una porta in ferro e accanto una saracinesca. Niente targhette, niente loghi. Anonimato.
È dietro quella porta che alloggia un laboratorio allestito dalla Soprintendenza Speciale di Roma. Sono ospitati oltre quattro milioni di reperti archeologici sistemati e catalogati in seimila cassette (si prediligono quelle dei pescivendoli, ma vanno bene anche quelle per le olive e per i pomodori). In uno stanzone una parte di oltre ottantamila frammenti d’intonaco color rosso cinabro, il rosso pompeiano, e blu egizio sono sistemati su un letto di polistirolo. Qui, recuperati gli attacchi fra un frammento e l’altro, si ricompongono i riquadri con paesaggi marittimi e i fregi di un affresco che decorava la parete lunga sessanta metri di una residenza aristocratica. L’affresco è databile al 40 d.C., ma la sua struttura architettonica non esiste più e in questo modo rinasce.
Questi pezzi, oltre alle anfore, i lucernari, il vasellame, i gioielli e le pietre dure, ognuno alloggiato su un supporto con il numero che lo identifica, e poi gli altri frammenti custoditi nelle cassette ordinatamente impilate l’una sull’altra e addossate alle pareti, tutto questo immenso lascito della Roma repubblicana e poi imperiale proviene da scavi in due piazze del quartiere Esquilino, piazza Vittorio Emanuele e piazza Dante. Lo scavo, compiuto fra il 2006 e il 2011, riprende quello realizzato da Rodolfo Lanciani a fine Ottocento, quando appunto fu costruito il quartiere Esquilino. Allora vennero identificati gli Horti Lamiani, una grande proprietà con costruzioni, un magnifico giardino e un frutteto appartenuta al console Lucio Elio Lamia (I secolo d.C.) e poi posseduta dagli imperatori, prima Tiberio, quindi Caligola.
Il deposito sotto il centro commerciale è ora la casa di quei milioni di reperti, in grandissima parte oggetti umili, recuperati in diversi strati archeologici, quindi appartenenti a un’epoca compresa fra il IV secolo a.C. e il IV d.C.. È forse il più grande deposito-laboratorio in Italia, un ambiente costantemente vigilato e dotato di sensibili allarmi. E di cui naturalmente non si può dare l’indirizzo. Al piano di sopra si riempiono le piazze dello shopping, qui lavora senza orari una pattuglia di archeologi che tutti i giorni scivola giù dal parcheggio senza dare nell’occhio. Tenuti alla riservatezza, si muovono discretamente, salgono a prendere il caffè al centro commerciale entrando da un ingresso laterale. Sono donne in prevalenza. Sono giovani per come si può essere giovani se si è precarie fra i trenta e i quarant’anni, tutte con laurea magistrale e dottorati di ricerca, master ed esperienze internazionali.
Contratti a progetto, compensi bassi e la tentazione ricorrente di mollare tutto e di dedicarsi ad altro, nonostante gli occhi brillino quando parlano di quel che fanno. I loro nomi: Donato Alagia, Simona Bellezza, Giulia Bison, Viviana Cardarelli, Marta Casalini, Silvia Fortunati, Diana Greco, Serena Guglielmi, Giordano Iacomelli, Barbara Lepri, Alessia Masi, Rosita Oriolo, Giacomo Pardini, Alessandra Pegurri, Nicoletta Saviane, Giulia Schwarz, Gabriele Soranna, Alessandra Vivona. Li coordina Antonio Ferrandes, un piede all’università l’altro anche lui nel precariato.
Non c’è niente di simile a questo deposito, spiega Mirella Serlorenzi, l’archeologa che per conto della Soprintendenza è responsabile di un lavoro che non si è concluso con lo scavo, come spesso accade in regime di archeologia preventiva (l’archeologia che si pratica non perché ci sia, a monte, un progetto scientifico, ma perché si realizzano trincee per una linea ferroviaria o per un’autostrada o fondazioni per un edificio).
Il cantiere edilizio che ha prodotto la scoperta di questi materiali è, a piazza Vittorio Emanuele, quello per la nuova sede dell’Enpam, l’ente previdenziale dei medici che sta anche finanziando, con quasi un milione, il lavoro archeologico. Serlorenzi e gli altri dell’équipe sono impegnati affinché questi reperti, gran parte dei quali sono scarti di distruzioni o di demolizioni, diventino parlanti e raccontino oltre a quella artistica una vicenda economica e sociale. Non è l’archeologia delle spettacolari scoperte (anche se viene la pelle d’oca davanti all’affresco ricostruito), ma della cura certosina per dare un senso a quel che il passato trasmette.
Si recuperano pezzi pregiati e si restaurano, una parte verrà musealizzata nell’edificio dell’Enpam, ma poi si restituisce alla città la conoscenza di come e perché si importassero certe ceramiche oppure si prediligessero produzioni locali, dei traffici commerciali con le province e poi con il nord Africa o con il sud della Francia. E si illustra che cosa volesse dire, per l’economia e la vita quotidiana, l’uso di certi materiali e di certe tecniche costruttive.
L’affresco che viene ricomposto, spiega Serlorenzi, è un modello pittorico al quale poi ci si ispirerà a Pompei. Ma di esso si studia anche il retro, per capire com’è fatta la malta, come viene preparata, se c’è o meno l’impronta di un’incannucciata. Quindi si indaga sui sistemi produttivi e sul loro retroterra. Ferrandes prende in mano il frammento di una ceramica: «Possediamo una base statistica eccezionale per le sue dimensioni che consente di illuminare la storia commerciale di Roma, di disegnare il raggio delle importazioni e di riempire alcuni vuoti, come quelli relativi alla fine del II secolo o all’inizio del IV, l’epoca di Massenzio e di Costantino». O anche, aggiunge Serlorenzi, di sfatare qualche vulgata che vorrebbe interrotta al IV secolo, con l’approssimarsi della caduta dell’Impero, l’effervescenza dei traffici commerciali, di cui invece questi frammenti attestano la sopravvivenza.
Nel deposito, poco più in là dell’ingresso, sono adagiate una serie di anfore. Servivano in parte per ospitare le radici degli arbusti che poi venivano interrate nel giardino evitando che crescessero oltre misura affinché le piantumazioni potessero comporre un disegno geometrico. Ma soprattutto servivano per trasportare vino anche pregiato e olio. Le anfore sono importanti per avanzare un’ipotesi di revisione della storia economica e sociale di Roma. «Non avevamo quasi attestazione di anfore prima dell’età augustea», dice Ferrandes. «Si riteneva che Roma si rifornisse dal suburbio utilizzando contenitori deperibili. Era considerato il segnale di una certa sobrietà di consumi e dunque di costumi. Ma ora, sotto piazza Vittorio Emanuele, ne abbiamo recuperate tante risalenti agli anni fra l’80 e il 60 a.C. Mostrano che anche allora si faceva uso di vini importati dall’Africa e dall’Oriente.
E che dunque al cives romano impermeabile alle seduzioni consumistiche si affiancavano anche personaggi appartenenti ai ceti aristocratici che a quelle seduzioni cedevano». Il lavoro nel magazzino prosegue. Le ipotesi di studio si accavallano. Ma il metodo resta ancorato all’idea che si debbano ricostruire non solo pezzi, anche storie. Sempre che il peso del precariato non si faccia troppo sentire.
«Intervista a Maurizio Memoli, professore di Geografia economico-politica all’Università di Cagliari, coautore del webdoc che racconta il quartiere popolare sul mare a sud est di Cagliari». il manifesto, 22 luglio 2017 (c.m.c)
Affacciato sul mare all’estremità meridionale di Cagliari, affollato dai palazzoni grigi dell’edilizia popolare e raccolto intorno allo storico Lazzaretto seicentesco – oggi teatro di attività culturali e «mondane»- il quartiere di Sant’Elia è uno dei luoghi più contraddittori della città. Nato come borgo di pescatori e edificato negli anni Cinquanta per gli sfollati dei paesi dell’entroterra che si erano riversati su Cagliari, ha subìto un profondo mutamento quando alla fine degli anni Settanta sono stati eretti quei palazzoni che oggi lo identificano per metonimia e hanno rivoluzionato l’aspetto, e il tessuto sociale, del borgo.
Le immagini del quartiere e le parole dei suoi abitanti sono i «protagonisti» del webdoc “Sant’Elia – Frammenti di uno spazio quotidiano”, progetto collettivo coordinato da Maurizio Memoli – professore di Geografia economico-politica all’Università di Cagliari, che ce lo ha raccontato – e realizzato insieme al giornalista Claudio Jampaglia, la ricercatrice Silvia Aru e il filmmaker Bruno Chiaravallotti. Vincitore del premio speciale webdoc al Capodarco l’altro Festival, Sant’Elia – Frammenti di uno spazio quotidiano è un lavoro di geo telling, come l’hanno soprannominato i suoi creatori: che fa parlare, e raccontarsi in prima persona, uno spazio urbano. Nei sei episodi che lo compongono (visibili sul sito webdoc.unica.it) la telecamera si sofferma a osservare le strade del quartiere, le sue case e i suoi palazzi, così come la distesa blu del mare che lo circonda e lo avvolge nel suo fascino. Fuori campo, la voce di sette donne di Sant’Elia illustra il loro rapporto con quello spazio: l’orgoglio e le lotte quotidiane, la stigmatizzazione e i pregiudizi di cui sono vittime, i ricordi di ciò che il quartiere è stato nel passato, i suoi miti fondativi e il fantasma dell’innocenza perduta.
Che cos’è il geo telling?
Subito dopo le rivoluzioni tunisine ci siamo trovati a confrontarci sull’idea della narrazione di un territorio. Volevamo raccontare lo spazio tunisino stando al di fuori dalla prassi troppo paludata della ricerca universitaria, geografica, urbana. Siamo quindi partiti per Tunisi per cercare di «intervistare» quello spazio attraverso le persone che lo abitano. Così è nato il webdoc – un prodotto ibrido tra video, interviste, foto e articoli – intitolato Al centro di Tunisi, del 2013. Dopo quest’esperienza siamo partiti con un secondo progetto su Marsiglia e infine con uno sulle periferie: ci siamo chiesti come raccontarle per sfuggire alla logica neoliberale per la quale nelle periferie ci sono «i cattivi», sono brutte e non funzionano. A meno che non abbiano un potenziale economico.
Che è proprio il caso di Sant’Elia.
Sant’Elia è uno spazio tradizionale di «brutti sporchi e cattivi». Ma c’è il mare, il panorama, un affaccio sull’acqua che fa gola al capitale, ostacolato però da una comunità di diecimila abitanti che pongono un problema: come tirarli fuori da lì per fare profitto? Entrare a Sant’Elia per raccontarne lo spazio ha voluto dire innanzitutto trovarsi davanti un esercito di ricercatori, giornalisti, registi, antropologi. Gli abitanti si sentono delle cavie, sono stufi di prendere parte a questo racconto della povertà.
Come avete quindi impostato il lavoro?
Siamo da subito entrati in contatto con le persone più attive di Sant’Elia: come in tutti i quartieri popolari ci sono molte cooperative e associazioni più o meno politiche. Attraverso di loro abbiamo cercato di offrire ai ragazzi un corso fotografico, chiedendogli di rappresentare il loro spazio quotidiano. L’adesione però è venuta principalmente dalle donne dell’associazione «Sant’Elia Viva». Il laboratorio è poi sfociato in una mostra, ma loro ci hanno chiesto di continuare il lavoro insieme e così abbiamo pensato a una narrazione in cui fossero gli abitanti a raccontarci il loro stare nello spazio, senza filmarli, mentre parlano di alcuni temi legati al quartiere. C’è quindi una dissociazione tra audio e video, che ci sembrava un buon modo per ragionare su come raccontiamo le cose non conoscendole, e per stabilire al contempo una distanza e una prossimità.
La prospettiva è esclusivamente femminile.
Come in molti quartieri popolari gli uomini sono molto meno presenti. Basta vedere le percentuali della popolazione del carcere di Uta: il 30% viene da Sant’Elia. Le donne che sentiamo parlare nei sei capitoli del webdoc – Pinella e Rita De Agostini, Rosy Fadda, Deborah Lai, Cenza e Paola Murru e Rosa Sabati – sono quasi tutte tra i 60 e i 70 anni, divorziate o sole per scelta, con figli adulti. Molte stanno studiando per il diploma che non hanno preso da giovani, e soprattutto hanno deciso di essere attive nel quartiere attraverso la loro associazione.
Dal rapporto tra audio e video emerge anche uno scollamento temporale: il racconto nostalgico del passato – i giochi per strada da bambine, il borgo prima dei palazzoni – e le immagini del quartiere come è oggi.
È importante ragionare sui frammenti di questa narrazione in modo emozionale: loro ci hanno parlato del loro amore per Sant’Elia, di quanto nonostante la marginalità e le stigmatizzazione il quartiere fornisca loro un’identità forte, che rivendicano. Portate altrove si disperderebbero, perderebbero la loro capacità di stare insieme. Gli anni Settanta, in cui sono stati costruiti i palazzoni, hanno rappresentato il momento della perdita dell’innocenza, ma anche della presa di coscienza che quello spazio è qualcosa da difendere.
Tra i loro racconti ci sono anche alcune «mitologie cittadine», a riprova del fortissimo legame, benché sofferto, con Cagliari tutta.
Le mitologie hanno però anche un aspetto negativo: ci consentono di creare una sorta di controllo, di incasellamento. Confinare le persone in dei personaggi permette di controllarle. È come la teoria della finestra rotta: trattare gli abitanti di un quartiere difficile come dei personaggi folklorici, nel bene e nel male, equivale a promettere che prima o poi qualcuno interverrà a «sanarli», a portarli in un vago altrove più «decoroso».
Un appassionato riepilogo della lunga e tormentata storia dell'area di Bagnoli e del suo piano ora, finalmente, «pare sia giunto il momento di tornare a discutere nel merito dei problemi. Per dirla in altri termini, è tempo si passare dalla farsa alla politica.»
Nella discussione su Bagnoli occorrerebbe far prevalere il merito delle questioni piuttosto che un misero interesse di bottega, contingente e transeunte. Gli attori politici passano, velocemente, Bagnoli invece è sempre lì, nella sua desolazione, a testimoniarci il fallimento di un'intera classe dirigente, nazionale e locale, della politica come dell'imprenditoria, pubblica e privata.
Se Governo, Regione e Comune riconoscono che gli indirizzi generali contenuti nella variante del 1996 sono la soluzione per Bagnoli, chi ha sempre combattuto, in solitudine, per la sua attuazione, non può che manifestare soddisfazione. Che la decisione provenga dal Governo Renzi, Gentiloni, De Luca o De Magistris, è questione di secondaria importanza. Prima di ogni cosa viene il merito delle questioni.
Non dobbiamo, infatti, mai dimenticare il degrado del dibattito pubblico che da due decenni accompagna la questione.
La variante per Bagnoli del 1996, approvata quando Bassolino era Sindaco e Vezio De Lucia assessore all'urbanistica, è stata osteggiata da tutta la città, compresa la classe politica che la aveva votata, sin dal giorno dopo la sua approvazione. De Lucia pagò il prezzo più alto, con la sua estromissione dalla giunta. La classe dirigente locale, priva di cultura e di visione politica, la ha addirittura additata come la causa dello stallo in cui si trova Bagnoli, finendo per farla diventare il capro espiatorio della propria incapacità amministrativa, quando non della mala amministrazione, svelata dalle inchieste della magistratura.
Non c'era occasione in cui gli esponenti della classe dirigente cittadina dimenticassero di affermare che il piano era «troppo ambientalista», che un parco di 120 ettari era «un'enormità» per una città come Napoli e che la colmata andava conservata perché rappresentava una magnifica «terrazza a mare», per alcuni, la sede ideale per un immenso porto, per altri. A cominciare, incredibilmente, dagli stessi amministratori del comune e della Bagnoli Futura, che di quel piano avrebbero dovuto essere fieri custodi. Ricordo, ultimo in ordine di tempo, un esponente dell'ambientalismo cittadino, nominato nel 2012 a presidente della Bagnoli Futura, che poneva in dubbio la rimozione della colmata, con cui ho dovuto polemizzare, sempre nell’isolamento generale, da presidente della commissione urbanistica del comune.
E ricordo anche che, nel corso degli anni, più volte il governo centrale ha sollecitato i governi cittadini a stipulare accordi di programma con il preciso intento di scardinare la pianificazione urbanistica per Bagnoli. Sempre la politica locale, comunale e regionale, si è lasciata lusingare dalle emergenze e dai grandi eventi, per scardinare la pianificazione urbanistica.
Insomma, Governo nazionale, regione e comune sono sempre stati alleati nel tentativo di scardinare la pianificazione urbanistica, e di derogare alla chiarissima norma contenuta nella legge 582 del 1996, con il consenso dell’impresa, delle accademie, delle professioni e della stampa, cioè di quel blocco sociale cittadino che è stato una cappa per lo sviluppo economico e civile del Mezzogiorno, instancabilmente denunciato da Gerardo Marotta.
Dopo il commissariamento del 2014 (che, nella sua versione originaria, era eversivo dei più elementari principi liberal-democrartici, come ho più volte sostenuto più volte da consigliere comunale), tutti si aspettavano quindi un intervento altamente speculativo, con la proprietà fondiaria autorizzata per legge a scrivere essa stessa le norme urbanistiche.
Per questo motivo destò vero stupore il progetto del soggetto gestore e del commissario del 2016, che prevedeva la rimozione della colmata, la creazione della spiaggia e lasciava la previsione del parco, sebbene in forma ridotta rispetto a quella del piano comunale. Le linee fondamentali del piano napoletano erano accolte, paradossalmente proprio da parte di quel governo nazionale che fino a qualche mese prima aveva interpretato il ruolo di co-protagonista per la sua demolizione. Si disse che era propaganda elettorale. Forse era così (valeva per tutti, le elezioni comunali erano alle porte), ma questo argomento serviva solo a evitare di entrare nel merito delle proposte.
Per lo stesso motivo, continua a destare meraviglia l'attuale perfezionamento della proposta contenuta nell'intesa interistituzionale, firmata da Governo, Regione e Comune, che riprende le linee del piano del 1996. Proposta, questa, che, per alcuni versi, migliora la precedente (indubbiamente per quanto riguarda la parte a terra, nel senso che il parco torna alla dimensione originaria prevista dal piano), mentre per altri motivi, relativi alla parte a mare, invece, la peggiora (perché conserva due insediamenti che per il piano del 1996, per la legge n. 582 del 1996 e per il vincolo paesistico del 1999 dovrebbero andare via: il borgo di Coroglio e le vecchie fabbriche ottocentesche che nel 1993 si tentò di vincolare senza successo perché prive di ogni valore).
Questo piano contiene dunque criticità (ce ne sono altre, infatti: si pensi a quella relativa al porto, al sistema della viabilità, all’eccessivo dimensionamento dell’attività alberghiera, che viene inspiegabilmente collocata anche sotto il costone di Posillipo, in prossimità dell’incrocio fra via Leonardi Cattolica e via Coroglio, «lungo il tratto della nuova via di Nisida, fronte spiaggia»).
Ma, occorre riconoscere, gli indirizzi sono quelli del 1996, quindi quelli giusti. È giunto pertanto il tempo che si sviluppi in città dibattito di ampio respiro, relativo al merito delle questioni, e che la si finisca sia con il confondere le scelte di merito con i pregiudizi che si nutrono nei confronti di chi le avanza, sia di offrire una rappresentazione farsesca e sbraitante della politica, da un lato, sia con gli annunci inattuati, dall’altro.
Per il momento possiamo constatare due cose.
Innanzitutto, che questo buon risultato è il frutto paradossale di uno dei più criticabili commissariamenti che il Paese ricordi (corretto in extremis dal governo in prossimità del più che opportuno ricorso del comune, eliminando l’incredibile potestà pianificatoria conferita ai privati), segno che Bagnoli, oltre che una maledizione, ha anche uno stellone che la protegge.
Le reazioni scomposte di queste ore che provengono da larga parte della classe dirigente cittadina contro quest’intesa è, del resto, la dimostrazione più evidente che solo l’assunzione di una chiara responsabilità dello Stato centrale può superare la visione asfittica e rozza della borghesia cittadina, che ha sempre considerato Bagnoli come un territorio da sfruttare e mai come un valore (innanzitutto estetico e culturale) da ripristinare e salvaguardare. Più volte, infatti, è dovuto intervenire lo Stato centrale per guidare verso le giuste direzioni il processo di trasformazione urbana di Bagnoli. La prima volta con la legge del 1996, che impose la ricostituzione della morfologia naturale della linea di costa (che diede forza alla linea portata avanti da De Lucia in comune); poi nel 1999, con l’apposizione del vincolo paesistico sull’area, fatta dal Ministro Melandri; oggi nella forma (per certi versi paradossale) del commissariamento (criticabile soprattutto nella sua prima formulazione). Era da anni più che evidente che occorresse una regia nazionale non solo perché Bagnoli è questione nazionale, ma anche perché la classe dirigente cittadina aveva ridotto Bagnoli a un inestricabile groviglio economico-giuridico-finanziario (con il fallimento di Bagnoli Futura, i suoli e le opere ivi costruite, che avrebbero dovuto appartenere alla città, diventati possibile preda dei creditori del fallimento, l’area della trasformazione sotto sequestro della magistratura, un processo in corso per omessa bonifica, opere demenziali realizzate, come la porta del parco, un ettaro di cemento armati, secondo alcuni persino di dubbia compatibilità con il piano comunale).
In secondo luogo, che solo se si riuscirà a fare massa critica sulle questioni di merito si potrà garantire che questo equilibrio (sempre precario, come la storia di Bagnoli dimostra), raggiunto oggi, possa essere effettivamente attuato e che l’attuazione vada avanti, con le opportune correzioni per garantire il pieno rispetto della legge del 1996 e del vincolo paesistico del 1999 (che blindano, di fatto, non solo le scelte strategiche della pianificazione comunale, ma che rappresentano un limite anche per i poteri dei commissari, in forza della supremazia dell’interesse paesistico, riconosciuto dalla costante giurisprudenza costituzionale).
Insomma, pare sia giunto il momento di tornare a discutere nel merito dei problemi. Per dirla in altri termini, è tempo si passare dalla farsa alla politica.
I molti buchi dell'accordo per Bagnoli. Il punto di vista di un movimento popolare che con tenacia, rigore e continuità si è battuto per anni, e continua a battersi per "Una spiaggia per tutti". La discussione è aperta
Non ci posso credere, spero di non sbagliarmi, ma l’accordo su Bagnoli sottoscritto oggi a Napoli fra il ministro De Vincenti e il sindaco de Magistris sembra un buon accordo...(segue)
Non ci posso credere, spero di non sbagliarmi, ma l’accordo su Bagnoli sottoscritto oggi a Napoli fra il ministro De Vincenti e il sindaco de Magistris sembra un buon accordo. Conferma le scelte di fondo del piano regolatore e del piano attuativo formati negli anni ormai lontani di Bassolino e rimaste impantanate per successivi errori e ripensamenti. Se davvero si smantellano i 20 ettari della colmata a mare (formata da loppe d’altoforno e altri materiali) che nell’ultimo mezzo secolo hanno deformato la linea di costa; se davvero non c’è nessuna riduzione della superficie del parco e nessun aumento di cubatura rispetto alle previsioni comunali; se davvero i tre chilometri della spiaggia di Coroglio sono restituiti alla balneazione; se davvero è stata recuperata la continuità fra il parco e la spiaggia; se finalmente si arretrano a monte di via Coroglio i volumi della Città della scienza da riscostruire dopo l’incendio del 2013: se queste cose sono vere, allora penso di poter tranquillamente dichiarare che siamo di fronte a un esito più che soddisfacente. Aggiungo subito che secondo me non tutto è risolto, a partire dalla localizzazione del porto a Nisida – ci torno in seguito – ma nel complesso un risultato importante è stato raggiunto e penso di poter dire che sono stati decisivi le opposizioni, le preoccupazioni e gli allarmi espressi negli ultimi tre anni per far capire al governo (prima Renzi, poi Gentiloni) che non c’erano le condizioni per mettere le mani su Bagnoli.
Resta ovviamente ferma la mia più netta opposizione al fatto che il governo nazionale s’intrometta nelle scelte urbanistiche dei comuni, un precedente pericolosissimo. E tanto più grave se si ricorda che la decisione di sottrarre al comune di Napoli la competenza urbanistica fa parte dell’orribile decreto Sblocca Italia voluto da Matteo Renzi nel 2014: “una minaccia per la democrazia e per il nostro futuro”, si legge sulla copertina di Rottama Italia, un librino a più mani di altraeconomia del 2015. L’art. 33 del decreto riguarda la bonifica e la rigenerazione urbana di Bagnoli. Ottima cosa che il governo decida di occuparsi direttamente della bonifica, materia di sua competenza, fino a quel momento condotta in modo pasticciato e poco trasparente. Ma la bonifica è solo un pretesto per estendere i poteri commissariali anche alla “rigenerazione urbana”, cioè all’urbanistica, un boccone prelibato per palazzinari e speculatori di ogni risma.
Il governo e i suoi ispiratori locali (il quotidiano Il Mattino, di proprietà Caltagirone, e gran parte del mondo degli affari) avevano però sottovalutato la forza e la capacità contestativa di Napoli. Cominciarono subito le proteste di movimenti radicati in particolare a Bagnoli (la manifestazione del 7 novembre 2014 fu violentemente attaccata dalla polizia). Dissentì Italia Nostra. Fiorirono comitati e associazioni contro il commissariamento, fu fondata una Costituente cittadina per Bagnoli verde, popolare, produttiva. Il sindaco de Magistris interruppe i rapporti con il governo e mise mano ai ricorsi, in parte accolti, per far dichiarare l’illegittimità, anche costituzionale, dello Sblocca Italia. Poi ha deciso di trattare, e mi pare che abbia saputo farlo.
Tutto ciò ha evidentemente indotto Renzi e Gentiloni a fare marcia indietro e spero che serva anche a far capire che è urgente indirizzare altrove l’azione governativa: imponendo finalmente un vero stop al consumo del territorio, varando energici provvedimenti per la difesa del suolo e del paesaggio (devastati prima dagli incendi, poi dalle alluvioni) e contro l’abusivismo (giustificato invece dalla regione Campania).
Torniamo all’accordo firmato oggi. Dicevo che non mi convince il porto turistico a Nisida, luogo favoloso che non può continuare a essere snaturato dal turismo nautico, pianificato o abusivo che sia. Se Bagnoli è il posto più bello del mondo (è una recente definizione di Romano Prodi), Nisida è il nocciolo di quella bellezza. Infine, manca negli accordi l’importante capitolo delle infrastrutture, in particolare dell’accessibilità su ferro, di cui il presidente De Luca ha chiesto lo stralcio e l’argomento è rinviato a un prossimo incontro. Questo perciò è solo un primo parziale commento, ci sarà tempo e modo di sviluppare un’sviluppareun’approfondita discussione di merito nelle prossime settimane.
(19 luglio 2017)
Il programma di questo presunto centrosinistra sardo è di applicare proprio ilsistema berlusconiano degli aumenti di volume in percentuale fissa (che premiacon maggiori quantità di cemento i fabbricati più ingombranti) a tutte lestrutture ricettive, belle o brutte, piccole o enormi, presenti o future,compresi ipotetici hotel non ancora esistenti. Unaderegulation edilizia in aperto contrasto con la legge salva-coste approvatadieci anni fa dall’allora governatore Renato Soru e dal suoassessore all’urbanistica Gianvalerio Sanna, cioè con una riforma targata Pdche nel frattempo è stata presa a modello da una generazione di studiosi,architetti, urbanisti e amministratori pubblici non solo italiani.
Sulla carta avrebbe dovuto trattarsi della nuovalegge urbanistica che la Sardegna attendeva da un decennio per completare lariforma di Soru, con impegni precisi: stop all’edilizia speculativa, obbligoper tutti i comuni di rispettare limiti chiari anche fuori dalla fasciacostiera, per difendere tutto il territorio, fermare il consumo di suolo efavorire il recupero o la ristrutturazione dei fabbricati già esistenti.All’articolo 31, però, spunta il colpo di spugna:«al fine di migliorare qualitativamente l’offerta ricettiva», siauto-giustifica il testo di legge, «sono consentiti interventi diristrutturazione, anche con incremento volumetrico, delle strutture destinateall’esercizio di attività turistico-ricettive».
Il concetto chiave è l’incremento volumetrico: la norma approvatadall’attuale giunta di centrosinistra, proprio come il piano-casa del governoBerlusconi, autorizza aumenti di cubatura del 25 cento «anche in deroga aglistrumenti urbanistici» in vigore, compresa la legge salvacoste. Insomma, sesiete in vacanza in una spiaggia immacolata della Sardegna, fatevi un belbagno: potrebbe essere l’ultimo.
Hotel, alberghi, pensioni, residence,multiproprietà e lottizzazioni turistiche di ogni tipo vengono infattiautorizzati non solo a gonfiarsi di un quarto, cementificando nuovi pezzi dicosta, ma anche a sdoppiarsi, spostando gli aumenti di volume in «corpi difabbrica separati». «In pratica si può costruire un secondo hotel o residencein aggiunta al primo anche nella fascia costiera in teoria totalmenteinedificabile», denuncia l’avvocato Stefano Deliperi, presidente del Gruppod’intervento giuridico (Grig), che per primo ha lanciato l’allarme. «Ma nonbasta: i nuovi aumenti di volume si possono anche sommare agli incrementiautorizzati in passato, ad esempio con il piano casa o con le famigerate 235deroghe urbanistiche che furono approvate tra il 1990 e il 1992 dall’alloragiunta sarda», sottolinea il legale, che esemplifica: «Un hotel di 30 milametri cubi che deturpa una spiaggia, per effetto dei due aumenti cumulativi del25 per cento ciascuno, sale quasi a quota 50 mila: per l’esattezza, si arriva a46.875 metri cubi di cemento».
Il 13 luglio il Consiglio Comunale ha approvato a grande maggioranza l’Accordo di Programma sugli Scali Ferroviari. Milano ha “venduto”(segue)
Il 13 luglio il Consiglio Comunale ha approvato a grande maggioranza l’Accordo di Programma sugli Scali Ferroviari. Milano ha “venduto”, come ha amaramente commentato Luca Beltrami Gadola (secondo altre autorevoli opinioni, addirittura ‘svenduto’) alle Ferrovie dello Stato le aree che, per localizzazione e superficie, costituivano una cruciale risorsa strategica per la rigenerazione e la riqualificazione urbana. Non si trattava infatti di friches (aree dismesse periferiche, inaccessibili, di modesto valore), ma di vere jachères: suoli preziosi da rigenerare attraverso un piano e una regia pubblica ferma, ‘lasciandoli a riposo’ tutto il tempo necessario per definirne una coerente e precisa destinazione funzionale in un quadro di strategie lungimiranti per Milano e la sua regione urbana. D’altra parte il PGT è in revisione: quale occasione migliore si sarebbe potuta cogliere per ripensare il discutibilissimo modello negoziale con il quale negli ultimi decenni si è realizzata a Milano la trasformazione urbana?
Grazie al silenzio acquiscente del sindaco (assente alla votazione!) e alla determinazione dell’assessore all’urbanistica Maran che aveva già deciso a favore del proprietario sin dall’inizio del suo mandato; grazie al supporto ‘tecnico-scientifico’ dei corifei zelanti del mondo delle professioni e dell’accademia, tutti uniti appassionatamente nelle chiacchiere sulla “occasione storica” e “sulla partecipazione entusiastica dei cittadini”; grazie alla sudditanza della stampa che racconta sempre quello che gli operatori immobiliari si aspettano che venga propinato ai cittadini, si apre ora una fase di drammatica incertezza. Perché questo accordo, così squilibrato e sleale, darà luogo sicuramente a ricorsi contro il Comune e la Regione.
Come è stato sottolineato su Arcipelago Milano da molti - giuristi, economisti e urbanisti come ad esempio Roccella, Camagni, Battisti – l’ADP ha dei punti di debolezza gravissimi: ampia sottovalutazione, peraltro condivisa da tutti gli attori, delle plusvalenze che secondo il rinnovato art.16.4 del Testo Unico sull’edilizia dovrebbero essere attribuite almeno al 50% al Comune; vantaggi minimi per la collettività e, soprattutto, per le fasce più deboli; realizzazione, con le poche plusvalenze riconosciute al Comune, di infrastrutture ferroviarie che dovrebbero essere di competenza finanziaria delle FS; nessun impegno esplicito in capo a FS a realizzare la Circle-line sull’anello ferroviario. E tutto ciò, come dicevo, in barba alla nuova legge nazionale che impone un “contributo straordinario” sulle varianti urbanistiche, attraverso sconti non giustificabili e, soprattutto, non giustificati sulle prevedibili plusvalenze: un regalo al proprietario privato (o meglio: che agisce come privato) che potrebbe configurare un danno erariale da parte degli amministratori e dei consiglieri comunali nei confronti della cittadinanza.
L’unico grande assente in questa ennesima vicenda di totale asservimento agli interessi privati (perché di questo si tratta, malgrado i terreni siano di proprietà delle Ferrovie dello Stato) è stato l’attore pubblico che avrebbe dovuto svolgere un ruolo strategico fondamentale: la Città Metropolitana. Provate a entrare nel sito del ‘grande assente’ (et pour cause, visto che grazie alla legge Delrio, ormai definitivamente delegittimata dall’esito del referendum sulla riforma della Costituzione, ha poco potere e irrisorie risorse; ma anche perché governano la Città Metropolitana di Milano amministratori inerti, afasici, che sembrano pienamente condividere logiche tutte milanocentriche.
Nel tristissimo portale della città metropolitana (www.cittametropolitana.mi.it) non si trova alcun cenno, e men che meno un link, dedicato agli scali milanesi; come se non esistesse il problema, davvero cruciale, degli effetti prevedibili di ulteriore banalizzazione dell’hinterland una volta che le visioni e i grandi progetti avranno assolto al loro compito precipuo, che non è di garantire più qualità, vivibilità e soprattutto inclusione, ma di attrarre investitori internazionali nel cuore della regione metropolitana.
Ogni paragone con i percorsi partecipati e i processi di autentica integrazione territoriale avviati nelle Métropoles francesi dall’anno della loro istituzione (la legge MATPAM è stata approvata nel 2014, come la Delrio) sarebbe frustrante, e persino un po’ umiliante.
Non è dunque casuale che la “Festa Metropolitana”, già Festa de l’Unità, del PD in corso a Milano dall’8 al 23 luglio nell’ex scalo Farini, abbia scelto quest’anno come tema della auspicata kermesse lo slogan “Oggi Milano, domani Lombardia”, pur trattandosi appunto di una festa metropolitana. Un tema forse incomprensibile ai più, ma certamente non ai due convitati/conniventi dell’ODP sugli Scali ferroviari (il Comune e la Regione appunto). La festa si svolge nell’ex scalo Farini: «una location (sic!) scelta appositamente poiché nei prossimi anni, insieme ad altri scali ferroviari cittadini, sarà al centro di un importante piano di riqualificazione». In effetti, si tratta dell’area dismessa più ampia fra quelle in gioco, sulla quale potrebbero atterrare nel prossimo futuro non uno soltanto, ma un grappolo di Boschi Verticali.
Nel programma sono previsti incontri e dibattiti su una congerie eterogenea di temi, alcuni anche interessanti e con relatori pertinenti. Manca però un momento dedicato a una riflessione sull’urbanistica negoziata ‘alla milanese’, sostituito invece, dulcis in fundo, da un dibattito programmato per il tardo pomeriggio del 23 luglio e con la partecipazione dell’assessore all’urbanistica Maran su “La riqualificazione degli scali ferroviari”.
Per concludere in bellezza la Festa Metropolitana, nelle ultime giornate sono attesi i relatori ‘più prestigiosi’- fra cui Martina, Minniti, Lotti, Pinotti, Boschi e forse (a sorpresa!) Renzi. Ma c’è un problema considerevole: finora la festa non ha attratto i milanesi, come testimoniano le foto scattate domenica 17 luglio alle 19! Un flop colossale che ha anche penalizzato i malcapitati venditori di street food che hanno dovuto pagare un affitto salato e non hanno visto l’ombra di un avventore!
Ma che importa se il popolo della sinistra non partecipa? Il futuro dello scalo Farini e di tutti gli altri scali si annuncia comunque radioso.
il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2017 (p.d.)
«Lo storico impianto di Milano è abbandonato da quattro anni e sull’area si scatenano gli appetiti immobiliari. Braccio di ferro in corso tra Palazzo Marino e Pirellone sulla proposta di vincolo». il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2017 (p.d.)
l'Espresso, 15 luglio 2017 (c.m.c.)
Il Pd di Berlusconi, pardon, il Pdl ha varato nel 2009 il famoso piano casa: più cemento per tutti, senza regole e senza piani urbanistici, sfruttando un sistema di aumenti automatici di volume per la massa dei fabbricati esistenti. Ora la giunta del Pd che governa la Sardegna progetta un inatteso bis, sotto forma di piano alberghi: via libera con un'apposita legge a nuove costruzioni turistiche, ecomostri compresi, perfino nella fascia costiera finora considerata inviolabile, cioè spiagge, pinete, scogliere e oasi verdi a meno di trecento metri dal mare.
Il programma di questo presunto centrosinistra sardo è di applicare proprio il sistema berlusconiano degli aumenti di volume in percentuale fissa (che premia con maggiori quantità di cemento i fabbricati più ingombranti) a tutte le strutture ricettive, belle o brutte, piccole o enormi, presenti o future, compresi ipotetici hotel non ancora esistenti. Una deregulation edilizia in aperto contrasto con la legge salva-coste approvata dieci anni fa dall'allora governatore Renato Soru e dal suo assessore all'urbanistica Gianvalerio Sanna, cioè con una riforma targata Pd che nel frattempo è stata presa a modello da una generazione di studiosi, architetti, urbanisti e amministratori pubblici non solo italiani.
La contro-riforma odierna è nascosta tra i cavilli del disegno di legge approvato il 14 marzo scorso dalla giunta regionale presieduta da Francesco Pigliaru, il professore di economia eletto nel 2014 alla testa del Pd. La normativa ora è all'esame finale della commissione per il territorio: l'obiettivo della maggioranza è di portare in consiglio regionale un testo blindato, da approvare in tempi stretti, senza modifiche, subito dopo l'estate.
Sulla carta avrebbe dovuto trattarsi della nuova legge urbanistica che la Sardegna attendeva da un decennio per completare la riforma di Soru, con impegni precisi: stop all'edilizia speculativa, obbligo per tutti i comuni di rispettare limiti chiari anche fuori dalla fascia costiera, per difendere tutto il territorio, fermare il consumo di suolo e favorire il recupero o la ristrutturazione dei fabbricati già esistenti.
All'articolo 31, però, spunta il colpo di spugna: «al fine di migliorare qualitativamente l'offerta ricettiva», si auto-giustifica il testo di legge, «sono consentiti interventi di ristrutturazione, anche con incremento volumetrico, delle strutture destinate all'esercizio di attività turistico-ricettive». Il concetto chiave è l'incremento volumetrico: la norma approvata dall'attuale giunta di centrosinistra, proprio come il piano-casa del governo Berlusconi, autorizza aumenti di cubatura del 25 cento «anche in deroga agli strumenti urbanistici» in vigore, compresa la legge salvacoste. Insomma, se siete in vacanza in una spiaggia immacolata della Sardegna, fatevi un bel bagno: potrebbe essere l'ultimo.
Hotel, alberghi, pensioni, residence, multiproprietà e lottizzazioni turistiche di ogni tipo vengono infatti autorizzati non solo a gonfiarsi di un quarto, cementificando nuovi pezzi di costa, ma anche a sdoppiarsi, spostando gli aumenti di volume in «corpi di fabbrica separati». «In pratica si può costruire un secondo hotel o residence in aggiunta al primo anche nella fascia costiera in teoria totalmente inedificabile», denuncia l'avvocato Stefano Deliperi, presidente del Gruppo d'intervento giuridico (Grig), che per primo ha lanciato l'allarme. «Ma non basta: i nuovi aumenti di volume si possono anche sommare agli incrementi autorizzati in passato, ad esempio con il piano casa o con le famigerate 235 deroghe urbanistiche che furono approvate tra il 1990 e il 1992 dall'allora giunta sarda», sottolinea il legale, che esemplifica: «Un hotel di 30 mila metri cubi che deturpa una spiaggia, per effetto dei due aumenti cumulativi del 25 per cento ciascuno, sale quasi a quota 50 mila: per l'esattezza, si arriva a 46.875 metri cubi di cemento».
L'ex presidente della Regione, Renato Soru, spiega all'Espresso di essere «molto preoccupato per la cecità di una classe dirigente che sta mettendo in pericolo il futuro della Sardegna». «Con l'assessore Sanna eravamo partiti da una constatazione pratica», ricorda Soru: «Grazie ad anni di studi e ricerche abbiamo potuto far vedere e dimostrare che più di metà delle coste della Sardegna, parlo di circa 1.100 chilometri di spiagge, erano già state urbanizzate e cementificate. Di fronte a una situazione del genere, in una regione come la nostra, qualsiasi persona di buonsenso dovrebbe capire che i disastri edilizi del passato non devono più ripetersi.
Oggi tutti noi abbiamo il dovere morale e civile di difendere un territorio straordinario che è la nostra più grande risorsa e la prima attrattiva turistica: le bellissime spiagge della Sardegna sono la nostra vera ricchezza, che va conservata e protetta per le generazioni future. Per questo la nostra legge prevede una cosa molto semplice e logica: nella fascia costiera non si costruisce più niente. Zero cemento, senza deroghe e senza eccezioni per nessuno. E in tutta la Sardegna bisogna invece favorire la riqualificazione dell'edilizia esistente, il rifacimento con nuovi criteri di troppe costruzioni orrende o malfatte. Quindi via libera alle ristrutturazioni, alle demolizioni e ricostruzioni, al risparmio energetico. Con regole certe e uguali per tutti, perché l'edilizia in Italia può uscire veramente dalla crisi solo se viene tolta dalle mani della burocrazia e della politica».
A questo punto Soru confessa di essere uscito dai palazzi della regione, alla fine della sua presidenza, proprio «a causa dei continui scontri sull'urbanistica». E dall'altra parte della barricata, a tifare per il cemento, non c'era solo il centrodestra, ma anche «quella parte del Pd che ora è al potere». Da notare che Soru, per eleganza o per imbarazzo, evita di fare il nome dell'attuale presidente, anche se sarebbe legittimato ad accusarlo di tradimento politico, visto che Pigliaru era stato suo assessore ai tempi della legge salva-coste.
Oggi però lo stop al cemento sulle spiagge più belle d'Italia rischia di trasformarsi in un bel ricordo. Gli avvocati del Grig hanno già catalogato «ben 495 strutture turistico-ricettive della fascia costiera che potrebbero approfittare dell'articolo 31. Stiamo parlando di milioni di metri cubi di cemento in arrivo», rimarca Deliperi, evidenziando che il disegno di legge ha una portata generale, per cui si applica anche, anzi soprattutto alle strutture più contestate, quelle che si sono meritate l'epiteto di ecomostri. Come il residence-alveare "Marmorata" di Santa Teresa di Gallura, l'albergone "Rocce Rosse" a picco sugli scogli di Teulada, la fallimentare maxi-lottizzazione turistica "Bagaglino" a ridosso delle spiagge di Stintino, i turbo-hotel "Capo Caccia" e "Baia di Conte" ad Alghero e troppi altri. Il premio percentuale infatti non dipende dalla qualità del fabbricato, ma dalla cubatura: più l'ecomostro è grande, più è autorizzato a occupare terreno vergine con nuove colate di cemento.
Il progetto di legge, per giunta, equipara agli alberghi da allargare, e quindi trasforma in volumi gonfiabili di cemento, addirittura le «residenze per vacanze», sia «esistenti» che ancora «da realizzare», cioè quelle montagne di seconde case che restano vuote quasi tutto l'anno, arricchiscono solo gli speculatori edilizi, ma deturpano per sempre il paesaggio. Con la nuova dirigenza del Pd, insomma, il vecchio piano casa è diventato un piano seconde case, secondi alberghi e seconde lottizzazioni. E tutto questo in Sardegna, la regione-gioiello che tra il 2004 e il 2006 aveva saputo cambiare il clima politico e culturale sull'urbanistica, spingendo decine di amministrazioni locali di mezza Italia a imitare la legge Soru, fermare il consumo di suolo e limitare finalmente uno sviluppo edilizio nocivo e insensato.
Gianvalerio Sanna, l'ex assessore regionale oggi relegato a fare politica nel suo comune d'origine, ama parlar chiaro: «Questo disegno di legge è una vera porcata. La giunta del Pd sta facendo quello che non era riuscito a fare il governo di centrodestra. Le nostre norme, ancora in vigore, favoriscono con incentivi e aumenti di volume solo la demolizione e lo spostamento dei fabbricati fuori dalla fascia costiera dei 300 metri. Questo vale già adesso anche per gli alberghi e i campeggi. Per allargarli e rimodernarli con criterio non c'è nessun bisogno di cementificare le spiagge».
I dati sono allarmanti già oggi. «Le coste della Sardegna sono invase da oltre 210 mila seconde case: appartamenti sfitti, che mediamente restano disabitati per 350 giorni all'anno», enumera Sanna: «Il nostro obiettivo, condiviso da migliaia di cittadini che proprio per questo hanno votato Pd alle elezioni regionali, era di liberare dal cemento, gradualmente e armonicamente, tutta la zona a mare, che è la più preziosa. La nuova giunta sta facendo il contrario. L'edilizia è tornata merce di scambio: il piano casa, che fu giustificato da Berlusconi come rimedio eccezionale contro la crisi dell'edilizia, diventa la norma. La deroga diventa la regola. Così la politica si mette al servizio delle grandi lobby, degli interessi di pochi, a danno della cittadinanza e di tutte le persone che amano la Sardegna».
Quando allude a scambi, Sanna non usa parole a caso. Nella minoranza del Pd rimasta fedele a Soru sono in molti a evidenziare una singolare coincidenza: la controriforma urbanistica sta nascendo proprio mentre gli sceicchi del Qatar, i nuovi padroni miliardari della Costa Smeralda, annunciano l'ennesima ondata di progetti edilizi per super ricchi, per ora bloccati proprio dalla legge Soru. Per ingraziarsi la classe politica sarda, lo stesso gruppo arabo ha comprato dal crac del San Raffaele anche il cantiere fallimentare del nuovo ospedale di Olbia. E ora gli sceicchi sembrano aspettarsi che i politici, in cambio, aboliscano proprio i vincoli ambientali sulla costa.
«Con questa legge vergognosa il presidente Pigliaru sta contraddicendo anche se stesso», commenta amaramente Maria Paola Morittu, la combattiva avvocata di Cagliari che oggi è vicepresidente nazionale di Italia Nostra: «Per smentire la sua giunta, al professor Pigliaru basterebbe rileggere le proprie pubblicazioni accademiche, in cui scriveva e dimostrava che il consumo di suolo è disastroso non solo per l'ambiente, per il paesaggio, ma anche per lo sviluppo economico».
Carte alla mano, l'avvocata di Italia Nostra e il suo collega Deliperi passano in rassegna la successione di leggi edilizie della Sardegna, per concludere che oggi il Pd sardo sta facendo indietro tutta. La buona urbanistica insegna come e dove costruire case sicure in luoghi vivibili senza distruggere il territorio. In Italia se ne parla solo quando si contano le vittime evitabili di alluvioni, frane, valanghe, terremoti e altri disastri che di naturale hanno solo le cause immediate.
In Sardegna, dopo decenni di edilizia selvaggia, la legge Soru e il conseguente piano paesaggistico regionale – studiato da un comitato tecnico-scientifico presieduto da Edoardo Salzano, un gigante dell'urbanistica – hanno fissato per la prima volta due principi fondamentali: basta cemento a meno di 300 metri dal mare; solo edilizia regolata e limitata in tutta la restante fascia geografica costiera, che di norma si estende fino a tre chilometri dalle spiagge. «In campagna elettorale il Pd guidato da Pigliaru aveva promesso di estendere la legge Soru a tutta la Sardegna, obbligando anche i comuni interni ad applicare i piani paesaggistici», osservano desolati i due avvocati. Passate le elezioni, il vento è cambiato.
In Italia, prima della recessione, venivano cementificati a norma di legge oltre 45 milioni di metri quadrati di terra all'anno. Nel 2015, nonostante la crisi, si è continuato a costruire nuovi appartamenti e capannoni per oltre 12 milioni di metri quadrati (dati Istat). «Con la legge salvacoste la Sardegna ha saputo lanciare un nuovo modello di sviluppo sostenibile», rivendica Soru. Ora la grande retromarcia della giunta seduce le lobby dei grandi albergatori, che organizzano convegni esultanti contro «l'ambientalismo che danneggia il turismo». Resta però da capire se, alle prossime elezioni, la maggioranza dei cittadini sardi si fiderà ancora di un Pd che imita il berlusconismo, col rischio di riabilitaro
Sentire, nella lingua italiana, tra gli altri significati che lo riconducono a quello di avvertire una sensazione, ha anche quello delle sensazioni colte col senso dell’udito: sentiamo rumori, sentiamo parole, sentiamo suoni. Un atteggiamento passivo.
Ascoltare è tutt’altro. Ascoltare vuol dire due cose essenzialmente, udire con attenzione ma anche accettare consigli, suggerimenti, cogliere pensieri altrui. Ascoltare in tutte le sue accezione è un atteggiamento attivo.In un Paese democratico i cittadini hanno libertà di parola, possono farsi sentire, è un loro diritto ma non sempre ne hanno gli strumenti necessari. In un Paese democratico il “potere” ha il dovere di ascoltare. Se non si ascolta non c’è democrazia, meno ascolto meno democrazia. Che altro?
In un Paese democratico il potere ha anche il dovere di rispondere quando viene interpellato. Certo il potere chiede di essere interpellato nelle forme e nelle sedi previste dai regolamenti ma vi sono anche interrogativi sollevati in altre sedi e pure di questi va tenuto conto. Sugli scali nessuna risposta a fronte di tante domande “fuori sede”.L’irritazione degli inascoltati si coagula attorno ad iniziative di contrasto destinate a percorrere vie giudiziarie spesso coronate da successo soprattutto nel nostro Paese, tanto attento più alle forma che alla sostanza: ci sono appigli per tutti.
Perche non ascoltare? Chi è, se c’è, l’anima nera in questa vicenda? Chi suggerisce di non ascoltare? Milano ha dunque la sua Aracne?
Il dito, la luna e il sindaco Sala – Lette le carte della Procura il sindaco Sala dichiara: ” Mi sembra tutto molto trasparente, il Consiglio di amministrazione ha approvato il tutto” e a seguire il suo avvocato Salvatore Scuto: “Tutta l’azione da lui svolta è stata improntata alla più assoluta trasparenza”. La domanda preliminare resta un’altra: lo scorporo della fornitura del verde dall’appalto della piastra per come è stata fatta rispetto al codice degli appalti è un atto legittimo? E ancora: quali sono le ragioni dello scorporo? Nell’interesse di chi si è proceduto alla scorporo? Se è vero, come appare dai giornali, che a scorporo avvenuto non vi è stata riduzione dell’ammontare dell’appalto principale, lo scorporo è doloso in quanto non solo costituisce illecito arricchimento dell’appaltatore ma danno evidente per il committente.
Se dunque nella vicenda dello scorporo vi è stato dolo, il fatto che una decisione dolosa sia stata presa non solo da un singolo ma da un intero consiglio di amministrazione di una SpA pubblica, regolarmente trascritta nei verbali di Consiglio e dunque”trasparente”, non sposta di una virgola il vero quesito: fu un atto legittimo? Non inquinato da pressioni esterne e fatto nell’esclusivo interesse pubblico? La trasparenza di un atto non ne legittima la correttezza. Se poi tutti i consiglieri hanno approvato l’atto risultato doloso potrebbe persino configurarsi l’associazione a delinquere. Se poi non vi fu dolo ma solo “leggerezza” dovremo parlare di danno erariale.
Dalle carte della Procura emerge comunque uno spaccato della società che ruotava attorno a Expo 2015 molto si avvicina al “mondo di mezzo” di Mafia Capitale. La visita negli uffici di Expo di Greganti e Frigerio la dicono lunga e avrebbero dovuto essere un campanello d’allarme. Da chi siano andati ancora non si sa. Chi aveva l’obbligo di garantire con ogni mezzo la legalità delle procedure e la lealtà e onestà dei propri collaboratori?
Un convincente commento critico a due vicende di ‘malaurbanistica’ che non sembrano intaccare le certezze della gioiosa macchina da guerra dell’amministrazione milanese: la approvazione dell’Accordo di Programma sugli scali ferroviari, ormai in dirittura di arrivo malgrado le numerose voci che si sono levate contro la cementificazione delle ultime grandi risorse territoriali disponibili nel cuore della Città Metropolitana di Milano; e la vicenda giudiziaria del sindaco Sala la quale, al di là degli esiti, lo delegittima agli occhi dei cittadini consapevoli, di chi ha a cuore il bene comune e non gli interessi degli immobiliaristi.
Nel frattempo, dall’8 al 23 luglio, è in corso alle scalo Farini la “Festa metropolitana” del PD, dall’incomprensibile titolo “Oggi Milano, domani Lombardia”. Insomma, già dal titolo si evince che, in questa sedicente ‘Festa metropolitana’, agli amministratori e responsabili politici del PD della Città Metropolitana non importa nulla; ma delle occasioni di speculazione immobiliare molto. E infatti, Pietro Bussolati, segretario del Partito Democratico di Milano, nella enfatica e trionfalistica pagina introduttiva al calendario della Festa, scrive: “Dopo lo scalo di Porta Romana dell’anno scorso, quest’anno è la volta dello scalo Farini, oggi un fantastico sito di archeologia industriale, destinato a diventare il terzo parco – per estensione – della città, che ospiterà verde, spazi di aggregazione, terziario e social housing. La riqualificazione degli scali cambierà il volto urbanistico di Milano e il progetto è il simbolo di una città che corre verso l’innovazione”. Peccato che la festa sia totalmente disertata dai cittadini. Ma nelle giornate conclusive sono previsti anche alcuni oratori illustri che certamente ne risolleveranno le sorti: Luca Lotti, Stefano Boeri, Marco Minniti, Roberta Pinotti e Maria Elena Boschi.
Baro s. m. (prob. dalla forma di nominativo del lat. baro -onis «briccone, cialtrone»).– Chi bara al gioco delle carte, e in genere truffatore, imbroglione.(Dizionario Treccani). Definizione che si attaglia perfettamente al governo Renzi-Gentilonie al Ministro Gian Luca Galletti..(segue)
Se a prima vista tali progetti possono sembrare un positivo progresso per la sostituzione dell'approvvigionamento energetico dalle fonti fossili a quelle rinnovabili, un esame più attento ne mostra pesanti criticità, insostenibili per l'ambiente: gli impianti andrebbero a ricoprire oltre 570 ettari complessivi di suoli attualmente in uso all'agricoltura o all'ambiente naturale, areale che inoltre andrebbe sottoposto a una irreversibile trasformazione geomorfologica per ospitare le opere, tra imponenti sbancamenti per l'appianamento in vasti terazzamenti, e gli scavi per le fondazioni di tipo profondo.
Esplicitiamo i problemi: la conversione di terreni da agricoli-naturali in urbani-industriali realizza la perdita di un'importantissima matrice ambientale, il suolo: le dimensioni della perdita di suolo nel mondo, in Europa, in Italia e anche in Sardegna, rappresentano un'ulteriore drammatica emergenza ambientale alla quale da tempo si cerca di dare risposte anche a livello legislativo; tuttavia resta ancora poco nota e poco compresa rispetto ad altre, come il cambiamento climatico, mentre la perdita dei suoli potrebbe essere un processo addirittura più difficilmente reversibile: infatti per generare uno spessore di suolo di pochi centimetri sono necessarie diverse centinaia di anni, qualunque azione mettiamo in campo, mentre un comportamento virtuoso dell'umanità a partire da adesso, potrebbe ripristinare un clima ante-crisi in poco più di un secolo, secondo gli studi. Nel caso di specie, gli areali richiesti rappresentano l'estensione di una cittadina di 50-70000 persone con media densità abitativa, creata ex-novo in tre aree da 227, 269 e 70 ettari, più servizi connessi.
Perché tali suoli sono così importanti, anzi preziosi, qui in Sardegna? Perché la Sardegna ha pochi suoli profondi, mentre il clima spesso siccitoso rende poco produttive le vaste estensioni rocciose, i monti e i colli acclivi che caratterizzano una buona parte dell'isola. Questi impianti porterebbero con sé altre criticità, ne citiamo brevemente alcune: problemi per la circolazione delle acque superficiali e sotterranee, problemi più generali di assetto idrogeologico, problemi per la fauna, problemi di pianificazione territoriale per i comuni coinvolti, nonché l'esproprio dei terreni per allevatori, agricoltori, e le aziende agricole e zootecniche presenti!
A fronte di ciò, va ribadito che il passaggio dai combustibili fossili alle energie che provengano da fonti che siano, allo stesso tempo, rinnovabili e sostenibili, va attuato il più velocemente possibile, con i mezzi già oggi disponibili sul mercato, senza aggiungere ulteriori danni ambientali come quelli che apporterebbero questi impianti, mal collocati, mal programmati, insufficientemente progettati, che approfittano dell'etichetta di “rinnovabile”: valida però per la fonte energetica, il sole, e non per tutte le altre matrici ambientali coinvolte, che verrebbero perse una volta e per sempre. Gli impianti in questione inoltre sono di tipo ibrido, ovvero nei periodi in cui non è possibile l'utilizzo degli specchi o di insufficiente insolazione o durante i fermi programmati, per la produzione energetica interverranno come vicarianti gli impianti a combustibili fossili. Rispetto alla tecnologia odierna i CSP non rappresentano più proposte d'avanguardia per il prossimo futuro ma strumenti già superati e legati al passato: l'unico vantaggio che il CSP presentava rispetto alle altre fonti rinnovabili, era la possibilità di erogare energia anche in assenza d'insolazione, distaccandosi quindi in parte dall'aleatorietà della fonte, ma oggi sono disponibili sul mercato nuovi sistemi d'immagazzinamento dell'energia altrettanto o anche più efficienti del CSP.
Sui due progetti più impattanti sono stati chiamati a esprimersi il Ministero dell'Ambiente (MATTM) e quello dei Beni Culturali (MiBACT), che hanno dato parere divergente sull'argomento, sarà quindi deciso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Proprio il Ministero dell'Ambiente ha dato parere positivo per entrambi i progetti, tramite un proprio organo che si esprime a maggioranza (la Commissione Tecnica di Valutazione di Impatto Ambientale) composto da diverse figure professionali: da una disamina delle competenze si rileva che nell'insieme compongono un assortimento non commisurato alla valutazione di impatti di questa portata. Tuttavia tali pareri positivi sono stati emessi, benché condizionati da prescrizioni e richieste di adempimenti obbligatori, difficilmente realizzabili, anche preliminari agli impianti; adempimenti che appaiono piuttosto stringenti, ma, come dimostrano tanti casi, compreso il caso Fluorsid, la procedura dei controlli è sempre piuttosto lasca, e le eventuali mancanze sono sanzionate con poco; inoltre, seppure accadesse il caso fantascientifico che si comminasse la sanzione del blocco del progetto, a lavori iniziati il ripristino dello stato dei luoghi sarebbe virtualmente impossibile. In altri termini: gli adempimenti richiesti non sono effettivi, appaiono più un “coprirsi le spalle” da parte della Commissione VIA.
Per progetti di così ampia portata sarebbe stato d'uopo che il Ministero dell'Ambiente chiedesse una consulenza direttamente a un suo istituto che da anni si occupa per l'appunto anche delle ricerche e dei controlli sull'ambiente e sui suoli, pubblicando annualmente un interessante rapporto sul consumo dei suoli in Italia completato da saggi divulgativi: è proprio quell'ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) chiamato in causa anche in questi ultimi giorni per l'affare Fluorsid (l'Istituto ha svolto sull'impianto controlli concordati, e non a sorpresa, trovando tuttavia elementi di illegittimità ai quali non si diedero però conseguenze reali): tuttavia tale ente non è stato coinvolto dal Ministero nelle valutazioni relative ai progetti. Per evitare però che tale Istituto possa negare di essere a conoscenza di quanto è in ballo, si è deciso di inviare all'ISPRA delle comunicazione ufficiali: per impulso del comitato scrivente da gennaio più comitati e associazioni, nonché singoli, hanno inviato mail e PEC (Posta Elettronica Certificata) ai vertici dell'Istituto, e infine il 23 maggio 2017 una PEC è stata indirizzata ai vertici dell'ente, cioè al Commissario pro tempore prof. Bernardo De Bernardinis, al Direttore Generale e nuovo presidente designato dott. Stefano Laporta, ma anche, per conoscenza, a tutta la dirigenza dei vari dipartimenti dell'ente, in particolare ai dipartimenti dell'ente che si occupano della salvaguardia e monitoraggio del suolo, nonché alla Presidenza del Consiglio e al MATTM; la comunicazione è stata firmata da cittadini (tra cui vari proprietari dei terreni coinvolti e di aziende agro-zootecniche), professionisti, comitati e associazioni. Finora dall'ente nessuna risposta: ci si augura che abbia almeno messo in campo qualche azione, e che le professionalità al suo interno non contraddicano quanto affermato nei vari scritti ed eventi divulgativi.
Ci si potrebbe domandare se all'ISPRA sia riconosciuta la capacità esprimersi autonomamente oltre l'impulso ministeriale: ebbene sì, sia secondo lo Statuto dell'ISPRA (promulgato con Decreto Interministeriale 28 dicembre 2013), vedi comma 1 dell'art. 1, art. 2 c.1, c.3, c.4, nonché nella recente legge 132/2016 istitutiva del Sistema nazionale a rete per la protezione dell'ambiente, entrata in vigore il 14.01.2017, del quale l'ISPRA fa parte perfino con la qualità di coordinatore delle agenzie regionali e varie: dice la legge all'art. 4 comma 3 che: “L'ISPRA svolge funzioni tecniche e scientifiche […] sia a supporto del Ministero […], sia in via diretta tramite attività di monitoraggio, di valutazione, di controllo, di ispezione […].”: “Per quanto attiene alle attività conoscitive ed ai compiti di controllo, monitoraggio e valutazione, l'Istituto [...] svolge, direttamente e [...con altri enti...], attività di monitoraggio e controlli ambientali [...]”. Anche il Dott. Stefano Laporta, presidente designato dell'ISPRA dalla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, nell'audizione di candidatura presso la Commissione marca l'orientamento verso l'autonomia dell'Istituto dal Ministero.
Si noti infine che all'art. 2 c.5b dello statuto dell'ISPRA, all'ente vengono assegnati anche compiti di consulenza strategica e assistenza tecnica e scientifica verso altre amministrazioni dello Stato nonché le regioni, quindi la Regione avrebbe potuto chiamarlo in causa per una consulenza scientifica sulla vicenda (può farlo ancora per irrobustire il rigetto già ampiamente espresso in sede di valutazione di impatto ambientale, anche corroborato dai restanti enti e servizi che fanno capo alla stessa Regione, finanche dai comuni coinvolti), consulenza che verosimilmente avrebbe necessariamente cambiato il parere espresso dalla CTVIA. Ora l'ISPRA dovrebbe solo mettere in pratica quanto gli è prescritto e consentito, nonché quanto gli dovrebbe appartenere come “spirito”, per puro orgoglio professionale e dirittura morale dei suoi dipendenti, ed esaminare con cura la problematica di questi oltre 570 ettari complessivi destinati a diventare tre nuove zone industriali, assolutamente non necessarie, invise e osteggiate dalle comunità nelle quali dovrebbero essere insediate.
La questione della valutazione dei progetti, che scorre sotterranea mentre si sviluppano i processi decisionali, è tornata d'attualità il 5 luglio scorso, a seguito dell'interrogazione del parlamentare Roberto Capelli al ministro Galletti sull'argomento; l'interrogazione è stata incentrata solo su uno degli impianti a esame ministeriale, inoltre si è limitata a interpellare il parere del ministro, che, come ampiamente previsto, non poteva che uniformarsi (forse con intima soddisfazione di commercialista dell'ambiente) al parere positivo della Commissione Tecnica VIA. Eppure la questione seguiva una domanda allo stesso ministro sul precariato all'interno dell'ISPRA, e precedeva un'altra domanda sul dissesto idrogeomorfologico in Italia: occasione quanto mai propizia per collegare i temi, e chiedere in modo assai più penetrante al ministro come mai su un problema che interessa una pianificazione di così ampia portata ed estensione, e con risvolti sulle problematiche dell'assetto idrogeologico, non fosse stata chiesta una consulenza proprio all'ISPRA, e anzi richiederne un intervento attivo. Nella replica dell'on. Capelli, successiva alla risposta del ministro, sarebbe inoltre stato bene contestare alcune scorrettezze da egli proferite: ad es. il ministro Galletti ha parlato della presenza di misure di compensazione ambientale che in realtà non lo sono (la compensazione ambientale è definita per legge), poiché riferite a opere parte integrante del progetto, inoltre ha svalutato il parere negativo del MiBACT come dovuto a un insufficiente informazione, mentre questo si è espresso con parere motivato in tutte le sedi.
Sarebbe stato interessante vedere il comportamento dell'Istituto che, pur in crisi attualmente per quanto riguarda i posti di lavoro e il precariato, ha fatto della difesa dei suoli e del dissesto idrogeologico alcuni dei suoi argomenti preferiti di divulgazione e discussione, misurando anche i suoli sottratti all'ambiente dalle installazioni fotovoltaiche industriali e dai CSP.
». il manifesto, 11 luglio 2017 (c.m.c.)
La recente notizia che alcune opere di difesa militare realizzate da Venezia, tra il XVI e XVII secolo a Bergamo e Palmanova, in provincia di Udine, oltre che in Croazia (Zara e Sebenico) e in Montenegro (Cattaro) sono state inserite dall’Unesco tra i beni «patrimonio dell’umanità», si presta a varie considerazioni. Per una volta, intanto, appare giustificato un po’ di compiacimento nazionale. Compiacimento per il nostro passato storico, ovviamente, non certo per la cura con cui i nostri contemporanei preservano l’immenso e impareggiabile patrimonio artistico di questo Paese. Venezia merita ampiamente tale riconoscimento, anche se assegnato a opere fuori dalla Laguna. Vale la pena di ricordare che la Serenissima realizzò nel XVIII secolo un’opera formidabile di difesa, non militare, ma contro le mareggiate, i cosiddetti Murazzi. Una imponente diga in pietra d’Istria di diversi chilometri, che ancora resiste alle tempeste dell’Adriatico, nonostante le rovine del tempo e dell’incuria e la cementificazione degli anni recenti.
Ma si dovrebbe premiare Venezia anche per un’opera suprema di difesa: quella della salvezza della Laguna dal processo di interramento cui la condannavano i fiumi che vi sfociavano. Senza quest’opera gigantesca della Repubblica, durata diversi secoli (fatta dallo scavo quotidiano del fango dei rii, della deviazione di grandi fiumi dalla loro foce naturale, di una lungimirante politica di tutela) noi oggi non avremmo avuto il gioiello urbano che ancora possiamo ammirare. Poco prima del riconoscimento di tali opere, l’Unesco aveva assegnato un posto nel patrimonio dell’umanità anche alle antiche faggete del nostro Paese, da quelle del centro Italia, scendendo al Parco Nazionale d’Abruzzo, agli antichi boschi della Foresta Umbra, in Puglia, e poi in Calabria.
Questo premio fa subito scattare di riflesso di ingenue rivendicazioni, del tipo: le antiche faggete sì, e perché no la Sila? Forse la più vasta foresta di conifere del bacino del Mediterraneo, un frammento di Nord Europa a due passi dall’Africa, ricca di esemplari pluricentenari, una specie di miracolo ecologico che resiste al tempo, in gran parte incontaminato. Ma le rivendicazioni si spengono subito, non solo per ragioni di stile, di fronte al dono appena ricevuto. Soprattutto perché si fa strada un pensiero: quanto facciamo noi italiani, uomini di cultura, docenti, insegnanti, esponenti politici per promuovere la conoscenza e l’amore per il nostro patrimonio artistico e naturale?
Faggete? Che cosa sono le faggete? Vi immaginate quale imbarazzato stupore si disegnerebbe sul volto della maggioranza degli italiani, se un intervistatore solerte andasse in giro a porre la domanda: che cos’è una faggeta? E tuttavia nessuno si deve stupire dell’imbarazzo e dell’ignoranza. Perché questi sono esiti perseguiti da decenni dal più rozzo e ignorante ceto politico della nostra storia recente.
Perché le persone comuni, a meno che non siano botanici o agronomi, dovrebbero sapere che cosa sono le faggete? La geografia è stata bandita dalla scuola, le scienze naturali sono insegnate su poche paginette dei manuali, i nostri ragazzi non vedono mai un albero, un bosco, una campagna, un paesaggio agrario, con l’aiuto di un insegnante capace di spiegarne storia, morfologia, ragioni ambientali. Si parla mai di tali temi, in Italia, quando si mettono in atto le varie riforme della scuola? E, naturalmente, non meno perseguita è l’ignoranza artistica dei nostri ragazzi, che in gran parte escono dalla scuola secondaria senza alcuna nozione di storia dell’arte, delle vicende di bellezza e di civiltà che contrassegnano il nostro millenario passato.
Il Paese dotato del più ricco patrimonio artistico del pianeta alleva generazioni incapaci di riconoscere e apprezzare un’eredità sontuosa. Viene il sospetto, troppo sontuosa e ingombrante per stare dentro gli schemi rozzi dell’economicismo e dello sviluppismo dominanti: la sola cultura che orienta un ceto politico senza visione e senza memoria.
del gruppo di ricerca "Emidio di Treviri", che riflette sulle modalità distorte attraverso cui si intende provvedere al bisogno abitativo nelle aree terremotate, compiacendo i costruttori e spostando le popolazioni. 10 luglio 2017 (p.d.)
“Lo spazio è diventato uno strumento politico di primaria importanza per lo Stato. Lo Stato usa lo spazio per garantire il controllo sui luoghi, la sua stretta gerarchia, l’omogeneità del tutto e la segregazione delle parti”
Henri Lefebvre, 1974
Sulla base delle esperienze pregresse e grazie agli strumenti contrattuali messi in campo” [1] dalla Protezione Civile, l’attesa sarebbe dovuta durare appena sei mesi. Il dato certo è che ad oggi, nelle Marche, la regione che registra il numero più alto di sfollati e sfollate in attesa di una sistemazione nei SAE (5.040, secondo i dati ufficiali), nessuno ha ancora ricevuto le chiavi dei moduli abitativi e nella maggioranza dei comuni interessati non sono neanche partite le opere di urbanizzazione. Ora più che mai è evidente la condizione di affanno in cui versano le istituzioni circa la gestione della questione abitativa dei terremotati. In questo tempo immobile che perimetra l’emergenza, catturato e scandito dal succedersi di decreti ed ordinanze, il Governo mette in campo l’ennesima opzione per cercare di raddrizzare i dati.
L’articolo 14, titolato “Acquisizione d’immobili ad uso abitativo per l’assistenza della popolazione” ed inserito per la prima volta nel Decreto n.8 del 9.11.2017 (convertito in legge lo scorso 7 Aprile), autorizza infatti le Regioni a comprare unità immobiliari da destinare in maniera provvisoria ai terremotati e, in un secondo momento trasformarle in “case popolari”. Una notevole operazione di acquisizione al patrimonio pubblico residenziale, dunque, come non succedeva da decenni e compiuta attraverso il Fondo nazionale per le Emergenze (ai sensi dell'articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225). Costituirebbe un importante passaggio di riflessione ragionare sul fatto che a) la “domanda di casa” costituisca un tema all’ordine del giorno solo in una situazione straordinaria come il post-terremoto, b) che lo Stato cerchi di tamponare parte della questione del disagio abitativo solo grazie all’emergenza, nonché c) che le istituzioni individuano, tra le molte categorie sociali in affanno, quella dei terremotati quale target-group meritevole di un intervento - al contrario di tutti gli altri -. Ma tralasciando per il momento questi interrogativi e stando a una superficiale lettura del fenomeno, l’operazione dell’art.14 sembrerebbe quasi rappresentare un’inversione di tendenza rispetto alla grande ritirata dello Stato dal sociale delle ultime decadi.
Analizzando le specifiche degli avvisi di manifestazione di interesse pubblicati finora, salta subito all’occhio quanto l’implementazione della legge abbia assunto di regione in regione forme dissimili e, in alcuni casi, pericolose. La prima evidenza, conferma la straordinaria efficacia riscossa dai Tavoli tecnici permanenti di confronto coordinati dal Direttore dell’Ufficio speciale per la Ricostruzione, ed avviati, ad esempio nel caso della Regione Marche, con l’Associazione dei Costruttori (ANCE - Confindustria). Scorrendo le specifiche del bando emanato dalle regioni adriatiche, è facile ravvisare quanto le modalità di applicazione di una misura potenzialmente virtuosa in linea di principio, corrano il rischio di scadere nella possibilità di implementare i meccanismi di speculazione e di rendita del mercato immobiliare. In base alla regolamentazione stilata dalla Regione che è stata coinvolta in due terremoti e che annovera 27.046 terremotati, le abitazioni devono essere preferibilmente nuove, prioritariamente mai utilizzate e possono trovarsi anche fuori dai comuni del cratere (al contrario di Marche e Abruzzo, l’Umbria [3], ad esempio, non prevede quest’ultimo punto). Il pensiero corre immediatamente alle cementificazioni della costa:
Il primo bando pubblicato dall’Erap [5], l’ente marchigiano per l’abitazione pubblica, che si è chiuso lo scorso 3 Aprile, ha ammesso 654 offerte di vendita (85 nella provincia di Ancona, 148 ad Ascoli Piceno, 109 a Fermo e 312 a Macerata) per un totale di 95.749.743,72 milioni di euro [6]. All’indomani della chiusura del bando, commentava così il presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli: “è un ulteriore tassello che, insieme con altri provvedimenti, ci consente di agevolare il processo di rientro delle persone le cui abitazioni hanno subito danni gravi dal sisma, in attesa della ricostruzione pesante”. Ma la prassi sembra essere direzionata proprio nel verso opposto, incentivando le urbanizzazioni incompiute, favorendo così lo spopolamento dei territori interni colpiti dal sisma. Infatti, come si nota dalla mappatura, la maggior parte degli immobili individuati dal bando è collocata nelle zone dove negli ultimi anni si sono verificati i maggiori incrementi di densità urbanistica, ben lontano dalle aree interne.
per “Emidio di Treviri”
Gruppo di Ricerca sul post-sisma del Centro Italia
[2] Dopo dieci mesi di mensilità, difatti, il contributo economico a fondo perduto e senza vincoli di spesa è diventato uno strumento molto simile a un reddito garantito, non calibrato però secondo lo status socio-economico di partenza con il risultato che situazioni familiari eterogenee ricevano contributi identici.
[3] http://www.regione.umbria.it/edilizia-casa/sisma-2016-acquisto-alloggi
[5] http://www.regione.marche.it/Entra-in-Regione/Appalti?id_8340=432
il Fatto Quotidiano on line, 7 luglio 2017 (m.p.r.)
Il progetto dell’Anas per unire con una superstrada il polo siderurgico di Terni con il porto di Civitavecchia risale agli anni 60, mentre i lavori partirono dieci anni dopo. Attualmente è ancora incompiuto il tratto che va da Orte al porto laziale, circa un terzo del percorso. Di questo terzo, la tratta finale, la più problematica dal punto di vista ambientale, è quella che corre da Monte Romano a Tarquinia, tratta soggetta a Valutazione di impatto ambientale (Via), il cui iter è iniziato il 3 agosto 2015.
Il percorso individuato dall’Anas si snoda per 18 chilometri e prevede 9 viadotti, 1 galleria e 2 svincoli, ed è localizzato nella vallata del fiume Mignone, una delle aree più incontaminate e ricche di bellezza del Centro Italia, tutelata dalla direttiva Habitat, volta alla conservazione degli habitat naturali di particolare pregio nel territorio europeo. Nell’ambito dell’iter della Valutazione di impatto ambientale, in data 20 gennaio, la Commissione tecnica di verifica del ministero dell’Ambiente ha espresso parere negativo al progetto, mentre, in data 15 marzo, in sede di Conferenza dei servizi tutti gli altri soggetti chiamati ad esprimersi, tranne il comune di Tarquinia ed appunto il ministero, hanno dato parere favorevole, inclusa la regione Lazio.
Adesso, la decisione finale spetta al Consiglio dei ministri che pare la adotterà in data 20 luglio. Andiamo più nel dettaglio della vicenda: ne vale la pena. Nel progetto presentato dall’Anas, secondo i tecnici del ministero dell’Ambiente che hanno redatto una corposa relazione di oltre 120 pagine, non sono stati valutati adeguatamente né l’impatto paesaggistico, né quello ambientale, compresi i rischi connessi all’inquinamento atmosferico e acustico.
Ecco alcuni significativi passi delle conclusioni del parere rilasciato dalla Commissione: “L’intervento modificherà in modo sostanziale, permanente e irreversibile il paesaggio dell’area, distruggendone la naturalità attuale. Dai foto inserimenti, si evidenzia infatti un impatto visivo insostenibile per il contesto specifico della valle del Mignone, l’arteria andrà a tagliare in due una continuità naturale, territoriale e storico culturale che invece deve essere conservata come bene di alto valore ambientale […] Il rumore e le vibrazioni, date le caratteristiche di grande valore ambientale dell’area in oggetto, si ritengono troppo elevati per poter essere accettati all’interno dei siti di importanza comunitaria (Sic) e nelle Zone di protezione speciale (Zps)”.
La stessa opinione del ministero è stata espressa dalle associazioni ambientaliste e dai comitati locali con motivate osservazioni che evidenziano, tra l’altro, come l’Anas si sia sempre di fatto rifiutata di redigere una seria Valutazione di incidenza ambientale relativa sia all’area Zps sia al Sic della valle del Mignone, cioè non abbia voluto valutare i danni che sicuramente ci sarebbero sui siti qualora l’opera fosse realizzata. Vale la pena ricordare, infatti, che la direttiva Habitat prevede la Valutazione come “un passaggio che precede altri passaggi, cui fornisce una base. In particolare, l’autorizzazione o il rifiuto del piano o progetto”. Uno studio d’incidenza incompleto, le cui conclusioni ottimistiche sono state contestate nel parere Via, ha evitato ad Anas il rifiuto o quanto meno il rischio che un approfondimento avrebbe dato risultati diversi da quelli sperati, bloccando l’iter del progetto.
Ma perché l’Anas avrebbe scelto una soluzione così impattante? Non c’erano alternative? Nel 2004, l’azienda di Stato sviluppò un diverso progetto che aggirava l’abitato di Monte Romano a Nord per poi seguire l’attuale tracciato della Aurelia bis. Progetto che, adeguato alle prescrizioni Via che ne avevano richiesto il passaggio in galleria per quasi la metà del percorso, avrebbe lasciato maggiormente integro il paesaggio che invece il progetto attuale taglierebbe in due. Nel 2007 l’Anas inoltrò il progetto al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) per il finanziamento, ma il Cipe non lo finanziò perché lo ritenne troppo costoso. Singolare, perché per altre opere sommamente costose e perfettamente inutili come l’alta velocità e il Terzo valico, il Cipe ha chiuso non uno, ma ambedue gli occhi. Allora cosa fece l’Anas? Concepì questo nuovo progetto molto meno costoso, che infatti definì essa stessa low cost e andò avanti su di esso. Quindi, l’alternativa c’era ma costava. E allora ecco un progetto che costa di meno, che sarebbe finanziato e pazienza se è sommamente impattante.
Oggi le pressioni perché l’opera sia completata ed in breve termine sono molteplici: comunità locali, Confindustria, i soliti sindacati, Associazione dei costruttori edili (Ance) e altri, compresi organi di stampa autorevoli quali Il Corriere della Sera. La solita commedia che viene recitata ogni volta che c’è una grande opera da realizzare. Qualora il Consiglio dei ministri desse il via libera nonostante il parere negativo dello stesso ministero dell’Ambiente, questa sarebbe a tutta evidenza una decisione di carattere politico e non già di compatibilità ambientale. Sarebbe lo sviluppo purchessia. E la Valutazione di impatto ambientale una barzelletta, come del resto, diciamolo, è stata quasi sempre fino ad oggi.