MILANO
Cosa c'era dietro lo scontro tra Boeri e Pisapia? Expo, lo sanno tutti. Adesso che a Palazzo Marino la calma sembra tornata, a mente fredda ci si può tranquillamente chiedere: ma chi aveva ragione? Dopo la sfuriata del sindaco, Stefano Boeri ha dovuto mettere la coda tra le gambe e rinunciare alle deleghe proprio sull'esposizione universale del 2015. Dietro il generico appello al rispetto della collegialità invocato dalla giunta c'era il fastidio crescente di Giuliano Pisapia per il continuo controcanto dell'archistar sulla fiera internazionale. Si era detto di uno scontro di personalità lontane fra loro. Può darsi, ma c'è dell'altro.
Il ballo del mattone
Il 2015 è la data fatale su cui Milano si gioca il tutto per tutto. L'economia della città motore d'Italia ormai da decenni gira attorno al mercato edilizio e immobiliare, soprattutto grazie alla riconversione delle ex aree industriali. E' su questo enorme flusso di affari e cemento che si riposizionano interessi e poteri fortissimmi. Gli ultimi industriali chiudono e svendono fabbriche ancora attive per puntare solo sul valore dei terreni. Le banche (Unicredit e Intesa in testa) lesinano credito alle imprese, ma sono invece esposte per miliardi di euro sul fronte delle speculazioni edilizie. Finanza e mercato immobiliare sono sempre più intrecciati. Ma gli immobiliaristi sono sempre più in crisi. Zunino è fuori gioco e Ligresti è sempre più in difficoltà, e sta per essere salvato in extremis da Unipol. Eppure è da questo gioco del mattone che dipende tutta la lunghissima catena di appalti e subappalti che si spartiscono cantieri, bonifiche e smaltimento rifiuti. Da questo dipende il lavoro nella regione più ricca d'Italia, e anche gli affari delle ormai accertate infltrazioni della 'ndrangheta.
La politica in Lombardia, e a Milano, negli ultimi venti anni si è occupata prima di tutto di gestire questo enorme business. Su queste fondamenta di cemento armato si è sviluppato il ventennio di governo delle destre e il lungo pontificato (quattro mandati) del governatore ciellino Roberto Formigoni, ma anche il ruolo succube, per non dire connivente, del centrosinistra di Filippo Penati & Compagni, impegnati a ricavarsi un posticino nella stanza dei bottoni cercando di spartire la torta tra Cooperative rosse e Compagnia delle opere.
Adesso, però, è tutto cambiato. La crisi mondiale del mattone prima, e la crisi mondiale poi, rischiano di fare saltare il banco. Il settore immobiliare è in stagnazione, la cuccagna è finita, la torta è molto più piccola e non basta per tutti. E se il castello di cemento crolla, tutti rischiano di crollare. Per questo ognuno cerca di salvarsi come può. Il bel mondo del business milanese è diventato un verminaio di interessi incrociati e contrastanti che si riverbera nell'implosione del sistema di governo delle destre, e nella crisi non ancora risolta del Pd.
Expo rappresenta l'ultima spiaggia per tutti. Anche per Giuliano Pisapia, l'unico che con tutta questa storia non c'entrava proprio nulla e che però si trova a governare proprio nella fase più delicata. Ma questo è solo il primo di una lunga serie di paradossi legati alla fiera del 2015.
Il paradosso dell'Archistar
Non era passato neppure un giorno dalla vittoria di Pisapia, ed ecco servito il secondo paradosso. Boeri, l'architetto di alcune della maggiori speculazioni immobiliari, l'uomo nuovo del Pd del nord clamorosamente bastonato alle primarie, ha tentato di riciclarsi interpretando l'inedito ruolo di paladino ambientalista contro le colate di cemento. Da allora non ha mai perso occasione di sparare contro la giunta (e contro Pisapia). E' stato questo «fuoco amico» insistito che ha portato allo scontro mal ricucito col sindaco.
Ma chi è, o meglio chi era Boeri, prima di scoprirsi star della politica? Insomma, da che pulpito viene la predica? Boeri ha realizzato il masterplan dei progetti sull'area destinata a Expo, quando Expo era ancora il fiore all'occhiello d Letizia Moratti. Da quando si è candidato, l'archistar ha difeso con le unghie il suo mitico orto planetario, ma sembra essersi dimenticato dei progetti di palazzoni previsti già allora su quell'area, anche se le simulazioni sulle cubature previste su quei terreni restano archiviati negli scaffali del suo ufficio. Boeri è anche l'architetto che era stato chiamato per realizzare con urgenza i lavori per il G8 alla Maddalena. Visse sull'isola mesi senza accorgersi del giro incredibile di corruzione e malaffare che ruotava intorno alle sue opere architettoniche. E Boeri, soprattutto, è anche il progettista del cosiddetto «orto verticale» (due palazzoni «verdi» nell'ambito dell'impressionante colata di cemento sull'area Repubblica-Garibaldi). E' l'architetto del Cerba, il mega centro di ricerca sognato da Umberto Veronesi da realizzare sulle aree del principe del mattone, Salvatore Ligresti, proprio nel mezzo della grande area agricola del parco sud di Milano. Ma allora, com'è possibile che proprio lui abbia potuto permettersi di rifarsi una verginità attaccando Giuliano Pisapia su Expo e accusandolo nientemeno di fare il gioco di Roberto Formigoni e degli immobiliaristi speculatori?
La sconfitta di Letizia Moratti
Il trucco c'è, e sta nel fatto che Pisapia è entrato nella partita di Expo quando i giochi erano già fatti e mancava un minuto alla fine. Quando è arrivato a Palazzo Marino mancavano poche settimana prima che il Bie, il comitato internazionale di Parigi, disgustato dall'infinita querelle tra Moratti e Formigoni, portasse via la fiera da Milano per manifesta incapacità di realizzare l'evento. Il vincitore della partita, dopo tre anni di duri scontri con Letizia Moratti, c'era già ed era Roberto Formigoni, il quale certo non ha versato troppe lacrime per la sconfitta dell'ex sindaco. Palazzo Marino non aveva i soldi per comprare i terreni di proprietà di Fiera Milano (che dipende dalla Regione) e del gruppo Cabassi. Per questo la Moratti poteva solo puntare sul comodato d'uso. In pratica, se fosse andato in porto, Fiera e Cabassi avrebbero ceduto il diritto di utilizzare i terreni fino alla fine di Expo per poi riprenderli con la concessione di potere edificare su metà dell'area a un indice di edificazione intorno allo 0,5%.
Un affarone per Fiera Milano, che quei terreni li aveva acquistati per quattro soldi pochi anni fa, e che se li sarebbe visti super rivalutati. I Cabassi erano d'accordo, anche se loro quelle terre le possiedono da sempre e su quell'area avevano già subìto sette espropri, pari a tre quarti della superficie originale.
Boeri vs Cabassi
Ai Cabassi piace essere considerati degli «sviluppatori» (non immobiliartisti alla Ligresti) interessati, oltre che al business, anche all'idea di poter gestire al meglio i progetti per il dopo Expo. Lo stesso Boeri, pochi giorni prima di accettare la sfida delle primarie, aveva riconosciuto loro questa capacità e li aveva indicati come i migliori candidati alla gestione del suo famoso orto planetario dopo il 2015. Eppure, un secondo dopo essersi lanciato in politica, come spesso gli è capitato, ha cambiato linea e non ha risparmiato duri attacchi anche ai Cabassi, dipingendoli come squali del mattone. Lo scontro non si è mai risolto tanto che la famiglia Cabassi sarebbe pronta anche a portarlo in tribunale per diffamazione, dove troverebbe a difendere l'architetto un peso da novanta come l'avvocato Guido Rossi, amico storico della famiglia Boeri.
Lo strapotere di Formigoni
Ma torniamo all'infinito braccio di ferro per l'acquisto dei terreni. Chi invece i soldi per comprare l'area li aveva eccome era il solito Formigoni, o meglio la Regione (si parla sempre di soldi pubblici). Da qui l'idea: ventilare l'esproprio dei terreni in nome dell'interesse pubblico facendo poi acquistare a prezzi scontati l'area ad una società creata ad hoc (ArExpo) - composta da Regione, Comune, Provincia, Fiera Milano e Camera di Commercio. Quindi, essendo l'unico in grado di comprare, Formigoni è riuscito mettere tutti sotto il suo dominio.
Ed ecco un altro paradosso: la vittoria di Giuliano Pisapia ha chiuso definitivamente la partita del governatore con la rivale Letizia Moratti. Formigoni è rimasto l'unico incontrastato principe di Expo. In pochi mesi è riuscito a ridurre il sindaco di Milano al ruolo di semplice controllore; e, soprattutto, gli indici edificatori delle aree sono stati confermati allo 0,52%, ma lo «sviluppatore» per il dopo Expo non saranno né i Cabassi - costretti a vendere a prezzi di saldo, prendere o lasciare - e neppure il Comune di Milano. Sarà il solito giro del Pirellone, una delle Regioni con il più alto tasso di inquisiti d'Italia.
La scelta obbligata di Pisapia
Quindi, anche se Boeri è l'ultimo che aveva i titoli per sollevare la questione, non aveva tutti i torti quando sostenne che Palazzo Marino, pur di non perdere i cospicui finanziamenti in arrivo da Roma per Expo, era rimasto schiacciato sulla linea di Formigoni. Il fatto che i terreni siano pubblici, infatti, non mette i milanesi al riparo dalla speculazione edilizia. Anzi. L'esborso di soldi pubblici (120 milioni, 80 alla Fondazione Fiera, 40 ai Cabassi anticipati per intero dalla Regione) impone di far fruttare al massimo quelle aree dopo l'Expo. Questo significa una cosa sola: costruire. Altro che parco agrolimentare, quello tanto caro a Boeri e soprattutto ai milanesi che per averlo hanno anche votato a larga maggioranza un referendum ambientale. E non è un caso se il giorno dopo la lavata di capo del sindaco a Boeri le mitiche serre dell'archistar siano diventate virtuali e gli orti abbiano lasciato il posto ad una più tecnologica e meno verde «Smart city».
Mentre intorno all'area di Expo stanno per partire due enormi progetti edilizi: Cascina Merlata e le torri di via Stephenson. A Cascina Merlata cooperative «bianche» e «rosse» - insieme a Banca Intesa - costruiranno a partire da questa primavera 4 mila alloggi low cost e per l'housing sociale, supermercati e quattro torri per uffici su una superifice di 127 mila mq. Un'operazione immobiliare da 1,2 miliardi di euro. In via Stephenson sono in attesa di partire i progetti di Ligresti, torri altissime che saranno ridimensionate solo grazie alle modifiche del Pgt (piano regolatore) volute dalla nuova giunta di Palazzo Marino. Il sospetto è che Expo fornirà i servizi per ciò che già adesso sta per essergli costruito intorno.
Ma il paradosso più grande è che il Comune di Milano, nonostante sia l'istituzione con le casse più vuote, debba però sborsare più di tutti per l'Expo di Formigoni (magari tagliando anche su quelle voci che sono irrinunciabili per chi Pisapia lo ha votato). Palazzo Marino deve pagare 28 milioni e mezzo e cedere una parte dei terreni comunali per avere il 36,7% di AreExpo (stessa quota della Regione) ai quali vanno aggiunti 20,4 milioni in 4 tranches per le spese di gestione. Una realtà difficile da accettare, anche perché il Comune forse avrebbe potuto tentare un'altra via: lasciare il gioco alla Regione senza sborsare un euro per i terreni e mantenere comunque l'ultima parola sulla destinazione urbanistica, visto che buona parte dell'area Expo è su territorio comunale. Il progetto originale, quello che aveva avuto anche la consulenza eminente di Carlin Petrini di Slow Food, è completamente snaturato e ridimensionato, i cantieri scontano anni di ritardo e molte strade e metropolitane connesse all'Expo non si concluderanno entro il 2015, ma il sindaco è costretto ad andare fino in fondo. E per questo sta facendo il possibile per portare a casa qualcosa di utile per la città, come, per esempio, la sistemazione della Darsena dei navigli e lavoro per i cassintegrati.
Ormai non si può fare altrimenti: questa è l'unica via percorribile per non buttare un'occasione d'oro e non lasciare a Roma i miliardi che dovrebbero arrivare per tutte le opere direttamente e indirettamente legate all'Expo. Tanto più adesso che al governo non c'è Silvio Berlusconi, e neppure Giulio Tremonti che all'esposizione universale non aveva mai creduto. Oggi ci sono i banchieri milanesi che nell'affare del mattone a Milano hanno investito moltissimo. E le banche adesso si trovano scoperte per miliardi e hanno una gran paura che prima o poi la bolla immobiliare milanese gli scoppi in faccia.
La relazione di compatibilità economica della Commissione Roma 2020 mostra l'impatto positivo in termini economici di una candidatura della capitale alle Olimpiadi e Paralimpiadi del 2020. Analizzando a fondo la relazione, emerge che da un punto di vista metodologico sono state fatte scelte che hanno come conseguenza la convenienza del progetto. Ne deriva che la Commissione ha effettuato una valutazione che sovrastima alcuni benefici dell’evento, e va quindi presa con cautela.
La recente relazione di compatibilità economica per la valutazione della candidatura di Roma alle Olimpiadi e Paralimpiadi del 2020 ha dimostrato il potenziale impatto positivo dei Giochi sull’economia della capitale, del Lazio e del paese nel suo complesso. La Commissione di compatibilità economica, presieduta da Marco Fortis, afferma che le Olimpiadi, in un’ottica keynesiana di supporto pubblico alla domanda, porterebbero a una crescita dell’1,4 per cento del Pil. Nella Relazione, s’ipotizza un impegno economico di 9,7 miliardi di euro, di cui 4,7 miliardi pubblici: 2,5 per costi di organizzazione, 2,8 per infrastrutture sportive e 4,4 per infrastrutture di trasporti, mobilità e progetti urbani. Le Olimpiadi sarebbero a costo zero per lo Stato: l’investimento si autofinanzierà attraverso un maggior gettito erariale futuro e attraverso i ricavi del Comitato Organizzatore (ad esempio, biglietteria) e della valorizzazione immobiliare. Infine, i benefici occupazionali sarebbero notevoli, ma transitori: 170mila unità anno di lavoro in quattordici anni, con un picco di 29mila nuovi occupati nel 2020. D’altra parte, è necessario smorzare facili entusiasmi.
Il lavoro del team Fortis, seppur svolto con professionalità, sembra rappresentare una giustificazione economica a una decisione puramente politica. Sin dall’edizione di Los Angeles del 1984 sono state introdotte valutazioni ex ante sull’entità del finanziamento necessario e sui benefici derivanti dai Giochi, ma con scarsi risultati. (1) Tali studi sono più che altro esercizi matematici, che dimostrano ipoteticamente la convenienza dell’evento. D’altra parte, se la Relazione fosse inconfutabile, perché il Governo Monti sta prendendo tempo prima di dare una risposta su Roma 2020? Se i Giochi sono tanto convenienti, perché mettere in dubbio i risultati?
IPOTESI CREDIBILI?
Nella relazione, si confronta l’ipotesi in cui vengano assegnati i Giochi a Roma rispetto a un’ipotesi di base in cui i Giochi non vengano ospitati (cioè zero investimenti). Risultato: crescita del Pil e dell’occupazione. Si vede che alla Commissione piace vincere facile. Creare ipotesi alternative credibili è sicuramente impresa ardua. Ma un confronto corretto richiederebbe un’ipotesi rilevante, ad esempio, il caso in cui si investisse comunque in tutte le infrastrutture urbane e sportive previste nella Relazione, escludendo invece i costi direttamente legati all’organizzazione dell’evento. Solo in questo modo sarebbe possibile dimostrare il valore aggiunto delle Olimpiadi.
IL MODELLO
La relazione utilizza una metodologia input/output (I/O) per la valutazione dell’impatto dell’evento. Nell’appendice alla relazione si sostenga che negli ultimi anni tale metodologia sia stata in parte abbandonata a favore di modelli di Computable General Equilibrium (Cge), che superano la visione statica dei modelli I/O, permettendo di inserire le dinamiche comportamentali (come le aspettative) degli agenti. (2) Nel modello I/O utilizzato dalla commissione, i prezzi dei beni e dei servizi “non sarebbero influenzati, se non marginalmente per gli effetti della maggiore domanda” (pag. 62). Non tenendo in considerazione i vincoli dell’offerta, si sta ipotizzando, ad esempio, che i prezzi di alberghi e ristoranti non aumenteranno durante il periodo dell’analisi. In realtà, l’offerta non è sempre disponibile in qualsiasi quantità, ma sono i prezzi a modificarsi. In definitiva, i modelli I/O non includono gli effetti negativi, ma sovrastimano sistematicamente i benefici di un evento. Anche il modello Cge non è esente da critiche, ma è più accurato, e sorge il dubbio sul perché non sia stato scelto. La risposta si trova tra le righe dell’appendice: “i modelli Cge sono più costosi da sviluppare rispetto agli input-output, a fronte della struttura più complessa e del maggiore quantitativo di dati richiesto” (pag. 69). Di fatto bisognerebbe modellizzare il sistema dei prezzi e dei salari, complicando l’analisi. (3) Ne consegue che si è preferito risparmiare tempo e denaro.
I PUNTI CRITICI
Nella Relazione si prevede anche: 1. un aumento dei posti di lavoro legati all’organizzazione dei Giochi Olimpici, al commercio, al turismo e al settore delle costruzioni. Ma che tipo di posti di lavoro? Part-time? Temporanei? 2. nessun effetto negativo per il turismo, grazie alla particolare configurazione del nostro sistema turistico, caratterizzato da molti poli di attrazione. I turisti continueranno a visitare Roma e altre località italiane, senza paura di sovraffollamento, con un effetto positivo sui consumi e sul settore turistico. Un modello Cge avrebbe invece incluso l’effetto di un aumento dei prezzi dovuto alla crescita della domanda dei turisti, e anche lo spostamento di risorse in questo settore da altre industrie, con conseguenze economiche negative sulle seconde. Giesecke e Madden dimostrano con un modello Cge come i Giochi di Sidney abbiano comportato uno spiazzamento dei consumi a livello nazionale di 2,1 miliardi di euro; (5) 3. gli investimenti in infrastrutture (il villaggio olimpico e il villaggio media ) verranno “certamente” recuperati attraverso i privati. Una visione a dir poco ottimistica: il costo delle Olimpiadi di Londra 2012 è triplicato dall’anno della candidatura e il governo dovrà coprire con soldi pubblici il mancato investimento, a seguito della crisi, da parte dei privati. 4. la spesa pubblica prevista per i Giochi implicherà una riduzione della spesa in altri settori: a essere tagliate saranno le spese che risulteranno meno efficienti in termini di moltiplicatore del reddito. Sarebbe interessante sapere se anche per questa scelta si utilizzerà sempre un modello I/O. I risultati finali della Commissione dipendono dunque dalle discutibili ipotesi del modello, che dimostrano la convenienza economica del progetto Roma 2020. Ciò implica che non è una valutazione del tutto obiettiva, e, sovrastimando i benefici, dovrebbe essere presa con cautela.
(1) Preuss, H. (2004) “The Economics of Staging the Olympics”. Edward Elgar. London Reference Collections.
(2) Dwyer, L., P. Forsyth, J. Madden, and R. Spurr (2000) “Economic Impacts of Inbound Tourism under Different Assumptions Regarding the Macroeconomy”. Current Issues in Tourism, 3: 325-363.
(3) Blake, A. (2005) “The Economic Impact of the London 2012 Olympics”. Nottingham University Business School Working Paper No. 5, 2005.
(4) Giesecke, J.A., and J..R Madden (2007) "The Sydney Olympics, seven years on: an ex-post dynamic CGE assessment" Centre of Policy Studies/IMPACT Centre Working Papers -168, Monash University, Centre of Policy Studies/IMPACT Centre.
1. DAGOREPORT
La conquista del cinema Etoile, nella centralissima piazza San Lorenzo in Lucina, da parte del colosso della moda francese LVMH di Bernard Arnault, merita due righe. Intanto, lo spazio ha visto una guerra fino all'ultima goccia di sangue tra Armani e il transalpino. Non si sa come e perché, bisognerebbe chiederlo al Comune di Roma, ha vinto Arnault.
Anche perché l'ostacolo maggiore all'operazione porta il nome di "cambio di destinazione": come ha fatto il colosso parigino a convincere il Campidoglio a cedere, da cinema a grande magazzino di moda, il "più grande d'Europa"? Con i soliti "inghippi" alla romana: dalla pavimentazione del Tridente a una serie di "trovate", prossime alle stronzate, di creare una saletta cinematografica (con poltrone d'oro!) per chissà quali documentari in gloria della griffe, più vari ipotetici e anche ridicoli riferimenti al mondo del cinema.
Amorale della fava: mentre Roma dimostra ancor di più di essere una città portata alla penetrazione anale da parte di chiunque atterri a Fiumicino, il paraguru Arnault ha ‘incassato' un grande valore immobiliare.
2- RESTYLING GRIFFATO PER IL TRIDENTE FINANZIATO DALLA MAXI BOUTIQUE VUITTON
Alessandra Paolini, per "la Repubblica - Roma "del 13 maggio 2011
Come è possibile? La generosità non c'entra. C'entra piuttosto un accordo tra il Campidoglio e la Luis Vuitton, che a piazza in Lucina aprirà nei prossimi mesi il suo store più grande d'Europa. Lo aprirà lì, nell'ex spazio Etoile, ancor prima cinema. E proprio i soldi - due milioni e mezzo di euro circa, realizzati con gli oneri concessori per il "cambio di destinazione" - verranno spesi per rimettere a posto uno degli angoli più nobili della città eterna.
Il rapporto è diretto. I soldi saranno spesi direttamente dal marchio francese, che ha scelto anche le ditte committenti, mentre al Comune spetterà la supervisione dei lavori. Dovranno essere celeri: 32 settimane, complessivamente. E portati avanti con un sistema a "quarti" di via per cercare di creare minor disagio possibile ai negozi, che con la crisi non se la passano bene.
I lavori sono necessari. "Basta fare un giro per via del Gambero per vedere quante buche ci sono. Passeggiare in certe strade oramai è a rischio frattura", dice Stefano Mencarini, dell'associazione Tridente di Confesercenti. Così i commercianti, seppur spaventati (ne sono stati interpellati 250) sembra siamo pronti alla grande "rivoluzione". Le strade verranno lastricate da sampietrini, i marciapiedi buttati giù e al loro posto ci sarà una nuova pavimentazione, fatta da altri sampietrini di dimensioni più grandi.
2- LOUIS VUITTON E CENTRO SPERIMENTALE INSIEME PER I NUOVI TALENTI DEL CINEMA
http://www.bestmovie.it/
Uno dei marchi più prestigiosi dell'alta moda e la più antica scuola di cinema del mondo uniscono le forze per sostenere e arricchire la formazione delle promesse della settima arte in Italia. In occasione dell'apertura della Maison Roma Etoile, è stata infatti siglata una partnership triennale tra Louis Vuitton e Centro Sperimentale di Cinematografia a sostegno dei giovani talenti dell'istituto.
Gli studenti della Scuola Nazionale di Cinema avranno così l'opportunità di frequentare workshop e laboratori con celebri personalità del mondo del cinema, amiche della Maison. Gli studenti particolarmente meritevoli, ma privi di mezzi, avranno inoltre accesso a borse di studio istituite proprio in virtù di questa nuova collaborazione.
3- ROMA IN SVENDITA
Paola Pisa, per “Il Messaggero”
Due ali di folla come agli Oscar. Applausi a scena aperta per ogni diva che avanza. La piazza gremita. Il palazzo illuminato a festa. Un evento a stars&fashion da non dimenticare quello della apertura della prima Maison italiana, la Etoile Louis Vuitton. Lo scalone che occupa gran parte della immensa sala è stato concepito per sembrare una pellicola che si srotola. Le pareti-pannello che accolgono all'ingresso sono composte da mini-immagini di film in super-otto, un gioco-impazzimento da vero cinofilo.
Le prime borse in cui ti imbatti sono quelle colorate e disegnate da Sofia Coppola, amica della griffe. Nella saletta, con diciannove poltrone supercomode, si proiettano corti d'autore. Uno spasso anche per chi vorrà solo entrare e visionare. Ieri mattina si sono visti il filmato intitolato Handmade cinema di Laura Delli Colli e Guido Torlonia, produttore Luchino Visconti di Modrone, voce narrante Chiara Mastroianni e la serie di minifilm che parlano del Viaggio, complice da sempre del marchio francese. La collaborazione col Centro Sperimentale sarà continua e si avvarrà della collaborazione di Luca Guadagnino.
Ma è la moda, chiaro, che domina. E, nello splendore di luci che abbagliano, nel tripudio di bauli, borse, accessori, vestiti, nel trionfo di champagne e negazione di tutto quanto sia triste e depresso, con una iniezione di ottimismo come fosse una commedia glamour, ecco arrivare i personaggi da red carpet che fanno sognare dal grande schermo. Serata mix di Hollywood e Cinecittà.
C'è Bernard Arnault, presidente di LVMH, gruppo che riunisce il top del lusso mondiale. Ad accogliere è Yves Carcelle, presidente di Vuitton che si dichiara entusiasta di far rivivere un palazzo storico, nato nel '900 per il cinema muto. E' stata qui la prima, nel '49, di Riso amaro. «Abbiamo fatto un omaggio alla Hollywood sul Tevere», dice Pietro Beccari che ha seguito la realizzazione del negozio come vice presidente Vuitton, ma prestissimo sarà presidente di Fendi.
Ecco a voi, appunto, la Maison Etoile Louis Vuitton, spazio-cinema-libreria che più grande non si può. L'ha ideata Peter Marino, archistar americana, presente nel suo completo byker in pelle nera. C'è Patrick Louis Vuitton, discendente della famiglia di fondatori del marchio, che ora segue gli ordini speciali.
Da domani fino al 5 febbraio, alcuni bauli unici saranno in esposizione. Altri, così ha voluto l'architetto, salgono fino al cielo in quella parete infinita che Marino chiama la colonna vertebrale del negozio. L'inaugurazione è un momento di grandeur. Cate Blanchett è un sogno nel vestito Anni 50 pastello, Catherine Deneuve, accompagnata da Carla Fendi, indossa una pochette gioiello ed è accompagnata dalla figlia Chiara Mastroianni, ci sono Antoine Arnault e la fidanzata Natalia Vodianova che è uno schianto, è arrivato Stefano Accorsi in genere molto parigino e Laetitia dipendente ma al momento a Roma per le prove dello spettacolo Furioso Orlando che debutterà tra poco all'Ambra Jovinelli.
Poi Margaret Madè, Laura Morante, Francesco Scianna, Lavinia Biagiotti, Delfina Delettrez, Nicola Bulgari, il premio Oscar Francesca Loschiavo, Anita Caprioli, Adriano Giannini, Sveva Alviti, Saverio Ferragina con una delle top model che hanno sfilato per Dior e si è precipitata qui. C'è un po' di society romana che non guasta, come Mario D'Urso, Ivonne Sciò, Isabella e Ugo Brachetti Peretti, Ginevra Elkann e il marito Giovanni Gaetani dell'Aquila d'Aragona. Un jet privato con venti persone a bordo è arrivato dalla Francia, le limousine prenotate sono un subisso. La cena privatissima dopo il vernissage è a Palazzo Ruspoli.
Un marziano potrebbe pensare che in una città amministrata nel nome della legalità e del bene comune la discussione verta su come incarnare e rendere concreto lo spirito delle leggi, onorandone, e financo superandone, la lettera in nome dei principi superiori che esse traducono in norma.
Tradotto in pratica: quel marziano potrebbe pensare che a Napoli si discuta su come rendere più bella, pulita e sicura la Villa Comunale o su come proteggere dal traffico Via Caracciolo.
E quel marziano si sbaglierebbe di grosso, perché – tutto al contrario – la discussione non è sullo spirito, ma sulla lettera della legge: e cioè su come e su quanto si possano aggirare i numerosi vincoli che mettono al sicuro quei luoghi meravigliosi.
In questa nobile caccia al cavillo, poi, nessuno vuole rimanere col cerino acceso in mano.
Il primo passo lo ha fatto l’amministrazione comunale, chiedendo alla Soprintendenza se i vincoli consentono di prolungare la scogliera e di collocare le installazioni necessarie alle regate. E qui c’è la prima anomalia: ad un’amministrazione che ha i valori che dice di avere quella presieduta da Luigi De Magistris non dovrebbe venire nemmeno in mente di compromettere (anche solo temporaneamente) uno straordinario bene comune come il paesaggio del Lungomare. E il punto non è se il vincolo lo consente o meno: ma se quel progetto è giusto, sano ed educativo. Non tutto quello che i vincoli consentono va necessariamente fatto: almeno se il progetto è quello di rivoluzionare il modo di fare politica e di amministrare una città.
E qui inizia il balletto delle responsabilità.
Il soprintendente al Paesaggio Stefano Gizzi è chiaramente poco entusiasta del progetto, ma si limita a dire ‘ni’ rinviando la decisione.
Vista la complessità dei vincoli e la molteplicità delle competenze coinvolte, la palla passa dunque al Direttore generale regionale del Mibac, Gregorio Angelini: il quale si guarda bene dal decidere, e interpella l’Ufficio legislativo del Ministero, a Roma. Naturalmente, il responso dell’ufficio non sostituisce formalmente la decisione del Direttore regionale: ma è evidente che la mossa ha anche il valore mediatico e politico di condividere la responsabilità con Roma, se non proprio di scaricarsela di dosso.
Ebbene, ora che Roma locuta est, è finita questa interminabile causa? Manco per sogno, perché anche al Legislativo del Mibac stanno bene attenti a non rimanere col cerino in mano. Il parere (firmato dal capo dell’Ufficio, Paolo Carpentieri) è per certi versi così abilmente ambiguo che il marziano di cui sopra potrebbe ben chiedersi a cosa diavolo servano questi benedetti vincoli, visto che un vincolo che vieta di collocare gli ombrelloni d’estate potrebbe esser piegato a consentire la costruzione di oltre centocinquanta metri di scogliera.
Ciò nonostante, ci sono alcuni punti fermi.
Il primo è che, mentre strutture stagionali sarebbero vietate, la Soprintendenza può, in questo caso, dare parere favorevole perché le «opere precarie» della Coppa (cioè passerelle, ormeggi, ponti e boe) rimarranno in loco «pochissimi giorni».
A questo ragionamento sfugge però il prolungamento della scogliera, che – con tutta la buona volontà – è difficile definire un’«opera precaria». In un passaggio, i giuristi del Mibac riconoscono, infatti, che la scogliera «presenta un notevole impatto sull’ambiente», per poi precisare: «ma non sembra porre problemi di compatibilità con il vincolo». E qui è impossibile non chiedersi: la Direzione generale avrà a cuore l’ambiente, o avrà a cuore il vincolo?
Si tratta a quel punto di fidarsi dell’Amministrazione, accettando di considerarla opera «di cui si assume sia certa la rimozione, stante l’impegno espressamente assunto in proposito dal Comune di Napoli». Dunque, conclude il parere, il progetto potrà essere autorizzato «soltanto sulla base di idonea valutazione che – previo specifico e puntuale accertamento degli elementi e delle circostanze di fatto idonei a rendere certa e sicura la pronta rimozione dei manufatti – tenga conto, da un lato dell’impatto visivo delle opere sul paesaggio marino, e dall’altro, del tempo più o meno lungo di permanenza della modificazione dello stato dei luoghi, anche in considerazione dei tempi stimati di installazione e di rimessione in pristino».
Ora cosa succederà? Al Mibac si fa notare che il direttore generale Angelini potrebbe, sì, dare l’autorizzazione, ma condizionandola a tali e tanti paletti da rendere l’operazione di montaggio e smontaggio macchinosissima e costosissima. Perché almeno una cosa, il parere la rende chiarissima: la scogliera e le altre opere non potranno restare fino alle regate del 2013, ma dovranno essere realizzate e dunque smontate per ben due volte, quest’anno e il prossimo (il che, se ha ragione Gian Antonio Stella, vuol dire 3200 camion carichi di pietre che vanno e vengono per quattro volte: senza contare le messe in opera). Ed entrambe le volte dovranno rimanere in loco solo per lo strettissimo indispensabile: cioè pochissimi giorni oltre ai nove delle regate.
Dunque, il cerino tornerà probabilmente nelle mani del sindaco De Magistris: a cui spetterà chiedersi se davvero Napoli ha bisogno di questo Grande Evento, a queste condizioni.
E a quel punto, piegata la lettera della legge, vedremo almeno chiaramente dove soffierà lo spirito.
E se avesse ragione Ennio Flaiano? Se venisse confermato per l’ennesima volta che da noi niente è più definitivo del provvisorio? È questo il dubbio di chi si oppone, a Napoli, alla trafelata costruzione per l’America’s Cup di due barriere di 170 metri, il carico di almeno 3.200 camion, in faccia a via Caracciolo. « Piano B. Extralusso » dopo il fallimento del milionesimo piano per Bagnoli. Vi chiederete: ma proprio davanti alla Villa Comunale e a via Caracciolo, che tanti napoletani dicono essere «la più bella strada del mondo col più bel panorama del mondo» dovevano programmare le regate dei catamarani dell'America's Cup Events? Proprio lì devono costruire due «baffi» di una nuova scogliera per 95 metri da una parte e 75 dall'altra per «ricavare un maggiore spazio d'acqua in sicurezza, cioè al riparo della barriera, in caso di mare grosso» più una decina di capannoni di tela per il ricovero delle barche più le altre strutture d'appoggio?
L'errore è nell'uso del verbo «programmare»: come ha ricostruito sul Corriere del Mezzogiorno Angelo Lomonaco, qui non hanno programmato proprio niente. E il luogo è stato scelto all'ultimo istante, nel ricordo delle regate napoletane per le Olimpiadi del '60 (altro secolo, altro mondo...), per mettere una pezza, come dicevamo, all'evaporazione del progetto originale, quello di sfruttare la scusa dell'America's Cup per risanare almeno un pezzo dell'ex area industriale di Bagnoli.
L'ultima puntata di un tormentone iniziato un quarto di secolo fa. Basti dire che sono passati 23 anni da quando Edoardo Bennato compose una canzone che già aveva capito tutto: «Ma che occasione, ma che affare / Vendo Bagnoli chi la vuol comprare / colline verdi mare blu / avanti chi offre di più...» E ne sono passati 16 da quando il governo Dini presentò un progetto di bonifica della zona che prevedeva una spesa di 267 miliardi dell'epoca e si intitolava «Bagnoli 2000» perché avrebbe dovuto «essere completato entro il 1999». Campa cavallo...
Sono anni che i piani per Bagnoli tornano e ritornano. In tutte le salse. Compresa, appunto, la salsa velista. Con il progetto di portare nell'area un tempo occupata dall'ex Italsider le finali dell'America's Cup del 2003. Quella vera, finita poi a Valencia. Obiettivo fallito. Anche stavolta erano ripartiti da lì, da Bagnoli. Quel territorio un tempo stupendo stuprato da una industrializzazione sbagliata insieme con l'isola di Nisida cantata dallo stesso Bennato: «Non è un problema ecologico per carità / Nisida è un classico esempio di stupidità».
Solo pochi mesi fa, il 6 agosto, una nota del governatore campano (di destra) Stefano Caldoro, del sindaco (vendoliano) Luigi de Magistris e del presidente partenopeo dell'Unione degli Industriali Paolo Graziano esultava: «Siamo ormai vicinissimi a un grande traguardo che rappresenta una occasione di crescita e sviluppo per l'intero territorio». Che te ne fai del sole, del Vesuvio, del mare, di Capri, di Castel dell'Ovo e dei musei meravigliosi senza uno straccio di regata velica? Poi, l'autoelogio: «È il segno evidente che quando funziona la collaborazione fra le diverse istituzioni e c'è voglia di fare...».
Sì, ciao. Mancava il via libera del ministero dell'Ambiente. Per settimane e settimane, l'hanno aspettato. Finché il 15 dicembre, quando mancavano solo tre mesi e mezzo all'inizio delle regate fissato il 7 aprile, gli amministratori hanno dovuto arrendersi: «Abbiamo pronto un piano B». Via Caracciolo. Con il vantaggio di poter usare l'occasione, se proprio non si può risanare Bagnoli, di risanare almeno il cosiddetto «lido Mappatella», una spiaggia definita dagli stessi organizzatori «una vergogna cittadina» da sostituire con «un'attrezzatura balneare e di svago degna di una città civile». Tre giorni dopo Caldoro confermava: «Piano B». Via Caracciolo. «Soluzione molto apprezzata dagli americani», parola del vicesindaco Tommaso Sodano. Ci credo: e dove lo trovavano un palcoscenico più bello? Che importa loro dei problemi urbanistici napoletani?
Il guaio è che devono esser fatte le scogliere che dicevamo per allungare di qua e di là la barriera già esistente davanti alla rotonda Diaz. Totale delle rocce da posare: il carico, se il mare non consentisse l'uso delle chiatte, di almeno 3.200 camion. Un viavai infernale. Che costringerà a chiudere per settimane al traffico via Caracciolo dirottando il caos della viabilità partenopea, che già impressionò Alphonse de Sade, sulla parallela riviera di Chiaia.
Problema: tutta l'area sottoposta a tutela. «Sono vietati ormeggi stagionali, passerelle, pontili, boe fisse e simili in acqua, finalizzati all'ormeggio dei natanti, nonché tavolati, passerelle e attrezzature da spiaggia al di sopra delle scogliere; piattaforme in cemento armato o in muratura; baracche e/o prefabbricati». Parole così rigide da non poter essere aggirate. Come uscirne? Idea: il vincolo non parla di opere «provvisorie». Passata la settimana di regate, basta togliere tutto...
Ma ve li immaginate, a Napoli, gli escavatori e le gru e i camion che rimuovono una scogliera artificiale di 170 metri perché «provvisoria»? Per poi magari ricostruirla, avanti e indrè, per l'altra settimana di regate nel 2013? Dicono: ci sono già i finanziamenti per la rimozione. Sinceramente: dopo tante prove di inaffidabilità ci si può fidare?
Se lo sono chiesti in tanti, sul Corriere. Da Gerardo Ragone a Paolo Macrì, da Benedetto Gravagnuolo a Mirella Barracco, anima della fondazione «Napoli novantanove». La quale ha posto il tema: perché spacciare l'iniziativa come «una panacea di tutti i nostri mali»? Perché ripetere («Ancora!») la formula imbolsita che le regate serviranno a offrire «una nuova immagine di Napoli nel mondo»? Molto meglio, «per dimenticare la mortificazione mondiale del disastro rifiuti, dal quale si comincia appena a venir fuori» recuperare un «grado di civiltà e di vivibilità. Un bene comune, questo sì, che non può essere tolto ai napoletani sottoponendoli a mesi di inferno in cui diventerà impresa ardua recarsi al lavoro o a scuola». È con la buona manutenzione e il ritorno a una vita «normale», insomma, che si recupera credibilità: «Perché perseverare a farci del male?».
Dare un’unica "casa" alla Città della salute, il grande polo pubblico per la ricerca, prevista inizialmente al Sacco, unendola al Cerba, il maxi polo privato per la ricerca biomedica avanzata che sorgerà nel Parco agricolo Sud, su terreni di Ligresti. È questa la proposta lanciata da Guido Podestà, il presidente della Provincia durante l’inaugurazione del nuovo centro di Radioterapia avanzata, uno dei fiori all’occhiello dell’Istituto europeo di oncologia. Di fronte alla proposta di unire due centri di eccellenza come la Città della salute e il Cerba, il professor Umberto Veronesi ha replicato, con entusiasmo, «ma questo è il mio sogno». E ha spiegato: «Due poli come questi messi insieme farebbero il più potente centro di ricerca e di sviluppo oncologico del mondo. I terreni, i piani, i finanziamenti ci sono. Ma occorre che tutte le istituzioni siano d’accordo. Perché non partiamo?».
Podestà ha annunciato la proposta di fusione dei due centri, partendo dalla considerazione che «due anni e mezzo fa, una delle mie prime firme come presidente della Provincia è stata quella a favore del Cerba di Veronesi. Teoricamente oggi dovremmo annunciare quando lo inaugureremo. E invece no. Le pratiche burocratiche sono troppo lente, dobbiamo cercare di accelerarle per non intralciare l’avanzata della ricerca». Ma mentre il Cerba segna il passo, la Città della salute, che avrebbe unificato al Sacco anche il Besta e l’Istituto dei tumori, sembra più che mai incerta. Ora si parla di un trasferimento del Besta e dell’Istituto dei tumori sui terreni di Porto di Mare. «Speriamo che questa collocazione non finisca nel "porto delle nebbie"», ha incalzato Podestà arrivando così a proporre la fusione dei due mega poli, uno pubblico e l’altro privato, nel Parco agricolo Sud Milano accanto allo Ieo, «un’area già servita, con una localizzazione felice». E a proposito di questa "fusione" Veronesi si è detto favorevole: «Sono stato per vent’anni il direttore dell’Istituto dei tumori e si capisce che vedo volentieri i due poli messi insieme». E ha precisato: «Fino a quando si è parlato del progetto della Città della Salute" al Sacco l’abbiamo rispettosamente appoggiato. Pensavamo a un polo a Nord-ovest con la Città della salute, un polo a Nord-est con il San Raffaele e un polo al Sud, cioè il nostro. Poi il San Raffaele ha avuto problemi, il progetto legato al Sacco pare rischi di dissolversi e, così, noi saremmo pronti a raccogliere qui tutti i frammenti».
Ma sul destino della Città della salute sarà determinante il ruolo del Comune. Il sindaco Giuliano Pisapia, anche lui presente ieri all’Ieo, ha fatto sapere che «tra poche settimane il Piano di governo del territorio sarà esaminato in consiglio comunale, e lì valuteremo le proposte che possiamo fare per un progetto importante, come quello della Città della salute, che servirà Milano e su cui noi puntiamo molto». La discussione sull’unione dei due poli non ha comunque messo in secondo piano l’inaugurazione del nuovo centro di Radioterapia, diretto da Roberto Orecchia, dove verranno curati 4.500 pazienti l’anno. «Qui si applicano terapie mirate e meno invasive per il paziente - ha ricordato Veronesi - negli anni ‘60, quando noi teorizzavamo l’importanza dei "trattamenti minimi efficaci", eravamo considerati degli utopisti. Ma questo centro è la dimostrazione che eravamo nel giusto e la sfida l’abbiamo vinta noi».
Gira, rigira, salta, zang tumb tumb ci risiamo: mortalmente noioso come le cittadelle della moda che volevano i socialisti (del tutto ignorate dagli stilisti) si replica il copione dei presidi della salute, che in nome della Scienza indiscutibile e infallibile hanno il mandato divino di spaparanzarsi ovunque. Chi si oppone è automaticamente nemico del Progresso, dello Sviluppo, magari addirittura dell’Uomo. Unico segnale di speranza pare ancora Pisapia, che a differenza dello sviluppista Penati, a suo tempo più rapido del fulmine nel cambiare le regole del Parco Sud e far posto all’indispensabile Cerba (progettato da Stefano Boeri), dice: aspettate almeno il piano regolatore. Già, perché nessuno ha qualcosa contro la Scienza eccetera, ma contro la vivisezione del territorio in suo nome magari sì (f.b.)
Il testo riproduce la relazione dell’autore al convegno “Piano strutturale comunale, demanio militare e parco Pertite”, organizzato da Italia Nostra, sezione di Piacenza, 28 gennaio 2012.
Non credo che sia azzardato affermare che il motore certo non unico, ma forse il più efficiente e infine determinante, di questo piano strutturale in gestazione qui a Piacenza sia la nuova e imponente disponibilità di edifici ed aree, dentro e fuori l’insediamento urbano storico, che l’Amministrazione militare ha inteso contestualmente dismettere e avviare alla valorizzazione immobiliare, perché sono esaurite le specifiche destinazioni funzionali o perché si pone l’esigenza di trasferirle per ragioni di ammodernamento degli impianti (“riallocazione delle funzioni”).
E dunque si tratta di determinare le diverse funzioni urbane di quel vasto patrimonio dismesso e altrimenti disponibile, attraverso l’intesa tra amministrazione della difesa e amministrazione comunale secondo lo schema prefigurato nella Legge Finanziaria 2010 proprio per “valorizzazione” e “alienazione” degli “immobili militari”.
Un circolo vizioso in realtà, perché è intenzionalmente rimesso alla concertazione della scelta urbanistica il compito di massimizzare il valore immobiliare e in linea di principio l’esercizio della potestà urbanistica non è suscettibile di entrare in negoziazione con la proprietà fondiaria che pure – se siano “immobili militari”, l’amministrazione della difesa - ha un mandato di legge per la propria valorizzazione.
I commi 190 e 191 dell’art.2 della legge finanziaria 2010 (n.191 del 2009) riprendono, infatti, il modello che la legge di stabilizzazione della finanza pubblica (art.58 della legge 6 agosto 2008, n. 133) aveva escogitato per la valorizzazione del patrimonio immobiliare dei regioni ed enti locali e con la medesima disinvolta inversione logica affidano la determinazione della (più remunerativa per certo) destinazione urbanistica all’“accordo di programma di valorizzazione”, raggiunto tra ministero della difesa e comune nel cui ambito gli immobili sono ubicati. E la approvazione del consiglio comunale “costituisce autorizzazione alle varianti allo strumento urbanistico generale”. Con esonero dalla verifica di conformità alla pianificazione sovraordinata di provincia e regione se la variante non comporti variazioni volumetriche superiori al 30 per cento dei volumi esistenti (così ampiamente superato il tetto di quell’esonero che la legge di stabilizzazione della finanza pubblica aveva invece contenuto nel 10 per cento per la valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni ed enti locali). Insomma la valorizzazione immobiliare consapevolmente consumata contro le buone ragioni dell’urbanistica.
Ma forse la disposizione più sorprendente sta nel periodo che chiude il consecutivo comma 192 della Finanziaria 2010 perché “ai comuni con i quali sono stati sottoscritti gli accordi di programma […] è riconosciuta una quota non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del ricavato derivante dalla alienazione degli immobili valorizzati”. Una vera e propria tangente legalizzata, verrebbe da dire, nella accezione deteriore invalsa a bollare una illecita prassi non raramente constatata nella gestione della pubblica amministrazione, certo qui riconosciuta nell’interesse patrimoniale della Amministrazione comunale fatta diretta partecipe della valorizzazione fondiaria, ma si tratta a ben vedere della scoperta remunerazione, del prezzo, della conseguita destinazione urbanistica come strumento di valorizzazione immobiliare, un incentivo cinicamente speso (in tempi di finanza locale in affanno) dal legislatore nazionale contro le ragioni, lo abbiamo detto, della buona urbanistica.
La spendita di un simile (complesso e per alcuni versi perverso) dispositivo istituzionale di gestione amministrativa incontra, ci domandiamo, resistenza, e quale, nel sistema dei principi e delle regole che governano i fenomeni urbani e il patrimonio storico e artistico? Specie quando, come certamente qui nel prezioso insediamento di Piacenza, quel dispositivo si deve misurare con i riconosciuti valori del patrimonio urbano storico e con diffuse emergenze architettoniche di straordinaria qualità? Esistono tutele di insuperabile resistenza, che esigono cioè rispetto?
Italia Nostra crede che il sistema offra efficaci strumenti di resistenza affidati non soltanto alla responsabilità delle istituzioni statali della tutela del patrimonio storico e artistico – la soprintendenza – ma alla stessa amministrazione comunale che nell’autonomo esercizio della potestà urbanistica ha il compito in proprio di salvaguardia del patrimonio urbano storico ed è tenuta ad osservare le regole che la Regione Emilia Romagna nella sua Legge Urbanistica ha dettato per il governo del “sistema insediativo storico” e dei “centri storici”.
La stessa legge finanziaria 2010 nel comma 191 del suo art.2, completando il quadro degli adempimenti previsti nel procedimento di valorizzazione degli immobili militari, riconosce infine il ruolo della istituzione statale di tutela se gli accordi di programma di valorizzazione comprendono beni assoggettati alla disciplina del Codice dei beni culturali e del paesaggio e dispone perciò che sia “acquisito il parere della competente soprintendenza del ministero per i beni e le attività culturali, che si esprime entro trenta giorni”. Disposizione speciale che deroga al modello generale della conferenza di servizi (secondo la legge 241 del 1990, via via aggiornata), ma espressamente richiama la disciplina del “Codice” con la pienezza delle attribuzioni di tutela in ordine al patrimonio statale di interesse culturale, come in quel testo normativo regolate e dunque impropria deve ritenersi la espressione di letterale significato limitativo “parere”, mentre per certo è meramente ordinativo il breve termine assegnato al riguardo, escluso l’effetto di silenzio assenso inammissibile in tema di esercizio delle funzioni di tutela dei beni culturali. Il ruolo delle istituzioni della tutela statale non incontra dunque alcuna limitazione a fronte degli accordi di programma di valorizzazione degli immobili militari e deve essere esercitato nel rispetto degli inderogabili principi e regole dettati dal “codice”.
Ricordiamo che gli “immobili militari” “la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni”, come beni di appartenenza pubblica, sono per ciò stesso “assoggettati alla disciplina prevista dal codice dei beni culturali e del paesaggio” e soltanto l’esito negativo del previsto procedimento di verifica vale ad escludere per essi l’interesse culturale altrimenti presunto per legge (art. 12 del “codice”). Aggiungiamo che se per i beni di appartenenza privata la tutela presuppone l’accertamento di un interesse culturale particolarmente importante, i beni pubblici sono fatti oggetti di tutela pur se presentino un mero non qualificato interesse storico o artistico; quando appartengono allo stato ne costituiscono il demanio culturale e la alienabilità è soggetta a stringenti condizioni verificate dall’autorizzazione del ministero (art.55 del “codice”), perché l’alienazione deve assicurare la tutela e la valorizzazione dei beni, non può pregiudicarne il pubblico godimento e il provvedimento di autorizzazione indica le destinazioni compatibili con il carattere storico e artistico e tali da non recare danno alla loro conservazione. E il ministero – il direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici – potrà anzi dovrà negare l’autorizzazione alla alienazione se i beni immobili del demanio dello stato “rivestano un interesse particolarmente importante […] quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose” (artt.10, comma3, lettera d) e 54, comma 2, lettera d), del “codice”).
Fu Italia Nostra che partecipava alla commissione ministeriale costituita per stendere il regolamento delle ipotesi di ammessa alienazione dei beni del demanio culturale a proporre il riconoscimento di questa speciale categoria di beni, come si disse, identitari, che hanno cioè la proprietà di rappresentare materialmente l’ente in una sua essenziale ed esclusiva funzione e da un simile rapporto ricavano l’interesse che andrebbe irrimediabilmente perduto con il trasferimento ai privati. E al riguardo fu fatta le esemplificazione dei forti militari ottocenteschi costruiti dallo stato unitario per difendere Roma da un improbabile assalto delle armi francesi e le altre architettura funzionali militari, gli edifici ex conventuali acquisiti dalle così dette leggi eversive allo stato unitario che vi insediò le sue moderne principali funzioni, anche militari, gli edifici delle storiche residenze municipali, eccetera. Il regolamento (DPR. 283/2000, art.2, comma 1, lettera d) accolse il suggerimento (dichiarando inalienabili i “beni che documentano l’identità e la storia delle istituzioni pubbliche, collettive, ecclesiastiche) e il “codice” vi si adeguò con una disposizione che assimila questi beni a quelli che “rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere” nel comune requisito appunto dell’”interesse particolarmente importante” (forse non irragionevole in sé, ma tale da aprire una incontrollabile discrezione, sempre esercitata in pratica per escludere la sussistenza di quell’elevato grado di interesse) e la stesa disposizione ne esclude l’alienabilità se non ad altro ente pubblico territoriale e dunque con trasferimento da un demanio culturale all’altro.
Questo in sintesi il quadro delle tutele secondo il codice dei beni culturali e del paesaggio rispetto alle quali non può non essere valutata ogni proposta di cosiddetta valorizzazione del patrimonio immobiliare militare, diffuso e profondamente integrato, qui a Piacenza, come forse in nessuna altra città del paese, nel tessuto dell’insediamento storico, anche oltre il confine della città murata, così da costituire un sistema unitario con esso solidale, una vera e propria struttura urbana portante.
E come parte integrante del centro storico il patrimonio immobiliare militare entra nella considerazione di salvaguardia dell’urbanistica che ha come suo compito essenziale di dettare “i vincoli da osservare nelle zone di carattere storico, ambientale, paesistico”(così la modifica del 1968 alla legge urbanistica del 1942 ha definito il contenuto del “piano generale”), secondo le specifiche regole dettate dalla vigente legge urbanistica della Regione Emilia Romagna che nell’allegato sui “contenuti della pianificazione” si prende cura del sistema insediativo storico (Capo A-II) e specificamente dei centri storici (art.A-7), ponendo motivati limiti alle trasformazioni delle strutture fisiche e delle radicate destinazioni d’uso. Leggiamo la definizione del primo comma: “Costituiscono i centri storici i tessuti urbani di antica formazione che hanno mantenuto la riconoscibilità della loro struttura insediativa e della stratificazione dei processi della loro formazione. Essi sono costituiti da patrimonio edilizio, rete viaria, spazi inedificati e altri manufatti storici. Sono equiparati ai centri storici gli agglomerati e nuclei non urbani di rilevante interesse storico, nonché le aree che ne costituiscono l’integrazione storico – ambientale e paesaggistica” (vedremo il Piano Caricatore sta proprio in questo alone). E converrà continuare la lettura delle essenziali prescrizioni di conservazione dette nel comma 3 che pongono motivati limiti alle trasformazioni delle strutture fisiche e delle radicate destinazioni d’uso: ”Nei centri storici: a) è vietato modificare i caratteri che connotano la trama viaria ed edilizia, nonché i manufatti anche isolati che costituiscono testimonianza storica e culturale; b)sono escluse rilevanti modificazioni alle destinazioni d’uso in atto, in particolare di quelle residenziali,artigianali e di commercio di vicinato; c) non è ammesso l’aumento delle volumetrie preesistenti e non possono essere rese edificabili le aree e gli spazi rimasti liberi perché destinati ad usi urbani o collettivi, nonché quelli di pertinenza dei complessi insediativi storici”.
Prescrizioni come si legge assai rigorose ispirate alla considerazione del centro storico come un unitario monumento urbano, che gli “Indirizzi generali per la predisposizione del documento preliminare del Piano Strutturale Comunale”, enunciati dalla Unità di Progetto PSC del Comune di Piacenza nel 2009, fanno esplicitamente propria là dove per “la città murata” pongono quale primo degli “obbiettivi specifici” “tutela e valorizzazione del centro storico inteso come unico monumento”.
Che a questo impegno programmatico si siano poi attenute le “Alcune proposte progettuali” avanzate dall’Assessorato Pianificazione Territoriale come “Ipotesi di lavoro” per Il Comparto Pontieri e per l’area dell’Arsenale – Polo di Mantenimento Pesante v’è più di una ragione per dubitarne.
Ma è vero che l’art.A-7 centri storici dell’allegato (contenuti della pianificazione) alla legge regionale, di cui abbiamo interrotto la lettura, nel comma 4 dà al piano strutturale la facoltà di “prevedere, per motivi di interesse pubblico e in ambiti puntualmente determinati, la possibilità di attuare specifici interventi in deroga ai principi stabiliti dal comma 3”. Se non si voglia totalmente vanificare la portata prescrittiva di quei rigorosi principi di conservazione (chiamiamoli così), la previsione della deroga va intesa in senso restrittivo, per interventi puntuali e circoscritti (motivate specifiche eccezioni), e non può certo bastare a legittimarli quelle ragioni di generico interesse pubblico che necessariamente presiedono ad ogni scelta urbanistica Mentre in ogni caso non possono essere riconosciuti di interesse pubblico i motivi di mera valorizzazione economica degli immobili militari fatti oggetto della deroga sol per essere convenientemente destinati alla vendita (in funzione del più elevato ricavo a sostegno delle spese della riallocazione delle funzioni e con sia pur minoritaria – tra dieci e venti per cento abbiamo sentito - partecipazione dello stesso comune al profitto). E certo non può dirsi legittima la deroga ai principi introdotta attraverso l’accordo di programma, secondo il modello della legge finanziaria 2010, che sia estesa all’intero complesso di aree ed edifici militari diffusi nel tessuto civile dell’ insediamento storico e ad esso strettamente intrecciati, occupandone una parte di assoluto rilievo anche quantitativo. Una disposizione generale, non la tollerabile eccezione.
Conosciamo le ipotesi di valorizzazione che si sono concretate anche in proposte progettuali per il Comparto Pontieri, per l’Area del Polo di Mantenimento Pesante, l’Arsenale e quanto resta del Castello Farnese, il Piano Caricatore, l’Area della Pertite. E proviamo a constatare come operino in quegli ambiti le convergenti tutele del codice dei beni culturali e del paesaggio e della legge regionale urbanistica, dalla cui osservanza non esonera il programma di valorizzazione della Finanziaria 2010 (che esonera invece e in certi limiti, come abbiamo osservato, dall’adeguamento alla pianificazione sovraordinata).
E avviciniamoci intanto all’Area Pertite. Un insediamento di straordinario interesse per la storia militare e dell’industria militare in particolare, un monumento di archeologia industriale che ha tutela di legge per la disciplina del codice dei beni culturali e del paesaggio, del quale è immaginabile soltanto, se non sia mantenuto al demanio dello stato, il trasferimento al demanio comunale per la conversione al parco voluto dai cittadini di Piacenza uniti e impegnati anche in un tenace comitato. Non vogliamo neppure immaginare che soprintendenza e direzione regionale del ministero rimuovano quella tutela di legge attraverso una compiacente verifica negativa dell’interesse culturale.
Consideriamo il Piano Caricatore che è area inedificata cui la speciale funzione ha per certo conferito interesse storico e per altro, attestato sulla linea delle mura farnesiane, del centro storico “costituisce l’integrazione storico ambientale e paesaggistica”, per usare le parole stesse dell’Allegato alla legge regionale (Capo A-2, Sistema insediativo storico; art.A-7, Centri storici) che equipara al centro storico le aree di immediato alone. Dunque anche per il Piano Caricatore vigono i principi che abbiamo detto di conservazione del centro storico dettati della legge regionale e neppure per questa area può valere la deroga (in funzione di una vertiginosa volumetria edilizia) per le ragioni di cui abbiamo poco fa parlato.
Veniamo infine al complesso dell’Arsenale e al Comparto Pontieri il cui indiscusso interesse storico e artistico é dato così dalle preesistenze all’insediamento militare come dai manufatti funzionali a questa più recente destinazione. Certo è che l’interesse culturale comprende così gli edifici come le aree rimaste inedificate circostanti, cioè l’integralità dell’insediamento oggi militare, oggetto della tutela nel suo complessivo assetto storico, mentre sulle aree libere “di pertinenza dei complessi insediativi storici” opera il convergente divieto di edificazione della legge regionale (ne abbiamo qui sopra parlato); per i due comparti si pone il medesimo problema di verificare la eventuale presenza di costruzioni recenti e incongrue nella organizzazione planivolumetrica, in funzione di parziali demolizioni e recupero della spazialità preesistente. E credo che in entrambi i comparti debba essere riconosciuto (e specie nell’Area del Polo di Mantenimento Pesante) quel valore identitario - rappresentativo dell’ente pubblico di appartenenza (lo stato come funzione della difesa) che preclude anche parziali privatizzazioni del demanio culturale statale.
Vogliamo ricordare ancora che gli indirizzi per il piano strutturale comunale pongono “tutela e valorizzazione del centro storico inteso come unico monumento” quale primo specifico obbiettivo perseguito nella “città murata” e perciò non rinunciamo a indicare alla responsabilità della Amministrazione comunale il rispetto dei principi acquisiti dalla cultura della conservazione e del restauro urbano che la legge regionale ha tradotto nelle specifiche norme vincolanti che abbiamo richiamato. Fare il “parco abitato” dentro gli spazi intangibili del Castello Farnese, sotto la protezione del Bastione del Sangallo, tradisce per certo quei principi, come li tradisce il progettato prato per la città nel vuoto creato dall’atterramento degli edifici militari otto-novecenteschi del Comparto Pontieri, perfettamente integrati nella struttura urbana fino a segnarne il bordo sulla linea delle mura. E se davvero quegli edifici militari costituissero, come si dice superfetazioni, un ingombro intollerabile dentro gli spazi verdi che già furono pertinenza dell’insediamento conventuale di San Sisto, non vi sarebbe soluzione alternativa all’integrale ripristino del verde, esclusa ogni nuova diversa costruzione. Che invece, dentro al parco, è prevista con una lunga e massiccia cortina edilizia, al dichiarato fine, da un lato, di isolare sul bordo interno gli edifici esistenti “e di dare visibilità a San Sisto” [possibile con uno schermo edilizio?] e dall’altro “di creare un nuovo affaccio della città storica” [cui è dato dunque verso il percorso delle mura il volto dell’architettura di oggi]. Se questo è il modo di intendere “il centro storico come unico monumento”.
Non vogliamo rinunciare a chiedere che l’Amministrazione comunale nell’esercizio della sua autonomia di governo della città si determini per l’effettiva “tutela e valorizzazione del centro storico come unico monumento”, perché non debba subire il mortificante intervento repressivo della istituzione della tutela statale nel doveroso adempimento degli irrinunciabili compiti di salvaguardia del demanio culturale.
Perché non vogliamo neppure immaginare che si possa consumare tra le amministrazioni dello stato (ministeri della difesa e per i beni e le attività culturali) e l’amministrazione comunale di Piacenza un accordo di programma che alla esigenza di massima valorizzazione economica del patrimonio immobiliare militare sacrifichi la integrità del patrimonio culturale urbano. Un pactum sceleris contro il precetto costituzionale che assegna alla tutela del patrimonio storico e artistico della nazione un ruolo di primarietà non suscettibile di cedimento ad alcun altro interesse anche di rilevanza pubblica (che non sia quello assoluto del rispetto della incolumità e della vita delle persone).
Dal Colosseo a piazza Navona caffé e locali colonizzano il suolo pubblico Alemanno ha tenuto per anni nel cassetto i divieti delle Sovrintendenze E il ministero dei Beni Culturali ha fatto finta di niente. Degrado alla romana
Roma Eterna ostaggio dei “bottegari”. Col sindaco Alemanno che corre a sospendere e a rinviare il più possibile le stesse prescrizioni delle Soprintendenze statali che lui, nel 2010, aveva fatto proprie e che erano poi quelle della Giunta Veltroni. Sotto le feste natalizie il sindaco le ha spostate a dopo la Befana e, quando il I ̊ Municipio è intervenuto per farle rispettare a Campo de’ Fiori e al Pantheon, con un’altra ordinanza volante ha prorogato di 60 giorni l’illegalità degli orribili e pericolosi dehors di plastica. Ma il “no” delle Soprintendenze per le stufe a gas e per i teloni di plastica non era allegato alla delibera dello stesso Alemanno? Che importa? Lui, prima recepisce e poi neutralizza...il resto, si vedrà. E pensare che – sia pure senza prevedere sanzioni (ecco il buco) – la delibera è molto restrittiva: tende e teloni senza scritte né mantovane, solo riscaldamenti consentiti dai vigili del fuoco, via i gazebo di plastica, ecc.
Roma, dunque, rovesciata dall’egemonia “bottegara”? In piazza della Rotonda, davanti, nientemeno, al Pantheon 900 mq. occupati da locali, invece di ridursi, sono diventati 1.000. In via Salvi, di fronte, e dico poco, al Colosseo, il marciapiede è ostruito da due locali, per cui «flussi enormi di bambini di 5 scuole adiacenti», denuncia il consigliere verde del I ̊ Municipio, Nathalie Naim, «e folle di turisti devono passare in strada dove transitano centinaia di auto a velocità elevata». Non fai in tempo a compiacerti della vasta area pedonale in piazza Sant’Apollinare e scopri che è in funzione delle pizzerie (una è penetrata dentro la medioevale Tor Sanguigna, lì vicino). Ed è la prova generale della nuova Piazza Navona “restaurata” dal Comune senza più marciapiedi: una marea di tavolini.
Fiere le proteste del Comitato che coordina le battagliere associazioni dei residenti. Questi, pur ridotti a 80-90.000 (neppure pochissimi), rappresentano l’unico controllo sociale su una selva di locali, spesso effimeri, che la malavita, con la crisi, ha aperto o fatto propri, centri di spaccio e di riciclaggio. Senza i residenti, il cuore di Roma, come di ogni città storica, sarebbe zona franca per la criminalità. Tanto più che le pattuglie di polizia sono, per mancanza di fondi, assai poche. Per l’indecoroso balletto del decoro urbano il Comitato per la Bellezza ha chiamato in causa lo stesso ministro Ornaghi, il segretario generale del MiBAC Recchia, la soprintendente Galloni, il sottosegretario Cecchi. Solo l’ultimo ha risposto: il 5 febbraio 2010 la materia è stata oggetto di accordo fra le Soprintendenze (Beni Architettonici e Archeologici) e il Comune, però «non so quale esito questo strumento abbia avuto». Molto evasivo. Eppure, nell’indecoroso balletto il Ministero ci gioca la faccia. Se si fa rispettare, salva, almeno in parte, la faccia sua e un bene come Roma. Sennò, povera Roma nostra. Addio residenti. Addio turismo qualificato. Tutta “movida” stile Campo de’ Fiori. Se vi pare un affare, fate voialtri.
Un canale che formerà anche delle darsene e si snoderà per cinque chilometri trasformando l’area espositiva in un’isola e 10mila piante che inizieranno a mettere radici quest’anno. È la scenografia di Expo, che dovrà accogliere i padiglioni e gli edifici principali del 2015 e che, ormai, è definita nei minimi dettagli. A cominciare dal verde: il piano prevede anche un giardino con specie esotiche dove nasceranno farfalle e giardini d’acqua.
I primi alberi inizieranno a mettere radici già quest’anno: sono i filari più esterni, destinati a correre lungo l’intero perimetro di quell’irregolare milione di metri quadrati di terra che sarà la cittadella di Expo, creando una barriera tra la strada e il canale, che si snoderà per cinque chilometri. Sono solo una parte delle 10mila piante di 400 specie diverse che, in totale, spunteranno tra i padiglioni del 2015. Tra pendii e gradinate, la collina mediterranea che verrà realizzata con 83mila metri cubi di terreno scavato dal canale, dove nasceranno olivi, viti e un bosco da visitare seguendo un sentiero di un chilometro, aree da picnic immaginate come aiuole di ortaggi e erbe aromatiche con tanto di pergolati e frutteti, giardini d’acqua e uno delle farfalle, dove l’intenzione è proprio quella di "allevare" bruchi.
Sono i segreti del progetto di Expo, quelli svelati dai dettagli della gara più importante del dossier: è il bando arrivato al suo primo traguardo (domani scade la fase della prequalifica, il 15 maggio toccherà alle offerte dei candidati rimasti in corsa) che serve a cercare chi realizzerà l’ossatura del sito espositivo: da tutti gli impianti ai percorsi verdi, appunto, da quelli d’acqua ai due viali principali alle piazze, dalle tende che ripareranno i visitatori all’ingresso che li condurrà dalla fermata della metropolitana ai tornelli. Lavori che, in tutto, valgono 270 milioni di euro e che inizieranno tra giugno e luglio.
Si parte dai tanti spazi d’acqua come il canale: è uno degli elementi cardine del progetto e, comprese diverse darsene che verranno realizzate, avrà una lunghezza di cinque chilometri e la forma di un "8". Alcune sponde saranno costruite a gradoni per permettere alla gente di sedere e riposare e sono previsti giochi d’acqua e 32 ponti per attraversare questo piccolo fiume che è concepito come parte integrante del Villoresi. Il progetto prevede anche undici vasche di "fitodepurazione" che serviranno per ripulire le acque piovane. Dedicata all’acqua anche la piazza principale, la "lake arena": uno specchio di 86 metri di diametro, circondato da 102 alberi, con una fontana ornamentale al centro e uno spazio in grado di accogliere 28mila persone.
È lì accanto che verrà creato il giardino delle farfalle, anche con specie esotiche. Il progetto si spinge a descrivere i minimi dettagli, come i materiali della pavimentazione del cardo e del decumano, i viali principali: ci saranno materiali di sei colori diversi, dal rosso corallo al giallo oro, fino al grigio e al bianco del marmo. Chi si aggiudicherà i lavori dovrà pensare anche a tutte le vie interne, comprese quelle dedicate ai mezzi di servizio, dove sarà previsto anche un sistema di trasporto degli ospiti su auto elettriche. Grande importanza è riservata all’ingresso Ovest, quello pedonale che collegherà il metrò con l’area espositiva, con tanto di camminamento protetto da una barriera di vetro. A Est, invece, arriveranno le auto e, si stima, un flusso che raggiungerà il 40 per cento dei visitatori.
Un intero complesso residenziale con quattro palazzi alti nove piani, con strutture portanti interamente realizzate in legno, sarà pronto in 14 mesi in via Cenni, vicino al parco di Trenno. Sarà il più grande intervento di questo genere in Europa, ma sarà anche il primo quartiere di housing sociale di Milano voluto da Regione e Fondazione Cariplo. Nei palazzi - costruiti secondo le più moderne tecniche importate anche dal Giappone, con criteri antisismici e antincendio - ci saranno 124 alloggi, destinati in maggioranza all’affitto a canone calmierato ma anche in parte all’acquisto. «Il 2012 sarà l’anno dell’housing sociale a Milano, progetto al quale stiamo lavorando da tempo. Presto apriranno altri cantieri», ha detto Giuseppe Guzzetti, presidente di Fondazione Cariplo. L’intervento su un’area di 17mila metri quadrati sarà realizzato da Polaris investment su progetto dell’architetto Fabrizio Rossi Prodi, che ha vinto un concorso internazionale indetto dalla Fondazione housing sociale
I palazzinari romani la regola l’hanno imparata negli anni ‘50, prima ancora del piano regolatore della Capitale: inizia a costruire, difendi tutto il cemento che hai messo in piedi, poi qualcosa succederà. È una regola aurea, che, unita a molte altre di bassa cucina di uffici, è quasi sempre vincente. Una regola che è diventata tanto più vincente quando i costruttori, finanziariamente molto liquidi, hanno iniziato a contrattare con un Comune sempre più povero, avendo in tasca una serie di condoni sempre più fantasiosi e una quantità di scheletri di cemento sempre più elevata da far adottare ai piani urbani. Lunedì prossimo il Comune di Roma riprenderà la discussione sull’attuazione del Piano Casa che la Regione Lazio ha approvato dopo una lunga battaglia consiliare nell’agosto scorso. In teoria il Comune dovrebbe porre dei paletti all’enorme deregolamentazione che la maggioranza di centrodestra alla Regione (Polverini, Pdl e anche Udc, che in Campidoglio siede invece all’opposizione) ha messo in pista. In verità, però, con il Piano Casa, si dà il via a un’ulteriore ampliamento delle cubature, ben oltre le previsione del Piano Regolatore Generale, il documento cardine che dovrebbe guidare le politiche urbane dell’amministrazione, tanto più perché approvato appena un paio d’anni fa dalla stessa aula consiliare.
E invece dopo aver ammesso tutta una serie di deroghe al Prg per venire incontro al Piano Casa regionale, la Giunta ha scritto un emendamento, il 5.3, per cui si lascia un’altra strada per sanare altri metri cubi di cemento. La strada passa attraverso i “relitti urbani”. Cosa sono i “relitti urbani”? Sono quei fabbricati spontanei abbandonati e degradati che, all’interno della città, avranno adesso la possibilità di essere “riqualificati”. Il bando, le cui domande sono scadute lo scorso ottobre, prevede che, “limitatamente ai soli edifici esistenti, dismessi o degradati” sia possibile proporre interventi anche “sulle aree agricole, a verde o a servizi pubblici”. Vale a dire che se un costruttore ha edificato un manufatto su un’area sulla quale non doveva esserci e che per via di quello stesso manufatto è andata con il tempo degradandosi, adesso riceverà un premio. Quale? Quello di poter ristrutturare l’immobile, oppure abbatterlo e ricostruirlo, o, ancora “rilocalizzare” i volumi eventualmente demoliti in altre aree che abbiano le medesime caratteristiche di degrado richieste dal bando. Una pacchia.
Questa ulteriore deroga al piano regolatore, i consiglieri capitolini si troveranno a votarla per l’appunto lunedì, quando, con il Piano Casa, si troveranno a certificare che “gli interventi sono comunque applicabili, senza eccezioni, negli ambiti oggetto di proposte di interventi di attuazione dei Bandi di recupero dei Relitti urbani qualora le stesse risultino ammissibili a seguito dal processo valutativo da quelli previsto”. Ma quali sono le proposte che il Campidoglio ha ricevuto su quel bando ormai tre mesi fa? E dove sono? I consiglieri comunali che hanno posto la questione hanno ottenuto per risposta che gli uffici sono ancora in una fase istruttoria, e che quindi a questa domanda non c’è risposta. Vale a dire che il Comune non dice chi ha fatto domanda né dove. Al quartiere Prenestino, sul tema, c’è una certa agitazione. L’area dell’ex Snia Viscosa, che si trova per l’appunto sulla Prenestina, tra il fascio di binari che dalla stazione Termini porta a Tiburtina, pare infatti rientrare a pieno titolo in quel bando. Non è l’unica (e nessuno sa se il proprietario ha chiesto di accedere al bando), ma forse può spiegare più di ogni altra di cosa parliamo.
Negli anni ‘80, il costruttore Antonio Pulcini (quello che anni dopo darà vita alla grande lottizzazione delle Terrazze del Presidente di Acilia), ottiene di poter costruire un palazzo in quell’area che, abbandonata dalla fabbrica chimica, era destinata - già all’epoca - a verde pubblico e servizi.
Qualcuno, al Comune, aveva combinato un marchiano “errore”, se così lo si vuol chiamare, tratteggiando un’area verde con i colori del terreno edificabile. Pulcini, legittimato dalla nuova colorazione, costruisce, trova prima nel sottosuolo la fogna della Marranella, poi, addirittura una fonte d’acqua che sommerge i primi tre piani dell’edificio dando vita a un bizzarro laghetto urbano con vista sui capannoni di fabbrica. Dal lago esce l’ecomostro, altri quattro piani di scheletro di cemento. Fu solo allora che l’assessore all’Urbanistica bloccò la concessione, cassò l’errore (che stranamente compariva solo sul piano regolatore depositato in Campidoglio), e, con apposita ordinanza, nel 1993, ne sancì la demolizione.
Tra un ricorso e l’altro passano diversi anni, fino a quando, nel luglio 2010, il Tar del Lazio, vista la scarsa opposizione del Comune di Roma e della Regione Lazio (la sentenza recita: “l’Amministrazione tace sul punto, avendo omesso ogni utile accertamento al riguardo”), accoglie parzialmente la richiesta del costruttore di annullare quell’ordinanza. È il primo passo per il quale, in caso di esproprio dell’area, il soggetto pubblico dovrà farsi carico non solo del terreno, ma anche dell’edificio abusivo.
In questi anni, quell’area, che nei piani del Comune aveva una vocazione universitaria non lontana dalla sede de La Sapienza - è rimasta bloccata tra un progetto di riqualificazione che prevedeva la costruzione di aule e residenze per studenti, e la difficoltà di trovare una soluzione che mettesse d’accordo università, costruttore, Comune e comitati di quartiere.
In questo limbo, l’area non ha trovato una destinazione e adesso ospita un parco pubblico di modeste dimensioni, una serie di corpi di fabbrica in uno stato di conservazione più o meno decente e uno scheletro di piscina mai finito, regalo degli appalti degli ultimi mondiali di nuoto a Roma, ancora sotto inchiesta. Ora, in questo che è già uno dei quartieri con più abitanti nella Capitale, potrebbero arrivare nuove abitazioni.
Ci si attendevano dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali segnali di novità, di discontinuità, che invece tardano ad arrivare. Ve ne sono semmai di segno contrario. E' di pochi giorni or sono la nomina di una "amministrativa", peraltro stimata, Maddalena Ragni, alla direzione generale che da qualche anno accorpa, nientemeno, i Beni artistici e storici e quelli architettonici. E' la prima volta dalla più recente riforma del MiBAC che viene nominato un dirigente di estrazione amministrativa. Gli storici dell'arte - un tempo colonna portante del Ministero - sono come scomparsi dal suo vertice. A Roma, dopo anni di commissariamento, è ancora da coprire il posto di titolare della Soprintendenza speciale di Roma e Ostia Antica che tutela a fatica decine di migliaia di ettari. E' di due giorni fa il documento degli archeologi romani che chiedono direttamente al ministro Ornaghi di nominare al più presto il nuovo soprintendente "fra gli archeologi di più alta professionalità tecnico-scientifica". Perché? Perché voci fondate darebbero infatti per favorito al Collegio Romano un architetto e non un archeologo. Per ragioni che con la professionalità non hanno molto a che vedere. Forse perché gli archeologi della Soprintendenza romana - i quali reclamano anche assunzioni di personale qualificato e lo sblocco di 32 milioni di euro già stanziati - avevano coraggiosamente protestato contro un commissariamento molto discusso.
C’è un modo radicale di risolvere l’annosa disputa (tornata d’attualità col pasticcio del Colosseo) sul ruolo dei privati nella gestione del patrimonio storico e artistico pubblico: alienarglielo direttamente. Voleva farlo il governo Berlusconi, ora lo stanno facendo, alla spicciolata e lungo tutta la Penisola, enti di ogni tipo e di ogni colore politico.
A Venezia il Comune vende a Miuccia Prada un pezzo pregiato del Canal Grande: Ca’ Corner della Regina. Una sorta di versione radicale della privatizzazione della Punta della Dogana, ceduta (temporaneamente) al bilionario Pinault. Si potrà discutere all’infinito su chi possa garantire la miglior tutela e il miglior godimento del palazzo (se, cioè, il ricchissimo privato o il comune sempre in bolletta): ma bisogna sottolineare che il Comune ha usato i 40 milioni di Prada per risanare il bilancio ordinario, non per realizzare qualcosa di durevole (un asilo o un ospedale, per esempio). In altri termini, la generazione presente decide di sottrarre a quelle future un bene comune per ricavarne un fuggevole beneficio una tantum.
A Parma l’Ospedale Vecchio, fondato nel 1476 e di proprietà del Comune, è stato affidato a un’impresa locale attraverso lo strumento del project financing, che prevede l'affidamento al privato del 44% della struttura per ventinove anni. Il risultato è che si pensa di realizzarci un albergo e un centro commerciale, mentre l’Archivio di Stato di Parma, ospitato dall'ultimo dopoguerra nell'Ospedale, è stato trasferito in periferia e la Biblioteca Civica giace pressoché abbandonata.
A Firenze, lo strombazzatissimo Anno Vespucciano (cioè le celebrazioni per il quinto centenario della morte di Amerigo Vespucci) si apre in modo tragicomico con la notizia che l’Ospedale di San Giovanni di Dio, cioè la viva eredità della famiglia Vespucci a Firenze, è stato venduto (con tutte le opere d’arte e le testimonianze storiche che contiene) dalla Asl ad una società privata. Nell’anno 1400 Simone Vespucci, il prozio di Amerigo, dispose in testamento che tutte le sue case di Borgo Ognissanti fossero trasformate in un ospedale, a beneficio della popolazione. La filantropia di Simone si irradia fino al 2012: ma non andrà oltre, perché – in nome di un presente onnivoro – decidiamo di tagliare questo prezioso filo di senso civico che lega il passato al futuro. E anche in questo caso, la Asl non investirà il ricavato in qualche progetto duraturo (magari nel restauro della Villa di Careggi di Lorenzo il Magnifico, che le appartiene e che va in rovina), ma lo userà per ripianare il bilancio ordinario, sommando danno a danno.
Sempre a Firenze, la Facoltà di Architettura sta vendendo a privati il Palazzo San Clemente «il quale – scriveva Giorgio Vasari nel 1568 – per ricchezza di diverse varie fontane … non ha pari in Fiorenza, né forse in Italia». Risulta che la destinazione d’uso potrebbe cambiare radicalmente: da sede dei Dipartimenti di Costruzioni e Restauro, e di Urbanistica e Pianificazione del Territorio (nonché di buona parte della biblioteca e di alcuni importanti archivi storici), a sede di un albergo di lusso. E cioè: da luogo dove si impara a tutelare e conservare l’architettura del passato, ad architettura essa stessa stravolta e violata per essere suddivisa in camere. E ancora: da luogo dove si studia la più virtuosa distribuzione dei nostri preziosi spazi storici, a spazio esso stesso privatizzato; da luogo votato al reddito culturale collettivo, a luogo deputato a produrre reddito monetario privato.
A Pisa è l’Ospedale dei Trovatelli, praticamente in Campo dei Miracoli, ad essere venduto con tutti i suoi beni. Il 16 dicembre scorso l’asta (24 milioni di base) è andata deserta, e alla prossima il complesso (che appartiene alla Asl) verrà battuto con un ribasso del 10%, per poi passare alla trattativa privata. La probabile trasformazione in albergo potrebbe mettere a rischio lo splendido edificio e le opere che contiene, tra cui la ruota cinquecentesca su cui venivano esposti i bambini, ricollocata all'interno. Continuiamo a scendere: in Lazio il Comune di Priverno (Pd) ha appena messo in vendita l’edificio nel quale è ospitato il Museo Medievale di Fossanova, che è l’antica foresteria della gloriosa Abbazia in cui è morto san Tommaso d’Aquino. Il destino del museo è probabilmente quello di tramutarsi in un ristorante, e per ottenere una deroga al vincolo della legge regionale attraverso cui è stata finanziata la realizzazione del museo si dovranno esporre altrove le opere: dove, ancora non è dato saperlo.
Concludiamo, in gloria, nella Campania in cui tutto è possibile. Va in vendita il Casino reale di Carditello, una delle residenze extraurbane preferite da Carlo di Borbone e Ferdinando IV, decorata da artisti come Philipp Hackert e Fedele Fischetti e già centro di una complessa azienda agricola, ma oggi teatro di spettacolari discariche di monnezza. Carditello appartiene al Consorzio di bonifica del Volturno, che è indebitatissimo nei confronti del Banco di Napoli, cioè di Banca Intesa: nel prossimo marzo il complesso sarà battuto all’asta, se la Regione Campania non troverà 9 milioni di euro.
Si potrebbe continuare a lungo, fino a disegnare una mappa della inarrestabile trasformazione che, convertendo la ricchezza del popolo italiano in ricchezza privata, inverte un secolare processo di civilizzazione.
E il messaggio di quella mappa è chiarissimo: la recessione economica sta diventando regressione culturale.
La Repubblica Milano
Le autostrade della bicicletta
di Alessia Gallione
Un tempo, a disegnare la Milano delle due ruote, c’erano i Raggi verdi: itinerari che, dal centro, avrebbero raggiunto la periferia. Una concezione «radiale», quella dei vecchi Raggi verdi, che il nuovo Pgt dice di voler superare. Progettando una rete di piste ciclabili capillare. Che assume anche altri colori, usati come nomi in codice per definire i tracciati immaginati: dai Raggi rossi come quelli destinati a nascere a Porta Venezia e lungo il Naviglio della Martesana, agli Anelli blu che correranno lungo le tre cerchie dei Bastioni, dei Navigli e della 90/91. fino alle Linee gialle, che dovranno cucire alcuni di questi percorsi principali e che si svilupperanno lungo strade come via Washington o i grandi viali come Corsica, Umbria o Tunisia. Con un obiettivo: far sì che la bicicletta venga utilizzata sempre più come un mezzo di trasporto alternativo e che i chilometri di piste salgano dagli attuali 130 ad almeno 200.
È un studio fatto da Amat, quello contenuto nel Pgt. La filosofia è spiegata nelle risposte del Comune ad alcune delle oltre 2mila osservazioni accolte, che hanno permesso all’amministrazione di modificare il documento urbanistico. Tra le maggiori richieste, infatti, accanto alle decine che invocavano la cancellazione del tunnel Expo-Linate, la diminuzione delle previsioni degli abitanti e delle volumetrie, ci sono anche le invocazioni ad aumentare i percorsi per le due ruote. Come a Porta Venezia, dove un cittadino chiede una pista che colleghi Loreto a San Babila: viene fatta propria dal Pgt anche in nome dei quesiti referendari. Proprio quel tracciato che i tecnici ormai definiscono come la nuova "autostrada" delle biciclette, visto che molti lo percorrono per arrivare in centro. Le future azioni immaginate da Palazzo Marino partono dall’analisi degli spostamenti attuali: in una città ancora dominata dall’auto, che rimane il mezzo di trasporto più utilizzato (copre il 42,4% dei tragitti), quelli in bici rappresentano il 3,8% del totale.
L’obiettivo, nella città del 2030, è di arrivare per quelli interni al 15%. Un traguardo che viene ritenuto raggiungibile visto che, è la premessa, anche i city users «hanno mostrato interesse e disponibilità a cambiare le proprie abitudini per recarsi al lavoro o sul luogo di studio». Ed è proprio per migliorare la mobilità «casa-lavoro» e «casa-scuola», che la rete delle piste è stata ridisegnata in modo più puntuale. Con collegamenti definiti «diretti» e, soprattutto, non soltanto pensati lungo i vecchi Raggi verdi. Certo, le vie radiali rimangono. Anche se, ormai, sono stati riviste e, a definire i nuovi percorsi meglio definiti, adesso ci sono i "Raggi rossi": sono le direttrici che dal centro collegano la periferia. E, solo per citare alcuni esempi, correranno lungo Melchiorre Gioia-Naviglio della Martesana, lungo il Naviglio Grande, lungo Zara-Testi o, appunto, Porta Venezia.
Per capire la nuova programmazione, però, bisogna immaginare anche altre piste, quelle che si svilupperanno lungo le direttrici rappresentate dalle tre cerchie concentriche. Sono definite Anelli blu, come quello che seguirà i Bastioni. Per coprire il più possibile la città, vengono aggiunte le Linee gialle, che serviranno a realizzare diversi punti di interesse. La mappa prevede, tra le altre, la linea che seguirà i viali che portano il nome dell’Umbria o della Corsica, e un’altra direttrice come via Washington. Ma dove verranno trovati i soldi? I tracciati, si dice, potranno essere finanziati anche con gli oneri di urbanizzazione dei vari progetti in corso. In una città che pedala, il Comune promette anche di aumentare il numero delle rastrelliere, costruire «grandi bicistazioni dove gli utenti possano trovare - in corrispondenza delle stazioni ferroviarie - un parcheggio più sicuro, assistenza, informazione e noleggio». Infine, nel regolamento edilizio si propone di affrontare il capitolo degli spazi per parcheggiare bici nei palazzi che verranno costruiti e dell’accessibilità negli spazi pubblici.
Corriere della Sera
Se pedalare a Milano diventa un pericolo per le donne
di Isabella Bossi Fedrigotti
Le signore di Milano, quelle che in numero sempre crescente e in grande maggioranza rispetto agli uomini vanno in bicicletta per fare la spesa, portare i bambini a scuola o raggiungere il lavoro, e che pedalano perché l'automobile la usa l'uomo di casa, perché sulle due ruote si arriva più in fretta senza l'incubo del parcheggio, perché un po' di moto fa bene o perché sono del tipo doverista e vorrebbero che Milano diventasse una città meno trafficata e meno inquinata, non sono più sicure di poter restare fedeli al loro mezzo di trasporto.
Gli incidenti già c'erano, con cadenza quasi regolare, che han visto falciare ciclisti giovani e meno giovani, e la colpa era quasi sempre del traffico troppo intenso e della corrispondente assenza di piste ciclabili. Ora è arrivato anche lo scippo in pieno centro grazie al quale una di queste signore che, con un certo disprezzo, vengono spesso definite (da chi di solito va in automobile) «sciure» o, peggio «sciurete», sta tra la vita e la morte. Non che scippare le cicliste sia una novità: è, anzi, lunghissima la lista di chi si è vista sottrarre la borsetta dal cestino mentre pedalava, ma l'incidente dell'altro ieri sera in piazza della Repubblica fa la differenza perché evidenzia il fatto che pedalando si è comunque in pericolo e che vita o morte dipendono da quasi nulla, da un abbordaggio un po' più brutale, da un gesto dello scippatore più o meno brusco.
Né i tempi promettono, purtroppo, meno violenza nell'immediato futuro. La crisi economica eventualmente scatena, infatti, anche i principianti, nuovi malviventi senza curriculum, senza esperienza, incapaci di misurare i rischi che comporta uno «strappo» in motorino ai danni di un pedone o di un ciclista e, dunque, precipitosi e rozzi, con le conseguenze che abbiamo visto l'altra sera. Ma si è anche visto, ancora una volta, che, dopo gli anziani, sono le donne che nelle strade e nelle piazze corrono i rischi maggiori. Ed è ovvio che, più sono coraggiose, più sono decise, più lavorano sodo fuori casa, anche di sera tardi, più sono in pericolo. L'ex sesso debole, insomma, quello che, almeno in teoria, fa così tanta paura agli uomini, che fa loro dura concorrenza in sempre più numerosi campi, assai più di loro resta comunque vulnerabile.
Perché non è soltanto una questione di bicicletta. Anche le signore meno coraggiose, che mai pedalerebbero la sera nel traffico, che, quando vanno a piedi, rasentano i muri lungo i marciapiedi, o che viaggiano sui mezzi pubblici, non possono stare così tranquille. Passino il tram oppure l'autobus, dove per lo meno c'è un autista, ma perché una ragazza o signora si decida a scendere nei corridoi della metropolitana dopo una certa ora, deve proprio non avere altra scelta. Paradossalmente, il mezzo che fa sentire le donne più protette resta l'automobile, della quale gli amministratori vorrebbero il più possibile liberarsi. Conviene forse che lo tengano presente nelle loro politiche tese a disincentivarne l'uso, perché la sicurezza passa prima dei problemi di traffico e molto prima di quello delle polveri sottili.
C’è un aspetto che qui voglio deliberatamente trascurare, ed è quello pur essenziale dei comportamenti: la signora violentemente scippata di cui parla Isabella Bossi Fedrigotti, teneva in bella vista sul cestino la borsetta, e in quanto ciclista urbana abituale probabilmente si rendeva conto di correre un rischio, sino a che punto? Sino a che punto, cioè, nella metropoli contemporanea sono leciti e praticabili (chiedendo poi a gran voce interventi sulla sicurezza) comportamenti come quelli di chi ad esempio attraversa certi quartieri ostentando auto di lusso e orologi d’oro massiccio penzolanti dal finestrino aperto?
Si tratta però, appunto, di tema di per sé complicatissimo, e accantoniamolo momentaneamente. Resta il rapporto fra la scelta apparentemente “minimalista” degli interventi sulla ciclabilità, e l’idea complessiva di spazio urbano, sicurezza, composizione funzionale, e conseguenti scelte urbanistiche (quelle relative alle regole generali sullo spazio fisico, per distinguerle dal resto). Ci si muove per andare da un posto all’altro, attraversando altri spazi: cosa c’è là dentro? Perché e come ci si muove? Non sono domande banali, perché esistono differenze radicali fra lo spazio di un quartiere misto, quello di una zona ad elevata specializzazione, la classica zona a monocoltura residenziale, e poi il momento della giornata in cui avviene lo spostamento.
Sta nella consapevolezza reale di tutte questa varianti, l’idea di città condivisa, e non nei confusi aneliti alla metropoli “a misura d’uomo” che quasi sempre nasconde stereotipi campati per aria, che siano gli spazi di eccellenza per pochi super protetti (la declinazione preferita del centrodestra securitario) o l’impraticabile caricatura del centro storico che fu, cara a tanti che ahimè si credono progressisti e di sinistra. Tanto per fare un piccolo esempio: che spazio può avere in questo contesto la deregolamentazione, o profonda riorganizzazione qualsivoglia, degli orari di commercio e servizi? Lo sa anche un bambino tonto, che ci sono solo due modi per garantire la sicurezza urbana e una buona qualità spaziale, il primo è un uso continuo degli spazi, il secondo è la loro graduale militarizzazione, in un modo o nell’altro.
In definitiva, e da un punto di vista che vorrebbe stare ad anni luce di distanza da certe tragicomiche idee ampiamente praticate dal centrodestra, immaginare che la città giusta e equa, sostenibile, ciclabile, “a misura d’uomo”, possa assomigliare al piccolo borgo felice campato in aria di certi spot pubblicitari, fa venire qualche brivido. Non per paura di finire in quel modello, ma perché si tratta, che piaccia o meno, di un vicolo cieco. E che come tale, richiede … ehm, una certa vigilanza (f.b.)
Uno degli strumenti che la giunta Cappellacci aveva predisposto per distruggere il Piano paesaggistico regionale della giunta Soru (l’unica applicazione compiuta del Codice del paesaggio) era il cosiddetto “piano-casa”. Esso consentiva, tra l’altro, una deroga amplissima al divieto di costruire, in particolare, nell’area di protezione della fascia costiera puntigliosamente individuata dal Ppr lungo l’intero litorale, con ampiezza variabile a seconda delle specifiche caratteristiche di ogni suo segmento. Analoghe deroghe erano consentite – e sono anch’esse censurate dal governo Monti - dalla legge, della giunta Cappellacci per la “liberalizzazione” dei campi da golf.
Il 20 gennaio scorso il Consiglio dei ministri ha infatti deciso d’impugnare alcune delle leggi della maggioranza berlusconiana della Sardegna, ribadendo la supremazia dei valori di tutela paesaggistica che fanno capo – grazie all’articolo 9 della Costituzione – alla responsabilità dello stato, anche in situazioni quale quella dell’Isola, nella quale la regione dispone di competenze “speciali”. I punti che il consiglio dei ministri ha censurato riguardano in particolare: che gli interventi previsti dalla legge «sono realizzati non solo "in deroga alle previsioni dei regolamenti edilizi e degli strumenti urbanistici comunali vigenti", ma in deroga anche "alle vigenti disposizioni normative regionali"».
Il governo rileva che «la specifica disciplina dettata dalla l.r. Sardegna in esame, consentendo una deroga generica alle vigenti disposizioni normative e regolamentari che disciplinano l'attività edilizia senza tener conto dei vincoli paesaggistici, si pone in contrasto con i principi di tutela dei beni paesaggistici contenuti nel Codice dei beni culturali e del paesaggio e nelle disposizioni di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali ad essa collegate ed, in tal modo, viola l'articolo 9 e l'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione di cui dette disposizioni costituiscono diretta attuazione».
Oltre a censurare alcuni aspetti di natura urbanistica della versione sarda del “piano-casa” il documento censura altri provvedimenti della giunta Cappellacci con i quali si proseguiva e completava l’aggressione alle precedenti norme di tutela paesaggistica. Tra questi, il provvedimento con il quale si consentiva il consolidamento permanente di strutture mobili temporanee, e la famigerata legge per lo sviluppo dei campi da golf. Quest’ultima legge – se l’impugnativa del Consiglio dei ministri non venisse accolta - permetterebbe alla giunta regionale di « adeguare il Piano paesaggistico regionale consentendo la realizzazione nella fascia costiera, entro la fascia di 1.000 metri dalla linea di battigia (500 metri per le isole minori) di nuove strutture residenziali e ricettive connesse ai campi da golf»!
Riportiamo di seguito il testo integrale del documento del Consiglio dei ministri.
Modifiche e integrazioni alla legge regionale n. 4 del 2009, alla legge regionale n. 19 del 2011, alla legge regionale n. 28 del 1998 e alla legge regionale n. 22 del 1984, ed altre norme di carattere urbanistico. (21-11-2011). Regione: Sardegna- Estremi: legge n.21 del 21-11-2011- Bur: n. 35 del 29-11-2011- Settore: Politiche infrastrutturali- Delibera C.d.M. del: 20-01-2012 / Impugnativa
Motivi dell'impugnativa: La legge regionale in esame, recante " Modifiche e integrazioni alla legge regionale n. 4 del 2009, alla legge regionale n. 19 del 2011, alla legge regionale n. 28 del 1998 e alla legge regionale n. 22 del 1984, ed altre norme di carattere urbanistico", presenta diversi profili di illegittimità costituzionale. Si premette che la Regione Sardegna ha potestà legislativa di tipo primario in materia di urbanistica ed edilizia, ai sensi dell'articolo 3 , comma 1, lettera f) dello Statuto speciale di autonomia, l. cost. n.3/1948. La regione è altresì titolare di competenza esclusiva in materia di «piani territoriali paesistici», in base all'articolo 6, comma 2, del d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480, di approvazione delle Nuove norme di attuazione dello Statuto, emanato con l. cost. 26 febbraio 1948, n. 3. Ciò premesso occorre tuttavia precisare che le potestà esclusive regionali incontrano, oltre ai limiti generali previsti dagli stessi Statuti, il limite del rispetto delle disposizioni statali costituenti norme fondamentali di riforma economico-sociale.
In particolare, l'articolo 3 del citato d.P.R. n. 480 del 1975, nel prevedere le materie attribuite alla potestà legislativa regionale della Sardegna, richiama il rispetto dei «principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica». Questo principio si evince dalle eseguenti pronunce della Consulta: - Corte Costituzionale sentenza n. 51 del 2006 nella quale, proprio con riferimento alla Regione Sardegna, la Corte ha chiarito che il legislatore statale conserva il potere di vincolare la potestà legislativa primaria della Regione speciale attraverso l'emanazione di leggi qualificabili come "riforme economico-sociali": e ciò anche sulla base del titolo di competenza legislativa nella materia "tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali", di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali o culturali; con la conseguenza che le norme fondamentali contenute negli atti legislativi statali emanati in tale materia potranno continuare ad imporsi al necessario rispetto del legislatore della Regione Sardegna che eserciti la propria competenza statutaria nella materia "edilizia ed urbanistica" (v. anche sentenza n. 536 del 2002); - Corte Costituzionale sentenza n. 164 del 2009 che ha accolto il ricorso in via d'azione dello Stato avverso una legge della Regione autonoma della Valle d'Aosta in materia di tutela paesaggistica ricordando che la potestà normativa della Regione autonoma deve esercitarsi «in armonia con la Costituzione e con i principi dell'ordinamento, nonché delle norme fondamentali e di riforma economico-sociale» e qualificando norme «di grande riforma economico-sociale» le disposizioni della c.d. legge "Galasso" e l'elenco delle aree tutelate per legge contenuto nell'odierno art. 142 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Ciò premesso, sono censurabili, in particolare le seguenti norme regionali :
- 1 L'articolo 7, comma 1, lettera f), della legge regionale in esame, prevede che gli interventi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5 e 6 della presente legge sono realizzati non solo "in deroga alle previsioni dei regolamenti edilizi e degli strumenti urbanistici comunali vigenti", ma in deroga anche "alle vigenti disposizioni normative regionali". Tale generica previsione è suscettibile di essere interpretata in un'accezione ampia, tale da ricomprendervi anche normative che afferiscono ad ambiti di legislazione esclusiva statale , risultando pertanto censurabile sotto diversi profili di seguito specificati : - 1.1 Si ha, in primo luogo, una incostituzionale riduzione della tutela paesaggistica, agli effetti della realizzazione del "piano casa", allo stesso livello degli strumenti urbanistici ed edilizi, ciò che si pone in diretto contrasto con la norma di grande riforma economico-sociale posta dall'art. 5 del decreto legge n. 70 del 2011 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 106 del 2011), che ha posto i principi fondamentali sui così detti "piani ? casa" (legge nazionale quadro per la riqualificazione incentivata delle aree urbane), chiarendo, senza ombra di dubbio, che resta fermo il rispetto delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio (in linea, del resto, con i contenuti dell'intesa sancita in sede di Conferenza Stato Regioni in data 1 aprile 2009, che fissava gli ambiti e i limiti di intervento generali dei piani casa regionali, salvaguardando le reciproche competenze dello Stato e delle regioni negli ambiti della salvaguardia della tutela ambientale e dell'urbanistica). La specifica disciplina dettata dalla l.r. Sardegna in esame, consentendo una deroga generica alle vigenti disposizioni normative e regolamentari che disciplinano l'attività edilizia senza tener conto dei vincoli paesaggistici, si pone in contrasto con i principi di tutela dei beni paesaggistici contenuti nel Codice dei beni culturali e del paesaggio e nelle disposizioni di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali ad essa collegate ed, in tal modo, viola l'articolo 9 e l'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione di cui dette disposizioni costituiscono diretta attuazione.
- 1.2 La norma, inoltre, contrasta con i principi dell'ordinamento civile laddove nell'autorizzare genericamente interventi edilizi in deroga omette di richiamare il rispetto del decreto ministeriale n. 1444/1968 che contiene disposizioni in materia di distanze e altezze degli edifici. Al riguardo si fa rilevare che la giurisprudenza ha sempre ritenuto che gli artt. 8 e 9 del predetto decreto ministeriale in tema di distanze tra edifici per la sua genesi (è stata adottato ex art. 41-quinquies, comma 8, della legge 17.08.1942 n. 1150) e per la sua funzione igienico-sanitaria (evitare intercapedini malsane mediante la fissazione di valori minimi inderogabili), costituisce un principio inderogabile della materia (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, sentenze 7731/2010 e n. 4374/2011), anche per le Regioni e province autonome che, in base agili statuti di autonomia, siano titolari di competenza esclusiva nella materia urbanistica. La stessa Corte Costituzionale, sin dalla sentenza n. 120 del 1996, ha precisato che "la predetta norma sulle distanze tra edifici, deve considerarsi integrativa di quelle previste dal codice civile (art. 873 cod. civ. e segg.)" e che "le disposizioni sulle distanze fra costruzioni sono giustificate dal fatto di essere preordinate, non solo alla tutela degli interessi dei due frontisti ma, in una più ampia visione, anche al rispetto di una serie di esigenze generali, tra cui i bisogni di salute pubblica, sicurezza, vie di comunicazione e buona gestione del territorio. Si tratta, quindi, di una normativa che prevale sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (cfr. anche Corte Costituzionale 16 giugno 2005, n. 232). La Corte costituzionale, poi, con sentenza n. 232/2005, ha avuto modo di affermare che le normative locali (regionali o comunali) possono prevedere distanze inferiori alla misura minima di cui all'art. 9 del D.M 1444/1968, tuttavia entro precisi limiti: l'introduzione di deroghe è consentita solo nell'ambito della pianificazione urbanistica, come nell'ipotesi espressamente prevista dall'art. 9 comma 3 del DM 1444/1968, che riguarda edifici tra loro omogenei perché inseriti in un piano particolareggiato o in un piano di lottizzazione. Sulla scorta delle suesposte argomentazioni si ritiene che l'articolo 7, comma 1 lettera f), della legge regionale in esame, laddove non prevede la salvezza anche delle disposizioni in materia di altezze e distanze di cui al citato decreto ministeriale n. 1444/1968, contrasti con l'articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva statale la materia dell'ordinamento civile.
- 1.3 Infine, lo stesso art. 7, comma 1, lettera f), consente che gli interventi edilizi sopra indicati siano realizzabili senza fare salve le misure di controllo dell'urbanizzazione stabilite dalla normativa in materia di rischi di incidenti rilevanti e pertanto si pone in contrasto con il decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334, recante attuazione della direttiva 96/82/CE (Seveso). Al riguardo si osserva che il decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 e s.m.i., recante attuazione della direttiva 96/82/CE (c.d. direttiva Seveso), relativa al controllo dei rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose, detta disposizioni vincolanti in materia di assetto del territorio e controllo dell'urbanizzazione. A tal fine il D.M. 9 maggio 2001, che stabilisce i requisiti minimi di sicurezza in materia di pianificazione urbanistica e territoriale per le zone interessate da stabilimenti a rischio di incidente rilevante, prevede che le autorità responsabili della gestione del territorio recepiscono negli strumenti di regolamentazione territoriale ed urbanistica e negli atti autorizzativi dell'attività edilizia, nelle aree interessate dagli effetti degli scenari incidentali ipotizzabili in relazione alla presenza di stabilimenti a rischio di incidente rilevante, le informazioni fornite dai gestori sulle aree di danno e le valutazioni di compatibilità degli interventi fornite dall'autorità tecnica competente. La suesposta normativa statale è, pertanto, inderogabile e trova fondamento nella disciplina recata dalla direttiva 96/82/CE, ed in particolare nell'art. 12 della stessa direttiva che stabilisce misure in materia di controllo dell'urbanizzazione. Sulla scorta delle suesposte argomentazioni si ritiene che la norma in esame viola l'art. 117, comma 1, della Costituzione nella misura in cui contrasta con la normativa comunitaria e l'art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione nella misura in cui dispone in modo difforme dalla normativa nazionale di riferimento afferente alla materia della «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema» in cui lo Stato ha competenza legislativa esclusiva.
- 2 L'articolo 18 prevede che, dopo la prima applicazione (fase nella quale si applica il d.P.R. n. 139 del 2010), la Giunta regionale possa individuare ulteriori forme di semplificazione del procedimento di autorizzazione paesaggistica in conformità ai principi contenuti nel decreto del Presidente della Repubblica n. 139 del 2010. La norma, così disponendo, riconosce alla regione una potestà legislativa che appartiene in via esclusiva alla Stato e, pertanto, viola l'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione che riserva al legislatore statale la materia della «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema».
- 3 L'articolo 20 introduce modifiche alla legge regionale n. 22 del 1984 ("Norme per la classificazione delle aziende ricettive"). La nuova formulazione dell'articolo 4-bis, prevede che «nelle aziende ricettive all'area aperta regolarmente autorizzate e nei limiti della ricettività autorizzata gli allestimenti mobili di pernottamento, quali tende, roulotte, caravan, mobil-home, maxicaravan o case mobili e pertinenze ed accessori funzionali all'esercizio dell'attività sono diretti a soddisfare esigenze di carattere turistico meramente temporanee e, anche se collocati in via continuativa, non costituiscono attività rilevante a fini urbanistici, edilizi e paesaggistici.». Sul punto si fa rilevare che non spetta alla normativa regionale qualificare alcuni interventi come paesaggisticamente irrilevanti, ampliando la previsione dell'articolo 149 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Sul piano concreto, l'estensione dell'ambito degli interventi qualificati come paesaggisticamente irrilevanti, contenuta nella nuova formulazione dell'articolo 4-bis (la precedente si limitava agli "allestimenti mobili di pernottamento"), pone seri problemi di impatto paesaggistico. Infatti, occorre considerare che: - per "aziende ricettive" si intendono villaggi turistici e campeggi e, quindi, la previsione riguarda aree assai importanti dal punto di vista paesaggistico; - la definizione delle «case mobili» è incerta, e rischia di costituire motivo di elusione dell'intera disciplina di tutela del territorio, comportando la disapplicazione delle regole di edificazione stabilite nella legge e negli strumenti di pianificazione; tanto più che la disposizione in questione vanifica la necessaria sussistenza delle caratteristiche tecniche individuate quali indici di precarietà e temporaneità (esistenza dei "meccanismi di rotazione" in funzione, "rimovibilità degli allacciamenti alle reti tecnologiche"), poiché qualifica detti interventi come comunque «diretti a soddisfare esigenze di carattere turistico meramente temporanee» anche e nonostante questi risultino « collocati in via continuativa». - sicuramente, tra le «pertinenze ed accessori funzionali all'esercizio dell'attività» ricettiva, potrebbero rientrare strutture edificatorie (ad esempio, quelle dei servizi e degli spazi comuni dei villaggi vacanze) di grande dimensione e di grande impatto paesaggistico, che altrimenti dovrebbero indubbiamente essere sottoposte ad una piena valutazione di compatibilità paesaggistica (oltre che di compatibilità urbanistico-edilizia).
Si aggiunga che interventi del tutto analoghi, se non sostanzialmente coincidenti con quelli che la l.r. n. 21 del 2011 intende "liberalizzare", sono compresi tra quelli soggetti al procedimento di autorizzazione paesaggistica, seppure in forma semplificata, dal d.P.R. n. 139 del 2010, attuativo della previsione dell'articolo 146, comma 9, del Codice (vedi, tipologie di cui al n. 38 e, soprattutto, al n. 39, dell'Allegato) e che il Piano Paesaggistico Regionale, all'articolo 20, comma 1, lettera b), n. 3 ("Fascia costiera"), detta una disciplina di tutela che esclude la realizzazione di detti interventi. Appare dunque evidente, anche in questo caso, l'irragionevolezza della disposizione regionale ed il contrasto con le disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Si segnala che una analoga questione è stata già esaminata e accolta dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 235 del 19 luglio 2011 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 2 della legge della Regione Campania 25 ottobre 2010, n. 11, nella parte in cui, nel disciplinare le strutture turistiche presso gli stabilimenti balneari, prevedendo, tra l'altro, «la permanenza delle istallazioni e delle strutture, realizzate per l'uso balneare, per l'intero anno solare», detta norme difformi dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, con particolare riguardo alla pianificazione paesaggistica e al regime dell'autorizzazione paesaggistica. "La normativa censurata ? ha osservato la Corte - prevede sia deroghe alla pianificazione paesaggistica, sia apposite procedure di autorizzazione paesaggistica. Vi è, quindi, una invasione nella competenza legislativa statale, in quanto le disposizioni impugnate intervengono in materia di tutela del paesaggio, ambito riservato alla potestà legislativa dello Stato, e sono in contrasto con quanto previsto dal decreto legislativo n. 42 del 2004 (da ultimo, sentenze n. 101 del 2010 e n. 272 del 2009)". Sulla scorte delle suesposte argomentazioni si ritiene che la norma in esame contrasti con gli articoli 9 e dell'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. - 4.
L'articolo 23, commi 6 e 7, della l.r. n. 21 del 2011, sostituendo l'articolo 5, commi 4 e 5, della l.r. n. 19 del 2011, ha previsto che la Giunta regionale sia autorizzata ad adeguare il Piano paesaggistico regionale consentendo la realizzazione nella fascia costiera, entro la fascia di 1.000 metri dalla linea di battigia (500 metri per le isole minori) di nuove strutture residenziali e ricettive connesse ai campi da golf e disponendo che per tali finalità si applica la procedura di cui all'articolo 11 della legge regionale 23 ottobre 1009, n. 4 che si conclude con una deliberazione della Giunta. Questa procedura, non prevedendo alcuna partecipazione dell'Amministrazione statale, viola l'articolo 143 del Codice per i beni culturali ed il paesaggio che, stabilendo l'intesa e l'accordo tra Stato e Regione anche per la revisione dei piani paesaggistici, ribadisce il principio della pianificazione congiunta e costituisce elemento cardine del sistema di tutela del paesaggio, assicurato dal Codice stesso in diretta attuazione del principio fondamentale espresso dall'articolo 9, secondo comma, della Costituzione .
Pertanto, la disposizione in esame presenta profili di incostituzionalità, in quanto eccede dalle competenze statutarie di cui all'articolo 3 dello statuto speciale di autonomia della Regione Sardegna di cui alla legge costituzionale n. 3 del 1948 contrastando con gli articoli 117, comma 2 lettera s), e con l'art. 118, terzo comma, Cost., che rimanda alla legge statale la disciplina delle "forme di intesa e di coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali" Per questi motivi le sopra evidenziate norme regionali devono essere impugnate di fronte alla Corte Costituzionale ai sensi dell'articolo 127 della Costituzione.
L’intervista del neo-ministro per i Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi, comparsa ieri sul “Corriere della Sera” contiene punti e spunti interessanti. Vi sono tuttavia taluni temi strategici della tutela sui quali sarebbe utile conoscere il suo più che autorevole parere: 1) nell’intervista si parla dei piani-casa (per lo più orrendi) voluti da Berlusconi e solo in parte corretti, non c’è notizia invece dei piani paesaggistici che MiBAC e Regioni dovrebbero avere già redatto da quel dì, e che sono lo strumento fondamentale di difesa dall’aggressione cementizia in atto, per cui la priorità delle priorità è fare il punto su di essi dopo la latitanza dei predecessori di Ornaghi, soprattutto di Sandro Bondi; 2) non vi sono accenni alla grave situazione del personale dei Musei che, senza interventi urgenti, porterà a chiusure sempre più frequenti: qua e là i portoni cominciano a rimanere penosamente, forzosamente sbarrati, magari la domenica; 3) silenzio pure sul rapporto centro-periferia che da anni ormai inceppa i meccanismi della tutela: Ornaghi non ne porta ovviamente colpa di sorta, ma, a fronte della megastruttura centrale, ci sono fior di soprintendenze ancora gestite “ad interim”, e (sono dati recenti forniti dall’arch. Roberto Cecchi oggi sottosegretario) quelle ai Beni Architettonici risultano così sguarnite di personale che, a Milano, ogni tecnico dovrebbe affrontare 79,24 pratiche al giorno…Mi fermo qui: questa è la realtà oggettivamente devastata della tutela dei beni culturali e paesaggistici e ad essa poco lenimento possono apportare i privati, le fondazioni, le associazioni. Su questi tre punti (ma ve ne sarebbero alcuni altri) lo Stato c’è o non c’è. Senza vie di mezzo.
Il ministro ribadisce la volontà di far decollare, coi dovuti paletti, l’operazione-Colosseo. Tutti siamo favorevoli. In chiarezza e con una premessa: il grido “il Colosseo crolla!” è clamorosamente fasullo. Il monumento-simbolo – l’ha chiarito bene la sua direttrice Rossella Rea ad “Ambiente Italia” (Rai3) – è stato “messo in sicurezza” coi 40 miliardi di lire forniti a metà degli anni ’90 dalla Banca di Roma. A cosa serviranno i 25 milioni di euro della Tod’s? L’ha specificato la stessa Rea: a) ripulire con nebulizzazioni i marmi dell’Anfiteatro; 2) rifare le cancellate; 3) togliere l’asfalto dai percorsi interni riscoprendo il travertino originario; 4) creare il Centro Servizi. C’entra tutto ciò con la sicurezza strutturale del Colosseo? Meno di zero. Il monumento “soffre”, questo sì, per le scosse continue del vicino traffico veicolare, anche pesante, e per l’eccesso di “pressione antropica”, cioè di visitatori. Qualcuno vuole eliminare il traffico? Per Alemanno è più facile gridare “al crollo”. Quanto ai 5 milioni di visitatori…se ne vogliono tanti di più.
Sono 1.562 i progetti orfani dell'otto per mille dopo che i 45 milioni a disposizione nel 2011, racimolati con le dichiarazioni dei redditi 2008, hanno preso altre vie rispetto alle quattro (calamità naturali, lotta contro la fame nel mondo, assistenza ai rifugiati, salvaguardia dei beni culturali) indicate dalla legge e per le quali i contribuenti ogni anno scelgono di destinare la loro quota di Irpef allo Stato. Dei progetti rimasti al palo, il 76% riguarda interventi per il patrimonio artistico, il 13% per le calamità, l'8% per la fame nel mondo e il 3% per i rifugiati. E’ dal 2001 che la quota dell'otto per mille da destinare al sociale si assottiglia, anche se mai come l'anno scorso era arrivata a rimanere completamente a secco. La continua decurtazione, operata soprattutto per far fronte alle esigenze dei conti pubblici, ha fatto sì che in undici anni (dal totale 2011) il fondo dell'otto per mille disponesse di 1,2 miliardi, ma in realtà abbia potuto "spendere" solo 510 milioni. Meno della metà. Il resto delle risorse ha preso altre strade.
L'otto per mille nel 2011 ha lasciato a bocca asciutta 1.562 progetti che aspiravano a ricevere una parte dei 145 milioni che i contribuenti hanno destinato allo Stato nel 2008 attraverso la dichiarazione dei redditi. A essere penalizzati sono soprattutto gli interventi nel campo dei beni culturali, che rappresentano il 76% delle proposte arrivate alla presidenza del Consiglio. Seguono, ma a grande distanza, i progetti contro le calamità naturali il 13% delle richieste), quelli contro la fame nel mondo (8%) e, infine, le misure di assistenza ai rifugiati. L'andamento delle richieste presentate entro lo scorso metà marzo alla presidenza del Consiglio e che come ogni anno Palazzo Chigi avrebbe dovuto scremare sulla base dei requisiti dei candidati, per poi predispone il piano di ripartizione, è in sintonia con quanto avvenuto nel passato. Negli ultimi undici anni, infatti, i progetti relativi ai beni culturali hanno sempre rappresentato di gran lunga la maggioranza e questo spiega perché nel periodo 2001-2011 abbiano ricevuto complessivamente oltre 346 milioni di euro, contro i 103 milioni destinati alle calamità naturali, i 48 milioni peri rifugiati e i 18 milioni per debellare la fame nel mondo.
Già nel 2006 e nel 2008 per la scarsità delle risorse - in quegli anni l'otto per mille a disposizione era, in entrambi i casi, di 89 milioni, poi ridotto, per effetto del trasferimento delle finanze ad altre finalità, rispettivamente a 4,7 e 3,5 milioni - alcuni settori erano rimasti a secco. Nel 2006 gli oltre 4 milioni avevano aiutato solo i progetti contro la fame nel mondo, mentre due anni dopo erano state privilegiati i progetti sulle calamità naturali, a cui erano stati trasferiti tutti i 3,5 milioni. Mai, però, si era arrivati a non avere neanche un soldo da destinare alle quattro aree di intervento previste dalla legge. Nel 2011, infatti, i 145 milioni si sono lentamente assottigliati, fino a scomparire del tutto. I primi 64 se ne sono andati a luglio scorso, quando la manovra (il D1 98) ha deciso che quelle risorse servivano a far fronte alle emergenze della protezione civile. A dicembre è stato il sovraffollamento delle carceri a presentare il conto e così il decreto legge m ha dirottato 57 milioni per finanziare l'edilizia penitenziaria. I residui 24 milioni sono caduti sotto le esigenze dei conti pubblici, che per raddrizzarsi racimolano risorse dove ce ne sono. Saldo finale: zero. Poco importa - ma questa è storia che si ripete da anni - che i contribuenti abbiano destinato i soldi allo Stato, piuttosto che alla Chiesa cattolica o alle altre confessioni religiose, per vederli impegnati nel sociale.
D'altra parte è dal 2001 che le risorse dell'otto per mille lottano con le necessità del bilancio statale, bisognoso di reperire finanze. Per esempio, nel 2004 la Finanziaria sottrasse dal fondo dell'otto per mille 8o milioni, che furono in parte utilizzati per ripianare i buchi dei conti pubblici, ma anche per inviare il nostro contingente militare in Iraq e per il Fondo di previdenza del personale di volo. Così che negli ultimi undici anni l'otto per mille ha perso più della metà delle risorse: aveva a disposizione 1,2 miliardi, ma alla fine sono rimasti solo Sto milioni. Di fronte a ciò assume ancora più rilievo la proposta di evitare che la quota del contributo possa prendere strade diverse da quelle previste dalla legge e che i contribuenti si aspettano. Lo stop all'abitudine di svuotare il teso- retto dell'otto per mille è contenuto in un disegno di legge- frutto di un collage di diversi progetti parlamentari - approvato a fine settembre dalla Camera e ora all'esame del Senato. Il Ddl prevede nuovi criteri di ripartizione dei soldi, piano che ora predispone entro fine luglio di ogni anno la presidenza del Consiglio sulla scorta delle indicazioni delle amministrazioni competenti. Secondo la proposta, invece, anche le commissioni parlamentari - che ora hanno solo una funzione consultiva e che in passato si so- no spesso trovate in disaccordo sulla ripartizione operata da Palazzo Chigi - dovrebbero dire la loro su come suddividere i soldi. Sempre che i fondi non vengano dirottati altrove. Ma anche in questo caso il Ddl impone qualche vincolo: lo storno delle risorse può avvenire solo di fronte a esigenze impreviste assolutamente straordinarie.
«Vogliono bloccare la città riproponendo un metodo centralista e dirigista». Carlo Masseroli, capogruppo Pdl ed ex assessore all'Urbanistica, contesta la filosofia del nuovo pgt firmato dall'assessore Ada Lucia De Cesaris che arriva oggi in giunta. E il presidente della Provincia, Guido Podestà, ricorda: «Si era deciso di destinare gli oneri degli Scali ferroviari al prolungamento delle metropolitane».
«Gli obiettivi possono anche essere condivisibili, ma non sono realizzabili. E il rischio è che Milano si blocchi».
Carlo Masseroli, capogruppo del Pdl in consiglio comunale ed assessore che aveva messo la firma al Piano di governo del territorio adottato e poi revocato dalla giunta Pisapia, non vuole essere tranchant: «la piattaforma è rimasta sostanzialmente uguale e comunque siamo tutti convinti del fatto che Milano ha bisogno di regole certe perché non venga bloccato il necessario processo di sviluppo. Esamineremo il documento: ma se le premesse sono quelle anticipate dall'assessore, Milano è destinata ad arretrare». Masseroli si spiega: «Sembra si vogliano far prevalere il dirigismo tipico dei vecchi e falliti piani regolatori, il centralismo e la burocrazia. E' antistorico dal punto di vista culturale ed economico, soprattutto in un momento in cui anche il Governo centrale impone le liberalizzazioni, è sbagliato usare questo metodo».
Il nuovo provvedimento firmato dall'assessore Ada Lucia De Cesaris approda oggi in giunta e, subito dopo, comincerà l'iter in commissione prima dell'arrivo in consiglio comunale, previsto per metà febbraio. Un provvedimento che taglia gli indici edificatori (da 0,5 a 0,35), fissa un indice massimo di 1 (che, sulle aree non costruite, può essere raggiunto con premialità, anche per la realizzazione di residenza sociale), mette il Parco Sud al riparo dal cemento, abolisce il tunnel Expo-Forlanini ma conferma la Circle line, riporta il cambio di destinazione sotto il controllo del Comune e aumenta del 25 per cento l'edilizia sociale residenziale.
Masseroli insiste: «Se tieni bassi gli indici non hai plusvalenze. E allora mi devono spiegare come fanno il Parco Sud, la Circle line e le case in housing sociale». E poi, «basta con il dibattito sulla quantità di cemento, che è un approccio provinciale e ideologico al tema della gestione del territorio. Meglio il cemento di Brera che il non cemento di Porto di Mare, dico io per paradosso. Se continuiamo a mettere paletti, alla fine lavoreranno soltanto i grandi operatori che per paradosso sono i nemici contro cui si è spesso mossa la sinistra».
Ancora: «Bisogna aumentare quantità e qualità di servizi, siamo d'accordo. Il nostro Pgt indicava la strada, con un sistema di accreditamento per riconoscere chi fa servizi. Con tutto il rispetto per il tentativo fatto, come si muoverà questa giunta, in alternativa?».
La critica è di fondo: «Questo Pgt — accusa Masseroli — poggia tutto sulle spalle del pubblico. Ma il pubblico, in questa fase, non ha più un euro e il rischio è che questo piano resti un bel libro dei sogni. Spero che nella fase delle modifiche in aula potremo lavorare insieme, e sono pronto a ricredermi».
Preoccupato anche il presidente della Provincia, Guido Podestà: «Anzitutto, mi auguro che non si perda altro tempo, perché Milano ha bisogno di uno strumento di riferimento urbanistico. In particolare, poi, spero sia confermato l'impegno che avevamo concordato con il sindaco Letizia Moratti: destinare una parte degli oneri della riqualificazione degli scali ferroviari ai prolungamenti della metropolitana verso i Comuni della Provincia. È un intervento necessario per la battaglia all'inquinamento e al traffico».
Preoccupato il capogruppo leghista in Comune, Matteo Salvini: «La battaglia sul cemento l'abbiamo fatta noi, dai banchi della maggioranza, ed è per merito nostro che l'ippodromo è rimasto ippodromo. Ma ci vuole buon senso e il timore è che la sinistra abbia estremizzato questo tema, bloccando di fatto Milano e allontanando tutti gli operatori, che qui non potranno più costruire. Quando si ferma una città, si rischia di perdere migliaia di posti di lavoro».
L'ex presidente del consiglio comunale, Manfredi Palmeri (Fli) ricorda: «Non votai il precedente Pgt perché volevo venissero tutelate le osservazioni dei cittadini. Ma con Pisapia non è cambiato molto: si finge di ascoltare la città ma si impedisce di fare nuove osservazioni pescando fra quelle vecchie le più gradite alla sinistra: è un privilegio della giunta e della maggioranza contro i cittadini, che possono essere solo spettatori».
Meno palazzi e abitanti il nuovo Pgt di Pisapia dimezza le costruzioni
di Oriana Liso
Oltre 5mila osservazioni esaminate una per una, per decidere quali accogliere del tutto o in parte e quali respingere: un lavoro che ora confluisce nella delibera che disegna il nuovo Piano di governo del territorio, il Pgt, profondamente modificato rispetto a quello approvato durante il mandato del sindaco Moratti. Modifiche nette: il nuovo strumento urbanistico dimezza i metri cubi di cemento di nuove costruzioni, grazie alla sensibile riduzione degli indici di edificabilità e, soprattutto, alla cancellazione della possibilità di utilizzare il Parco Sud come virtuale terreno di scambio per nuove volumetrie. Una rivoluzione, insomma, che ora dovrà affrontare l’iter di approvazione: lunedì arriverà in giunta il documento di modifica del Pgt, per poi passare in commissione Urbanistica e - a metà febbraio, se saranno rispettate le previsioni - in Consiglio comunale per la discussione definitiva, che si prospetta già accesa e che dovrebbe portare all’approvazione definitiva entro fine anno.
Un primo dato: le osservazioni di enti, associazioni e cittadini accolte nella precedente versione del piano arrivavano all’8 per cento delle 4.765 totali (diventate poi 5.400 in virtù di una diversa catalogazione di alcune). Il gruppo di lavoro messo assieme dall’assessore all’Urbanistica Ada Lucia de Cesaris, invece, ne ha recepite oltre il 40 per cento, tra osservazioni generali e riferite a specifici ambiti di trasformazione del territorio. È proprio attraverso l’accoglimento di molte di queste osservazioni che si arriva al secondo dato, concretissimo: la superficie massima consentita di nuove costruzioni nei nuovi quartieri è più che dimezzata, rispetto alle vecchie previsioni, passando da quasi 5 milioni e 800mila metri quadri a 2 milioni e 800mila: di questi, oltre 2 milioni e 400mila metri quadri "scompaiono" proprio grazie all’eliminazione del concetto di perequazione con il Parco Sud tanto caro all’ex assessore Carlo Masseroli. Diminuiscono anche gli "Atu", gli ambiti di trasformazione urbana, ovvero quelle aree dismesse o sottoutilizzate all’interno della città che già esiste, altre zone (come gli ex scali ferroviari) seguono un diverso destino con l’accordo di programma con Fs e, ancora, altri ambiti (Expo, Cascina Merlata) vengono "sottratti" e inseriti in un regime transitorio a parte. Risultato: calano anche sensibilmente - nel piano che presenterà De Cesaris - i nuovi abitanti teorici degli "Atu" e di quattro ambiti di trasformazione periurbana: da quasi 100mila a poco meno di 31mila.
Ogni ipotesi di modifica, comunque, dovrà passare dal Consiglio comunale. Commenta il papà del vecchio Pgt, Masseroli: «Bisogna fare in fretta, l’assenza di regole attuali è la situazione peggiore. Ma chiedo: quale sarà il metodo di lavoro? Le modifiche potrebbero essere così radicali da obbligare a ripartire da zero. E, se stiamo alle promesse di questa giunta, le osservazioni andranno discusse tutte in aula». Dà fiducia al lavoro dell’assessore e degli urbanisti del Pim Legambiente Lombardia. Il presidente Damiano Di Simine si aspetta che «le modifiche derivanti dall’esame delle osservazioni apportino rilevanti miglioramenti al Pgt: ora la palla passa alle forze politiche, chiamate ad esprimersi in tempi ragionevoli».
L’appello anticrisi di Rosati alla giunta "Usate la riforma per aiutare il lavoro"
di Luca De Vito
Il pgt come strumento per rilanciare il mercato del lavoro in città. Uno dei temi caldi, tra quelli che verranno presentati oggi nell’incontro tra i sindacati e l’assessore al bilancio Bruno Tabacci, riguarda il Piano di governo del territorio e la possibilità di utilizzarlo come volano per la ripresa dell’occupazione. «Con il Pgt - ha spiegato Onorio Rosati, segretario della Camera del lavoro - si devono creare le condizioni per cui alcune aree vengano destinate a insediamenti produttivi del manifatturiero». Territorio cittadino che, attraverso opportuni incentivi, possa trasformarsi in spazi appetibili per la produzione industriale. «Se non riparte il settore artigianale - ha aggiunto Rosati - non riparte nulla e non riusciamo a dare una risposta occupazionale né ai lavoratori dell’industria, né degli altri settori».
Il segretario Cgil punta il dito anche contro la speculazione sui terreni e chiede al Comune di pensare a un sistema di disincentivi per quegli imprenditori che, per poter sfruttare il valore elevato delle aree, «arrivano a delocalizzare la produzione».
Nel bouquet di richieste che i sindacati faranno oggi a Tabacci, non c’è solo l’attenzione sul Pgt. Ci sono anche l’apertura di un tavolo istituzionale sulla situazione economica e il rifinanziamento del fondo anticrisi. Per la Cgil sono due temi da affrontare con urgenza, anche alla luce degli ultimi dati sul mercato del lavoro in città e provincia. Oltre ai 25mila lavoratori a rischio licenziamento, ci sono infatti 13mila persone che, tra il 2010 e il 2011, sono usciti dalle liste di mobilità senza riuscire a trovare un’occupazione. Ex lavoratori che non hanno avuto un reinserimento e che ad oggi, nella maggior parte dei casi, non hanno alcun tipo di reddito. A delineare un quadro ancora più cupo, poi, c’è anche il tasso di disoccupazione, stimato intorno al 5,9 per cento. Un dato che se riferito ai giovani arriva al 20% in provincia e al 22% in città.
L’intervento istituzionale, secondo i sindacati, non è più rinviabile. «Dal 1998 la Provincia ha in mano tutte le competenze per il mercato del lavoro - ha polemizzato Rosati - nonostante la piena crisi, l’apposita commissione non è stata rinnovata, è scaduta e non si riunisce: noi continuiamo a chiedere ma su questo fronte stiamo registrando un vuoto assoluto». Anche a livello regionale, poi, ci sarà da muoversi, e in fretta. «Il 2012 è l’ultimo anno della cassa integrazione in deroga che viene accordata da Regione Lombardia, uno strumento fondamentale che ha sostenuto il reddito delle famiglie in questi anni. Non è pensabile adesso perderla senza avere altre forme di tutela per i lavoratori».
I vincoli alla crescita del cemento per disegnare la Milano del futuro
di Oriana Liso
Accordi da trovare con Fs e Regione per convertire scali e vecchie stazioni
Milano-Romana, Rogoredo, Porta Genova, scalo Farini, San Cristoforo, Lambrate: sono tanti gli scali ferroviari su cui il vecchio Pgt prevedeva grandi sviluppi. Che, ora, vengono invece demandati all’accordo di programma in via di definizione tra Ferrovie dello Stato, Regione e Comune. Le aree di cui si tratta mettono assieme una superficie di un milione e 190mila metri quadrati su cui - nei vecchi progetti - erano previsti vari interventi: dal parco urbano di Scalo Romana con pista ciclo-pedonale e collegamento pedonale tra la stazione Lodi Tibb e la fermata omonima del metrò 3, al distretto della moda con parco sul Naviglio a Porta Genova, passando per edilizia convenzionata e residenziale ma anche un grande parco allo Scalo Farini su un’area di 500mila metri quadrati.
Addio al maxi-tunnel da Linate a Rho resiste la circle line delle ferrovie
Lo stop definitivo al tunnel che avrebbe dovuto collegare Linate alla fiera di Rho viene certificato nella nuova versione del piano. Ma non solo: scompariranno anche altre infrastrutture considerate non sostenibili, sia dal punto di vista ambientale che economico. Restano di certo - pur demandando al futuro Piano urbano della mobilità i dettagli - le previsioni di infrastrutture strategiche, ad esempio la Circle line, la cerchia ferroviaria che seguirà i contorni della città (e che invece sembrava destinata a sparire), le metropolitane 4 e 5 - anche se con tempi ormai dilatati - e la metrotranvia da Cascina Gobba a viale Certosa. Modifiche saranno previste anche per la sosta pubblica e privata, e si rivedrà la rete ciclabile «superando lo schema radiocentrico proposto» dal vecchio piano.
Spuntano i corridoi ecologici per collegare parchi e giardini
Se il Parco Sud, nella nuova versione del Pgt, resta verde anche virtualmente (perché non viene più usato come merce di scambio per costruire altrove), aumenta anche la previsione di una Milano a miglior impatto ambientale. Soprattutto, la delibera di modifica del Pgt accoglie le osservazioni di chi, come molte associazioni ambientaliste, lamentavano una scarsa attenzione alle connessioni del verde cittadino con i sistemi provinciale e regionale. Per questo si introduce il progetto di una rete ecologica comunale (Rec) con corridoi verdi che mettano a sistema grandi e piccoli parchi urbani. Importante anche l’attenzione all’efficienza energetica degli edifici (da costruire e da recuperare, con premi volumetrici per chi è virtuoso) e l’introduzione di norme specifiche per la bonifica dei suoli contaminati.
Più housing sociale per le fasce deboli le case low cost sul 30% dei terreni
Un vincolo netto, che risponde anche alle promesse di questa coalizione in campagna elettorale e che supera gli aggiustamenti fatti sul vecchio piano grazie alla battaglia in aula consiliare. Il nuovo Pgt fissa un incremento delle quote di terreno che i privati dovranno cedere per finalità pubbliche negli ambiti di trasformazione urbana, in cambio della possibilità di costruire: metà della superficie territoriale, e di questa il 30 per cento servirà per edilizia residenziale sociale. Previsioni di housing sociale, poi, dovranno esserci in tutte le trasformazioni più rilevanti dei prossimi anni, articolando gli interventi su due fronti: edilizia agevolata e convenzionata e vere case popolari. Il documento di indirizzo del nuovo piano, del resto, è preciso: tra le finalità c’è il «bilanciamento tra diritti edificatori per funzioni di mercato e per finalità di interesse pubblico e sociale»
I nuovi quartieri
Scendono a 21 grattacieli in dubbio a Stephenson
Alla base del nuovo Pgt targato Pisapia-De Cesaris c’è il concetto della promozione di uno sviluppo urbano più equilibrato. Scompaiono, quindi, le previsioni di colate di cemento su alcune aree collocate nel territorio agricolo (Forlanini, Ronchetto, Monluè, Porto di Mare). Non si parla più della possibilità di spostare il carcere di San Vittore, creando una Cittadella della giustizia, ormai tramontata. Diminuisce sensibilmente l’indice edificabile massimo previsto su alcune aree di trasformazione urbanistica che diventano 21, mentre nell’ultima versione erano 24. Nella mappa che lunedì verrà sottoposta alla giunta, sembra scomparire anche il grande progetto della "Defense milanese" nell’area di via Stephenson, che prevedeva la possibilità di costruire in quella zona fino a 50 grattacieli di un nuovo business district
Siamo alla paralisi: le concessioni per i «servizi al pubblico» sono scadute da anni e le nuove gare, bandite un anno e mezzo fa, si sono arenate. Non rispondono alle esigenze dei musei, non consentono investimenti né guadagni alle imprese, contengono errori e requisiti incongrui per i concorrenti che hanno costretto i Tar di mezza Italia a sospendere o bocciare i bandi. Il Tar del Lazio ha annullato quello per il bookshop del Polo Museale Romano; la Soprintendenza della Calabria ha preferito ritirare il bando per i maggiori musei della Regione; annullata dal Tar la gara per la ristorazione nel Polo Museale Fiorentino (Uffizi, Pitti, Boboli); annullata anche quella per i servizi di biglietteria del Polo Museale Romano; sospeso, a novembre, il bando in Puglia; il Tar della Campania deciderà il 25 gennaio sui servizi di Napoli e Pompei. Uniche gare andate a buon fine: Ravenna e Cerveteri-Tarquinia, alle quali ha partecipato un solo concorrente. Un rosario di bocciature che danno ragione alle tante imprese che hanno ritenuto insostenibili e illegittimi i termini dei bandi. La situazione è di caos e incertezza, i concessionari in proroga garantiscono soltanto i servizi essenziali.
In prima linea, a guidare la rivolta dei concessionari è Confcultura, aderente a Confindustria, che riunisce gran parte delle imprese del settore. Quali sono i punti critici e gli errori di un’operazione sulla quale il Mibac contava molto e che si può ormai dire fallita? Per Patrizia Asproni, presidente di Confcultura, il primo errore è stato quello di suddividere i bandi per specializzazioni: ristorazione, biglietteria, bookshop ecc. Il Mibac ha scartato l’idea dei bandi «integrati», che raccolgano cioè imprese specializzate per gestire insieme i diversi servizi, come avevano raccomandato le due società di consulenza (costate 200mila euro) chiamate dallo stesso Mibac a preparare le linee guida dei bandi. «Il direttore della Valorizzazione Mario Resca ha adottato il metodo “disaggregato” per evitare la concentrazione dei concessionari», spiega la Asproni. Lo scopo dichiarato era cioè quello di «aprire il mercato» dominato da pochi. «Ha ottenuto l’effetto opposto. Le imprese concorrenti sono pochissime, una o al massimo due per sito». Perfino la gara per la ristorazione agli Uffizi, a Boboli e a Palazzo Pitti, una delle più appetibili, ha avuto un solo concorrente e il Tar ha poi annullato la gara. «È la prova, dice ancora la Asproni, che con le gare disaggregate non è possibile bilanciare tra loro spese e ricavi dei diversi servizi e le imprese non possono investire per migliorare i servizi, anche perché la durata della concessione è di soli 6 anni (prima erano 12), troppo pochi per recuperare un serio investimento».
Patrizia Asproni mette poi l’accento sul problema di fondo: i concessionari non possono intervenire nei criteri di gestione dei musei. In primo luogo gli orari di apertura, che sono decisi dal Ministero in maniera spesso non razionale. Altro elemento che soffoca i concessionari: il prezzo del biglietto, deciso dallo Stato senza consultarli. Secondo Confcultura sarebbe necessario lasciare al gestore la possibilità di modulare il prezzo: una politica di incentivi gioverebbe anche al museo, per esempio con sconti in bassa stagione e alle famiglie. Tutto viene invece deciso da commissioni ministeriali. Basti pensare che la percentuale sui biglietti spettante ai privati che gestiscono il servizio è stabilita in anticipo. Per i musei più frequentati è al massimo il 14%, e questo assicura un guadagno, ma nella maggior parte degli altri arriva al 30% e la perdita è garantita: in molti musei con basso numero di visitatori lo sarebbe anche assicurando al concessionario il 100% del prezzo del biglietto. Infatti diversi musei statali hanno scelto di renderlo gratuito. «I concessionari sono ridotti al rango di impiegati, fa notare Patrizia Asproni, eppure non stiamo parlando di “appalti”, ma di “concessioni” e la Cassazione ha stabilito che si tratta di due cose ben diverse. Alle imprese adesso si chiedono “servizi” che devono limitarsi a eseguire. Il principio della concessione è basato invece sul rischio di impresa, e non puoi rischiare i tuoi investimenti se non hai autonomia. Bisogna insomma cambiare il rapporto tra pubblico e privato, stabilire principi di partnership». Certo, questo sistema non funziona e le imprese sono troppo spesso in passivo, non investono, non migliorano i servizi e i musei ne soffrono. La ricetta di Confcultura è drastica: il Mibac è obsoleto. E lancia una proposta politica. «La cooperazione fra Stato, Regioni ed enti locali diventa necessaria per coordinare le iniziative. Il Ministero per i Beni culturali e quello del Turismo sono frammentati. Ci vorrebbe, come in altri Paesi, un Ministero della Cultura che si dedichi alla salvaguardia del patrimonio e allo stimolo della produzione culturale. Le altre competenze, come la gestione, dovrebbero far capo al Ministero per lo Sviluppo economico. Quanto ai servizi al pubblico, conclude Patrizia Asproni, la soluzione è affidare ai privati la gestione diretta dei servizi museali. comprese le decisioni su marketing, orari, personale, prezzi ecc. Naturalmente in accordo e con il controllo delle Soprintendenze in una vera partnership».
Proposte shock ma applicate in molti Paesi stranieri. Quanto ai bandi, sono necessarie decisioni urgenti: vanno ripensati e corretti per uscire dalla paralisi.
la Repubblica
Alberi, ponte mobile e isola pedonale: la Darsena rinasce e si collega a Expo
di Laura Fugnoli
L’Expo parte dalla Darsena, con le sue acque, ora scarse e putride, prossime a riprendere antichi splendori. I lavori di riqualificazione del porto di Milano partiranno tra la fine di quest’anno e l’inizio del 2013 quando, contestualmente, verrà realizzato il progetto delle vie d’acqua per collegare il centro con il villaggio Expo: un intervento che garantirà, secondo le parole dell’amministratore delegato di Expo Giuseppe Sala, «l’avvicinamento dei milanesi alla "mobilità dolce", con 21 chilometri di pista ciclabile dal centro al villaggio dell’Esposizione universale, ripristino dei canali fino al Villoresi e verde attrezzato in tutta la cintura ovest della città».
Sul piatto 175 milioni di investimenti, di cui 160 a capitale pubblico attraverso Expo Spa e 15 garantiti da soggetti privati. Sul totale, sono 17 i milioni riservati al maquillage della Darsena, ben 9 in meno rispetto al progetto di partenza: «Vorrà dire che sfrutteremo meglio il granito preesistente e rinunceremo alla sistemazione completa di piazzale Cantore» spiega Edoardo Guazzoni, uno degli architetti coinvolti nel progetto, mentre il sindaco Giuliano Pisapia assicura che, «pur con le limitazioni di bilancio, le parti fondamentali del progetto saranno mantenute».
L’area tra Cantore e piazza XXIV Maggio è destinata dunque ad una vera rivoluzione urbanistica. Verranno ripavimentati l’ingresso dell’approdo occidentale e il Belvedere alla Darsena da piazzale Cantore, con l’aggiunta di un ponte tra le due sponde. Parte dei reperti archeologici affiorati nei decenni (pezzi di mura spagnole, per lo più) verranno messi sotto teca, a disposizione dei passanti. Una promenade costeggerà viale Gabriele D’Annunzio con un ampliamento della banchina destinata a manifestazioni e spettacoli.
La sponda meridionale, quella di viale Gorizia, verrà ampliata e alberata, mentre il collegamento con la sponda opposta verrà garantito da un ponte mobile all’altezza della confluenza col Naviglio Grande. L’intervento più consistente riguarderà piazza XXIV Maggio, parzialmente pedonalizzata e abbellita da uno specchio d’acqua grazie alla riapertura del Ticinello sotto la porta neoclassica del Cagnola. Complessivamente le banchine verranno abbassate, mentre elementi conservativi lungo le mura spagnole e l’innalzamento di pareti in mattoni separeranno il bacino da via D’Annunzio, sulla falsa riga di quello che accade a Parigi lungo la Senna:
«Vorremmo ricostruire il senso di un luogo separato - spiega l’architetto Sandro Rossi, coprogettista - per tenere la Darsena lontana dalla concitazione della vita urbana».
I bandi partiranno a giugno «e nel 2014 la Darsena sarà visibile e vivibile, una sorta di lascito di Expo per tutti i milanesi» afferma il sindaco, rammaricandosi di «troppi anni di violenza urbanistica, tra progetti di parcheggi rimasti sulla carta, degrado e sporcizia». C’è voluto l’appuntamento del 2015 per sbloccare un’incuria durata per decenni.
Corriere della Sera
Rinasce la Darsena in stile Expo: verde e piste per bici
di Elisabetta Soglio
Ci voleva Expo, per riqualificare Navigli e Darsena. Grazie ai 175 milioni di euro già stanziati (altri 15 arriveranno dai privati), infatti, il complesso intervento verrà realizzato all'interno del programma delle vie d'acqua, che resterà in eredità a Milano. Come ha spiegato il sindaco Giuliano Pisapia, «per anni questa zona è stata oggetto di violenza urbanistica col risultato che uno dei luoghi più belli di Milano è diventato degradato, sporco, invivibile». I lavori, sulla base del progetto firmato dagli architetti Jean Francois Bodin, Edoardo Guazzoni, Paolo Rizzatto e Sandro Rossi, rivisto per rispettare le nuove esigenze di Expo, partiranno all'inizio del 2013 (il bando sarà lanciato entro giugno prossimo) e si concluderanno entro dicembre 2014. Il disegno di questi 800 ettari di parco lineare sarà presentato il 5 febbraio prossimo, durante un grande evento al Teatro Dal Verme.
L'ad di Expo, Giuseppe Sala, ha spiegato che l'operazione delle Vie d'acqua, inserita nel masterplan di Expo, si articola su tre voci: i canali e l'acqua; i percorsi ciclabili; il verde agricolo e attrezzato. «Vogliamo valorizzare le risorse che Milano già possiede, partendo dall'elemento dell'acqua che è matrice del territorio milanese e lombardo». Ecco dunque un canale di circa 20 chilometri che porterà acqua dal Villoresi (nel comune di Garbagnate) fino al sito di Expo e da qui alle aree agricole e al sistema dei parchi dell'Ovest milanese, il Parco di Trenno, Bosco in Città e Parco della Cave, per finire nel Naviglio Grande.
Chi ama la bicicletta, potrà spostarsi lungo un percorso che partirà dalla Darsena, seguirà il Naviglio Grande fino a San Cristoforo, attraverserà il Giambellino, si snoderà lungo i parchi della zona. Sopra Trenno la pista si biforca: la parte di destra attraversa il quartiere del Gallaratese per arrivare nel sito di Expo attraverso cascina Merlata; la parte di sinistra volterà invece verso Pero per raggiungere l'accesso ovest della Fiera.
E la Darsena? È prevista una nuova pavimentazione per l'ingresso e il Belvedere da piazza generale Cantore. Sulla sponda settentrionale, verrà ampliata la passeggiata lungo il lato che costeggia viale Gabriele D'Annunzio; sulla sponda meridionale, anche questa risistemata, compariranno nuovi alberi e un ponte mobile alla confluenza con il Naviglio Grande.
Infine, piazza XXIV Maggio sarà trasformata in un nuovo specchio di acqua, con la riapertura parziale del Ticinello sotto la porta neoclassica del Cagnola. L'intero progetto di riqualificazione della Darsena sarà pagato da Expo: circa 17 milioni di euro.
Questa telenovela della sponsorizzazione del restauro del Colosseo contiene parecchi passaggi indubbiamente opachi. Intanto non è mai stata pubblicata la convenzione fra Ministero e sponsor Della Valle. Quando la Uil-Bac denunciò, il 4 aprile, alcune ombre, l’allora sottosegretario Giro e l’allora segretario generale nonché commissario all’archeologia romana Roberto Cecchi, oggi sottosegretario, giurarono che avrebbero reso noto quel testo fondamentale entro quindici giorni. Chi l’ha visto? Conosciamo soltanto un testo reso pubblico dalla Uil-Bac e in esso si dice che lo sponsor, in cambio della messa a disposizione di 25 milioni di euro in quindici anni, potrà stampigliare il marchio Tod’s sui biglietti d’ingresso, oggi 5 milioni l’anno, domani di più, per un totale finale di 80-90 milioni, comprati da cittadini di tutto il mondo. E sui tendoni di 2,40 metri che copriranno (per anni) le grandi arcate in restauro, ecc.
Sempre da fonti non ufficiali – dal Codacons che come Uil-Bac ha fatto ricorso – apprendiamo che l’Antitrust distingue in modo molto chiaro fra l’Avviso (cioè il Bando) e l’Accordo intervenuto (cioè la Convenzione, ignota ai più). In base al primo, lo sponsor, oltre che metterci gli euro, doveva caricarsi del completamento dell’attività di progettazione e direzione dei lavori, del coordinamento della sicurezza, dell’appalto a terzi o dell’esecuzione diretta dei lavori. Con l’Accordo, invece, tutto “si risolve nella semplice messa a disposizione di una somma di denaro”, ma, oh sorpresa!, esso “prevede una durata del periodo di sfruttamento dei diritti ben superiore ai limiti introdotti dall’Avviso, pari a due anni oltre il termine della conclusione dei lavori in favore di Tod’s e a 15 anni in favore dell’Associazione” Amici del Colosseo “ai sensi dell’art. 4 dell’Accordo”. Siamo all’abbuffata dei ritorni pubblicitari rispetto agli impegni, soltanto finanziari, nel restauro.
Inoltre – altro rilievo dell’Antitrust – il MiBAC, andata deserta la gara (molto impegnativa) indetta col Bando, “all’indomani della gara” è ricorso alla trattativa diretta “interpellando un numero di soggetti estremamente limitato, senza aver dato adeguata pubblicità al fatto che gli oneri posti a carico dell’eventuale sponsor erano stati sostanzialmente ridimensionati” al solo finanziamento. Chiaro come il sole.
Non so cosa ne dirà il Tar, ma credo che la Corte dei Conti dovrebbe far luce su questo punto nevralgico. L’”Unità” fu uno dei pochissimi giornali a sollevare perplessità in merito l’11 luglio scorso parlando di “convenzione genuflessa”. In generale fu tutto un’“exultate, jubilate”. E adesso si chiede in modo perentorio: ma, allora, volete bloccare i restauri dell’Anfiteatro Flavio che va in pezzi? Poiché il “marchio Colosseo” vale molto di più di 25 milioni di euro in quindici anni e il monumento non sta propriamente crollando, lo Stato deve darsi regole più chiare e comportamenti meno improvvisati. Tutto cioè deve avvenire nel massimo di limpidezza, anche perché, non agendo così, si creano (stiamo parlando di un vero “totem”) precedenti rischiosi. Diego Della Valle fu onesto nella conferenza-stampa: “Non siamo qui per fare beneficenza”. Subito dopo altri gridarono al mecenatismo. Non scherziamo: mecenate è chi dona denari per la cultura senza chiedere nulla in cambio, neppure di essere citato. Come mister Packard ad Ercolano. In fondo in fondo, se l’attuale biglietto d’ingresso fosse stato aumentato di 30 cent con l’indicazione “pro-restauro”, in quindici anni si sarebbero incassati i 25 milioni della sponsorizzazione e forse anche di più. Senza ambiguità, né opacità di sorta.
L'articolo di eddyburg del 2010
Come nel film. Quando Roberto Benigni e Massimo Troisi aprirono il portone di casa e si ritrovarono nel Medioevo. Ecco, la famosa pellicola, potrebbe essere stata girata qui, a Borgo Vione, che riprende la sua storia di oltre mille anni dopo un periodo di abbandono. Un agiato rifugio scelto da chi vuole cambiare vita nel nome della sicurezza e del comfort. A 15 chilometri da Milano. L'ultimo nato della sempre più numerosa famiglia delle gated community. Centoquarantasei appartamenti chiusi da cancelli, a 500 metri da Milano 3. Vigilanza, telecamere sul muro di cinta e sensori elettronici antintrusione.
Borgo Vione, che fa parte del gruppo Vedani, è stato inaugurato la scorsa settimana, con la consegna delle chiavi, a medici, avvocati, manager. Età compresa tra i 35 e i 50 anni, tutti con famiglia, quasi tutti con bambini. I prezzi? Da 3.800 euro al metro quadro per ville che vanno dagli 80 ai 300 metri quadrati. E poi le spese condominiali: vigilantes, giardinieri, custodi. «Ma Vione — come sottolinea Stefano Fierro, responsabile alle vendite — è stato ristrutturato con la tutela della Soprintendenza ai beni culturali».
«Quello della sicurezza — spiega l'architetto urbanista Paolo Caputo — è un sentimento diffuso a tutti i livelli. Dalle case popolari in su, fino ad arrivare a palazzine con sistemi di sicurezza tra i più sofisticati e portineria 24 ore su 24. Come da modello newyorkese. In città, pur nella sicurezza, c'è un senso di non esclusività nell'incontro di persone e di eventi poco simpatici. Fuori porta, invece, la casa è intesa come club house all'interno della quale ci trovi piscina, palestra, tutto. Quella delle gated community, poi, si è aggiunta al marketing e incrocia queste aspettative».
Come il Borgo Viscontina, a Vigevano. Altra community con l'edilizia progettata in luogo sicuro. Sessanta loft singoli per ville di prestigio e 16 appartamenti in villa, inseriti in un parco nel centro del residence. Il motto? «Ritrovare il piacere antico di incontrarsi con gente conosciuta in un borgo a dimensione d'uomo».
In modo diverso, ma con la stessa filosofia, è City Life, il progetto di riqualificazione del quartiere della Fiera, nel polo di Rho-Pero, che ha tenuto conto della qualità della vita degli abitanti, con la più grande area pedonale di Milano, dove la circolazione di auto e i parcheggi sono esclusivamente ai piani interrati. Con un parco di 60 mila metri quadrati.
«Le gated community — spiega la sociologa Francesca Zajczyk — sono un fenomeno Usa. Chi vi abita ricerca sicurezza, ma vuole anche riconoscersi con i pari grado, in una sorta di individualismo collettivo. È in pratica un escludersi dalla vita collettiva urbana. Spesso la motivazione di sicurezza è solo un alibi. Gated community vuole dire stare dentro a una comunità chiusa verso l'esterno. Gli adulti, comunque, per motivi di lavoro o d'altro, incontreranno momenti di aggregazione all'esterno. Per i più piccoli, invece, potrebbe essere più difficile e molto preoccupante».
Una piccola premessa: non è affatto divertente dover scriverle, queste note agli articoli dei giornali, specie quando servono a solo a ribadire cose già dette e ridette, segno che purtroppo si è parlato per niente. Innanzitutto, il tema della gated community in Italia per ora praticamente non esiste, oppure, in alternativa, la gated community così come se ne parla esiste da decenni (il Villaggio Brugherio è degli anni ’60, Milano San Felice quasi contemporanea ne ha tutta la struttura, ecc.). Sul caso specifico di Cascina Vione ci si è già soffermati anche su queste pagine: è una emergenza di carattere culturale, anche piuttosto estrema, ma se si fa la tara del linguaggio fascistoide della promozione immobiliare, gli aspetti fisico-spaziali in realtà non vanno molto oltre un portone chiuso.
È certo però che se gli approcci continuano ad essere così generici, a mescolare a minestrone intenzioni e cose diversissime, singoli edifici, quartieri, complessi, localizzazioni urbane e suburbane, non si va da nessuna parte, o meglio si lascia la gated community magari avanzare strisciante, all’italiana, tutti pronti a dire fra una decina d’anni: “ma noi non potevamo sapere” (f.b.)
Una storia di cemento, case e cantieri che si svolge a Modena, centro industriale dell’Emilia Romagna e cuore della Motor Valley, la terra che produce Ferrari, Lamborghini, Maserati e Ducati. E che è anche in forte espansione, perché così vuole la politica e chi opera nel comparto edilizio.
A raccontarlo è Modena al cubo , un documentario inchiesta sulla questione urbanistica modenese che da qualche anno è al centro di accese polemiche. Partendo dal documento Modena Futura, scritto dall'assessore Daniele Sitta, comincia un viaggio tra i cantieri e i palazzi della città, che tocca tutti i nervi scoperti di questa vicenda, andando ad indagare le relazioni tra Pubblica Amministrazione e i cosiddetti "poteri forti".
La video inchiesta
«Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione». Lo scriveva Leo Longanesi nel 1955, e oggi è ancora più sistematicamente vero.
La morbosa politica ‘culturale’ dei Grandi Eventi rende praticamente inimmaginabile che un ministro o un sindaco trovino conveniente annunciare una campagna di manutenzione ordinaria a tappeto: troppo poco, troppo grigio, troppo umilmente anonimo. Ma il problema è ancora più profondo, e riguarda la mentalità indotta dal consumismo di massa nella sua fase estrema e (chissà) finale: è l’idea stessa della conservazione, della cura quotidiana degli oggetti ad essere uscita dal nostro orizzonte mentale. Se questo è vero per il nostro stesso corpo, lo è ancora di più per il corpo delle nostre città. Non è difficile oggi capire l’ardimento visionario con cui Pippo Brunelleschi pensò la Cupola: difficile è capire l’Opera del Duomo, che incessantemente cura la Cupola e la Cattedrale ogni giorno di ogni mese di ogni anno di ogni secolo. Eppure, senza l’Opera la Cupola non sarebbe né sorta, né tantomeno arrivata fino a noi.
Da un punto di vista culturale, il punto cruciale è la nostra stessa incapacità di vedere il contesto, il tessuto continuo delle nostre città e del nostro Paese. Avendo interiorizzato il modello ‘americano’ (cioè quello di un paese in cui davvero le opere d’arte stanno solo nei musei) pensiamo per antologie, per picchi di qualità, per capolavori letteralmente «assoluti», e cioè sciolti da ogni legame: mostre-ostensioni di singoli feticci, ricerche ossessive di improbabili capolavori perduti (come la Battaglia di Anghiari) in complessi monumentali che lasciamo invece tranquillamente deperire (come Palazzo Vecchio). Ma anche visite iperselettive, teleguidate: quanti entrano in Santa Maria Novella per vedere Giotto e Masaccio, e vi ignorano quasi qualsiasi altra cosa? Quasi che il tessuto monumentale delle nostre città sia un contenitore neutro che diventa visibile solo quando si sfalda: un corpo considerato solo per gli organi pregiati che contiene, e che è possibile espiantare, prestare, far viaggiare, mettere a reddito. In più, quel corpo esteso ha il gran torto di appartenere a tutti e di non poter produrre reddito per nessuno: quindi, letteralmente, sparisce.
Da tutto questo discende l’automatismo per cui la manutenzione, quando va bene, si identifica con il restauro: meglio se spettacolare, e meglio ancora se di un capolavoro «assoluto». E, invece, il miglior restauro è quello che non si fa: che non si fa grazie ad una conservazione programmata e preventiva.
Ma c’è qualcosa di ancora più profondo.
Il crollo della Colonna della Dovizia è simbolicamente avvenuto nella piazza per cui si è prospettato un intervento violentemente ‘modernizzatore’, una terrazza-astronave che sembra progettata apposta per essere rifiutata, quasi per impedire alla radice ogni possibilità di rinnovamento della città. Tra questi due fatti esiste un nesso, e quel nesso è la perdita del senso della storia. La storia non è il «piacere della scoperta» delle trasmissioni televisive, e non è nemmeno la scienza del passato: come ha scritto Marc Bloch, la storia è la scienza degli uomini nel tempo. Quando il grandissimo storico Henri Pirenne giunse a Stoccolma per la prima volta, disse ai suoi accompagnatori: «Cosa andiamo a visitare come prima cosa? Sembra che vi sia un Municipio nuovissimo: cominciamo da lì?». Di fronte allo stupore dei suoi accompagnatori, egli aggiunse: «Se fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma io sono uno storico, è per questo che amo la vita».
Firenze non deve scegliere tra saper costruire il proprio futuro e mantenere vivo il suo corpo antico e meraviglioso: è la stessa sfida.
Quella di un vero, autentico, disinteressato amore per la vita.