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In principio era la Punta dell’Isola. Poi arrivò l’industria, e su quella prua geografica alla confluenza del Brembo nell’Adda l’imprenditore Cristoforo Benigno Crespi ci costruì nei primi anni dopo l’unità d’Italia quello che voleva essere un villaggio operaio modello. Non era il paradiso, ma almeno le casette con giardino schierate militarmente davanti alla fabbrica erano un posto decoroso per abitare, in attesa di andare a riposare in eterno al cimitero affacciato sulla valle padana, sotto gli occhi sempre vigili del mausoleo di famiglia. Stavano molto peggio i contadini tutto intorno. Nel XX secolo l’Unesco dichiarava il villaggio operaio Crespi d’Adda patrimonio dell’umanità, per inciso nella medesima seduta in cui lo diventava l’Isola di Pasqua coi suoi spettacolari faccioni di pietra. Qui però dobbiamo occuparci di facce di materiale diverso, diciamo facce di bronzo per non dir di peggio.

Uno dei motivi per cui Crespi interessava tanto l’Unesco era la sospensione del tempo tutto attorno, il fatto che a differenza di tanti altri casi magari anche più architettonicamente virtuosi di company town industriale tradizionale, geografia e sviluppo socioeconomico avevano racchiuso il villaggio in una specie di bolla artificiale, fatta di spazi aperti, valle del fiume, terrazzamenti. Verso la seconda metà del XX secolo iniziavano a crescere gli insediamenti urbani attorno al tracciato dell’autostrada Milano-Venezia solo qualche centinaio di metri più a nord, e nel migliore stile dell’epoca all’autostrada si attaccava una tipica espressione di attività economica postindustriale: il parco a tema Minitalia, dove turisti e curiosi potevano divertirsi a girare il Belpaese in miniatura, magari chiamando a gran voce da dietro la Torre di Pisa la zia che si era fermata troppo a Piazza San Marco …

Ma si sa, tutto cambia, e arriviamo ai nostri giorni di trionfo del cosiddetto sviluppo del territorio, della joint-venture pubblico-privata, dei luminosi futuri di crescita economica locale grazie alla visione di qualche lungimirante imprenditore. E soprattutto delle balle in malafede per venderci questa paccottiglia. L’autostrada A4 c’è e ovviamente ce la teniamo. Il parco a tema col piccolo Colosseo, le attività commerciali di complemento eccetera sta insediato appena sotto il tracciato, occupa parecchie decine di migliaia di metri quadrati dell’antica Punta, ma a sud si conserva ancora una apprezzabile fascia di greenbelt agricola fino al limite del terrazzamento che scende al villaggio operaio di Crespi, di cui si vedono le ciminiere della fabbrica. Parallelamente all’asse est-ovest segnato dall’autostrada invece, e lungo quello nord-sud dell’Isola bergamasca, il vero e proprio disastro dello sprawl suburbano fatto di capannoni a casaccio, lottizzazioni di villette e palazzine che chiudono su tutti i lati i residui nuclei storici, rotatorie per smistare il traffico verso la rotatoria accanto.

A dichiarare il rien-ne-va-plus finale ci si mette ora all’alba del terzo millennio la seconda autostrada, quella Pedemontana Lombarda che per motivi imperscrutabili qualcuno chiama “parco lineare” giusto perché ogni tanto nel progetti si vedono delle siepi a nascondere le sei-otto corsie asfaltate. Ma lasciando perdere i problemi di vista addomesticata di alcuni, torniamo a Crespi, un po’ malridotta, patrimonio sì ma con tanto bisogno di manutenzione. E qui suonano le trombe e arrivano al galoppo gli eroi dello sviluppo del territorio pubblico-privato: il pubblico paga, il privato porta a casa. Come si rilancia Crespi? Con un Accordo di Programma, manco a dirlo per lo sviluppo, che parte dalla sua poco corretta dizione inglese di development, la quale di solito si traduce con edilizia. Al centro dell’accordo la trasformazione edilizia di Minitalia, che rilancia il parco a tema e lo contestualizza nel territorio, comprendendo anche Crespi d’Adda.

C’è il nodo delle due autostrade e bisogna approfittarne. Come? Ma nel modo che ben sappiamo, ovvero col classico progetto “multifunzionale” fatto di alberghi, centri congressi, attività turistiche, commercio outlet. La formula architettonica è quella pure classica del pensoso progettista che sviluppa su un tavolo da disegno iper-uranico un concetto astratto, da scaraventare poi sul territorio locale, lasciando agli uffici stampa il compito di spiegare il perché e il percome. Nel caso specifico la ciliegina sulla torta (si fa per dire) è una torre albergo che si vedrà per chilometri e chilometri attorno, villaggio operaio incluso, e che pure nella migliore tradizione si propone “leonardesca”. Se non altro, a differenza di Mario Botta a Sarzana (che aveva confuso con Suzzara) qui non si sono sbagliati a scrivere, che so “leopardesca”.

In definitiva quello che emerge dal progetto proposto (e approvato da qualche settimana) dall’Accordo di Programma, garantito da Regione, Provincia, Comuni interessati, è l’ennesimo discutibilissimo nodo di attività a forte indirizzo automobilistico, con aumento di cubature, occupazione di notevoli spazi per i parcheggi, con una offerta che difficilmente si può considerare concorrenziale, salvo appunto la localizzazione. Se ne possono dire di cotte e di crude, degli impatti probabili anzi sicuri del traffico, e dei vantaggi abbastanza dubbi in termini occupazionali (di solito si guadagnano posti di lavoro da un lato, se ne perdono da un altro, magari di più qualificati). Ma gira e rigira apparentemente il ragionamento potrebbe anche essere: se non lì, dove altro? Ovvero come insegna anche il cosiddetto new urbanism, a suo modo attento alle sciocchezze più macroscopiche, se dobbiamo crescere meglio farlo là dove gli impatti sono minori, e nel caso specifico nell’area a maggior accessibilità e attrezzata.

Per giunta, a suo modo si tratta di un riuso di area parzialmente dismessa, pur allargandola parecchio: si rilancia Minitalia, come si potrebbe fare di un supermercato un po’ in ribasso negli affari. Crespi continua a starsene come stava prima, con buona pace dell’Unesco, circondata da quei campi come l’Isola di Pasqua dall’oceano. E qui casca l’asino con tutte e quattro le zampe: l’Accordo di Programma è falso e tendenzioso. Tutto legale, intendiamoci, formalmente corretto, ma non tutto ciò che è legale è lecito: le mappe e i calcoli del progetto approvato non corrispondono alla realtà, per il semplice motivo che non sono completi. Il resto della documentazione sta su un altro tavolo, leggibile in modo contestuale solo a chi ha organizzato il trucco. E a chi se ne è accorto, naturalmente.

Il progetto del parco a tema ampliato e rinforzato con la sua incongrua torre simil-leonardesca, per capirlo appieno, lo si deve accostare a quanto è sinora pubblico come Ambito di Trasformazione via Cristoforo Benigno Crespi. Che non sta dentro quell’Accordo di Programma, però. Sta nel Piano di Governo del Territorio del Comune di Brembate, ma come si legge chiarissimamente nella apposita scheda è una “Area agricola a seminativo semplice, a prato stabile e ad incolto. Il lato nord è adiacente al Parco Minitalia”. 76.000 metri quadrati di superficie che, come si legge benissimo dalla cartina allegata alla stessa scheda, arrivano a pochi metri dal bordo del terrazzamento affacciato su Crespi, e vengono destinati a funzione “ricettiva, museale, commerciale, svago e sociale”. Quindi ad appiccicarsi senza soluzione di continuità al progetto di outlet albergo leopardato eccetera. Cosa succede, in realtà e in sintesi?

Succede che si iniziano a cogliere i frutti maturi e già abbondantemente marci dell’idea balzana di “sviluppo del territorio” che sta dietro a ogni autostrada moderna, ovvero che a ogni crocicchio vero o immaginato si rimescolano interessi di trasformazione urbanistica, senza badare a nulla. Basta dare un’occhiata veloce alla Scheda dell’Ambito di Trasformazione (allegata, per l’Accordo di Programma faccio riferimento al sito regionale con tutta la documentazione: almeno ci salva l’Europa con la VAS obbligatoria!) per vedere cosa succederà. Sinora il villaggio Crespi è stato risparmiato nella sua integrità sia dalla collocazione nella Punta, tutelata in quanto valle dei due fiumi, che dalla destinazione agricola del terrazzamento superiore, che lo isola visivamente dall’ambiente autostradale.

Per capire meglio l’idea, pensiamo a un tipo di spazio ben noto a chiunque, ovvero la fascia laterale a uso commerciale di una grande arteria guardata dall’esterno, o la gran parte del perimetro di un grosso supermercato. Si tratta di zone ridotte a una specie di vasto “vicolo di servizio”, retrobottega necessariamente degradato, o al massimo barriera invalicabile ben schermata a verde. Oggi questa situazione riguarda l’affaccio sull’area agricola della zona recintata di Minitalia e dei parcheggi esterni al perimetro. Domani, se si attuasse il “doppio progetto” non solo su tutta l’area incomberebbe la incongrua mole della torre albergo, non solo traffico e parcheggi imporrebbero un carico assai pesante, ma con l’aggiunta dell’Ambito di Trasformazione Sud il fronte del “retrobottega” arriverebbe a lambire il sito Unesco. Unica soluzione possibile, a quel punto, e per essere coerenti, sarebbe accorpare anche Crespi d’Adda al parco tematico, magari obbligando gli abitanti a vestirsi con costumi d’epoca, e mimare il lavoro minorile su telai ottocenteschi …

Insomma, una volta per le emergenze si chiamavano i Caschi Blu, oggi ci tocca invocare l’intervento dell’Unesco, per salvarci dallo sviluppo del territorio: è un'emergenza umanitaria, a modo suo.

(in allegato la Scheda AT, le Osservazioni di Legambiente che chiariscono i motivi di opposizione al progetto nel suo complesso, un paio di articoli dai giornali degli ultimi giorni)

Nell’organigramma del Ministero per i Beni e le Attività culturali la casella del segretario generale è ancora vuota. Quindi il decreto di nomina di chi sostituirà in quel ruolo l’architetto Roberto Cecchi divenuto sottosegretario non è stato ancora firmato. Dovrebbe essere designata la dottoressa Antonia Pasqua Recchia, direttore generale ai Beni architettonici, storico-artistici, ecc., ma, al momento, non se ne ha notizia formale. Da un paio di settimane quindi l’arch. Cecchi cumula ben tre incarichi: quello politico di sottosegretario e quelli tecnici di direttore generale del MiBAC nonché di commissario per l’area archeologica di Roma. Anomalia decisamente pesante, che si poteva evitare rispettando la legge, senza l’indugio di una sola ora. Ma l’Italia di oggi va così, purtroppo.

Le maggiori associazioni per la tutela avevano chiesto al neo-ministro Ornaghi una netta discontinuità rispetto all’era di Bondi, francamente disastrosa, e a quella certo non brillante di Galan. Al contrario egli ha nominato in quel ruolo-chiave il segretario generale di gestioni del Collegio Romano memorabili per l’accettazione supina di tagli feroci, per l’abolizione delle spese di missione, per la totale ibernazione dei piani paesaggistici, per la proliferazione di commissariamenti costosi e spesso dannosi, per l’acquisto a cifre spropositate del crocefisso esposto e strombazzato come Michelangelo, e che, al più, è opera di bottega, e via elencando. Altro che discontinuità. Una continuità perfetta, “inchiodata”. Tanto più che Salvatore Nastasi rimane, a quanto pare, nel doppio incarico di capo di gabinetto e di direttore generale dello Spettacolo (così recita il sito ministeriale). Come prima, più di prima? Certo. Tutto va ben al Collegio Romano.

I Beni culturali sono in fermento. Oggetto di contesa è la poltrona di Segretario generale, il vertice del ministero, fino a qualche giorno fa occupata da Roberto Cecchi, appena nominato sottosegretario. Sul sito web del ministero quel posto risulta vuoto. E a molti è apparso naturale che, ottenuto un ruolo politico, Cecchi presentasse le sue dimissioni. Un candidato alla successione sarebbe anche pronto: Antonia Pasqua Recchia, attuale direttore generale dei beni artistici e storici, paesaggistici e architettonici.

Ma a tutt´oggi le dimissioni, sollecitate anche all´interno del governo, non sono state presentate. Contro il doppio incarico si è espressa la Uil. Affinché Cecchi resti su entrambe le poltrone è intervenuto invece un altro sindacato, la Confsal-Unsa. Ieri ha scritto una lettera a Lorenzo Ornaghi e al premier Mario Monti la presidente di Italia Nostra, Alessandra Mottola Molfino, che dà per acquisite le dimissioni e che chiede al governo «una nuova fase»: sarebbe assolutamente urgente, si legge nella lettera, «che nel massimo ruolo tecnico del ministero, il segretariato generale, sia chiamato chi abbia le capacità per imprimere un decisivo cambio di passo, quando non un´inversione di rotta».

Cecchi non è mai citato, ma è evidente che la più antica delle associazioni di tutela del patrimonio in Italia si riferisce a lui quando chiede di voltar pagina. A Cecchi Italia Nostra imputa di essersi appiattito sul vertice politico del ministero, in particolare quando ministro era Sandro Bondi. Sul versante della tutela paesaggistica, per esempio, si è in una condizione di inerzia. Inoltre l´azione dei commissari, da Pompei a Roma (dove commissario è lo stesso Cecchi), «oltre ad altri gravi effetti negativi e sprechi di risorse, ha di fatto prodotto una smagliatura nella struttura ministeriale». Nell´area archeologica romana molti fondi sono stati destinati a indagare un presunto rischio sismico mentre, come ha mostrato il nubifragio di ottobre, c´è un serio problema idrogeologico. E altre risorse, tante, sono andate per la pubblicazione dell´ultimo rapporto che squaderna i meriti del commissario: 68 mila euro che, calcola Italia Nostra, sono molto di più dei 48 mila che in un intero anno si spendono per le missioni dei funzionari di soprintendenza. «Nei rapporti per Roma e anche nel piano di Cecchi per Pompei», dice Maria Pia Guermandi, archeologa, consigliere nazionale di Italia Nostra, «il ricorso acritico a strumentazioni tecnologiche copre la mancanza di reale innovazione scientifica».

E poi c´è l´appalto per il restauro del Colosseo, duramente contestato dall´Associazione restauratori. E ancora: la vicenda del Crocifisso attribuito a Michelangelo e acquistato alla cifra di 3 milioni 250 mila euro, un´opera, con ogni probabilità, "seriale" e di autore minore (su tutto questo sta indagando la Corte dei Conti). O la storia della commode, il prezioso mobile settecentesco di cui Cecchi ha autorizzato l´espatrio. E poi i conflitti con alcuni dei migliori soprintendenti (Elio Garzillo e Francesco Scoppola, per esempio), spesso sfociati in trasferimenti. Per Italia Nostra è indispensabile che il nuovo segretario generale «sia finalmente in possesso di un curriculum, oltre che di comprovate competenze, di specchiata trasparenza e quindi al di sopra di ogni sospetto».

Due a zero. Sconfitta doppia per il fronte che si oppone a Veneto City: la mozione contraria al megainsediamento sulla Riviera del Brenta tra Dolo e Pianiga è stata bocciata in aula, al termine di un consiglio straordinario che doveva fare chiarezza e invece ha alimentato la confusione. Fuori dall’aula neanche l’ombra di quei comitati che raccolgono firme e si sono mobilitati contro la colata di cemento. Il cui impatto, si dice, sarà attenuato dallo sviluppo in altezza: ma sempre di 2 milioni di metri cubi si tratta, che se volessimo mettere distesi sarebbero un capannone largo 12 metri, alto 7 e lungo 23 chilometri, come la carreggiata dell’autostrada da Padova Est a Mestre Villabona.

L’assenza del sostegno popolare, che pure esiste nel territorio, è un autogol per l’opposizione che aveva chiesto la seduta straordinaria e la dice lunga sul livello di compromessi e di ipocrisia tenuto da tutti i partiti in questa vicenda. La risoluzione che chiedeva alla giunta di «sospendere la procedura autorizzativa per Veneto City» è stata bocciata con 23 voti (Pdl e Lega), favorevoli in 18(Pd, Udc, Idv e Sinistra), astenuti 3. Questi ultimi sono Nereo Laroni, Carlo Alberto Tesserin e Diego Bottacin. Impossibile riportare il dibattito.

A rischio di inimicarci l’intero Consiglio citiamo per esteso solo gli interventi di Laroni e di Tesserin, per la forza d’urto che hanno avuto. Laroni parte dal dissenso originario di Veneto City tarsformatosi lentamente in consenso attraverso «fluidificazioni successive». E la parola «fluidificazioni», che dice e ripete per indicare il cambiamento d’opinione dei sindaci della Riviera che diventano favorevoli a Veneto City per motivi di cassa, coincide sempre di più con la parola euro. E’ il business che guida Veneto City, la Torre di Jesolo, il Quadrante di Tessera, l’autodromo Motor City di Verona: «Ma noi qui che ci stiamo a fare?», la pianta dura il vecchio Nereo. «La programmazione è compito nostro o di Enrico Marchi, di Giuseppe Stefanel o del giulivo Luigi Brugnaro, persone che legittimamente perseguono i loro interessi, mentre noi ci occupiamo di griglie roventi? Io non approverò nessun documento favorevole a Veneto City se il governo regionale non lo inserisce nella programmazione». Gran soprassalto di orgoglio politico, peccato che il legislatore l’abbia già fatto: Veneto City è stata inserita nel Ptrc dall’assessore all’urbanistica Renzo Marangon nel 2008, naturalmente molto dopo che l’operazione era stata avviata dagli amici del presidente Galan. Il quale il 28 novembre 2005 a domanda rispondeva di non sapere nulla.

Lo smentisce l’appassionato intervento di Tesserin, che da consigliere provinciale di Venezia ricorda all’aula come sia stato nel 2004 il presidente Davide Zoggia, Pd, a spiegare che Veneto City si sarebbe fatta perché c’era l’accordo con la Regione di Giancarlo Galan. E’ un velo di ipocrisia che cade, lasciando nudi i partiti, sia centrodestra che centrosinistra. Chissà perché Giovanni Furlanetto, leghista, pensa di essere fuori dal mucchio nobilitando il voltafaccia della Lega, che ieri si opponeva a Veneto City e oggi la sostiene, con le modifiche che il comune di Dolo ha imposto ai progettisti. Luca Zaia, che non ha partecipato al dibattito, fa sapere che non metterà «mai la firma» su un progetto che arrivi sul suo tavolo senza l’ok di Comuni e Province. Significa che la conferenza dei servizi, appena chiusa per Veneto City, non ha esaurito l’iter.

Postilla

Singolare, per un giornalista veneziano, considerare strano che a una riunione del Consigio regionale, che si tiene nella città storica di Venezia, alle 10,30 di una giornata lavorativa, non partecipassero le mase di cittadini della Riviera del Brenta che da anni si battono in massa contro il turpe episodio di speculazione, promosso da potenti gruppi finanziari cn collegamenti su tutti i versanti dello schieramento politico di destra e di centrosinistra, accettato dai sindaci dell’uno e dell'altro versante per un po’ di euri. Ma i combattivi comitati della riviera del Brenta dicono che la storia non è finita.

“Volevo aggiungere il mio nome alla lista di quelli che chiedono una riconsiderazione da parte della soprintendenza per il lavoro progettato in Palazzo Vecchio. Questa idea di sacrificare Vasari per un’avventura donchisciottesca in cerca di una rovina leonardesca mi sembra fondamentalmente sbagliata. Spero che il buon senso fiorentino prevarrà”. Questa email di Keith Christiansen, stimatissimo conservatore della pittura europea del Metropolitan di New York, ha inaugurato l’incredibile pioggia di adesioni (oltre 400, molte qualificatissime) all’appello che appoggia l’esposto presentato da Italia Nostra alla Procura di Firenze per fermare la caccia al Leonardo fantasma. A sua volta, quell’esposto dichiara di partire da un mio articolo, pubblicato dal Fatto mercoledì scorso, che raccontava l’opposizione di una singola funzionaria coraggiosa. Un circolo virtuoso a cui è sempre più affidata la salvezza del nostro patrimonio storico artistico: la resistenza delle parti sane dell’amministrazione, una denuncia sulla stampa, l’attivazione delle insostituibili associazioni per la tutela, il risveglio di un’opinione pubblica qualificata capace di esercitare una pressione internazionale. E, alla fine, il buon senso ha prevalso davvero, anche se più quello romano che quello fiorentino: il MiBAC è intervenuto sulla soprintendente Acidini, e la caccia è stata sospesa.

Se Renzi, come minaccia di fare, si ostinerà nella ricerca, a questo punto dovrà farlo con mezzi non invasivi, cioè senza distruggere nemmeno un millimetro quadrato di un’opera d’arte certa, al fine di cercare un’improbabile rovina. Ma, oltre all’ottenuta sospensione, l’appello chiedeva la costituzione di un comitato scientifico autorevole e terzo rispetto ai promotori di una ‘ricerca’ dichiaratamente ispirata da ragioni di marketing. Infatti Renzi, pur agitando anche la bandiera della ricerca, si è ben guardato da rivolgersi a chi la ricerca della storia dell’arte la fa professionalmente tutti i giorni: la responsabilità scientifica dell’operazione è stata affidata a un ingegnere, peraltro oggi contestato dai suoi stessi colleghi, alcuni dei quali hanno firmato l’appello. Ma per decidere quale fosse la parete giusta su cui cercare, se e come farlo, quando fermarsi e cosa fare dopo, ci sarebbe invece voluto un comitato formato da storici dell’arte, storici delle istituzioni politiche rinascimentali, storia dell’architettura, storici del restauro e così via. A vegliare sull’aspetto conservativo c’era, è vero, l’Opificio delle Pietre Dure: ma dopo che la responsabile delle pitture murali, Cecilia Frosinini, si è sfilata dichiarando che si stava danneggiando Vasari, anche quella tutela non è sembrata affatto sufficiente. D’altra parte, l’Opificio è attualmente guidato dalla stessa Cristina Acidini che dirige la soprintendenza di Firenze. E, come ha ricordato in un’intervista Franca Falletti (direttrice della fiorentina Galleria dell’Accademia), i super-soprintendenti delle grandi città d’arte sono ormai nominati dalla politica con contratti che fanno molto dubitare della loro capacità di resistere alle pressioni politiche. D’altra parte, Matteo Renzi e il suo staff hanno proposto a più riprese di sopprimere del tutto le soprintendenze, passandone le competenze agli enti locali. Ora l’opinione pubblica sa quel che una simile catastrofe comporterebbe: senza l’opposizione di una funzionaria indipendente, il Salone dei Cinquecento si sarebbe presto trasformato in un groviera.

Infine, seguendo un copione alla Sandro Bondi, Renzi ha accusato i firmatari dell’appello di “élitarismo”, mentre lui sarebbe il democratizzatore.

L'appello su eddyburg

Scatta l´inchiesta della procura sui fori praticati sull´affresco del Vasari a Palazzo Vecchio per cercare una eventuale sottostante opera di Leonardo. Salgono intanto a 300 le adesioni all´appello per lo stop, che è stato deciso per quanto riguarda i fori (non se ne fanno più), mentre continuano i rilievi. «E´ una pazzia» secondo Salvatore Settis. E Christiansen: «Momento sbagliato». Vertice di due ore con il professor Seracini. Acidini tace, il sindaco Renzi tira dritto: «Vicinissimi alla soluzione del mistero».

Vasari, inchiesta della procura

300 adesioni all´appello per lo stop Settis: "Una pazzia". Christiansen: "Momento sbagliato" L´arte nel mirino "È un´operazione spericolata e poi stanno cercando nella parete sbagliata"

E´ stata avviata un´indagine sulle ricerche della Battaglia di Anghiari nel Salone dei Cinquecento. Ieri mattina, ricevuto l´annunciato esposto di Italia Nostra, il procuratore capo Giuseppe Quattrocchi ha aperto un fascicolo. Il presidente nazionale dell´associazione, Alessandra Mottola Molfino, chiede alla procura di verificare se la ricerca con sonde endoscopiche che passano da fori praticati nell´opera del Vasari non integri il reato di danneggiamento di cose di interesse storico e artistico. «Bisognerà vedere se quel tipo di indagini possa aver procurato delle lesioni importanti all´affresco», ha spiegato Quattrocchi, ricordando che «è l´autorità giudiziaria a rilevare i reati. Sentiremo i carabinieri del nucleo tutela patrimonio culturale e le specificità culturali e professionali e ci regoleremo».

Mentre la procura inizia a lavorare, cresce il numero delle firme sotto l´appello per fermare l´intervento sponsorizzato dal National Geographic (250mila euro al Comune di Firenze) scritto dallo storico dell´arte Tomaso Montanari e diffuso dalla stessa Italia Nostra. Ieri sera erano quasi trecento, mentre domenica erano ferme a trentacinque. Un mondo solitamente diviso e poco disponibile ad esporsi come quello dei critici e degli storici dell´arte si è schierato in modo compatto contro l´operazione in corso a Palazzo Vecchio.

Tra i primi a dare l´adesione al documento c´è l´ex direttore della Scuola Normale di Pisa e accademico dei Lincei, Salvatore Settis: «E´ un progetto imprudente - spiega - Sono convinto che questa ricerca sia quasi certamente destinata al fallimento e che rischi di compromettere un affresco del Vasari importantissimo e conservato molto bene. Si celebra così l´anno vasariano in arrivo, bucherellando. E´ una pazzia, un modo sbagliato di spendere soldi pubblici o privati. Bisognerebbe pensare di usare denaro per risolvere la questione dell´archivio del Vasari, da riportare in mani pubbliche». Per Settis, come per gli altri che hanno firmato la lettera, l´affresco di Leonardo non è lì. «Ci sono documenti dello studioso Francesco Caglioti che sembrano indicare con grado di probabilità che la parete dell´affresco di Leonardo sarebbe l´altra, quella di fronte».

Keith Christiansen è il curatore della sezione pittura italiana del Metropolitan di New York, anche lui è tra i firmatari. «C´è solo una piccolissima probabilità che una porzione significativa della battaglia di Leonardo sia sopravvissuta. Se ci fosse stata l´avrebbero rimossa ai tempi di Vasari - dice - Ma a parte questo, va contro l´etica che un´opera d´arte sia compromessa per recuperare qualcos´altro a meno che l´opera in questione sia di importanza marginale. E non è il caso del lavoro di Vasari. Poi c´è il tema dei soldi spesi. Ci sono incalcolabili tesori artistici a Firenze che richiedono attenzione. Lavori per cui mancano fondi. Ora si investe una cifra considerevole nella speranza di trovare qualcosa che nel sedicesimo secolo fu descritta come in rovina? Si tratta di una cattiva idea nel momento sbagliato e non sarebbe stata proposta se Leonardo non fosse diventato una super-celebrità».

Antonio Pinelli, storico dell´arte dell´ateneo fiorentino, è uno dei più esperti conoscitori del Vasari. La sua firma figura fra quelle dell´appello a fermare i lavori. Dice: «E´ un´operazione spericolata e sbagliata alla radice intanto perché cercano nella parete opposta a quella in cui la maggior parte dei critici ipotizza il lavoro su Anghiari. Poi il Vasari aveva una grandissima stima di Leonardo: perché avrebbe dovuto coprire o cancellare la sua opera?». Quindi riprende: «Ma la questione di fondo è: vale la pena di intervenire in quel delicato ecosistema che sono i dipinti vasariani di Palazzo Vecchio? Per cosa?».

Beatrice Paolozzi Strozzi, direttrice del Museo Nazionale del Bargello aggiunge: «In casi come questi la cautela si impone, per questo ho firmato l´appello. Ho messo la mia firma come cittadina, storico dell´arte ed esperta di tutela, al di là del mio ruolo istituzionale, convinta che invece di compromettere l´integrità di un´opera d´arte, occorra attendere che le tecnologie permettano un´indagine assolutamente non invasiva. Non dico, quindi, che le indagini non debbano essere fatte, ma che impongano una valutazione attenta e ponderata, e una interrogazione molto approfondita sul da farsi».

Parla Cecilia Frosinini, la funzionaria dell´Opificio che ha aperto il caso chiedendo di essere sollevata dall´incarico

«Rifarei tutto quello che ho fatto ma ora basta riflettori su di me - La mia missione è quella di tutelare le opere d´arte, qui si fa un intervento invasivo»

Tutto è cominciato dalla sua lettera e da un passo indietro. Il sindaco Matteo Renzi l´ha chiamata «un´obiezione di coscienza» quella di Cecilia Frosinini. Lei, direttrice della sezione restauro pitture murali dell´Opificio delle Pietre Dure, ha preferito parlare di una «questione etica» e adesso dice: «ma basta riflettori su di me». Fino a qualche giorno fa, la sua è stata una voce solitaria, adesso è diventato quasi un coro. «Rifarei esattamente quello che ho fatto. Ho molta stima nei confronti di Marco Ciatti che mi ha sostituito nel controllo tecnico delle operazioni sull´affresco del Vasari e non è certo questo che è in discussione, né la competenza dei restauratori che lavorano sui ponteggi al Salone dei Cinquecento». Il tema che solleva Cecilia Frosinini si fonda su altri punti, uno etico: «La mia missione è quella di tutelare le opere d´arte, qui invece si fa un intervento invasivo sulla pittura» (del Vasari, in particolare della Battaglia di Scannagallo) aveva detto e anche scritto nella lettera inviata fra gli altri alla soprintendente Cristina Acidini. E qualche riga sotto chiedeva di essere sollevata dall´incarico di seguire il lavoro del gruppo di Seracini esprimendo un «dissenso fermo nei confronti delle operazioni e delle attività che mi possano venire imposte secondo scelte di ente locale e sponsor e che ritengo lesive del mio ruolo professionale e scientifico e contrarie alle funzioni che lo Stato mi chiede di svolgere nell´ambito della ricerca e della conservazione».

L´altro punto sollevato dalla responsabile delle pitture murali dell´Opificio riguarda il fondamento scientifico dell´operazione: «comunicazioni sommarie esclusivamente in fase di proiezione di slides» ha scritto, aggiungendo che non c´è stata «alcuna disponibilità da parte dell´ingegner Seracini ad un sia pur minimo contraddittorio o integrazione delle informazioni fornite». Alle Pietre Dure all´inizio «non è stato concesso di decidere in piena autonomia se partecipare a una attività che prevede anche la possibilità di giungere alle ricerche endoscopiche pure attraverso accesso dal fronte, praticando strappi di superficie pittorica e fori nell´intonaco vasariano». E´ quella lettera che accende piano piano il dibattito sull´opportunità o meno di avviare in quel modo la ricerca sul capolavoro perduto di Leonardo, la Battaglia di Anghiari. Cecilia Frosinini è una storica dell´arte che lavora all´Opificio dal 1990. In questi giorni, assieme ad altri studiosi e restauratori sta esaminando nel laboratorio fiorentino un´opera di Leonardo, «l´Adorazione dei Magi», per scriverne l´analisi scientifica. Fa parte del comitato scientifico per il restauro della Sant´Anna e la Vergine, capolavori sempre di Leonardo che sono al Louvre. Alla fine della mostra dedicata a Leonardo in corso a Londra, è stata chiamata a intervenire al convegno di chiusura sul tema: «La tecnica artistica di Leonardo e le indagini scientifiche».

Acidini tace, il sindaco tira dritto

«Vicinissimi alla soluzione del mistero» Prevede di staccare due centimetri quadrati di dipinto, ma non vogliamo decidere da soli «Mi sembra un tentativo pretestuoso degli esclusi di bloccare una ricerca straordinaria. E´ un attacco demagogico»

Il sindaco tira dritto: «E´ difficile negare che lì sotto ci sia qualcosa, la soluzione al mistero è vicinissima». Dopo aver letto l´attacco degli studiosi di mezzo mondo all´operazione Battaglia di Anghiari e l´esposto di Italia Nostra in base al quale la procura ha aperto un´inchiesta, Matteo Renzi rilancia, facendo capire che questi giorni di studio nel Salone dei Cinquecento hanno dato buoni risultati. In effetti una sonda è andata molto in profondità in uno dei fori, come se avesse incontrato una cavità o semplicemente una crepa. Sapremo nei prossimi giorni qualcosa di più.

Ma intanto stop ai fori. Per il momento la prima fase della ricerca si conclude qui, in attesa di conoscere i risultati dei sondaggi. E´ un effetto delle polemiche? Di certo queste hanno messo a dura prova i nervi di alcuni dei protagonisti. L´ingegner Maurizio Seracini dell´Università di San Diego che guida la spedizione ieri si è detto amareggiato, «mi sembra solo un tentativo pretestuoso degli esclusi di bloccare una ricerca straordinaria. Un attacco demagogico che rischia di farci deridere dal mondo». La soprintendente Cristina Acidini contattata più volte non ha voluto spiegare nulla.

Ieri alle 13.30 summit fra il sindaco, la soprintendente (destinataria con lui della richiesta degli studiosi di fermare i lavori), Marco Ciatti dell´Opificio, Seracini e i tecnici impegnati nella ricerca. Bisognava fare il punto sui lavori e discutere delle lettere che mettono gli esperti d´arte di mezzo mondo contro l´operazione in corso a Firenze. Si è deciso di non fare più fori sull´opera del Vasari, almeno fino a mercoledì, quando ci sarà una nuova riunione. Sarebbe stata la stessa Acidini a chiedere tempo con l´obiettivo di riflettere sui dati acquisiti. I lavori però proseguiranno sui sei buchi già realizzati, l´endoscopio passerà da quelle piccole fessure per fare altri campionamenti. Il ponteggio resterà nel Salone dei Cinquecento almeno fino a fine dicembre nel Salone e si pensa anche di dare la possibilità gruppi guidati di visitatori di salirci.

«Finora abbiamo fatto sette buchi (in realtà sei ndr) e le indagini non sono andate bene, sono andate benissimo - ha detto il sindaco davanti al consiglio comunale - Il quadro che avevamo è stato confermato e anche rafforzato. Credo sia difficile negare che lì sotto ci sia qualcosa». Cosa c´è sotto? Renzi non scende nei particolari, ricorda che c´è un contratto con il National Geographic. Ma si intuisce che parla dell´intercapedine esistente dietro l´affresco del Vasari e anche di tracce di sostanze organiche, riferibili a possibili pigmenti utilizzati per la pittura a olio. C´è qualcosa ma non è chiaro cosa: «Oggi è impossibile dire che lì sotto c´è Leonardo». Per questo occorrerebbe una seconda fase di indagine, dopo una prima conclusa con i buchi praticati in fessure già esistenti o in stucchi ottocenteschi. «L´affresco non è stato toccato» sottolinea il sindaco. Per la seconda fase si richiederebbe invece un´indagine più invasiva (si dovrebbero staccare almeno 2 centimetri quadrati di affresco) oppure il passaggio da dietro il muro dove ci sarebbe Leonardo. «Potremmo deciderlo noi, ma voglio che ogni passo sia fatto di comune accordo con l´Opificio delle Pietre Dure», dice Renzi. Nel frattempo restano da analizzare bene i dati raccolti con le microsonde: «I ponteggi resteranno lì un altro mese e su richiesta si potranno visitare». Anche da chi ha promosso l´appello salva-Vasari: «Salvatore Settis se vuole può venire a vedere quello che abbiamo fatto, è il benvenuto», garantisce il sindaco a proposito dell´accademico dei Lincei primo firmatario dell´appello. Per il resto però, chiunque parli di «vandalizzare» verrà querelato: «Stiamo risolvendo il più grande enigma della storia dell´arte. Di fronte ad un mistero che può fare una persona normale? Verificare se esiste». Quanto all´esposto di Italia Nostra alla procura di Firenze, dice il sindaco, «siamo a completa disposizione della magistratura».

Non c´è più tempo per piantare e far crescere le specie da tutto il mondo Si cerca un progetto bis che punti sulla tecnologia. Pesano i dubbi sul futuro dell´area dopo l´Esposizione e i costi di gestione Oggi il via alla gara da 300 milioni per le altre opere 2015. La ricerca è partita. Obiettivo: trovare il prima possibile un nuovo "padre" per le serre di Expo, una grande firma che possa inventarsi un´idea capace di salvare quello che è stato il simbolo del progetto del 2015. Magari usando la tecnologia, quella che ha già trasformato l´orto planetario in una smart city. E che, adesso, potrebbe aiutare a riprodurre, in modo virtuale, i climi e le colture di tutto il mondo. Accanto alle specie che metteranno fisicamente radici a Rho-Pero. Perché, ormai, per realizzare il progetto originario e ricostruire realmente tutti gli habitat e tutte le piante e colture, non c´è più tempo.

Quei complessi marchingegni pensati inizialmente, hanno calcolato i tecnici della società di gestione, avrebbero bisogno di almeno cinque anni di preparazione. Troppo. Così come troppo costoso - 90 milioni di euro il primo budget - sarebbe realizzare strutture senza la certezza, poi, di mantenerle in vita dopo il 2015. Perché è questo il rischio maggiore: doverle smantellate alla fine. E, così, si cambia ancora. Sperando, anche, che insieme al grande nome possa arrivare un privato disposto a gestirle in futuro sobbarcandosi dei costi che il pubblico non potrebbe mantenere.

È questo l´ultimo rebus del progetto che l´amministratore delegato della spa Giuseppe Sala dovrà risolvere, l´ultimo tassello da completare sulle mappe di Rho-Pero. Al più presto, visto che la macchina operativa è partita: oggi il consiglio di amministrazione darà il via libera alla gara della "piastra", il bando da 250-300 milioni per realizzare non solo le "fondamenta" del futuro sito espositivo, ma anche alcuni padiglioni.

Gli spazi immaginati dalla Consulta architettonica non sono in discussione: strutture di vetro alte fino a 45 metri dove riprodurre, accanto ad aree all´aperto, tutti i climi del mondo. Lì avrebbero dovuto attecchire vegetazioni di tutte le latitudini. Un sistema complesso, che avrebbe bisogno di terra particolare, tempo, cure scientifiche complesse. Non a caso, gli esperti - capitanati dalla docente di Agraria Claudia Sorlini - che hanno seguito il progetto avevano lanciato l´allarme: «Siamo preoccupati che i ritardi possano compromettere il lavoro». I primi test per valutare la bontà dei terreni sarebbero dovuti partire lo scorso gennaio, per poi iniziare a far arrivare le prime specie rare entro l´estate. Una tabella di marcia che è saltata.

Sala vuole mantenere le strutture previste, così come l´idea di far sorgere le piante. La vera domanda, però, è: cosa diventeranno? E soprattutto: rimarranno in vita dopo l´evento? È per questo che la società sta cercando un nome capace di creare comunque di creare qualcosa di originale e affascinante. La prima idea sarebbe stata quella di affidare gli spazi a Jacques Herzog, l´architetto che ha già seguito il masterplan. Ma per accettare l´incarico, Herzog avrebbe voluto i consigli di Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food che ha ispirato l´orto globale. L´accordo, finora, non è andato in porto e difficilmente si riuscirà a convincere il guru dell´alimentazione.

Il destino delle serre, però, è legato anche a quello del milione di metri quadrati di Rho-Pero che le istituzioni non hanno ancora deciso. La società ha fatto i conti. Le strutture avrebbero dovuto vivere anche dopo il 2015 come eredità di Expo, un grande parco ludico-scientifico. Questa impostazione, però, prevederebbe un ingente investimento (prima) per realizzarlo e (poi) per gestirlo. Sarebbero gli enti pubblici a sostenerlo e i dubbi economici, in tempi di crisi, sono tanti. Per questo l´obiettivo di Sala è anche di trovare un privato che, poi, possa seguire il parco. Anche se, a quel punto, perderebbe l´aspetto prettamente scientifico per quello di spazio del divertimento.

Sono ormai mesi che impietriti, giorno dopo giorno, osserviamo il cielo della crisi finanziaria che fa dell'euro e purtroppo anche dell'Europa, uno straccio che vola. In attesa dei provvedimenti del Governo Monti, se ce la faremo è all'Italia delle città che dovremo guardare. Qui si trova il 61,3 % dei residenti, il 63 % delle imprese industriali e il 71 % del terziario avanzato.

Numeri e dinamiche che si concentrano soprattutto sull'asse Torino-Milano-Trieste e in basso a Genova e Bologna. Numeri che mutano quella che negli anni del capitalismo molecolare è stata la questione settentrionale. Questione che tornano a osservare e praticare la Cisl dei contratti territoriali e la Lega delle identità territoriali. Il sindacato convocando a Milano un seminario delle Cisl del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e dell'Emilia Romagna, discutendo con i presidenti delle regioni di coesione sociale e di impatto della crisi sul tessuto manifatturiero. La Lega con i suoi bellicosi propositi di giocarsi l'opportunità di essere l'unica opposizione.

Un crinale delicato fatto di "nordismo dolce" e "secessione dolce" ai tempi dell'euro a velocità variabile. In Italia la metropolizzazione incardinata sul policentrismo delle "cento città" ha prodotto un modello urbano a nuvola cresciuto lungo i grandi assi infrastrutturali. Attorno a grandi città che, prese nella morsa della rendita immobiliare, sono "de-cresciute" al centro per disperdersi sul territorio. Dando forma a "città infinite" o alla "megalopoli padana" dove l'Alta Velocità fa da metropolitana leggera collegando Torino a Milano e Bologna. Reti di città che durante il ciclo ventennale del capitalismo molecolare hanno avuto il merito di mixare funzioni terziarie urbane e capitalismo manifatturiero dei territori. Un modello fatto di policies e classi dirigenti locali che tra anni '90 e nuovo millennio hanno accompagnato lo sviluppo dei territori, hanno costruito immagini e nuove rappresentazioni collettive dentro la transizione al postfordismo (basti pensare al caso torinese), ma che sono entrate in crisi sulla governance dei flussi: mobilità, immigrazione, finanza, logistica.

Con una divisione crescente tra città medie campioni di benessere e qualità della vita e grandi aree urbane sempre più in crisi di bilancio e in affanno sui temi della sicurezza, del costo della vita e della qualità ambientale. Difficoltà che pesano dentro la crisi nella misura in cui la capacità della metropoli di produrre servizi e saperi pregiati nonché reti di mobilità e comunicazione è il principale canale attraverso cui i sistemi produttivi territoriali possono riconquistare competitività sui mercati internazionali. Oggi la costruzione di un nuovo patto tra città e contado, tra capitalismo delle reti e manifatturiero, tra élite urbane e territoriali costituisce il nuovo nucleo di quella che ancora chiamiamo questione settentrionale.

Scomparsa la grande impresa fordista concentrata a Nord Ovest, con i distretti del Nord Est in via di verticalizzazione attorno a una media impresa diffusa da Torino a Treviso e lungo l'asse della via Emilia, oggi il tratto caratterizzante del Nord è il processo di metropolizzazione diseguale e confuso che a partire dalle città collega centri medio-piccoli e grandi. Una urbanizzazione che non solo drena risorse e abitanti dalle aree più periferiche dello stesso nord, ma diffonde stili di vita, bisogni, consumi e tematiche post-materialiste tipicamente urbane. Ribaltando la direzione di marcia dal contado alla città. Da rappresentazione del sogno egemonico di un contado manifatturiero che tra anni '80 e 2000 ha fatto da locomotiva economica del Paese, oggi la questione settentrionale vista dalle città mette al centro la capacità delle classi dirigenti.

Vi si confrontano il centro sinistra che governa le capitali regionali e il centro destra che esclusa l'Emilia Romagna e la Liguria egemonizza le città medie e le tre regioni, Piemonte, Lombardia e Veneto. Fotografia politica che rompe il tentativo del mondo del capitalismo molecolare di farsi classe dirigente nazionale. Berlusconismo e leghismo si sono imposti coalizzando il milieau terziario milanese con le periferie territoriali contro un mondo fatto di élite urbane e ceti medi riflessivi incardinati al welfare.La crisi ha incrinato l'unità di questo blocco politico-sociale fino ad arrivare allo "strappo" di questi giorni tra Confindustria Veneto e la Lega tornata all'opposizione. Un cambio di equilibri che a mio parere riporta la questione settentrionale alla sua originaria natura di questione sociale.

Sono proprio le nebulose urbane del centro-nord i contesti in cui il mix tra impatto della crisi, impianto manifatturiero, alti consumi, forte mobilità, flussi di immigrazione, crisi del welfare e crescente polarizzazione delle condizioni di vita, ne fanno un aggregato di quel 99 % direbbero gli indignati di Wall Street che subisce la crisi: dagli operai agli impiegati al pubblico impiego fino ai ceti medi e ai capitalisti molecolari. Molto dipenderà dalla volontà della città terziaria, della sua composizione sociale di ritrovare una capacità di fare società, di produrre una cultura civica nuova che metta al centro la difesa della qualità della vita, fuori dalle contrapposizioni tra questione ambientale e sviluppo economico, sicurezza e welfare, ecc.

Mentre la città terziaria degli anni '90 trasformava le classi sociali producendo frammenti senza coesione, oggi emergono almeno tre reti sociali che tentano di produrre tracce di nuova coesione: il magma del terziario professionale che con la sua trasversalità, pur nella crisi, tenta di connettere imprese, creatività, dimensione della cura; il crescere di nuovi filamenti di rappresentanza urbana come il comitatismo civico che uniscono il tema della qualità della vita con la volontà di riprendere controllo sulle grandi trasformazioni della città; e che fa il paio con l'affermarsi del modello della smart city, della città riflessiva che intende riprendere il controllo sulle condizioni della vita urbana. Infine, come a Milano, esempi di welfare community non più statale con cui la società civile inizia a fare i conti con la crisi dello stato sociale.

Questione settentrionale, dunque, come tema della coesione interna alla polis. Una tendenza positiva, che dall'idea di de-regolazione rifà i conti su come cercare di tenere assieme crescita economica e coesione sociale. Una tendenza che può rappresentare una possibilità di uscita dal tunnel di una crisi che è epocale e quindi culturale e politica. Dovendo scegliere, a fronte del ritorno sul territorio della lega, sono più d'accordo con gli industriali del Veneto e con le Cisl del Nord che pongono attuale la questione sociale ed economica del grande Nord dentro la crisi. Da come ne uscirà mutato dipenderà molto il destino del Paese, di tutto il Paese..

Doveva essere un’operazione immobiliare favolosa, un terreno acquistato come agricolo che diventava edificabile grazie a una variante urbanistica disegnata dall’ex ministro Paolo Romani mandato come assessore in quel della Brianza dallo stesso ex presidente del Consiglio.

Ma in realtà l’affare Cascinazza, l’area di Monza dove Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, sognava di costruire Milano 4, rischia di diventare solo un grosso grattacapo. Il terreno, che era passato dalla Istedin di Paolo Berlusconi ad altre società in qualche modo collegate, è sempre stato in una zona a rischio esondazione del fiume Lambro. E adesso un comitato spontaneo di cittadini si è formato proprio per fare leva su questo aspetto e chiedere che la previsione sia annullata e che l’area torni ad essere considerata un parco agricolo. Si è presentato ufficialmente oggi l’agguerrito gruppo capitanato da Pietro Marino, ricercatore di agronomia dell’Università di Milano Bicocca deciso ad avanzare una specifica osservazione al Piano urbanistico di Monza che chieda l’eliminazione della previsione edificatoria di 420mila metri cubi di cemento su quell’area.

Il che non preoccuperebbe la maggioranza di Centrodestra monzese che ha adottato il piano, se non avesse appena perso il consigliere decisivo con cui aveva fatto passare un mese e mezzo fa la variante. L’uomo chiave di quella votazione era stato infatti un consigliere entrato nell’Assise del capoluogo di Provincia lombardo sui banchi dell’opposizione che poi era passato in maggioranza. E che da questa settimana è stato interdetto dai pubblici uffici perché condannato a due anni per concorso in corruzione. Tale Franco Boscarino è stato infatti giudicato colpevole in primo grado dal Tribunale di Monza di aver fatto da tramite per favorire un immobiliarista attivo in Brianza nella corruzione di un funzionario dell’Agenzia delle Entrate di Milano (anch’esso condannato) per avere trattamenti di favore.

Un’indagine che, ironia della sorte, era scaturita da un altro filone che vede ancora sul banco degli imputati per reati di natura fiscale tre imprenditori, tra cui Gabriele Sabatini, che sono legati niente meno che alle società proprietarie proprio della Cascinazza. Senza il voto di Boscarino e con una maggioranza ormai traballante, sarà difficile per il centrodestra riuscire ad approvare il piano e a respingere l’osservazione del ricercatore universitario. Non ce ne fosse abbastanza per imbrigliare un’operazione ormai sfortunata, l’opposizione si è anche recata in Procura a denunciare alcuni strani legami tra i proprietari delle aree che venivano favoriti nella Variante al Pgt monzese e che risultavano collegati in qualche modo tutti al terreno della Cascinazza. Dopo trent’anni di tentativi di far diventare edificabile il terreno in questione, la conclusione dell’operazione, insomma, è ancora un lungo percorso ad ostacoli e l’area per il momento è ancora un prato.

Roma al tempo di Caravaggio non è solo l'ennesima kermesse caravaggesca promossa da Rossella Vodret nei due anni che sono passati dalla sua nomina a soprintendente di Roma: è letteralmente un atto di alto tradimento, culturale e professionale. La frenesia caravaggesca della dottoressa Vodret è tale che, al posto del Bacco di Bartolomeo Manfredi, a Palazzo Venezia c'è un cartello che informa che l'opera arriverà solo il 1 dicembre, al ritorno dalla inconsistente mostra su «Caravaggio en Cuba», sempre realizzata su progetto della Vodret. Insomma, per disciplinare il traffico aereo dei Caravaggio movimentati dalla soprintendenza di Roma ormai ci vuole una torre di controllo dedicata. Ma la cosa più grave di Roma al tempo di Caravaggio è che quasi quaranta opere sacre sono state strappate dagli altari veri che ancora le accolgono nelle chiese per essere esibite a Palazzo Venezia, rimontate su finti altari di finto marmo, in una specie di galleria cimiteriale per cui davvero non c'era bisogno di scomodare Pier Luigi Pizzi. In questo momento le chiese di Roma sono dunque ridotte ad un colabrodo, anche perché quello di Palazzo Venezia non è l'unico luna park in attività: la stessa Vodret ha, per esempio, autorizzato l'espianto dalla Cappella Cerasi (in Santa Maria del Popolo) e la spedizione a Mosca della Conversione di Paolo di Caravaggio, un atto che distrugge (pro tempore, salvo incidenti) uno dei pochi ecosistemi artistici del tempo di Caravaggio che ci sia arrivato intatto. E ai musei non va molto meglio: i pochi caravaggeschi dell'appena inaugurato Palazzo Barberini che non sono a Cuba sono stati deportati in Piazza Venezia, e anche la Galleria Borghese e la Corsini hanno pagato un alto prezzo all'ambizione della soprintendente. D'altra parte, quale sia la considerazione della soprintendenza per i musei, lo dice lo stato del disgraziatissimo Museo Nazionale di Palazzo Venezia, che sembra sempre il parente povero della mostra di turno nello stesso palazzo un degrado espresso perfettamente dal busto quattrocentesco di Paolo II ridotto a decorazione del guardaroba della mostra. E sta proprio qua l'alto tradimento: è la soprintendente stessa a lacerare il fragile e unico tessuto artistico romano che è pagata per difendere. In un conflitto di interessi intollerabile, la Rossella Vodret curatrice della mostra chiede i prestiti alla Rossella Vodret soprintendente: e, non sorprendentemente, li ottiene tutti. Tutto questo per una mostra che non ha nulla - ma davvero nulla - a che fare, non dico con la ricerca scientifica degli storici dell'arte seri, ma nemmeno con un buon progetto di divulgazione. Il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele E. M. Emanuele, scrive in catalogo che l'«assunto scientifico dell'esposizione è il confronto tra le due correnti del naturalismo e del caravaggismo»: che, invece, sono la stessa cosa. Ma non bisogna fargliene troppo carico, perché è davvero difficile capire quale sia, quel famoso assunto: il "tempo di Caravaggio" (morto nel 1610) viene infatti dilatato fino al 1630, dimenticando un secolo di distinzioni storico-critiche e ammannendo al pubblico un polpettone indigeribile. Fin dalla prima sala (dove tiene banco un confronto, malissimo impostato, tra un capolavoro di Caravaggio e una tela della bottega di Annibale Carracci), la mostra appare dilettantesca, slabbrata, disinformata: una mostra come la si sarebbe potuta fare nel 1922. E nel 2011, con un tavolo pieno di monografie, tre milioni di euro in tasca e una buona ditta di traslochi a disposizione, l'avrebbe fatta meglio un laureando qualunque dei (pessimi) corsi triennali in Valorizzazione dei Beni culturali. Ciliegina sulla torta, ecco la strizzatina d'occhio al mercato dell'arte. Finalmente tutti possono vedere il quadro lanciato a giugno come un Caravaggio a prova di bomba. L'esame diretto conferma che il Sant’Agostino è un gran bel quadro: ma dipinto trent'anni almeno dopo la morte del Merisi. A parte la curatrice della mostra, il proprietario e la professoressa Danesi Squarzina (che lo ha pubblicato), nessuno crede all'attribuzione a Caravaggio. Una pattuglia di specialisti autorevoli (tra cui Ursula Fischer Pace) pensa che sia un'opera del cortonesco Giacinto Gimignani, mentre a me ricorda addirittura le primissime prove di Carlo Maratti nella bottega di Andrea Sacchi (1640 circa). Comunque sia, siamo lontani anni luce da Caravaggio: e ora c'è solo da sperare che non si provi a rifilarlo allo Stato italiano per qualche milione di euro. Non molti sanno che in Senato giace da mesi un'interrogazione in cui il senatore Elio Ianutti (IDV) chiede al ministro per i Beni culturali perché Rossella Vodret ricopra il posto di Soprintendente di Roma senza esser mai riuscita a superare un concorso da dirigente. Ebbene, dopo il colossale disastro di «Roma al tempo di Caravaggio», la soprintendente di Roma potrebbe prendere in considerazione una soluzione che farebbe risparmiare tempo al Senato e al suo ministro: dimettersi.

Confesso di essere rimasto piuttosto trasecolato, dazed and confused (Led Zeppelin n. 5? O Yardbyrds ?), di fronte al fragoroso silenzio che ha accompagnato e accompagna il Decreto Monti per Roma Capitale. Gli articoli e le prese di posizione critiche si possono contare sulle dita di una mano e, come diceva un mio professore di ginnasio, mi posso pure amputare qualche dito. Silenzio di molti, di quasi tutti. Associazioni incluse.

Vedremo ora che succederà nelle commissioni deputate. Ma - senza pressioni affinché la sostanza del Decreto cambi - temo che rimarrà quello che è: un primo sostanziale gravissimo rattrappimento del ruolo del Ministero e delle sue Soprintendenze, un abbassamento al livello del nuovo ente Roma Capitale che diventa così controllore e controllato insieme, o meglio assai più controllore senza controlli superiori, tecnici, specifici, controllore "concorrente" (con quel che succede nel superstite Agro Romano e in un centro storico vincolato a macchia di leopardo, stiamo freschi!).

Del resto è già successo quando si è delegata alle Regioni la tutela paesaggistica e queste l'hanno sub-delegata ai Comuni i quali, avendo a disposizione il freno della tutela e l'acceleratore dell'edilizia purchessia, hanno premuto quest'ultimo sperando così di incrementare, nell'immediato, la quota di entrate provenienti dagli oneri di urbanizzazione. Operazione resa possibile dopo la cancellazione, operata dal ministro Franco Bassanini nel 2000, dell'articolo 12 della legge n.10/77 che vietava l'uso degli oneri di urbanizzazione come spesa corrente vincolandoli alle sole spese di investimento.

Perché tanto fragoroso silenzio? Risponderò come faceva un giorno con me al telefono il grande disegnatore e incisore satirico Mino Maccari, cioè con versi tratti da libretti d'opera. "Ardon gl'incensi" (Lucia), "Oh, patria oppressa" (Macbeth), "Zitti zitti, piano piano, senza far tanto baccano, presto andiamo via di qua" (Barbiere), "Questa o quella per me pari sono" (Rigoletto). "All'idea di quel metallo" (Barbiere).

Quanto alla tutela, essa è, come Violetta, "sola, perduta, abbandonata in questo rumoroso deserto che chiamano...Roma".(Traviata).

E per parte nostra, che diremo? "La mente mia non osa pensar ch'io vidi il vero" (Otello di Verdi). A meno di non pensare sconsolati che "la fatal pietra sovra noi si chiuse..." (Aida) rinunciando al "Suoni la tromba e intrepido" (Puritani). Giammai. Ma è sempre più dura fra cecchi e cecchini.

Il tempo si è stampato meglio delle parole sugli avvisi di carta. Lungo l’interminabile rete di recinzione, raggrinziti come foglie, si legge appena “non sostare nei giardini durante il trattamento, tenere chiuse le finestre” e ancora: “Togliere i panni stesi, cuscini, giocattoli e cibi per animali dalle aree aperte, ecc.”. La ditta disinfestazioni avverte i “condomini limitrofi”. Non si scherza, succede quando manca la manutenzione ordinaria e allora bisogna andar giù pesante. I “limitrofi” attendono da quaranta anni un parco, un’area di pace o più semplicemente, un orizzonte libero per far riposare lo sguardo. Qualcosa oltre il serraglio inestricabile di vegetazione che per pudore o forse per pietà, nasconde gioielli come Il casino nobile: Preziosa testimonianza del primo “stile Liberty” italiano, oggi cade letteralmente a pezzi.

Villa Blanc, quattro ettari di verde privato sulla Nomentana e quattro vincoli di tutela storica, artistica e paesaggistica non sono l’Area 51. Eppure i misteri, anche qui, non mancano. Voluta alla fine dell’Ottocento dal Barone Alberto Blanc, al pubblico non si è aperta mai. Subito il degrado. Dalla Generale immobiliare negli anni 50, finisce alla Sogene di Michele Sindona. Poi, di proprietà in proprietà, perde per strada il diritto di prelazione all’acquisto da parte dello Stato, e cominciano serie interminabili di trattative tra privati e il Comune di Roma, mai concretamente interessato a far valere le prerogative, sacrosante, dell’interesse pubblico. L’ultimo padrone della Villa, dal 1996 è la LUISS, Libera Università della Confindustria che vorrebbe trasformare la Villa in una Business School per Supermanager d’elezione. Di certo, tra due anni, terminerà il vincolo a verde pubblico e il giardino diverrebbe per pochi e paganti.

Tra le moltissime voci contrarie a un accordo di compromesso tutto favorevole alla proprietà, da venerdì scorso c’è anche quella dell’Italia dei Valori (Roberto Soldà, Segretario romano e Giulia Rodano, Responsabile Nazionale della Cultura), che si aggiunge in Piazza Winckelmann allo “storico” Comitato Villa Blanc. I cittadini del quartiere ricordano una manifestazione ad aprile, stesso sole e stessa piazza. Altri politici e altri toni, forse troppo ottimismo; si chiedeva al presidente Marcucci di impegnare il Sindaco Alemanno all’acquisto della Villa. Il Sindaco non rispose... poi il nulla e il rincorrersi di voci, “stanno per vendere di nuovo”, “E’ tornato il progetto del parcheggio”. Solo alcuni dei timori di chi abita qui da una vita.

Se la “Carta di Firenze”, è il testo sacro internazionale della tutela delle ville e i giardini storici, quel “paradiso come immagine idealizzata del mondo” sembra oggi lontano e perduto. Stato e Comune di Roma, a oggi, han ben evitato di ricordare alle proprietà gli articoli del Codice: ovverosia chi rompe paga ma i privati “cocci”, se vincolati, appartengono secondo la legge, allo Stato. Per ora, a due passi dalla Villa del mistero, quel che è sicuro politicamente o letteralmente interpretabile, è scritto sui volantini del sit-in: Villa Blanc... noi non possiamo entrare.

Ornaghi e Cecchi, la strana coppia. Il neoministro dei Beni culturali che non sa nulla di Beni culturali, si è visto imporre un sottosegretario, Roberto Cecchi, che rischia di saperne anche troppo. Fortemente caldeggiata da Montezemolo e da una parte del PD, la sua nomina appare, già in queste ore, la più sbagliata possibile: nonostante gli inviti di Ornaghi, Cecchi ha rifiutato ieri di dimettersi dalla carica di Segretario generale del Ministero.

Il sistema di potere attentamente costruito da Cecchi è perfettamente bipartisan: prima alleato del sottosegretario PDL Francesco Giro, egli è ora intrinseco del presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, l’ex comunista ma oggi molto morbido Andrea Carandini, suo garante presso il PD.

Ora Cecchi è a un bivio fatale: da una parte, la sua conoscenza della macchina ministeriale potrebbe permettergli di fagocitare l’inconsapevole Ornaghi; dall’altra, la sua incipiente carriera politica potrebbe esser stroncata dagli strascichi di qualcuno dei molti incidenti che hanno funestato la sua resistibile ascesa.

Come commissario straordinario dell’area archeologica di Roma, Cecchi è stato accusato da Italia Nostra di «riprovevole carenza di trasparenza amministrativa»: una carenza che ha raggiunto l’apice nella svendita del Colosseo alla Tod’s di Diego Della Valle, caso macroscopico di ‘privatizzazione’ di un monumento simbolo dell’identità nazionale, per giunta con utile pubblico incomparabilmente inferiore al valore di mercato (e non a caso la gratitudine di Montezemolo è arrivata al momento giusto).

Italia Nostra ha anche fatto notare che l’architetto Cecchi ha concentrato ingenti risorse economiche sulla verifica del (lì modestissimo) rischio sismico (il cui studio gestisce direttamente) a scapito dei problemi (questi invece serissimi) di dissesto idrogeologico che mettono a rischio tutta l’area del Palatino, e per i quali il commissario non ha fatto niente.

Come direttore generale, invece, Cecchi è stato protagonista in due vicende imbarazzanti. Nell’autunno del 2009 egli tolse il vincolo ad un preziosissimo mobile settecentesco, contro il parere dell’Ufficio legislativo del MiBAC, e facendo invece leva sull’unica voce stranamente fuori dal coro, quella del Comitato tecnico scientifico. Grazie alle intercettazioni telefoniche e agli interrogatori disposti dalla Procura di Roma si è poi appreso che proprio Roberto Cecchi aveva condotto alle riunioni di quel comitato l’avvocato dei proprietari del mobile: un comportamento senza precedenti, e assai irrituale da parte di chi doveva agire nell’esclusivo interesse dello Stato. Per questa vicenda Cecchi è stato indagato per abuso d’ufficio e non rinviato a giudizio (a differenza dell’avvocato Giovanni Ciarrocca, curiosamente).

Ancora più concreto è il coinvolgimento di Cecchi nel pasticcio del finto crocifisso di Michelangelo acquistato dal Ministero sotto Sandro Bondi. È stato lui a decidere di comprarlo, a fissare il prezzo, ad andare al TG1 con l’opera sottobraccio e quindi a firmare la risposta all’interrogazione parlamentare. Proprio in queste settimane la Corte dei Conti sta passando dalla fase istruttoria a quella dibattimentale, e tra poco Cecchi potrebbe esser chiamato a spiegare perché un’opera anonima che vale circa 50.000 euro sia stata pagata dai contribuenti italiani 3.250.000 euro.

Per tacere, poi, della brutta storia della truffa ai danni del MiBAC per cui è indagato l’amico ed editore di Cecchi Armando Verdiglione.

Chi ha a cuore la tutela del patrimonio storico-artistico ha considerato la nomina di Ornaghi come un’occasione perduta. Con quella di Cecchi c’è invece da temere che l’occasione non venga persa per nulla. Ma in un senso diametralmente opposto.

Ieri è stato presentato a Parigi l'accordo per Pompei fra l'Unesco e il ministero dei Beni culturali. In cosa consiste? L'Unesco, ha spiegato il suo consigliere speciale, l'ambasciatore Francesco Caruso, darà al ministero un'assistenza scientifica per la tutela di Pompei e faciliterà la ricerca di sponsor internazionali per finanziare i lavori. Si formerà una «cordata» francese di sponsor, coordinata dall'Epadesa, il Consorzio delle grandi imprese con sede nel quartiere della Defense di Parigi. Le aziende vogliono approfittare della legge francese, molto generosa quanto a sgravi fiscali per le sponsorizzazioni culturali. Secondo Philippe Chaix, direttore generale di Epadesa, nel 2012 potrebbero arrivare a Pompei dai 5 ai 10 milioni di euro, con la prospettiva di aumentare il contributo per gli anni successivi.

C'è anche una cordata italiana? Ieri a Parigi una numerosa delegazione napoletana con il presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro, ha annunciato un accordo fra l'Unione industriali e l'Associazione dei costruttori di Napoli per un progetto di sistemazione dell'area archeologica «extra moenia» di Pompei, che comprende anche Ercolano, Oplontis, Torre Annunziata a Stabia, 7500 ettari In tutto. L'idea è quella di sistemare infrastrutture e viabilità per rilanciare il turismo (per esempio, le crociere). «La realtà che circonda Pompei - ha detto Caldoro - è unica al mondo in termini negativi». Come mai è intervenuta l'Unesco? E' normale? Pompei è inserita dal 1997 nell'elenco dei siti Unesco considerati «patrimonio dell'umanità».

Un anno fa, dopo il crollo della Scuola dei gladiatori, l'Unesco ha inviato un'ispezione e quindi approvato un dossier molto severo, manifestando «profondo rammarico e preoccupazione» per la gestione del sito e paventando il declassamento di Pompei a «sito a rischio». Come ha reagito l'Italia? L'Italia ha incassato a malincuore il «cartellino giallo» e per evitare che diventi rosso ha accettato il «tutoraggio» dell'Unesco, peraltro richiesto dagli imprenditori francesi come condizione per investire denaro. Nei mesi scorsi è stato negoziato questo accordo che è inedito, poiché mai prima d'ora l'organizzazione internazionale è intervenuta direttamente su un sito. Un anno dopo il crollo della Scuola dei gladiatori, qual è la situazione a Pompei? I crolli, sia pure di minore entità, sono proseguiti. La nuova soprintendente Teresa Elena Cinquantaquattro ha cercato di tamponare le falle più grandi della disastrosa gestione commissariale, ma i problemi sono strutturali: Pompei ha bisogno di manutenzione come una qualsiasi città, con l'aggravante che è molto più fragile.

Qual è stata la reazione istituzionale ai crolli? Un anno fa, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano definì il cedimento della Scuola dei gladiatori «una vergogna per l'Italia». Il governo annunciò una mobilitazione straordinaria, un piano di tutela con stanziamenti milionari e assunzioni di personale necessario. Ma finora l'esito è stato deludente: nessun piano straordinario di tutela è stato avviato. In attesa dei fondi europei (105 milioni di euro sbloccati e attesi per il prossimo anno) non un solo euro in più è arrivato e in compenso a Pompei ne sono stati sottratti -5 milioni (20% del bilancio) per ripianare i debiti del Museo di Capodimonte di Napoli. Quanto alle assunzioni, promesse e rinviate più volte, finalmente la legge di stabilità le ha sbloccate. Nel 2012 prenderanno servizio 22 tra archeologi, architetti e amministrativi. Basti pensare che attualmente a Pompei lavora un solo archeologo e l'ultimo mosaicista, mai sostituito, è andato in pensione dieci anni fa.

Nonostante i tempi lunghi, pare che qualcosa si muova. Perché qualcuno storce il naso? L'intervento dell'Unesco, «il podestà straniero», è fondamentale per evitare scempi nella tutela o per garantire l'autorevolezza necessaria ad attirare capitali privati, anche dall'estero. Ora il ministero dovrà presentare un concreto piano di tutela, in modo che si sappia che cosa fare, con che soldi e con quali obiettivi. Pompei ha bisogno di una gestione efficiente e di tutela permanente, non di chiacchiere e interventi-spot. Inoltre la pittoresca delegazione campana arrivata ieri a Parigi, a dispetto dell'assenza della soprintendente e di rappresentanti del ministero, pare più interessata ad altro. In particolare al secondo accordo, presentato chissà perché a Parigi ma che con l'Unesco, gli imprenditori francesi e la tutela archeologica di Pompei non c'entra niente, perché riguarda le aree intorno al sito. Italia Nostra ha più volte denunciato il rischio che si tratta di un cavallo di Troia per speculazioni edilizie.

Caro ministro Ornaghi, per il Colosseo fermiamo tutto. E’ questa la richiesta avanzata dall'Ari, l'associazione dei restauratori italiani che sui lavori per rimettere in sesto l'Anfiteatro Flavio ha sempre sollevato critiche. Ma ora che il progetto finanziato con 25 milioni da Diego Della Valle sta per prendere l'avvio, l'organismo che raduna le principali imprese di restauro ritorna alla carica con una lettera aperta al nuovo titolare dei Beni culturali: fermiamo l'appalto, scrive l'Ari, «al fine di evitare danni irreparabili al monumento più celebre d'Italia e conseguentemente all'immagine del nostro paese». Parole dure, che segnalano uno dei punti più critici della tutela in Italia: la progressiva marginalizzazione di una categoria, quella dei restauratori, per la quale in Italia si è spesso menato vanto, ma che versa in uno stato di gravissima sofferenza. Solo ora il prestigioso Istituto superiore per la conservazione e il restauro, fondato da Cesare Brandi nel 1938, ha ripreso i suoi corsi di formazione, rimasti fermi per quattro anni. I fondi a disposizione per restauri sono pochissimi e, denunciano all'Ari, sono spesso distribuiti senza rispettare criteri di qualità.

Il Colosseo, secondo l'associazione dei restauratori, è un caso emblematico. Stando al bando per la gara d'appalto emesso dal Commissario all'area archeologica romana, Roberto Cecchi (da due giorni sottosegretario ai Beni culturali), risulterebbe «che il restauro dei monumenti archeologici non deve essere più di competenza delle imprese di restauro specialistico». Bensì di imprese edili «chiamate a eseguire lavori che per più del 50 per cento sono di pertinenza specialistica». Prevalentemente a loro, secondo l'Ari, sarebbe stato indirizzato il bando. Muratori dunque al posto di restauratori. A meno che le stesse imprese edili non assumano a loro volta restauratori, che però non avrebbero, dicono all'Ari, l'esperienza e le competenze delle aziende che da anni svolgono lavori apprezzati in Italia e nel mondo. Nel febbraio scorso l'Ari denunciò che dei 7 milioni sui 25 totali messi a disposizione da Diego Della Valle, solo un milione avrebbe coperto lavori di restauro delle parti decorate. Dalla successiva documentazione la quota dovrebbe salire a oltre 4 milioni. Ma questa mole di lavori—la pulitura delle incrostazioni con acqua demineralizzata, l'eliminazione della vegetazione, gli impacchi per togliere il calcare dai marmi — verrebbe svolta da imprese edili.

Il restauro del Colosseo «nasce sotto gli auspici peggiori», insiste l'Ari. «Basti pensare che in questi stessi giorni, il Ministero dei Lavori Pubblici ha appaltato il restauro del Palazzo che ospita il Ministero della Giustizia in Via Arenula costruito nel XIX secolo, a imprese di restauro specialistico. Perché mai l'Anfiteatro Flavio costruito nel I secolo dopo Cristo dovrebbe essere restaurato da imprese edili e ricevere quindi cure meno raffinate?»

Un altro aspetto viene sollevato dall'Ari nella lettera a Ornaghi: il restringimento dei tempi per la presentazione dei progetti. Alle imprese che hanno superato una prima fase di selezione il commissario ha chiesto con una lettera inviata il 21 novembre di presentare progetti esecutivi entro 30 giorni invece dei soliti 60. La legge prevede che in casi particolari i tempi possano essere dimezzati. Ma la giustificazione addotta non convince né l'Ari né alcune delle imprese già selezionate: vi sarebbe assoluta urgenza di cominciare i lavori per evitare interferenze, si legge nella lettera inviata dal Commissario, con il cantiere della linea C della metropolitana. «Questa ci appare una forzatura procedurale», scrivono i restauratori dell'Ari. «Gli uffici del commissario non possono impiegare quattro mesi e mezzo a esaminare la documentazione che noi abbiamo inviato per essere ammessi alla gara», dice uno dei restauratori che ha superato la prima selezione, «e poi inviarci un documento di 486 pagine più 80 tavole da studiare ed eventualmente da migliorare e imporci di presentare un progetto esecutivo in 30 giorni. E tutto questo per un lavoro di restauro che è previsto debba durare più di tre anni: 1.155 giorni è scritto con pignoleria nella lettera. Perché tanta fretta che penalizza soprattutto le piccole aziende di restauratori?».

Pompei parla in francese. A Parigi sono stati annunciati ieri due accordi, uno fra il Ministero per i Beni culturali e l´Unesco per favorire una serie di interventi di restauro all’interno dell’area archeologica finanziati da un gruppo di imprenditori d’oltralpe, l’altro, molto diverso, fra Regione Campania, industriali e soprattutto costruttori per investimenti fuori dal sito.

Dell’intesa fra il ministero e l’agenzia dell´Onu per la cultura e il patrimonio culturale si parla da alcuni mesi. Fra dicembre e gennaio scorsi, poco dopo il crollo della Schola Armaturarum, sono andati a Pompei tre ispettori dell’Unesco che hanno stilato un rapporto molto accurato su come salvaguardare gli scavi (manutenzione ordinaria e straordinaria, programmazione degli interventi, assunzione di personale alla soprintendenza) e critico nei confronti delle scelte fatte dal ministero, in particolare dei commissariamenti. Pompei non veniva inclusa nella lista dei beni in pericolo, ma tutto era rimandato a una successiva verifica.

Ora, in base all´accordo di ieri, l’Unesco metterà a disposizione di soprintendenza e ministero le proprie competenze per gestire lavori necessari a mettere in sicurezza gli scavi. Per finanziare questi interventi si sono fatti avanti alcuni imprenditori francesi riuniti nell’Epad (Établissement public pour l’aménagement de La Défense), l’ente pubblico che amministra il quartiere della Défense, a Parigi. Coordinatrice di questo gruppo è un’italiana, Patrizia Nitti, direttrice del museo Maillol. Dovrebbe anche essere costituita una fondazione, guidata da Unesco e ministero, che sovrintenderà ai lavori. Non è stata definita una cifra. Si parla di un investimento fra i 5 e i 10 milioni annui per dieci anni. Un’entità simile ai 105 milioni di fondi europei sbloccati qualche settimana fa e che si spera di cominciare a spendere entro i primi mesi del 2012. Sembrano sbloccate anche le assunzioni di 22 fra archeologi (9), architetti (12) e amministrativi (1). Ma restano ancora dubbi sul quando effettivamente questi rinforzi prenderanno servizio.

Sul secondo accordo, per il quale molto si era battuto l’allora sottosegretario Riccardo Villari, non si conoscono molti dettagli. Sembra comunque chiaro che si vorrà approfittare della norma inserita nel decreto "salva Pompei", approvato dal governo nella primavera scorsa, che consente di costruire nell’area esterna al sito in deroga alle norme urbanistiche molto severe che tutelano in particolare la visuale del Vesuvio dagli scavi e degli scavi dal Vesuvio (un rilievo paesaggistico la cui tutela il rapporto degli ispettori Unesco sottolinea con vigore). Non ci sono ancora progetti. Si sente parlare di infrastrutture e di alberghi e ristoranti. Su questi aspetti è molto netta Maria Pia Guermandi, consigliere nazionale di Italia Nostra: «I sospetti che abbiamo avanzato fin da quando è stato varato quel decreto diventano più concreti. L’accordo fra ministero e Unesco è una cosa, altra cosa è un’intesa che rischia di trasformarsi nel via libera per una cementificazione dell’area già molto degradata fuori dagli scavi di Pompei».

Stavolta il santo protettore della storia dell’arte ha fatto un piccolo miracolo. Una funzionaria del Ministero per i Beni culturali ha fatto come lo scrivano Bartleby di Melville: ha detto «preferirei di no». Ed ha così inceppato la gioiosa macchina da guerra che si apprestava a cercare la ‘Battaglia di Anghiari’ di Leonardo conficcando alcune sonde in uno degli affreschi di Giorgio Vasari in Palazzo Vecchio.

I predatori del Leonardo perduto hanno una lunga storia: sono decenni che l’ingegner Maurizio Seracini cerca di convincere qualcuno a investire tempo e denaro in questa specie di corsa al santo graal. E ora che aveva trovato i soldi (del National Geographic, le cui telecamere sono già nel Salone dei Cinquecento), la copertura politica (quella del sindaco Matteo Renzi, andato appositamente negli Stati Uniti per concludere gli accordi), e l’accordo della Soprintendente Cristina Acidini, ecco che la funzionaria Cecilia Frosinini – responsabile delle pitture murali all’Opificio delle Pietre Dure – fa obiezione di coscienza, sollevando quella che chiama una «questione etica»: «la mia missione – dice – è tutelare le opere d’arte, qui si fa un intervento invasivo sulla pittura». È difficile pensare ad una funzionaria di soprintendenza come ad una piccola eroe borghese. Nell’immaginario collettivo – devastato da vent’anni di politica del «padroni in casa propria» – i soprintendenti sono avvertiti come grigi passacarte che ci impediscono di fare quel che ci pare delle nostre città o delle nostre case. In un caso come questo, però, ci accorgiamo che se il nostro patrimonio resiste – malgrado tutto – lo dobbiamo a quella sorta di ‘chiesa bassa’ dei funzionari di soprintendenza che, operando in modo fedele al dettato costituzionale, cerca di tener testa ai poteri locali in nome della conservazione e della dignità culturale delle opere e del territorio che sono loro affidati. Cristina Acidini – che è la diretta superiore della coraggiosa dottoresa Frosinini – si era invece platealmente genuflessa a Matteo Renzi: la ‘chiesa alta’ dei pochi super-soprintendenti è infatti totalmente succube, e in ultima analisi complice, del potere politico e finisce per tradire sistematicamente la propria missione avallando e cavalcando le più inverosimili iniziative di ‘valorizzazione’ delle opere che dovrebbe salvaguardare.

Ma perché è così sbagliato cercare il Leonardo perduto? Essenzialmente per tre motivi: perché quasi certamente non esiste più; perché per cercarlo si deve danneggiare Vasari; perché ben altre sono le priorità, anche restando in Palazzo Vecchio.

Nel 1503 il Gonfaloniere della Repubblica fiorentina chiese a Leonardo di raffigurare la Battaglia di Anghiari nella Sala del Consiglio Grande di Palazzo Vecchio, sulla parete che sovrastava i seggi del governo. Il Vinci volle sperimentare una nuova tecnica di pittura murale, che si rivelò fallimentare: già durante l’esecuzione il dipinto come scrive Vasari, «cominciò a colare, di maniera che in breve tempo [Leonardo l’] abbandonò». Rimase visibile solo un meraviglioso viluppo di cavalieri che lottavano strenuamente per uno stendardo. Mezzo secolo dopo il duca Cosimo de’ Medici incaricò proprio Giorgio Vasari di trasformare quella grande sala: e il risultato fu il Salone dei Cinquecento. L’idea di ritrovare Leonardo può apparire romantica, ma se la si guarda con un po’ di senso critico appare antistorica, velleitaria, pericolosa e demagogica.

È da escludere che Vasari, che venerava Leonardo, abbia nascosto un simile capolavoro. Egli aveva tutti i mezzi tecnici per tagliare il muro e salvare il dipinto: lo fece con maestri quattrocenteschi che amava assai meno del Vinci. Solo una mentalità da Codice da Vinci e la nostra infantile illusione di essere al centro della storia può indurci a credere che Vasari abbia seppellito un tesoro sotto un muro inamovibile: per quale futuro, e a quale scopo? Molto più semplicemente, l’intervento vasariano dimostra che nel 1560 di quello sventurato, grandissimo Leonardo non doveva restare più nulla. E, come se non bastasse, la storiografia più autorevole e credibile indica che la parete su cui aveva dipinto Leonardo era quella occidentale, e non quella orientale che ora si vorrebbe sforacchiare.

Ora, per cercare qualcosa che assai probabilmente non c’è più, e che quasi sicuramente non è mai stato in quel punto della sala, si mette a rischio un capolavoro vero e concreto come il ciclo vasariano. E ancora: se la sonda scoprisse qualcosa di promettente (il muro di un palazzo con quella lunghissima e complicata vicenda edilizia è ovunque pieno di intercapedini e preesistenze), che succederebbe? Si chiederebbe lo strappo dell’affresco del Vasari a furor di popolo?

Infine, c’è da chiedersi: è questa la priorità? Qualche giorno fa ho rivisto le sale di Palazzo Vecchio, e (da fiorentino) mi sono vergognato per lo stato di abbandono in cui versano. Gli affreschi del Quartiere degli Elementi sono in pessime condizioni, le pitture del Terrazzo di Saturno cadono letteralmente a pezzi, dai soffitti affrescati delle scale pendono i fili elettrici e lo stesso Salone dei Cinquecento è arredato e illuminato come una sala parrocchiale di provincia, e quando viene sera le statue (anche quelle di Michelangelo o Giambologna) sembrano ombre cinesi.

Il punto 63 dei cento punti usciti dal Big Bang di Matteo Renzi è (rivoluzionariamente) intitolato alla «funzione civile del bello», e propone di «restituire ai cittadini di oggi l’arte del passato» perché «il patrimonio artistico diffuso nel Paese è un bene comune che ci unisce».

La funzionaria Cecilia Frosinini, opponendosi alla demagogia e al marketing in nome della scienza e della coscienza, sta attuando esattamente quel punto. Chissà se Matteo Renzi se ne renderà conto, e comprenderà che se vuole restituire ai cittadini Palazzo Vecchio c’è bisogno di manutenzione, restauro e divulgazione: non di demagogia, marketing, politica dell’immagine.

Ecco qualcosa di davvero incomprensibile per gli elettori: la maledizione di Montezuma della sinistra, l´eterna sfida di personalità che avvelena i pozzi della politica e porta lo scontro nella stessa metà campo per la gioia scomposta degli avversari, quelli dell´altro schieramento, che ridono sguaiati e fanno sberleffi. Che smacco, che delusione per le decine di migliaia di cittadini milanesi, cittadini che hanno festeggiato appena pochi mesi fa la nuova primavera arancione. Che delusione questo scontro tra Boeri e Pisapia, gemelli diversi, queste "personalità incompatibili" segnate da storie personali e politiche così simili, un grande avvocato e un grande architetto, buone famiglie buona borghesia buoni studi buone frequentazioni buon cursus honorum, buona gavetta in politica fino al successo elettorale clamoroso e insperato, miracolo a Milano. E che bella fu la scelta di Boeri di sostenere Pisapia in campagna elettorale, dopo aver perso le primarie: che lezione di stile, che esempio di buona politica, che lezione per quei dirigenti del Pd che consideravano – con la vittoria di Pisapia – di aver perso le primarie quando, disse Boeri, «le primarie non si perdono mai: si fanno, e ci si stringe a chi le vince». Dunque cosa impedisce a questi due campioni della sinistra milanese di trasformare la città e la politica, di ridare slancio alle speranze e fiato alle passioni – si chiedono sgomenti a migliaia i militanti, catene di appelli sul web, artisti mobilitati, Celentano che interviene a far da paciere, raccolte di firme e tam tam sulla rete?

Due modi diversi di concepire la politica, dicono sottovoce e con qualche malanimo gli uomini e le donne dei rispettivi staff. Rivalità personale, certo, come è ovvio tra due sfidanti che continuano a darsi di fioretto, come se le primarie non fossero mai finite. Ma soprattutto due modi diversi di pensare la sinistra. Dicono gli uomini di Pisapia che Boeri sia un battitore libero, una personalità solitaria incapace di giocare in squadra, un radicale intemperante, un utopista. Dicono gli uomini di Boeri che Pisapia sia l´incarnazione della realpolitik di sinistra, un mediatore che cerca e trova il compromesso, una figura classica della sinistra milanese cresciuta tra eccellenti salotti e centri sociali, un radicale che piace al centro. E dal rapporto con Formigoni, in effetti, nasce la polemica che sottotraccia è venuta crescendo in questi mesi. Avuta la delega all´Expo, Stefano Boeri non ha mai smesso di ripetere che non si doveva e non si poteva sottoscrivere il progetto Moratti: per quanto non ci fosse tempo, per quanto le ragioni della convenienza dicessero contrario, per quanto potesse essere il prezzo da pagare per ottenere la vittoria elettorale e forse proprio per questo. Lo ha ripetuto fino a che in un´intervista a Radio Popolare lo ha detto chiaro: È stata regalata l´Expo a Formigoni. Cementificazione. Le aree verdi saranno un´elemosina.

Pisapia ha dato segni d´insofferenza pubblici ad ogni esternazione di Boeri: troppo twitter, troppo Facebook, troppe decisioni comunicate in solitudine senza discuterle, troppo fastidio per le liturgie della politica. Il caso dell´Ambrogino a Cattelan è stato il più recente diverbio esemplare. Boeri lo ha proposto, Pisapia ha replicato «mi avvalgo delle facoltà di non rispondere», Cattelan non ha avuto il premio.

Alla differenza di stile personale si aggiunga che non tutto il Pd ha appoggiato Boeri, per quanto possa apparire paradossale. L´uomo delle 13.500 preferenze, secondo a Milano solo a Silvio Berlusconi e oggi capodelegazione Pd in Comune, è vissuto dall´apparato storico del partito come un estraneo. Un outsider che ha scombinato piani e gerarchie, che non deve ringraziare nessuno e si comporta di conseguenza: molto polemico col partito stesso, un battitore libero amato più dagli elettori che dai colleghi in consiglio comunale, più dai giovani che dai dirigenti, più stimato all´estero che in patria. Del resto, che Boeri fosse estraneo alla disciplina di partito lo si sapeva dal principio. Che la sua posizione sull´Expo – di cui lui stesso, da architetto, si è occupato – fosse assai poco conciliante pure. Ora che si è dimesso da assessore alla Cultura, ora che i militanti e gli intellettuali milanesi chiedono a Pisapia di respingere quelle dimissioni siamo in mezzo al guado, alla prova del fuoco. Il sindaco, dicono, è tentato di lasciargli la Cultura riprendendosi la delega all´Expo – e Boeri accetterebbe – ma teme di "fare marcia indietro", di perdere la faccia. Dalla base sale la richiesta unanime: sensatezza, coraggio, rinuncia all´orgoglio personale in nome dell´interesse della città e di una certa idea di sinistra che da Milano si vorrebbe contagiasse il Paese. Sarebbe un piccolo passo per l´uomo un grande passo per l´umanità. Pisapia ha una enorme responsabilità, una grande occasione di mostrare cosa può essere la politica. I milanesi, gli italiani lo guardano.

La «rottura insanabile» si è consumata nel giro di settantadue ore, anche se parte da lontano, dai tempi delle primarie di un anno fa. Tra il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, l´artefice della vittoria del centrosinistra nel capoluogo del berlusconismo, e il suo assessore alla Cultura, l´architetto Stefano Boeri, il divorzio potrebbe essere firmato oggi: «Non c´è più il necessario rapporto di fiducia, che si è andato progressivamente dissolvendo, e da parte tua non c´è mai stato gioco di squadra con il resto delle giunta», avrebbe ribadito ieri Pisapia a Boeri, in un incontro nelle stanze di Palazzo Marino. Mettendogli sul piatto una scelta che sembra obbligata: dimissioni entro oggi, presentate o subite.

È stato un fine settimana di tensione crescente, quello vissuto nella giunta arancione, con una mediazione solo tentata - ma sembra non riuscita - da parte del Pd locale, su richiesta diretta del segretario Bersani. Un crescendo partito venerdì, quando il sindaco ha usato parole durissime e irrituali in un comunicato stampa con oggetto, appunto, l´ultima sortita dell´archistar iscritto al Pd. «Le sue dichiarazioni sul futuro Museo di arte contemporanea rappresentano valutazioni personali mai discusse in giunta e non condivisibili nel merito», scriveva il sindaco. Furibondo perché Boeri, poche ore prima, aveva messo in serio forse la realizzazione di un museo che, invece, è espressamente compreso nel programma elettorale con cui Pisapia è stato eletto. Ma non solo: «Quanto al ruolo di Milano nella preparazione di Expo, la giunta non ha mai evidenziato alcun problema, ragion per cui le affermazioni di Boeri sono da considerarsi evidentemente originate da problematiche personali e non politiche». E qui si arriva ad uno dei nodi cruciali del rapporto tra Pisapia e Boeri. O meglio: tra Boeri e la giunta, che più volte ha manifestato insofferenza per le sue prese di posizione in solitaria sui temi più vari. Ancora negli ultimi giorni, da più parti, è arrivata la lapidaria sentenza: «Boeri non ha mai digerito la sconfitta alle primarie».

Su Expo la tensione è stata alta sin da giugno, perché inizialmente Pisapia aveva affidato all´architetto - uno degli autori del masterplan dell´Esposizione del 2015 - solo la cura degli eventi, e non delle questioni sostanziali (terreni, fondi). Delega ottenuta solo dopo alcuni mesi di lotte neanche tanto sotterranee, ma senza che l´attitudine di Boeri alla dichiarazioni non concordata svanisse: soprattutto, i suoi attacchi si sono concentrati sul presunto eccessivo feeling tra il sindaco e il governatore Roberto Formigoni, con accuse non velate di appiattimento delle scelte sugli appetiti edificatori di quest´ultimo. E ieri Boeri avrebbe provato a superare l´impasse proprio restituendo al sindaco quella delega ad Expo tanto agognata: niente da fare, «se manca la fiducia, manca su tutto». Le cronache del rapporto a corrente alternata si alimentano di episodi minori: Boeri che in pieno agosto e senza parlarne prima con il sindaco afferma di voler portare in Comune il "Quarto Stato" di Pellizza da Volpedo perché «non valorizzato» al Museo del ‘900 o, sempre lui, che entra a piedi uniti nelle difficili trattative in consiglio comunale per far approvare la vendita delle quote della Sea, proponendo un´altra strada.

In questi mesi, in realtà, l´architetto ha deciso di seguire stabilmente una sua linea d´azione, generando più di un malumore: decisioni spesso comunicate su Facebook ancor prima dei passaggi formali in Comune, dibattiti sul futuro della città (vedi cosa fare dell´opera di Cattelan, il cosiddetto "dito medio" in piazza Affari) fatti convocando i cittadini attraverso i social network. Ieri Bersani avrebbe chiesto ai suoi uomini in Lombardia di tentare la trattativa, rimandando qualsiasi decisione per una settimana, in attesa - forse - di una diversa collocazione per Boeri a Roma. Difficile che lo stallo duri tanto: l´assessore avrebbe chiesto tempo fino a stamani solo per comunicare la sua decisione. Su Facebook sono comparsi appelli all´unità, come quello dei consiglieri Pd Civati e Monguzzi: «Pisapia e Boeri difendano il sogno di centinaia di migliaia di elettori milanesi che ci hanno chiesto di cambiare, c´è bisogno di tutti e due». Attacca il leghista Salvini: «Boeri licenziato perché scomodo? Pisapia allora ha fallito, si dimetta anche lui».

Il Puc presentato dalla Amministrazione Genovese al voto in consiglio è un documento estremamente contraddittorio. A fronte di enunciazioni , premesse, idee di principio ampiamente condivisibili presenta enormi contraddizioni che le negano in gran parte.

La Città che è il bene comune più importante che l'Amministrazione gestisce, viene consegnata nelle mani degli interessi di pochi che vengono tutelati a dispetto dei molti.Il diritto alla città per tutti gli abitanti è sistematicamente negato per i non portatori di interessi economici, politici, finanziari forti.

La teoria della flessibilità propagandata come una modalità al passo coi tempi relega tutte le aree di un qualche interesse economico, culturale, ambientale ai privati assegnando agli uffici la contrattazione sulla base delle proposte dei privati senza alcuna garanzia di limiti, cubature, altezze, oneri urbanistici che, se il Puc sarà approvato con questo impianto, potranno essere contrattati volta per volta dagli interessati senza alcun passaggio in consiglio comunale , regalando agli uffici comunali e ai suoi tecnici un ruolo di tutela che le vicende politiche tecniche e urbanistiche degli ultimi lustri ha mostrato come totalmente fedeli al dio cemento e a quel mix di box-residenze-centri commerciali che hanno impestato la città - e la regione - asservendo il territorio a quella categoria ben rappresentata in un libro di successo di recente pubblicazione e chiamata "il partito del cemento ". Questo Puc in definitiva consegna le chiavi della città a questo partito trasversale di cui gli uffici comunali sono da sempre per cultura e indole un granitico referente.

In questo Puc non ci sono piazze, parchi, aree agricole tutelate , centri storici ( Genova è una città multicentrica) e per converso non ci sono i percorsi della gronda, quelli dell'alta velocità, quegli degli spazi per il ciclo dei rifiuti, non cè alcun interesse vero per il rapporto col porto e i suoi vitali centri logistici, si continuano a programmare interventi collinari anche ad alto impatto come Erzelli senza alcuna previsione di servizi, di accessibilità, di tutela ambientale, si continua a garantire ai grandi imprenditori e alle banche grandi profitti permettendo la trasformazione di aree industriali in residenze. E’ il caso della Verrina a Voltri, delle aree Fincantieri a Sestri, delle aree Esaote ad Erzelli, e cosi' nel levante l'area Aura a Nervi , la Fiscer a Quarto, l'Ospedale Psichiatrico a Quarto, Il San Giorgio ad Albaro.Si vuole facilitare le cose al trio finanza logistica mattone e non si intendono utilizzare le ricchezze della città per far star meglio la gente. La città compatta tra la linea blu e la linea verde è concepita come uno spazio da riempire di cemento dalle nuove torri davanti a Fiumara all'ex Mercato di corso Sardegna e via cementando.

L'idea che l'amministrazione ha dell'urbanistica non è quello della tutela dell'interesse collettivo, ma di facilitatrice della rendita.

Emblematico è la scomparsa progressiva di tutti gli spazi pubblici - non solo i parchi mangiati dalla speculazione in pochi anni per circa il 25% , ma le piazze i luoghi dove incontrarsi, camminare , parlare in favore dei non luoghi, di centri a pagamento in cui non vi è alcuna tutela per i diritti dei cittadini.

Non vi è alcuna presenza significativa di progettazione del territorio, di definizione di destinazione delle aree, di certezze per tutti i cittadini che potranno vedersi da un giorno all'altro costruire davanti a casa un muro, una strada, una linea ferroviaria senza alcuna informazione preventiva, ma con approvazioni singole, puntuali, prive di disegno complessivo e di tutela collettiva.

Anche sulla gravissima situazione idrogeologica genovese le mosse di questo piano sono in senso contrario, non solo non si prevedono demolizioni in aree a rischio, ma al contrario si prevedono nuove tombinature, e strade al servizio della rendita fondiaria. Questo Puc porterà alla affermazione di un habitat precario, costoso per i cittadini, sicuritario.

Claudio Napoleoni affermò che l'utopia porta a un livello superiore il problema e permette di trovare soluzioni, senza quel livello le soluzioni non ci sono e continueremo a nuotare sulla retorica dei soldi che non ci sono, del meno peggio, delle eterne deroghe alla legge e ai diritti di tutti per premiare l'avidità di pochi.

Noi in una soluzione diversa ci crediamo, l'abbiamo detto, l'abbiamo scritto, non ci rassegneremo mai alla sistematica svendita del patrimonio pubblico, alla rinuncia alla bellezza della nostra terra, alla ignavia degli amministratori e alla incompetenza dei tecnici che dovrebbero garantirci e che pagati coi nostri soldi portano avanti con convinzione che sfiora l'impudenza una cultura cementizia ottusa e distruttiva .

Andrea Agostini, che ci ha cortesemnete inviato questo scritto, è Presidente Circolo Nuova Ecologia Legambiente Genova

Ha fatto bene il governo Monti sia ad approvare fra i suoi primi atti il decreto legge su Roma Capitale sia ad istituire un Ministero per la Coesione territoriale. Il concetto di Nazione è inciso nella nostra Costituzione, a partire dall’art. 9 che, in modo sintetico e felice, afferma: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Con una prevalenza – di visione e di compiti – per l’apparato delle Soprintendenze statali allora ricadenti nella Direzione generale delle Antichità e delle Belle Arti (da non pochi rimpianta) presso la Pubblica Istruzione. Poi, con Giovanni Spadolini, nel Ministero dei Beni Culturali e Ambientali felice connubio presto spezzato togliendo l’Ambiente e lasciando però il Paesaggio.

La versione Pdl-Lega (che ora insorge) del decreto per Roma Capitale assegnava di fatto le deleghe per la tutela al nuovo ente togliendole a Regione e Ministero. Questa è certamente meno infelice e però suscita seri problemi funzionali, di competenza, che il Parlamento deve chiarire. All’articolo 131 del Codice per i beni culturali e paesaggistici è scolpito: “Salva la potestà dello Stato di tutela del paesaggio”. Norma che riprende quanto ribadito da varie sentenze della Suprema Corte. Ci deve dunque essere un organismo tecnico-scientifico che esercita un superiore controllo sugli atti di Regioni, Province e Comuni. Non su quelli del nuovo ente Roma Capitale? E’ vero che solo a Roma esiste – omaggio di Corrado Ricci – una Soprintendenza comunale, oggi flebile se si guarda al degrado del centro storico. Essa è affiancata alle Soprintendenze statali di settore, che però da sempre prevalgono, come del resto sta scritto nel Codice (prima Urbani, poi Buttiglione, infine Rutelli). Nel decreto inviato alle Camere si parla invece di una Conferenza delle Soprintendenze composta dalla Direzione regionale per i beni paesaggistici del Lazio, dalla Soprintendenza Capitolina e dalle varie Soprintendenze statali competenti su Roma. Alla pari. Formula assai macchinosa e, temo, inefficiente. Roma Capitale ha tutta una serie di deleghe che la fanno “concorrere” a molte cose. Escluse però le chiese romane “nazionalizzate” – SS Apostoli, Sant’Ignazio, Sant’Andrea della Valle, il Gesù, Santa Maria del Popolo, Sant’Andrea al Quirinale, ecc., una settantina - ricomprese nel Fondo per l’Edilizia di Culto presso il Viminale. Per queste, fermi tutti.

Ma essa “concorre” alle politiche di tutela e di valorizzazione paesaggistica, e ancora a tutela, pianificazione, recupero e riqualificazione del paesaggio e “all’attività di vigilanza sui beni paesaggistici tutelati dal Codice”. In tanta confusa collaborazione “orizzontale”, ci vorrà pure qualcuno che, alla fine, dice l’ultima parola e su questo l’art. 131 del Codice parla, o parlava, chiaro. Come ci vorrà pure qualcuno che apponga i vincoli: archeologici, architettonici, paesaggistici, ecc. E chi se non il Soprintendente ministeriale, cioè lo Stato? Insomma, sono tanti i nodi e garbugli da sciogliere e non si capisce come al MiBAC (forse, con la crisi di governo, in faccende di poltrone affaccendati) abbiano avallato un testo simile. A Roma la gestione dell’urbanistica è stata assai debole, con 12-14mila ettari “mangiati” dall’abusivismo. Fenomeno, ora, tutto speculativo, e galoppante. Al neo-ministro Ornaghi serve un sottosegretario “tecnico” molto esperto nei problemi dell’Amministrazione, centrale e periferica. Facile da individuare fra i tanti Soprintendenti o Direttori generali coraggiosi e di valore sciaguratamente mandati in pensione a poco più di sessant’anni.

Pgt revocato. L'aula di Palazzo Marino ha approvato la delibera presentata dall'assessore all'Urbanistica Lucia De Cesaris con 26 voti a favore (centrosinistra), 3 contrari (la Lega) un astenuto (il radicale Marco Cappato) e il Pdl che ha continuato con lo sciopero del voto. L'aula del Comune fa un salto indietro nel tempo. Si torna alla fase d'adozione del piano di governo del territorio. Con l'esame delle osservazioni presentate dagli enti e dai cittadini. E con l'imperativo da parte di giunta e maggioranza di chiudere in tempi relativamente brevi. E comunque non oltre il termine ultimo e inappellabile del 31 dicembre 2012.

Aria frizzantina in consiglio comunale. L'assessore all'Urbanistica, Lucia De Cesaris conferma la scelta dell'amministrazione: «La decisione presa dalla giunta per il Pgt è giusta, equilibrata, ponderata. Sono tante le criticità del Pgt. A partire dal fatto che spoglia il Comune dei suoi poteri di pianificazione e lascia al mercato la più ampia libertà possibile. Un Pgt che rischia di consentire una pesante cementificazione del Parco Sud. Potevamo buttare all'aria tutto. Abbiamo invece deciso di ripartire dalle osservazioni». Poche ore prima il sindaco Giuliano Pisapia aveva ribadito la linea. «Abbiamo preso un impegno con i cittadini, noi revochiamo il Pgt sotto il profilo della necessità di valutare ed esaminare le osservazioni dei cittadini, cosa che non era stata fatta nel passato.

Ci sono oltre 4 mila osservazioni che vanno valutate per migliorare il futuro della città». Durissima la replica dell'opposizione con il capogruppo Carlo Masseroli, padre del Pgt: «Per rispondere a una élite state ammazzando il popolo milanese. State distruggendo il sistema economico di Milano, con tempi che non riusciamo a capire quali saranno. Vi prendete la responsabilità di questa fase senza regole che mette a repentaglio 40 mila posti di lavoro in una fase di crisi. State distruggendo un sistema economico senza dirci dove volete andare». La replica della De Cesaris è secca. Intanto ricorda che la revoca consente il mantenimento delle misure di salvaguardia, in vigore dal 14 luglio 2010, e l'approvazione dei programmi integrati di intervento e degli interventi diretti.

E poi affonda il colpo: «Non c'è nessuna città bloccata ma una città che ha bisogno di essere ripresa pezzettino per pezzettino per chiudere interventi fermi da anni che la devastano e rendono gli operatori arrabbiati contro la pubblica amministrazione. Ho la fila di persone davanti alla mia porta che mi chiedono di mandare avanti interventi fermi da anni, e non si capisce perché».

Adesso si riparte. Dalle 4765 osservazioni. I tempi? «È necessario adesso muoversi con rapidità e con grande senso di responsabilità - conclude la De Cesaris – per arrivare quanto prima, nell'interesse di tutti, all'approvazione definitiva del Pgt, cercando di anticipare, quanto più possibile, la data ultima del 31 dicembre 2012». «Se, come riteniamo, verranno fatte grandi modifiche al Pgt - replica Masseroli - i tempi si allungheranno a dismisura e sarete costretti a ripubblicare il Pgt. E a questo punto si sforerà il limite del 31 dicembre 2012». Appuntamento per un'altra maratona in aula.

Il rapporto tra pubblico e privato conosce da qualche tempo una profonda fase di riassestamento sia a livello giuridico che politico-sociale. Effetto del ciclo neoliberista che ha dominato l'economia mondiale fino alla recente fase recessiva, l'accentazione posta sul primato del privato ha vissuto una fase espansiva in tutti i settori fino all'ultimo biennio, durante il quale, al contrario, si è sviluppata una reazione fondata, dal punto di vista ideologico, sulla difesa e riconquista dei "beni comuni", fra i quali rientrano i beni culturali e il paesaggio.

In questo ambito, alcuni recenti episodi hanno riproposto la complessità ancora irrisolta del rapporto fra pubblico e privato, a partire dalla sponsorizzazione dei restauri del Colosseo a opera dell'imprenditore Della Valle, che ha fatto riesplodere polemicamente, e talvolta in maniera alquanto provinciale, la discussione in Italia. Se da un lato, infatti, tale operazione è stata accreditata come un episodio di neomecenatismo, dall'altro, al contrario, l'imprenditore in questione è stato accusato di avere lucrato su uno dei monumenti-icona, forse il più internazionalmente celebrato, ottenendo, in cambio di una cifra tutto sommato non elevatissima, un ritorno di immagine che in termini economici, come è stato calcolato, sarebbe almeno dieci volte superiore all'investimento di partenza. Insomma, un ottimo affare.

Ma mentre l'anfiteatro flavio continua a essere al centro dell'attenzione di sponsor più o meno interessati, a pochi passi di distanza la famosa residenza dell'imperatore Nerone, la Domus Aurea, giace da anni in stato di semiabbandono, esposta a crolli, l'ultimo dei quali, del marzo 2010, disastroso. Questo perché, se trovare sponsor per il Colosseo è assai semplice, la Domus Aurea - seppur monumento di fondamentale importanza, addirittura cruciale nel fenomeno di riscoperta dell'antico che ha dato vita al Rinascimento - non è altrettanto appetibile per neomecenati alla ricerca di un'immediata visibilità.

Eppure, esempi virtuosi di mecenatismo vero e proprio sono possibili, anche in un Paese, come il nostro, che nonostante le reiterate promesse di defiscalizzazione in ambito culturale, non ha mai intrapreso alcuna seria iniziativa normativa in tal senso. A Ercolano, l'imprenditore americano David Packard, da oltre un decennio, finanzia le attività di manutenzione del sito campano, in piena collaborazione con gli organi tecnici della Soprintendenza, a cui è affidata la direzione scientifica e il coordinamento dei progetti. Si tratta di un esempio poco conosciuto, anche per volontà dello stesso Packard, la cui iniziativa si colloca in quel filone di filantropismo anglosassone che pare del tutto alieno al culto della personalità assai frequente, invece, nell'italica antropologia. Una vicenda, se non opposta a quella romana, senz'altro ispirata da differenti impostazioni culturali.

In ogni caso, se, come appare dall'attuale, difficilissima situazione economica, le risorse pubbliche per la gestione del patrimonio culturale saranno destinate a rimanere limitatissime, coinvolgere altri attori - dagli enti locali ai privati, sponsor o mecenati che siano - diviene una necessità ineludibile. Ma questa evoluzione di sistema, che impone un ripensamento della tradizionale struttura istituzionale attualmente in grande affanno, richiederebbe una regia centrale ispirata a una strategia trasparente e innovativa sul piano amministrativo e culturale.

Anche se fino a questo momento l'azione del Ministero per i beni e le attività culturali è apparsa, al contrario, estemporanea e priva di una strategia complessiva, se si vogliono coinvolgere risorse di ambito privato - senza provocare danni al tessuto delle attività di tutela, nucleo fondativo di tutta la gestione del nostro patrimonio culturale - occorrerà elaborare un sistema di regole chiare e culturalmente aggiornate (che non significa piegate ai mantra pubblicitari del momento), uno strumento imprescindibile per attivare le risorse, non solo finanziarie, di parte privata, coinvolgendole in progetti convincenti e di ampio respiro.

In ambito italiano, poi, come accennavamo per il caso Packard, è necessario anche stimolare una cultura del mecenatismo, ancora pressoché assente: una carenza che ben si coniuga con un tipo di capitalismo, quale è quello prevalente in Italia, familistico e attardato su pratiche clientelari e lobbistiche nel senso deteriore del termine. Segno inequivoco di un atteggiamento di puro sfruttamento personale del patrimonio culturale sono, per esempio, gli abusi ancora troppo frequenti sul nostro territorio, a partire da quelli edilizi che ne intaccano aree preziose. I reati edilizi - non più riconducibili, da molti decenni, a necessità abitative, ma degenerazione estrema di un'economia parassitaria e arcaica fondata sulla rendita immobiliare - continuano purtroppo a devastare il nostro paesaggio.

La tendenza a favorire, sul piano dei provvedimenti normativi, il godimento personale ed esclusivo ha portato a un laissez faire generalizzato sul territorio e ha provocato la privatizzazione di porzioni che, anche se singolarmente non elevate, nel loro insieme hanno gravemente limitato l'uso collettivo di ampie aree del paesaggio. Le villettopoli venete e lombarde, lo sprawl urbano che caratterizza tutta la pianura padana e dilaga lungo le nostre coste, la "città stravaccata", oggetto dei sarcasmi anticipatori di Antonio Cederna, sono oggi il risultato di un processo degenerativo che continua, senza sosta, da alcuni decenni.

All'effetto di degrado e di disarmonia che caratterizza ormai, oltre a moltissime periferie urbane, tante aree un tempo destinate a uso agricolo, si aggiunge, nelle zone di maggior pregio paesaggistico, il danno derivante dall'esclusione di tali spazi dal pubblico godimento, in quanto in anni passati, grazie a normative permissive e ad abusi mai sanati e purtroppo mai cessati, molte (troppe) di queste aree sono state accaparrate da privati. Fenomeno che si è ripetuto, per esempio, sui punti più suggestivi dei nostri litorali, come anche all'interno di aree formalmente protette da vincoli.

Esemplare come poche altre, a tale proposito, è la vicenda del parco dell'Appia Antica, straordinario spazio in cui natura e cultura, perfettamente integrate, hanno creato, nei secoli, un ambiente dalle caratteristiche uniche per fascino e importanza archeologica e paesaggistica. Nonostante questo, l'Appia rappresenta una sorta di bignami dei danni inferti da speculazione edilizia di alto livello, abusivismo e successivi condoni, spregio della legislazione di tutela, vandalismi e degrado in senso lato da parte dei privati.

È il settembre 1953 quando sul "Mondo" esce I gangster dell'Appia, l'articolo con cui Antonio Cederna comincia quella che sarà per lui la battaglia di una vita: soprattutto alla sua penna di "appiomane" dobbiamo infatti se questo luogo riesce a entrare stabilmente nell'agenda delle discussioni sul nostro patrimonio culturale. In oltre 140 interventi a stampa in difesa della regina viarum, Cederna evidenzia, con efficacia rimasta ineguagliata, l'antitesi fra l'enormità del valore culturale ed estetico dell'Appia nel suo complesso e il livello di degrado a cui l'insipienza e l'arroganza del potere e del denaro la vorrebbero ridurre. Prima degli altri, egli comprende la necessità di una tutela integrale di quegli spazi: a lui soprattutto si deve se la regina viarum comincia a essere non solo considerata come un'area di residenze esclusive, ma anche vissuta come spazio di loisir destinato ai cittadini romani.

Alla sua morte, nel 1996, il destino - non il caso - fa sì che sia assegnata a Rita Paris la responsabilità della tutela dell'Appia per conto della Soprintendenza archeologica di Roma. In questo passaggio risiede la sostanziale continuità che la storia moderna dell'Appia Antica riesce a mantenere. La battaglia a difesa di questi luoghi prosegue sia sul piano dell'attività di tutela, sia, con uguale attenzione, seppure con altre modalità, sul versante comunicativo.

L'azione della Soprintendenza si è organizzata e, pur nella costante esiguità delle risorse a disposizione, è riuscita a esprimere una visione della tutela non esclusivamente difensiva, ma vocata a un'espansione degli spazi in termini di qualità della fruizione e di ampliamento complessivo del bene pubblico. È una visione di medio-lungo termine, che si scontra, pressoché quotidianamente, con le pulsioni deregolative di un'interpretazione distorsiva e pre (o post) moderna della proprietà privata, troppo spesso aiutata dalle lentezze e incertezze dell'azione del Ministero a livello centrale. Una visione che tuttavia riesce a reggere le maglie di un sistema, garantendo la piena salvaguardia dei monumenti vincolati e la loro riqualificazione sotto il profilo comunicativo, e conseguendo addirittura alcuni risultati straordinari, primi fra tutti le aree della Villa dei Quintili e di Capo di Bove, restituite, nel loro pur diverso fascino, al "godimento di tutti".

Fra i tanti meriti della Soprintendenza archeologica vi è anche quello di aver garantito, attraverso la massima trasparenza della propria azione, anche un'informazione puntuale e costante sulle vicende dell'Appia, richiamando opportunamente l'attenzione su un bene comune di tanta importanza attraverso periodiche iniziative di illustrazione della propria attività, ma anche di discussione delle molte criticità aperte.

A questo fine mira la mostra fotografica "La via/mia Appia. Laboratorio di mondi possibili tra ferite ancora aperte", visitabile fino all'11 dicembre 2011 nella villa di Capo di Bove, in via Appia Antica 222. Attraverso 70 foto, storiche e recenti, viene ricostruita la storia della tutela della regina viarum, da Luigi Canina (metà Ottocento) a oggi. Una grande parete ricuce le tappe principali: iniziative, proposte di legge, piante storiche, documenti; così come il catalogo, La via Appia, il bianco e il nero di un patrimonio italiano, racconta alcuni dei passaggi fondamentali della storia moderna dell'Appia Antica e ne sottolinea l'esemplarità.

Sono circa 2.500 gli abusi, di varia entità, censiti nel tempo, contro i quali poco o nulla si riesce a fare: lo stesso Cederna, d'altronde, si era dovuto scontrare, ripetutamente, con l'inerzia di un'amministrazione incapace di eseguire le sentenze di abbattimento decretate dalla magistratura. Causa del degrado non è solo l'abusivismo, ma il mancato rispetto delle regole a ogni livello, a partire dalle prescrizioni d'uso, che troppo spesso i privati sentono come un vincolo intollerabile al loro diritto di proprietà, dimentichi del fatto che tale proprietà deve il suo valore a chi nei secoli ha trasformato questo territorio in un luogo di meraviglia, e che il privilegio di risiedervi non può non comportare, in qualsiasi comunità civile, qualche piccolo sacrificio. La norma, invece, sono i ricorsi continui nei confronti dei provvedimenti di vincolo, ricorsi che obbligano la Soprintendenza a un'estenuante guerriglia giudiziaria, spesso perduta per mancanza di adeguata tutela giuridica.

Eppure, nonostante tutto, si succedono anche le scoperte straordinarie e le iniziative di restauro e riqualificazione degli spazi. Nel 2002 la Soprintendenza acquista la Villa di Capo di Bove, riaperta al pubblico, dopo scavi e restauri, nel 2006. E il 12 novembre 2008, nella Villa, è stato inaugurato l'Archivio Cederna: l'insieme dei documenti e degli scritti del principale difensore dell'Appia trova una sede adeguata lungo la "sua" via. L'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, attraverso una convenzione con la Soprintendenza, partecipa all'iniziativa, curando il riordino informatico e collaborando alle iniziative di valorizzazione dell'Archivio.

Intanto l'Appia continua a rappresentare un'esemplificazione completa, nel bene e nel male, della situazione del nostro patrimonio culturale: dalla coesistenza tra necessità della tutela ed esigenze della modernità, tra fruizione pubblica e limiti della proprietà privata, fino alla piaga dell'abusivismo, che qui come altrove pare inestirpabile. Ma, come ci ricordava Cederna nel 1963: "Anche nelle situazioni più compromesse le battaglie condotte per anni dalle forze della cultura, dai tecnici coscienti e dalla stampa libera, non restano mai senza qualche risultato."

Sempre caro mi fu questo parcheggio da 50 posti auto più servizi igienici per le comitive in transito e – forse – pure l’allegra fila dei pullman in attesa coi motori accesi per mantenere il fresco d’estate e il tiepido d’inverno. Il Comune di Recanati non molla. Da anni vuole piazzare una struttura per accogliere altre automobili proprio su quel Colle dell’Infinito dove il poeta si sperdeva. Ma, al giorno d’oggi, c’è poco da indugiare, le casse piangono e bisogna trovare nuove iniziative per rilanciare le attività urbane. Ergo, nonostante il cambio di governo dal centro-destra a centrosinistra – con relativo passaggio dell’ex sindaco Pdl alla presidenza del Centro Nazionale di Studi Leopardiani –, l’idea avanza, procede, resiste. E si scontra con le romantiche aspirazioni di chi, in città, vorrebbe solo quiete e bellezza ad attrarre i turisti, non parchimetri e wc sanitarizzati.

Roberto Verdenelli, del Movimento Cinque Stelle, è furibondo: “Nel 2009, quando ha vinto la coalizione guidata dal Pd, speravamo venisse accantonata questa idea di spargere ancora cemento in un paese di ventimila abitanti che ha bisogno di intelligenza e di investimenti davvero culturali per sviluppare la sua vocazione turistica. Invece qua sono convinti che basti aggiungere 50 posti auto giusto sotto Casa Leopardi per far arrivare più gente. La verità è che vengono le gite scolastiche, un po’ di turismo stagionale, e per il resto zero. Il Cnsl non ha mai richiamato un granché, ed è pure un edificio bruttino, del periodo fascista: adesso che gli vogliono togliere gli alberi intorno non ci guadagnerà di sicuro”.

L’opera burocraticamente avviata dall’ex sindaco Fabio Corvatta e sostenuta ora dal successore Francesco Fiordomo dovrebbe cadere proprio su un versante del celebre colle al momento ricoperto da piante e alberi ad alto fusto, un’area che apparteneva al Cnsl ma che il Comune ha espropriato. “Non sarebbe più economico, più giusto, più naturale lasciare l’area così com’è? Come la vedeva il nostro famoso concittadino, un angolo di quel “natio borgo selvaggio” che tanto ci inorgoglisce e rende la nostra cittadina unica al mondo?” si sono chiesti quelli di Cinque Stelle in un comunicato che riprende il ping pong tra il settimanale “l’Espresso”, autore di un appello contro nuove costruzioni in loco, e il sindaco che ha risposto prontamente. “Nessuna nuova palazzina sotto l’Infinito” garantisce Fiordomo omettendo la notiziola sul parking e citando i consueti concetti di sviluppo, turismo et similia.

“Il problema è che questi politici fanno una gran confusione quando parlano di cultura ” sostiene Andrea Lodovichini, regista marchigiano, già aiuto di Paolo Sorrentino e vincitore di premi internazionali ma diventato famoso via Youtube per la protesta sullo spot della Regione Marche con Dustin Hoffman. Spiega: “Contestai alla Giunta la scelta di investire milioni di euro in quel progetto con modalità poco trasparenti, un bando lanciato in fretta e furia che ha scatenato la polemica nella polemica di far recitare a una star mondiale i versi del Leopardi. Risposta delle istituzioni: minacce di querela per i miei video in cui, mettendo in rete documenti pubblici, chiedevo conto di quelle scelte”. Secondo Lodovichini, i politici mescolano marketing e testi sacri, pubblicità e storia, piccoli interessi di parte e una gran paura di cambiare. “Sono tentativi puerili, con risultati spesso sterili. Io avevo riunito un gruppo di 110 artisti, Marche Autori, per sviluppare le arti audiovisive in una Regione capace di grande talento: dopo la storia degli spot non se n’è fatto più nulla, nessun finanziamento ci è arrivato, e si è sciolto tutto. Invece pare che Hoffman farà anche la terza edizione della pubblicità: spero funzioni per gli alberghi e i ristoranti, ma se si voleva spingere la cultura dei giovani e delle arti più contemporanee si poteva investire anche su altro”. Marche regione verde, con borghi e città, collina e spiagge, arte e cucina: un vero man-tra negli ultimi anni. “Però poi le scelte concrete vanno in un’altra direzione – sottolinea Anna Maria Ragaini del comitato No rigassificatore di Porto Recanati.

La Regione aveva dato parere favorevole all’installazione di due rigassificatori da piazzare a pochi chilometri dalle coste. Per quello più a Sud, praticamente davanti Loreto, ha fatto marcia indietro nonostante l’ok del Ministero dell’Ambiente. Per quella più a nord, davanti ad Ancona, il progetto è invece molto avanti grazie all’erroneo presupposto che, con questa concessione, il Gruppo Api manterrà il tenore dell’occupazione attualmente impegnata nel settore petrolifero. Ma nell’accordo siglato tra Api e Regione non si fa riferimento ai 380 operai e all’indotto, nessuno sa se questo rischio e questa bruttura serviranno all’economia o esporranno a danni incalcolabili le spiagge, il mare, l’intero ecosistema”.

Anche lo scrittore fermano Angelo Ferracuti è poco soddisfatto dalle logiche di investimento operate negli ultimi anni: “Marche o Italia cambia poco, l’idea è sempre quella dei ‘poteri fermi’, come li chiamava Paolo Volponi. Apriamo oggi un Premio in suo onore, a Fermo. Si parla di impegno civile, di argomenti poco attraenti e per nulla sponsorizzati. Rieditiamo alcuni scritti fondamentali in cui lui, scrittore e politico, criticava scelte scellerate come l’abbandono della linea ferroviaria Roma-Urbino o il taglio della scala mobile. Era un pensatore che, dal cuore di una piccola ma sapiente regione italiana, pensava con preoccupazione a una società superficiale, ingorda, atavicamente legata alle sue mafie e massonerie. Volponi oggi è di un’attualità imbarazzante, e certo non approverebbe nessuna di queste scelte, dal rigassificatore al gorgheggio di Dustin Hoffman sull’Infinito”. Con annesso parcheggio.

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