PAVIA — Non sarà la Tav della Lomellina questa ferita profonda che da Est a Ovest taglia (per ora solo sulla carta) la terra del riso, attraversando l'area protetta del Parco del Ticino. Ma contro i 50 chilometri di autostrada (più 32 di svincoli e varianti della viabilità ordinaria) destinati a sconvolgere equilibri già delicati, è cresciuto in questi mesi il dissenso tra cittadini e istituzioni.Il progetto della Broni-Mortara, più elegantemente battezzato «integrazione del sistema infrastrutturale padano», dopo otto anni di gestazione è arrivato alla svolta finale. Lunedì è scaduto il termine per la presentazione delle «osservazioni», e ora la valutazione di impatto ambientale (Via) è all'esame dei ministeri competenti (Ambiente e Beni culturali). Lì si deciderà il futuro dell'opera, ma il parere contrario della Provincia di Pavia (che con la precedente amministrazione era invece favorevole), ha già posto una pesante ipoteca sulla realizzazione dell'autostrada, il cui progetto definitivo è stato approvato nel dicembre scorso dalla Regione.
Sul fronte del no, oltre a diversi Comuni, sono schierati il Coordinamento dei cinque Comitati e Associazioni, con Italia Nostra, Legambiente, WWF, Lipu, La Rondine, Slow Food, Amici di Beppe Grillo e comitato agricoltori.Eppure, all'inizio, l'idea di quest'opera — che aveva come grande sponsor il «faraone» Giancarlo Abelli, ex assessore regionale e sino a qualche mese fa potente luogotenente del Pdl a Pavia — aveva convinto molti. Alla prima conferenza dei servizi, nel 2007, su trenta enti partecipanti solo sei si erano detti contrari. I favorevoli al progetto sono convinti che la Broni-Mortara contribuisca a creare un corridoio Est-Ovest alternativo alla congestionata A4 Torino-Trieste, «colmando nel frattempo carenze infrastrutturali nella Lomellina e nell'Oltrepò». Si sostiene anche che l'opera rientra a livello europeo nel «corridoio 5», collegamento ideale tra Barcellona e Kiev (che in realtà è un tracciato ferroviario). Si parla poi di generici benefici allo sviluppo dell'economia locale. Intanto l'esecuzione dei lavori in project financing(il costo è di oltre un miliardo di euro, messo dalle banche) è stata affidata alla Sabrom, società appositamente costituita, di cui l'Impregilo ha il 40%. Costruirà l'autostrada e l'avrà in concessione per 42 anni.
Dall'altra parte, il fronte del «no» sostiene che si tratta di un collegamento inutile e dannoso. Inutile perché la zona avrebbe eventualmente bisogno di sviluppare la viabilità Nord-Sud e non Est-Ovest, inoltre si inserisce in una provincia che ha già 3200 km di strade, di cui 2000 provinciali (che spesso versano in situazioni disastrose a causa della mancanza di fondi) e 80 di autostrade. E avrebbe bisogna prima di tutti di altre cose, tipo un nuovo ponte della Becca (quello che c'è sta cadendo a pezzi) e migliori collegamenti tra Pavia e l'Oltrepò. «Manca un'analisi costi-benefici», dice Renato Bertoglio di Legambiente. Ma se su i benefici non ci sono certezze, sui danni sì.
Prima di tutto l'intera autostrada sarà realizzata «in rilevato», cioè con un'altezza di almeno 2,5 metri dal piano di campagna (ma in alcuni punti di svincolo arriva sino a 16 metri, come a San Martino Siccomario). Questo comporta la costruzione di terrapieni con materiale di cava per l'astronomico totale di 13 milioni di metri cubi. «È un dato impressionante — dice Legambiente — in una provincia in cui ci sono già 1200 cave dismesse». Il territorio rischia di diventare un'enorme groviera, anche se 4 milioni di metri cubi verranno dal riutilizzo di materiali di demolizione (e si è già visto con la Brebemi, sottolineano gli ambientalisti, i pericoli ambientali che possono correre).
L'autostrada attraverserà più di cento aziende agricole, devastando l'area in cui si trovano le produzioni di riso che fanno del Pavese il principale produttore europeo. E - dicono sempre i contrari - sarà fonte di inquinamento in una zona che già deve fare i conti con pesanti livelli di polveri sottili. A Parona, che è alle prese pure con una contaminazione di diossina dell'aria e del terreno, quest'anno a febbraio si è registrato il record lombardo di PM10 (225 microgrammi). Per il presidente della provincia Daniele Bosone, l'autostrada accorcerebbe di soli 20 km il collegamento A21-A4 già esistente e danneggerebbe in modo irreparabile il reticolo irriguo e le colture risicole. «Regione e Comuni — dice Bosone — devono capire che quest'autostrada non serve, danneggia l'economia del territorio e soprattutto non è sostenibile sotto il profilo ambientale».
(di qualche anno fa la nostra descrizione del tracciato f.b.)
«Essendo io stato assai studioso di queste antiquità, e avendo posto non piccola cura in cercarle minutamente e misurarle con diligenza … penso di aver conseguito qualche notizia dell’architettura antica. Il che, in un punto, mi da grandissimo piacere, per la cognizione di cosa tanto eccellente, e grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavere di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato». Così, nel 1519, scriveva Raffaello, rivolgendosi a papa Leone X, che lo aveva incaricato di censire e disegnare le cadenti antichità di Roma. E così possiamo dire ancora noi, dopo mezzo millennio: visitare e conoscere il paesaggio e il patrimonio storico artistico dell’Italia, ci dà, insieme, un grandissimo piacere e un grandissimo dolore.
In alcuni luoghi, tuttavia, c’è spazio solo per il dolore: così nella reggia borbonica di Carditello, che sorge tra Napoli e Caserta.
Quel luogo, un tempo incantato, è oggi precipitato in un inarrestabile gorgo di abbandono e decadenza, che fa apparire surreali ed ipocriti gli intonaci ancora nuovi del corpo centrale della grande fabbrica settecentesca, dovuti ad un effimero e costoso restauro avvenuto una dozzina d’anni fa.
Nelle ultime settimane sono stati sbarbati e rubati i cancelli, le acquasantiere della cappella, i gradini di marmo delle scale (!) e perfino l’intero impianto elettrico. Quel che non si poteva asportare è stato distrutto, e nelle ali fatiscenti che un tempo ospitavano le attività agricole della tenuta è possibile rinvenire di tutto: da cumuli inquietanti di schede elettorali, a mappe e rilievi dell’area, gettati alla rinfusa sotto tetti sfondati. Con un’inversione simbolica, l’abisso si attinge salendo sulla meravigliosa terrazza sommitale: il pavimento di cotto è stato strappato e rubato, mattonella per mattonella, e così i balaustrini di marmo che reggevano i parapetti. La reggia si è, insomma, trasformata in una gigantesca cava di materiali pregiati, che non è difficile immaginare indirizzati verso le oscene ville dei signori della malavita locale.
Né serve alzare lo sguardo verso il panorama: il turbine di gabbiani non segnala il mare, ma la discarica di Maruzzella, criminalmente realizzata su un terreno acquitrinoso in cui il percolato penetra fino alla falda, avvelenando i frutteti circostanti, oggi commoventemente in fiore, e compromettendo per decenni la catena alimentare, e dunque l’uomo.
Così, in questa distruzione simultanea dell’ambiente, del paesaggio, e del patrimonio storico e artistico pare di scorgere davvero «il cadavere della patria», cioè il volto sfigurato dell’Italia.
Sfigurato da chi? Anche qui salgono alle labbra le parole di Raffaello: «Ma perché ci doleremo noi de’ Goti, Vandali e d’altri tali perfidi nemici, se quelli li quali come padri e tutori dovevano difender queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno lungamente atteso a distruggerle?». I vandali siamo noi: i ladri italianissimi che ogni notte si infilano nella reggia (in un territorio lasciato in mano alla Camorra), i cittadini che non reagiscono, immemori della loro stessa identità. Ma soprattutto i proprietari, che hanno permesso questo scempio: il Consorzio di Bonifica del Volturno, indebitatosi al punto da farsi pignorare la reggia dal Banco di Napoli. E poi quest’ultimo, e dunque Banca Intesa, che invece di farsi carico di questo straordinario complesso, lo mette all’asta per recuperare il credito. E infine il Ministero per i Beni culturali, che avrebbe avuto tutti gli strumenti per imporre il rispetto della tutela, fino ad arrivare ad un esproprio che avrebbe potuto salvare un patrimonio ormai in gran parte compromesso. Una catena di vandalismo, diretto o indiretto, di cui non si intravede la fine.
Cosa fare, a questo punto? Domani il ministro Ornaghi sarà a Carditello, e presiederà una riunione che dovrebbe decidere la sorte della reggia.
Il Ministero per i Beni culturali potrebbe anche comprarla direttamente. Ma indigna l’idea che lo Stato possa regalare altro denaro pubblico a una proprietà che ha permesso che un bene pubblico fosse devastato. Forse sarebbe più saggio e più equo costringere Banca Intesa (non del tutto sconosciuta al governo Monti) a essere all’altezza di quella magnifica immagine di mecenatismo e sollecitudine per l’interesse pubblico tanto celebrata dalla retorica dominante. Sarebbe, infatti, paradossale che in un momento in cui i cosiddetti ‘mecenati’ acquistano o noleggiano i beni pubblici capaci di produrre reddito, lo Stato sollevasse proprio uno di loro dal peso di un bene assai difficile da valorizzare, e peraltro colpevolmente ridotto al disastro.
Qualunque sarà – se ci sarà – la soluzione, essa non potrà riguardare solo l’edificio monumentale di Carditello, ma dovrà far parte di un piano di rilancio complessivo di un territorio che ora sente di non avere futuro. A quale funzione si può assegnare un edificio che sorge in una zona in cui all’imbrunire non è prudente circolare? Quale prospettiva turistica esiste per un sito in cui, quando il vento tira dalle discariche, l’aria è irrespirabile?
Il miglior lavoro di documentazione e informazione su questo intreccio infernale che divora una delle terre più feconde e belle del mondo è stato fatto dall’eccezionale gruppo di giovani intellettuali napoletani che si riunisce nelle ‘Assise della Città di Napoli e del Mezzogiorno’ e opera attraverso la Società di studi politici di Napoli. Il loro dossier si chiama «Campania chiama Europa». L’Italia, ormai, sembra fuori dal gioco.
Eccolo, dunque. Il Piano di Governo del Territorio rivisto, che attualmente è in esame in Commissione Urbanistica. Così, integrale, con tutti i tecnicismi, non l'ha ancora visto nessuno. A renderlo pubblico su Affaritaliani.it è il capogruppo del Pdl a Palazzo Marino Carlo Masseroli, il papà del Pgt varato dalla Moratti e rivisto dall'assessore De Cesaris insieme alla giunta guidata da Giuliano Pisapia.
(il resto sul sito Affari Italiani)
II ministro Ornaghi ha chiesto di correggere il decreto che assegnava al Comune maggiori competenze: «La tutela spetta allo Stato». Oggi la discussione in Parlamento E’ ancora infuocato il percorso di conversione in legge del decreto su Roma Capitale: il Ministero dei Beni e delle attività culturali (Mibac) negli ultimi giorni ha deciso, finalmente e tardivamente, di prendere posizione contro gli evidenti profili incostituzionali riguardo il patrimonio capitolino. Questa settimana il provvedimento completerà il suo iter in commissione bicamerale per poi approdare in aula, ma l'esito non è affatto scontato. Al centro dello scontro ci sono ora i beni culturali della Capitale: il decreto nella sua versione iniziale assegnava al Comune di Roma funzioni di tutela e valorizzazione, sottraendole al Mibac. Nel primo caso il provvedimento era patentemente anticostituzionale, essendo la tutela assegnata allo Stato dall'articolo 117 della Carta, cosa ribadita nel Codice dei beni culturali del 2004. Per la valorizzazione invece la decisione è assai discutibile: le amministrazioni locali infatti ben di rado hanno svolto appropriatamente questi compiti. A conferma, basterà rammentare alcune luminose iniziative proprio del Comune di Roma: aprile 2009, proiezioni di immagini sulla parete del Foro Traiano per il Natale di Roma, con il filmato della dichiarazione d'entrata in guerra dell'Italia fascista a fianco di Hitler che Benito Mussolini fece il 10 giugno del 1940; dicembre 2010, l'Ara Pacis diventa un autosalone, con il sovrintendente comunale Broccoli che autorizza la presentazione di due city car; ottobre 2011, esibizione di carri armati e blindati al Circo Massimo. E dopo le adunate di forconi e tassisti al Circo Massimo del gennaio 2012, è della settimana scorsa l'ultima proposta: dotare di un patentino comunale i centurioni che affollano i siti di interesse artistico chiedendo soldi ai turisti per farsi fotografare insieme a loro. In una riunione congiunta con i rappresentanti della commissione bicamerale, il ministro Lorenzo Ornaghi e il sottosegretario Roberto Cecchi hanno chiesto di modificare il testo della legge, limitandone gli aspetti incostituzionali sulla tutela e ridimensionando le funzioni di valorizzazione. Un intervento atteso e dovuto, senz'altro positivo nei suoi esiti, anche se permane qualche incongruità. Viene istituita una Conferenza delle sovrintendenze, tra cui quella speciale del Comune di Roma che, si legge all'articolo 4, «può essere chiamata a pronunciarsi in merito al rilascio dei titoli autorizzatori», mentre all'articolo 7 si specifica che Roma Capitale concorre «alla definizione di indirizzi e criteri riguardanti le attività di tutela, pianificazione, recupero, riqualificazione e valorizzazione del paesaggio». Malgrado la vaghezza degli enunciati, la tutela — e le autorizzazioni fanno parte della tutela — è di stretta competenza dello Stato. E questi cedimenti, che sembrano un contentino per l'amministrazione capitolina, comporteranno un appesantimento burocratico nella funzione di tutela. La Conferenza delle soprintendenze — in realtà una conferenza di servizi si riunisce da oltre vent'anni — nasce infatti con una forte vocazione a diventare un luogo di scambi opachi o una trincea dei veti incrociati, insomma un organismo barocco ma non funzionale. Il testo così modificato oggi sarà nuovamente in discussione alla commissione bicamerale e, nonostante contenga in altre sue parti indubitabili vantaggi per la Capitale — come l'ingresso al Cipe—, dal Comune di Roma si potrebbero alzare le barricate proprio sulle modifiche in materia dei beni culturali. In questo caso i rappresentanti del Pd, tra cui Marco Causi, correlatore della conversione in legge, e di Api, Idv e forse Lega, potrebbero optare per un doppio testo da votare a maggioranza.
Ci sono diverse ragioni per parlare dell'abitabilità di Milano. Il rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà, pubblicato sulCorriere della Seradel 13 Marzo, analizza le città italiane da questo punto di vista osservando, come spesso in queste classifiche, le difficoltà della nostra città. Il problema è che Milano sta cambiando profondamente sotto i nostri occhi e manifesta segnali di crisi proprio sul terreno dell'abitabilità, della vivibilità intesa in senso complessivo. Qualche dato: Milano ha perso dal 1973 a oggi circa 700.000 residenti, che si sono spostati prima nei comuni della provincia, poi nelle province confinanti. La città è diventata il cuore di una vasta regione urbana fortemente integrata. Al contempo ha assorbito oltre 200.000 immigrati provenienti per lo più dai paesi poveri del Sud del mondo e dell'Est Europa. Aveva 1.750.000 abitanti, ne ha oggi poco più di 1.300.000. Chi è rimasto è invecchiato, in famiglie sempre più piccole, mentre i giovani si sono trasferiti. Nello stesso periodo Milano ha affrontato un altro profondo cambiamento: ha perso 250.000 posti di lavoro nel settore manifatturiero, compensati dalla crescita sostenuta di posizioni nel settore dei servizi. Le case e gli opifici svuotati dalla popolazione residente e dalle industrie si sono riempiti di uffici, di showroom, di popolazioni provvisorie come gli studenti (ce ne sono 190.000 nelle nostre università), di lavoratori temporanei, di immigrati.
Ogni giorno arrivano a Milanocity-usersin auto (ne entrano circa 800.000) in treno (320.000 persone ogni giorno in stazione centrale), in aereo (37 milioni di passeggeri l'anno) e con altri mezzi pubblici. Si stima che la popolazione diurna di Milano sia circa il doppio di quella residente. Da una parte la città dei residenti, invecchiati, un po' impauriti e oppressi da problemi di congestione, inquinamento e abuso nei quartieri della movida, dall'altra la città-piattaforma delle funzioni dinamiche della Milano produttiva fatta di ricerca, finanza, moda, servizi avanzati, svago. Abitata questa da pendolari che faticano a raggiungerla nelle code interminabili di auto, nei treni malandati e nei bus spesso sovraffollati. È nella relazione fra queste due città che si gioca la questione dell'abitabilità: oggi la città-piattaforma schiaccia la città dei residenti. Occuparsi di abitabilità significa non pensare a progetti faraonici ma a ciò che può rendere la città accogliente, viva e in armonia, dando la casa ai giovani, ai lavoratori che fanno funzionare la macchina urbana, alle popolazioni temporanee. È necessario occuparsi degli spazi collettivi e dei luoghi della cultura che consentono l'incontro, del verde urbano, della valorizzazione delle aree agricole e naturali, della qualità dell'aria, delle forme e dei luoghi della mobilità, dei mezzi pubblici, della ciclabilità e di un uso delle auto non invasivo, dei servizi di welfare per la popolazione anziana e per l'accoglienza degli immigrati e delle nuove famiglie, di un decentramento vero di funzioni non marginali.
Il fatto nuovo è che l'abitabilità non è più solo un'esigenza degli abitanti: in un mondo sempre più interconnesso e globale è un fondamentale fattore di attrattività e quindi anche di successo economico.(Sandro Balducci è prorettore del Politecnico)
Il sindaco di Firenze Renzi ha annunciato magnum cum gaudio che alcuni ricercatori avrebbero dimostrato inoppugnabilmmente che dietro l’affresco del Vasari si nasconde una versione leonardesca della Battaglia d’Anghiari. Tra le riserve scientifiche all’operazione quella di Salvatore Settis
Si è capovolta la gerarchia naturale dei valori». Salvatore Settis, storico, archeologo, ex direttore della Normale di Pisa, ha presieduto fino al 2009 il Consiglio superiore dei beni culturali. Sè anche primo firmatario dell´appello di 101 studiosi, intellettuali e storici dell´arte che nei mesi scorsi ha chiesto di interrompere le ricerche della Battaglia di Anghiari, fortemente voluta, invece, da Palazzo Vecchio. E non usa cautele nell´esprimere il suo giudizio su un´operazione che definisce «soltanto mediatica»: «Invece di salvaguardare al massimo un´opera d´arte certa quale è la Battaglia di Scannagallo del Vasari», spiega Settis, «cioè di cercare di non farle correre alcun rischio, si va alla ricerca di un´opera soltanto ipotizzata, con possibilità secondo me minime di trovarla davvero, trattando quella certa come se fosse un incomodo di cui quasi non si vede l´ora di liberarsi. Fino a giungere addirittura ad ipotizzare di poter togliere qualche pezzetto rifatto nell´Ottocento, ammesso che ci sia...».
Professor Settis, ammetterà che anche la sola ipotesi che si possano trovare delle tracce di un´opera di Leonardo sottostante quella del Vasari, possa valere quantomeno la curiosità di una indagine...
«Il dramma di questo paese, che si sta replicando in modo esemplare in questo caso, è che occuparsi di beni culturali sembra ormai risolversi in una continua spettacolarizzazione, mirata su singole opere d´arte, o singoli interventi di restauro. Un fatto di costume che io giudico altamente negativo, perché orienta l´attenzione soltanto su operazioni di immagine, che riguardano dieci o venti monumenti di grande richiamo, lasciando che tutto il resto vada in malora».
D´altra parte esistono dei risultati scientifici, che Comune e Soprintendenza hanno sempre sostenuto di considerare sufficienti a procedere.
«Ma è mai possibile che in un luogo di straordinaria importanza come il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, e avendo a che fare con opere di un Leonardo e di un Vasari, si considerino sufficienti le analisi di un laboratorio privato di Pontedera? E´ mai possibile che non valesse la pena, in un caso del genere, di ricorrere, prima di qualsiasi dichiarazione e di qualsivoglia annuncio, quantomeno a un controllo incrociato di dati, prodotti da laboratori di altissimo livello, diversi e indipendenti, cioè che non sapessero niente l´uno dell´altro, in modo da essere supercerti di quello che si sarebbe detto? Tutto questo non è stato fatto e mi chiedo perché. Tanto più che almeno una funzionaria dell´Opificio delle pietre dure, da tutti riconosciuta come molto seria, ha chiaramente detto che i dati a disposizione non le sembravano attendibili. E´ ovvio che anche solo questi dubbi avrebbero dovuto obbligare alla massima prudenza».
Non la convince nemmeno l´ultima novità, e cioè l´accertata «compatibilità» fra i pigmenti rilevati sotto l´affresco del Vasari, e quelli repertati e certificati dal Museo del Louvre nel 2010 e relativi alla Gioconda e al San Giovanni Battista di Leonardo?
«Ripeto, qui si trattava di fare confronti secondo un metodo ben più rigoroso, come quello, per esempio, che abbiamo adottato in occasione degli studi sulla pendenza della Torre di Pisa. Ogni volta che abbiamo dovuto fare analisi di qualche tipo, geologico, statico, prima di prendere una decisione tecnica le abbiamo ripetute due o tre volte affidandole ogni volta a laboratori diversi, e che laboratori: dall´Università di Harvard al Politecnico di Milano, ad altri ancora sparsi per il mondo. Insisto: un Vasari e un Leonardo non avrebbero meritato altrettanto impegno? Del resto ad ammettere un errore non c´è niente di male, capita a tutti, si guardi il caso dei neutrini che sembravano più veloci della luce, un errore non a caso venuto fuori proprio grazie al controllo incrociato di dati elaborati da laboratori diversi».
Si può sempre obiettare che l´indagine è partita con lo stimolo di uno sponsor privato, che se ne è accollato tutti gli oneri e ha anzi dotato il Comune di fondi utilissimi al suo disastrato bilancio.
«Proprio perché si ha avuto la fortuna di trovare uno sponsor del genere, in tempi come questi, mi si deve spiegare perché non lo si sia utilizzato per la priorità delle priorità, e cioè la tutela e la conservazione del patrimonio storico artistico, che come tutti sanno sta andando in malora. E di cui, diciamo la verità, non importa davvero niente a nessuno, perché quel che importa è di fare, ogni tanto, cose spettacolari, anziché, giorno dopo giorno, investire sulla conservazione capillare di tanti beni diffusi su tutto il territorio nazionale. Ma mi meraviglio che da una regione come la Toscana, e da una città come Firenze, non solo non venga questo esempio, ma arrivi quello contrario».
«Sono gli effetti di un regolamento urbano edilizio (Rue n. d. r.) che di fatto permette tutto» chiosa lapidario Pierluigi Cervellati, più volte inascoltato difensore del decoro estetico del centro e promotore negli anni ‘90 di una campagna contro il proliferare degli abbaini sui tetti della città antica.
Significa che ci sono norme più permissive?
«Col nuovo Rue, approvato nel 2008 da Cofferati e dall’ex assessore all´Urbanistica nonché attuale sindaco Virginio Merola, giostrando bene, si può fare quasi tutto. Dico di più: l’architetto che collaborò con Merola oggi è l’assessore competente, vale a dire Silvia Gabellini».
Cos’è che adesso è consentito e prima non lo era?
«Prenda il palazzo di piazza Otto agosto risalente alla fine del Settecento abbattuto recentemente: è una vicenda sconcertante. Si trattava di un edificio storico abitato che è stato spazzato via per costruire al suo posto un albergo e un garage sotterraneo senza peraltro curarsi più di tanto dei reperti archeologici venuti alla luce. È un esempio di svuotamento del centro con espulsione degli abitanti che ottiene due effetti: rende necessario edificare all’esterno del centro alimentando il volano del cemento e fornisce soldi ai Comuni perché i restauri non si pagano, ma le ristrutturazioni sì».
E le Soprintendenze? Come mai non intervengono?
«Oggi le Soprintendenze spingono per realizzare cose moderne, ma non si capisce perché si debbano fare nel centro storico. Quest’ultimo è così diventato la palestra di giovani architetti piuttosto ignoranti e poco documentati che realizzano o trasformano edifici con gusto perlomeno discutibile. E per fortuna che c’è la crisi perché appena il mercato immobiliare ricomincerà a tirare, le conseguenze saranno devastanti».
Non solo sui tetti?
«Già adesso il centro storico è afflitto dal dilagante effetto supermercato tanto che si sta banalizzando in un’alluvione di ‘store’ e grandi magazzini. In definitiva, è in atto una lenta e tuttavia grande trasformazione che muterà il volto della città storica facendole perdere la sua caratterizzazione. Ma mi chiedo: cancellato tutto ciò, cosa resterà?»
Un processo che parte con Cofferati-Merola o la cosa viene da più da lontano?
«Già in epoca Vitali qualche modifica fu apportata da Laura Grassi, in parte rimediata da Ugo Mazza. Poi la giunta Guazzaloca allentò ulteriormente i vincoli fino al Rue approvato nel 2008 che avrà un effetto disastroso».
L’occasione era ghiotta: uno degli uomini più ricchi della città voleva costruirsi una cappella gentilizia, e aveva messo gli occhi sulla loro chiesa. Francesco Feroni era un nuovo ricco: da buon fiorentino aveva scelto di fare il mercante, e l’aveva fatto con grandissima determinazione (perfino troppa: non disdegnava neanche il mercato degli schiavi), trasferendosi ad Amsterdam e mettendo insieme una fortuna.
Nel 1673 si era sentito abbastanza ricco da poter tornare in patria, dove il denaro gli ottenne il titolo marchionale e un ruolo di spicco sulla scena pubblica del granducato di Toscana, che, sotto Cosimo III, si avviava ad un quieto, irreversibile tramonto. In questa storia di successo non poteva mancare una cappella familiare, un luogo in teoria dedicato al riposo eterno, ma in verità assai più utile per rafforzare, legittimare e perpetuare il potere e il prestigio terreni.
Il neomarchese Feroni era così lanciato verso questo traguardo che aveva pensato di comprarsi nientemeno che la Cappella Brancacci, pronto a distruggere gli affreschi di Masaccio, Masolino, e Filippino Lippi.
Da parte loro, i frati non avevano obiezioni: «per acquistarsi un benefattore di quella portata – racconta un loro confratello vissuto qualche decennio più tardi – nulla sarìa calso più non veder quei mostacci, con zimarre e mantelloni all’antica abbigliati».
Mentre già si pensava di demolire la culla della pittura rinascimentale, sorse spontanea quella che le fonti definiscono «una lega di difesa contro il minacciato vandalismo», una sorta di Italia Nostra del tardo Seicento, che coinvolse l’Accademia del Disegno e quindi convinse la granduchessa madre Vittoria della Rovere a dare «ordine espresso che non si toccassero tali dipinture». Il Feroni provò a replicare che egli «avria fatte segare con ogni diligenza le mura del primo ordine, ove sono le pitture più insigni, e gli artefici assicuravano di poterne venire a capo senza il minimo detrimento di cotali pitture». «Ma tant’è – continua il frate – la granduchessa, ferma qual salidissima colonna nel suo impegno, non volle a verun patto che le mura e le pitture della cappella fosser toccate». A quel punto, il Feroni e il suo denaro si arresero: e noi oggi abbiamo ancora la Cappella Brancacci.
Lo schema ci dovrebbe esser familiare: un patrimonio da mettere a reddito; uno sponsor disinvolto che è disposto a pagare, ma vuol piegare quel patrimonio al proprio interesse; un’opinione pubblica che insorge; il potere politico che, alla fine, interviene e salva il patrimonio. Ma oggi, oltre trecento anni dopo i fatti del Carmine, il rischio è che l’opinione pubblica non trovi più un potere politico disposto a difendere i beni comuni.
La retorica dominante sottomette, infatti, la cultura all’economia: il manifesto del giornale di Confindustria propone il fortunatissimo slogan «Niente cultura, niente sviluppo».
È un modello pericoloso, perché trasmette l’idea che la cultura non sia un fine in sé, ma un mezzo (nobile quanto si vuole) per raggiungere un fine più alto: in ultima analisi, quello del denaro. E se il patrimonio storico e artistico diventa un mezzo, le conseguenze non possono che essere quelle tratte dal marchese Feroni.
Si parla molto di ‘nuovo mecenatismo’: ma il mecenate è un donatore che non chiede nulla in cambio del proprio dono, se non la gloria e la riconoscenza della comunità. E di questi mecenati non c’è una grande abbondanza, come dimostra l’imbarazzante fuggi-fuggi di fronte alla proposta di adottare il restauro di un monumento, lodevolmente lanciata dal Comune di Firenze. Ci sono piuttosto degli sponsor, che calcolano con grande attenzione il ricavo economico dei loro investimenti sul patrimonio: e per ottenere un ricavo adeguato in tempi commercialmente utili, il bene (che sia il Colosseo, il Fondaco dei Tedeschi a Venezia o il Salone dei Cinquecento a Firenze) rischia di essere compromesso, moralmente o perfino materialmente.
La presidente di ConfCultura Patrizia Asproni si è detta scandalizzata che «oggi i privati che gestiscono i servizi museali, e quindi la loro valorizzazione economica, non controllano l’orario di apertura del museo, né il prezzo del biglietto. È evidente che queste restrizioni impediscono fortemente la libertà e la capacità di fare impresa e la conseguente messa a reddito del bene».
La signora Asproni sembra non ricordare che, secondo l’articolo nove della nostra Costituzione, il fine di quel bene non è la produzione di reddito (privato), ma di cultura (pubblica). Ed è per questo che è lo Stato, e non un privato in cerca di lucro, a dover mantenere quel patrimonio: e lo potrebbe fare destinando ad esso anche solo il 5% dell’attuale evasione fiscale.
Perché è certo giusto ricordare che la cultura è una condizione essenziale per lo sviluppo: ma è fatale dimenticare che lo scopo vero della cultura è quello di sottrarre almeno una minima parte della nostra vita al dominio del denaro e del mercato, e di farci così rimanere esseri umani. Quando non lo saremo più, nessuno sviluppo economico potrà salvarci.
Fra gli addetti ai lavori, o alle macerie, dei beni culturali e paesaggistici gira da giorni una vignetta col ministro Lorenzo Ornaghi accompagnato da una scritta: “Chi l’ha visto? Scomparso dopo l’8 settembre”. L’8 settembre del governo Berlusconi, di ministri alla Bondi che al Collegio Romano non c’era quasi mai o alla Galan la cui impresa più memorabile rimane la candidatura di Giorgio Malgara, amico caro del Cavaliere, alla presidenza della Biennale di Venezia, sonoramente bocciata da una marea di firme, veneziane, nazionali e internazionali, per la riconferma di Paolo Baratta.
Il professor Ornaghi al Collegio Romano ci sta dalla mattina alla sera, fino a notte. Però da più parti gli viene chiesto di non lasciar fare tutto al capo di gabinetto, l’onnipotente e onnipresente Salvo Nastasi o al sottosegretario Roberto Cecchi. Ma, per ora, Ornaghi non dà segni di vita. Un’occasione ora ce l’ha ed è rappresentata da Arcus SpA che Corrado Passera ministro di molte cose fra cui le Infrastrutture e soprattutto il suo vice-ministro Mario Ciaccia (un tempo a capo di Arcus) paiono decisi a cancellare. E che Ornaghi per ora non difende, in un fragoroso, monastico silenzio. Premetto che Arcus – anche da me attaccata in passato per le infinite pratiche clientelari – così come è stata non va proprio. Ma il dato delle sue origini, e cioè finanziare opere di restauro dei beni culturali e paesaggistici attraverso il 3 o il 5 per cento sugli appalti delle grandi opere, mi è sembrato e mi sembra utile. Più che mai oggi che il MiBAC è alla canna del gas e non riesce più a far fronte ad impegni di mera sopravvivenza, a cominciare (voglio sottolinearlo) dai settori che meno “fanno notizia”, cioè gli archivi e le biblioteche storiche, ormai agonizzanti o sottoposti a tagli mortali. Per risalire poi ai siti e alle aree archeologiche sempre meno difese, ai musei minacciati di chiusura, alla continua smagliatura della tutela del paesaggio esposto a ferite: cito il caso più recente, davanti alla già devastata piana di Scalea in Calabria, campo di marte di n’drangheta e camorra, si è deciso di costruire un altro porto da oltre 500 posti-barca, un’altra opera inutile che infliggerà il colpo mortale alla povera Scalea già vistosamente imbruttita da asfalto&cemento. Come gran parte, ahimè, della Calabria.
Ma torniamo ad Arcus SpA presieduta, dal 2010, dall’ambasciatore Ludovico Ortona che conosco come persona di qualità. Essa è stata, sin dagli inizi, stravolta nelle sue nobili funzioni originarie, da ministri alla Lunardi che destinò circa un quarto dei fondi di allora, a “Parma capitale della musica”, cioè al suo collegio elettorale. O alla Matteoli che pure convogliò il flusso dei finanziamenti sulla propria area di influenza archeopolitica. Non a caso ho citato due ministri delle Infrastrutture. I loro colleghi dei Beni culturali hanno contato sempre pochino nella partita per il riparto dei fondi. Oppure hanno delegato – nel caso di Bondi – loro rappresentanti, come l’archeologa padovana Elisabetta Ghedini, sorella dell’avvocato del Cavaliere.
In mezzo a questa pioggia di denari regolata da rubinetti assai più politico-clientelari che tecnico-scientifici, sono state finanziate anche opere degne come il restauro di Villa Adriana a Tivoli o del Bosco di San Francesco a cura del FAI, della Galleria Sabauda di Torino, della chiesa di Santa Cecilia a Roma, ecc. Per dire quanto possa essere importante mantenere questo flusso di fondi (197 milioni per il triennio 2009-2112), dando ovviamente ad esso regole e priorità di scelta inattaccabili, citerò soltanto un caso: quello del centenario della morte del più moderno dei grandi poeti italiani fra ‘800 e ‘900, Giovanni Pascoli. L’altro giorno si è letto che per il Comitato pascoliano di San Mauro non c’è un solo euro ministeriale, mentre Arcus ha già destinato 700.000 euro al restauro e alla catalogazione delle carte di Pascoli esistenti presso l’archivio di Castelvecchio di Barga dove visse negli ultimi anni. Senza i fondi Arcus, nulla si sarebbe fatto per il poeta nel 2012. Da sprofondare.
Insomma, Arcus va rivista, dalla testa ai piedi, riducendo a 3 componenti il suo consiglio e rafforzando il raccordo tecnico-scientifico col MiBAC. Fra l’altro ci sarà da qualche parte il progetto di riforma che Paolo Baratta fu incaricato di redigere per il ministro Rutelli. Abolendo Arcus, tout court, non si risparmia un euro (essa si finanzia coi grandi appalti), ma si toglie altra acqua al già assetato, morente settore dei restauri. Vuol dare, per favore, un segno di vita e di “resistenza” il ministro Ornaghi dicendo cosa vuol fare o non fare? Essere “tecnici” non vuol dire essere muti.
La cinquecentesca, aragonese Torre Talao domina la piana di Scalea. Il mare l’ha circondata per secoli, trasformandola in baluardo contro le incursioni dei pirati saraceni. Ma il pericolo ora viene da terra: progetti megagalattici, un porto turistico con barriere a mare alte 6 metri e con strutture che si allargheranno sino a trasformare completamente il litorale, con un impatto disastroso sull’ambiente. Ci sarà un'altra torre, stavolta tutta di cemento, che minaccia di oscurare quella antica e che controllerà un porto da 510 posti barca, più yachting club, centro commerciale e attrezzature di servizio.
Tutto sembra fatto e ormai deciso. C’è stata una gara nel 2007 ,indetta dal Comune di Scalea e la società che l’ha vinta, subito ha ampliato il progetto originario (che prevedeva un porto con poco più di 300 barche e una concessione di 30 anni), raddoppiando in sostanza il numero degli attracchi e portando a 90 gli anni della concessione. Per rendere affascinante la nuova struttura, che scaverà la terra attorno al promontorio, trasformandolo in un’isola circondata dal mare e che avrà ai fianchi le dighe di cemento, i progettisti si sono rifatti alle immagini del luogo (come si presentava la Torre agli inizi del ‘900).
Che fine faranno le grotte del periodo paleolitico, scavate da archeologi dalla metà dell’Ottocento e che, sino al 1970, hanno restituito tanti oggetti lavorati dall’uomo di Neandertal abitatore di quel promontorio 30-40 mila anni fa? Lo scavo e la rimozione di quella terra che ha occluso e conservato parte di quei documenti primordiali, le cancellerà annullando la stessa memoria storica: uno scempio incredibile. Com’è avvenuto dalla seconda metà del ‘900, quando la speculazione edilizia (pesantemente condizionata da ndrangheta e camorra) ha cementificato e stravolto la piana degli oliveti e degli agrumeti, facendo nascere un’altra città, con palazzoni enormi di cemento,una sorta di “Scampia 2”che si anima solo d’estate, portando la popolazione da 10.000 a 100.000 persone, senza fogne né discariche adeguate, così quasi tutto finisce nel mare.
Il nuovo porto turistico peggiorerà la situazione rischiando di far la fine di altre mastodontiche infrastrutture portuali rimaste incompiute o abbandonate per mancanza di richieste di attracco. Un grido d’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi dai cittadini di Scalea nel Convegno promosso dall’Associazione “Scalea 2020”: nell’Italia del Sud , su ogni 100 posti solo un terzo viene utilizzato e in Calabria, nel tratto di costa (100 Km.) Praia–Vibo Valentia, la Regione ha approvato un sistema di 13 porti e approdi turistici con un’offerta di ben 5.000 posti barca che coprirà ampiamente, da solo, la richiesta rischiando di rendere inutile il megaporto di Scalea.
Non solo (ed è questo il dato allarmante emerso dal Convegno) in Calabria sono stati realizzati, nell’ultimo trentennio, molti porti turistici, lontani dai grandi bacini d’utenza e pertanto poco sicuri, mal collegati, poveri di infrastrutture e di servizi. Porti che non hanno mai prodotto la ricchezza annunciata. Ed un po’ lo scenario che si prospetta anche per Scalea, con la sua torre aragonese, la Torre Talao “recintata e circondata (avverte l’Associazione Scalea 2020) da un desolato, spoglio parcheggio di barche o, peggio ancora, da uno squallido e deserto cantiere abbandonato”.
Il Comitato per la Bellezza fa appello al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, alle Soprintendenze calabresi, a quanti ancora possono intervenire affinché venga scongiurato questo nuovo pesantissimo sfregio alla costa calabra, con un megaporto che si annuncia come l’ennesima colata di cemento: un autentico suicidio, anche sul piano turistico, in realtà.
Per il Comitato per la Bellezza: Vittorio Emiliani, Vezio De Lucia, Luigi Manconi, Paolo Berdini, Fernando Ferrigno
Ci sarebbero molte ragioni per non prendere sul serio il manifesto «per una costituente della cultura» lanciato dal giornale di Confindustria: prima tra tutte «una determinata opacità, oscillante tra convenzionale deferenza per le competenze umanistiche e indifferenza o fatale estraneità al tema» (così, perfettamente, Michele Dantini sul “Manifesto”).
Tra gli stessi firmatari molti confessano (ovviamente in privato) di trovare il testo irrilevante («Me l’hanno chiesto, son cose che passano come acqua»), mentre altri raccontano di esser stati inclusi a loro insaputa, o addirittura dopo un diniego. Ma la solenne adesione dei ministri Passera, Profumo e Ornaghi e il successo che il “manifesto” sta riscuotendo nel paese più conformista del mondo, significano che esso ha interpretato nel modo più rassicurante un’opinione diffusa.
Al famoso “la cultura non si mangia” di Giulio Tremonti, il giornale di Confindustria oppone un discorso che vuol essere «strettamente economico»: “la cultura si mangia eccome”.
Niente di nuovo: è questo il dogma fondante del trentennale pensiero unico sul patrimonio culturale, per cui «le risorse non si avranno mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene culturale viene concepito come convenienza economica» (Gianni De Michelis, 1985). Su questo dogma si fonda l’industria culturale che sta trasformando il patrimonio storico e artistico della nazione italiana in una disneyland che forma non cittadini consapevoli, ma spettatori passivi e clienti fedeli.
È a questo dogma che dobbiamo la privatizzazione progressiva delle città storiche (Venezia su tutte), e un’economia dei beni culturali che si riduce al parassitario drenaggio di risorse pubbliche in tasche private, socializzando le perdite (l’usura materiale e morale dei pochi “capolavori” redditizi) e privatizzando gli utili, senza creare posti di lavoro, ma sfruttando un vasto precariato intellettuale.
È grazie a questo dogma che prosperano le strapotenti società di servizi museali, che lavorano grazie a un opaco sistema di concessioni e che stanno fagocitando antiche istituzioni culturali e cambiando in senso commerciale la stessa politica del Ministero per i Beni culturali.
È in omaggio a questo dogma che la storia dell’arte è mutata da disciplina umanistica in “scienza dei beni culturali” (e infine in una sorta di escort intellettuale), e che le terze pagine dei quotidiani si sono convertite in inserzioni a pagamento. Appare, insomma, realizzata la profezia di Bernard Berenson, che già nel 1941 intravide un mondo «retto da biologi ed economisti dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico». Di tutto ciò il manifesto confindustriale non si occupa, preferendo affermare genericamente che «la cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo».
Naturalmente questo è vero, ed è giusto dire che anche dal punto di vista strettamente economico investire in cultura “paga”. Ma il pericolo principale di questa stagione è la debolezza dello Stato e la voracità con cui i privati declinano la valorizzazione (leggi monetizzazione) del patrimonio. E che il manifesto del Sole non intenda per nulla smarcarsi da questa linea dominante, induce a crederlo il nome del primo firmatario, quell’Andrea Carandini che è un guru del rapporto pubblico-privato nei beni culturali, visto che è riuscito ad autoerogarsi fondi pubblici per restaurare il castello di famiglia chiuso al pubblico.
Né tranquillizza il fatto che il “manifesto” fosse accompagnato da un articolo di fondo del sottosegretario Roberto Cecchi, artefice del più smaccato trionfo degli interessi privati in seno al Mibac (dal caso clamoroso del finto Michelangelo alla svendita del Colosseo a Diego della Valle). Induce, infine, a più di un dubbio la sede stessa in cui il “manifesto” è comparso, quel Domenicale che da anni pratica (almeno nelle pagine di storia dell’arte) un elegante cedimento delle ragioni culturali a quelle economiche, con lo sdoganamento di “eventi” impresentabili e di “scoperte” improbabili.
Un meccanismo approdato a una filiera completa: 24 Ore Cultura produce le mostre (per esempio l’ennesima su Artemisia Gentileschi), Motta (dello stesso gruppo) ne stampa i cataloghi, il «Domenicale» le vende con una pubblicità martellante. Dopo il pirotecnico lancio iniziale, il «Domenicale» ha dedicato ad Artemisia altre quattro pagine, con foto di Piero Chiambretti che visita la mostra e con l’immancabile sfruttamento intensivo della condizione femminile di Artemisia (stupro incluso). Così, una mostra mediocre che si apre con la commercialissima trovata di un letto sfatto che si tinge del rosso della verginità violata di Artemisia si trova a essere la mostra più pompata della storia italiana recente.
È forse pensando a questo tipo di esiti che il “manifesto” consiglia l’«acquisizione di pratiche creative, e non solo lo studio della storia dell’arte»? Più che un programma per il futuro, la santificazione del presente. La risposta vera a quanti affermano che la “cultura non si mangia” è, innanzitutto, che «non di solo pane vive l’uomo»: la nostra civiltà non si è mai basata solo su un «discorso strettamente economico», e la cultura è una delle pochissime possibilità di orientare le nostre vite fuori del dominio del mercato e del denaro. Il punto non è «niente cultura, niente sviluppo», ma: lo sviluppo non ci servirà a nulla, se non rimaniamo esseri umani. Perché è a questo che serve la cultura.
Sarebbe stato assai meglio se, invece del fumoso e conformista “manifesto” confindustriale, gli intellettuali italiani avessero sottoscritto una dichiarazione antiretorica e pragmatica come quella pronunciata, qualche anno fa, da uno dei massimi storici dell’arte del Novecento, Ernst Gombrich: «Se crediamo in un’istruzione per l’umanità, allora dobbiamo rivedere le nostre priorità e occuparci di quei giovani che, oltre a giovarsene personalmente, possono far progredire le discipline umanistiche e le scienze, le quali dovranno vivere più a lungo di noi se vogliamo che la nostra civiltà si tramandi. Sarebbe pura follia dare per scontata una cosa simile. Si sa che le civiltà muoiono.
Coloro che tengono i cordoni della borsa amano ripetere che “chi paga il pifferaio sceglie la musica”. Non dimentichiamo che in una società tutta volta alla tecnica non c’è posto per i pifferai, e che quando chiederanno musica si scontreranno con un silenzio ottuso. E se i pifferai spariscono, può darsi che non li risentiremo mai».
Al ministero chiamano Lorenzo Ornaghi "professore Ponzio" e non solo perché ha governato, almeno sino ad oggi lavandosene le mani, la più scandalosa delle emergenze, i Beni Culturali, immenso e immensamente malandato patrimonio dell´identità italiana.
Ma anche perché «siamo ai piedi di Pilato» è la realistica e simpatica espressione popolare ed evangelica che egli stesso usò con i colleghi della Cattolica quando seppe che non gli avrebbero dato la Pubblica Istruzione.
Vi entrò dunque da «tecnico serio, ma senza competenza» mi dice una imprenditrice veneta del restauro. E infatti «non so cosa significa Beni Culturali» confessò il giorno del giuramento al Quirinale. Lo sfogo fu preso come scaramanzia e come viatico, un cuscinetto di ironia tra se e sé, e uno spazio di libertà tra sé e quel difficile mondo sottosopra.
Professore di Scienza della Politica e Rettore magnifico di lunga esperienza, Ornaghi era infatti molto bene attrezzato a studiare, capire e affrontare, e con nuovi codici magari, i Beni Culturali senza la sgangherata inefficienza di Bondi, che negava i crolli di Pompei e maltrattava la cultura viva e la cultura morta, e senza le polemiche sopra le righe della meteora Galan.
Ornaghi sembrava persino finalmente libero dalla politica politicante, come fu soltanto il rimpianto Alberto Ronchey tanti anni fa. E dunque sembrava perfetto per una legge quadro sull’architettura, per una nuova normativa sul cinema, per una ristrutturazione della lirica, per mettere a punto un piano di guerra che, come quello di Befera contro gli evasori, scovi e insegua uno per uno i tombaroli che da Cerveteri ad Aidone, da Palestrina ad Aquileia rovinano le nostre rovine e derubano gli italiani. «Forza Ornaghi!» pensammo dunque quando lo nominarono. E invece: chi l’ha visto?
Brianzolo, 64 anni, cattolicissimo e scapolo, cappotto nero da prete, poco meno di due pacchetti di "Camel light" al giorno, una voluta somiglianza con il suo maestro morale don Giussani, compiaciuto della parola "Padania" in onore dell´altro suo maestro Gianfranco Miglio, il ministro ha esordito presentando un pio libro di Maurizio Lupi, riceve tutti i giorni Buttiglione e Quagliariello e insieme fanno combaciare asole e bottoni di una nuova ipotetica Dc, combatte «la dittatura relativista della cultura laicista»…
È insomma molto attivo nella militanza ciellina, ma non ha preparato piani di riscossa per Pompei dove continuano quei minicrolli che sono la rivolta delle pietre contro l’incuria che viene certo da lontano ma costò al povero Bondi l’eccessiva fama mondiale di killer of Pompei’s ruins.
Il progetto Pompei coinvolge almeno tre ministri (anche gli Interni, in funzione anticamorra) perché l´Europa ci chiede garanzie per il finanziamento già stanziato e mai erogato di 105 milioni. Ma Pompei è come lo spread, è un impegno che il nostro ministro deve prendere con il mondo, simbolicamente lì è l’Italia intera che rischia il default. Per un ministro dei Beni Culturali che ama il suo Paese, Pompei è il Luogo Comune nel senso del più comune dei luoghi, vestigia e simbolo della civiltà occidentale, valore identitario e tuttavia senza nazionalità, il capolinea di tutte le strade del mondo: salvarlo significa salvare il mondo.
Da sola Pompei vale un ministero, una carriera, una vita. E invece Ornaghi si comporta come un Bondi con molta più cultura che però, in questo caso, diventa un’aggravante.
Ha scritto autorevoli saggi sulle élite pubblicati dal Mulino, parla correntemente inglese, francese e tedesco, è un cultore di musica classica, appassionato di storia di Milano e di società milanese, e non solo in senso alto: la sua prima lettura al mattino sono le pagine dei necrologi.
Perché l’innamorato di Milano non dice una parola sulla sciagurata paralisi della Grande Brera, commissariata e dimenticata? E tace pure sul Palazzo del cinema di Venezia dove al primo scavo, trenta milioni di euro per 3,10 metri di profondità, hanno trovato, sotto una pineta, quel demonio dell’amianto e non c’è esorcista che possa andare avanti né tornare indietro su una superficie di 10mila metri quadrati, mentre l’impresa (la Sacaim) è finita in amministrazione controllata, e c’è ancora in carica un commissario, come del resto all’Aquila, un sub commissario, vice di Bertolaso. E i collaudatori erano quelli della cricca, e forse si farà solo un auditorium, ma un po’ più in là … Questo sì è cinema! In quel buco di Venezia c’è la fantasia della scuola napoletana, è il buco dei magliari d’Italia. Vuole parlarne, signor ministro?
Ornaghi dirige il traffico e controlla gli affari delegando al solito capo di gabinetto Salvo Nastasi, amico più di Letta che di Bisignani, genero di Gianni Minoli, e commissario ovunque e per tutte le stagioni: dal San Carlo di Napoli al Maggio Fiorentino…
Sin dai tempi di Urbani, Nastasi è l’avvolgente potenza invisibile dei Beni Culturali, come l’imam occulto degli sciiti. E infatti Ornaghi, via Nastasi-Letta, costretto dalle reazioni dell’intera città di Venezia, ha confermato Paolo Baratta alla presidenza della Biennale. E però poi gli ha mandato, come guastatore nel consiglio di amministrazione, il presidente della Fondazione Roma Emmanuele Emanuele, vecchio notabile del parastato e del Circolo della caccia, gran protettore di Vittorio Sgarbi, premio letterario Mondello per le poesie raccolte in "Le molte terre" e "Un Lungo cammino", già premiato a Tor di Nona. Pittoresco e manovriero, ha esordito annunziando che è lui l´unico a rappresentare sia il ministero sia l’albo d’oro della nobiltà, e tra Baratta e Ornaghi è cominciata un’agra corrispondenza… Perché?
A Nastasi si contrappone il sottosegretario Roberto Cecchi, più cauto ma non meno avido di supplenza. Già funzionario del ministero, a lui si devono il pasticcio del Colosseo affidato a Della Valle e il famoso malaffare del crocifisso erroneamente attribuito a Michelangelo: tre milioni che un rinvio a giudizio della Corte dei conti ha censurato; sarebbero bastati trecentomila mila euro. Ebbene, il ministro non ha né difeso né cacciato il suo sottosegretario: "professore Ponzio", appunto.
E non dice nulla sul Centro del libro, una struttura agile ma costosa che non ha mai cominciato a lavorare: forse non sarebbe inutile, ma così sicuramente lo è. E ancora: dopo la tragedia della Concordia al Giglio tutti si aspettavano una parola di Ornaghi per bloccare il passaggio delle grandi navi da crociera a Venezia: entrano dalla bocca di porto di Malamocco e poi si inoltrano nella laguna raggiungendo Riva degli Schiavoni che costeggiano sino a imboccare il bacino di San Marco, davanti al Palazzo Ducale, per poi giungere alla stazione marittima attraversando il canale della Giudecca. Neanche Marinetti, il quale nella sua devastazione, voleva asfaltare Venezia, era arrivato a immaginare le navi della follia. Dice Dante: Ed ecco verso noi venir per nave/ un vecchio, bianco per antico pelo/ gridando: ‘Guai a voi anime prave!’ Gli ignavi, appunto.
L'ancora recente scomparsa di Mario Serio, gran commis d'État, prima soprintendente dell'Archivio Centrale dello Stato diventato con lui struttura esemplare, poi validissimo titolare dell’Ufficio centrale e quindi della Direzione generale del Ministero, fino al 2005, non ha suscitato - una dicotomia che si ripete invariabile e allarmante - nessun interesse nei giornali e telegiornali, mentre fra gli addetti ai lavori ha raccolto un numero davvero eccezionale di testimonianze, di e-mail di apprezzamento, di ricordo, di aperto e nostalgico rimpianto. Rimpianto per un Ministero stravolto dal suo stesso ingrandimento a livello centrale (un testone su un corpo sempre più anemico e gracile), dall'immissione di dirigenti esterni che dovevano essere i mitici manager e che invece hanno portato faide e lotte intestine, dalla diàspora dei suoi migliori, con una decadenza dei valori e delle pratiche della tutela da far temere per la sorte stessa del Ministero voluto da Giovanni Spadolini come "diverso" dagli altri e ridotto come e peggio degli altri negli ultimi anni di malagestione.
Si era fatto promotore di quella raccolta di messaggi Pippo Basile, indimenticabile coordinatore di tanti restauri post-terremoto, in particolare di quello umbro-marchigiano del settembre 1997, messo a capo di una ancora formidabile struttura tecnico-scientifica proprio da Mario Serio commissario straordinario per quel sisma che fece poche vittime e però danni assai gravi nell'area vastissima fra Assisi e Urbino. A cominciare dalla Basilica di San Francesco che minacciò di scivolare tutta quanta a valle e che fu invece messa in sicurezza nelle strutture, integralmente restaurata e riconsegnata ai padri francescani in meno di due anni e mezzo. Ministro era Walter Veltroni. Subito dopo il terremoto terribile dell'Aquila, lo stesso Basile, appena andato (assurdamente) in pensione come tanti altri tecnici bravissimi del MiBAC, si presentò sul posto offrendo gratuitamente i suoi saperi (si era fatto una assicurazione da sé e portato il proprio elmetto), ma venne rimandato subito indietro. Basile non serviva. I risultati della ricostruzione, diametralmente opposti a quelli di Umbria-Marche, sono, desolatamente, sotto gli occhi di tutti.
Mario Serio era uno studioso di grande solidità, un uomo molto fattivo e però assolutamente schivo, alieno dai giochi di potere che oggi imperversano (ancora purtroppo), un laico vero per il quale lavorare "in squadra" era la regola di tutti i giorni. Perché Serio, acuto studioso dell’amministrazione in generale, come scrisse Guido Melis nella prefazione ai suoi scritti (o, più sommessamente, ai suoi “materiali per una storia”, usciti presso la Bononia University Press), era fortemente radicato nell’esperienza delle “belle arti” partita con la legge Rosadi in epoca giolittiana. Oggi ci si riempie la bocca parlando soprattutto di beni culturali “da far fruttare”, “da mettere a reddito”, di “apertura ai privati”, di gestioni finalmente “manageriali”. Le recenti montagne di neve cadute nel Montefeltro hanno prodotto seri danni a Urbino (la Chiesa dei Cappuccini) e a Urbania (Palazzo Ducale) minacciando il peggio: ma il ministro Ornaghi, o il sottosegretario Cecchi, chi li ha visti?
A Napoli, duecento lavoratori del patrimonio culturale protestano contro la loro condizione precaria, e chiedono di essere stabilizzati: «Senza di noi –dicono – il Museo Nazionale Archeologico sarà costretto a chiudere». Davvero un brusco ritorno alla realtà, dopo la retorica stantia e nebulosa del cosiddetto ‘manifesto per la cultura’ lanciato in pompa magna dal supplemento culturale del quotidiano di Confindustria.
A trent’anni dalla nascita della ‘dottrina del petrolio d’Italia’ fondata da Gianni De Michelis, siamo ancora in piena ideologia dei giacimenti culturali: guardiamo al patrimonio come a qualcosa da sfruttare per ricavarne la massima rendita possibile. La conseguenza è un’economia dei beni culturali essenzialmente parassitaria, ben simboleggiata dalle strapotenti società di servizi che lavorano grazie a un sistema di concessioni a dir poco opaco, e che stanno cambiando radicalmente in senso commerciale la stessa politica culturale del Ministero per i Beni culturali.
Questo sistematico drenaggio delle risorse pubbliche verso tasche private non ha neanche la legittimazione della creazione di posti di lavoro: tutto si basa su un cinico sfruttamento di lavoratori precari, spesso anche molto qualificati (come gli storici dell’arte e gli archeologi che escono dai dottorati delle università italiane).
Se vogliamo davvero aprire una riflessione sui rapporti tra pubblico e privato nel mondo dei beni culturali, il punto di partenza non può essere la fantasiosa celebrazione delle magnifiche sorti e progressive di un nuovo mecenatismo italiano (di cui, francamente, non si vede traccia), ma una seria analisi della sorte dei duecento precari di Napoli.
Mentre sulla scena internazionale si afferma una «nuova forma di colonialismo il cui dominio non si fonda più sugli eserciti ma sul debito» (Gad Lerner), in Italia prende piede un neofeudalesimo che fa leva sul dissesto degli enti locali e sulla debolezza dello Stato per costruire zone di potere privato sottratte allo spirito e alla lettera della Costituzione.
E, come sempre nella storia, il patrimonio artistico è il luogo in cui tutto questo acquista un’evidenza simbolica. Benetton ‘regala’ sei milioni di euro al Comune di Venezia in cambio delle concessioni che gli consentiranno di stravolgere lo storico Fondaco dei Tedeschi, a Rialto; la ditta Essebiesse dona 50.000 euro all’anno alla Soprintendenza Archeologica di Campobasso, che l’ha autorizzata a piazzare un impianto eolico sull’intatta Sepino; il National Geographic ‘compra’ con nemmeno duecentomila euro il diritto di ‘bucare’ gli affreschi di Giorgio Vasari a Palazzo Vecchio a Firenze, per cercare spettacolarmente un inesistente Leonard. Poteva mancare, in tutto questo, un serraglio di animali esotici mantenuti a caro prezzo per la delizia dei nuovi feudatari? Certo che no: e infatti è a Trieste, nel fiabesco parco del Castello asburgico di Miramare.
Qui, dal 2005, alcune delle serre antiche del parco ospitano un allevamento di rarissimi e delicatissimi colibrì appositamente importati dal Perù. Senza un progetto scientifico, ma grazie ad una serie incredibile di appoggi politici, un privato cittadino è riuscito ad imporre ad un sito monumentale statale un serraglio, peraltro abusivo, che non ha nulla a che fare con l’identità storica di Miramare, né tantomeno con i compiti istituzionali del Ministero per i Beni culturali. E questo sarebbe ancora niente: mantenere il clima necessario ai delicati uccellini costa una fortuna in gas e luce, oltre ad una colossale quantità d’acqua, che è stata procurata con allacci illegali al sistema idrico, e che ha finito per infiltrarsi nel terreno compromettendo la salute dei pini storici del parco. Il tutto è culminato nell’incendio che, l’8 novembre del 2011, ha distrutto parte delle serre antiche di Miramare.
Il fatto che (nel gennaio 2011) a fianco dei colibrì sia sceso in campo Berlusconi in persona (alla schiusa dell’ennesimo uovo triestino il «Corriere della Sera» salmodiò che «al neonato verrà dato il nome di Silvio, per l’impegno preso da Berlusconi a salvare» i minuscoli pennuti) – oltre ad un variopinto schieramento di volti noti che va da Margherita Hack a Laura Pausini, da Piero Angela a Maurizio Gasparri – ha consigliato ai prudentissimi vertici del Mibac di schierarsi dalla parte degli uccellini abusivi, lasciando del tutto solo il soprintendente del Friuli, Luca Caburlotto (insediatosi nel maggio 2010), il quale continua a battersi, con coraggio esemplare, per la legalità e il buon senso, e dunque per la rimozione dei colibrì da Miramare.
Con le biblioteche e gli archivi sull’orlo della chiusura per mancanza di fondi, con la pioggia che entra dai lucernari di Brera, con Pompei che si sgretola, il Ministero per i Beni e le Attività culturali usa oltre 400.000 euro per coprire danni e debiti del colibrì Silvio e dei suoi simpatici colleghi volatili.
Insomma – parafrasando Flaiano –, come sempre la situazione del patrimonio storico e artistico italiano è grave, anzi gravissima. Ma certo non è seria.
Parlando lunedì in Consiglio comunale, Matteo Renzi ha rilanciato la vecchia idea di ripristinare l’antica pavimentazione in cotto di Piazza della Signoria a Firenze, annullando i due secoli di storia che hanno storicizzato le pietre volute dai Lorena. Non è un caso isolato: con cadenza regolare, Renzi prende un tema della storia dell’arte fiorentina e lo brandisce come una clava mediatica. Ha cominciato con la rivendicazione della proprietà comunale del David di Michelangelo, ha continuato con l’idea di costruire la facciata di San Lorenzo secondo i progetti dello stesso Michelangelo, quindi si è gettato a capofitto nella tragicomica ricerca della Battaglia di Anghiari di Leonardo.
Il movente politico è trasparente: usare il patrimonio storico e artistico della città come una potentissima arma di distrazione di massa. In tutto questo c’è una buona dose di cinismo, perché Renzi sa benissimo che Piazza della Signoria non tornerà mai al cotto (ipotesi già bocciata, in passato, dal ministero per i Beni culturali), che la facciata di Michelangelo non si farà, che la Battaglia di Anghiari non si troverà: ma ciò che conta è l’effetto notizia. Ma sono i presupposti culturali di questa strategia a far cadere le braccia. Innanzitutto, non c’è niente di nuovo: l’indubbia abilità mediatica di Renzi proietta su un palcoscenico globale i peggiori vizi della Firenzina abituata a vivere sullo sciacallaggio del passato. In questo momento, la Provincia di Firenze promuove una grottesca campagna di scavo per cercare le ossa della Gioconda (intesa come Lisa Gherardini), mentre si raccolgono firme per indurre il Louvre a prestare a Firenze la stessa Gioconda (intesa come quadro, o meglio come feticcio). L’arcivescovo, e neocardinale, Giuseppe Betori usa una pala del giovane Giotto come merce di scambio nella propria promozione personale, e la Confindustria fiorentina sostiene Florens, manifestazione culminata nel collocamento di un’oscena copia in vetroresina del David su un castelletto di tubi piazzato su uno dei contrafforti del Duomo, in un penoso tentativo di mimare la collocazione originaria della statua.
Ma ciò che colpisce veramente è il disprezzo per la cultura che traspare dalle parole e dagli atti del sindaco, che è ora anche assessore alla Cultura. Quando i più importanti storici dell’arte di tutto il mondo gli hanno chiesto di smettere di bucare gli affreschi di Vasari per cercare il Leonardo fantasma, Renzi ha risposto con una newsletter piena di insulti verso questi “presunti scienziati”, accusandoli di non essere “stupiti dal mistero” a causa di un “pregiudizio ideologico”. Non siamo al “culturame”, ma poco ci manca. Per Renzi la cultura è quella di Voyager, il programma tv di Roberto Giacobbo: complotti e misteri, templari e santi graal. Evasione, vaghezza misticheggiante, suggestione a buon mercato. Proponendo di riportare Piazza della Signoria alla pavimentazione tardogotica egli sfoglia il libro della storia come se fosse il book di un chirurgo estetico. Un libro dei sogni che non serve più a crescere e ad aver presa sulla realtà, e dunque a imparare come cambiare il mondo, ma – al contrario – a cancellare le tracce del tempo e a rimanere eternamente immaturi. Non uno strumento per formare cittadini consapevoli dotati di senso critico, ma un mezzo per plasmare un pubblico passivo, destinatario perfetto di una martellante propaganda che invita non a pensare, ma a sognare. Si dice che Silvio Berlusconi si compiaccia da tempo di questo nipotino ideologico: è sempre più difficile dargli torto.
E’ probabile e comprensibile che molti dei numerosi visitatori della Cappella di Giotto a Padova non facciano in tempo, storditi dalla visione di uno dei cicli pittorici più straordinari della pittura mondiale, a rendersi conto dell’area sulla quale, agli inizi del 1300, sono stati costruiti la Cappella e il Cenobio (cripta, sotterraneo).
La Cappella e il Cenobio si trovano vicino alle mura cinquecentesche e al fiume Piovego. I pavimento del Cenobio, sopra il quale si trova la Cappella con il ciclo di affreschi di Giotto, da anni è soggetto ad un allagamento sempre più grave ed allarmante.
Messo sotto pressione dall’architetto Serenella Borsella, allora dipendente comunale, il Sindaco di Padova incarica il compianto geologo e docente dell’Università di Padova Vittorio Iliceto di elaborare uno studio sul sottosuolo della Cappella degli Scrovegni e cioè sul Cenobio.
Nel febbraio del 2002 Vittorio Iliceto lo consegna. Lo studio dimostra, in modo inequivocabile, la correlazione fra l’aumento del livello delle acque che allagano il pavimento del Cenobio e quello delle acque del Piovego. Vittorio Iliceto lo conclude con alcune precise proposte che consentirebbero una drastica diminuzione del tasso di umidità ora presente nel Cenobio e un suo possibile riutilizzo. Dicasi “riutilizzo”. Il Cenobio attualmente non è visitabile. Forse perfino il Comune si vergogna di farlo vedere ai visitatori. Iliceto chiede una regimazione delle acque del Piovego già ipotizzabile e l’installazione di una stazione idrometrica.
Risposta alle due richieste dell’autorevole docente dell’Università di Padova ? Nessuna. Nè il Comune, nè le due Soprintendenze competenti, nè la Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo rispondono. Gli anni passano e sulla riva sinistra idraulica del Piovego (la Cappella e il Cenobio si trovano sulla riva destra) i metri cubi di cemento si sprecano. La riva sinistra nei piani regolatori del grande urbanista socialista Luigi Piccinato avrebbe dovuto essere destinata a verde pubblico. Di Piccinato non si ricorda quasi più nessuno. I sindaci di Forza Italia e del PCI guardano con molta sufficienza nei confronti dei piani regolatori riformisti di Piccinato e delle sue aree verdi a poche centinaia di metri dallla Cappella di Giotto. Sull’area exCledca si costruisce un edificio enorme che comprende anche un parcheggio multipiano.
A piazzale Boschetti il sindaco Flavio Zanonato vuole costruire un Auditorium e qualche negozio, ecc. La terza area disponibile, quella chiamata PP1,di proprietà comunale, da sempre era destinata all’Auditorium, ma un sindaco disinvolto e con un certo senso degli affari, Giustina Destro, la vende ai privati, amici degli amici, che ora stanno costruendo un grattacielo alto più di cento metri.
Questa cementificazione già realizzata o programmata quali conseguenze avrà sul regime idrico del Cenobio di Giotto ?
E’ un po’ difficile non prevedere delle conseguenze negative. Almeno dal febbraio 2008 è cominciata la campagna degli Amissi del Piovego (associazione di voga alla veneta) contro la cementificazione dei privati e del Comune di Padova. Nel settembre 2009 a Padova piove a dirotto. L’acqua innonda il Cenobio sia dal pavimento che dalle finestre. Tutta Padova, anche quella che non sapeva dell’esistenza del Cenobio, prende paura. Un valoroso studio di Giotto, Giuliano Pisani, docente del più prestigioso liceo classico cittadino, presidente della Commissione cultura comunale, provoca e comincia a riunire la commissione dentro il Cenobio dove i consiglieri arrivano con opportuni stivali. Ma l’allagamento del Cenobio e lo studio di Vittorio Iliceto continuano a essere ignorati dalle due sovrintendenze, dal sindaco e dalla Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo.
Nel novembre 2011 tre docenti di idraulica dell’Università di Padova in un loro studio esprimono pesantissime riserve sul progetto di Auditorium a piazzale Boschetti che il sindaco Flavio Zanonato sostiene a tutti i costi, contro venti e maree. Il sindaco crede di dimostrare di essere un vero decisionista (si del cemento).
Recentemente 25 autorevoli studiosi fra i quali Chiara Frugoni, autorevole studiosa di Giotto, lanciano l’allarme per la situazione del Cenobio e contro la cementificazione che sta circondando la Cappella e il Cenobio di Giotto. Acqua e cemento stanno facendo e faranno enormi danni. La stampa nazionale se ne occupa.
Sabato 10 marzo, nella mattinata, a Padova si svolgerà un convegno sul tema: “Quale opera per la sicurezza idraulica e statica della Cappella di Giotto e del Cenobio ? Le ragioni della richiesta di un concorso internazionale ?” La relazione introduttiva sarà presentata dal prof. Sergio Costa che ha affrontato il problema già nel settembre 2009 in una pubblicazione che definiva Cappella e Cenobio “un gigante dai piedi d’argilla”. Un particolare: il prof. Sergio Costa è più cocciuto del sindaco Flavio Zanonato.
Padova, 25 febbraio 2012
Solo di progetti, burocrazia e trivellazioni è già costato 300 milioni di euro. E ormai è evidente che non si farà più, anche perché la Ue l'ha tolto dai suoi programmi. Eppure esiste ancora una società pubblica che paga stipendi e butta via risorse: chiudiamola, subito
Caro presidente Monti, la questione del Ponte sullo Stretto di Messina si è trasformata, in quarant'anni, in una trista saga gotica. In soli tre anni un Paese povero come il Portogallo ha costruito il ponte sul Tago lungo 17,2 chilometri, il più lungo d'Europa.
Il ponte sullo Stretto, con Berlusconi e i colpevoli cedimenti della sinistra, è divenuto un simbolo araldico delle prospere sorti e progressive del Paese di Cuccagna. Gli argomenti di chi è contrario a questa impresa faraonica sono di natura tecnica, ambientale ed economica. Un gruppo di lavoro di 30 esperti e docenti universitari delle più diverse discipline ha scritto un rapporto di 245 pagine di osservazioni al progetto definitivo, che le è stato inviato lo scorso 27 novembre. Sostenuto da tutte le associazioni ambientaliste. L'Unione europea, intanto, ha cancellato il ponte dall'elenco delle opere da finanziare entro il 2030.
La Società Stretto di Messina ha ingoiato come un'idrovora, non acqua, ma oltre 200 milioni di euro secondo la Corte dei conti dal 1986 al 2008. Negli anni trascorsi da allora, seguendo accurate valutazioni, si arriva a una cifra che rasenta i 300 milioni: lo documenta l'inchiesta su "La Repubblica" di Giuseppe Baldessaro e Attilio Bolzoni. Con questo fiume di soldi si sono elaborati progetti in permanente aggiornamento, si sono fatte trivellazioni, si è creata una struttura di gestione (tecnici e burocrazia annessa) che fa impallidire il Pentagono. Daniele Ialacqua di Legambiente questa storia "tragicomica" l'ha raccontata in un libro con acribia.
L'area dello Stretto è, per plurisecolare esperienza, quella a più alto rischio, sotto il profilo sismico e geologico, del Mediterraneo. Si dice che il ponte sarebbe contributo essenziale al rilancio economico del Mezzogiorno: a mio avviso l'unica grande opera da intraprendere, non solo nel Mezzogiorno ma nell'intero Paese, è porre mano allo stato di endemico sfacelo delle montagne e delle colline, dei fiumi e delle coste, del degrado urbano ed edilizio che, con drammatica periodicità, arreca danni incalcolabili e semina vittime.
Il Paese ha bisogno di una sistematica politica del suolo e di una minuziosa protezione delle aree a rischio. Che non è solo tutela del paesaggio, ma difesa delle popolazioni che vivono in aree il cui assetto geomorfologico fa tremare appena piove o nevica. Queste opere in soccorso dell'ambiente necessitano di un programma organico: per finanziarlo si richiedono risorse ingenti, con investimenti pluriennali che riparino lentamente lo stato di decomposizione del Belpaese.
A che cosa serve citare i vilipesi articoli della Costituzione? Con vantaggi per l'occupazione incomparabilmente più convenienti e necessari confronto a qualunque investimento in grandi opere infrastrutturali. Chiamare a progettare i servizi un archistar come Daniel Libeskind è la classica manovra diversiva.
Al governo, caro Monti, non si chiede solo di bloccare l'insensata ambizione di costruire il ponte, si chiede che si avviino le necessarie procedure per sciogliere la Società Ponte di Messina a totale capitale pubblico (consociata Eurolink, con capofila Impregilo): vero vaso di Pandora, immobile e vorace, dal cui coperchio - una volta sollevato - non è prevedibile cosa potrà uscire.
ABUSI edilizi, discariche, muretti, dighe e ponticelli fuorilegge, frane mai messe in sicurezza. Perfino orti, pollai, campetti da bocce. Mille irregolarità. È quanto emerge dal dossier della commissione speciale del Comune sull’alluvione del 4 novembre scorso, chiamata a rispondere sulle cause dell’esondazione del Fereggiano, che ha causato sei vittime, e gli straripamenti del Bisagno e dello Sturla. I tecnici in questi tre mesi hanno condotto sopralluoghi, fotografato anomalie ed elaborato una mappatura del disastro.
La relazione è pronta: verrà discussa in consiglio comunale per studiare come intervenire, quali sono gli oneri economici e per valutare soprattutto quali sono le violazioni di natura penale da segnalare alla magistratura che indaga per disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Il gruppo di lavoro, composto da tecnici del Comune (un geologo, un ispettore dell’edilizia privata e un tecnico per ogni municipio interessato), della Provincia, di Aster e Mediterranea delle Acque, ha iniziato le indagini venti giorni dopo la tragedia. Le conclusioni, confermano quello che era nell’aria e che aveva appurato la magistratura: nel torrente Bisagno, Fereggiano e Sturla sono disseminate decine di costruzioni di cemento e capannoni di lamiera. «Un’anomalia incredibile perché si trovano non solo lungo gli argini, ma anche sugli alvei», è scritto. In particolare, le irregolarità maggiori, esattamente 569, sono state rilevate lungo il bacino del Bisagno e dei suoi affluenti.
Ci sono fasce crollate e mai rimesse a posto, abusi edilizi, garage, box in lamiera, in generale è stata censita la costruzione abusiva di “immobili in alveo o comunque di ingombro al deflusso delle acque”. Al settimo punto del rapporto viene indicata la “presenza di discariche abusive”, soprattutto lungo il bacino del Fereggiano, del rio Novare e del rio Noce, dove sono state censite 261 situazioni a rischio. La commissione mette in evidenza come gli alvei siano “imbrigliati” da muretti costruiti in passato per rallentare l’acqua e che con la trasformazione idrografica, ad esempio del Bisagno, formano una strozzatura. Gli argini dei torrenti sono in condizioni pessime, certamente non adeguati per contenere un eccezionale flusso d’acqua, anche “per via della vegetazione”: solo per il bacino dello Sturla, le irregolarità accertate sono 169. Il monitoraggio, mette quindi in evidenza una situazione critica, ad alto rischio, su cui sta indagando anche la procura.
L’inchiesta è coordinata dal procuratore capo Vincenzo Scolastico, che è affiancato dal pm Luca Scorza Azzarà. Al lavoro anche il primo consulente della procura, il geologo Alfonso Bellini — già perito per l’indagine sull’alluvione di Sestri Ponente del 2010 — che ha effettuato un paio di ricognizioni e sopralluoghi nelle zone più colpite. Il procuratore Scolastico sta poi procedendo a una ricostruzione storica per quanto riguarda sia l’urbanizzazione lungo i corsi d’acqua (a cominciare dal 1928 quando Mussolini ordinò la copertura del Bisagno fino agli ultimi interventi) che la gestione della messa in sicurezza — o meglio della mancata — del Bisagno e dei torrenti esondati, Fereggiano, Noce, Rovare, Puggia e Sturla.
Il filone punta sulle opere non eseguite sui corsi d’acqua ritenuti a rischio dai piani di bacino, disegnati nel 2001: gli interventi sono attuati da Comune e Provincia attraverso programmi triennali, finanziati dallo Stato. Serviranno ancora tre mesi per tirare le conclusioni e scoprire chi è responsabile dell’alluvione, ma una prima risposta grazie al lavoro della commissione è già arrivata: nei tre torrenti sono disseminate decine di costruzioni di cemento e capannoni di lamiera. Per il procuratore capo Vincenzo Scolastico, tra le possibili cause dell’alluvione è che l’onda di piena del Fereggiano sia giunta insieme a quella del Bisagno il quale, gonfio e in quel punto ridotto come larghezza da 98 a 48 metri, non era più in grado di ricevere le acque dell’affluente. Bellini, ha spiegato che il Bisagno sarà in sicurezza quando verrà terminata la copertura allargata, da Brignole alla Foce e quando sarà realizzato lo scolmatore. Ora è nello stesso stato di rischio in cui si trovava nel 1970.
Si sono divorati un intero aeroporto in meno di dieci anni. Una voragine di oltre 92 milioni di euro nel bilancio della società a maggioranza pubblica, ma prima di andarsene hanno abbellito l’ingresso all’aerostazione con diciotto bellissimi olivi, affittati a 3722 euro a chioma. Più di una vacanza natalizia ai tropici con imbarco al Catullo. Totale: 67 mila euro, sottratti alla Avio Handling, società controllata dalla Catullo spa, che controlla gli scali di Verona e di Montichiari di Brescia. La Avio, però, è sull’orlo del fallimento e a novembre dello scorso anno è stata ricapitalizzata con tre milioni di euro, pur di non chiudere, con i dipendenti a rischio licenziamento. Anche alla holding dell’aeroporto non scherzano con i debiti. Dei 92,3 milioni di euro di debiti iscritti a bilancio, 19 sono solo di perdita nell’esercizio 2011, mentre vi sono 50 milioni verso le banche, 21 verso i fornitori, 11,8 milioni tributari, 1,35 milioni verso l’Inps, 7,7 nei confronti di altri. Di quei 50 milioni di euro di debiti verso gli istituti bancari, il Banco Popolare di Verona ha chiesto l’immediato rientro entro marzo di 41 milioni di euro. Se non vengono rinegoziati, la bancarotta è alle porte, i libri finiscono in tribunale.
Pur con un quadro debitorio compromesso, nel 2010, l’allora presidente dello scalo, Fabio Bortolotti, sigla un accordo capestro con Ryanair, togliendo proprio al gemello Montichiari i pochi voli rimasti. Per ogni passeggero che sbarca a Verona, il Catullo verserà alla compagna irlandese 15 euro, cioè il doppio rispetto agli altri scali nazionali e internazionali. Inoltre si aggiungono altre clausole capestro, che impongono un esborso complessivo annuo alla società aeroportuale sui due milioni di euro annuo a favore di Ryanair. L’aumento di passeggeri c’è, ma non risolve il deficit di bilancio. Intanto il procuratore capo di Verona, Giulio Mario Schinaia ha aperto due inchieste: la prima per presunta cattiva gestione, la seconda perché le nuove infrastrutture dell’aeroporto sarebbero prive della Valutazione d’impatto ambientale e delle relative autorizzazioni dell’Enac. La grana più grossa che ha portato al disastro finanziario, parte da un’altra scelta: la costruzione dello scalo di Montichiari alle porte di Brescia, al posto del vecchio aeroporto militare.
Nel 1998 il Catullo di Verona chiude per qualche mese, si inaugura il nuovo aeroporto, spendendo 50 miliardi di lire. Sistemate le piste, gli aerei tornano a Verona e a Montichiari non rimane quasi nulla. Nessun passeggero, tuttavia il personale è al suo posto. Un deserto nella Padania. Già nel 2002 il Montichiari si è mangiato 50 milioni di euro e la voragine si allarga di anno in anno. Nel bilancio 2003, il Montichiari dichiara una perdita pari a 3,8 milioni di euro l’anno. Fino ai 5 milioni di euro l’anno negli anni successivi. Per un po’ le floride casse del Catullo di Verona, in perenne crescita per numero di passeggeri, sopporta le perdite, poi si opta per artefici di bilancio. Come nel bilancio 2006, quando si dichiara ufficialmente un attivo di 236 mila euro, si registrano minori costi per 1,7 milioni di euro, invece aumentano i debiti verso i fornitori e si ricorre sempre più spesso a nuovi prestiti. La perdita reale 2006 per il Catullo, si fa trapelare dalla società, sia vicina ai 3 milioni di euro.
Quell’anno l’esposizione verso le banche è di 15,5 milioni di euro e 22,5 milioni di euro sono i debiti verso i fornitori. Nessuno, tuttavia, dice nulla. Mentre i consiglieri del cda si spartiscono 267 mila euro l’anno di emolumenti, come nel 2010. In una società controllata da enti pubblici, i cui consiglieri sono nominati da Province e Comuni, in particolare di Verona e Trento, che detengono una quota rilevante del pacchetto azionario. Le continue ricapitalizzazioni non hanno sanato i conti in rosso. Mentre Brescia è sempre rimasta alla porta fino a poco fa, quando ha sottoscritto un aumento di responsabilità societaria per il rilancio di Montichiari,conunapartecipazionedel25%diquote nella società unica Aeroporti del Garda, alla quale fanno capo i due scali. I soci bresciani finora non hanno aperto il portafogli e Verona gli ha intimato di pagare la loro quota di debiti. Intanto l’aeroporto di Brescia perde 20 mila euro al giorno, 600 mila al mese, 8 milioni di deficit l’anno.
Su questo sito già diversi anni fa si era seguita la vicenda di un fantomatico neo-hub intercontinentale padano: padano sia per la collocazione geografica che per la coloritura diciamo così politica. Ovvero la fusione a freddo dei due campi di Montichiari e Ghedi, che si trascinavano appresso scalo TAV, infiniti lavori stradali, massiccio decentramento funzionale (funzioni dal superfluo al decisamente comico allo squisitamente virtuale)dal centro di Brescia. Sempre che queste funzioni siano mai esistite, naturalmente. Il tutto, con previsioni di passeggeri da far tremare tutta la megalopoli, a fronte di una crisi nera dell’altro hub padano, quella Malpensa da sempre fiore all’occhiello della lobby lagaiolo-gallaratese. C’era del marcio in padania, e la puzza si sentiva da lontano, solo dando una scorsa al grandioso progetto. Adesso, eccoli qui, magari a dire “ma noi non potevamo sapere”. Invece è meglio ricordarsi, dando un’occhiata per nulla storica almeno al nostro primo reportage completo, quello seriosamente intitolato Hub? Burp!. (f.b.)
1 Una costituente per la cultura
Cultura e ricerca sono capisaldi della nostra Carta fondamentale. L'articolo 9 della Costituzione «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Sono temi intrecciati tra loro. Perché ciò sia chiaro, il discorso deve farsi economico. Niente cultura, niente sviluppo. "Cultura" significa educazione, ricerca, conoscenza; "sviluppo" anche tutela del paesaggio.
2 Strategie di lungo periodo
Se vogliamo ritornare a crescere, se vogliamo ricominciare a costruire un'idea di cultura sopra le macerie che somigliano a quelle su cui è nato il risveglio dell'Italia nel dopoguerra, dobbiamo pensare a un'ottica di medio-lungo periodo in cui lo sviluppo passi obbligatoriamente per la valorizzazione delle culture, puntando sulla capacità di guidare il cambiamento. Cultura e ricerca innescano l'innovazione, e creano occupazione, producono progresso e sviluppo.
3 Cooperazione tra i ministeri
Oggi si impone un radicale cambiamento di marcia. Porre la reale funzione di sviluppo della cultura al centro delle scelte del Governo, significa che strategia e scelte operative devono essere condivise dal ministro dei Beni Culturali con quello dello Sviluppo, del Welfare, della Istruzione e ricerca, degli Esteri e con il premier. Il ministero dei Beni Culturali e del paesaggio dovrebbe agire in coordinazione con quelli dell'Ambiente e del Turismo.
4 L'arte a scuola e la cultura scientifica
L'azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all'Università, lo studio dell'arte e della storia per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per il futuro. Per studio dell'arte si intende l'acquisizione di pratiche creative e non solo lo studio della storia dell'arte. Ciò non significa rinunciare alla cultura scientifica, ma anche assecondare la creatività.
5 Pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale
Una cultura del merito deve attraversare tutte le fasi educative, formando i cittadini all'accettazione di regole per la valutazione di ricercatori e progetti di studio. La complementarità pubblico/privato, che implica l'intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa. Provvedimenti legislativi a sostegno dei privati vanno sostenuti con sgravi fiscali: queste misure presentano anche equità fiscale.
L’atto di citazione notificato dalla Procura della Corte dei Conti a Cristina Acidini (e, insieme a lei, all’attuale sottosegretario Roberto Cecchi, e ai membri del comitato di storia dell’arte del Mibac) costituisce una prima, provvisoria, conclusione della lunga querelle sul Crocifisso cosiddetto ‘di Michelangelo’. Una conclusione che dà torto alla soprintendente di Firenze, senza se e senza ma.
La procura chiede che Cristina Acidini, per aver reso il parere di congruità del prezzo d’acquisto pubblico dell’opera «abdicando alla propria posizione di garanzia circa la correttezza dell’acquisto e il corretto impiego delle risorse del bilancio ministeriale», sia condannata al pagamento di 600.000 euro «per il danno erariale subito dal Ministero».
La richiesta di condanna assimila la posizione dell’Acidini a quella, apicale, di Cecchi – a cui è richiesta la stessa cifra per aver disposto l’acquisto con una serie di «gravi omissioni» –, perché il punto focale di tutta l’inchiesta è la determinazione del prezzo. «La spesa pubblica sostenuta per l’acquisto del crocifisso Gallino ha una dimensione economica irragionevole che, quindi, rappresenta un danno per il pubblico erario», scrive il procuratore: interpellato dai magistrati contabili, Donald Johnston (responsabile internazionale della scultura per Christie’s) ha infatti stimato l’opera in 85.000 euro, il che vuol dire che gli imputati hanno gettato dalla finestra 3.165.000 euro dei cittadini italiani.
Ma i passaggi che colpiscono di più sono quelli in cui la Corte constata che «non è stato avviato il confronto tra gli studiosi» (e che «se tale elementare precauzione fosse stata adottata, sicuramente l’amministrazione» non avrebbe patito un simile danno), e che «attualmente il crocifisso è collocato in magazzino e non fruibile al pubblico».
Chiusura, in tutti i sensi, dunque: chiusura al dibattito, chiusura dell’opera in cassaforte. È questa la linea seguita dalla soprintendente in questi tre anni di polemiche: l’indisponibilità ad accettare il confronto, il tentativo di delegittimare gli interlocutori critici gridando (o meglio sussurrando) al complotto, e financo la sottomissione dell’esposizione delle opere ad una strategia che non ha certo nulla a che fare con l’interesse pubblico. Come si fa, infatti, ad affermare contemporaneamente che il Cristo è di Michelangelo e a lasciarlo per due anni in un deposito, per non meglio precisate disposizioni ministeriali (impartite, magari, dal coimputato Cecchi)?
Pochi giorni fa, Antonio Paolucci ha difeso con sdegno i confini della storia dell’arte, dichiarando di non vedere «come un giudice contabile possa esprimersi su un’analisi storico-artistica». Senza volerlo, l’ex ministro dei Beni culturali ha emesso la diagnosi più esatta dello stato attuale della storia dell’arte: una disciplina letteralmente ‘irresponsabile’. Un mondo autoreferenziale governato da un piccolo gruppo di persone: un gruppo che si ritiene un élite, ma che troppo spesso assomiglia più ad una casta, o addirittura ad una cricca. Tale degenerazione non riguarda solo una disciplina accademica, ma investe la tutela e la gestione del patrimonio storico e artistico della nazione. E questo, in una città come Firenze, vuol dire che l’irresponsabilità della storia dell’arte diventa un problema di tutti.
Il processo che si apre a Roma il 10 maggio potrebbe far cambiare molte cose.
Il professor Andrea Carandini, a 75 anni, conosce l’arte della mediazione ma non sempre la professa. Dal padre, fondatore del Partito Radicale, il presidente del consiglio superiore dei Beni culturali ha ereditato la passione per le scelte definitive e le rotture traumatiche. È per questo (ma non solo) che stamattina Carandini potrebbe dimettersi dalla carica. Non ha certezze di essere rinominato e intuisce che Ornaghi aspiri al repulisti. Al rinnovo delle cariche. Alla discontinuità con la vecchia gestione. Carandini è alle corde. Se da un lato nella sua posizione non scorge inopportunità o conflitto di interesse a far richiedere al Mibac dalla casa di produzione della figlia Amalia quasi 40.000 euro per un (premiato) documentario: Looters of Gods regolarmente finanziato nel 2009 come “progetto speciale”, dall’altro valuta le mosse pubbliche come nessun altro. E questo, in mancanza di meglio, potrebbe essere l’istante adatto al beau geste.
Lo scandalo del Castello di famiglia a Torre in Pietra, restaurato con quasi 300 mila euro erogati dallo stesso Consiglio (ed ermeticamente chiuso al pubblico in opposizione alla legge) è solo uno dei problemi di un’istituzione che Carandini presiede con piglio militare e che rischia di trasformarsi da organo di indirizzo culturale a cabina di regia per gestire i ricchi appalti del ministero. In ogni caso, l’aria che spira attorno alle riunioni del Consiglio è pessima. Il 18 novembre, ad esempio, la seduta fu quasi interamente dedicata alla comparazione di due proposte alternative per Pompei. Per il restauro ballano 105 milioni di euro della Commissione europea. Soldi da investire. A metà novembre Carandini demolì radicalmente l’offerta di Carmine Gambardella (preside ad Architettura nella Seconda Università di Napoli), che voleva offrire gratuitamente al Mibac un progetto elaborato da uno spin off di quattro atenei campani, con importanti università internazionali. Carandini affermò che questo progetto “non è certamente in grado di svolgere il lavoro” voluto dal Mibac. Più violente le critiche a Gambardella di un altro componente del Consiglio, Paolo Portoghesi, l’architetto preferito da Bettino Craxi. Nel verbale del consesso, l’invettiva di Portoghesi sfiora l’insulto: “Chi vive nel mondo dell’architettura, quando sente parlare di questo personaggio non può che esprimere molti dubbi ed è giusto avere dedicato una seduta a valutare il primato di una proposta seria di fronte a una proposta che è soltanto espressione di questo presenzialismo, tipico di persone giovani come Gambardella”. Di fronte a questa mazzata baronal-gerontocratica Carandini quasi si commuove: “Ringrazio moltissimo per la sincerità e la chiarezza”. E di chi è, allora, il progetto alternativo, quello ‘serio’? Ma di Roberto Cecchi, allora onnipotente segretario generale del Mibac, già assai discusso, ma non piegato dal caso del finto Michelangelo esploso clamorosamente in questi giorni. Per Carandini, Cecchi si colloca un gradino sotto Winckelmann: egli avrebbe aperto nientemeno che una “terza era dell’archeologia” basata sulla ricomposizione con l’architettura. Dice Carandini: “Questa applicazione ha avuto solo una possibilità di sperimentazione , attraverso il lavoro dell’architetto Cecchi a Roma, che è andato molto bene. Quindi è una sperimentazione recente che è necessario trapiantare a Pompei”. Ma, sempre al Mibac, fanno notare che più che una ricomposizione tra l’architettura e l’archeologia, essa appaia come una cordata dell’architetto (Cecchi) e dell’archeologo (Carandini).
E che il fine del secondo sarebbe quello di riuscire finalmente a piazzare a Pompei un prodotto che non è mai riuscito a vendere a Roma. Nell’aprile 2008 infatti il Mibac firmò un protocollo di intesa con la cattedra di Archeologia classica della Sapienza. Quest’ultima avrebbe ceduto alla Soprintendenza di Roma un brevetto informatico per realizzare il “sistema informativo territoriale archeologico per il centro storico e il suburbio di Roma”. Non una cessione a tinte filantropiche da ambito pubblico a pubblica soprintendenza. Niente di gratuito. La cessione sarebbe dovuta avvenire “alle condizioni di mercato”, da definire in un accordo separato. E la meraviglia non si quieta. Il brevetto (ottenuto grazie a ricerche finanziate dall’università) non era intestato alla Sapienza, bensì “ai professori Andrea Carandini e Paolo Carafa”. In quel momento Carandini era il coordinatore nazionale della Commissione paritetica per la realizzazione del Sistema Informativo Archeologico delle città italiane e dei loro territori. Insomma, uno strepitoso modello di rapporto pubblico-privato: il superconsulente accademico vende al ministero il proprio brevetto. Ma il piano alla Totò-truffa non andò in porto per la sollevazione dei funzionari della Soprintendenza di Roma, che trovavano scandaloso comprare da un privato ciò che si poteva avere gratuitamente. Carandini – ormai presidente del Consiglio superiore – ha cercato nuovamente di piazzare il suo progetto dopo il crollo di Pompei, proponendo di realizzare un sistema informatico (che per altro la Soprintendenza già possiede) basato sul suo famoso brevetto. Ma la Direzione generale per l’Archeologia riuscì a fermare anche questo secondo tentativo, e fu a questo punto che Carandini pensò di inserirlo nel progetto milionario di Cecchi per Pompei discusso nella seduta del 18 novembre. Sull’ultimo Giornale del’arte Carandini lancia una “strategia del fare” basata su due pilastri: “L’intervento dei privati” e “l’informatica”. L’editoriale si intitola ‘L’ombelico è qui’. Appunto.
Mentre il sidaco Zedda dà segnali che indicano un positivo recepimento delle critiche alle incertezze dimostrate sulla questione Tvixeddu-Tuvumannu, l’autorevole consigliere comunale PD Andrea Scano, presidente della commissione urbanistica, emana una fatwa che avremmo forse inserito nel nostro “stupidario”. Gli ha replicato il nostro opinionista Giorgio Todde, il cui intervento avremmo inserito, coe di consueto, nelle “opinioni”. Mediando tra le due collocazioni inseriamo entrambi i pezzi in una cartella più neutrale.
Non siamo cementificatori
di Andrea Scano
Alcuni hanno interpretato la complessa e intricata vicenda di Tuvixeddu in una maniera che oserei dire mistica. O forse, meglio ancora, manichea. Per costoro esistono due principi opposti: la Luce e le Tenebre. La Verità e la Menzogna. Ovviamente, costoro sono assolutamente certi di essere portatori di Luce e Verità. Ai loro occhi gli altri, i diversi, appaiono soltanto demolitori di stadi, costruttori di inutili opere (quali i campus universitari…) e cementificatori senza scrupoli.
Questi personaggi sono vittime di un’ossessione: spararla grossa per produrre effetti sensazionali. Perdono così il contatto con la realtà (che molto più frequentemente è fatta di sfumature, possibilità, gradazioni di luce e colore). E perdono, conseguentemente, la possibilità di incidere sulla realtà stessa. Ma non importa: se la filosofia è “Ciò che non è sensazionale non è reale”, allora ogni iperbole è valida, ogni estremizzazione è giustificata. Francamente mi viene difficile pensare al sindaco Zedda, alla sua giunta e a noi consiglieri di maggioranza, come a una congrega di cementificatori che, armati di ruspe e betoniere, si apprestano a devastare ciò che rimane di Cagliari. Forse qualcuno degli Apostoli della Luce si sarebbe aspettato soluzioni pronte in tempi rapidissimi su tutti i “grandi temi” che riguardano la città: metropolitana-piano centro storico-lungomare Poetto-raccolta differenziata-baretti-anfiteatro-housing sociale-Molentargius-periferie-stadio-Tuvixeddu-adeguamento PUC a PPR tutto e subito. La Luce che si impone con forza e immediatezza sulle Tenebre… Mi dispiace deluderli: ci stiamo lavorando, ma occorreranno tempo, pazienza e disponibilità a qualche compromesso. Purtroppo chi ha un approccio di tipo dogmatico, da Verità Assoluta, non è interessato a risolvere concretamente i problemi. E’ appagato dal poter ribadire in maniera intransigente la propria posizione di principio. Che, ai suoi occhi, appare come l’unica connotata da caratteristiche di Verità e di Luce.
Si parla tanto dell’adeguamento del PUC al PPR. E’ necessario e doveroso farlo. Ma con questo adeguamento non sarà possibile ottenere per magia “zero metri cubi di cemento e un parco pubblico gratis subito”. Piacerebbe tanto anche a noi, ma la realtà è diversa. Nella realtà ci dovrà essere un accordo tra comune, regione, soprintendenza. In una cornice costituita da legittimi interessi pubblici e da interessi, altrettanto legittimi, dei privati.
Mettere insieme tutte queste istanze per produrre un risultato (e non chiacchiere) comporta la disponibilità a porsi da un altro punto di vista. E’ necessario rinunciare a tutte quelle “lettere maiuscole” per riuscire a leggere una realtà fatta di luci e ombre (scritte con lettera minuscola); luci e ombre che spesso si mischiano e confondono. Per risolvere i problemi concreti servono volontà, capacità e coraggio. Anche il coraggio di togliersi l’elmetto, quando è necessario.
Compromesso e Mediazione
di Giorgio Todde
La Giunta insonorizzata che governa Cagliari commenta con parole frugali e prudenti la propria azione. Non sappiamo quindi – speriamo di no - se abbia affidato un messaggio in bottiglia al Consigliere Andrea Scano sulla Nuova del 20 febbraio e neppure a chi quest’ultimo si rivolgesse con il suo elaborato. Mancava il destinatario.
Ne abbiamo, comunque, apprezzato la forma. Non abbiamo potuto apprezzare i contenuti perché, per quanto li abbiamo cercati, non ne abbiamo trovato.
Nel sermone contro “mistici” e “manichei” il Consigliere dimentica il proprio periodo mistico quando se la prendeva “col sindaco Emilio Floris per essersi schierato coi costruttori”. Reclama il solito “lasciate lavorare il centravanti”. E le altre sparate le affidiamo alla misericordia del lettore.
C’è un’unica parola che non fa sorridere nella sua omelia: la parola “compromesso”. L’abbiamo sentita troppe volte e mette paura.
Ma il Consigliere trascura ogni cenno al merito delle questioni sollevate da questo giornale. E al merito noi ci atteniamo.
Il Consigliere non ha potuto trovare nello scritto del 6 febbraio sulla Nuova una parola che non fosse sostenuta da un solido argomentare, anche giuridico. Provi a smentire. E non nell’etere, ma sulla carta stampata.
Cosa racconta, il Consigliere, del parcheggio sotto le mura? Del progetto del Campus? Nessuno è contro un Campus, ma quel progetto è un mostro. E cosa argomenta sulla delibera Tuvixeddu, attesa in Consiglio da un’opposizione entusiasta? E’ la delibera ad aver destato preoccupazione e non l’intervento apparso sulla Nuova.
Nella delibera è detto chiaro che l’area di tutela integrale può consistere nel solo francobollo della necropoli e del catino, già tutelati dal ’96. Che si possa ridurre il raggio della tutela a meno di cento metri dalla necropoli. Che si deve ottemperare al Piano urbanistico comunale il quale prevedeva 270.000 metri cubi per l’impresa e 120.000 di servizi. E cosa significa questo, se non che si può costruire a ridosso della necropoli?.
Che sulla questione Tuvixeddu occorra una mediazione appare ovvio anche a un bimbo e tutti prendiamo atto delle dichiarazioni confortanti del Sindaco sull’inedificabilità dei due colli. Tanto più che i Tribunali hanno ormai chiarito quasi tutto, salvo certi aspetti penali. Ora si deve agire, sì, ma nella direzione indicata dalle sentenze e sarà necessaria una sapiente mediazione, forti delle “posizioni” conquistate.
Siamo contenti di avere un piano di utilizzo del Poetto non più terra (nera) di nessuno, contenti che non si faccia il parcheggio rovinoso in via Roma, che si rimuovano i tavolacci dall’anfiteatro. Assai contenti dell’annunciato adeguamento del nostro Piano urbanistico al Piano paesaggistico. E vedremo come si dipanerà.
Ma – tralasciando delibera, parcheggi, vuoti urbani, successi e intenzioni – oggi vediamo Tuvixeddu malconcio. Il bianco dei colli contaminato, il fascino dei luoghi sfumato, sepolture intercettate da fioriere faraoniche, un avvilente snaturamento del sito che fa rimpiangere quello che avremmo dovuto conservare e che continuiamo a cancellare. A Tuvixeddu si deve vedere Tuvixeddu e non lo smisurato progetto del Parco. Ci aspettavamo una “mano” diversa, un’altra attenzione e la modifica di quel progetto. E’ ipocrita piangere Lilliu – anche lui “mistico-manicheo” della tutela integrale – e ignorare la sua lezione trasformando una necropoli in giardinetto.
L’esercizio della critica non è un agguato. Noi sosteniamo la Giunta anche con la critica e non predicando il funesto compromesso universale. Quanto alle idee del Consigliere Scano continueremo a cercarle nei suoi scritti. Prima o poi le troveremo. Per ora sentiamo nelle sue parole le stesse intonazioni, ma più scortesi, di chi lo ha preceduto al governo cittadino. Sarà questa la continuità.