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Leggiamo sulla cronaca locale di La Repubblica del 24 aprile che la difesa dell'ex assessore Biagi ripropone i temi di una intervista al Procuratore Quattrocchi, ripresa anche da un articolo di Andrea Barducci, sulla possibilità o meno di contrattare l'urbanistica. Sostiene l'autorevole avvocato Lucibello che l'ex assessore avrebbe operato a Castello per evitare di "creare una enclave" una di quelle "villes nouvelles divenute dormitori dove alligna il rancore sociale, il disagio e la delinquenza", citando in proposito le raccomandazioni dell'arch. Renzo Piano di perseguire la biodiversità in chiave urbana e di lavorare sulla diversificazione ad ogni livello.

Ma già nel '93 il PRG adottato dalla giunta Morales, così stabiliva per l'area di Castello: "L'edificabilità è riservata al Comune e/o agli enti istituzionali per la realizzazione di attrezzature e servizi per il 32% circa, mentre per il resto è destinata a funzioni private: residenziali, artigianali, industriali, terziarie, ricettive, di spettacolo, escludendo soltanto le attività inquinanti, rumorose o che attraggono traffico pesante". Ecco quindi garantita la diversificazione ad ogni livello e la pluralità di funzioni di cui parla Renzo Piano il quale, per inciso, fu convocato prima che scoppiasse lo scandalo dall'allora sindaco Domenici per un incarico proprio a proposito di Castello, ma decise dopo un breve colloquio di non farne di nulla. Forse non lo avevano convinto quelle continue varianti ai parametri di PRG, alla convenzione e al Piano Particolareggiato su cui alla fine ci si era incartati.

Continua poi l'avvocato sostenendo che gli incarichi all'arch. Savi ed all'arch. Casamonti sarebbero stati giustificati dalla necessità di garantire in quell'area un intervento di qualità, anziché fare una città dormitorio, con "i casermoni squadrati ed un planivolumetrico da caserma". Queste affermazioni non possono non richiamarci alla mente un altro elemento significativo del Piano di Castello: la Scuola per sottufficiali dei carabinieri, che nel PRG del '93 doveva occupare 16 ettari con un volume di circa 200.000 mc. Ancor prima di Biagi e di Domenici, Primicerio e il suo assessore Bougleux avevano consentito che la scuola triplicasse le sue volumetrie occupando una distesa di suolo ben maggiore, configurandosi proprio come una gigantesca caserma, vera spina nel fianco per l'intero insediamento: come ha fatto a lievitare così tanto e così malamente?

L'accusa del legale alla Procura di avere una visione "burocratica, obsoleta e dannosa dell'interesse pubblico", interesse che sarebbe invece concentrato nella trattativa col privato (a proposito, che fine ha fatto il parco/bosco di 80 ettari che doveva conferire l'effettiva qualità urbana all'intera area?), è del tutto risibile. Qui occorre riprendere le fila del dibattito originario e delle questioni generali.

Partendo dal presupposto che l'urbanistica è materia "regolata da complessi reticoli normativi", la formazione del momento normativo, al quale è auspicabile che partecipino, oltre agli uffici competenti, anche i cittadini che ne hanno interesse, è cosa ben diversa dall'applicazione della norma. Il momento normativo, una volta definito, non può essere né contrattato né concertato, poiché deve valere erga omnes e garantire l'interesse pubblico.

Se poi, nell'ambito della norma generale, l'Amministrazione intende "concertare" con determinate categorie di privati alcuni caratteri specifici dell'applicazione della norma generale, a nostro avviso lo può fare purché sussistano due condizioni: la prima è che tale procedimento avvenga alla luce del sole, la seconda è che le regole complementari individuate valgano per tutti.

Appare pertanto del tutto giustificata l'ironia del Procuratore Quattrocchi quando dice di aver incontrato a Firenze una categoria a lui prima sconosciuta, quella della "urbanistica contrattata" intendendo con questo termine l'accordo, decisamente poco trasparente, che di volta in volta l'Amministrazione stabilisce con un solo soggetto interessato ad una determinata operazione immobiliare, forzando o contravvenendo le regole stabilite dalla normativa, proprio come sembra avvenuto nel caso dell'area di Castello.

Città della Salute? Riflettiamo prima. L'articolo di Schiavi sulla «Città della Salute» ha avuto il pregio di rimettere al centro dell'attenzione l'opportunità o meno che «questo» progetto vada in porto. Occorre riflettere bene prima delle decisioni annunciate per i primi di maggio. Il precedente progetto di Città della Salute poggiava su di una triangolazione forte tra i due Irccs (Tumori e Besta) e l'Azienda ospedaliera Sacco, sede di alcune divisioni di eccellenza, oltre che polo universitario. Un progetto credibile, in cui le sinergie dei vari soggetti venivano amplificate, creando un autentico polo pubblico di ricerca e di insegnamento, una vera e propria perla di interesse nazionale all'interno del complesso sanitario della città di Milano.

Caduto tale progetto per ragioni varie (mancanza dei fondi per garantire l'intera opera; problemi di bonifica dell'area; carenza di infrastrutture), la Regione Lombardia ha optato per il solo trasferimento dei due Irccs, e su questa base si è innestata la ricerca della sede urbanisticamente più idonea, tra l'ex area Falck di Sesto e quella di Piazza d'Armi, a Milano.Ma il problema non è solo urbanistico. C'è da domandarsi se una simile fusione valga davvero la candela e risponda alle esigenze dei malati e degli operatori. Le consonanze tra Istituto Tumori e Neurologico sono del tutto marginali, e la loro fusione non otterrebbe reali miglioramenti degli assetti di base dei due presidi.

L'uno non risolverebbe i problemi dell'altro, e anche le prospettive di ricerca comuni riguardano campi solo marginali. È proprio la mancanza di un grande ospedale, con tutte le strutture di base e i supporti necessari, a rendere discutibile l'operazione. Va detto per inciso che Milano detiene già oggi un primato nella disponibilità di posti letto per acuti e una anomalia nel numero di presidi monospecialistici esistenti. Potendo spendere gli oltre 300 milioni di euro a disposizione della Regione Lombardia (sempre che si tratti di un dato reale e non di una pura messa in scena), questo «tesoretto» potrebbe essere investito in altri modi più vantaggiosi. Da un lato consentendo ai Tumori di stare dove sono (come a suo tempo chiesto dagli operatori e dagli utenti con una cospicua raccolta di firme), valorizzando le ristrutturazioni già fatte e completando quelle necessarie. Dall'altro provvedendo al trasferimento del Besta (in condizioni non più sostenibili) in contiguità con un Ospedale Generale in grado di accoglierlo e di offrire tutte le integrazioni cliniche e le sinergie opportune per la ricerca. Senza dimenticare infine le esigenze del Sacco, oggi sacrificato dall'attuale progetto di Città della Salute.

Una ipotesi di buon senso che consentirebbe di utilizzare al meglio le risorse disponibili, senza prestarsi a operazioni di pura facciata. Sarebbe anche il primo passo per riflettere sulla programmazione sanitaria della città di Milano: una città dove molte scelte sono parse più seguire criteri di occasionalità o di convenienza che non quelli di una seria pianificazione, con conseguenze negative nelle possibilità di assistenza delle persone fragili e dei pazienti subacuti, e più in generale nell'articolazione dei servizi socio-sanitari territoriali.

Alessandra KustermannGiuseppe Landonio Alberto Maspero, Amedeo Amadei, Bruno Ambrosi, Luigi Campolo Roberto Satolli, Mauro Venegoni

Sta andando avanti l'asta di sette terreni edificabili delle isole Tremiti indetta dal Comune per ripianare il deficit dei conti. Nonostante la contrarietà della Regione Puglia, espressa a chiare lettere dall'assessore regionale all'assetto del territorio Angela Barbanente, dal Municipio tremitese hanno ribadito i termini della procedura. Entro oggi, alle 13, è prevista la consegna al protocollo delle istanze di partecipazione al pubblico incanto. L'ufficio resterà aperto nonostante il giorno festivo. L'asta vera e propria si terrà domani giovedì mentre la Commissione esaminatrice delle domande si riunirà sabato alle 9, in seduta pubblica, per l'apertura delle buste contenenti le offerte.

Il Comune spera di ricavare oltre quattro milioni di euro dalla vendita di 32mila metri quadrati (in più lotti) sull'isola maggiore, San Domino, e del lotto unico di 37mila mq sull'isola di San Nicola. I terreni in questione rientrano in un Piano di edilizia economica e popolare. La Regione è contraria e, per bloccare la procedura, è partita un'altra lettera destinata al Comune delle Tremiti, retto dal commissario straordinario Carmela Palumbo, che ha sostituito lo storico sindaco delle Tremiti Giuseppe Calabrese. Palumbo cerca di smontare la polemica: "Io sono un commissario prefettizio e finché ci sono applico la legge. La variante di cui parla l'assessore era stata discussa anni addietro e al mio arrivo l'ho trovata già approvata e definitiva. Nessuno intende fare speculazioni

sulle Tremiti e in quei lotti sorgeranno soltanto case popolari". Un'altra nota formale era stata inviata all'inizio di aprile a cui dal Municipio hanno risposto ribadendo che si tratta di una procedura corretta.

Dal Comune delle Tremiti, pertanto, non c'è alcuna marcia indietro perché la procedura è ritenuta "conforme" al Piano di edilizia sociale approvato dalla Regione. Tra l'altro qui a maggio si vota: sono quattro i candidati alla carica di sindaco e quello dell'asta non è il principale argomento di campagna elettorale visto che il turismo rimane il tema di punta, peraltro nell'anno in cui se n'è andato un "tremitese" adottivo doc, il cantautore Lucio Dalla, che aveva eletto le isole a suo "buen retiro" estivo e a cui in estate sarà dedicato un memorial. L'equilibrio su cui l'asta nasce è fragilissimo: sono in gioco le esigenze di cassa e di ripianamento del deficit pubblico e la tutela di isole affascinanti e perennemente minacciate da trivellazioni petrolifere o speculazioni edilizie. E ora molti temono che l'asta possa diventare il "cavallo di Troia" per una speculazione edilizia. Il Comune spera di ricavare quattro milioni di euro, forse anche qualcosa in più, in modo da rimettere in sesto le anemiche casse pubbliche. E non teme speculazioni perché si tratta di "housing sociale".

Le aree all'asta sono sulle isole principali di San Nicola e di San Domino anche perché le altre tre (Cretaccio, Caprara e Pianosa) sono disabitate ed inidonee. Per rintracciare l'avviso pubblico, è inutile consultare il sito internet del Comune che è disattivato, causa tagli alle spese. Su San Domino, l'isola maggiore dove vivono i circa 500 abitanti, la superficie complessiva del lotto edificabile è di mq 31.585 con vendita in porzioni di lotto dell'importo stimato in euro 370.536 ciascuno. Su San Nicola il lotto è unico, esteso mq 37.046 ed in vendita per intero ad euro 363.825, secondo la stima. L'asta, dunque, va avanti. Sta di fatto che ogni volta che un progetto riguarda le Tremiti, i vincoli vigenti ed il fascino delle isole sono una forte motivazione per dire "no". Non è molto lontana nel tempo l'intenzione di realizzare un ponte in legno, una "passeggiata turistica e commerciale", tra San Domino ed il Cretaccio.

Barbanente: “Ma è tutto surreale i terreni devono restare pubblici”

L'assessore all'Urbanistica della Regione Puglia, Angela Barbanente, non cede di un millimetro: "Quanto sta accadendo alle Tremiti, mi sembra tutto surreale". La Regione, insomma, s'è messa di traverso sul bando comunale che si chiude oggi alle 13 e mette all'asta tredici terreni edificabili, sette ettari parendo da una base di quattro milioni di euro. Angela Barbanente è determinata a impedire che nell'arcipelago che rientra anche nel territorio del parco nazionale del Gargano, si possano vendere aree pubbliche per fare cassa e rimettere ordine nei conti di un Comune commissariato e alla vigilia delle elezioni. Nelle ultime settimane c'è stata una fitta corrispondenza tra il commissario prefettizio Carmela Palumbo e gli uffici regionali. Ma non è servito a molto.

Cosa c'è di surreale, assessore Barbanente?

"Il fatto che le aree pubbliche che si mettono all'asta sono destinate a un piano di edilizia economica e popolare. Trovo surreale che per mettere quelle aree all'asta, le si debba vendere per fare cassa ma poi le si debba riacquistarle con un esproprio per realizzare quel piano di edilizia per costruire case per famiglie a basso reddito".

Cosa non la convince del bando?

"Non è chiaro come l'amministrazione comunale consideri compatibile la vendita delle aree con la disciplina di legge dell'edilizia economica e popolare, che al contrario prevede l'espropriazione dei suoli e la successiva concessione o vendita".

Il bando, però, spiega che il fabbisogno abitativo sarà comunque garantito.

"Ripeto: non è chiaro. La gara è aperta a soggetti indifferenziati, che non hanno i requisiti richiesti per l'edilizia residenziale pubblica, e che quindi, si presume, dovrebbero poi a loro volta cedere i suoli agli assegnatari degli alloggi. E dove sarebbe il contenimento dei costi? E come verrebbero determinati i prezzi popolari che sono alla base della "167" se l'asta, per sua natura, fa lievitare il costo dei suoli e quindi del prezzo di cessione successivo?".

Cosa hanno risposto dalle Isole Tremiti?

"Con risposte non esaustive sul rispetto delle finalità di quel piano che, ripeto, deve soddisfare i fabbisogni abitativi dei residenti. Anzi: intanto ci sono le autorizzazioni a costruire in quelle aree, proprio perché c'è un interesse generale che è quello di dare case a prezzi equi a famiglie a basso reddito. È bene chiarire che senza quell'interesse generale, con il pronunciamento favorevole anche del comitato urbanistico regionale, il piano di edilizia economica e popolare che autorizza le ruspe e le gru per costruire case sull'isola, non ci sarebbe stato".

Si può sempre fare una variante per rendere appetibile ciò che allo stato potrebbe non apparire conveniente?

"E chi le autorizzerà? Le Tremiti sono un'area protetta. Ci sono pareri paesaggistici da dare. Aggiudicarsi i terreni non basta".

Cosa propone di fare?

"Abbiamo invitato le Isole Tremiti a riesaminare l'attività amministrativa posta in essere e a valutare l'opportunità ad esercitare l'autotutela. Quei terreni devono restare pubblici perché l'interesse generale è di costruire case popolari".

Ma non è un interesse generale anche rimettere in ordine i conti del Comune visto che la legge consente questo tipo di alienazioni?

"Si possono usare altri cespiti. Si può agire sul mercato delle seconde case che alle Isole Tremiti è molto fiorente. Si può ritoccare la Tarsu. Le Isole Tremiti sono un comune turistico, tra i più apprezzati, anche fuori dai confini regionali, una potenzialità che in Puglia hanno pochi Comuni".

L'Accordo di programma è stato approvato nel 2009. La firma al Piano Integrato d'Intervento risale invece ad un anno fa, al 15 aprile 2011. Ora, il progetto per il Cerba è tornato sul tavolo del sindaco Giuliano Pisapia, accompagnato da una lettera del presidente della Fondazione, il professor Umberto Veronesi, anima e testa di questa idea «che porterebbe a Milano il centro di ricerca biomedica più avanzato d'Europa». Il tema è caldo, anche perché in questi ultimi giorni si è dibattuto dell'ubicazione della Città della Salute che invece unirebbe Istituto dei Tumori e Besta (sulle aree ex Falck di Sesto, o come suggerito dal Comune, nella ex caserma Perrucchetti?).

Il progetto del Cerba nasce prima. E, nel frattempo, qualcosa è cambiato: nel senso che i terreni sui quali dovrebbe sorgere questo centro multifunzionale (raggrupperebbe lo Ieo, il Monzino e il Besta) erano originariamente di proprietà della società Im.Co del gruppo Ligresti per la quale i pm hanno appena chiesto il fallimento. Ma, prima ancora dell'intervento del tribunale, si era già deciso di affidare le aree a un fondo di investimento che comprende una serie di banche, tra cui Unicredit, che gestirebbe l'intera operazione finanziaria: a costo zero per gli enti pubblici.

Nel suo studio, il professor Veronesi parla con passione di un progetto «anticipatore dei tempi, visto che in un prossimo futuro la sanità dovrà cambiare molte delle sue politiche e strategie». Anzitutto perché, «abbiamo avuto la rivoluzione del dna, che ci impone una ricerca difficile e costosissima». Poi, perché «stiamo assistendo ad una continua evoluzione della tecnologia anche in campo medico». Infine perché «dobbiamo definire un nuovo rapporto tra medico e paziente, che si deve riflettere anche in un diverso modo di concepire le architetture ospedaliere». Il Cerba potrebbe anticipare i tempi proprio perché riuscirebbe a dare una risposta a tutte queste rivoluzioni. «Unire tre istituti di eccellenza — riassume Veronesi — significa creare un grande centro di ricerca sul Dna che può servire l'oncologia, la cardiologia e la neuroscienza: così, gli apparecchi diagnostici e di cura sarebbero a disposizione di tutti e sarebbe più semplice ammortizzare i costi elevatissimi». Per quanto poi riguarda l'aspetto umano, il disegno del Cerba, elaborato dall'architetto Renzo Piano, abbraccia e traduce in urbanistica la filosofia del «malato al centro» garantendo tra l'altro che metà dei terreni, quindi oltre 300 mila metri quadrati, saranno destinati a parco pubblico.

«Una Città della Salute — incalza il sociologo Guido Martinotti — va sostenuta in tutti i modi. E ci sono almeno tre motivi per cui vedrei bene il progetto Cerba. La prima è che quell'area abbandonata rappresenta oggi una sorta di buco, alla fine della città urbanizzata e prima dello Ieo: certo, è all'interno del Parco sud ma al Parco sud va data qualche funzione urbana, altrimenti finisce degradato, come in questo caso, o mangiato poco alla volta da speculazioni incontrollate». Secondo tema posto da Martinotti è che «questa zona è facilmente accessibile con le auto e i mezzi, al contrario ad esempio di quello che succederebbe se si realizzasse la Città della Salute nel cuore di Milano, dove c'è la Caserma Perrucchetti». Infine, «lo sviluppo delle periferie va equilibrato. Un centro di ricerca a Sesto sovraccaricherebbe il nord Milano, mentre c'è bisogno di qualificare la zona sud della città».

Insiste Veronesi: «Il nostro è un progetto modulare e flessibile, che consentirebbe di riattivare la parte agricola, di valorizzare un'area oggi abbandonata e di rappresentare un'eccellenza per Milano». Quanto ai tre istituti, «ciascuno manterrebbe la propria autonomia giuridica e amministrativa», godendo dei vantaggi della vicinanza: «Avremmo un'unica piattaforma in cui condividere conoscenze e tecnologie, realizzando sinergie e diventando punto di riferimento per i pazienti che qui troveranno le cure migliori e la migliore ricerca».

postilla

Ormai ci restano solo due certezze: 1) il Corriere della Sera non è la Pravda , nel senso che non segue una precisa, granitica, immutabile linea, e 2) il giornalismo di inchiesta, che tallona la notizia e i suoi protagonisti, sta un pochino fuori dalla grande tradizione italo-meneghina. Avevamo salutato con favore l’emergere sulla stampa locale di una “scoperta”, ovvero che il problema della salute, della ricerca scientifica, del ruolo socioeconomico di Milano, era difficile da valutare pensando costantemente al rapporto fra metri quadri, metri cubi, localizzazioni e relative proprietà e interessi. Certo quello poteva essere – le cose vanno anche così – uno dei motori per avviare la macchina, ma la questione non si poteva mortificare in quel modo. E invece rieccoci al punto di partenza, stavolta coinvolgendo oltre al solito Veronesi (detentore del brevetto eccellenza scientifica = scelta dell’area) anche il sociologo Guido Martinotti, che famoso per aver divulgato il concetto dei flussi vaganti di city users metropolitani adesso evidentemente si presta per dichiarazioni à la carte anche sul ruolo della greenbelt (che sarebbe valorizzata costruendoci sopra la famosa eccellenza). Evidentemente travolta dall’entusiasmo, la prosa dell’articolo si spinge a tirar dentro l’allegra compagnia anche l’archistar Renzo Piano, attribuendogli il progetto del Cerba: ma non era dello studio di Stefano Boeri? Basterebbe dare un’occhiatina veloce ai ritagli di qualche anno fa per verificarlo, inclusi quei renderings con la via Ripamonti a sei corsie ma verniciate di verde per non dare nell’occhio, o le colline dell’Oltrepo traslocate per l’occasione a ridosso della Tangenziale. Insomma, parafrasando il Grande Timoniere: grande è la confusione sotto il cielo, e qualcuno ci marcia alla grande. O almeno ci riprova (f.b.)

(per i lettori occasionali del sito: i "ritagli" del dibattito pregresso a cui si riferisce la postilla sono tutti disponibili anche su queste pagine, stessa cartella Milano, a decine: basta sfogliare, miracoli della scienza anche senza metri cubi!)

«Solo con questo spirito si esce dalla crisi». Ha ragione Carlo Guglielmi, presidente di Cosmit, nel sottolineare la volontà del settore design di «uscire dalla recessione senza chiedere l'aiuto di nessuno», lavorando per Milano e per tutto il Paese. Il risultato è stato un grandissimo Salone, in grado di attrarre migliaia di aziende e centinaia di migliaia di visitatori da tutto il mondo. La Milano di questi giorni è lontanissima dalla città statica a cui siamo abituati. Internazionale e positiva, aperta e rivolta al futuro: grazie ad aziende e progettisti, buyer e creativi, allestitori e addetti stampa, la Milano del Salone del Mobile sembra farci dimenticare la crisi economica e i suoi devastanti effetti. L'energia positiva che la percorre è la miglior risposta al pessimismo. Senza contare l'indotto legato ai visitatori: lavoro per alberghi, ristoranti e negozi in genere.

Bilancio più che positivo, che ha messo in luce un duplice aspetto: la capacità del settore di affrontare la crisi e la larghissima partecipazione di giovani progettisti e, dunque, di «futuro». Purtroppo, questo miracolo di dinamismo ha vita breve: una settimana. Ma, dato che il design è l'unico settore in cui Milano può vantare un primato internazionale, perché non puntarvi maggiormente, trasformando la città in un perenne festival della creatività? Gli effetti, sull'immagine e sull'economia milanesi, sarebbero immediati. Basterebbero poche e semplici idee, realizzabili grazie alla collaborazione fra settore pubblico e privato. A Milano esiste già una formidabile rete costituita da scuole e università, showroom e negozi, aziende e laboratori artigianali. E non dimentichiamo le fondazioni dedicate a maestri come Franco Albini, Achille Castiglioni e Vico Magistretti, i cui archivi contengono una documentazione in alcuni casi ancora inedita e ricca di sorprese. Una rete che potrebbe essere potenziata, con l'aiuto di Cosmit.

Investimenti sui giovani, con ospitalità periodiche a designer provenienti da vari Paesi, grazie all'amministrazione comunale; scambi con università straniere che facilitino il ricambio generazionale dei creativi; esposizione, in strutture comunali, musei e teatri, di pezzi prestati, a rotazione, dalle varie aziende, che, immaginiamo, sarebbero liete di far conoscere la loro produzione; arredi urbani progettati e realizzati da giovani utilizzando materiali di riciclo; convegni e seminari distribuiti nell'arco dell'anno; una giornata al mese dedicata al design. Milano potrebbe diventare una perenne vetrina, un luogo da cui chiunque si occupi di disegno industriale deve passare. Non soltanto per pochi giorni.

Il design è cambiato. Non esiste più una scuola milanese: il mondo, ora, viene a Milano per far produrre i suoi oggetti. Qui può trovare una qualità e una raffinatezza di esecuzione che non hanno uguali. Proprio questo è l'aspetto su cui puntare per il futuro. Si è sempre cercato di definire Milano in vari modi, dimenticando quella che sarebbe una definizione perfetta: fabbrica di bellezza.

Sigilli in Biblioteca - Sotto inchiesta il direttore De Caro che, annuncia il ministro Ornaghi, “si è autosospeso”

Paola Maola – Il Fatto Quotidiano

Gli occhi bassi, poche parole preparate, tono della voce dimesso e un po’ impacciato. “Doveva essere una giornata di apertura totale del Complesso. Lo è stata, ad esclusione della Biblioteca che, dopo una denuncia su presunti libri scomparsi, è stata posta sotto sequestro dai carabinieri”. Una triste coincidenza, dunque. Don Sandro Marsano, Conservatore del Complesso dei Girolamini, ieri avrebbe dovuto aprire i locali della più antica Biblioteca di Napoli a cittadini e turisti per la “Giornata di verità”. Una giornata di “contro-informazione”, si diceva, rivolta a tutta la città che, almeno nelle intenzioni degli organizzatori, doveva fare chiarezza dopo le polemiche sulla nomina del nuovo direttore, Marino Massimo De Caro, da ieri autosospesosi e ufficialmente indagato per peculato dalla Procura di Napoli. Perquisite la sua casa di Verona, la foresteria in cui abita quando è a Napoli, interna al complesso dei Girolamini, e anche l’abitazione di padre Sandro. Ieri, i carabinieri ne hanno sequestrati alcuni di cui ora bisognerà accertare la provenienza: non è escluso, infatti, che facciano parte dei libri sottratti alla Biblioteca. Eppure proprio De Caro aveva denunciato la scomparsa di 1500 libri.

Posti, dunque, i sigilli ai por-tali seicenteschi. Il motivo? Per tutelare l’integrità dei volumi custoditi all’interno. E si capisce: la Girolamini possiede un patrimonio di 150 mila volumi antichi e manoscritti, alcuni rarissimi. Non è chiaro, invece, come mai a dirigerla fosse stato imposto dal ministero per i Beni e le Attività culturali (si tratta di una bibilioteca pubblica statale) il sedicente “professor” De Caro, personaggio oscuro, noto per essere legato all’entourage di Marcello Dell’Utri, noto bibliofilo.

Della Biblioteca dei Girolamini si era occupato per primo Tomaso Montanari per Il Fatto. L’aveva visitata e aveva visto pile di libri preziosi poggiate per terra, lattine di Coca Cola sui banconi. Voci intorno parlavano di libri che spariscono con una certa regolarità. Ieri, il ministro per i Beni Culturali Lorenzo Ornaghi ha parlato di “gravi inadempienze” nella contabilità e nella custodia dei libri. Ma è il personaggio di De Caro che ha fatto sollevare i dubbi.

Al momento De Caro è consulente del Mibac nel settore della cultura e dell’editoria nonché delle tematiche riguardanti la normativa in materia di fonti rinnovabili. Era stato scelto da Giancarlo Galan prima quando era ministro dell’Agricoltura e poi ai Beni Culturali. L’attuale ministro Ornaghi l’ha confermato al suo posto “in qualità di consulente esperto”. Il punto è che De Caro non si è mai laureato: iscrittosi all’Università di Siena nel 1992 non ha mai concluso i suoi studi. Si è distinto però per aver mediato nell’affare del petrolio venezuelano mentre era vicepresidente esecutivo di Avelar energia (nel libro di Ferruccio Sansa e Gatti Il sottobosco è “uno dei casi più clamorosi di alleanza tra berlusconiani e dalemiani”). E poi per la buona amicizia con il senatore Dell’Utri: nel 2005, alla Mostra del libro antico sponsorizzata da Dell’Utri, De Caro aveva venduto un incunabolo del 1499 acquistato in Svizzera. Il volume però risultava sottratto ad una biblioteca milanese e l’alacre commerciante librario finì ad essere indagato per ricettazione . La vicenda si concluse con un nulla di fatto: l’oggetto della ricettazione sparì e la posizione delle persone coinvolte fu archiviata.

De Caro è socio di una società di energia del figlio di Dell’Utri e “segretario organizzativo nazionale” dell’associazione “Il Buongoverno-Coesione Nazionale ” costituita lo scorso 27 marzo. Presidente nazionale onorario, ça va sans dire, Marcello Dell’Utri. Erano stati proprio alcuni dei membri del “Buongoverno” al Senato a presentare un’interrogazione al ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, per avviare un’ispezione sulla condotta di Tomaso Montanari e del suo collega accademico Francesco Caglioti che, dopo l’articolo apparso sul Fatto, avevano promosso una petizione per la salvaguardia della Biblioteca. Le firme sono ora circa 4mila tra cui quella di Salvatore Settis, Dario Fo, Gustavo Zagrebelsky e molti altri intellettuali sensibili al tema.

La Biblioteca dei Girolamini è stata affidata in custodia al direttore della Biblioteca nazionale, Mauro Giancaspro. Anche Montanari verrà sentito dai pm: commentando le parole del ministro Ornaghi (che ha specificato che la nomina del direttore della biblioteca non dipende dal ministero), il nostro collaboratore ritiene che Ornaghi avrebbe potuto “revocare immediatamente la ratifica ministeriale alla nomina di padre Sandro Marsano quale Conservatore del Monumento nazionale dei Girolamini, da cui dipende la nomina del direttore della biblioteca, licenziare in tronco De Caro dal ruolo di suo consigliere, nominare immediatamente un commissario straordinario”.

“Giornata di verità” rimandata a data da destinarsi.

Napoli - Ornaghi come Pilato

Tomaso Montanari – Corriere del Mezzogiorno

Tra tanti colpi di scena drammatici, almeno una cosa era evidente fin dall'inizio: a sciogliere l'intricato nodo dei Girolamini sarebbero state la magistratura e le forze dell'ordine, non certo una politica sempre più ignava. Quella politica che pure ha avuto tanta parte nel creare e stringere quel nodo. Una petizione firmata ormai da oltre 3500 persone, e da centinaia di nomi di spicco del panorama culturale e del mondo delle biblioteche, chiede al ministro per i Beni culturali tre cose: rimuovere Marino Massimo De Caro dalla direzione dei Girolamini, dimetterlo dal numero dei suoi consiglieri, aprire una commissione d'inchiesta ministeriale sull'amministrazione passata e recente della Biblioteca.

Rispondendo ieri, alla Camera, alle interpellanze che rilanciavano queste richieste, Lorenzo Ornaghi si è espresso in modo assai evasivo. Se della commissione non ha parlato, circa la direzione della Biblioteca il ministro si è trincerato dietro l'esclusiva competenza della Congregazione dell'Oratorio. Quanto alla carica di consigliere, fonti vicinissime al ministro, riferiscono che Ornaghi avrebbe chiesto a De Caro di dimettersi, finendo poi con l'accettare l'ambigua e compromissoria formula dell'autosospensione, di cui ha riferito a Montecitorio. Ornaghi, invece, avrebbe potuto (dovuto, data la gravità della situazione) fare subito tre cose.

1) Revocare immediatamente la ratifica ministeriale alla nomina di padre Sandro Marsano quale Conservatore del Monumento nazionale dei Girolamini, da cui dipende la nomina del direttore della biblioteca;

2) Licenziare in tronco De Caro dal ruolo di suo consigliere (com'è possibile che a chi millanta pubblicamente titoli di studio — per tacere del resto —, sia consentito di continuare a consigliare un ministro, seppur nella grottesca modalità dell'« auto-sospensione», per definizione in ogni momento revocabile?);

3) Mostrare ai vertici romani della Congregazione dell'Oratorio che è nell'interesse dell'ordine, oltre che in quello dello Stato, nominare immediatamente un commissario straordinario, nella persona del più qualificato bibliotecario in forza al ministro. Il 2 dicembre del 2010, Lorenzo Ornaghi (in qualità di rettore della Cattolica, carica dalla quale è ora — casi della vita — autosospeso) pronunciò un discorso in cui disse che: «Essere 'guelfi', oggi, implica la consapevolezza che la nostra (dei cattolici, ndr) posizione di vantaggio culturale va di giorno in giorno consolidata. Consolidandola, saremo già pronti per quelle nuove 'opere' che — soprattutto per ciò che riguarda la rilevanza e la capacità attrattiva della nostra partecipazione alla vita politica del presente — il futuro prossimo già ci domanda». Per quanto assai singolare, si tratta di una posizione politica rispettabilissima. Ma ora, signor ministro, non è il momento di essere guelfi: è il momento di onorare il giuramento di fedeltà alla Costituzione repubblicana.

Schiacciata dal peso di 50 milioni di debito, la giunta comunale di Napoli ha firmato una transazione con Alfredo Romeo. Il gestore del patrimonio immobiliare, ma anche l'imprenditore al centro dello scandalo Global Service, condannato a due anni di carcere in primo grado. E sotto processo davanti alla Corte dei Conti per danni erariali al comune. A margine dell'accordo, l'imprenditore offre un suo progetto di riqualificazione del territorio attorno al suo albergo a 5 stelle. Una proposta che è anche una sfida per l'amministrazione paladina dei beni comuni.

PATRIMONIO NAPOLETANO

di Andrea Fabozzi

Il palazzo era già lì cinquant'anni fa, quando la celebre panoramica dall'alto che apre il film di Rosi Le mani sulla città portò al festival di Venezia gli orrori del sacco edilizio napoletano. Dal suo ufficio in quel palazzo, Achille Lauro guidava i destini della compagnia di navigazione e di tutto il resto. Adesso in quelle stanze c'è un vistoso ristorante, rispettosamente denominato Il Comandante, e tutto intorno un hotel a 5 stelle che ha piantato il super lusso nello scheletro del vecchio palazzo Lauro e nel cuore del quartiere del porto. L'hotel Romeo, di Alfredo Romeo, l'imprenditore al centro dello scandalo Global Service che due anni fa coinvolse la giunta regionale insieme a politici nazionali di destra e sinistra, è l'origine e la causa prima di un progetto di riqualificazione urbanistica piovuto sulla testa della giunta di Luigi De Magistris. Un progetto che Romeo ha voluto inserire in una transazione con il comune e che sta complicando la vita all'amministrazione napoletana. Fin qui attenta a presentarsi come paladina degli interessi pubblici e dei «beni comuni» e adesso condotta dai debiti sulla strada di una mediazione con un potere molto privato e per niente immacolato. Nel bene o nel male, è una storia il cui esito segnerà le ambizioni di una giunta che appena un anno fa ha iniziato la sua «rivoluzione» e che intanto, su questa vicenda, perde il consenso della parte sinistra del consiglio comunale guadagnando invece l'imbarazzante solidarietà della destra.

Una montagna di debiti

Dal 1998 il comune di Napoli affida ad Alfredo Romeo la gestione - dalla manutenzione alla riscossione degli affitti - del patrimonio immobiliare. Una ricchezza sconfinata stimata in due miliardi e trecento milioni di euro che però non riesce a produrre reddito. Al contrario, è Romeo che vanta crediti dal comune per qualcosa come 50 milioni di euro, metà dei quali rafforzati da decreti ingiuntivi. L'amministrazione De Magistris non riesce a pagare. Ha ereditato una situazione economica pesantissima, in più il governo ha ridotto i trasferimenti. Deve abbassare il debito senza tagliare i servizi, e non vuole aumentare le tasse locali. È un peso enorme che può affondare i sogni della nuova giunta. Ma è una situazione nota, conosciuta anche in campagna elettorale.

Il contratto di Romeo scade alla fine di quest'anno. Con lui l'amministrazione ha condotto una lunga trattativa, conclusa in un'ultima notte di confronto a fine marzo. C'è un accordo è c'è una delibera di giunta del 27 marzo che lo recepisce. Romeo rinuncia alle azioni legali contro il comune. Anche il comune rinuncia alle sue cause con le quali imputava a Romeo una cattiva gestione dei servizi. La transazione vale per tutti i debiti, anche per la metà sulla quale non c'è ancora un decreto di ingiunzione. Su 50 milioni Romeo fa uno sconto di 5, il resto il comune deve pagarlo. Anzi, ha già cominciato a pagarlo versando per la prima volta e tutti insieme oltre 16 milioni. Il resto a rate, la prima scade a giugno. Nel frattempo Romeo si «impegna ad accelerare» la vendita degli immobili comunali. L'unica fonte possibile di finanziamento per il comune. Del resto, richiama la delibera, lo prevede anche il decreto «salva Italia» di Monti. Bisogna vendere.

In realtà Romeo dovrebbe già farlo, in forza di un altro contratto con il comune. Ma dal 2004 a oggi risultano venduti solo 400 edifici su 2mila in vendita. Gli immobili comunali sono molti di più, circa 30mila. Nonostante i non ottimi risultati raggiunti fin ora, Romeo in forza del nuovo accordo potrà metterne in vendita altri tremila. Se tutto andrà bene, il comune - che fa fatica a censire le sue proprietà perché l'archivio aggiornato è in possesso di Romeo - con quei soldi dovrà pagare all'imprenditore i vecchi crediti.

La Corte dei Conti accusa

La transazione prevede che il comune continui a pagare Romeo fino a dicembre 2013, quindi per un anno oltre la scadenza del contratto. Per quella data potrebbe essersi definito il procedimento aperto contro Romeo dalla Corte dei Conti. L'imprenditore è accusato di aver creato al comune un danno erariale di 87 milioni di euro proprio nella gestione degli immobili pubblici. Lo si sospetta di aver chiesto in pagamento al comune percentuali calcolate sugli affitti accertati eppure mai riscossi. Anche per questo il comune si è rifiutato di pagare alcune fatture e ha citato Romeo in giudizio. Tutte cause, queste, che adesso saranno estinte per effetto della transazione. Non solo, secondo la Corte dei Conti a fronte di questo cattivo servizio Romeo ha ricevuto anche un incentivo dall'amministrazione pubblica (un milione e 200mila), in cambio Romeo ha chiesto il rimborso di esorbitanti spese legali (3 milioni).

La delibera proposta dall'assessore al patrimonio - la persona che ha condotto la trattativa con Romeo - è uscita dalla giunta comunale in maniera diversa da come era entrata. Modifiche sono state fatte nei settori di competenza dell'assessore all'urbanistica e dell'assessore al bilancio. Una parte dei crediti riconosciuta a Romeo è stata cancellata. Debiti che, spiega l'assessore al Bilancio Riccardo Realfonzo, «Romeo si era auto liquidato». Soprattutto sono stati messi da parte due progetti che Romeo chiedeva come contropartita. La possibilità di costruire un parcheggio sotterraneo da avere in gestione per 90 anni. E il via libera al suo piano di riqualificazione urbana che riguarda la cosiddetta «Insula Antica Dogana», un trapezio di 45mila metri quadri tra la piazza del Municipio e il porto che comprende all'interno il teatro stabile di Napoli e l'attraversamento pedonale verso il mare. Al centro c'è l'hotel Romeo.

Una condanna a due anni

Alla riunione di giunta del 27 marzo scorso che ha approvato la delibera di transazione, non era presente l'assessore alla trasparenza e sicurezza Giuseppe Narducci, ex sostituto procuratore a Napoli. È contrario all'accordo. Alfredo Romeo nel 2009 è stato in carcere per 79 giorni, accusato di aver pilotato dall'esterno l'appalto Global Service con il quale la giunta Iervolino intendeva dare in gestione a un solo soggetto la manutenzione di tutte le strade di Napoli. Un appalto che sebbene approvato anche dal Consiglio non andò mai in porto. L'inchiesta mise in luce il potere di persuasione di Romeo su mezza giunta comunale ma anche le sue relazioni con politici nazionali, da Rutelli a Lusetti a Bocchino. Da molte accuse Romeo è stato assolto in primo grado, ma non da tutte. È stato condannato a due anni per corruzione. Avrebbe promesso di assumere due persone segnalate dall'ex provveditore alle opere pubbliche in cambio di un interessamento all'affare Global Service. Ma la procura ha presentato appello e in questi giorni è in corso il processo di secondo grado. Il procuratore generale ha chiesto per lui la condanna a 4 anni e 4 mesi riproponendo l'accusa di associazione per delinquere. Come pena accessoria, in primo grado, Romeo è stato condannato all'interdizione a trattare con la pubblica amministrazione. Non potrebbe più avere rapporti con il Comune. Ma la pena è stata sospesa. Nel gennaio del 2009, quando era giudice del Tribunale del Riesame, Luigi De Magistris ha scritto le motivazioni in base alle le quali a Romeo fu confermata la carcerazione preventiva: «È divenuto nel tempo anche un po' il dominus dell'amministrazione comunale».

Un omaggio pericoloso

In una lettera spedita il 19 marzo al sindaco di Napoli, Alfredo Romeo spiega diffusamente il suo progetto per l'«Insula». Si tratta di un intervento di riqualificazione urbana di grandi dimensioni che prevede la pedonalizzazione di una vasta area che al momento è piuttosto degradata, pur essendo collocata in una posizione strategica. È la prima Napoli che incontrano i turisti che arrivano con le navi da crociera. Fino a non troppi anni fa era più nota per qualche locale di strip tease e per i rivenditori di contrabbando, memorie da vecchio porto. Il piano di Romeo prevede la pedonalizzazione dell'area e una sistemazione anche del lato a mare. Nel progetto si insiste sulla volontà di recuperare la memoria dell'antica piazza della Dogana, che fu però cancellata negli anni Cinquanta proprio dalla costruzione del palazzo Lauro, quello dell'hotel. Romeo assicura che l'opera non costerà nulla al comune, pagherà tutto lui «a titolo di omaggio alla città». Propone anzi un modello di finanziamento iper locale, un federalismo fiscale di quartiere. «Le risorse necessarie - si legge nel progetto - devono essere recuperate, value capture, nell'area stessa attraverso tasse di scopo, i servizi offerti ai privati e i flussi finanziari usualmente garantiti dagli enti locali. Le risorse acquisite nell'area devono restare nell'area per percentuali significative». «È un'ipotesi non conforme ai regolamenti comunali e alle leggi nazionali», taglia corto l'assessore Realfonzo. Eppure Romeo vuole sperimentare questo modello nell'Insula per «replicarlo a scacchiera in tutta la città». In più ci sarebbe il parcheggio.

«Io non sono contrario all'intervento dei privati - chiarisce l'assessore all'urbanistica Luigi De Falco che per aver espresso perplessità è stato pesantemente attaccato da Romeo sulla stampa locale - al contrario, dobbiamo andare verso una stagione di grande progettazione. Ma il contesto urbanistico lo definisce il potere pubblico. Il parcheggio contrasta con il piano regolatore. Il resto della proposta è un intervento condominiale non ben inquadrato». Spiega l'assessore che «tutto il progetto gravita attorno all'hotel, un hotel per il quale sono stati riscontrati abusi edilizi. Il progetto che ho visto prevede la rimozione degli abusi, ma quelli degli altri, anche quello di una caserma della Finanza». C'è in effetti un ordine di demolizione del 2011 per gli interventi abusivi che secondo gli uffici del comune sono stati realizzati all'interno dell'albergo. Sono aumentate le volumetrie all'ultimo piano e nel sotterraneo, è stato scavato un tunnel che porta a una «luxury spa». Battezzata «Dogana del sale».

La consultazione via sondaggio

«Si tratta di una sfida importante sul piano della "rivoluzione" che Lei auspica per dare un volto nuovo alla città», scrive compiacente Romeo a De Magistris. L'imprenditore, che ha fatto affari con tre diverse amministrazioni in città - a Roma la giunta Alemanno ha rinunciato all'accordo Global Service dopo l'apertura dell'inchiesta di Napoli - punta a continuare così. E infatti illustra al primo cittadino una procedura che, secondo lui, è perfetta per un'amministrazione che spinge tanto sulla condivisione delle scelte e sui beni comuni. «Per la prima volta al mondo - scrive Romeo, esagerando - un intervento sul tessuto urbano e sulla gestione di una parte del territorio comunale nasce da un processo di democrazia partecipata innescata da un sondaggio di opinione che raccoglierà le indicazioni degli utenti/cittadini sulle priorità da affrontare». La democrazia innescata da un sondaggio è certo un'idea originale, non proprio una prima mondiale perché, come spiega Renato Mannheimer incaricato dal sondaggio «abbiamo già fatto sondaggi del genere a volte su incarico delle amministrazioni». Stavolta il committente è proprio colui che vuole realizzare l'opera. E il sondaggio è già in corso. «Abbiamo ascoltato le persone che lavorano nella zona dell'Insula della Dogana - dice ancora Mannheimer - i cosiddetti opinion leader come il presidente dell'autorità portuale e il rettore dell'Università. Adesso stiamo per intervistare tutti gli abitanti della zona». Difficile però che possano avere un'idea precisa del progetto Romeo che si compone di 10 tomi e 27 grafici. «Li informeremo abbastanza compiutamente», promette il sondaggista.

Nella delibera con cui la giunta comunale ha approvato lo schema di transazione, è rimasta una traccia dell'Insula. È stabilito «l'interesse di massima del Comune alla proposta di intervento di valorizzazione». Comunque troppo per i consiglieri della lista Napoli è tua, la lista civica di De Magistris. In sei su sette si dichiarano «scandalizzati» dalla disponibilità verso Romeo «la cui complessa vicenda è paradigmatica di un non corretto rapporto pubblico-privato. La riqualificazione della città - aggiungono - non passa per accordi con imprenditori con cui secondo il programma elettorale dobbiamo interrompere ogni rapporto». Contro anche tutti i consiglieri della sinistra e due dell'Idv. Passasse in Consiglio, oggi, l'Insula avrebbe bisogno dei voti della destra. E li avrebbe. «È proprio il mio programma elettorale», ha detto lo sconfitto Gianni Lettieri.

DE MAGISTRIS

Valuteremo le proposte in base al piano regolatore

«È l'interesse pubblico»

intervista di Andrea Fabozzi

Sindaco Luigi De Magistris, quello con Romeo è il miglior accordo possibile?

«Non è un accordo, è una transazione giudiziaria. Romeo vantava un credito ingente verso il Comune. Non fare questa transazione avrebbe voluto dire non avere la disponibilità del patrimonio immobiliare, non poterlo collocare in bilancio. Sarebbe stato devastante, rischiavamo di non pagare gli stipendi.»

È però una transazione che fa risparmiare al comune solo il 10% dei debiti.

«Era indispensabile, su questo convenivamo tutti. Romeo partiva da una punteggio di sei a zero in suo favore, per usare un termine tennistico. Non è al sindaco che spetta fare la transazione, l'hanno fatta persone di cui ho la piena fiducia. Dunque sono certo che viste le condizioni di partenza sia la migliore possibile. Noi Romeo lo ereditiamo dalla giunta Iervolino, assieme a questa situazione disastrosa. L'accordo con Romeo scade a dicembre, stiamo già predisponendo la nuova gara. Sono molto soddisfatto di poter avere il patrimonio immobiliare a disposizione.»

È soddisfatto anche della proposta dell'«Insula Antica Dogana» che avanza Romeo?

«È solo una proposta, come tantissime che riceviamo. Non capisco la polemica, è eccessiva. Di ogni proposta si valuta innanzitutto la fattibilità in termini giuridici e urbanistici, lo faranno gli uffici. Solo dopo ed eventualmente si può fare una valutazione politica. Comunque la proposta dell'Insula non fa parte della transazione, non c'entra nulla. Dopo la transazione Romeo l'ha avanzata, ed è suo diritto anche perché lui è, lo si voglia o no, il nostro gestore.»

La Corte dei Conti lo accusa di aver gestito male, causando un danno economico al comune.

«Può essere inquisito, processato, condannato, resta il nostro gestore fino a dicembre. È quindi interesse del Comune avere da lui il massimo dei risultati possibili dalle vendite e dalle rivalutazioni immobiliari. E sulle sue proposte decidiamo noi.»

A lei la proposta piace? Romeo ha scritto che «il sindaco si è appassionato all'idea».

«Non ho visto la proposta. È all'attenzione dell'assessorato al patrimonio, faranno loro una prima valutazione. Ma è solo una questione ai margini della transazione, è molto più importante che vada in porto tutto quello che è previsto. È una grandissima operazione di vendita di edilizia residenziale pubblica, tremila alloggi. Significherebbe dare risorse certe a noi e la proprietà della casa ai ceti popolari.»

Anche dalla sua lista civica le dicono che è sbagliato fare accordi con un imprenditore che ha la storia di Romeo.

«Io sono un amministratore, non faccio dibattiti politici su questo. Così come non ho detto "non voglio avere rapporti con Berlusconi" quando lui era il presidente del Consiglio. La storia giudiziaria di Romeo io la conosco benissimo. E ripeto: non lo sto scegliendo io come gestore. Io sto solo facendo gli interessi della mia amministrazione e dei cittadini di Napoli. Per questo adesso mi aspetto che Romeo faccia bene il gestore e vada avanti con le dismissioni previste dalla transazione.»

Teme che un eventuale stop alla proposta sull'Insula possa condizionarlo?

«L'Insula non c'entra con la transazione. Questo dev'essere chiarissimo. Io su quel progetto non posso dire nulla, non l'ho visto. Quando lo vedrò, se qualcuno dovesse decidere di passarmelo, allora mi pronuncerò. Nel frattempo posso solo dire una cosa che vale per tutti i progetti, provengano da Romeo o dai centri sociali. Tutti saranno valutati sulla base della nostra linea politica e nel rispetto del piano regolatore generale. Se ci sono elementi di contrasto con il piano non passeranno mai.»

VEZIO DE LUCIA

«Una modello sbagliato di urbanistica contrattata»

Intervista di Andrea Fabozzi

«Con le elezioni i cittadini hanno scelto la difesa del piano, non si torni indietro. Il rischio è che il comune resti l'amministratore dei poveri», dice l'ex assessore di Bassolino. «Alla campagna elettorale di De Magistris non ho partecipato - dice Vezio De Lucia - perché non vivo a Napoli e mi tengo defilato». Ma l'urbanista, assessore della prima giunta Bassolino, non ha smesso di seguire con passione le vicende cittadine. Racconta: «Quando ho sentito dal nuovo sindaco che il primo punto del suo programma sarebbe stato la difesa del piano regolatore mi sono commosso».

Quel piano De Lucia l'ha firmato. E poi difeso, da vicino e da lontano. Fino a quando è toccato a Rosa Russo Iervolino condurlo in porto definitivamente. Per una città cresciuta sugli abusi, è stato il primo piano regolatore generale dal 1972. «Mentre sentivo con grande gioia De Magistris che diceva quelle cose - aggiunge De Lucia - avevo ben presente che nel frattempo il candidato di destra Lettieri si proponeva di "liberare la città dalla gabbia del piano regolatore". Per fortuna è andata bene. Il popolo ha scelto e ha scelto la prima ipotesi, De Magistris e il piano. Ma adesso quella scelta va rispettata da tutti».

L'ipotesi di accordo tra il Comune e l'imprenditore Romeo secondo lei non coincide con questa impostazione?

«Per niente. Sono nettamente contrario a un'ipotesi del genere. Che non è affatto una nuova forma di urbanistica partecipata, come dice chi vuole confondere le idee. È urbanistica contrattata della peggior specie. Il risultato è un patto leonino che imbriglia il potere pubblico, l'unico a cui spetta il governo dello spazio urbano. Mi torna in mente quello che dicevano i costruttori laurini ai tempi del sacco della città: "Il piano regolatore serve a chi non si sa regolare".»

Romeo dice: alla città non costa niente, se non mi volete vado altrove.

«Ma che se ne vada sul serio. Ponti d'oro. Forse il mio è "vecchiume intellettuale" per citare le sue espressioni sprezzanti, quelle che ha rivolto all'assessore De Falco che invece ha ragione e voglio difendere. Sul fatto poi che non ci saranno costi per la città mi permetto di avanzare dei dubbi. Intanto storicamente non è mai stato così, e poi il costo della valorizzazione di quell'area, il costo della trasformazione di piazza Municipio in un grande spazio aperto con da un lato la quinta di palazzo San Giacomo e dall'altro quella della Stazione Marina lo stanno sopportando le casse pubbliche. Mentre le rendite catastali di Romeo sono solo sue.»

Un imprenditore non è libero di fare una proposta? Tanto più che sostiene di aver trovato un sistema di auto finanziamento?

«Ci mancherebbe, faccia tutte le proposte che vuole. Ma non spetta a Romeo proporre soluzioni di questo livello. Un privato può proporre una cosa specifica, un cantiere edilizio. Non chiedere una delibera urbanistica. Non spetta a lui, la valorizzazione di uno spazio è la conseguenza della tutela. Quanto all'idea di finanziarsi con una quota delle tasse dei residenti è il frutto avvelenato del federalismo e della sussidiarietà. Se si estendesse a tutta la città vorrebbe dire che i quartieri ricchi avrebbero servizi di qualità e gli altri si dovrebbero arrangiare. La parola d'ordine del piano, unificare la città, così va a farsi benedire. E l'ambito di intervento del Comune si ridimensiona: resta il comune dei poveri e dei disgraziati.»

Non crede che questa amministrazione sia una garanzia in fatto di tutela dei beni comuni?

«Senta, io non sono un accanito sostenitore della filosofia dei beni comuni, e sto usando un eufemismo. Quando leggo del superamento della contrapposizione tra pubblico e privato resto diffidente, non capisco. Non vorrei che i risultati fossero quelli alla Romeo.»

CREMONA — Scavare argilla e «spianare» il Pianalto della Melotta che si estende per una decina di chilometri quadrati tra Soncino e Romanengo, nella campagna cremonese, equivarrebbe a «scrostare un importante affresco da una parete». Via la pittura, quel pezzo di muro perderebbe ogni valore. Via l'argilla, resterebbe solo un'immensa montagna di arida sabbia.

Questa metafora, cui ricorre il geologo e portavoce di Italia Nostra Giovanni Bassi, è il modo più efficace per introdurre l'incredibile vicenda di cui è oggi protagonista un sito che il geologo ed esploratore Ardito Desio, per primo nel 1965, mise in relazione con eventi sismici che interessarono la nostra regione nel Pleistocene, 400 mila anni fa.

Quel pianalto, che si eleva di alcuni metri rispetto alla pianura, si sollevò per uno scontro tra faglie sismiche. E gli strati superficiali e così antichi sono di tale importanza che l'Unione Europea nel 2000 lo inserì tra i siti di importanza comunitaria (Sic).

Un tempo terreno agricolo, il Pianalto è stato acquistato dai titolari di una fornace che un anno fa hanno chiesto, in extremis, di valorizzarlo come «giacimento» per una futura attività estrattiva di preziosa argilla, modificando il piano cave decennale in scadenza nel 2013. Sordi alla protesta degli ambientalisti e anche di un sindaco, uno soltanto, quello di Romanengo, prima la Provincia di Cremona, poi i consiglieri regionali, hanno spalancato le porte ad un piccolo ma significativo disastro ambientale. Che sarà mai, è arrivato a far notare il relatore della commissione regionale, il leghista Frosio, «grattare» via tre metri dalla sommità del Pianalto? Sarà che in quei tre metri sta incisa l'antichissima storia della terra lombarda, lacerata da terremoti, ben prima di quello devastante del 1802 o più recente di Salò del 2004. «Per tutelarlo nel tempo è stato inserito tra le riserve naturali — precisa Ferruccio Rozza, già direttore del Parco del Serio —. Il geosito è tutelato dalla legge regionale e dai Prg».

Quella miniera preziosa di argilla (si progetta di scavarne 3 milioni e mezzo di metri cubi nei prossimi dieci anni) sorge accanto ai comuni di Ticengo, Soncino e Casaletto di Sopra, che pare si accontentino, in cambio dello sfregio alla loro terra, di avere a disposizione due piste ciclabili e una rotonda. La commissione ambiente regionale ha detto sì alla maxicava di argilla (in questa zona, tra l'altro, è solo l'ultima di una serie). E le ore di vita per il geosito sembrano contate. Entro la fine del mese di aprile la palla passerà al Consiglio regionale per il voto che deve creare un varco nella legge 12 del 2005, la stessa legge che a quello stesso sito attribuiva così tanta importanza. Poco importa se quelle terre argillose e antiche custodiscano anche importanti tracce di associazioni botaniche, il castagno e la ginestra dei carbonai, tipiche di zone montane.

A combattere è rimasto un don Chisciotte, il consigliere del Pd, Agostino Alloni: «Chiederò il voto segreto in aula. Quel terreno ha quattro vincoli. È più esteso della Città del Vaticano. Farò appello alla coscienza dei singoli consiglieri». «Il tema della conservazione del Geosito della Melotta — continua Alloni — è ineludibile. È l'emergenza geologica più importante del territorio provinciale». La battaglia, insomma, continua. E nel caso in cui lo scempio venga confermato, gli ambientalisti hanno già deciso di ricorrere a Bruxelles o alla Procura.

Ponte Lambro è un quartiere di Milano fino a ieri noto come una zona da evitare. Se oggi ci passate scoprirete un moderno quartiere residenziale accogliente. Le famigerate «case bianche» non sono più tali: hanno colori allegri, coordinati e diversi; dalle facciate sono sparite (perché centralizzate) le mille parabole che denunciavano il recente carattere multietnico del quartiere; i piani terra una volta invasi di scritte e graffiti, sono puliti e ben tenuti; le aiuole fiorite e curate, gli spazi pubblici frequentati; i pochi servizi come la posta, il mercato comunale, il centro civico, la parrocchia, la scuola elementare sono animati da persone gentili e capaci. Insomma qualcosa è cambiato.

Le ragioni dello stigma del quartiere avevano molto a che fare con la disattenzione pubblica, sfociata più volte nel maltrattamento. All'origine vi erano i due grandi interventi di edilizia popolare realizzati in fretta e furia negli anni 70, occupati abusivamente, che si erano inseriti con violenza in un piccolo borgo di artigiani. A metà degli anni 80 viene chiusa la scuola media per insediarvi l'aula bunker per i processi di mafia (più sicurezza!). Per i Mondiali di calcio del '90 viene iniziata la costruzione di un grande albergo il cui scheletro abbandonato è rimasto per vent'anni come monito e vergogna per Milano. Più di recente un'area verde è stata trasformata in un deposito di autobus. Anche gli interventi di pregio come l'ospedale Cardiologico Monzino e il Centro di riabilitazione della Fondazione Maugeri sono atterrati come isole in un territorio ostile. Un territorio dove la città ha scaricato tutto ciò che non poteva mettere altrove.

La situazione inizia a cambiare a metà degli anni 2000 quando il Comune lancia il Progetto Periferie che prevede la realizzazione di un «laboratorio di quartiere». Le prime mosse producono ulteriore delusione: il promettente progetto di Renzo Piano per inserire nuove funzioni nelle case bianche si risolve nello svuotamento di 40 appartamenti che restano murati per anni: mancanza di fondi. Ma il coinvolgimento degli abitanti, la passione di chi si occupa del Laboratorio di quartiere e la volontà di riscatto producono risultati concreti: i programmi di riqualificazione degli stabili, la risistemazione dei servizi pubblici e il loro rilancio, la scelta dei colori delle case, vengono decise insieme agli abitanti. Negli ultimi mesi il processo di rigenerazione si è accelerato: è stato finalmente aperto il cantiere per la riutilizzazione degli appartamenti murati e l'assessore all'Urbanistica è riuscita a ottenere la possibilità di demolire finalmente entro l'estate ciò che resta dell'albergo dei Mondiali.

Si sta anche discutendo di un progetto modello che aumentando la popolazione consenta la riapertura della scuola media, la realizzazione di un parco e di nuove attrezzature capaci di attrarre utenti dall'esterno per integrare meglio il quartiere nella città. Ponte Lambro è una dimostrazione che risanare le periferie si può, che la rigenerazione ha soprattutto a che fare con la cura e la ricostruzione del senso di cittadinanza degli abitanti. C'è da augurarsi che l'esplosione che demolirà l'ecomostro seppellisca per sempre anche un approccio alla periferia come luogo della disattenzione e della semplificazione.

postilla

Tutto è bene ciò che finisce bene, e l’ultimo chiude la porta, recitava sui titoli di coda un vecchio cartone animato. Dato che però le politiche urbane non sono un cartone animato, forse val la pena ricordare qui un aspetto su cui Balducci sorvola, ovvero i veri motivi del degrado, che sono squisitamente spaziali. Certo molto ha pesato, come in tanti altri contesti periferici (milanesi e non) l’inserimento di quantità massicce di moderne abitazioni popolari in un contesto di ex borgo storico autonomo. Altrettanto ha pesato l’aspetto gestionale di quell’inserimento, lasciato al laissez-faire – per usare una eufemistica metafora – delle occupazioni abusive, del clientelismo familiare e peggio. Ma c’è una radice urbanistica, che più urbanistica non si può.

Tutti abbiamo prima o poi letto o sentito parlare del famoso caso della Bronx Expressway, quando nel secondo dopoguerra un prosperoso quartiere operaio e piccolo borghese è stato trasformato appunto nel famigerato “Bronx” delle leggende metropolitane e dei film semi-horror. Ecco, anche il caso del quartiere parzialmente descritto da Balducci è identico: si scaraventa brutalmente una infrastruttura stradale (nel caso specifico la Tangenziale Est) a costruire una cesura urbana invalicabile, senza né prima né poi tenerne alcun conto e attivare qualche genere di compensazione, preventiva o successiva. E i risultati sono poi gli interventi di emergenza tipo Protezione Civile, si tratti del fallito progetto architettonico di Renzo Piano o del più efficace laboratorio partecipativo di Balducci. Dato però che non è possibile attivare procedure di emergenza generalizzate per il territorio nazionale e internazionale, forse sarebbe meglio pensarci prima, anziché poi. Ad esempio oggi, quando il dinamismo autostradale di tutti i livelli istituzionali propone cinture e bretelle ovunque, progettate sul lontano tavolo di qualche ingegnere, e puntualmente scaraventate dove capita, a costruire i potenziali “Bronx” metropolitani del terzo millennio. Una buona notizia magari per gli operatori dell’emergenza. Un po’ meno per il resto del mondo (f.b.)

Al Ministro per i Beni Culturali, prof. Lorenzo Ornaghi

Gentile signor Ministro,

Le scriviamo a proposito dello stranissimo e increscioso affare che riguarda l’attuale direzione della Biblioteca Nazionale dei Girolamini a Napoli, una delle biblioteche storiche più gloriose d’Italia, nata dalla passione culturale della congregazione di San Filippo Neri. Per volontà di Giovan Battista Vico, in essa confluirono i libri di Giuseppe Valletta: pegno vivo di una stagione in cui Napoli era un crocevia del pensiero filosofico europeo e vera capitale della Respublica literaria universale.

Dopo le enormi perdite e trasformazioni di altri fondi librari avutesi nell’Ottocento, Napoli possiede ormai quest’unico esempio particolare di biblioteca pubblica di origine preunitaria, magnificamente coerente nell’architettura e nelle raccolte in essa ospitate: un organismo che un tempo si affiancava perfettamente alle biblioteche universitarie e alla Nazionale, così come avveniva e avviene in altre antiche capitali italiane, dove però le analoghe biblioteche di origine conventuale, principesca o erudita sono state meno decimate, e svolgono tuttora una funzione preziosissima (si pensi all’Angelica, alla Casanatense, alla Corsiniana e alla Vallicelliana di Roma, o alla Laurenziana, alla Marucelliana e alla Moreniana di Firenze).

Purtroppo le conseguenze drammatiche, mai piante a sufficienza, del terremoto del 1980, hanno contribuito massicciamente a far uscire i Girolamini dall’orizzonte culturale, e prim’ancora dal vissuto quotidiano, della cittadinanza napoletana, con i suoi numerosissimi intellettuali, studiosi e studenti. E ciò spiega perché, nella distrazione ormai consolidatasi, sia cominciata una vicenda come quella che è adesso in corso, e che siamo qui a denunciarLe.

Le chiediamo come sia possibile che la direzione dei Girolamini sia stata affidata dai padri filippini, con l’avallo del Ministero che ne è ultimo responsabile, a un uomo (Marino Massimo De Caro) che non ha i benché minimi titoli scientifici e la benché minima competenza professionale per onorare quel ruolo. E perché questa scelta sia stata fatta in un Paese e in un’epoca affollati fino all’inverosimile di espertissimi paleografi, codicologi, filologi, storici del libro, storici dell’editoria, bibliotecari, archivisti, usciti dalle migliori scuole universitarie e ministeriali, e finiti sulle strade della disoccupazione o della sotto-occupazione (call centers, pizzerie, servizi di custodia).

Le chiediamo inoltre di spiegarci come mai Marino Massimo De Caro, sebbene del tutto estraneo al mondo della biblioteconomia e della funzione pubblica, abbia avuto e abbia comunque curiose implicazioni con i libri, che lo portano tuttavia nel mondo del commercio, facendo emergere fin qui – sempre e soltanto – episodi degni di essere vagliati non da una commissione di concorso, ma dalle autorità giudiziarie (sia pure con l’auspicio dell’innocenza).

Le chiediamo inoltre come mai una figura dai trascorsi così poco chiari e poco chiariti sia stata messa a capo di un istituto che oggi come non mai ha bisogno, tutt’al contrario, non solo di una guida ferrea e irreprensibile, ma di un rappresentante – ben facile da trovare – che respinga ad anni-luce da sé i sospetti di ogni collegamento con quelle gravissime perdite più o meno recenti del loro patrimonio librario che i padri filippini per primi denunciano in questi mesi.

Le chiediamo infine, nel riconsiderare con molta attenzione la scelta di Marino Massimo De Caro come direttore dei Gerolamini (nonché come Suo consigliere personale), di voler creare una commissione pubblica d’inchiesta sull’amministrazione passata e recente di questa biblioteca, prima che la memoria storica dei Gerolamini rimanga affidata soltanto a una maestosa architettura ferita e umiliata, tragicamente solitaria nel cuore di una rete mondiale di traffici rapaci.

Francesco Caglioti, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Dipartimento di Discipline Storiche

Per sottoscrivere la petizione, inviate una mail con nome, cognome e istituzione di appartenenza all’indirizzo: lettera.gerolamini@libero.it

Da qualche decennio il racconto su Costa Smeralda si replica a traino della prima compiaciuta versione dei fatti: la favola del principe venuto per caso dal mare, che si innamora della Sardegna e via dicendo, che inorgoglisce i sardi ai quali il cuore batte forte se gli dici che l'isola è bella e ospitale.

E' forte il patto per non rompere l'incantesimo. Si sorvola sugli aspetti che possono guastare l' aura aristocratica, già messa a dura prova da mediocri billionaire. Meglio non fare troppo caso alla prosa dei bilanci: anche se Costa Smeralda come tutte le imprese si basa sui conti, che o tornano o non tornano. E che scompaiono sovrastati dal mito avvincente della vacanza (com'è in molta letteratura tra Otto e Novecento che ha come scenario i luoghi di villeggiatura). I conti sono da sempre dettagli marginali nelle rappresentazioni di Costa Smeralda. E i passaggi di mano – da Aga Khan a ITT, Starwood, a Colony Capital di Tom Barrack – sono abilmente presentati come normali avvicendamenti tra ricchi nella amministrazione della leggenda: i debiti ereditati sono il giusto fardello per chi assume il prestigioso compito. Non importa se chi lascia si dimentica di spiegare in modo circostanziato il bilancio in rosso.

E' antipatico – lo so – ricordare che Karim Aga Khan è stato costretto ad abdicare per un buco notevole nei conti, come hanno scritto i giornali all'epoca. Se ha perso il controllo di Costa Smeralda è perché Ciga Immobiliare era gravata da uno scoperto di molte centinaia di miliardi di lire, per cui il patrimonio è passato in maggioranza a ITT Sheraton con l'assistenza di Mediobanca. Nello sfondo la protesta dei soci Fimpar contro la gestione dell'impresa, culminata nella infuocata assemblea di Milano del febbraio 1994.

Parlarne non toglie nulla ai meriti del principe e ai bei ricordi, e l'appello accorato “Aga Khan ritorna”, rilanciato ciclicamente, è immemore – occorre dirlo – e per molti versi incomprensibile. Come il titolo “Sardus Pater” che la Regione gli ha consegnato l'anno scorso in una cornice surreale.

Tom Barrack esce oggi di scena con oltre 200 milioni di euro di debiti (e nessuno gli chiede di restare). L'emiro del Qatar Al Thani subentra, e soddisfa – pare – l'attesa di continuità almeno sul piano simbolico. Nuovo giro senza un chiarimento, non un piano industriale, per dirla con il linguaggio sindacale, ma neppure una lettera d'intenti, per ora. Alle istituzioni locali basta sapere che il nuovo padrone è uno degli uomini più ricchi del pianeta, confermando la tradizione; mentre c'è chi ricorda che il presidente della Regione Cappellacci è stato in Qatar con l'ex ministro degli Esteri nel novembre 2010.

La cifra da versare non è poca cosa, nonostante la solidità dell'emiro che difficilmente compra Costa Smeralda per amore, specie se si considera che il valore stimato del patrimonio è circa tre volte il debito accumulato. Una valutazione che si capirà col tempo: se e in che misura hanno influito gli ottimi indicatori sul ricavo medio per camera venduta e le voci sulle destinazioni urbanistiche che interpretano annunci, sentenze, impugnative del governo.

Sarebbe insomma interessante sapere se e come è stato rassicurato l'emiro che si impegna a ricapitalizzare. E da chi. E se per caso sia entrata nella trattativa la solita ipotesi di riavviare il ciclo edilizio nei 23mila ettari di proprietà. Se si disponesse di un' analisi del bilancio previsionale dell'impresa, svolta da specialisti, potremmo capire il senso del nuovo corso, che immaginiamo stia, grosso modo, tra buone intenzioni di potenziamento della ricettività e confuse promesse di modifiche del Ppr; quindi con il solito rischio che si chieda al paesaggio sardo di sacrificarsi per aiutare l'investimento del Qatar.

L'intervista inizia con un'ammissione irrituale, soprattutto se a farla è il più grande architetto italiano nel mondo, Renzo Piano, 75 anni: «Stavolta sono di parte».L'argomento è la costruzione della Città della Salute, il progetto da 330 milioni di euro che prevede di unire l'Istituto dei Tumori e il neurologico Besta, un'idea con ambizioni a livello europeo, su cui s'è aperto di recente un balletto delle aree tra Sesto San Giovanni e il Comune di Milano. La sfida è tra l'ex area Falck (il cui progetto di riqualificazione è firmato proprio dall'archistar) e la piazza d'Armi della caserma Perrucchetti. Ma alla fine di un'ora di chiacchierata, nel suo studio di Punta Nave a Genova, il messaggio di Renzo Piano va al di là di qualsiasi lotta di campanile e si concentra sulle caratteristiche che deve avere un ospedale modello: «Un mix di umanesimo e scienza, da realizzare in periferia e in mezzo al verde».

È un'idea nata undici anni fa, di questi tempi.«Il 21 marzo 2001 ho presentato al Sant'Anna di Roma, insieme con l'allora ministro della Salute Umberto Veronesi, il progetto per un cosiddetto ospedale modello».

Quali sono le linee guida che lo contraddistinguono?«Un ospedale non deve essere solo una macchina con determinate caratteristiche di funzionalità, ma anche un insieme di accorgimenti ambientali che aiutano il malato a stare bene psicologicamente».

In concreto?«Per ogni letto devono essere previsti complessivamente 200 metri quadrati. Per 700 letti, insomma, ci devono essere a disposizione almeno 140 mila metri quadrati di terreno».

I motivi?«Sono almeno due. Il primo: l'edificio ospedaliero vero e proprio deve svilupparsi orizzontalmente, in modo da limitare in altezza il suo numero di piani. L'obiettivo è realizzare una struttura che non sia mai più alta degli alberi che lo circondano. Di qui, il secondo motivo, che rende necessaria la disponibilità di grandi aree: tutt'intorno all'ospedale ci deve essere il verde».

Non è che la sua visione pecca di romanticismo?«Nient'affatto. L'altezza limitata è utile anche per fare funzionare meglio la macchina ospedaliera. È una questione, poi, scientifico-ambientale: il verde fa diminuire almeno di due gradi la temperatura nella calura estiva, l'effetto città si annulla, si respira meglio».

Duecento metri quadrati a disposizione per letto vuol dire un rapporto tra volume edificato e superficie del terreno davvero bassa.«La densità territoriale ideale nel caso di un ospedale è di 0,5 contro una densità territoriale di città come Milano, per avere un termine di confronto, di 5».

Ma un ospedale di solo quattro piani in altezza come dev'essere organizzato?«Il piano terra è dedicato alla vita quotidiana, con gli ambulatori, il day hospital, il front office per chi deve prenotare le visite e ritirare gli esami, i negozi. Al meno 1 c'è la diagnostica, con Tac, risonanze, eccetera. Al meno 2, l'impiantistica. Salendo, il primo e il secondo piano sono dedicati alle degenze, l'ultimo alle sale operatorie e alle cure ad alta intensità, tra cui la rianimazione».

Tutt'intorno, gli alberi.«Sono una condizione fondamentale per fare stare meglio i pazienti e gli operatori sanitari. Di qui l'esigenza di sfruttare le zone periferiche. Un ospedale modello è difficile farlo nel cuore della città proprio per una questione di spazi».

Ecco, allora, che spezza una lancia in favore dell'ex area Falck di Sesto San Giovanni, dove è stato annunciato un parco di 450 mila metri quadrati.«Attenzione, io non voglio innescare alcuna polemica. Penso, però, che la Città della Salute potrebbe essere il primo grande ospedale italiano a essere realizzato sulle linee guida studiate con Veronesi».

Sesto contro Milano?«È una contrapposizione che, a mio avviso, non esiste. Sesto è Milano, lì dove, proprio in quanto periferia, la città può giocarsi il futuro».

Entra in gioco, insomma, il tema della città metropolitana?«Io sono convinto che Milano sarà grande solo se accetterà di essere la grande Milano».

postilla

Per la salute, per la metropoli, niente meglio di un'architettura scintillante?

Qualche anno fa al sottoscritto venne conferito una specie di incarico per organizzare una specie di biblioteca (resto volutamente molto sul vago per non provocare inutili polemiche), a partire dai contenuti tematici naturalmente. La cosa curiosa, che provai spero con qualche successo a spiegare ai “committenti”, è che tutto il loro progetto di fattibilità pur non trascurando il “cosa” mettere in quella collezione, dava un ruolo anche decisionale assolutamente spropositato al “come” e “dove” collocarla. Il tutto nel vuoto quasi pneumatico su entità e qualità dei contenuti. In pratica, per organizzare da zero una biblioteca si dava carta bianca soprattutto a muratori e falegnami, considerandoli competenze assai più importanti, che so, del bibliotecario, dell’operatore culturale ecc.

Lo stesso avviene con queste dannatissime cittadelle, che siano della salute, della moda, dell’innovazione o chissà che altro. Da lustri sul loro contenuto tematico, la domanda sociale,le strategie di gestione, gli obiettivi di sviluppo, nessuno ci dice nulla, o quasi nulla. Si dà per scontata la grande utilità, anzi indispensabilità di ciascuna, fino a sfiorare e superare il ridicolo quando nel caso del Centro Ricerche Biomediche Avanzate di Umberto Veronesi si bollavano come “nemici della ricerca” tutti coloro che dubitavano di una certa localizzazione urbanistica dei metri cubi dentro cui metterla, la ricerca. Anche con quest’altra cittadella però (con buona pace di Renzo Piano o di qualche altro suo collega che sta pensando legittimamente a contenitori alternativi altrove) nessuno parla mai dell’obiettivo salute, ricerca, innovazione … E soprattutto del contestoo generale della città e del territorio, salvo quei riferimenti vaghi, alla dimensione metropolitana, persi dentro alle magnifiche sorti del bel progetto di architettura. Fino al punto da far pensare: che sia tutta una scusa, quella della nostra preziosissima salute? Dubbio quanto mai lecito, si spera (f.b.)

Si discute tanto, e tanto giustamente, di quanto sia diversa la prospettiva di affermazione di un diritto, rispetto al puro risarcimento monetario di chi ne è stato privato. La cosa si applica naturalmente al posto di lavoro, e anche agli spazi urbani soprattutto quando un proprietario deve rinunciare - in tutto o in parte - alla proprietà per qualche motivo di ordine superiore, o sedicente tale. E quando questo “proprietario” è collettivo? Chi o cosa lo tutela? A quanto pare proprio nulla: pare che valga l’esatto contrario dell’esproprio per pubblica utilità, e qui l’interesse “alto” è quello dell’operatore economico, quello da liquidare con somma da stabilirsi il collettivo. Bene. Anzi mica tanto bene. A Milano c’è un detto, ciapa e porta a ca’, dal senso variabile a seconda dei casi, e quello della Galleria Vittorio Emanuele è proprio un caso studio, il caso studio. Qualcuno vuole “rilanciarla”, la Galleria, con un meccanismo del genere.

I cittadini, e anche tanti altri, da generazioni la chiamano “salotto della città”, perché naturalmente quello spazio già a metà XIX secolo era stato concepito per essere molto più di un gruppo di vie coperte. Il tempo e l’immaginario collettivo hanno fatto il resto. Oggi nella Milano mediamente avara di spazio pubblico, dove piazze vere e proprie all’italiana latitano, i modelli moderni sono al massimo i soliti risicati fra un nodo di traffico e un ritaglio di area pedonale (quando va bene), la Galleria spicca per ruolo diretto e indiretto. Diretto perché appunto funge da salotto, indiretto perché in quel salotto convergono altre stanze e corridoi dell’appartamento collettivo, che altrimenti non avrebbero gran senso da soli. Se si scorre certa stampa internazionale però si scopre che dell’idea di salotto non frega niente a nessuno, quello è, dal concetto originario del progettista attraverso i decenni, un paradigmatico modello ideale di shopping mall. E qui tocca mettersi a pesare le parole, manco si fosse avvocati o giuristi.

Shopping vuol dire, terra terra, far la spesa, e il mall in sé e per sé altro non è che un percorso, un passeggio, magari pure con grande forza simbolica di identità nazionale, vedi quello di Washington, o quello originario di Londra, dove è pure nato in termine “mall”, da una cattiva pronuncia della parola italiana “maglio”. Ma le due parole unite necessariamente evocano il segregato scatolone suburbano. Che c’entra con la Galleria? Mica siamo in mezzo a uno svincolo sotto le insegne un po’ pacchiane! Invece c’entra parecchio, perché il concetto di shopping mall è una formula chimica che non ha affatto bisogno dei prefabbricati o di qualche ettaro di parcheggi per funzionare. Basta un altro ingrediente, molto meno vistoso, e si chiama correntemente management. Ovvero come quello spazio viene gestito, e prima ancora quali poteri sono conferiti a chi lo gestisce. A Milano questi poteri potrebbero cambiare bruscamente, e sorprendentemente. Oppure no: dipende.

Il cambiamento era nell’aria da parecchio. Con la giunta precedente di centrodestra si era arrivati anche, piuttosto spudoratamente, a un bel progetto di sostanziale scatolonizzazione del tutto. Ovvero chiudere materialmente, con la scusa dell’aria condizionata, tutti gli ingressi, e “rilanciare” così gli esercizi commerciali. Lì la differenza coi grandi contenitori suburbani si assottigliava giusto alla mancanza dello svincolo, ma forse col tunnel Linate-Expo l’impagabile duo Moratti-Masseroli pensava di risolvere pure quel problema! Adesso salta fuori che una delle punte di diamante del jet-set fighettone, nientepopodimeno che Versace, ha presentato al comune un suo piano di rilancio e riorganizzazione di tutto quel bendiddio commerciale. Giunta Pisapia-Tabacci un po’ meno spudoratamente incline a inclinarsi in certe direzioni, oggi, ma il dubbio è lecito: che si vuol fare? Che tipo di management dovrebbe imperare dentro le prestigiose arcate del Mengoni, ed estendere i suoi effetti anche fuori? That’s the question.

Si discute proprio in questi giorni ad esempio dell’opportunità o meno della presenza di esercizi fast food, e comunque di attività relativamente “povere” rispetto al potenziale prestigio e ritorno economico di quegli spazi. Spesso si parla di superfici lasciate al degrado, o occupate da enti e associazioni che magari meglio starebbero in altri posti, lasciando campo libero a chi può pagare di più. La collettività ci guadagna, almeno se facciamo i conti solo col borsellino. Ma se facciamo i conti in un altro modo? Viene in mente il caso recentissimo di Zuccotti Park, che ha messo il marchio su una intera stagione di conflitto sociale e culturale. Quella piazza era qualcosa di simile alla Galleria, dal punto di vista del management, anche se il percorso è del tutto opposto. Si tratta del genere di spazi, privati ma aperti alla frequentazione pubblica, faticosamente introdotti nelle norme urbanistiche di New York (e di altre città americane) esattamente per superare le gravi lacune di spazio collettivo determinate da un’urbanistica storicamente disegnata dalle forze del mercato. Detto molto in breve, in cambio di un incremento di cubature il costruttore si impegna a lasciare e mantenere un arretramento dell’edificio rispetto al filo stradale, o altro tipo di organizzazione spaziale, da adibire a luogo di incontro, sosta, eventualmente attrezzato con verde, posti a sedere ecc. È il tipo di luoghi dove l’umanità metropolitana, a volte con risultati sorprendenti, prova in qualche modo a recuperare ciò che la città-macchina del Novecento pare avergli provvisoriamente strappato. Ne ha costruito una vera e propria sinfonia William “Holly” Whyte nel suo commovente documentario The social life of small urban places. (1980). Ma privati erano e privati restano: appunto i meccanismi dello sgombero di Zuccotti Park ci hanno raccontato fin nei particolari come si esercita il management spaziale nei casi di conflitto fra uso collettivo e proprietà privata.

Lo shopping mall è da sempre terreno di scontro per l’equilibrio fra utenza pubblica e spazio privato, al punto che esiste una ricca letteratura sociologica e giuridica a proposito. E in tempi più recenti l’attenzione si è concentrata anche sui processi di cosiddetta “mallizzazione della città”, ovvero quando soprattutto nei progetti di riqualificazione urbana vie e piazze smettono di essere tali, trasformandosi nel corridoio di un centro commerciale, che per esempio può chiudere la domenica, o di notte, e dove per esempio un vigilante privato ha una specie di potere di polizia discrezionale conferito da un management privato. Esistono però molte sfumature possibili, per questo oscillare fra il modello della via o piazza pubblica e il cortile privato aperto discrezionalmente al pubblico tipo Zuccotti Park. E vengono stabilite in sostanza dalla convenzione. Pare che nel caso di Milano (almeno così si capisce dalle prime notizie sui giornali) non venga messa in discussione la proprietà pubblica della Galleria. I potenti mezzi della multinazionale Versace riverseranno le proprie aspettative di valorizzazione sui modi d’uso, sulla gestione dello spazio. E qui potrebbe cascare l’asino, o no.

I casi sono due: reintegro obbligatorio dei cittadini in caso di espulsione, oppure monetizzazione del licenziamento e semplice indennizzo, da calcolarsi a cura dell’Assessore al Bilancio. Forse qui si potrebbe capire meglio l’idea di città della nuova amministrazione.

(di seguito, la notizia)

Rossella Verga, Grandi manovre sul Salotto, Corriere della Sera Milano, 6 aprile 2012

Cogestione pubblico-privato, cessione del 49 per cento delle quote, conferimento dell'immobile a un fondo. I contorni dell'operazione in fase di approfondimento a Palazzo Marino non sono ancora chiari, ma quel che è certo è che il Comune ha ricevuto una proposta di valorizzazione della Galleria dalla Fondazione Altagamma, che riunisce i più grandi nomi della moda e del design made in Italy e di cui è presidente l'onorevole Santo Versace. La notizia anticipata dal quotidiano Milano Finanza è stata confermata ieri dall'assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, e ha lasciato di sasso molti esponenti della maggioranza. «È arrivata una manifestazione di interesse — ha spiegato l'assessore —. Il sindaco si è riservato di approfondire e la prossima settimana incontrerà i vertici di Altagamma».

Cogestione pubblico-privato, cessione del 49 per cento delle quote, conferimento dell'immobile a un fondo. I contorni dell'operazione in fase di approfondimento a Palazzo Marino non sono ancora chiari, ma quel che è certo è che il Comune ha ricevuto una proposta di valorizzazione della Galleria dalla Fondazione Altagamma, che riunisce i più grandi nomi della moda e del design made in Italy e di cui è presidente l'onorevole Santo Versace. La notizia, anticipata dal quotidiano Milano Finanza, è stata confermata ieri dall'assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, e ha lasciato di sasso molti esponenti della maggioranza. «È arrivata una manifestazione di interesse — ha spiegato l'assessore uscendo dalla giunta —. Il sindaco si è riservato di approfondire e la prossima settimana incontrerà i vertici di Altagamma».

Sullo sfondo il Salotto di Milano, valore stimato attorno al miliardo di euro, che potrebbe essere trasformato in una vetrina mondiale di cui il Comune manterrebbe la proprietà con il 51 % del bene (che è inalienabile). Per la cessione delle rimanenti quote, Palazzo Marino avrebbe un incasso previsto di 450 milioni di euro. Più 35 milioni all'anno per gli affitti.

L'idea, accennata da Versace a Tabacci sugli scranni del Parlamento («Siamo vicini di banco alla Camera», ha ricordato scherzosamente l'assessore), è stata riassunta in una lettera datata 15 marzo e protocollata a Palazzo Marino. La Fondazione Altagamma, attraverso il suo segretario generale Armando Branchini, propone al Comune di «realizzare un piano di merchandising che possa coinvolgere l'intera struttura edilizia, compresi i piani superiori attualmente destinati a residenze o uffici e, comunque, sottoutilizzati», per realizzare nel tempo un centro dedicato «a design, arte, cultura, moda, ristorazione e prodotti alimentari». Una vetrina dei prodotti italiani soprattutto per stranieri.

Come? La proposta è quella del «conferimento del cespite a fondo immobiliare gestito da una società di gestione del risparmio». Verrebbe inoltre predisposto un «piano economico finanziario che preveda il mantenimento perpetuo della titolarità della proprietà al Comune attraverso la proprietà della maggioranza delle quote del fondo».Altagamma suggerisce quindi di «classare» la minoranza delle quote del fondo immobiliare (49%) «offrendo prelazione agli attuali conduttori». Incasso previsto per il Comune, appunto, 450 milioni. Nel tempo, inoltre, si propone di «prevedere l'adeguamento dei valori locativi in modo da ottenere per il Comune, a fronte della sua quota di maggioranza, canoni di affitto pari a circa 35 milioni di euro all'anno». Secondo la Fondazione, l'operazione determinerebbe un «volano di sviluppo del turismo finalizzato allo shopping dell'alta gamma italiana nei mercati extracomunitari». Con evidenti ricadute economiche, creazione di posti di lavoro e di servizi.

«Ci sono dei pareri da richiedere alle sovrintendenze — frena l'assessore Tabacci — ma l'idea è che la Galleria sia un bene di somma importanza che deve essere valorizzato al servizio dei milanesi. Non è un'offerta vincolante, è una manifestazione d'interesse». E ancora: «Non siamo un bancomat che deve sempre intervenire per tappare falle e gestire perdite. Bisogna che gli asset siano gestiti al meglio perché la crisi morde». Nessun commento sulle polemiche politiche e le prese di posizione dei consiglieri sulla necessità di garantire in Galleria presenze storiche e attività a prezzi accessibili. «Non vedo cosa ci sia di politico — ha tagliato corto Tabacci — per me ci sono cose serie e cose meno serie. Le botteghe storiche vanno tutelate nelle zone storiche».

Primo. Occorre affermare con forza la funzione civile e costituzionale del patrimonio. Occorre dire che il patrimonio non è un lusso per i ricchi né è un mezzo per intrattenersi nel “tempo libero”, ma al contrario serve all’aumento della cultura ed è un importante strumento per la rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” e per l’attuazione piena dell’eguaglianza costituzionale. E occorre anche dire che, dunque, il suo fine non è quello di produrre reddito. Che, cioè, il patrimonio storico e artistico della nazione non è il petrolio d’Italia.

Secondo. Il patrimonio di proprietà pubblica deve essere mantenuto con denaro pubblico: esattamente come le scuole o gli ospedali pubblici. Fatti salvi i principi generali di competenza (per cui vedi il punto 7) potranno ammettersi al più concorsi privati di finanziamenti, di controllata finalizzazione costituzionale. Il patrimonio di proprietà pubblica deve rimanere tale: e sono dunque inammissibili le alienazioni di sue parti a privati. Esso non deve essere privatizzato nemmeno moralmente o culturalmente attraverso prestiti, noleggi, appalti gestionali esclusivi o cessioni temporanee che di fatto ne sottraggono alla collettività il governo, immancabilmente socializzandone le perdite (in termine di conservazione e di degrado culturale) e privatizzandone gli eventuali utili.

Terzo. Il patrimonio appartiene alla nazione italiana (e in un senso più lato esso è un bene comune all’intera umanità), e anzi la rappresenta e la struttura non meno della lingua. È per questo che il sistema di tutela deve rimanere nazionale e statale, e non può essere regionalizzato o localizzato.

Quarto. Il patrimonio è proprietà di ogni cittadino (non pro quota, ma per intero) senza differenze di credo religioso. Il patrimonio, cioè, è laico: ed è tale anche quello religioso e sacro. In altre parole, al significato sacro delle grandi chiese monumentali italiane si è sovrapposto un significato costituzionale e civile che, non negando il primo, impedisce alla gerarchia ecclesiastica di disporre a suo arbitrio di tali porzioni del patrimonio stesso.

Quinto. Il patrimonio che abbiamo ereditato dalle generazioni passate e che dobbiamo trasmettere a quelle future (e del quale dobbiamo render conto a tutta l’umanità) deve rimanere affidato ad una rete di tutelache obbedisca alla Costituzione, alla legge, alla scienza e alla coscienza, e non può cadere nella disponibilità delle autorità politiche che decidono a maggioranza. Ogni forma del plebiscitarismo ormai largamente invalso nel Paese appare, infatti, particolarmente pericolosa se applicata al patrimonio.

Sesto. Il patrimonio storico e artistico italiano è coesteso e fuso all’ambiente e va tutelato, conosciuto e comunicato nella sua dimensione organica e continua. È inaccettabile ogni politica culturale che si concentri sui cosiddetti capolavori “assoluti” (cioè, letteralmente, “sciolti”: da ogni rete di rapporti significanti) per espiantarli e forzarli in percorsi espositivi dal valore conoscitivo nullo. In altre parole, in Italia gli eventi stanno uccidendo i monumenti: e occorre, dunque, una drastica inversione di rotta. Nella stragrande maggioranza, le mostre di arte antica sono pure operazioni di marketing che strumentalizzano le opere, ignorano la ricerca e promuovono una ricezione passiva calcata sul modello televisivo: la discussione e l’adozione di un codice etico – e innanzitutto di una severa moratoria – per le mostre appare dunque urgentissima.

Settimo. È vitale affidare la tutela materiale e morale del patrimonio a figure professionali di sperimentata competenza tecnica e culturale. A seconda dei vari ruoli, esse sono quelle degli storici dell’arte, degli archeologi, degli architetti, dei restauratori diplomati dall’ICR e dall’OPD. Non ha invece alcuna identità specifica (né sul piano intellettuale, né su quello professionale) la figura del cosiddetto “operatore dei Beni culturali”.

Ottavo. Occorre dunque mettere radicalmente in discussione l’invenzione dei corsi e delle facoltà di Beni culturali. Non solo la loro esistenza è intenibile sul piano intellettuale (qual è infatti lo statuto epistemologico dei cosiddetti Beni culturali?), ma sostituendo agli storici dell’arte-umanisti figure di “esperti” o “tecnici” tali corsi e facoltà pongono le premesse per l’azzeramento della tutela e dell’attribuzione di senso culturale al patrimonio stesso. Occorre invece ribadire con forza che la funzione primaria degli storici dell’arte come umanisti è quella di favorire “la riappropriazione critica degli spazi pubblici e dei beni comuni”. Combattere, cioè, perché il tessuto storico delle nostre città torni ad essere lo strumento di crescita culturale garantito dalla Costituzione, e sfugga all’alternativa tra la distruzione e la trasformazione in un parco di intrattenimento a pagamento.

Nono. È necessario restituire dignità e utilità intellettuali alla presenza della storia dell’arte sui media italiani: che attualmente è dilagante, quanto mortificante. Chi può dire di aver appreso, tramite un giornale italiano, qualcosa circa l’attualità della ricerca storico-artistica? Quale saggio, idea, prospettiva scientifica, scuola di pensiero ha potuto trovare uno spazio per presentarsi al grande pubblico? Il novanta per cento degli articoli che trattano di storia dell’arte si occupa di mostre essendone, di fatto, una pubblicità più o meno occulta: gli sponsor comprano sempre più spesso intere pagine dei grandi quotidiani italiani in cui pubblicare stralci del catalogo accanto ad interventi promozionali di noti storici dell’arte. La storia dell’arte rappresenta, di fatto, il fronte più avanzato della mutazione mediatica del dibattito culturale in marketing occulto.

Decimo. Il fronte più importante nella battaglia per la salvezza del patrimonio storico e artistico italiano è quello che passa nella scuola. È vitale difendere e anzi ampliare l’asfittico spazio concesso negli orari scolastici a quella “storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole aver coscienza intera della propria nazione” (la citazione è da Roberto Longhi).

Chi davvero ha a cuore il futuro delle opere d’arte, e della natura e della storia che le hanno generate – cioè chi ha a cuore il futuro del nostro Paese , deve lottare perché le prossime generazioni escano dall’ analfabetismo figurativo che ha afflitto quelle precedenti, e che ha sempre reso cieca la classe dirigente della Repubblica.

* Tq è un movimento di lavoratrici e lavoratori della conoscenza trenta-quarantenni

Quel decalogo per evitare il marketing culturale

Salvatore Settis – la Repubblica, 5 aprile 2012 (m.p.g.)

La demeritocrazia che da decenni governa il destino, e il declino, di un’Italia assai distratta ha regole di ferro. Fra queste: avanti i mediocri, quelli bravi si arrangeranno all´estero; meglio rifriggere banalità condivise, pensare è noioso; largo ai vecchi, i giovani possono aspettare. Perciò leggendo il manifesto TQ "sul patrimonio storico-artistico della nazione italiana" (da oggi disponibile integralmente sul loro sito, n.d.r.) c’è di che stupirsi. Giovani di trenta-quarant’anni che hanno scelto per parlare d’Italia la prospettiva della loro generazione; anzi, i «non pochi storici dell´arte che hanno deciso di aderire a TQ» che convincono gli altri a firmare un manifesto come questo; addirittura, un testo che non ricicla sciocchezze sui "beni culturali" come "petrolio d’Italia", da "sfruttare" fino ad esaurirlo come fosse un combustibile, ma proclama che «il fine del nostro patrimonio non è di produrre reddito», ma di esercitare un’alta funzione civile, di «rappresentare e strutturare, non meno della lingua», la comunità nazionale.

Si sente vibrare molta indignazione e non poca speranza, nelle parole dei TQ. Indignazione (altra singolarità) rivolta in primo luogo verso la corporazione stessa degli storici dell’arte, corresponsabili dell’«inesorabile degrado del ruolo della storia dell’arte nel discorso pubblico italiano», di aver trasformato la loro disciplina in «un fiorente settore dell’industria dell´intrattenimento» prestandosi alla «mutazione mediatica del dibattito culturale in marketing occulto» di mostre ed eventi, anzi dei loro sponsor. Speranza, invece, nella nascosta forza di una disciplina ancora capace di trovare in se stessa le ragioni di un forte ruolo civile, la dignità di una disciplina umanistica, lo status di «sapere critico, strumento di riscatto morale, di liberazione culturale e di crescita umana».

Quello degli storici dell’arte, suggerisce il "manifesto TQ", non è il silenzio degli innocenti. Infatti essi non tacciono, anzi sono impegnati in un vano chiacchiericcio intorno a mostre spesso inutili o dannose, ad attribuzioni implausibili, a "scoperte" mediatiche che rallegrano sindaci e assessori, ma reggono lo spazio di un mattino. Stanno alla larga invece (con pochissime eccezioni) da temi scottanti come il degrado della tutela, la prevaricazione dell’effimero (le mostre) sul permanente (musei e monumenti), la morte annunciata del Ministero dei Beni culturali per mancanza di fondi e di turn over, ma anche per l´espediente, già troppe volte ripetuto, di una sede vacante non di nome, ma di fatto.

Il decalogo che conclude il "manifesto TQ" parte da affermazioni di principio, ma contiene anche importanti proposte. Sua stella polare è l’art. 9 della Costituzione, che congiunge la promozione della cultura e della ricerca con la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Ma dobbiamo constatare, scrive amaramente il manifesto, che oggi «la Repubblica né promuove né tutela». Per invertire la rotta, occorre che gli storici dell´arte si impegnino a rilanciare il ruolo della disciplina nella società. Occorre che «la funzione civile e costituzionale del patrimonio» diventi, come in passato, cardine della cultura e della vita della polis: poiché il patrimonio italiano, «coesteso e fuso all’ambiente» e al paesaggio, ne costituisce la più alta cifra simbolica, deposito di memorie e laboratorio del futuro.

Occorre rafforzare e non smantellare il sistema pubblico della tutela, mantenendolo in capo allo Stato per assicurare, secondo Costituzione, identità di criteri in tutto il territorio nazionale. Occorre agire sulla scuola, «ampliando l’asfittico spazio concesso a quella storia dell´arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole avere coscienza intera della propria nazione», come scrisse Roberto Longhi. Occorre «mettere radicalmente in discussione i corsi di Beni Culturali», che hanno provocato un pericoloso divorzio della storia dell’arte da altre discipline umanistiche. Occorre, insomma, porre rimedio all’«analfabetismo figurativo che ha afflitto le generazioni precedenti e ha sempre reso cieca la classe dirigente della Repubblica».

E´ importante che siano i giovani di TQ a rimettere con determinazione sul tavolo temi come questi. Per chi ha orecchi da intendere, essi dovrebbero servire da contraltare al banale economicismo che considera sinonimi "valorizzazione" e "sfruttamento", e nel patrimonio vede non una risorsa etica e civile, ma un salvadanaio da svuotare. Discorso contrario non solo alla Costituzione e a una secolare tradizione civile e giuridica, ma anche a una concezione meno stantia dei meccanismi socio-economici. Dalle elaborate misurazioni di due economisti americani, David Throsby e Arjo Klamer, risulta che il patrimonio culturale ha due componenti: una è il valore monetario, ma assai più importante è la componente immateriale o valoriale, per definizione fuori mercato.

Dalla conservazione del patrimonio e dalla sua conoscenza derivano benefici stabili per la società nel suo complesso, che accrescendo la coscienza civica e il senso di coesione dei cittadini finiscono col tradursi anche in sviluppo economico. In senso analogo ha argomentato Amartya Sen, pensando alla sua India dove il recupero di storia e arte è andato di pari passo con l’eccezionale rilancio economico. Ma queste idee di innovativi economisti del sec. XXI mostrano, come meglio non si potrebbe, quanto fosse lungimirante la nostra Costituzione del 1948: l’art. 9, infatti, sancisce «la primarietà del valore estetico-culturale», che non può essere «subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici», e pertanto dev’essere «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale», come ha ripetutamente affermato la Corte Costituzionale. Toccherà ai trenta-quarantenni, ma anche a quelli ancor più giovani, mostrare che i Costituenti avevano ragione.

Siamo in tanti – curiosi di sapere come andrà a finire – a seguire con attenzione le poche notizie che filtrano sulla revisione del piano paesaggistico regionale. Molti i pregiudizi dopo le dichiarazioni di guerra al Ppr e la mano pesante usata nell'approvazione di leggi (piano-casa e sul golf) rintuzzate dal governo Berlusconi – nientemeno ! – e dal governo Monti. Non è servito il prologo “Sardegna nuove idee” pensato per sollevare una cortina fumogena, e neppure le acrobazie dei pubblicitari sono rassicuranti. Siamo e saremo molto diffidenti. Capita spesso di sentirlo: “io non sono razzista, sono pacifista, non sono omofobo, ma...” ed è quel “ma” che dice tutto, ben più di ogni premessa.

Chi ha letto i comunicati di Cappellacci è avvertito: sa che c'è di mezzo il linguaggio doppio della politica e che l' espressione “coniugare ambiente e sviluppo” – uffa – lascia ampi gradi di libertà ed è tutt'altro che tranquillizzante. Colpisce ora il nuovo corso affidato all'assessore all'urbanistica che annuncia il gran finale. I toni sono a tratti così apertamente distanti dagli antefatti da sembrare il frutto di un ravvedimento profondo. Ma occorre leggere bene, tra le righe. Nel sito della Regione, in una nota del 27 febbraio, si giura fedeltà ai nostri valori, e «di tutelarne le peculiarità storiche modulandole con la modernità e le innovazioni tecnologiche legate al sistema edilizio». Molto disinvolta l'investitura dell'edilizia chiamata a modulare la storia, ma aspettate. In un'altra nota – La Nuova Sardegna del 21 marzo – dopo la solita tiritera ecco il “ma”, anzi due “ma”. Dichiara l'assessore «che il punto di partenza è la tutela dell'ambiente e del paesaggio ma (primo “ma”) non in modo conservativo assoluto ma (secondo “ma”) con una politica di valorizzazione e fruizione del territorio anche in una logica di sviluppo economico». Chiarissimo: la tutela indifferibile – secondo il Ppr – per ampie categorie di beni paesaggistici dovrà assecondare il mercato.

Sono però passati tre anni dalla notifica sull'avvio della revisione del Ppr e nulla si è visto di concreto. Nel frattempo il movimento che si oppone a questa idea ha ottenuto risultati insperati che la politica dovrebbe valorizzare. Una serie di provvedimenti – su Tuvixeddu e di recente su Capo Malfatano – dimostra la impudenza e insieme la debolezza delle argomentazioni di chi in questi anni ha pensato di dare la spallata ad ogni vincolo paesaggistico. Ma non sarà facile sbarazzarsi di principi confermati in numerose sentenze di tribunali amministrativi. E le mediazioni al ribasso non saranno possibili (anche questo ce lo chiede l'Europa!).

Il governo del territorio è stato principale argomento di scontro in Sardegna e occorre riconoscere che il tempo comincia a dare torto agli “ambientalisti col ma”, anzi con sequele di “ma” (sedicenti ambientalisti che ci mettono poco ad accettare in riva al mare o ai bordi di un complesso archeologico ignobili speculazioni edilizie). Ricordiamolo tenendo nello sfondo le proposte di visita del Fai a beni paesaggistici che fortunatamente resistono, che affiorano dove non ti immagini ma rischiano di essere travolti o resi irriconoscibili.

Con tutte queste risorse patrimoniali, con queste figure resistenti occorre confrontarsi, sapendo che da come si tratta il territorio oggi dipende il modo con cui ci presenteremo alle generazioni future. Serve a questo punto un confronto netto, possibilmente senza preamboli ingannevoli. Cosa sottintendono i “ma” lo abbiamo capito, più o meno.

Sulla base delle informazioni in nostro possesso in merito alle intenzioni di modifica del Piano di Governo del Territorio da parte della nuova Giunta, il Piano che ci si avvia a discutere in Consiglio mostra significativi miglioramenti su temi importanti (la tutela del Parco Sud, la riduzione del dimensionamento del piano, l’incremento della residenza sociale, l’eliminazione di alcuni ambiti di trasformazione irrealistici e di alcune infrastrutture stradali dannose). Purtuttavia, esso contiene ancora elementi di possibile criticità, in particolare per quanto riguarda la tutela della città esistente, che riteniamo possibile correggere in fase di approvazione.

Il nuovo Piano conserva inoltre i gravi vizi di fondo derivanti dall’impostazione data dalla precedente amministrazione; alcuni dei quali è impossibile emendare in questa fase, ma che riteniamo necessario sinteticamente evidenziare in vista di una prossima, indispensabile, revisione generale del PGT.

Comprendiamo molto bene la difficoltà della situazione ed i vincoli sui tempi; abbiamo tuttavia molti dubbi sulla possibilità di procedere all’approvazione del Piano senza ripubblicazione; e riteniamo francamente inaccettabile non aver potuto prendere visione del documento completo emendato dalla Giunta, tavole comprese, in tempo utile. Uno strano modo di procedere che darà la stura prevedibilmente a un severo contenzioso.

ALCUNE CORREZIONI CHE RITENIAMO IMPORTANTE APPORTARE IN FASE DI APPROVAZIONE DEL PIANO

Piano delle regole – Norme tecniche di attuazione

1) art. 4.6 - Definizione di S.L.P: La definizione di Superficie Lorda di Pavimento, parametro fondamentale per la determinazione del carico urbanistico, è affetta da una serie di esclusioni già oggi rilevante (porticati, androni, spazi comuni, spazi privati ad uso pubblico, ecc.), tale da raddoppiare e più la superficie effettivamente realizzata rispetto a quella assentita. Al fine di limitare gli effetti di densificazione incontrollata e snaturamento tipologico della città si richiede di:

− (punto 4.6.m) inserire nel computo della S.L.P gli edifici adibiti a servizi, ad eccezione solo di quelli pubblici su aree pubbliche . Si chiede inoltre di verificare e correggere il testo delle norme al fine comunque di evitare l’attribuzione di ulteriore capacità edificatoria trasferibile a tutte le aree occupate da servizi privati, trattate come se fossero inedificate; o addirittura lo spostamento su nuove localizzazioni dei servizi esistenti, con riuso delle volumetrie per funzioni urbane private. Ove prevalesse tale interpretazione o formulazione della norma l’effetto sarebbe inevitabilmente quello di un diluvio di intasamenti, sopralzi e densificazioni destinato ad abbattersi dovunque nel tessuto urbano esistente, e soprattutto nella sua parte centrale più appetibile.

− punto 4.6.h) inserire nel computo della S.L.P i box per autoveicoli realizzati fuori terra, almeno per una quota pari al 50% della loro superficie oltre il primo piano f.t.; scopo di tale proposta di modifica è di mettere un freno alla realizzazione di garage all’interno degli edifici esistenti e al trasferimento della volumetria abitativa in nuovi edifici realizzati nei cortili;

− Si richiede inoltre di valutare l’opportunità di introdurre un limite massimo (indicativamente 150%), al rapporto tra l’effettivo sviluppo della superficie lorda di pavimento di tutti i piani agibili e la S.L.P. convenzionalmente definita; oltre tale limite detta superficie dovrebbe concorrere al calcolo della S.L.P. convenzionale. 


2) Modificare l’articolo 7 comma 5 delle Norme di attuazione del Piano delle regole, limitando la trasferibilità dei diritti edificatori a porzioni omogenee del territorio comunale, che dovranno essere definite, in modo da prevenire abnormi processi di addensamento centrale. 


3) Gli ambiti di trasformazione urbana (ATU) comprendono alcune aree che costituiscono opportunità uniche di riconformazione e riqualificazione della città. Soprattutto Bovisa/Farini/Lugano, Piazza d’armi/ Perrucchetti/Ospedale militare e gli scali di Porta Romana/Vigentina e Porta Genova/San Cristoforo, devono diventare grandi aree pubbliche di verde naturale ed attrezzato. La loro estensione può infatti permettere a centinaia di migliaia di milanesi di conquistare per la prima volta la fruizione diretta di grandi spazi a parco. Viceversa le densità edilizie ipotizzate, benché ridotte, non permetterebbero di raggiungere tale obbiettivo. Riteniamo che nessun eventuale ritorno economico per il Comune giustifichi il sacrificio delle ultime grandi opportunità di penetrazione di verde nella città, per di più su aree già di proprietà pubblica. Si chiede pertanto un ridimensionamento insediativo assai più consistente su dette aree, riducendo (indicativamente e mediamente) a meno della metà le nuove edificazioni proposte, ed incrementando almeno del cinquanta per cento il verde. In alternativa il piano potrebbe contenere un semplice rinvio di ogni determinazione quantitativa sulle aree ad una successiva precisazione, contestuale a quella degli aspetti qualitativi e convenzionali. Si chiede inoltre che le procedure attuative su queste aree siano affiancate da un costante processo di partecipazione dei cittadini, compresa l’eventualità di indizione di referendum consultivi sui progetti. Per quanto riguarda lo scalo Farini si richiede l’impegno a prevedere il ripristino del giardino all’italiana del 1500 di Villa Simonetta, gravemente mutilato con la realizzazione dello scalo ferroviario (per l’attuazione di questo importante progetto è sufficiente aggiungere un’area di circa 7000 mq all’attuale superficie del giardino)

4) art. 10.4 - Edilizia bioclimatica e risparmio energetico Si ritiene che il premio volumetrico del 15% per interventi di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo finalizzato al miglioramento energetico sia incompatibile con la definizione di interventi conservativi. Si richiede quindi che

− sia chiarito in modo esplicito che il premio sarà concesso in modo graduale in base alla verifica del rispetto di soglie elevate di prestazione energetica che saranno definite nel regolamento edilizio (nel comma 4 il riferimento al regolamento edilizio è generico)

− l’eventuale utilizzo di detto premio sul fabbricato stesso dovrà essere oggetto di un progetto di ristrutturazione edilizia soggetto alle relative procedure autorizzative e regole morfologiche e tipologiche.

5) art. 11 - Attuazione del piano:
Si ritiene necessario rafforzare il controllo pubblico sugli interventi che possono influire significativamente sulla forma e sulla qualità della città esistente, in modo particolare di quella storica. Si richiede pertanto che siano soggetti a Piano attuativo e non a modalità diretta convenzionata:

− la realizzazione di interventi che superano l’indice fondiario di 7 mc/mq(art. 11.3.1.c)

− l’utilizzo di diritti perequati e benefici volumetrici nei NAF (art. 11.3.1.d)

6) art. 13 – Disciplina ( Nuclei di antica formazione -NAF) – Si richiede che: Siano soggetti a Piano attuativo e non a modalità diretta convenzionata:

− gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 13.3.c e 13.3.3d

− gli interventi di cui all’art. 13.4.

7) art. 15 – Disciplina ( Ambiti contraddistinti da un disegno urbano riconoscibile - ADR) - Si richiede che:siano soggetti a Piano attuativo e non a modalità diretta convenzionata i casi di cui all’art.15.7

8) Art 18 (e Documento di Piano). 
Si propone di integrare la Carta di sensibilità del paesaggio corredandola di schede che evidenzino i caratteri paesaggistici irrinunciabili di cui tenere conto nella progettazione degli interventi e nella formulazione dei pareri da parte della Commissione per il Paesaggio, il cui ruolo risulterà fondamentale per la reale gestione del paesaggio. Tale integrazione dovrà essere proposta o in sede di controdeduzione o, al più tardi, in forma di variante da adottarsi immediatamente dopo l’entrata in vigore del piano. Inoltre si ritiene necessario che nei nuclei di antica formazione l’apparato conoscitivo non si limiti all’aspetto descrittivo, ma individui i caratteri irrinunciabili e fornisca indirizzi di gestione, richiamati nella normativa. 
L’apparato conoscitivo dovrà essere esteso progressivamente non solo per singoli edifici ma dovrà individuare in tutto il territorio anche ambiti e contesti a caratterizzazione unitaria per configurazione o rappresentatività dello sviluppo storico della città; anche tale integrazione dovrà essere effettuata al più tardi in forma di variante da adottarsi immediatamente dopo l’entrata in vigore del piano.

9) Miglioramenti si ritiene possano anche essere apportati alla definizione delle quote e delle modalità attuative del social housing, per garantirne l’effettiva rilevanza sociale e la concreta realizzazione, in quanto la sola cessione delle aree appare del tutto insufficiente nell’attuale contesto di mancanza di finanziamenti pubblici per la costruzione.

10) Si evidenzia infine una generale scarsa intelligibilità della normativa, che genera frequenti dubbi interpretativi; ne conseguono gravi rischi nella fase di applicazione del piano. Italia Nostra è disponibile a dettagliare ulteriormente tale considerazione di carattere generale.

ALCUNI IMPEGNI DA ASSUMERE PER UN PROSSIMO ADEGUAMENTO DEL PIANO

Il Pgt di Milano ha un limite di origine difficilmente correggibile in sede di controdeduzioni: aver completamente trascurato i rapporti con l’hinterland, dove vive tre quarti della popolazione metropolitana. Chiediamo perciò che sia esplicitato l’impegno ad attivare rapidamente un processo di consultazione metropolitana sistematica per definire scelte urbanistiche e di investimento condivise a livello di area vasta. L’avvio di tale processo, e la riserva su future modifiche del piano per effetto della sua più estesa ottica territoriale dovrebbe essere esplicitati, anche ai fini degli effetti giuridici, negli elaborati fondamentali del Piano ed in particolare nelle Norme del Documento di Piano

Lo stralcio, in fase di controdeduzioni, di gran parte delle scelte infrastrutturali, e il loro rinvio in sede di pianificazione di settore non consente la verifica di coerenza tra sviluppo del sistema insediativo e di quello infrastrutturale, che dovrebbe invece costituire la base essenziale di qualsiasi piano. Inoltre mette in forse la garanzia di un adeguato supporto di infrastrutture rare alla competitività del sistema territoriale, particolarmente grave nel momento in cui si affacciano ipotesi di privatizzazione di aziende strategiche, come la SEA. E’ dunque essenziale che le scelte infrastrutturali principali vengano reintrodotte nel PGT e non rinviate e demandate al Piano urbano della mobilità (PUM), almeno nei loro lineamenti essenziali, eventualmente mediante una variante al PGT da adottare subito dopo l’approvazione del Piano

Alla positiva notizia dell’intenzione della Giunta di cancellare le potenzialità edificatorie degli Ambiti di trasformazione di interesse pubblico generale (ATIPG) e degli Ambiti di trasformazione periurbani (ATPU), dovrebbero accompagnarsi indicazioni specifiche per le aree del Parco sud interessate dai futuri PCU (Piani di cintura urbana). Si chiede che il PGT contenga precise dichiarazione degli intenti del Comune di Milano per ciascuna di queste aree, da sottoporre poi al confronto e alla verifica con i profili di tutela di competenza del Parco Sud, ovvero che tali indirizzi siano precisati mediante una variante da adottare subito dopo l’approvazione del Piano.

Il tema della riqualificazione delle periferie e del recupero di molte aree della città che presentano problemi di degrado non era adeguatamente affrontato nel piano adottato. Anche su questo punto si chiede di avviare, immediatamente dopo l’approvazione, un apposito processo di specificazione del Piano.

Appare opportuno che gli interventi per l’Expo non viaggino su strade separate da quelle della pianificazione urbanistica e della tutela ambientale. In particolare suscita dubbi di sostenibilità ambientale ed economica l’ipotizzata nuova Via d’acqua, rispetto alla quale pare assai più significativa la riqualificazione ed il recupero delle vie d’acqua storiche.

Milano, 28 marzo 2012

C'erano tre grandi progetti per il 2015 a Milano. L'Expo, la Grande Brera e la Città della salute. L'Expo va avanti, anche se il taglio dei fondi ne ha ridimensionato in parte le ambizioni. La Grande Brera sopravvive, anche se è difficile immaginare con 23 milioni di veder conclusa un'operazione che ne costa più di 100. La Città della salute è su un binario morto: tramontata l'ipotesi del polo pubblico d'avanguardia con ospedale Sacco, Istituto dei tumori e Neurologico Besta, si è sciolto il consorzio, con i costi a carico del contribuente per un milione e mezzo di euro.

Prendiamo quest'ultimo caso per capire come mai è nata e poi sfumata un'operazione da più di 600 milioni destinata a rafforzare i primati di Milano nella sanità, settore in cui la città è all'avanguardia sia nel pubblico che nel privato. E facciamoci un paio di domande, visto che di Città della salute ancora si parla, da realizzare all'interno dell'area Falck di Sesto San Giovanni o nella piazza d'Armi della caserma Perrucchetti a Milano.La prima: il progetto, sia pure ridimensionato, resta una necessità per pazienti e operatori della sanità? La seconda: perché la discussione su un nuovo ospedale si fa sull'area, su questo o quel terreno, e non sulla funzione, sul luogo ideale, sull'esigenza di cambiare in meglio una struttura che si occupa di malati? In sostanza: se si deve costruire un nuovo ospedale si faccia perché serve e nel posto più idoneo, evitando il sospetto di favorire questo o quel costruttore.

Istituto dei tumori e Neurologico Besta per quello che rappresentano nella sanità milanese e nazionale meritano un altro tipo di approccio: se l'esigenza è quella di fare un salto qualitativo anche nelle strutture (la qualità delle cure è indiscussa) si spieghi meglio la questione alla città che da anni assiste a un'infinita partita di Monopoli: un giorno spunta il capannone dell'ex Maserati, un altro la Bovisa, poi Rogoredo, Santa Giulia, via Ripamonti, Sesto, una caserma, la Bicocca. Non si ripeta quel che è successo con la Città della salute: si va, non si va, ci sono i soldi, no, lo Stato si tira indietro, la Regione si divide sul coordinamento dei lavori, il Comune non garantisce il collegamento con il metrò... Il progetto Città della salute, nonostante i mille dubbi su uno spostamento da una parte all'altra di Milano, era valido perché aveva una peculiarità: creava un polo scientifico e didattico unico in Italia. Sarà così anche con il nuovo (eventuale) trasloco a Sesto o nella caserma Perrucchetti?

È questa la domanda da fare a Regione e Comune. L'istituto di via Venezian, dove è nata l'oncologia italiana, ha bisogno di una nuova sede o basta ammodernare quella esistente? Il centro neurologico Besta, ospitato in una struttura vecchia e fatiscente, deve essere ricostruito altrove o si può ampliare sui terreni vicini? Il braccio di ferro che la politica ha avviato sulle due diverse destinazioni sembra più una lotta di campanile che una disputa su funzioni, costi e servizi, per dare risposte adeguate ai cittadini. Ai grandi progetti serve una grande e onesta regia: un investimento di 330 milioni la richiede, Milano se l'aspetta.

Non solo archeologi. E neanche solo architetti. Per salvare Pompei arriverà anche un prefetto. Avrà il compito di vigilare che vengano ben spesi i tanti soldi che l'Europa ha destinato per il restauro e la salvaguardia del sito. E di assicurare che sui 105 milioni appena approvati dalla Commissione di Bruxelles non possa mettere le mani la camorra.

Si conosce anche il suo nome: Fernando Guida, attualmente viceprefetto, responsabile dell'ufficio che al ministero dell'Interno si occupa dello scioglimento dei consigli comunali condizionati dalla criminalità.

L'annuncio verrà dato giovedì prossimo a Napoli in un incontro al quale parteciperanno tre ministri, Lorenzo Ornaghi, Fabrizio Barca e Anna Maria Cancellieri, oltre al prefetto del capoluogo campano, Andrea De Martino, e alla Soprintendente Teresa Cinquantaquattro. La quale, però, assicura di non sapere nulla della decisione. E cade letteralmente dalle nuvole. "Giovedì firmerò con il prefetto di Napoli un protocollo d'intesa sulla legalità", dice Cinquantaquattro, "ma di prefetti ad hoc per Pompei nessuno mi ha mai detto niente". La voce di un prefetto che controllasse gare d'appalto, procedure di assegnazione dei fondi e sicurezza dei cantieri circolava da tempo. Si era parlato anche di un coordinamento fra alti funzionari. Ma la conferma che l'orientamento sia invece quello di designare un prefetto con competenze specifiche su Pompei arriva da fonti molto autorevoli del governo. Troppi appetiti potrebbero scatenarsi intorno a quei soldi e l'Europa non tollererebbe che su una questione del genere la camorra possa prevalere. Quando alcuni mesi fa ha visitato Pompei, il Commissario europeo Johannes Hahn è stato esplicito: eserciteremo un monitoraggio costante sul modo in cui verranno spesi i soldi.

La Soprintendenza di Napoli e Pompei è stata tenuta fuori dalla decisione. E non è questione di poco conto, visto che sarà comunque quell'ufficio a dirigere i restauri e a gestire gli appalti. L'esclusione della Soprintendenza pesa anche per l'esperienza del passato. Nel sito archeologico si sono infatti succeduti prima una serie di direttori amministrativi, definiti anche city manager, e poi alcuni commissari. Il primo commissario fu proprio un prefetto, Renato Profili, al quale è succeduto Marcello Fiori, che proveniva dalla Protezione civile e le cui iniziative hanno lasciato una scia di polemiche e di inchieste giudiziarie. Fra questi funzionari e la Soprintendenza i rapporti non sono mai stati semplici. L'allora soprintendente Piero Guzzo arrivò al punto di presentare le dimissioni per i contrasti insanabili con il direttore amministrativo Luigi Crimaco.

Ora la partita è delicatissima. E lo sblocco dei fondi, già annunciato nei mesi scorsi, non scioglie i nodi, che invece si aggrovigliano. Pompei vive in una condizione di perenne emergenza. Gran parte di via dell'Abbondanza, sulla quale si affacciano le domus colpite da crolli, è chiusa. E in questa zona persiste il pericolo che cedano i muri sui quali preme un terrapieno. Nel frattempo prosegue lo stillicidio di danni alle strutture e di distacchi di intonaco. Nelle scorse settimane sono stati messi a punto cinque bandi di gara per altrettanti progetti di restauro. Ma il ministro Ornaghi, in visita agli scavi, ha detto che i primi cantieri si apriranno soltanto in autunno. A Pompei sono arrivati anche nuovi funzionari, sia archeologi che architetti. Ma il loro inserimento non è stato semplice, a causa del fatto che pochi di essi avevano approfondite conoscenze del sito.

Mentre Pompei rischia di perdere pezzi ogni giorno che passa, fioccano i progetti nelle aree fuori dello scavo. L'ultimo è patrocinato dal sindaco Claudio D'Angelo. È una specie di archeo-park, la ricostruzione fedele di alcuni edifici pompeiani, il foro, le terme, le domus. Una Pompei finta, una patacca estesa su oltre un chilometro quadrato nella zona a nord del sito, verso il Vesuvio, una zona che nel rapporto stilato tempo fa dall'Unesco veniva indicata come assolutamente inedificabile. D'Alessio è andato anche in America a raccogliere fondi (sembra ci vogliano 15 milioni). Così se Pompei crolla è pronto il suo clone.

Filippomaria Pontani è nato a Padova nel 1976. Ha studiato filologia classica alla Normale di Pisa, e ora la insegna all'Università di Venezia. Marino Massimo De Caro è nato a Bari nel 1973. Ha studiato economia e giurisprudenza all'Università di Siena, ed è diventato vicepresidente esecutivo di Avelar Energia. E’ balzato agli onori delle cronache per i rapporti con Dell'Utri: tra commerci di libri antichi e partecipazione in affari petroliferi venezuelani. In un paese normale, questi due coetanei avrebbero, a questo punto della loro vita, scarse possibilità di incontrarsi. Nel nostro, invece, si sono conosciuti a Napoli pochi giorni fa. Perché? Perché De Caro dirige, da qualche mese, la Biblioteca dei Girolamini. In qualunque paese del mondo occidentale, un istituto culturale dell'importanza dei Girolamini sarebbe guidato da un bibliotecario superqualificato.

Ma noi preferiamo spedire nei call center i più brillanti addottorati in paleografia o biblioteconomia, e affidare i Girolamini al protagonista di alcuni illuminanti paragrafi dell'appena uscito Sottobosco. Berlusconiani, Dalemiani, Centristi uniti nel nome degli affari, di Ferruccio Sansa e Claudio Gatti (Chiarelettere 2012). Ne cito un solo passaggio: " Il 27 dicembre 2007 De Caro si lamenta di un capitano dei carabinieri del Nucleo del patrimonio artistico di Monza che lo sta "scocciando" per un libro acquistato in un'asta pubblica in Svizzera. E’ indagato per ricettazione, spiega, e la cosa ha bloccato la sua nomina a console onorario del Congo perché il ministero degli Esteri non sta concedendo il nullaosta. Il 24 gennaio 2008 De Caro ritorna sulla questione con Micciché, il quale promette di aiutarlo: "Stai tranquillo che Aldo ti segue. Devo mandare una persona a Milano... dalla giudice". Il 17 luglio 2009 De Caro potrà finalmente rilassarsi perché il sostituto procuratore di Milano Maria Letizia Mannella, "rilevato che l'incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche", chiede il non luogo a procedere. In altre parole, visto che l'oggetto della presunta ricettazione è scomparso e che le tre persone coinvolte si accusano a vicenda, la pm finisce con l'archiviare il tutto.

A nominare De Caro direttore è stata la Congregazione dell'Oratorio, cui sono affidati il Monumento Nazionale e la Biblioteca Statale dei Girolamini. Ma passa ogni voglia di farne carico all'ingenuità di quei buoni padri, quando si apprende che "il dott. Marino Massimo de Caro è stato chiamato a collaborare con il Ministero dei Beni Culturali dal Ministro Giancarlo Galan in data 15 aprile 2011 in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura, dell'editoria nonché delle tematiche connesse all'attuazione della normativa concernente l'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e al loro corretto inserimento nel paesaggio. Il Ministro Lorenzo Ornaghi in data 15 dicembre 2011 ha confermato l'incarico al dott. Marino Massimo de Caro, come ha fatto con altri consiglieri del Ministro Galan, in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura e dell'editoria" (così una comunicazione dell'Ufficio stampa Mibac). Impresa della cultura: forse si allude ad iniziative come quelle promosse da De Caro a Napoli, vale a dire invitare a parlare il responsabile stampa della prelatura dell'Opus Dei, o profanare la tomba di Giovan Battista Vico nella speranza di trovarne le ossa. Davvero Ornaghi ricaverà preziosi consigli da questo prezioso consigliere.

Il professor Pontani, per studiare un prezioso codice del '400 testimone in parte unico di opere di Gemisto Pletone, ha dovuto per mesi faticosamente concordare un appuntamento (solo altri 5 studiosi, stando al blocco delle richieste, sono arrivati a consultare manoscritti negli ultimi 6 mesi). Dieci anni fa, invece, tutto era stato semplice e lineare, e soprattutto - mi scrive Pontani - "non si vedevano pile di libri del '600 gettate in terra". Mercoledì anche io ho visitato la Biblioteca, dove mi ero recato nell'ingenua speranza di concordare l'accesso all'archivio di un mio allievo, dottorando della Federico II. E lì non solo ho appreso che il tetto pericolante non consente l'ingresso all'archivio (che però non viene, curiosamente, messo in sicurezza), ma ho avuto la stessa esperienza di Pontani: quella di trovarmi in una biblioteca esposta ad un grave pericolo, e popolata da presenze incongrue (la più innocua essendo quella di un pastore tedesco che dissemina ossi ed escrementi nelle sale monumentali). Si tratta di un nuovo, triste episodio della travagliatissima storia recente del meraviglioso complesso oratoriano conficcato nel cuore di Napoli.

Nel 1962 due padri Filippini vennero condannati a quattro anni per l'incredibile saccheggio degli arredi della chiesa e del convento: un tesoro di oreficerie, arredi, paramenti allora valutato un miliardo di lire. Oltre ad una grande quantità di libri. E proprio quelle razzie di volumi (che l'attuale conservatore padre Sandro Marzano mi ha detto esser continuate fino al 2007: ma con quali denunce?) potrebbero essere invocate per fornire alibi alla deriva attuale. Alla fine degli anni settanta, dopo una lenta rinascita, Gerardo Marotta ottenne dal governo di collocare nel convento la sede delle attività e dei libri dell'Istituto di studi filosofici. Sarebbe stato troppo bello: come scrisse Luigi Firpo in un commovente articolo uscito sulla "Stampa" nel 1981, "ci si è messo di mezzo il terremoto". Trasformato in un ricovero per gli sfollati di un palazzo vicino, il complesso dei Girolamini vide la sua sorte segnata per altri decenni. Fino ad oggi, quando torna di terribile attualità l'invocazione con cui Firpo chiudeva il suo articolo: "si allontanino i cattivi custodi, e si dia credito e spazio alla Napoli seria e civile che chiede per sé e per tutti noi un meno avvilente destino".

La figura chiave di questa storia è il nuovo direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini: il ‘professore’ Marino Massimo De Caro, che incontro assorto nel maneggio dei volumi più pregiati della collezione, tra pile di libri preziosi incongruamente poggiate sul pavimento, lattine vuote di Coca cola che troneggiano sugli antichi banconi, un’avvenente ragazza ucraina a condividerne l’alloggio conventuale.

La biblioteca (pubblica fin dal Seicento e ora statale: 150.000 volumi, in massima parte antichi) è una delle più importanti d’Italia. Ma oggi è chiusa. Perché dev’essere riordinata, dice padre Sandro Marsano, il giovane sacerdote oratoriano, che ti accoglie, gentilissimo ed entusiasta, nel meraviglioso complesso secentesco . Perché accadono cose strane, dice invece la gente che abita intorno al convento: che ti parla di auto che escono cariche, nottetempo, dai cortili della biblioteca.

Comunque stiano le cose, è incredibile che a dirigere uno dei santuari della cultura italiana sia uno degli esemplari più pregiati della fauna del Sottobosco esplorato da Ferruccio Sansa e Claudio Gatti nel libro uscito proprio ieri. Lì De Caro è il mediatore nell’affare del petrolio venezuelano, «uno dei casi più clamorosi di alleanza tra berlusconiani e dalemiani». E se i contatti con Massimo D’Alema sono stati preparati dalla sua carriera di portaborse parlamentare in area postcomunista, all’intima amicizia con Marcello Dell’Utri De Caro arriva grazie alla sua passione vera, quella per i libri antichi. Non che si tratti di un interesse culturale, intendiamoci: la cultura, notoriamente, fattura.

De Caro è titolare di una libreria antiquaria a Verona, ma soprattutto è assai attivo nel commercio internazionale: meglio se di alto livello e di memoria corta. In una delle sue conversazioni telefoniche con Aldo Miccichè (ex democristiano, condannato per bancarotta fraudolenta e latitante in Venezuela) intercettate dalla procura di Reggio Calabria, e pubblicate da Sansa e Gatti, De Caro si lamenta perché i carabinieri del Nucleo di tutela per il patrimonio artistico gli stanno addosso per la ricettazione di un prezioso esemplare dell’Hypnerotomachia Poliphili (un incunabolo del 1499) sottratto ad una biblioteca milanese e venduto nel marzo del 2005 alla Mostra del libro antico sponsorizzata da Dell’Utri. L’indagine finirà nel nulla, ma solo perché la Procura di Milano è costretta a chiedere il non luogo a procedere visto che «l’incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche».

Forte di questo curriculum immacolato, De Caro approda al Ministero dell’Agricoltura, come consigliere per le bioenergie di Giancarlo Galan. Ma la svolta surreale avviene quando questi, passando ai Beni culturali, se lo porta dietro e infine lo lascia in eredità al suo remissivo successore Lorenzo Ornaghi, che lo nomina prontamente suo consigliere diretto per l’editoria (e il suo mercato, immaginiamo). Così il ministro del patrimonio del governo supertecnico dei competentissimi professori si fa consigliare da una specie di Lavitola del libro.

Ma quando fai notare a padre Marsano che affidare la preziosissima biblioteca della sua Congregazione a uno come De Caro sarebbe più o meno come mettere un piromane a capo della Forestale, il religioso risponde – non so se candido o diabolico –, che ben altre sono state le insidie patite dai Girolamini, visto che tra il 1960 e il 2007 sarebbero spariti ben 6000 volumi. Sparizioni che nessuno ha curiosamente mai denunciato: e la cui evocazione suona come una colossale assoluzione preventiva. Insomma: cosa succede davvero nella biblioteca dove andava a studiare Giovan Battista Vico? È tutto sotto controllo, o siamo in un film dell’orrore? Girolamini o Girolimoni? La risposta è forse negli ossi di Vico: metafora perfetta di una verità che si sdoppia, tra Pirandello e Sciascia. Vico è il nome del pastore tedesco che gira per le sale monumentali della biblioteca con un immenso osso di prosciutto nelle fauci: quasi Almodóvar. Ma le ossa di Vico sono anche quelle del grandissimo filosofo, che si dice siano state riesumate qualche mese fa nella chiesa dei Girolamini, e che ora sarebbero affidate ai Ris di Parma: per capire se se ne può fare un culto, o un business.

A sciogliere dubbi e metafore varrà solo un’agguerrita ispezione del Ministero dei Beni culturali, o meglio un’indagine dei vecchi amici del direttore, i carabinieri del Nucleo di tutela. Ma se Ornaghi continuerà a farsi consigliare da De Caro e a far finta di non vedere, tra poco sarà davvero impossibile distinguere tra gli ossi di Vico (il cane) e le ossa di Vico (il filosofo). E Napoli morirà ancora un po’.

Anche Giorgio Napolitano ha aderito al “manifesto per la cultura” del Sole 24 ore. E nel messaggio inviato in occasione della XX Giornata Fai di Primavera, il Capo dello Stato non solo ha sposato la linea di fondo del “manifesto” (quella, tautologica, per cui la ‘cultura fattura’), ma ne ha esplicitato e radicalizzato il nucleo più controverso. «Se vogliamo più sviluppo economico, ma anche più occupazione – ha scritto il Presidente – bisogna saper valorizzare, sfruttare fino in fondo la risorsa della cultura e del patrimonio storico-artistico».

Sfruttare fino in fondo il patrimonio storico-artistico: difficile trovare una formulazione più estrema della cosiddetta dottrina del petrolio d’Italia, o dei giacimenti culturali, nata nell’Italia craxiana degli anni ottanta del secolo scorso. Ed è anche difficile trovare un’accezione del verbo ‘sfruttare’ che, per quanto metaforica, sia compatibile con la funzione costituzionale del patrimonio (che è quella di produrre non sviluppo economico, ma cultura). Secondo il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, sfruttare vuol dire «privare un terreno degli elementi nutritivi», «usare un giacimento minerario in modo da ricavarne il massimo profitto economico», «depredare una regione delle sue risorse naturali», «usare in modo esclusivo», «vivere alle spalle di qualcuno», «usare o abusare di qualcuno o qualcosa». Ciascuna di queste accezioni richiama alla nostra mente centinaia di aggressioni, morali e materiali, al patrimonio storico e artistico della nazione perpetrate in nome della sua messa a reddito. Ed anche l’accezione meno negativa («ricavare il massimo profitto da ciò che si ha a disposizione») è davvero poco edificante, se accostata, non so, a Michelangelo o alla Valle dei Templi.

Con questo messaggio, Napolitano ribalta dunque la dottrina quirinalizia sul patrimonio, che nel 2003 era stata messa a punto (su frequenze, quelle, perfettamente costituzionali) dal filologo classico ed economista Carlo Azeglio Ciampi: «La cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni. La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e diffusione. Lo ha detto chiaramente la Corte Costituzionale in una sentenza del 1986, quando ha indicato la “primarietà del valore estetico-culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici” e anzi indica che la stessa economia si deve ispirare alla cultura, come sigillo della sua italianità».

Lo «sfruttare fino in fondo» di Napolitano converte il patrimonio in un mezzo piegato al fine del reddito, e dunque smentisce questo illuminatissimo discorso, precipitandoci in un mercatismo senza se e senza ma che appare perfettamente in linea con la politica del governo che il Capo dello Stato sta, virtualmente, guidando.

«Fino a quando gli oggetti dell’istruzione pubblica verranno considerati come gioielli, come diamanti dei quali non si gode se non per il prezzo del loro valore?». Lo scrive Antoine Quatremère de Quincy. Nel 1796.

L'articolo 44, in discussione al Senato il 28 marzo, indebolisce la legge Urbani del 2004 che definiva "insanabile" qualunque intervento non autorizzato su edifici di valore storico e ambientale. Il nuovo testo prevede invece una parziale depenalizzazione. Le associazioni ambientaliste esortano il Parlamento a disinnescare gli effetti del provvedimento.

Il titolo è rassicurante: “Semplificazioni in materia di interventi di lieve entità”. Ma l’articolo 44 del nuovo decreto legge (semplificazioni e sviluppo), che sarà discusso nuovamente da mercoledì prossimo al Senato, nasconde scappatoie per delitti ambientali: una sorta di condono mascherato che non sembra affatto di lieve entità. Già passato alla Camera indenne, l’articolo 44 – sufficientemente fumoso da sembrare, a prima vista, del tutto innocuo – dovrebbe rendere più semplici gli adempimenti riparatori qualora sia stato commesso un abuso edilizio in aree di particolare valore paesaggistico e su beni di importante valore storico culturale. Ma più che semplificare, l’articolo apre la strada a nuovi abusi che saranno puniti meno severamente

Le modifiche introdotte si riferiscono a una legge dello Stato – innovativa in materia ambientale – che nel 2004 fu firmata dall’allora ministro per i Beni culturali Giuliano Urbani e nella quale il legislatore aveva definito assolutamente inestinguibili e insanabili tutta una serie di abusi che violavano le leggi di tutela del paesaggio, anche urbano, e dei beni culturali di primaria importanza pubblica. In sostanza, se spostare una finestra può adesso costare solo un’ammenda e il piccolo abusivo se la può cavare con una sanzione amministrativa, se mette mano a modifiche non autorizzate di un edificio tutelato per il suo valore culturale – modifica ad esempio la merlatura di un castello – rischia sino a quattro anni di carcere. Che ora potrebbero sparire, se non in casi di estrema gravità.

Di fatto, se un bravo avvocato vi aiuta decifrare la gimcana tra commi, regolamenti e riferimenti giuridici, l’articolo depenalizza tutta una serie di reati che fino ad ora la legge sanzionava anche con il carcere senza la condizionale. “Delitti ambientali” che potrebbero diventare semplici abusi da sanzionare. Il problema non è tanto se si sposta una finestra o si cambia il caminetto di casa propria, ma se si mette mano con operazioni speculative su un castello, un edificio storico, un paesaggio (in molti casi sono vincolate anche le piante di alto fusto). Quel che molti temono è che adesso, con la modifica del Codice urbani, sarà meno rischioso compiere abusi edilizi gravi su beni tutelati e quindi in qualche maniera collettivi anche se, ovviamente, l’ultima parola spetta alle interpretazioni dei tecnici comunali, delle Soprintendenze e, infine, dei magistrati. Non è che la nuova normativa faccia carta straccia della vecchia legge. Ma l’articolino inserito nel decreto “lenzuolo” delle semplificazioni (che dopo il Senato tornerà alla Camera) apre la porta a una nuova stagione di abusi: possibili ecomostri sanzionabili primi col carcere, adesso riparabili col portamonete.

Il mondo degli ambientalisti italiani, ma anche i magistrati che si occupano di tutela ambientale, temono non tanto un colpo di spugna sul passato, ma una nuova era di sfregi all’ambiente, al paesaggio, agli immobili di pregio del Belpaese.

Guido De Maio, presidente titolare della III sezione penale di Cassazione (qui l’intervista a De Maio) esprime la «preoccupazione di coloro che hanno a cuore le sorti del patrimonio artistico e culturale del nostro Paese». Rosalba Giugni, presidente di MareVivo e una delle prime ambientaliste italiane a essere venuta a conoscenza dell’articolo nascosto nelle pieghe del decreto, aggiunge carne al fuoco: «In un momento in cui i nostri Beni culturali e ambientali sono sotto attacco, un peggioramento della legge o un allentamento della maglia che tiene a bada gli abusi viene visto dal mondo ambientalista con grande timore. Ci auguriamo che ci sia un grande dibattito parlamentare e ci auguriamo un’attenzione particolare da chi ama il nostro maggior gioiello e il nostro maggior bene primario. I paesaggi, i centri storici, le coste e la natura».

Fortunatamente anche qualche parlamentare ci ha fatto caso. Anzi, per la verità uno soltanto in maniera orizzontale. Il senatore dell’Idv Francesco Pardi, che ha presentato, in Commissione Affari costituzionali, un emendamento che chiede la soppressione dell’intero articolo. In cui, secondo il parlamentare, ci sarebbe anche un’eccezione di congruità giuridica della norma che di fatto viola lo spirito del cosiddetto “Codice Urbani” (Codice dei beni culturali e del paesaggio), la legge che ormai quasi dieci anni fa modificò la legislazione sugli abusi rendendola più specifica e nettamente punitiva. Un passo indietro dunque rispetto a quella che allora apparve come invece come un primo deciso passo avanti a tutela del paesaggio in senso lato.

In buona sostanza si tratta di una modifica di alcune parti dell’articolo 181 che prevede ora due distinte ipotesi di reato: la prima (comma 1) è semplicemente una contravvenzione, punita con l’arresto fino a due anni (quindi coperto dalla condizionale) e un’ammenda; l’altra (comma 1-bis), nella quale si sottolinea la gravità dell’abuso su beni vincolati di particolare interesse pubblico (evidentemente non quello di spostare una porta), configura l’azione come un delitto e lo punisce con la reclusione da uno a quattro anni. La gravità riguarda infatti lavori abusivi in aree vincolate o su beni dichiarati di notevole interesse pubblico e che quindi necessitano di maggiori tutele. A tal punto che, secondo la legge attuale, il reato non si estingue nemmeno quando il trasgressore ripristina spontaneamente la situazione precedente all’abuso (abbattendo o risistemando le cose come erano prima).

In attesa che in parlamento si discuta del caso, viene da chiedersi per quale motivo il ministero di Beni culturali, che ha introdotto la modifica nel “lenzuolo” delle semplificazioni, abbia deciso la controversa innovazione. Necessità di cassa? O semplicemente il primo scivolone del professor Lorenzo Ornaghi?

Le associazioni chiedono che sia dichiarata l'incostituzionalità della norma: "Siamo di fronte al più grave stravolgimento sino ad ora tentato della disciplina paesaggistica, così come scritta nella nostra Costituzione, nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella Convenzione europea del paesaggio"

Come nel libro ‘1984‘ di George Orwell, dove il ministero della Pace si occupava di fare la Guerra, le parole sarebbero usate con un significato opposto a quello ufficiale. Per la giunta regionale campana guidata dal Governatore pidiellino Stefano Caldoro (assessore all’Urbanistica il pidiellino Marcello Taglialatela), la delibera appena approvata detterebbe “norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania”. Per le principali associazioni culturali e ambientaliste, tra cui Legambiente, Eddyburg, Italia Nostra, Fai – che hanno firmato un comunicato congiunto di condanna del provvedimento – siamo invece di fronte al “più grave stravolgimento sino ad ora tentato della disciplina paesaggistica, così come scritta nella nostra Costituzione, nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella Convenzione europea del paesaggio”. E chiedono che ne sia dichiarata l’incostituzionalità.

Chi ha ragione? A leggere la norma prodotta dall’esecutivo, ora al vaglio delle commissioni consiliari regionali, le preoccupazioni del mondo ambientalista appaiono fondate. Leggere per credere il primo comma dell’articolo 7, dal suadente titolo “Strumenti per la pianificazione sostenibile”. Un comma che introduce il concetto di ‘ecoconto‘, che “misura l’impoverimento del valore di un determinato territorio, a seguito della sua trasformazione, e ne quantifica la necessaria compensazione per bilanciarne gli effetti”. “E’ una norma pericolosa – sostiene Fausto Martino, architetto della Soprintendenza ed ex assessore comunale all’Urbanistica di Salerno – perché ammette, in via generale e preventiva, che si possa danneggiare il paesaggio dietro pagamento”. Dando licenza di devastare agli imprenditori con molti capitali e pochi scrupoli.

E non sarebbe l’unica miccia della bomba pronta a scoppiare. Nell’articolo 15, attraverso una serie di criptici commi abrogativi di vecchie leggi, decrittabili solo dagli addetti ai lavori, si distruggono a poco a poco alcuni dei principali strumenti di protezione del territorio campano. Consentendo, ad esempio, l’applicazione del piano casa e l’incremento delle volumetrie anche nelle ‘zone rosse’ a rischio eruttivo, alle falde del Vesuvio. E cancellando alcuni Comuni del salernitano, tra cui Cava de’ Tirreni e Sant’Egidio Montalbino, dal sistema di vincoli del piano urbanistico territoriale della costiera sorrentina ed amalfitana, una legge regionale del 1987 che ha funzionato da scudo contro le mire speculative nelle zone ad alta attrattiva turistica della Campania.

La nota degli ambientalisti, prima firmataria la presidente nazionale di Italia Nostra Alessandra Mottola Molfino, è durissima. Si accusa la giunta campana di aver prodotto un disegno di legge con la finalità dichiarata di “limitare i vincoli che gravano sul territorio per rilanciare il settore edilizio, e allo stesso tempo risolvere il problema dell’abusivismo con lo stravolgimento dei principi di legalità di sanzione e riparazione. Ancora una volta, nel nome di un modello economico arcaico e dissipatore, si tenta l’assalto, forse definitivo, al paese dove fioriscono i limoni”. “Non tutela del paesaggio, quindi – affermano i firmatari dell’appello – ma piuttosto una nuova puntata della discutibile avventura intrapresa con il piano casa, attraverso la quale viene sancita la rinuncia dei poteri pubblici al diritto/dovere di esercitare la sovranità territoriale nell’interesse generale”.

Fa discutere anche la scelta di trasferire la competenza dell’approvazione del futuro piano paesaggistico regionale dal consiglio alla giunta, con la commissione consiliare chiamata a fornire un semplice parere. “Giuridicamente antidemocratico” sostengono le associazioni, preoccupate che uno strumento così importante di tutela e pianificazione venga sottratto al confronto pubblico in aula tra tutte le forze politiche.

Tagliando e ritagliando, l’articolo 15 manderebbe al macero persino la legge regionale che ha costituito la riqualificazione paesistico ambientale dell’antica città di Velia nel Cilento. Una legge approvata all’unanimità nel 2005 su input del consigliere regionale Ds Nino Daniele e su mobilitazione del mondo della cultura, con le adesioni di Francesco Paolo Casavola, Gerardo Marotta, Aldo Masullo, Luciano De Crescenzo, Werner Johannowsky. La cui abrogazione comporterebbe l’addio allo stop alle nuove costruzioni in questa zona.

Su questo punto Taglialatela smentisce nettamente. E in un’intervista a Ottavio Lucarelli sulle pagine napoletane di Repubblica rimanda al mittente le preoccupazioni degli storici: “Non c’è alcun pericolo per Velia. E’ vero, è prevista l’abrogazione della legge di tutela. Ma è anche vero che quella legge non è stata mai attuata e finanziata e che comunque per Velia esistono i vincoli approvati nel 2009 per il piano del Parco del Cilento. E’ inaccettabile essere messi sotto accusa su fatti inesistenti”. E per quanto riguarda le critiche mosse dagli ambientalisti nel merito del ddl, Taglialatela ha replicato così: “Ecoconto potrà anche sembrare una brutta parola, ma è il modo in quale in tutta Europa si determinano le politiche ambientali e paesaggistiche, senza incrementi di volumetrie, individuando una serie di meccanismi compensativi attraverso la delocalizzazione degli interventi da alcune aree ad altre aree, o mettendo a disposizione un’area per riqualificare l’esistente – ha detto l’assessore al fattoquotidiano.it – Quanto alle riflessioni sul ‘costo’ del paesaggio, se chiediamo a un privato un intervento di riqualificazione ambientale, è necessario che il privato abbia un interesse, altrimenti non lo compie. Ma contrariamente a quel che pensano alcuni, non credo che gli imprenditori siano tutti palazzinari speculatori. Al contrario – ha concluso Taglialatela - gli imprenditori chiedono solo di potersi muovere tra regole certe e applicate. Agli ambientalisti va bene questa impostazione o vogliono continuare a dire sempre no a tutto?”.

Il Giornale

Città della salute, a Veronesi piace Milano

di Luca Fazzo

Ancora quasi un mese per decidere il futuro dell'Istituto dei Tumori e del Neurologico Besta, due eccellenze della sanità milanese alla cerca disperata di una sede più adeguata: ma mentre in Regione il Collegio di vigilanza chiamato a scegliere l'area dove sorgerà la Città della salute (così si chiamerà la unione dei due istituti) si prenderà ancora una pausa di riflessione, nel braccio di ferro sulla scelta della Regione fa irruzione a piedi uniti Umberto Veronesi.Che tecnicamente non ha voce in capitolo, ma quando si parla ditumori parla comunque ex cathedra, per la sua carriera di medico e di ricercatore: e ieri mattina , intervistato dall'agenzia Omnimilano, fa una scelta di campo plateale a favore di una delle due opzioni in gioco. Il nuovo ospedale, come si sa, è conteso tra Milano e Sesto San Giovanni. E Veronesi si schiera apertamente a fianco dei milanesi, ovvero di Giuliano Pisapia: «Io sono milanese e questi due istituti sono una forza per Milano e credo debbano rimanere nella città di Milano, non vedo perché debbano andare in un'altra città».

É lapidario, Veronesi. L'ex ministro della Salute sa bene di affrontare un tema non solo sanitario, anzi: intorno alla nuova sede dei due istituti si gioca una partita soprattutto di urbanistica e di interessi di cassa. Pisapia vuole portarlo alla Perrucchetti, la caserma di via Forze Armate in fase di dismissione; il sindaco sestese Giorgio Oldrini preme per insediare la cittadella nel cuore dell'area Falck, la sterminata distesa abbandonata dove sorgeva l'acciaieria. Entrambi sanno che una struttura di eccellenza come quella nata dalla fusione Tumori-Besta porterà un indotto economico e occupazionale rilevante in due aree problematiche. E quindi remano ognuno dalla sua parte, anche se - in nome anche della comune appartenenza politica - hanno promesso di non farsi sgambetti plateali.

Ma ieri, davanti alla discesa in campo di Veronesi, Oldrini mette da parte la diplomazia: «Non mi è chiaro a che titolo Veronesi intervenga - dice il sindaco di Sesto - visto che non mi risulta che sia un'urbanista. Perch´ un grande ospedale deve per forza avere la sede dentro i confini di Milano? Se ben ricordo, anche l'Istituto europeo di oncologia (diretto da Veronesi, ndr) è praticamente a Opera. E considerare oggi Sesto San Giovanni qualcosa di estraneo alla realtà metropolitana milanese mi sembra un modo abbastanza antico di ragionare». In realtà, nonostante l'endorsement di Veronesi, la sensazione è che Sesto San Giovanni sia in questo momento in vantaggio su Milano come futura sede della Città della salute. Da qui al 20 aprile, i rappresentanti dei due Comuni potranno partecipare ad un tavolo tecnico insieme alla Regione, ed è in quella sede che i rappresentanti dei due Comuni potranno fare valere le loro ragioni. Ma Sesto parte avvantaggiata su due fronti: la disponibilità immediata delle aree, e la loro vicinanza alla stazione ferroviaria e della metropolitana. Mentre la caserma Perrucchetti è a quasi un chilometro dal metrò, e il suo terreno appartiene al ministero della Difesa: «Il ministero ha già dato parere positivo», fa sapere l'assessore all'urbanistica milanese Ada De Cesaris. Ma a quale prezzo i militari siano disposti a cedere i 165mila meri quadri non è stato reso noto.

Alla Regione non interesserà, ma c'è un altro elemento che porta Oldrini a spingere per portare la cittadella a Sesto San Giovanni, e proprio sull'area Falck: ed è il valore simbolico che una vittoria avrebbe per una amministrazione comunale che proprio sulla riqualificazione della vecchia acciaieria è stata accusata di avere incassato tangenti.Vicende che riguardano la giunta prima di Oldrini, quella presieduta da Filippo Penati, e i vecchi proprietari dell'area, la holding di Luigi Zunino: proprio ieri la Procura di Monza ha annunciato la fine delle indagini per corruzione contro Zunino, l'ex assessore Pasqualino Di Leva e altri, in relazione a mazzette sulla Falck. Brutte storie. Ma, se sulla Falck arrivasse la Città della salute, con un lieto fine.

la Repubblica Milano

La cittadella della salute verso l’area Falck di Sesto

di Alessandra Corica

La decisione è rimandata al 20 aprile. Ma le speranze dell’ex cittadella industriale crescono sempre più. Ieri il Collegio di vigilanza dell’accordo di programma della Città della salute ha decretato ufficialmente l’entrata in gara di Sesto San Giovanni per decidere dove il nuovo polo ospedaliero - che nascerà dalla fusione del Sacco, del Besta e dell’Istituto dei tumori - avrà sede. Due le opzioni, tra le quali la commissione nominata dalla Regione deciderà entro un mese: l’ex caserma Perrucchetti o le ex aree Falck.

Tramonta per sempre l’ipotesi di costruire la struttura al quartiere Vialba: ieri il collegio ha revocato l’accordo di programma del 2009 che designava l’area adiacente al Sacco quale nuova sede del polo scientifico. Una decisione dettata soprattutto da ragioni economiche: in questo modo si risparmieranno circa 80 milioni di euro che sarebbero stati necessari per costruire nella zona. E che si sarebbero sommati ai 520 che già di per sé richiede la realizzazione del polo. Un’operazione che, nonostante i numerosi rimandi, per la Regione resta prioritaria: «È un progetto che realizzeremo - ha ribadito su Twitter Roberto Formigoni - non ci rinunceremo per nessuna ragione al mondo». Per arrivare all’individuazione della sede, sarà così avviato un tavolo a cui parteciperanno sia Palazzo Marino sia il comune di Sesto: «Lo scopo - spiega il governatore - è stabilire in tempi rapidi quale sarà la localizzazione dell’intervento, in modo da promuovere e firmare un nuovo accordo di programma».

Da Palazzo Marino fanno sapere che proprio in questi giorni è arrivato il parere positivo del ministero della Difesa (proprietario dell’area della Perrucchetti) per posizionare il polo nella Piazza d’Armi davanti alla caserma. «Il Comune ascolterà tutti i soggetti coinvolti - assicura l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris - per noi è importante che non vadano disperse le risorse economiche messe già in campo». In pole position, però, sembrerebbe l’area ex Falck: non a caso, per la prima volta si parla di un’ubicazione del polo scientifico in area metropolitana e non solo cittadina. «Le aree Falck - dice il sindaco di Sesto Giorgio Oldrini - permetterebbero lo sviluppo di quell’indotto di mezzi di trasporto, parcheggi e alberghi che dovrà accompagnare il nuovo polo». Contrario all’ubicazione a Sesto, invece, l’oncologo ed ex ministro Umberto Veronesi, fondatore dello Ieo: «Questi due istituti - ha detto il professore, riferendosi all’Istituto europeo dei tumori e a quello di via Venezian - sono una forza per Milano e credo debbano rimanervi. Non vedo perché debbano andare in un’altra città».

Corriere della Sera Milano

Città della Salute, nuovo rinvio

di Simona Ravizza

Nuovo rinvio sulla decisione dell'area dove sorgerà la Città della Salute. «La scelta sarà effettuata in tempi brevi, presumibilmente già il prossimo 7 marzo», aveva annunciato il governatore Roberto Formigoni lo scorso febbraio.Ma la partita è complicata e ieri, dopo l'ennesima riunione del Collegio di vigilanza che riunisce i politici e i tecnici interessati, l'attesa presa di posizione non è arrivata. «La riunione, inizialmente prevista per il 7 marzo, era stata rinviata su richiesta del Comune di Milano», ha precisato Formigoni.

Ma per il progetto che mira a riunire l'Istituto dei tumori e il neurologico Besta i giochi sono aperti. Restano, dunque, in campo le ipotesi della piazza d'Armi della Caserma Perrucchetti per Milano (oltre ad altre eventuali soluzioni su cui Palazzo Marino dovesse decidere di lavorare) e l'area ex Falck, proposta dal Comune di Sesto San Giovanni. Sul più importante progetto di edilizia sanitaria della Lombardia, con investimenti previsti per 400 milioni di euro (contro i 520 inizialmente preventivati), sarà avviato un tavolo di lavoro con i Comuni di Milano e Sesto San Giovanni, oltre che con i due ospedali interessati, per stabilire in tempi rapidi quale sarà la localizzazione dell'intervento, in modo da promuovere e firmare un nuovo accordo.

Come già anticipato, l'idea iniziale di ricomprendere anche il Sacco è definitivamente tramontata: «In questa situazione contingente di crisi e stante l'impossibilità di reperire nuove risorse, anche statali — ha sottolineato Formigoni — la Regione non è in grado da sola di far fronte alla realizzazione della Città della Salute in Vialba».Soddisfatto il sindaco di Sesto, Giorgio Oldrini: «Questa decisione è per noi importante per due motivi. È esplicitata l'indicazione di individuare l'ubicazione della Città della Salute all'interno dell'area metropolitana, includendo quindi ufficialmente la nostra città, e invita la nostra amministrazione al gruppo di analisi sulle proposte in campo». La gara con Milano s'annuncia, comunque, dura.

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