Il PGT da Moratti a Pisapia
La discussione sulle osservazioni al Piano di governo del territorio (PGT) di Milano è ancora in corso nel Consiglio comunale, in un clima quasi di silenzio stampa e non si sa esattamente quando disporremo di un testo e di una serie di tavole definitivi, sui quali poter svolgere una valutazione puntuale, alla quale comunque ci impegniamo, non appena sarà possibile. Le considerazioni possibili oggi hanno dunque ancora, necessariamente, un carattere piuttosto generale: ma la portata delle questioni che aprono è tale da renderle interessanti, per Milano e probabilmente anche per il resto del paese, nonostante la mancanza di qualche dettaglio.
La discussione in corso riguarda il Piano proposto e fatto adottare dalla precedente Giunta comunale di centro destra, presieduta dal Sindaco Moratti, che pure aveva già portato in Consiglio comunale le controdeduzioni alle osservazioni e la conseguente approvazione definitiva, ma che, abbastanza inspiegabilmente, non aveva dato corso alla successiva pubblicazione. La nuova Giunta comunale, presieduta dal sindaco Pisapia, revocava la precedente approvazione, riaprendo l’esame delle osservazioni: ed è questa la fase conclusiva che si sta ora svolgendo nel Consiglio comunale. La discussione avviene su una proposta di controdeduzioni formulata dalla Giunta, corredata dei testi normativi modificati, ma non dalle tavole, che la Giunta ha scelto di far redigere e dunque di rendere conoscibili, solo dopo il voto finale del Consiglio.
Non è dato sapere ufficialmente se sia intenzione della maggioranza ripubblicare il piano modificato. Nei contatti informali si esprime di solito su questo punto, da parte di esponenti della maggioranza e consulenti, un’opinione negativa, che non può non lasciare perplessi a causa dei rischi d’impugnazione che può comportare.
Il piano della Giunta di centro destra era caratterizzato da vistose “innovazioni”, se così si può dire. In estrema sintesi possiamo così ricapitolarle: la mancanza di ogni riferimento a un qualsiasi quadro di coerenza metropolitana; la mancanza di scelte dichiarate relativamente ad infrastrutture rare anche fondamentali, come ad esempio gli aeroporti; la previsione di nuovi tracciati superstradali/autostradali urbani, fuori e dentro terra; la previsione di sei nuove linee metropolitane totalmente urbane (per altro prive di finanziamento); l’introduzione del principio dell’indifferenza funzionale degli insediamenti urbani; l’utilizzazione intensiva (indice di utilizzazione convenzionale spesso superiore a 1mq/mq) delle ultime aree dismesse o sottoutilizzate – scali ferroviari, caserme e altre private.
Così pure l’introduzione del principio della trasferibilità generalizzata, su tutto il territorio comunale, dei diritti edificatori ovunque generati dall’indice unico, con il prevedibile loro atterraggio concentrato soprattutto sulle aree più centrali; la modificabilità delle previsioni del PGT su qualunque area, mediante la procedura di iniziativa privata del Piano integrato d’intervento; la disapplicazione di gran parte degli standards urbanistici nazionali; l’invenzione di un regime specialissimo per tutti i servizi non solo pubblici, ma anche privati e con fini di lucro, che, non essendo computati nel calcolo della superficie lorda di pavimento potranno essere realizzati dovunque e con qualsiasi densità edilizia mentre tutti quelli già esistenti genereranno ulteriori diritti volumetrici come fossero aree edificabili ancora libere; la generale facoltatività delle quote di edilizia sociale; l’attribuzione automatica di un indice unico ridotto e trasferibile, pari a 0,15 mq/mq alle aree non agricole comprese nel Parco sud; la genericità di molte delle tutele di carattere storico e paesistico; oltre naturalmente ad altri numerosi aspetti anche importanti che qui, per brevità, non si possono citare.
Gli effetti dell’insieme di queste disposizioni di piano sono facilmente sintetizzabili: a Milano vengono attribuite nuove potenzialità edificatorie dirette enormi, stimabili in almeno 70 milioni di metri cubi convenzionali. A tale quantità andrebbero per la verità aggiunte quelle derivanti dall’eventuale realizzazione dell’edilizia sociale opzionale, dalle possibili operazioni di dismissione e rilocalizzazione dei servizi e dagli interventi già in corso. Considerando tutto questo, si sarebbero certamente largamente superati i cento milioni di metri cubi convenzionali.
Questa enorme intensificazione della città è sostenuta da un potenziamento delle infrastrutture di mobilità totalmente urbano. Le abnormi previsioni sembrano rispondere, se così si può dire, a una doppia logica, da un lato alimentare una bolla immobiliare gigantesca (che sembra non avere molte altre spiegazioni se non nella dubbia liceità degli investimenti che ne sono all’origine e dunque in una qualche funzione di riciclaggio del mercato immobiliare), e dall’altro invece l’apertura di una guerra senza esclusione di colpi contro l’hinterland, destinato a subire una concorrenza sempre più dura da parte del capoluogo. Tali abnormi previsioni hanno ovviamente anche una conseguenza e un costo: una buona qualità di vita a Milano sembra diventare sempre più un optional d’improbabile realizzazione.
La nuova Giunta, come si è accennato, riprende in mano l’argomento riesaminando le osservazioni, prima contro dedotte quasi in blocco e con difetti di procedura. Lo fa secondo indirizzi politici e con effetti che possono essere così riassunti per sommissimi capi: cancellazione di alcuni ambiti di trasformazione irrealistici (come ad esempio quelli connessi al trasferimento del Tribunale) e di altri periurbani, per un totale di circa 0,6 milioni di mq di superficie lorda di pavimento; riduzione della capacità insediativa degli ambiti di trasformazione confermati, da circa 4 a circa 2,5 milioni di mq di superficie lorda di pavimento; riduzione dell’indice unico di edificazione territoriale per funzioni private da 0,5 a 0,35 mq/mq (comunque incrementabile per efficienza energetica di ulteriori 0,15 mq/mq); mantenimento della facoltà di utilizzazione dell’indice di edificazione per l’edilizia sociale per altri 0,35 mq/mq, che diviene obbligatorio (sembra di capire limitatamente alla cessione dei diritti volumetrici) solo per gli interventi di maggiore dimensione;
E aggiungo la cancellazione del riconoscimento automatico alle aree non agricole del parco sud del diritto edificatorio da trasferire pari a 0,15 mq/mq, ma rinvio alle future decisioni del Parco sud, senza espressione di specifici indirizzi, per la possibile attribuzione dell’indice (si deve ritenere quello unico, pari a 0,35?) alle eventuali aree da trasformare; introduzione di alcune norme di carattere metrico relativamente alla concentrazione dei volumi realizzabili, formulate però in modo non sempre chiaro; la cancellazione della previsione del tunnel stradale Expo – Forlanini, ma rinvio delle scelte per il trasporto pubblico al futuro Piano di settore della mobilità. Infine lo scheletro nell’armadio della normativa iper innovativa sui servizi viene affrontato dalla nuova Giunta con proposte difficilmente decifrabili.
Per quanto si comprende i servizi pubblici non genereranno più automaticamente ulteriori diritti edificatori per funzioni private, mentre tale gentile cortesia viene conservata per i servizi privati, generalizzando anzi la facoltà di esportarli fuori dalle aree di proprietà e di commerciarli, prima limitata ai soli servizi religiosi. Servizi pubblici e privati, secondo la proposta della Giunta continueranno a non essere computati nella superficie lorda di pavimento, determinando il rischio della creazione di superconcentrazioni di superattrattori. Sembra che i proprietari dei servizi privati potrebbero persino dapprima utilizzare i diritti volumetrici dell’indice unico, poi dismettere la parte a servizi, trasformandola in residenza o terziario e infine ricostruire i servizi in una qualsiasi area priva di diritti edificatori. L’insieme di questi giochetti comporterebbe una capacità insediativa potenziale pari ad almeno 5 milioni di metri quadrati di nuovi diritti volumetrici generati, ai quali si dovrebbe aggiungere una quantità forse doppia per tenere conto delle potenzialità legate all’eventuale trasferimento ” speculativo” dei servizi cui si è fatto cenno.
Aggiungendo a tutto questo i circa 7 milioni di metri quadri di SLP degli interventi già in corso a Milano, e ovviamente le previsioni degli ambiti di trasformazione, si raggiunge alla fine una potenzialità edificatoria complessiva stimabile in circa 25 milioni di metri quadrati di SLP, pari a 82 milioni di metri cubi convenzionali (e almeno 160 reali), corrispondente al fabbisogno di almeno ottanta anni, sempre che continuino in futuro i ritmi di sviluppo degli ultimi anni, che in realtà già oggi appaiono largamente in crisi.
Così sembrerebbe, allo stato dell’arte e sulla scorta di una normativa alquanto confusa. Per avere qualche maggiore certezza dovremo attendere di leggere il testo finale e di vedere le tavole, quando esisteranno.
Su questi principali aspetti, ma anche su altri che qui per brevità non si richiamano, il gruppo di lavoro e la sezione di Italia Nostra non si sono limitati a scrivere documenti, ma hanno elaborato emendamenti tecnicamente compiuti, che hanno consegnato a tutti i consiglieri disposti all’ascolto. Non resta che attendere la conclusione dei lavori del Consiglio per capire se saranno state accolte modifiche rispetto alle proposte della Giunta: purtroppo però allora sarà troppo tardi per cambiare qualsiasi cosa per via amministrativa.
Pur nella condizione d’incertezza fin qui descritta, è però possibile formulare qualche valutazione di carattere generale su tutta la vicenda, soprattutto perché sembra utile a rilanciare una riflessione di carattere sia locale sia nazionale su cosa dovrebbe significare oggi fare pianificazione territoriale e urbanistica nel contesto economico, sociale e istituzionale che caratterizza oggi il nostro paese.
Quattro nodi irrisolti, e una proposta per il futuro
Il primo nodo che esplode è quello della scala della pianificazione, ancora comunale, mentre manca qualsiasi sistema di governo delle aree metropolitane, su cui pure si estendono tutte le grandi città e ormai anche molte di quelle prima considerate medie. Ebbene, il cittadino italiano non può essere chiamato a pagare tasse sempre più pesanti per mantenere un sistema amministrativo troppo spesso segnato oltre che dalla corruzione da dispersività e inefficienza. Mentre gli altri paesi europei stanno facendo continui passi in avanti per dare sempre maggiore consistenza istituzionale alle aree metropolitane esistenti da decenni (ad esempio la Francia, con i Plan locales d’urbanisme estesi anche a 50/70 comuni e ora con la legge nazionale di riforma dell’ordinamento delle comunità territoriali n° 1563/2010 e la Germania con la redazione dei Piani regolatori “regionali” sviluppati in diversi Länder) noi siamo fermi all’intenzione di sciogliere le Province, forse senza sostituirle con nient’altro, con il rischio di accentuare ancora di più l’attuale frammentazione amministrativa.
E però le grandi città capoluogo conservano il potere di promuovere la formazione di quella che nella nostra legislazione si chiama Città metropolitana. Per questo è necessario chiedere ai sindaci di Milano, di Napoli, di Torino, di Firenze, di Bologna (per citare solo alcuni dei primi della lista, ed anche a quello di Roma, nonostante la molto maggiore estensione del capoluogo), di promuovere con urgenza questa riforma fondamentale e di avviare da subito, con tutti i comuni interessati, la pianificazione concordata almeno dei grandi servizi, delle grandi infrastrutture, dei principali poli insediativi e dei fondamentali corridoi verdi e azzurri. Milano non sembra abbia finora fatto passi decisivi in questa direzione: anzi, ha persino iniziato ad accapigliarsi con Sesto San Giovanni, nonostante l’omogeneità del colore politico, per stabilire chi debba aggiudicarsi il nuovo polo sanitario, fino al punto da chiedere al Presidente della Regione Formigoni di fare da giudice di gara: … in materia sanitaria ! In uno degli emendamenti proposti ai consiglieri abbiamo chiesto di stabilire in modo impegnativo nel Documento di piano che il nuovo Piano della mobilità venga sviluppato con gli altri comuni, a scala metropolitana: ancora non sappiamo se la proposta, che a noi sembra di minimo buon senso, verrà accolta.
Un secondo nodo, presente un po’ dovunque nelle città italiane, è certamente ancora costituito dal tema del riuso dell’inutilizzato e del dismesso.
Il piano di Milano, sia nell’adottato che nelle nuove proposte di controdeduzioni, ignora completamente il tema dell’inutilizzato, nel senso che, non contenendo nemmeno una ricognizione grossolana della natura del patrimonio esistente vuoto, di quello in costruzione ma invenduto e di quello già previsto dalla pianificazione attuativa o autorizzato, ma ancora non realizzato, tantomeno contiene una qualche terapia per questa pur evidente patologia. E invece proprio da qui bisognerebbe partire, a causa della notoria grande estensione del fenomeno, per costruire, nell’attuale contesto economico, un piano urbanistico realistico e dotato di minima intelligenza. Non ha, infatti, alcun senso buttare a caso nuova benzina di diritti volumetrici sul fuoco che già sta divampando pericolosamente. Anzi, forse, la via giusta è proprio l’opposto: raffreddare la temperatura, cioè agevolare con politiche diversificate lo smaltimento dell’inutilizzato e solo dopo mettere in campo nuove opportunità, per evitare che nella città e nello stesso mondo della finanza si vadano moltiplicando le sacche di malessere e di sofferenza, accanto a quelle di euforia più o meno illusoria.
Di traverso a questo discorso ragionevole si mette lo stato, che ci appare ancora una volta assetato più che preoccupato del bene dei cittadini. Che siano scali ferroviari o caserme, manifatture tabacchi o carceri, dismessi o dismettendi, l’urbanistica è circondata dalle aspirazioni cessionarie o cartolarizzatrici di stato e aziende pubbliche ed ex pubbliche.
I comuni, invogliati da quote di partecipazione agli utili o da sperati introiti in oneri spesso si prestano al gioco. Non dovrebbe essere così: quelle sono già aree pubbliche, i cittadini le hanno già pagate una volta: non devono essere costretti a ricomprarsele concedendo diritti volumetrici. E questo per una ragione molto precisa: si tratta di aree spesso dotate di un valore insostituibile.
A Milano la conformazione lineare e talvolta radiale degli scali ferroviari li rende occasioni uniche e ultime per realizzare importanti e profonde penetrazioni di verde dentro un tessuto cementificato di compattezza altrimenti disperante. Scalo Farini: Central Park di Milano è uno slogan perfetto e del tutto corretto, anche se ripreso oggi dal responsabile del piano della vecchia giunta. La riduzione degli indici prevista dalla nuova Giunta è insufficiente per consentire il raggiungimento di questi obbiettivi: per questo ai consiglieri disposti all’ascolto abbiamo proposto emendamenti finalizzati a ridurre in misura ben maggiore le volumetrie o a rinviare le scelte a dopo una dimostrazione progettuale della consistenza delle penetrazioni verdi che verrebbero realizzate. Una mostra allestita al Politecnico nel mese di aprile ha largamente illustrato le potenzialità di rigenerazione urbanistica legate a queste aree, se usate diversamente e più moderatamente.
Questo tema è presente in quasi tutte le città italiane grandi e medie, e l’appello che ci sentiamo di fare, a partire dall’esperienza milanese, è quello di batterci tutti insieme perché le proprietà pubbliche, al di là della specifico soggetto proprietario siano usate per rialzare la qualità urbana e non per alimentare la bolla immobiliare nell’illusione di portare soldi nelle casse di stato, aziende e comuni. È una vertenza nazionale che forse Italia Nostra può tentare di aprire
Un terzo tema brilla nella vicenda milanese, questa volta per la sua assenza. È il tema della cura delle tante disfunzioni della città sotto il profilo della qualità urbana, del semi-abbandono di molti quartieri di edilizia popolare, della scarsità, dell’inefficienza e del costo di numerosi servizi, della congestione e dell’invasività, talvolta esasperante, del traffico e della sosta, non solo presso i luoghi di destinazione, ma persino presso quelli di residenza. A essi si aggiunge il tema della scarsità di case effettivamente disponibili per gli strati sociali deboli, toccato ma certo non risolto dal piano. Sotto il nome pomposo del Piano dei servizi quel che manca completamente a Milano è proprio qualsiasi indicazione di progetto per rimuovere tutte quelle cause che provocano un diffuso disagio rispetto al funzionamento della città. Anche questo è sicuramente un tema comune nelle città italiane e soprattutto nelle grandi città, in probabile aggravamento a causa della contrazione delle risorse pubbliche disponibili e che potrebbe anch’esso rientrare in un piano di azione dell’associazione a livello nazionale, accanto alle attività tradizionalmente svolte in difesa del patrimonio paesaggistico e di quello storico – culturale.
Anche un quarto tema brilla per la sua totale assenza nella vicenda del PGT milanese: è quello del rilancio della competitività del sistema produttivo, della ricerca, dell’innovazione e delle infrastrutture rare: del tutto dimenticato perché qualche maestro, davvero cattivo, ha teorizzato con successo che l’urbanistica deve avere per oggetto soltanto la regolazione, o il traffico che dir si voglia, dei diritti edificatori. Ed anche in questo caso avviene a Milano il contrario di quello che succede nei paesi di più alta tradizione nella gestione territoriale, che da sempre hanno fatto del piano innanzitutto lo strumento per la cura e la crescita delle opportunità e delle vocazioni caratteristiche di ogni territorio. -
Per concludere sulla vicenda milanese possiamo forse sentirci di avanzare una proposta al Sindaco. Che la storia urbanistica della nuova amministrazione non si chiuda con la faticosa approvazione del Piano Moratti rappezzato ma che si apra subito la stagione del Piano Pisapia. Pensato ex novo, a partire dalle idee della nuova amministrazione e con respiro metropolitano. Con l’obbiettivo di farlo nascere prima della fine del mandato.
SOMMA LOMBARDO (Varese) — «C'è stato un terremoto, ma ha colpito una sola famiglia». La funzionaria comunale fa una sintesi efficace. I «terremotati» sono davanti a lei in municipio. Giuliano Rovelli, imprenditore di 41 anni, la moglie Francesca Perra, assistente capo della Polizia di Malpensa, i loro sei figli piccoli, una coppia di cingalesi che vive con loro e che amministrava la casa, la figlioletta di questi ultimi.
La mattina del 2 maggio il costone di un meraviglioso belvedere sul fiume Ticino è franato durante le forti piogge. Pochi giorni dopo, il bel giardino lungo 50 metri è scomparso, inghiottito da un'altra frana, e la villetta ora si trova in bilico: «Tra un po' vedrete il filmato su Youtube di una casa finire dentro il fiume — sbotta Giuliano — siamo un paese che cade a pezzi». Gli undici sfollati di Somma Lombardo stanno vivendo una storia all'italiana. Non sarebbero le piogge le vere responsabili della frana, ma, secondo le prime analisi, il principale sospettato è un tubo sotterraneo che trasporta le acque reflue del comune (provenienti dal depuratore comunale e da uno scolmatore di piena della rete fognaria). Perdeva, e ha creato uno smottamento del terreno.
«Ho affidato a un geologo di parte una perizia — spiega il proprietario della casa — non è una fatalità. Secondo noi è stato l'uomo a provocare questa frana». Le accuse dell'imprenditore sono vagliate dalla procura di Busto Arsizio, che ha aperto un'inchiesta. L'Arpa, l'agenzia regionale dell'ambiente, aveva segnalato alla magistratura già a febbraio che quel tubo che perdeva acqua e che stava erodendo il terreno.
Il sindaco di Somma Lombardo tira in ballo la burocrazia: «Avevamo un progetto per aggiustare il depuratore, ma la Regione non l'hanno finanziato — osserva Guido Colombo — e allora abbiamo messo a bilancio 450 mila euro. Ultimamente il Parco del Ticino ci ha chiesto di ritardare ancora i lavori perché era un periodo di nidificazione». Morale: ora il comune dovrà spendere almeno 1 milione e mezzo di euro, perché nel frattempo è franata mezza montagna. Giuliano Rovelli e Francesca entrano nell'ufficio del sindaco, guardano i mappali, chiedono rassicurazioni. Sono persone abituate a gestire gli imprevisti. Rovelli ha fondato nel 1994 una grossa azienda di parcheggi aeroportuali, e oggi ha 250 dipendenti. «Faremo una causa civile certo — osserva — ma non ho alcuna fiducia, sarà una cosa lunga e intanto abbiamo perso la casa. La comprammo nel 1998, era di un professore milanese che la usava per le vacanze. Ha una vista meravigliosa sul fiume e sulle Alpi. Ma non siamo degli irresponsabili, guardate che nessun documento ha mai segnalato alcun pericolo, era perfettamente abitabile».
Gli sfollati non torneranno mai più in quella casa: «Abbiamo preso i vestiti e siamo scappati — dicono Giuliano e Francesca —, non possiamo neanche più entrare». Intanto lo smottamento rischia di continuare. L'area va messa in sicurezza entro stasera, prima che ricominci a piovere. Gli elicotteri dovranno installare 28 gabbioni di ferro sul costone.
Chissà come andrà a finire la faccenda, speriamo ovviamente nel migliore dei modi per tutti, senza che sia necessario l’intervento di un Edgar Allan Poe varesotto a raccontarci la metafora di una nuova Casa Usher su cui si accanisce una maledizione naturale eterna. La vicenda però pur nella sua essenzialità restituisce un significativo spaccato di sistema decisionale, responsabilità culture, trasformazioni del territorio: lo stesso, si badi molto bene, che poi valuta e decide cosucce come gli hub intercontinentali fantasma, le terze piste quasi nel letto del fiume su cui non atterrano gli aerei ma le aspettative di sviluppo socioeconomico, un po’ di poli multifunzionali qui e là, sparsi su nuove bretelle e svincoli, sulle cui funzioni specifiche si vedrà in seguito, eccetera eccetera. Ecco, sono proprio gli stessi personaggi. Altro che Edgar Allan Poe, verrebbe da pensare così istintivamente. O no? (f.b.)
Edwin Arlington Robinson, The House on the Hill
They are all gone away,
The house is shut and still,
There is nothing more to say.
Through broken walls and gray
The winds blow bleak and shrill:
They are all gone away.
Nor is there one today
To speak them good or ill:
There is nothing more to say.
Why is it then we stray
Around the sunken sill?
They are all gone away.
And our poor fancy-play
For them is wasted skill:
There is nothing more to say.
There is ruin and decay
In the House on the Hill
They are all gone away,
There is nothing more to say.
Il tempo stringe e si stringe anche il cappio intorno alla piccola comunità di Corcolle. Il ministro Lorenzo Ornaghi è piombato a sorpresa, ieri, nel sito dove dovrebbe spalancarsi la cava che ospiterà l’immondizia di Roma. Ha visitato anche Villa Adriana, che è lì a qualche centinaio di metri. Prima d’ora c’era stato da turista, adesso ha voluto rendersi conto di quale distanza separi il luogo della discarica da uno dei siti archeologici più pregiati al mondo, dove l’imperatore Adriano voleva fossero racchiuse le sue predilezioni culturali. Non ha cambiato idea: se si fa la discarica lui si dimette. Oggi c’è un consiglio dei ministri, ma non è chiaro se si parlerà di Corcolle. Per il prefetto-commissario Giuseppe Pecoraro la partita è chiusa: «Le mie scelte le ho prese: ora tocca agli altri rispettarle o assumersi la responsabilità di fare andare Roma in emergenza». Pecoraro smentisce che ci saranno altre consultazioni, come aveva sostenuto il sindaco di Roma Gianni Alemanno. Si va, aggiunge, «verso la conclusione della conferenza dei servizi. Poi se ci sono degli ostacoli giuridici od opportunità me lo faranno sapere».
I no alla discarica fioccano da ogni parte e sovrastano il sì al quale si abbarbica Renata Polverini. La questione rimbalza sul governo. Ornaghi ha pronte le dimissioni. Clini è contrario. Severino e Cancellieri sono perplesse. E Monti? Se la sua opinione coincide con quella del sottosegretario Catricalà, per Corcolle non c’è speranza. Dal punto di vista tecnico, la discarica potrebbe essere pronta entro un anno. Ma sarà sufficiente solo se i rifiuti sversati saranno pretrattati. E questa è ancora un’incognita, legata anche all’intensificarsi della raccolta differenziata in città (ma Roma è molto indietro). Si fa vivo Manlio Cerroni, proprietario di Malagrotta (che dovrebbe chiudere) e di altre aree prontamente acquistate e di nuovo offerte come sede di discariche (Pian dell’Olmo). Rendono ancora più complicato il cammino della discarica esposti e denunce penali. Le associazioni ambientaliste sono mobilitate. I comitati incalzano: «Corcolle sarà la nostra Tav».
Le procedure commissariali sembrano blindate. Si è proceduto in deroga, Pecoraro ha nominato suoi consulenti. Non sono stati considerati gli organi tecnici del ministero per l’Ambiente e di quello dei Beni culturali, che per prassi, in caso di una discarica, compiono valutazioni sulla tipologia e le quantità di rifiuti, sulla natura geologica del sito, sulle conseguenze sanitarie, sull’incremento di traffico, oltre alle analisi sull’impatto paesaggistico e archeologico.
E cosa farà l’Unesco, nel cui patrimonio è compresa Villa Adriana? Se ne parlerà al summit di San Pietroburgo a fine giugno. Ma, confermano fonti dell’organizzazione dell’Onu, sono arrivate segnalazioni, però non è stata avviata nessuna procedura che può portare all’esclusione del sito archeologico dalla lista di quelli protetti.
Tanto tuonò che piovve. Sulla Cascinazza di Monza, dopo dodici anni di denunce giornalistiche e polemiche politiche, piovono anche gli avvisi di garanzia: per Paolo Berlusconi e Paolo Romani (ex ministro dello Sviluppo economico), indagati con altre persone dalla Procura di Monza per istigazione alla corruzione. Secondo l’ipotesi d’accusa, i due Paoli avrebbero cercato di corrompere alcuni consiglieri comunali per farli votare la variante di piano che dava il via libera alla costruzione di “Milano 4”. Una nuova città, 4 milioni di metri cubi di cemento da edificare sui 500 mila metri quadrati della Cascinazza: area agricola vincolata a verde ai confini di Monza, venduta dai Ramazzotti (quelli dell’amaro) a Silvio Berlusconi negli anni Settanta e poi passata al fratello.
L’indagine nasce da ben sei esposti presentati in procura da consiglieri di maggioranza e opposizione che denunciano presunte irregolarità, forzature, pressioni, minacce. Il più corposo è firmato da due esponenti del Pd, Anna Mancuso e Michele Faglia, in passato sindaco di Monza. Era il giugno 2011 e la maggioranza di centrodestra aveva avviato in Consiglio comunale la discussione sul nuovo Piano di governo del territorio. Contraria la minoranza, ma incerti anche alcuni esponenti di maggioranza, spaventati da un’operazione che avrebbe aggiunto ben 40 mila abitanti ai 120 mila di Monza. Entra allora in azione Paolo Romani, mandato da Berlusconi a fare l’assessore nella capitale della Brianza: all’urbanistica fin quando diventa ministro, poi all’Expo. “Dell’Expo non si è mai occupato”, dice Faglia, “in compenso ha continuato a darsi da fare per la Cascinazza, come emissario della Famiglia”. Romani incontra a uno a uno i consiglieri comunali del suo fronte. È una corsa contro il tempo: per far passare la variante, una pattuglia di fedelissimi lavora fino al 21 marzo 2012, data dell’ultima seduta del consiglio prima delle elezioni. S’avvia, almeno secondo l’accusa, un tentativo di compravendita di voti. Alla fine, l’operazione fallisce: votano contro la variante anche sei consiglieri di maggioranza (due di Futuro e libertà, due di Forza Lombardia, uno dell’Udc e uno del gruppo misto, Ruggiero De Pasquale). Poi arrivano le elezioni, che ribaltano i risultati del 2007 e danno la vittoria al centrosinistra: domenica scorsa diventa sindaco, con più del 63 per cento dei voti, Roberto Scanagatti. Ma nei mesi precedenti, le intercettazioni avevano captato Paolo Romani promettere, secondo quanto scrive L’Espresso, “300 mila euro a testa” offerte agli indecisi. Registrata anche la voce di Silvio Berlusconi in persona, impegnato a concordare incontri ad Arcore. Il fratello minore, Paolo, nel 2008 aveva venduto l’area della Cascinazza a una società controllata dal gruppo Cabassi e da altri soci, tra cui il costruttore Gabriele Sabatini. Ma, dopo aver ricevuto un anticipo di 40 milioni, aveva vincolato l’entità del saldo al buon esito dell’operazione immobiliare: in caso d’approvazione della variante, avrebbe incassato un’altra cinquantina di milioni.
Ora, la vittoria del centrosinistra ha chiuso le speranze di riaprire la faccenda nel nuovo consiglio. Ma il reato d’istigazione alla corruzione si consuma già con la promessa di denaro, anche senza i pagamenti. I pm di Monza Manuela Massenz, Donata Costa e Walter Mapelli avranno semmai il problema dell’utilizzabilità di telefonate in cui sono stati intercettati, seppur indirettamente, due parlamentari (Paolo Romani e Silvio Berlusconi). “I cittadini di Monza hanno capito”, spiega il consigliere regionale Pd Pippo Civati, da una dozzina d’anni impegnato nella battaglia contro la cementificazione della Cascinazza. “All’inizio era considerata roba da specialisti. Ora è diventata invece un argomento forte della politica cittadina e ha condizionato l’ultimo esito elettorale. Silvio Berlusconi nasce palazzinaro con Milano 2 e muore palazzinaro con Milano 4”.
Postilla
La legalità, quando non è solo legalitarsimo, ha senso, eccome se ne ha: corrisponde addirittura al buon senso. Su questo sito (basta digitare Cascinazza nel motore di ricerca interno) gli argomenti di buon senso contro quel progetto si sono accumulati fitti fitti per anni. C’erano gli aspetti sociali, quelli ambientali, quelli di metodo; c’era la dimensione urbana, quella metropolitana, quella economica, e tante altre cose. Ma niente da fare, la macchina tritatutto e compra tutto dilagava apparentemente inarrestabile, addirittura con un ministro-assessore part time messo lì con lo scopo dichiarato di curare gli interessi di famiglia, pilotando quella procedura fastidiosa che si chiama variante di piano regolatore, e che in questo caso è diventata dettatura di stupidaggini in atto pubblico. Se ne sono accorti addirittura alla regione “amica”, quella Lombardia dove si vorrebbe poter fare di tutto, ma dove per fortuna ci sono ancora tracce di buon senso anche nelle leggi piegate, interpretate, forzate. E quel piano assurdo, per riempire di cemento berlusconiano doc l’ultimo spazio aperto disponibile per chilometri, faticava ad attuarsi. Adesso si scopre anche l’ultima, questa delle presunte posizioni politiche comprate: ma è solo un dettaglio, a confermare il resto, il timbro finale della vergogna, una generazione di patetici burattini con il vestitino stirato, le tasche piene, e la testa vuota (f.b.)
Assessore Lucia De Cesaris, di solito uno si commuove per la nascita di un figlio, per una poesia, per un bel tramonto. Ieri, lei si è messa a piangere quando è stato approvato il Piano di Governo del Territorio. Commossa per il Pgt?«Mi sono commossa perché era una sfida. In molti dicevano che era un'operazione impossibile, che bloccavamo la città. Invece abbiamo lavorato tanto e bene con persone che hanno messo il cuore e la testa per la città. Ecco perché mi sono commossa».
Qual è, secondo lei, il valore del Pgt approvato martedì sera, rispetto al precedente?«È un piano equilibrato. Fa i conti con la situazione attuale della città e del mercato. È un piano che rimette al centro la città pubblica».
Quello precedente?«Non prevedeva alcuna scelta. L'unico obbiettivo era lasciare fare tutto agli operatori. Il ragionamento sottostante era il seguente: l'amministrazione non interviene perché non ha risorse, quindi apriamo le porte al privato e stiamo a guardare cosa succede».
Il vostro?«Nel nostro piano qualsiasi intervento deve tenere conto delle esigenze del contesto in cui viene realizzato. Sia in termini di servizi e verde sia in termini di realtà abitativa. L'offerta di servizi pubblici è decisa con la partecipazione del pubblico. Nel piano precedente era scomparsa la differenza tra servizio pubblico e privato e soprattutto il pubblico rinunciava a qualsiasi regia».
Il Pgt prevede 4 milioni di metri quadrati in meno di cemento. L'Istat ha lanciato l'allarme sul consumo del suolo. A Milano e provincia è stato cementificato il 37,1 per cento del territorio. Un dato impressionante.«Bisogna riflettere. Adesso bisogna puntare molto sulla ristrutturazione e sul recupero di quello che c'è prima di pensare a nuovi grandi interventi».
Basta grattacieli?«Lo valuteremo volta per volta. Però mi sento di dire una cosa: occupiamoci prima degli spazi privati male utilizzati. Usiamo i grattacieli che abbiamo».
L'opposizione, dal Pdl ai grillini, dicono che meno cemento più verde e solo uno slogan e che in realtà il verde, a partire dal Parco Sud, è in pericolo.«Non è vero che riduciamo il verde. Abbiamo introdotto il piano della media Valle del Lambro. Abbiamo avviato il riconoscimento delle aree agricole. Abbiamo disegnato la rete ecologica comunale, l'asse del verde cittadino che si connette con quello regionale...»
E rendere edificabili i 310 mila metri quadrati di via Vaiano Valle confinanti con il Parco Sud?«Facciamo chiarezza una volta per tutte. Il Parco Sud deve conservare la sua funzione agricola. Dal Parco Sud non possono nascere volumetrie. Ma abbiamo dovuto fare i conti con una scelta scellerata della precedente amministrazione in base alla quale alcune proprietà godevano di alcune volumetrie inventate ad hoc a cui si sommavano altre volumetrie di aree limitrofe. E tute venivano trasferite in un'area pubblica: l'Ortomercato. Di fatto, senza gara si regalava un'area pubblica con il doppio delle volumetrie in una zona con un valore di mercato molto più alto».
Un'altra accusa è quella di scarsa trasparenza e poca partecipazione.«Abbiamo dato ai consiglieri tutto il materiale in nostro possesso. Questa battaglia del Pdl sul fatto che abbiamo recepito le osservazioni dei cittadini svela il vero pensiero dell'opposizione: le osservazioni sono inutili».
La scarsa partecipazione?«Abbiamo incontrato i comuni limitrofi in assemblee pubbliche con il sindaco, abbiamo incontrato le zone, abbiamo organizzato assemblee cittadine in ogni zona della città, abbiamo incontrato gli operatori, i sindacati, le associazioni ambientaliste, le categorie produttive. Chi dice che non c'è stata trasparenza, in verità non ha voluto partecipare. Ai grillini rispondo che la Commissione Urbanistica è un momento istituzionale. La loro presenza è stata inesistente, non c'è stato nessun intervento. Il Pdl ha fatto ostruzionismo. Solo la Lega ha chiesto di approfondire il merito».
Altra accusa. I vostri rapporti privilegiati con le Ferrovie dello Stato sugli scali.«I procedimenti amministrativi sono trasparenti. Gli accordi di programma sono usati in tutti i grandi progetti. Nulla che non sia alla luce del sole. Gli scali devono rappresentare un grande progetto strategico non solo per Milano. L'accordo di programma è lo strumento migliore per permettere a Fs di valorizzare le loro aree e di consentire un ritorno alla città in termini di infrastrutture. Voglio ricordare che l'accordo di programma era stato adottato dalla precedente amministrazione e mai chiuso».
Quando entrerà in vigore il Pgt?«Adesso il piano va pubblicato. Entro l'estate. Conto che per autunno il Pgt entri in vigore».
la Repubblica
Più abitanti e 21 nuovi quartieri apre il cantiere della città futura
di Teresa Monestiroli
Dopo sedici sedute in Consiglio comunale e quasi 55 ore di dibattito in aula, da oggi Milano ha un nuovo Piano di governo del territorio. Nuove regole nel Pgt per disegnare la città del futuro che, promette Palazzo Marino, avrà più verde e meno cemento, più case a basso costo e meno flessibilità nelle destinazioni d’uso. Molto soddisfatto il sindaco Pisapia che dice: «Finalmente la città ha gli strumenti per quel cambiamento da tanti auspicato, anche nel rapporto con i cittadini dal momento che sono state accolte molte osservazioni».
La città del 2030, che la giunta Moratti immaginava ripopolata di quasi 500mila nuovi abitanti, si fermerà a un milione e 500mila persone: 155mila cittadini in più rispetto a oggi, compresi però quei 94mila che nei prossimi anni andranno ad abitare nei quartieri già in costruzione (da Citylife a porta Nuova). L’espansione si riduce, grazie a una drastica revisione degli indici di edificabilità e allo stralcio di intere aree di trasformazione urbana come il carcere di San Vittore e i binari di Cadorna, viale Forlanini, Cascina Monluè e una parte di Porto di Mare dove si costruirà solo in quella fetta di territorio che non rientra nel Parco Sud. La cintura verde che abbraccia Milano a sud è stata esclusa dalla regola della perequazione che permette di trasferire le volumetrie da una parte all’altra della città. I nuovi quartieri passeranno da 26 a 21 (con 27mila abitanti), il tunnel Expo-Linate viene archiviato per sempre, il distretto economico di via Stephenson (sulle aree di proprietà di Salvatore Ligresti) molto ridimensionato così come gli ex scali ferroviari il cui indice di edificabilità scenderà allo 0,70, compresa la parte da destinare all’housing sociale.
La lunga maratona in aula per rivedere il Piano urbanistico, approvato il 4 febbraio 2010 dalla precedente amministrazione con i soli voti dell’allora maggioranza di centrodestra, è iniziata nel novembre 2011 con la revoca dell’approvazione da parte della giunta Pisapia e l’avvio di una seconda valutazione di tutte le 5mila osservazioni presentate da cittadini e associazioni. Un’analisi durata settimane che ha portato le richieste di modifica accolte da 350 (giunta Moratti) a oltre 2mila. Il dibattito in consiglio sulle osservazione è partito il 20 febbraio scorso e si è concluso ieri sera alle 20 con il voto dopo 16 sedute, il doppio rispetto al 2010: 27 i consiglieri favorevoli, tutti di centrosinistra, contrario Mattia Calise del Movimento cinque stelle, mentre l’opposizione è uscita dall’aula.
Gli indici: Edifici per 2,5 milioni di metri quadri la revisione ha dimezzato il cemento
Sarà una città con meno cemento. Drastico il taglio sul costruito che, con il nuovo Piano, viene ridotto del 50 per cento fermandosi a poco più di 2,5 milioni di metri quadrati. Una diminuzione che si ottiene sia dallo stralcio di alcuni interventi, sia dalla riduzione dell’indice di edificabilità che da 0,50 metri quadrati per metro quadrato (Pgt della Moratti) è stato ridotto a 0,35, con l’introduzione anche di un tetto massimo di 1 raggiungibile solo costruendo anche case a basso costo.
I vincoli: Salvo il Parco Sud, terreni congelati niente palazzi a Monluè e Porto di Mare
Il Parco Sud è salvo: le aree agricole non produrranno più volumetrie da spostare in altre parti della città. In questo modo vengono cancellati dal Pgt 2.600.000 metri quadrati di cemento "virtuale" che, secondo il vecchio documento, sarebbero potuti atterrare in altre zone favorendo i privati che oggi possiedono aree verdi non edificabili. La nuova amministrazione ha anche cancellato dal Piano l’area di trasformazione urbana di Cascina Monluè e una parte di Porto di Mare.
Le aree: Addio alla Défense con 50 grattacieli no al progetto record a Stephenson
Drastico ridimensionamento della Défense milanese. Quello che nei piani della Moratti doveva diventare il nuovo distretto economico con 50 torri in via Stephenson, grazie a un indice di edificabilità record pari a 2,7 metri quadrati per metro quadrato, viene completamente rivisto. Da 1.200.000 mq di mattoni si scenderà a 300.000 (-75%), dal momento che l’indice è stato ridotto allo 0,70. Qui, come in via Toffetti, è stato inoltre introdotto il vincolo del terziario: sarà vietato costruire abitazioni.
L’housing sociale: Promesse 25mila case fuori mercato la quota low cost diventa obbligatoria
Il nuovo Piano punta all’housing sociale introducendo l’obbligo di costruire case a basso costo in tutte le aree con superficie territoriale superiore a 10mila metri quadrati. Se nel precedente Pgt chi realizzava edilizia convenzionata otteneva un bonus di volumetrie (ma poteva anche scegliere di realizzare opere pubbliche diverse), il nuovo documento rende obbligatorio l’housing sociale. Saranno costruiti 24.953 nuovi alloggi, di cui 14.862 in vendita agevolata, 6.405 a canone moderato e 3.686 a canone sociale.
La mobilità: Treni leggeri e un anello di binari così la Circle line sfiderà il traffico
Il tunnel che avrebbe dovuto collegare l’aeroporto di Linate al sito di Expo, attraversando sotto terra l’intera città, non si farà. Stralciato dal Pgt perché insostenibile dal punto di vista economico e ambientale, il progetto è quindi definitivamente tramontato. Resta invece nei piani di Palazzo Marino la Circle Line, il treno leggero che farà il giro della città e che rientra nell’accordo del Comune con le Ferrovie dello Stato riguardo alla trasformazione degli ex scali ferroviari.
L’ambiente: Scatta il bonus sul risparmio energetico nelle ricostruzioni un premio del 15%
Premio di volumetrie a chi riqualifica vecchi stabili secondo le nuove regole del risparmio energetico. Il Pgt modificato dalla giunta Pisapia triplica il bonus "ambientalista" passando dal 5 per cento in più fissato dalla giunta Moratti al 15. Un diritto che, secondo le nuove regole, non decade dopo cinque anni come previsto nel vecchio piano. Inoltre il Pgt prevede per i nuovi edifici il raggiungimento di un adeguato livello di eco-sostenibilità energetica, che verrà fissato dal regolamento edilizio.
Corriere della Sera
Approvato il nuovo piano urbanistico
di Armando Stella
Un'eredità «scomoda, non scelta» e per questo profondamente riformata sulla base delle correzioni invocate dai cittadini. Meno cemento e più verde rispetto agli indirizzi della ex giunta Moratti; vincoli più stringenti per i parchi, gli scali ferroviari e le aree dismesse; una quota più importante di edilizia residenziale pubblica. Il consiglio comunale ha approvato ieri sera con i voti del centrosinistra il nuovo Piano di governo del territorio, la versione riveduta e corretta del documento che disegna i margini d'intervento per i costruttori, fissa i paletti per i cantieri e traccia le linee di sviluppo della città.
L'assessore all'Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris, ha accolto il voto con commozione sui banchi della giunta e ricevuto l'abbraccio affettuoso di Giuliano Pisapia. Un mazzo di fiori, profumo di gloria. Ha ringraziato i dipendenti degli uffici, l'assessore, riservato l'onore delle armi alla Lega che «ha accettato il confronto nelle differenze», e fatto la voce grossa con il Pdl e i terzisti «che non hanno avuto rispetto per il consiglio e la città». Stoccata polemica: «Una parte politica ha scelto di non esserci, in aula, perché aveva obiettivi diversi per Milano». Esulta anche il sindaco: «Una decisione importante, perché finalmente la città e l'amministrazione hanno gli strumenti per quel cambiamento da tanti auspicato».
Il nuovo masterplan dimezza la «potenzialità edificatoria» sulla terra ancora libera (meno 51%). Cosa significa? Un'immagine aiuta a immaginare lo scenario: sono stati scongiurati 124 grattacieli Pirelli, un enorme blocco di quattro milioni di metri quadrati di cemento. «La giunta Pisapia — ha aggiunto l'assessore De Cesaris — si era presa un impegno con la città e lo ha rispettato. Ha valutato le osservazioni dei cittadini, analizzandole una per una. Il volto di Milano cambierà: ci sarà più verde, meno cemento e una mobilità a misura d'uomo». Il Comune consentirà la costruzione di 14.862 appartamenti a canone agevolato, altri 6.405 alloggi a prezzo moderato e 3.686 case ad affitto sociale.
Un'estenuante maratona politica. Sedici sedute del nuovo consiglio, oltre 55 ore di dibattito, decine di assemblee pubbliche: «Il documento ha recepito in tutto o in parte il 44 per cento delle osservazioni ricevute da cittadini, associazioni e imprese» (a fronte di un 7 per cento prodotto dalla ex giunta Moratti). Viene protetto interamente il Parco Sud e azzerato il rischio cemento negli altri ambiti di trasformazione periurbana. Nessun palazzo è previsto al Forlanini, a Cascina Monlué e a Porto di Mare. Sbaragliata anche l'ipotizzata «Defense» nella zona di via Stephenson (metri quadrati edificabili tagliati da 1,2 milioni a 300 mila). Alleggerito il peso dei cantieri in altre zone sensibili, dalla Bovisa a Rubattino, e dagli scali ferroviari dismessi ancora al centro di una trattativa con Rfi (da Farini a Lambrate, a San Cristoforo).
Ventisette voti a favore, quelli dalla maggioranza. Un contrario, il grillino Mattia Calise: «Sono mancate partecipazione e trasparenza». Pdl e Lega sono usciti dall'aula: «Siamo stati contrari all'impostazione del dibattito sul Pgt — ha spiegato il consigliere del Carroccio, Luca Lepore —, ma abbiamo lavorato con piacere ai tavoli di confronto». Duro il commento del centrista Manfredi Palmeri: «Il provvedimento è inefficace, sarà decisivo il monitoraggio del consiglio». Conclude l'assessore De Cesaris: «Nel Piano è stato ristabilito il giusto equilibrio tra interventi e cura della città pubblica. Ora la grande sfida è il recupero del patrimonio esistente e la riqualificazione delle periferie». Priorità ai mezzi di trasporto sostenibili: è stato cancellato il tunnel stradale sotterraneo Expo Forlanini, avanti tutta sui nuovi metrò e lacircle lineferroviaria.
Masseroli: dieci domande a Pisapia
Il Pdl esce dall'aula e non vota il Pgt. Ma prima di salire sull'Aventino, Carlo Masseroli, capogruppo del Pdl e padre dell'ex Pgt, pone dieci domande al sindaco Giuliano Pisapia. Eccone alcune.La prima è quella che va ripetendo da settimane: «Tutti abbiamo concordato un fermo no al consumo di nuovo suolo. Non trova contraddittorio rendere edificabili 310.000 mq (pari alla grandezza del Parco Sempione) confinanti con il Parco Sud (via Vaiano Valle) e oggi coltivati, come previsto dall'articolo 35 del piano delle regole? Nell'osservazione utilizzata per apportare questa modifica al piano non c'è traccia di questa richiesta». E sempre sul verde: «Come spiega la scelta di costruire case sugli oltre 40.000 mq di Cascina Carliona (zona Barona) area oggi coltivata a riso? E pensare che l'osservazione utilizzata per apportare questa modifica chiedeva di mantenere la funzione agricola e annettere l'area al confinante Parco Sud».
Ancora verde e cemento. Ma questa volta riguarda lo scalo Farini: «Non crede che un polmone verde allo scalo Farini sia desiderabile? Perché rifiuta di dotare Milano di un nuovo grande parco cittadino in centro (pari al doppio della dimensione del Parco Sempione)?». Sempre sugli scali ferroviari. «Stiamo scrivendo le regole generali della città e contemporaneamente questa giunta prende accordi su misura con Ferrovie dello Stato. Perché? Perché le regole non funzionano? Perché ad alcuni si vuole dare di più degli altri? Perché non imponiamo alle Ferrovie di mettere subito in funzione la circle-line? Ritiene che anticipare le opere pubbliche sia troppo pretenzioso?».
C'è poi il versante dell'housing sociale: «Perché — chiede Masseroli al sindaco — rifiuta di investire in case a basso costo per giovani under 30, famiglie e madri o padri separati con almeno un figlio a carico e forze dell'ordine? Abbiamo chiesto nuovi 10.000 alloggi a 1.800 € al metro. Ci è stato risposto che il cemento è cattivo. Mi chiedo quale sia il cemento buono? Se è tutto cattivo, che nessuno costruisca. Lasciamo il degrado dove c'è. Non facciamo nulla». Infine una domanda sui luoghi di culto: «Perché è stata eliminata la possibilità di vendere i propri diritti edificatori per riqualificare il nostro inestimabile patrimonio artistico e culturale?». La guerra continua.
il Giornale
Via libera al Pgt il Pdl lascia l’aula prima del voto
I consiglieri del Pdl (compreso il papà del vecchio Pgt, l'ex assessore Carlo Masseroli) hanno lasciato l'aula dopo le dichiarazioni di voto contrario al Piano del territorio firmato Pisapia. Ma le regole urbanistiche sono state approvate ieri con 27 voti poco dopo le 20 a Palazzo Marino. La giunta Pisapa ha accolto o parzialmente il 45% delle osservazioni presentate da cittadini, associazioni e imprese. Il nuovo Pgt cancella il tunnel Linate-Forlanini, riduce le volumetrie destinate a parcheggi pubblici in centro, abbassa del 75% l'indice di edificabilità nell'area di via Stephenson che nel vecchio piano era destinata a diventare la «Defense» milanese, il quartier generale della finanza. Il capogruppo Pdl Masseroli rilancia in aula al sindaco «le 10 domande che sono rimaste senza risposta».
il Giorno
Via libera di Palazzo Marino Approvato il nuovo Pgt di Milano
Milano, 22 maggio 2012 - Approvato il nuovo Pgt del Comune. Il nuovo strumento urbanistico e’ stato varato dal consiglio comunale con 27 voti a favore della maggioranza e salutato da un applauso dei consiglieri del centrosinistra. Il Piano ha ricevuto il voto contrario di Mattia Calise del Movimento 5 stelle. Fuori dall’aula il Pdl, la Lega, Milano al centro, mentre Manfredi Palmeri pur presente non ha partecipato al voto.
“Una decisione importante. Finalmente la città ha gli strumenti per quel cambiamento da tanti auspicato”. Queste le parole del sindaco Giuliano Pisapia al termine del consiglio comunale ha commentato l’approvazione del Pgt. Un cambiamento, ha detto il sindaco, che è anche “di rapporto con i cittadini, dal momento che sono state esaminate e valutate in molti casi positivamente le oltre 4mila osservazioni che i cittadini avevano fatto al Pgt della precedente amministrazione”. Ora “avremo più verde, più housing sociale e una città più vivibile. La soddisfazione è estremamente rilevante”.
L’assessore all’Urbanistica Lucia De Cesaris nel suo intervento dopo il voto, si è rivolta a chi “non ha voluto mai entrare nel merito nonostante gli uffici abbiano messo a disposizione tutto il materiale”, con un’appendice polemica con Manfredi Palmeri di Fli sulla correttezza del percorso del Piano. “Attueremo e realizzeremo quanto previsto in questo piano giorno per giorno”, ha detto De Cesaris in conclusione. Il documento, con le modifiche apportate a quello approvato dall’aula di palazzo Marino il 4 febbraio dello scorso anno, viene varato dopo un iter istruttorio di 16 commissioni e 15 sedute del consiglio comunale.
I dati provvisori del censimento della popolazione di Roma e della sua provincia delineano una situazione urbanistica fuori controllo, frutto invitabile dell’assenza di un governo pubblico delle città e dei territori: l’intera provincia di Roma è stata coinvolta nella dissennata crescita urbana di Roma e ne paga i prezzi più elevati.
Cominciamo da Roma. L’Istat certifica un ulteriore lieve declino demografico della capitale che si attesta su un valore di poco superiore ai due milioni e seicento mila abitanti. Erano 50 mila in più nel precedente censimento (2.663 mila abitanti). Nonostante la gigantesca quanto immotivata offerta di questi ultimi dieci anni dovuta al piano regolatore liberista voluto dal sindaco Veltroni, la città non cresce. Segno evidente che i valori immobiliari sono così alti da essere insostenibili per la maggior parte della popolazione romana che è stata così costretta a trasferirsi nella immensa periferia metropolitana. E i numeri del disastro annunciati sono davvero impressionanti. Il litorale sud di Roma che comprende Anzio, Ardea, Nettuno e Pomezia è diventata una città di oltre 190 mila abitanti. Venti anni fa erano 120 mila. Nell’ultimo decennio la percentuale di incremento è stata del 31%. Anche il litorale nord (Ladispoli, Cerveteri fino a Civitavecchia) si avvia a diventare una grande conurbazione: oggi la sua popolazione complessiva supera i 150 mila abitanti e il dato più impressionante è quello di Cerveteri che con un aumento percentuale del 34% sul decennio 2001/2011 raggiunge le dimensioni di 35 mila abitanti. Il comprensorio del lago di Bracciano che raccoglie anche Anguillara e Trevignano ha dimensioni demografiche più modeste rispetto ai due precedenti (poco più di 50 mila abitanti), ma presenta – anche grazie alla linea ferroviaria metropolitana che lo collega velocemente con la capitale – un aumento percentuale del 30% nel decennio.
La valle del Tevere occidentale (Fiano, Capena e altri centri minori) supera ormai i 40 mila abitanti complessivi e il dato di Fiano – fortemente connesso con Roma per la presenza del casello autostradale lungo l’A1 – fa comprendere bene le dimensioni dei fenomeni in atto: in venti anni la sua popolazione è raddoppiata e oggi supera 13 mila abitanti. Sul lato opposto del fiume, la conurbazione tra Monterotondo e Mentana insieme agli altri comuni più piccoli ha una dimensione tre volte più grande in assoluto del precedente (120 mila abitanti totali) e in particolare Monterotondo raggiunge 40 mila abitanti. Anche in questo caso, potente fattore di sviluppo è stata la linea ferroviaria metropolitana che collega l’area con Roma. Analogamente fuori di ogni controllo sono i dati della grande area urbana formata da Guidonia e Tivoli: oltre 150 mila abitanti di cui 80 mila nella sola Guidonia che diventa la terza città del Lazio (dopo Latina) con un territorio pressochè privo di sevizi e con una della più alte percentuali di abusivismo d‘Italia.
Resta infine l’area dei Castelli romani, fino a pochi decenni fa cantata da poeti e pittori per la bellezza dei suoi spazi aperti. Gli attuali 360 mila abitanti hanno sconvolto la geografia dell’antico vulcano che si presenta, ad eccezione dell’area boscata centrale, come una grande conurbazione senza soluzioni di continuità. Di fronte a questo impressionante fenomeno di esplosione metropolitana, resta da chiedersi quale sia la qualità urbana di questi nuovi centri assurti a città di medie dimensioni in due decenni e quale sia la struttura di trasporto su ferro che garantisce ai nuovi abitanti di poter arrivare senza sforzo a Roma, luogo dove sono rimasti concentrati tutti i principali luoghi di lavoro pubblico e privato. Le risposte sono entrambe preoccupanti. «Non ci sono risorse», così ci dicono ad ogni occasione. Così i piccoli centri senza alcun servizio di qualità, senza scuole superiori e senza un parco urbano degno di questo nome, sono oggi città medie di 40/50 mila abitanti ma continuano ad essere prive di servizi di qualità perché non ci sono risorse da investire. Gli abitanti espulsi da Roma sono dunque condannati a vivere in condizioni sociali peggiori di quelle della capitale.
Condizioni peggiori che sono ulteriormente aggravate dalla crisi della mobilità. Roma è perennemente paralizzata dal traffico automobilistico privato, ma in media i suoi abitanti percorrono per raggiungere il posto di lavoro una distanza media di dieci chilometri. Chi è stato espulso verso l’area metropolitana percorre anche più di cinquanta chilometri per raggiungere la città ed è – salvo rare eccezioni – costretto a farlo con la propria automobile per la mancanza di collegamenti degni di una città capitale e di un paese civile. Esistono infatti soltanto due ferrovie efficienti, quelle che collegano i comprensori di Bracciano e di Monterotondo. Tutta l’altra gigantesca area metropolitana è costretta a raggiungere Roma con l’automobile. Tre ore al giorno di media tra andata e ritorno di media gettate via per spostarsi. Una vita condannata nell’immobilità, per giunta aggravata dall’insostenibile prezzo della benzina.
Al danno di essere stati costretti a trasferirsi lontano dalla capitale si aggiunge dunque anche la beffa di vedere aggravate le proprie condizioni di vita. In termini di qualità dei luoghi urbani per l’assenza di servizi pubblici; in termini di qualità della vita per le lunghe ore gettate via nella propria automobile; in termini economici per i costi esorbitanti degli spostamenti. Questo sconvolgente risultato è stato causato dalla cancellazione di qualsiasi regola: ci hanno raccontato che lasciando mano libera all’iniziativa privata tutto sarebbe stato risolto. Era vero il contrario e oggi scopriamo il terribile imbroglio. Dobbiamo invertire la rotta e investire risorse economiche nelle città e nei sistemi di trasporto collettivi. Soltanto con la mano pubblica si creano migliori condizioni di vita e di uguaglianza tra i cittadini.
Sono passati vent’anni dall’inaugurazione del Porto Antico di Genova, per l’Expo del ‘92. So che lei ama molto di più parlare del futuro che del passato e in genere non le piacciono le celebrazioni. Ma forse possiamo parlare del futuro anche rievocando un ventennale. Il Porto Antico fu una delle ultime grandi opere a cambiare il cuore di una grande città italiana. Da allora ha prevalso, nel migliore dei casi, una specie di pietoso maquillage.
Fra due anni ci sarà l’Expo di Milano e nessun milanese, compreso me, si aspetta che cambi in meglio la vita della città, come fece il Porto Antico a Genova. Senza fare altre polemiche, quale fu l’idea guida di quel progetto?
«Senza polemiche, ricordo soltanto i fatti. Il motto dell’intera impresa fu una frase in genovese, che presentammo perfino nel progetto alla commissione internazionale, con traduzione a lato. La frase era: Chì nù se straggia nìnte. Qui non si spreca nulla. E infatti vent’anni dopo non si è buttato nulla. Tutto è rimasto, ha continuato a vivere e a popolarsi di gente, sempre di più. L’Expo fu una formidabile occasione, perché c’erano finalmente i soldi per risolvere un grande problema di Genova, la decadenza del vecchio porto, che rimaneva il cuore cittadino. Un cuore ormai molto malandato. Ma da genovesi inorridivamo all’idea di usare quei soldi per costruire soltanto una colossale e costosa vetrina internazionale, da smantellare il giorno dopo, come è avvenuto dappertutto dopo l’Expo».
In tempi di crisi della politica e di antipolitica montante, anche sotto le insegne del suo amico Beppe Grillo, vale la pena di ricordare che quel progetto fu possibile grazie alle personalità illuminate del sindaco Fulvio Cerofolini, ex partigiano e sindacalista, e del suo vice, Giorgio Doria, il "marchese rosso" diseredato dalla famiglia per l’impegno in politica, padre del nuovo sindaco Marco Doria. Non è così?
«Assolutamente sì. Fu un progetto collettivo, io mi limitai a fare il geometra della situazione. L’opera prese alcuni anni e collaborai bene con vari sindaci, Cerofolini, Campart, Merlo. Ma tutto nacque con Cerofolini e Giorgio Doria, i migliori politici nei quali un architetto potesse imbattersi, onesti, moderni, colti. Giorgio Doria prese l’iniziativa di consultare per primo Fernard Braudel, il grande storico del Mediterraneo, andammo insieme e fu un incontro decisivo. In qualche modo paradossale. Sembrava conoscere meglio il carattere della città lui che noi due genovesi. E Doria era perfino discendente di un doge».
Venezia e Genova, miracoli della civiltà mediterranea, Braudel le aveva studiate per una vita. Come influenzò il suo lavoro di "geometra"?
«Mi convinse appunto a fare il geometra. Il miracolo urbano, l’utopia felice di Genova e di Venezia consistono all’essenza nel genio con cui sono utilizzati spazi minimi. Dal mio studio verso Arenzano fino a Nervi, Genova è una striscia cittadina di ventidue chilometri, stretta fra alte montagne e un mare profondo. Lo sfogo e la ricompensa di tanta angustia, fisica, politica ed economica, è sempre stato il porto, l’apertura al mondo. In quegli anni però la città aveva voltato le spalle al mare, il vecchio porto era diventato una specie di ghetto. Bisognava riaprire quella porta, quella piazza, l’unica vera piazza di Genova. Vede, i miei ricordi più belli da bambino erano di quando mio padre mi portava per mano la domenica a passeggiare al porto. Da decenni nessuno lo faceva più, nemmeno io coi miei figli».
Se l’obiettivo era di riportare padri e figli per mano nel porto antico, è stato raggiunto alla grande. Non solo fra i genovesi. Milioni di bambini ora conoscono il porto antico e l’acquario.
«Sì, ed è una grande gioia. Qualcuno dice anche che l’acquario ha avuto fin troppo successo e in un certo senso sono d’accordo. Da genovese mi piacerebbe che i turisti non si fermassero all’acquario e dintorni, ma salissero per visitare uno dei centri storici più belli del mondo».
Uno dei motivi per cui Piano passerà alla storia è questa capacità di popolare zone morte delle città. Il centro Pompidou, il porto di Genova, Potsdamerplatz a Berlino, il quartiere dell’Auditorium a Roma. Esiste un segreto da rivelare ai giovani architetti?
«Ai ragazzi che vengono a bottega da me, a Genova o a Parigi, dico sempre di stare molto attenti a come si comincia un progetto. Io disegno per prima una piazza, sempre. Il vuoto, prima del pieno. Italo Calvino, che ho avuto la fortuna di conoscere bene, scriveva che ogni città ha un luogo felice e sono felici i luoghi dove i cittadini vanno volentieri».
La piazza è la grande invenzione urbanistica e politica degli italiani. Nel Settecento venivano chiamati gli architetti italiani per costruirle in tutta Europa, da San Pietroburgo a Salisburgo. È ancora così, almeno per lei?
«Sì, mi chiamano in giro per il mondo anche per questo. Prenda il progetto della nuova sede della Columbia University a New York. Nasce tutto intorno a una piazza e credo sia questa una delle principali ragioni per cui l’hanno scelto».
A Genova la piazza del porto antico è piuttosto singolare, una piazza a mare, come la splendida piazza dell’Unità a Trieste.
«Una piazza fra due città, la Genova di pietra dei palazzi del centro e la Genova d’acqua del porto. Una potente ed eterna, di marmo, l’altra mobile, con una toponomastica che cambia ogni giorno, anzi quasi ogni ora, con le navi alte come palazzi che vanno e vengono. Nel mare che si muove anche di notte, non sta fermo mai, come canta Paolo Conte. Un altro elemento importante era creare un luogo internazionale, nel solco della tradizione cittadina. Genova è una città internazionale per vocazione e necessità. Ha fatto del meticciato, la propria forza. È da secoli multietnica, si direbbe oggi. Se prendi i pittori genovesi del quindicesimo secolo, trovi in ogni ritratto di famiglia un nero, un orientale. La facciata della chiesa di San Lorenzo è fatta con pezzi presi da tutto il mondo. Nei mercati cittadini trovavi sapori e odori di ogni angolo della terra».
Negli anni del progetto del porto antico, un suo amico, Fabrizio De Andrè, inventava con Creuza de ma la world music, mescolando le sonorità del Mediterraneo, intorno alla riscoperta della lingua genovese. Oggi la via che costeggia l’acquario porta il suo nome.
«Gli sarebbe piaciuta, è una via che porta al mare, dove finiscono tutte le storie dei genovesi. Fabrizio è stato un fratello per trentacinque anni e uno dei primi a cui ho parlato del progetto. Il fatto curioso è che io cercavo da architetto di fare il poeta e lui, poeta vero, invece mi incalzava molto sugli aspetti pratici. De Andrè era coltissimo, curiosissimo della tecnica, sempre aperto al nuovo. Ricordo che già allora parlava di sostenibilità, un concetto sconosciuto all’epoca. L’intuizione di incrociare le tradizioni musicali del mondo era in anticipo di vent’anni sulle mode e in un’Italia dove l’immigrazione straniera ancora quasi non esisteva».
Oggi le città italiane sono sempre meno vivibili, divise in ghetti per ricchi e per poveri. Per non parlare dello scempio dei nostri porti. È possibile invertire la tendenza?
«È paradossale, ma quando vado in giro per il mondo, da Los Angeles a Seul, tutti citano come modello le città italiane, il nostro stile, il vivere appunto in piazza, in strada. Noi invece negli ultimi anni abbiamo pensato di imitare mediocri modelli stranieri, immaginando d’inseguire chissà quale straordinaria modernità. Sono molte le cose da fare, ma l’errore è pensare solo a grandi opere, utili magari alla politica spettacolo, ma non alla vita di tutti i giorni. Bisognerebbe invece cominciare dal piccolo, dalle piste ciclabili, dai giardini, dai mille minimi interventi per ricucire il tessuto urbano, a partire dalla periferia fino al cuore delle città. E naturalmente bandire le automobili dai centri cittadini. Riacquistare insomma uno sguardo più lungo. La politica di questi vent’anni ha inseguito il consenso giorno per giorno, ma alla fine lo sta perdendo tutto insieme. Mi auguro che chi arriverà abbia imparato la lezione».
postilla
Un miracolo, non c’è che dire: se in cima alla torre eleviamo un architetto, meglio ancora un’archistar mediatica terzo millennio, invece della solita barzelletta su chi buttare giù per primo ne nasce la grande narrazione urbana. Scherzi a parte, nonostante sia il giornalista poco pettegolaio che l’architetto con ego misurato attenuino l’effetto, siamo sempre dalle parti del famoso equivoco per cui quando un centro urbano, un’area metropolitana, rinascono a nuova vita dopo una crisi di qualunque genere, si va a cercare la chiave di tutto in chi ha messo la ciliegina sulla torta. Come spiegare in altro modo l’entusiasmo con cui sindaci di tutto il mondo chiamano appunto i grandi nomi del design internazionale a “risolvere i problemi urbanistici”? Quando, sindaci in testa, dovrebbero ormai averlo capito tutti che se la città è di tutti, naturalmente è anche dell’architetto. Ma non più di così. Lasciamone magari un pezzettino pure al fruttivendolo, alle studentesse sui gradini della biblioteca, a quel tizio che si allaccia le scarpe contro il paracarro … (f.b.)
Vezio De Lucia voleva creare «al posto delle ciminiere Italsider, una riviera di città turistica, bella forse più di via Caracciolo, nell’incantevole scenario tra l’isoletta di Nisida e il litorale flegreo», mare balneabile per due terzi, un parco, strutture per la ricerca scientifica, con attrezzature alberghiere e un massimo di 2 milioni di metri cubi di edifici. Ma non si è mai realizzato. E ora all’orizzonte c’è un impianto per trattare i rifiuti.
Professor De Lucia, che ne voleva fare lei di Bagnoli?
«Quello che fu deciso quando io ero lì: volevo risarcire la città di quello che non ha mai avuto sin dall’Unità d’Italia».
Da urbanista metterebbe insieme finalità legate al ciclo dei rifiuti e turismo?
«Naturalmente mi ha stupito molto. Non ho pregiudizi verso questo tipo di impianti, se sapessi di una cosa del genere nei pressi di casa mia non scenderei per strada, perché credo ci si debba fidare dei poteri pubblici. All’estero, a Parigi sulla Senna, a Vienna sul Danubio ci sono impianti anche più hard di quello ipotizzato a Bagnoli, che funzionano perfettamente. Però non posso negare la mia perplessità».
Su che cosa?
«Sul fatto che la prima cosa di cui si parla a proposito di Bagnoli sia appunto un impianto di compostaggio».
Perché?
«Secondo me continua a essere prevalente l’idea che Bagnoli sia uno spazio vuoto da riempire. Non ci si crede. Stiamo ancora a domandarci "che ne facciamo?", in preda all’horror vacui».
Non si crede in che cosa? Nel suo progetto, nella possibilità di un recupero come quello avvenuto per la Ruhr in Germania?
«L’unica cosa che si fa è la Porta del parco. Un giorno mi telefona una tv per un’intervista e mi danno appuntamento "alla Porta del parco". Chiedo che cos’è, ci vado e trovo edifici in vetro e cemento. Questa è la rappresentazione pratica dell’idea del vuoto da riempire. Illustri personaggi della politica e anche del mio mestiere di fronte all’ipotesi di 120 ettari di parco replicano: "Non ce li possiamo permettere". E allora Ferrara, che ne gestisce 1200 dalle mura fino al Po? C’è il rifiuto della cultura politica ma anche della cultura napoletana tout court di immaginare questo spazio che doveva servire alla ricreazione dell’anima e del corpo, e che era però anche un’operazione fattibile, credibile, finanziariamente verificata. Questo non passa. La concreta operatività del progetto Bagnoli sarebbe stata dimostrata aprendo l’impianto sportivo, gli 80 ettari di parco. Sarebbe stato meglio dirlo alla fine: "In un angolino mettiamo anche l’impianto per i rifiuti"».
Invece?
«Invece a un anno dall’insediamento dell’amministrazione de Magistris, con Bagnoli in sofferenza, il primo intervento concreto di cui si parla non mi pare una cosa esteticamente convincente. Non sono contro. Ma fa pensare di nuovo che a Bagnoli si possa mettere quello che ci pare. Credo che questa amministrazione non sia accusabile di niente. Ma sono ora 20 anni che ha chiuso l’altoforno e dopo 20 anni stiamo ancora così».
Le scenografie barocche sono allo stesso tempo festose e drammatiche, come sapevano i grandi papi e i parroci di campagna che hanno adottato per un paio di secoli quel linguaggio emozionale, adatto indifferentemente per matrimoni e funerali. Ma le foto degli arredi e dell' apparato decorativo della settecentesca chiesa di San Paolo di Olbia – capitale della Costa Smeralda – accatastati in un angolo dopo il crollo, procurano la solita sensazione di sconforto. Una sensazione accentuata dalla “inattualità” delle esauste dorature di quei decori che nel tempo delle candele apparivano scintillanti come oggi i neon negli shopping mall. Una sensazione che conosciamo bene - e alla quale ci siamo abituati: si prova ogni volta che una calamità o la trascuratezza variamente declinata provocano danni – spesso irrimediabili – a manufatti famosi o sconosciuti, che dicono comunque della fatica di artisti e artigiani chiamati a testimoniare i progetti di comunità orgogliose. Sono molti i responsabili, ognuno con la propria dose di noncuranza, della perdita di pezzi consistenti del patrimonio italiano. Ma non è interessante sapere ora se le colpe del degrado della chiesa di Olbia sono dei parroci, della gerarchie ecclesiastiche o delle istituzioni civili.
Interessa la specialità di Olbia in questa epoca smemorata ( che non è più colpevole di altre città disinteressate al destino dei propri beni culturali). E' un caso speciale, Olbia, insieme ad altri: un complesso paesaggio della modernità adatto a spiegare i paradossi sociali e urbanistici, cresciuti nel tempo della crisi globale.
Nel compendio naturale più straordinario della Sardegna, ha realizzato in tempi rapidi una enorme urbanizzazione contro la bellezza di quel luogo. Piegandolo alle esigenze del mercato che dappertutto lascia poco tempo per occuparsi del paesaggio o della storia che resiste – documentata da quelle pochissime cose superstiti e per questo preziose come quelle sculture lignee mangiate dai tarli. Poche vecchie cose, malamente inglobate nella crescita feticcio, che meriterebbero una cura puntigliosa e spesso spese inferiori di quanto si immagina.
Colpisce la contraddizione: affiora normalmente nelle corti del lusso che esibiscono sguaiatamente le differenze tra ricchezze e miserie e quindi le spese superflue a dispetto di bisogni essenziali inascoltati.
D'altra parte è naturale domandarsi come sia possibile non disporre di qualche decina di migliaia di euro nel territorio dove atterranno continuamente sceicchi e nababbi, dove una casa può costare cento milioni di euro, e con il conto di una festa vip e cafona ci paghi il lavoro di un restauratore per molti mesi.
Il rischio in casi come questi, evidenziato dagli studiosi di società, è quello di perdere l'orientamento a cominciare dalla memoria di sé. E le città senza memoria, proprio come gli uomini, impazziscono senza rimedio. In questo quadro difficile meritano molto rispetto le fatiche degli amministratori olbiesi, ma l'entusiasmo acritico per la misura urbana che a decine di ettari per volta vola verso il raddoppio, appare francamente eccessivo («La Nuova Sardegna» del 9 maggio).
La vicenda dell'altare crollato rimanda inevitabilmente alla manifestazione «Monumenti aperti», in corso con risultati sorprendenti. Le file a Sassari e a Cagliari, e domenica scorsa a Alghero, per visitare architetture ben conservate ma pure brandelli di muraglie – testimoni di negligenze di altri tempi – ammoniscono contro gli sperperi odierni. I sindaci (e i vescovi per ciò che compete loro) dovrebbero trarre insegnamento da questa onda lunga di attenzione appassionata, che raramente si manifesta in modi così determinati. L'attesa di centinaia di persone per vedere l'abside mutilata di una cappella o un fortino dell'ultima guerra va oltre la curiosità suscitata da una iniziativa di successo.
Il rugby romano sarà presto soltanto un ricordo. Il basket – un glorioso passato di scudetti, fra Ginnastica Roma e Virtus – rischia di sparire dalla prima serie. Lo stesso può capitare al volley. Mentre le due squadre di calcio sono decisamente lontane, soprattutto la Roma, da Juve e Milan. La decadenza di una grande città si misura anche da questi fenomeni e segnali. Poi ve ne sono di più allarmanti, certo. Roma era la capitale europea di gran lunga più sicura. Con un tasso di omicidi talmente basso che, in Italia, veniva subito dopo Venezia e Bologna, le più “tranquille”, precedendo Firenze, Genova, Torino. Un omicidio volontario ogni 100.000 romani nel 2007, contro 1,7 omicidi di Milano e 1,5 della media italiana. Nell’ultimo anno c’è stata una escalation di ammazzamenti del 30 %. Impressionante.
Tutto è cambiato, in peggio. La violenza è di molto aumentata, come la smodatezza delle bevute dovuta anche all’assurdo allargamento degli orari in grandi piazze come Campo de’ Fiori, o a Monti, dove spesso scoppiano risse e si registrano accoltellamenti (l’ultimo di un giovane americano intervenuto a fare da paciere, qualche notte fa). L’ultimo decreto del governo dilata assurdamente orari e bevute. Ma il ministro Cancellieri non ha dato risposta alcuna alla denuncia allarmata in tal senso del senatore Luigi Zanda. Perché?
Con Alemanno i pullman turistici, per il Giubileo attestati in parcheggi esterni ben controllati, scorrazzano per Roma antica e parcheggiano, come minimo, sui Lungotevere rendendo più difficile un traffico sempre al limite del collasso. Il centro storico è una sorta di “mangiatoia” continua, senza più orari, fino a notte fonda. I cosiddetti “dehors”, orribili gazebos di plastica con stufe incorporate, di fatto impediscono la vista di chiese e palazzi. Erano stati in parte rimossi dal I° Municipio col “sì” della Soprintendenza statale. Ma Alemanno li ha prorogati fino a che non è sopravvenuta la primavera e non sono stati più indispensabili. Restano enormi ombrelloni con scritte pacchiane, menù goffi e ingombranti, camerieri che sollecitano i turisti a sedersi.
Fuori le mura cresce la foresta dei cartelloni pubblicitari. Dentro, la marea di tavolini e di seggiole di plastica invade senza regole né limiti anche piazza Navona trasformata in una bolgia dalla quale i vecchi “pittori”, ritrattisti o caricaturisti, sono di fatto spariti (saranno due o tre). L’arredo dei pubblici esercizi è precipitato. Per la prima volta i distributori automatici di coca-cola sono esposti nel gran teatro di Bernini e Borromini.
Nei vicoli e nelle strade intorno va pure peggio. Tor Millina ha raggiunto livelli di degradazione spaventosi. Fra pedoni e tavolini di plasticaccia sgasano in slalom, anche alle 13, camion e furgoni: portano cibi surgelati precucinati (nell’aria si diffondono odori inquietanti), oppure soltanto acque minerali, notoriamente deperibilissime. Anche in questo caso, niente limiti. Né vigili urbani in strada. Un caos e un frastuono continui. L’altra notte due vigilesse sono dovute battere in ritirata davanti ad una festa fracassona, a notte fonda, a Madonna dei Monti. E i residenti veri sono scesi sotto i 90.000, contro i 100-110.000 di pochi anni fa.
Penosa pure la gestione dei grandi servizi pubblici: tassa sui rifiuti decisamente elevata e raccolta differenziata poco efficiente. Così la spaventosa maxi-discarica di Malagrotta rimane un incubo. Le municipalizzate sono state affidate a manager “di fiducia” rivelatisi una frana, ad ex compagni “fasci”, e ad una corte di parenti, famigli e affini. Ed ora si vuol svendere una quota importante dell’Acea un tempo solida e sicura.
La politica culturale si è abbassata di livello, a parte il successo di Musica per Roma e di Santa Cecilia (dove nulla, per fortuna, è cambiato). Un pasticciaccio come quello per la Festa del Cinema era, qualche anno fa, inimmaginabile: ci si è intestarditi a cacciare una direttrice valida per far posto ad un direttore costoso e certamente “pesante”, aprendo conflitti di date e altro con Torino e Firenze. Al Maxxi la Fondazione procedeva, con entrate proprie superiori al 50 per cento (più del Louvre che è al 40). La si è voluta commissariare, grazie alla latitanza del ministro “tecnico”(?), costringendo alle dimissioni uno stimato dirigente come Pio Baldi, ex soprintendente di valore. Si è parlato dell’ex McDonald’s Mario Resca, sodale di Berlusconi, ma l’hanno “promosso” all’Acqua Marcia. E dell’onnipresente/onnipotente Emmanuele Emanuele che gioca in doppio con Vittorio Sgarbi sempre alla ricerca di “promozioni”, chissà.
Non va meglio, come dicevo, sul piano sportivo. Totti, dopo una stagione più che deludente, passa la mano per il basket e non si vede chi possa subentrare con progetti seri e capitali freschi. Non sta meglio la pallavolo, altro sport nel quale Roma eccelleva. Nel calcio la Lazio, tutto sommato, non demerita, anche se il suo presidente vuole soprattutto cubature attorno al nuovo stadio in una zona piena di vincoli. L’AS Roma sembra in stato confusionale: fuori dalla Champion’s e molto probabilmente dall’Europa League, ha raggiunto il record di espulsioni e fatto deprezzare taluni acquisti costosi, mentre il corso delle azioni è precipitato in Borsa da 1,09 € (primo trimestre 2011) all’attuale livello di 0,38-40 (- 60-65 %). Ora Luis Enrique ha deciso di lasciare ed è possibile che torni Vincenzo Montella che già allenava la Roma ed era stato indotto ad emigrare al Catania (dove ha fatto benissimo) da quei dirigenti che ora lo richiamano. Un colpo di genio.
Intanto i centurioni romani, tollerati per anni al Colosseo, rifluiscono da lì verso il Pantheon, in cerca di una qualche “rendita”. Anche per loro si profila il Parco tematico della romanità, una gigantesca Roma di cartapesta e cartongesso. Tanto per promuovere un’altra abbuffata di Agro romano. Qualcuno ricorda ancora i fasti alemanniani a tutto gas della Formula 1 all’EUR? Cittadini romani, le idee son queste.
la Repubblica
Le griffe prenotano la Galleria "Raddoppieremo i negozi"
di Ilaria Carra
Oltre il doppio degli spazi commerciali di oggi, da 20mila a 50mila metri quadri. È la base della proposta di valorizzazione della Galleria Vittorio Emanuele ufficializzata al Comune dai marchi del lusso della Fondazione Altagamma. Più insegne, fino al terzo piano del salotto, messe a reddito con un fondo immobiliare trentennale del valore (prudenziale) di 800 milioni: il 51 per cento del Comune, il 49 per cento privato. Con una clausola: per restare dove sono (anche se non nella stessa posizione) o sbarcare nel cuore della città, i marchi devono anche acquistare quote dello stesso fondo in proporzione allo spazio affittato. Una condizione, questa, che mette a serio rischio la sopravvivenza di molti negozi presenti oggi, specie quelli a conduzione familiare.
La Fondazione Altagamma guidata da Santo Versace ha presentato ieri il piano di fattibilità dell’operazione con cui punta a quasi metà della Galleria. La richiesta è arrivata direttamente al sindaco.
E proprio Giuliano Pisapia, sulla vicenda, vuole già chiarire: «Se si continuerà con l’idea di valorizzare così la Galleria, culturalmente e commercialmente, ci sarà un bando internazionale perché è un bene di Milano e di tutto il Paese e va valorizzata». Una proposta «da approfondire» che, sempre il sindaco, si augura non sia l’unica: «Spero ne arrivino anche altre», ha detto Pisapia. L’operazione, per la quale Altagamma si propone come advisor, frutterebbe a Palazzo Marino circa 400 milioni, dei quali «una quota importante - dice la proposta - sarà anticipata» subito al Comune che, a pieno regime in otto-dieci anni, incasserebbe circa 35milioni di redditività all’anno. In cambio, i privati si farebbero carico del restauro conservativo della Galleria (tra i 180 e i 200 milioni).
Il piano «proposto dall’advisor e approvato dal Comune prevede solo a livello d’eccellenza un completo assortimento di merceologie»: la metà degli spazi alla moda e alla cura della persona, il 20 per cento all’arte e alla cultura, il 15 al design, il 10 alla ristorazione e bar e il 5 per cento alla vendita di prodotti enogastronomici. I negozi monomarca sono la strategia: «Come in luoghi iconici del consumo, da Rodeo Drive alla Fifth-Madison Avenue - ricorda il presidente di Altagamma, Santo Versace - vogliamo trasformarla in una delle sette meraviglie del mondo». Un mix in cui sono compresi anche i negozi storici: «Avranno degli sconti», dice il segretario generale di Altagamma, Armando Branchini, secondo il quale saranno più agevolati che con l’attuale assegnazione «sulla sola base di una competizione sul canone». L’assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, si compiace che sia arrivata «una proposta interessante e seria per valorizzare un patrimonio di cui si è sempre parlato ma per il quale non si è mai fatto nulla». Con un auspicio: «Si apra subito una riflessione seria».
Possibilista Carmela Rozza, capogruppo Pd in Comune: «Siamo per verificare tutte le ipotesi a patto che la proprietà resti in capo al Comune, che si faccia una gara e in Galleria restino luoghi anche per persone normali e non solo d’elite». Il capogruppo Pdl a Palazzo Marino critica e avverte: «La trattativa privata sulla Galleria sta proseguendo: nulla in contrario sulla partecipazione di privati, ma sul metodo pare si stiano ripetendo le anomalie di Sea. Se il Comune vuole privatizzare lo faccia veramente con una gara internazionale».
la Repubblica
Dimezzati in dieci anni boschi e prati di Milano
di Giuliana De Vivo
Sempre meno alberi, prati, campi coltivati. Al loro posto, sempre più palazzi. L’avanzata del cemento a Milano in dieci anni, dal 1999 al 2009, è stata inarrestabile. In tutta l’area del comune, compresa la cintura extraurbana, il «verde naturale e seminaturale» - aree boschive, prati non coltivati, spazi aperti con arbusti - è diminuito del 43,4 per cento. Passando dai quasi 489 ettari del ‘99 ai 277 attuali. Anche le aree agricole sono calate, del 14 per cento: dai 3.897 ettari di allora ai 3.428 di oggi. E questo nonostante una crescita della popolazione, nello stesso periodo, minima: le famiglie milanesi sono aumentate solo dell’1 per cento. È quanto emerge dal rapporto 2012 sui consumi di suolo elaborato dal centro di ricerca di Legambiente e dell’Istituto nazionale di urbanistica.
Dati ottenuti, spiega Stefano Salata del Centro di ricerca sui consumi di suolo, incrociando quelli contenuti nel database della Regione sull’uso dei terreni: «Si calcola la differenza matematica tra i valori di allora e quelli di oggi». Ma il cambiamento si vede anche ad occhio nudo: «Basta fare un’indagine cronologica su Google Earth, - aggiunge Salata - dalle vedute aeree sono evidenti gli spazi dove il verde è stato "mangiato", ad esempio nell’area nord ovest in prossimità dell’A4. O in alcuni punti del Parco Sud». Nell’intera provincia si è costruito l’equivalente di una città grande come mezza Milano: i campi coltivati spariscono al ritmo di 20mila metri quadrati al giorno. Ogni dieci giorni il cemento cancella un terreno da cui si ricavava il frumento necessario per 150 tonnellate di pane.
E l’erosione continua: per ora è stata scongiurata quella di 100mila metri quadrati di terreno all’interno del Parco agricolo sud Milano a Vignate, a favore del polo logistico Sogemar. L’assemblea del Parco che oggi doveva dare il via libera è stata rinviata su pressione degli ambientalisti, anche se il progetto resta in piedi, con il parere positivo del Comune.
Non va meglio nemmeno nel resto della Lombardia. Dove, secondo il rapporto di Legambiente, in media vengono distrutti ogni giorno 130mila metri quadrati tra campi coltivati, boschi, prati. L’equivalente di venti campi di calcio. Una situazione che è figlia, spiega il presidente di Legambiente Lombardia Damiano Di Simine, dell’assenza di uno strumento come il censimento sull’uso del suolo. «Ogni comune dovrebbe dotarsene prima di assumere le decisioni. Ma la proposta di legge di iniziativa popolare giace nei cassetti del Consiglio regionale da due anni, pur avendo raccolto consensi bipartisan».
Senza contare che anche le leggi esistenti non sempre vengono rispettate. «Sugli oltre 1.500 comuni della regione - denuncia ancora Di Simine - solo 178 hanno recepito l’articolo 43 bis della legge urbanistica regionale, che impone un onere maggiorato per le urbanizzazioni quando queste comportano consumo di suolo agricolo». Anche Milano è tra i comuni che non hanno, finora, adempiuto a quest’obbligo. A lanciare l’allarme è anche la Coldiretti Lombardia. «Assistiamo ad una continua erosione del patrimonio agricolo del territorio», denuncia il presidente Ettore Prandini, «con i campi stretti in una morsa tra l’espansione delle città e l’avvio di nuove grandi infrastrutture, dalla Pedemontana alla Brebemi, dalla Broni-Mortara alla Tem, che hanno e avranno un impatto pesantissimo sulla vita delle aziende agricole».
Corriere della Sera
La Galleria verso i privati
di Annachiara Sacchi
Un luogo di prestigio valorizzato come merita. O un grande atelier, a seconda di come lo si voglia vedere. Fatto sta che la giunta Pisapia sembra intenzionata a cambiare il volto della Galleria, pezzo unico del Demanio comunale e della storia cittadina. La proposta firmata da Altagamma è stata presentata ieri da Santo Versace, presidente della Fondazione. Sul piatto la cessione della Galleria a un fondo immobiliare: al Comune il 51 per cento, il 49 ai conduttori dello spazio commerciale. La Galleria, a quel punto, verrebbe svuotata di tutte le attuali funzioni, uffici compresi, per destinare gli spazi «interamente alle attività commerciali di eccellenza, con un incremento delle superfici commerciali(da 20 mila a 50 mila metri quadrati, ndr)». Mix merceologico definito: 50 per cento a moda, 20 a cultura, 15 a design, 10 a ristorazione, 5 a enograstronomia.
Versace è convinto che questa potrebbe diventare «una delle sette meraviglie del mondo», un «centro commerciale unico al mondo», una «vetrina straordinaria della città». E «senza prevaricazioni verso le attuali presenze, i cui contratti verranno rispettati» (potranno decidere se entrare nel fondo o incassare una buonuscita per liberare gli spazi in anticipo).I tempi: 8-10 anni per vedere la nuova Galleria. Nel progetto, da settimane sul tavolo del sindaco, del direttore generale Davide Corritore, dell'assessore Bruno Tabacci, si parla anche di cifre: il Salotto verrebbe conferito a un fondo immobiliare chiuso trentennale, con una valutazione di 800 milioni di euro. Palazzo Marino incasserebbe 400 milioni e una «quota importante» verrebbe «anticipata al Comune» che poi godrebbe, a regime, di una redditività annuale di 35 milioni (attenzione al patto di stabilità: solo se l'operazione dovesse andare in porto entro il 2012 il 30% del ricavato potrebbe essere usato dal Comune per la spesa corrente, altrimenti andrebbe ad abbattere il debito).
Ai privati, infine, spetterebbe l'onere di ristrutturare la Galleria (circa 200 milioni di euro). Il sindaco Giuliano Pisapia, che ieri ha consegnato al presidente del consiglio comunale, Basilio Rizzo, il progetto di Altagamma perché venga distribuito ai consiglieri, mette le mani avanti rispetto a chi sente puzza di trattativa privata: «Faremo un bando internazionale», puntualizza, augurandosi che «arrivino altre proposte».Più deciso l'assessore Tabacci: «Faremo un bando, anche se valutiamo positivamente l'innesto di questa iniziativa. Finalmente abbiamo scoperchiato un problema, quello della valorizzazione della Galleria, che prima di noi hanno solo fatto finta di risolvere». Tabacci insiste: «La Galleria va valorizzata, a costo di toccare interessi che sono consolidati. Va svuotato tutto, a partire dai gruppi consiliari per ridare dignità a quest'area che è tra le più calpestate d'Italia».
La Galleria come la Fifth Avenue? L'ex vicesindaco pdl Riccardo De Corato è contrario: «Un errore, perché a Milano c'è sono via Monte Napoleone e via Spiga». Poi, la contestazione sul metodo: «Anche qui si fa avanti un amico dell'assessore Tabacci». L'opposizione intravvede il rischio che «si ripetano le anomalie di Sea». Il capogruppo pdl Carlo Masseroli insiste: «Vogliamo fare gli stessi errori?». Se lo chiedono anche i commercianti dell'associazione «Il Salotto». Pier Galli, consigliere delegato, sbotta: «Siamo preoccupati e delusi: il Comune non ci ha mai interpellato, non c'è stata trasparenza». Fiume in piena: «Molte delle nostre attività sono a conduzione familiare, non abbiamo altri punti vendita. Versiamo di affitto 13 milioni di euro all'anno, non 180 mila. Io ne pago 189 mila, oltre mezzo milione il Savini. Chiediamo un incontro. Ne abbiamo il diritto».
Boeri: resti un Salotto, non una vetrina
Parte con le migliori intenzioni: «Buon segno che ci sia un'offerta». Bene «la regia pubblica». Ottimo «il progetto di valorizzazione deciso all'interno della maggioranza».
Ma, assessore Boeri?«No alla vendita. E la Galleria resti un salotto, non una vetrina».
Ci spiega?«Vetrina è uno spazio per il consumo. Salotto è luogo di incontro e di dialogo».
Insomma, cosa ci vuole dire?«Che è inaccettabile l'idea di farne unaRodeo Driveambrosiana: la Galleria deve essere uno spazio pubblico che continui a esprimere la storia di Milano».
E non si esprime con moda e design?«Anche. Ma Milano non è una città provinciale che ha bisogno di ostentare i suoi gioielli. Non ci serve un richiamo per i giapponesi: loro arrivano comunque per la Scala, per Palazzo Reale, per le Gallerie d'Italia. Non sentiamo l'esigenza di unmallamericano».
E di cosa allora?«Di un'idea urbana che faccia parte della nostra storia. Non a caso decine di pittori si sono cimentati sul tema della Galleria, a partire da Umberto Boccioni con la "Rissa" davanti al Camparino».
Proposte?«Sono d'accordo sull'idea di un bando internazionale, sarebbe utile per lotti verticali che valorizzino tutti i piani. Ma con proposte di contenuto...».
Per esempio?«Mi pare che la proposta di Prada, che ha dedicato parte dei suoi spazi alla Fondazione, vada in questa direzione».
Sulla vendita?«Sono contrario. La Galleria deve rimanere pubblica. Tutta».
postilla
Su queste pagine, e a proposito di una questione apparentemente specifica e circoscritta come la perequazione urbanistica, Maria Cristina Gibelli si chiedeva qualche giorno fa, più o meno: ma la giunta Pisapia ha qualche idea su cosa significhi costruire una alternativa di sinistra nell’amministrazione di una grande città? Meglio: giusto fare riferimento ad alcuni principi sui diritti, il valore della politica e via dicendo, ma sul territorio i principi si articolano molto praticamente in pratiche e politiche, equilibri, declinazioni, intrecci. E risulta quantomeno curioso che sia solo l’assessore Boeri, e forse per la sola specifica competenza urbanistica, ad esprimere forti perplessità proprio sul ruolo urbano e sociale delle risorse pubbliche, altrimenti svilite a oggetto di scambio virtualmente immateriale, dove nella logica dei vasi comunicanti si costruiscono equilibri fra amministrazione e soggetti privati privilegiati, che relegano la cittadinanza ai margini. Perché è sostanzialmente questo che sta succedendo, replicando su scala minore un genere di espropriazione assai simile a quella in corso con il famigerato slogan “ce lo chiedono i mercati”. Nel caso specifico, pare che una volta valorizzato lo spazio e incassati i dividendi li si possa investire altrove, che si tratti degli affitti degli stilisti in Galleria o degli oneri destinati alle compensazioni nella greenbelt inopinatamente solcata dalle infrastrutture ideologico-cementizie della “città infinita” (i cui teorici poi presenziano pensosi ai convegni sul consumo di suolo senza che nessuno faccia una piega). Mentre invece è proprio l’altrove ad essere sbagliato: la città è QUI, non è trasferibile, è una magnifica metafora della finitezza delle risorse, ma evidentemente chi naviga nei principi eterni se ne è scordato. Vediamo di ricordarglielo, prima che ci trascini nella sua allegra e suicida insipienza (f.b.)
L´anno scorso era rifugio di rom, nel 2015 potrebbe diventare il nuovo polo cittadino del cibo, una grande piazza coperta dove produttori e consumatori si incontrano secondo la filosofia del chilometro zero per abbattere i costi di distribuzione. Ma anche un centro di intrattenimento e cultura con un cinema multisala, uno spazio per la musica dal vivo e spettacoli teatrali, e un impianto sportivo con piscina, palestra, campi da gioco all´aperto e una scenografica pista di atletica di quasi mille metri che si snoda fra pilastri di ferro battuto. Eccolo il futuro del Palazzo di Cristallo, l´ex stabilimento della Lambretta di via Rubattino che ha preso il nome dall´edificio in ferro e vetro costruito a Londra nel 1851 in occasione della prima Esposizione universale della storia.
Un gioiello di architettura industriale di 20 mila metri quadrati di cui oggi resta solo lo scheletro, con una facciata composta da tre grandi arcate di 25 metri ciascuna, che la Aedes, società immobiliare proprietaria di tutto il terreno dove un tempo si costruivano le automobili e dove ora è rimasto attivo solo un capannone della Innse, deve ristrutturare. Il progetto è pronto: il masterplan dello studio di architettura Chapman Taylor specializzato in centri commerciali è già stato mostrato al Comune e il piano integrato di intervento in via di definizione. Se non ci saranno intoppi, le ruspe potrebbero arrivare l´anno venturo e, nel giro di due anni, si realizzerà «il primo esperimento di queste dimensioni di una grande funzione pubblica gestita interamente dai privati», come spiegano a Palazzo Marino.
Perché l´edificio, che resterà di proprietà privata, ospiterà una serie di attività aperte alla città e non esclusivamente commerciali. La nuova struttura sarà dedicata al cibo e diventerà la casa di consorzi agricoli, associazioni e produttori che operano nel settore alimentare in modo da riunire domanda e offerta in un´unica piazza coperta dove i consumatori potranno acquistare prodotti di qualità risparmiando. «L´idea è partita dalla pista di atletica: un anello soprelevato per il jogging che girerà tutto intorno al palazzo sul modello di quella già realizzata a Londra in un edificio industriale ristrutturato - racconta Filippo Carbonari, nuovo amministratore delegato di Aedes - . Da lì si sono sviluppate le altre parti: quella dedicata allo sport verso via Rubattino, quella per l´intrattenimento all´estremità opposta. Nel centro abbiamo pensato a una funzione che a Milano manca, un grande mercato del cibo: una casa per le 26 cascine che producono all´interno del territorio milanese, per i 4600 consorzi alimentari italiani e tutti i produttori di qualità».
LE RESIDENZE
Siamo in via Rubattino, al confine con il comune di Segrate, dove nell´estate del 2009 andò in scena la protesta dei cinque operai della Innse che si asserragliarono su un carroponte per giorni chiedendo il reintegro immediato dei lavoratori licenziati in vista dello smantellamento della fabbrica. Una protesta che si concluse con la vittoria degli operai, l´acquisto da parte della società bresciana Camozzi dello stabilimento e la firma di un accordo di programma in prefettura che prevedeva alcune modifiche al piano di riqualificazione dell´intera area tra cui la salvaguardia dell´ex Innocenti. Ora il progetto è pronto a partire. La Aedes, società quotata in borsa ma finanziariamente in gravi difficoltà da qualche anno, ha presentato una proposta che piace all´amministrazione e potrebbe sbloccare una delle aree di trasformazione più grandi di Milano, inchiodata da anni. Il piano prevede, oltre alla riqualificazione del Palazzo di Cristallo mantenendone la struttura originale in ferro, la realizzazione di 87.500 metri quadrati di appartamenti - di cui 17.500 a canone convenzionato e 7.500 sociale - in fondo all´area, verso Segrate, dove sono già stati abbattuti due capannoni industriali. Per la progettazione delle nuove case - che si aggiungeranno al quartiere residenziale appena costruito al di qua della tangenziale - verrà bandito un concorso riservato a giovani architetti.
IL PARCO
Non mancherà un´area verde che, insieme a quella già messa in ordine da Palazzo Marino sotto il cavalcavia, sarà grande 300 mila metri quadrati. Il nuovo parco circonderà lo stabilimento Innse, che Camozzi si è impegnato a ristrutturare, il Palazzo di Cristallo e le nuove abitazioni. Nel verde Aedes vorrebbe anche costruire un percorso benessere con attrezzature sportive da esterno disponibili a tutti. In contemporanea il Comune ristrutturerà l´edificio all´inizio di via Rubattino, che un tempo ospitava la mensa e gli uffici dell´Innocenti, per farne un complesso scolastico - dal nido alle medie - che il nuovo quartiere aspetta da anni. Il tutto corredato da interventi infrastrutturali che prevedono tra l´altro la trasformazione di via Rubattino in un boulevard alberato secondo il modello dei viali di Milano.
«Rubattino è uno dei progetti incompiuti della città - commenta Ada Lucia De Cesaris, assessore all´Urbanistica - . Il quartiere soffre una grave carenza di servizi e ha diritto a un progetto che riqualifichi l´intero comparto. L´intervento sul Palazzo di Cristallo è essenziale per la riqualificazione, per questo abbiamo avviato un confronto tra l´operatore e la zona, al fine di definire le funzioni e le attività più idonee per garantirne la massima fruibilità». Il progetto è complesso e richiede un investimento di almeno 350 milioni di euro. Soldi ancora da trovare. Il timore del Comune è che l´immobiliare realizzi solo le residenze abbandonando la parte pubblica, ma Carbonari assicura: «Vendere case in questo momento è difficile, lo sanno tutti. Per noi ora è più importante avviare il Palazzo anche perché ci aiuterà a mettere sul mercato gli appartamenti».
la Repubblica
Il sostegno di Dario Fo "Macao mi ricorda la Palazzina Liberty"
di Nadia Ferrigo
Il popolo di Macao ha accolto un ospite d’eccezione: il premio Nobel Dario Fo. Davanti a una platea di 200 persone - artisti, curiosi, studenti - l’attore ha mostrato tutto il suo entusiasmo per il progetto e ha promesso che se ne farà garante anche con il sindaco Giuliano Pisapia: «Non mi aspettavo ci fossero così tante persone consapevoli di fare qualche cosa di straordinario. Ne ho parlato con l’assessore alla cultura Boeri, che era perplesso, come lo si può essere di fronte a un evento così inaspettato». E così dicendo Fo ha toccato un punto che crea un certo imbarazzo alla giunta: l’occupazione illegale di uno spazio, l’atteggiamento da tenere sul caso Torre Galfa, «l’appoggio politico» che gli occupanti chiedono al Comune: «Questa amministrazione non può stare zitta».
L’assessore alle Politiche sociali Majorino ieri diceva: «Lo scandalo non è l’occupazione, ma che in città ci siano tanti spazi inutilizzati». E con lui si dicevano d’accordo Antonello Patta, portavoce della Federazione della Sinistra e i consiglieri di Sel: «L’esperienza di Macao rappresenta una modalità di ricerca e di cultura che deve essere vista con interesse». La replica del centrodestra: «Mi chiedo con quale faccia assessori che non mettono a disposizione spazi vuoti del Comune possano giustificare l’occupazione di proprietà private - commentava Fabrizio De Pasquale del Pdl -La sinistra vuole tenere assieme il rispetto della legge e le occupazioni illegali di immobili, cose che non possono convivere».
Incurante di questi bisticci, l’assemblea aperta nel cortile della Torre è proseguita, tra microfoni malfunzionanti e gli interventi di Dario Fo: «Sono meravigliato, non pensavo che avrei visto qualche cosa di simile a quello che è successo 45 anni fa». Il riferimento è alla Palazzina Liberty, occupata negli anni ‘70 con la moglie Franca Rame, un’esperienza andata avanti per una decina di anni con gli spettacoli del "Collettivo teatrale la Comune". Le analogie sono molte: un luogo abbandonato e inutilizzato, un gruppo di giovani artisti che ha voglia di esprimersi ma non trova spazio, e alla fine se lo prende.
Il tema più sentito dagli occupanti è la possibilità di uno sgombero, tanto che c’è un tavolo di lavoro dedicato al tema "che fare se ci cacciano tutti?". Dario Fo prende di nuovo la parola: «La paura dello sgombero è la stessa che sentivamo quando abbiamo occupato la Palazzina Liberty, e veniva da destra e da sinistra, perché abbiamo rubato lo spazio delle assemblee, dando voce a chi non aveva mai parlato. Bisogna riuscire a coinvolgere tutti, solo così sarete forti. Vi faccio un applauso, vorrei duecento mani per applaudire come si deve». Prima di lasciare l’assemblea, l’ultima raccomandazione: «Fatevi un programma: bisogna avere le idee chiare, altrimenti siamo perduti».
la Repubblica
Il grattacielo arrugginito monumento allo spreco
di Ivan Berni
L’occupazione della torre Galfa da parte di un gruppo di giovani artisti e teatranti è, insieme, qualcosa di temerario e di fortemente simbolico. Detto che occupare un edificio di privati - ancorché di Ligresti - è un atto illegale che non va in nessun modo avallato, il fatto che nel mirino sia finito un grattacielo "storico" della città, desolatamente vuoto da circa quindici anni, in pieno centro e per giunta a ridosso della nuova "Manhattan" di Porta Nuova, assume una rilevanza tutta particolare. È come se qualcuno si fosse preso la briga di gridare che il re è nudo, e che quello spettacolo di abbandono e di impotenza non è più tollerabile. Il gruppo di occupanti reclama nuovi spazi per la cultura, per la musica, per le arti visive, per il design. Cultura autoprodotta, senza il bollino delle istituzioni. Può darsi che un grattacielo lasciato ad arrugginire non sia il luogo ideale per una simile ambizione. Che ci siano problemi di sicurezza insormontabili e che la struttura stessa del palazzo rappresenti un ostacolo impossibile da superare. Però la suggestione è davvero molto forte: a memoria non risulta che in Europa un grattacielo sia mai stato oggetto di un’occupazione abusiva.
Suggestione potente: soprattutto considerando che la vecchia Torre Galfa rappresenta la metafora dell’immobiliarismo speculativo, della logica distorta del mercato, di un’urbanistica che negli anni ha smarrito completamente il suo ruolo di guida alla destinazione della città. Torre Galfa è stata abbandonata perché così com’è non è affittabile: i lavori di manutenzione e ripristino costerebbero troppo, rispetto a quanto potrebbe rendere d’affitto come building direzionale. Inoltre è un grattacielo troppo alto e troppo snello per venire svuotato e "trasformato", com’è invece accaduto alle due torri ex Ferrovie dello Stato davanti alla stazione Garibaldi. Molto improbabile anche l’ipotesi dell’abbattimento, a meno di sostenere costi giganteschi e mettere in piedi un’operazione potenzialmente ad alto rischio, data l’altezza notevole (109 metri) e la stretta vicinanza con altri palazzi per uffici.
Si consideri, inoltre, che si tratta di un edificio che ha più di cinquant’anni, di indubbio valore storico, e che il design del progettista Melchiorre Bega ha i suoi estimatori. Ligresti lo ha comprato per 48 milioni nel 2006, quando già da anni era disabitato e in condizioni precarie. Probabilmente il costruttore sperava che lo sviluppo del progetto Porta Nuova avrebbe portato a una valorizzazione dell’immobile. Sperava che quel vecchio e inabitato grattacielo anni Cinquanta si rivelasse un affare. Una preziosa pedina di scambio nel complesso risico di cessioni e acquisizioni che ha segnato la sua escalation di re delle aree, e del mattone, a Milano.
Le cose sono andate in tutt’altro verso. Ligresti sta per uscire di scena coperto di debiti. Il gioco degli uffici sfitti e dei valori immobiliari messi a patrimonio come scatole vuote non regge più. La crisi e una lunga serie di affari sbagliati hanno messo in ginocchio l’ex re delle aree. Quella vecchia torre arrugginita occupata da un gruppo di squatter creativi è lì per dire, a tutti, che la stagione di quell’urbanistica deve finire. E che quei monumenti allo spreco sono intollerabili. Chi occupa abusivamente ha torto. Ma chi costruisce o compra grattacieli per lasciarli vuoti non ha alcuna ragione.
Corriere della Sera
Fo alla Torre Galfa occupata «Io garante contro lo sgombero»
di Annachiara Sacchi
La luce si riflette sul palazzone della Torre Galfa occupata, gli artisti che per tutto il giorno hanno zappato, pulito i locali, organizzato esibizioni e concerti si fermano ad ascoltare Dario Fo. Il premio Nobel è arrivato all'incrocio tra via Galvani e via Fara (da qui il nome del grattacielo) per portare la sua solidarietà. Per parlare di arte e ideali, di partecipazione e cultura. Per farsi garante «antisgombero» con il Comune. Ma sulla torre «requisita» sabato dal collettivo «Lavoratori dell'arte» e di proprietà di Fondiaria Sai (Ligresti), incombono grosse nuvole. Una denuncia per occupazione abusiva. E un plumbeo imbarazzo nelle stanze della politica: le varie anime della sinistra, sul tema, sembrano parecchio divise.
Oltre duecento persone, ieri, per Dario Fo nel cortile della torre occupata, abbandonata da 15 anni, acquistata nel 2006 dalla Fondiaria Sai (48 milioni di euro) con tanto di bonifica dall'amianto due anni fa. Ci sono gli attivisti che si sono presi il palazzo (terminato nel 1959 su progetto di Melchiorre Bega), che l'hanno ripulito e ribattezzato Macao. Ci sono antagonisti e studenti dell'Accademia, autori televisivi, fotografi, creativi. E poi c'è lui, il premio Nobel. Gli chiedono di spendersi con il Comune per evitare lo sgombero. «Voglio parlare con l'amministrazione — spiega Fo —, non possono stare zitti. L'assessore Boeri mi è sembrato perplesso, ma è positivo che lo sia». E continua: «Questa è un'altra Palazzina Liberty: il Comune deve capire che deve aiutare». E se non fosse ancora chiaro il messaggio, i rappresentanti di Macao aggiungono: «Chiediamo appoggio politico da questa amministrazione che ha il potere di sospendere altri tipi di logiche». E cioè lo sgombero.
«Riportare la legalità in via Galvani», ecco la richiesta del centrodestra, dal Pdl alla Lega. Meno compatto il centrosinistra. Se dai vertici dell'amministrazione sembra di capire che «non ci sono stati contatti con gli occupanti; non li proteggiamo ma nemmeno siamo noi a chiedere lo sgombero», il consiglio comunale pare diviso. Sel: «C'e bisogno di spazi sociali in città. L'esperienza della Torre Galfa, pur nel limite della situazione di occupazione, rappresenta una modalità di ricerca di cultura che non può non essere vista con interesse», dice una nota di Patrizia Quartieri, Mirko Mazzali e Luca Gibillini. Conclusione: «Una Milano aperta deve essere l'obiettivo del nuovo modo di amministrare. Ma nulla può il Comune per impedire eventuali sgomberi chiesti da privati». Carmela Rozza, capogruppo del Pd, è di altro avviso: «Invito la giunta a prendere le distanze da questa occupazione assolutamente illegale». Ed ecco che interviene l'assessore Pierfrancesco Majorino: «Lo scandalo non è l'occupazione, ma che in città ci siano tanti spazi inutilizzati per colpa di un immobilismo ventennale, mentre noi ne stiamo per mettere a disposizione 50. Trattandosi di proprietà privata, non posso condividere l'occupazione, ma questo non mi impedisce di vedere che Macao pone un tema vero».
Solidarietà agli occupanti arriva dalla Federazione della Sinistra: «Siamo con voi». Ma il punto resta: il 5 maggio la proprietà ha fatto denuncia per occupazione abusiva. Fondiaria sembra intenzionata a riprendersi (presto) il palazzo per portare avanti un progetto di «messa a reddito» dell'immobile. Attesa. Nella notte una luce blu illumina la torre. «Sarà un buon weekend con tante iniziative», salutano gli artisti.
La pianura padana era una terra di agricoltori. Era il granaio d'Europa, un territorio dove la terra era la madre di tutti i valori. Poi l'industrializzazione ha cominciato a mangiare il suolo, a relegare i terreni agricoli a marginali, in attesa che divenissero edificabili, con tutto ciò che questo ha comportato. Negli ultimi anni la cementite si è ulteriormente aggravata, con le nuove infrastrutture che si apprestano a tagliare ulteriormente il territorio.
Grandi infrastrutture come la BreBeMi e la Pedemontana, e poi nuove opere in progettazione, le cosiddette autostrade regionali, come la Broni-Mortara o la Bergamo-Treviglio, in una ubriacatura da autostrada di cui non si vede la fine. La fine coinciderà probabilmente con la fine della campagna, ma in cambio avremo guadagnato pochi minuti in un viaggio divenuto nel frattempo a pagamento. E a quel punto tutto sarà più semplice, la crisi come d'incanto scomparirà, le piccole imprese potranno tornare competitive, perché si sa, il tempo è denaro e quindi potranno correre molto di più, assumere nuovo personale e affrontare senza paura i grandi Paesi emergenti che oggi ci schiacciano.
È uno scenario che definire demenziale è un complimento. Sarebbe più onesto dire che le nuove opere sono un tentativo di rianimare un'economia asfittica, anche se nessuno dice che in queste opere chi lavora sono sempre e solo le grandi imprese, mentre le famose ricadute non sono altro che briciole, soprattutto in termini di margini di profitto. E da un punto di vista ambientale sarebbe più onesto sostenere che questo territorio è talmente compromesso che qualunque tentativo di contenere il consumo di suolo è assolutamente inutile, la bellezza del paesaggio non c'è più da tempo, tanto vale rassegnarsi a viaggiare in tunnel con ai lati pannelli fonoassorbenti sempre più alti che ci impediscono di vedere cosa stiamo attraversando. Meglio destinare le attenzioni ambientaliste al Chianti, verrebbe da dire, qui si deve produrre, si devono abbassare i costi e si deve essere veloci, e quindi alta velocità e autostrade sono fondamentali per i mercati globali, non c'è tempo di romantici pensieri bucolici.
Muoversi è fondamentale, le nuove opere costano miliardi di euro, che dovranno essere ripagati con pedaggi sempre più alti, ma non importa. E così via con le autostrade regionali, colate di cemento con ricadute di lavoro per le imprese, di oneri per le amministrazioni e per tutto l'indotto a queste collegate, fatto di consulenti di ogni tipo. Aumentare l'offerta di infrastrutture autostradali non ridurrà l'inquinamento e il traffico; l'unica speranza ambientalista è purtroppo la crisi economica che potrà portare a un mancato reperimento delle ingenti risorse necessarie e a rivedere i piani di traffico per il ritorno degli investimenti. Sperare nella crisi per salvare il territorio è una triste visione, ma purtroppo visioni lungimiranti non ce ne sono, da nessun soggetto economico e/o istituzionale, tutti impegnati nello stesso gioco al massacro che ci farà andare sì più veloci, ma verso il baratro.
Postilla
I ciellini, come risulta anche da certe inchieste sociologiche sui consumi culturali, pare ascoltino musica di produzione autarchica, tipo Frate Cionfoli, semisconosciuta al resto del mondo. Quindi molto probabilmente ignorano quell’attacco classico di rock demenziale anni ’70 che suona: Sono veloce / Nelle scarpe il piede cuoce /Il cervello prende vento / Ma si cuoce dal di dentro .Se lo conoscessero, si sarebbero infatti chiesti dove andremo a finire, con la loro macchina autostradal-territoriale saldamente avvitata alla montagna di balle sullo sviluppo che ci stanno propinando da lustri. Visto che l’articolo del Corriere pare (insieme ad altri che spuntano qui e là negli ultimi tempi) porsi una domanda del genere, si può azzardare una risposta. Il futuro immaginato da Celeste & Co. vede una Lombardia interamente ricoperta dalle autostrade, che servono a spostarsi da un laghetto per la pesca delle trote all’altro. Infatti per fare le autostrade serve scavare cave, e le cave poi vengono ripristinate a laghetti per la pesca cosiddetta sportiva a pagamento, da imprese amiche degli amici. Quindi nel futuro le attività economiche principali saranno la manutenzione autostradale, la pesca della trota (con la T minuscola), la spesa nei centri commerciali delle catene amiche collocati nelle fasce autostradali in deroga ai piani comunali, la cura dell'inevitabile stress nelle cliniche private convenzionate che si alternano nelle fasce autostradali senza deroga. Questo scenario non è una fantasia degna di un vecchio numero di Urania , ma una specie di ragionevole proiezione di quanto accade oggi. L’unica variante possibile è quella di un elettorale sonoro calcio nel sedere a questi figuri, ai loro sodali, e poi qualche secolo di duro lavoro per rimediare dove possibile ai danni (f.b.)
Dall'8 maggio della vicenda si occupa il Consiglio di Stato. Il progetto presentato nel 2004 dal costruttore Muto prevede la costruzione di 200 villette, alberghi e altri edifici sulle rive del Mincio. Un lungo braccio di ferro, fatto di decisioni politiche, sentenze e ricorsi: lo scontro tra il business e la salvaguardia dell'ambiente
È il paesaggio mantovano che Andrea Mantegna ha incorniciato nella grande finestra che fa da sfondo alla Morte della vergine, dipinto nel 1462 e ora al Prado di Madrid: il fiume Mincio che si allarga e diventa lago, il ponte che lo attraversa. Se si realizzasse il progetto che prevede di costruire un quartiere di centottantamila metri cubi - duecento villette, alberghi e altri edifici per milleduecento abitanti - proprio lì dove il ponte tocca la sponda e una cortina di pioppi sfiora l'acqua, quel paesaggio non sarebbe più lo stesso. Alterato per sempre. Tutto dipende da cosa deciderà, a partire da martedì 8 maggio, il Consiglio di Stato presso il quale pende il ricorso di una società immobiliare, la Lagocastello, contro una sentenza del Tar Lombardia che a quella società aveva già dato torto, dichiarando validi i vincoli posti dalla Soprintendenza su tutta l'area dei laghi intorno alle mura di Mantova.
La partita è delicata e si combatte da anni, intrecciandosi alle vicende politiche della città, dividendo gli schieramenti anche al loro interno. È in gioco uno dei paesaggi urbani che sintetizzano i più celebrati valori del Rinascimento italiano. I laghi mantovani abbracciano le mura della città sovrastate dal castello di San Giorgio e dal Palazzo Ducale, che custodisce le opere di Mantegna (fra le quali la Cameradegli sposi) e poi di Pisanello e di Giulio Romano. Architetture e natura compongono un insieme che va tutelato, stando alla Soprintendenza e alla Direzione regionale dei beni culturali della Lombardia. Che aggiungono un altro elemento: anche i laghi sono opera dell'uomo e modellati in maniera da costituire un sistema che va conservato nella sua interezza, come se fosse un monumento. L'integrità di questo complesso paesaggistico e la sua percezione verrebbero stravolte dalle costruzioni. Da qui un vincolo di inedificabilità che stronca i progetti di lottizzazione e salva un patrimonio sul quale vigila anche l'Unesco.
Tutto ha inizio negli ultimi mesi del 2004. La società Lagocastello, di proprietà di Antonio Muto, calabrese di Cutro, in provincia di Crotone, diventato negli anni uno dei più ricchi e potenti costruttori del mantovano, presenta un progetto all'amministrazione comunale, allora retta dal diessino Gianfranco Burchiellaro. Per vararlo è però necessaria una variante urbanistica, che viene approvata facendo una corsa contro il tempo, evitando che la fine della legislatura, nella primavera del 2005, blocchi tutto. I consiglieri della maggioranza vengono precettati, uno di loro, in ospedale per assistere un parente, viene prelevato dai vigili. Più volte manca il numero legale, ma alla fine la variante passa con i voti di due consiglieri del centrodestra. E subito partono il cantiere e gli sbancamenti.
Ma contro quell'insediamento monta la protesta di una parte della città. Alle elezioni del 2005 si candida a sindaco per i Ds Fiorenza Brioni che fin dalle prime battute della campagna elettorale annuncia che farà di tutto per bloccare il progetto di Muto. Gli elettori la premiano con una netta vittoria al ballottaggio. Appena insediata, Brioni parte lancia in resta, ma si accorge subito che parte del suo stesso gruppo non la segue. Inoltre le procedure amministrative per superare il voto del precedente Consiglio comunale non sono semplici. Ma anche il progetto di edificazione ha i suoi punti deboli. Li scova un ingegnere esperto di norme urbanistiche e consulente di molte Procure, Paolo Rabitti: il piano interessa un'area grande una trentina di ettari ed essendo incluso nel perimetro del Parco del Mincio necessita di una Via (Valutazione di impatto ambientale). Che non c'è. E dunque è viziato. Il sindaco firma un provvedimento che sospende i lavori. Ma contro questa decisione il costruttore fa ricorso al Tar, ottenendo che il provvedimento sia sospeso.
Inizia un braccio di ferro interminabile, fatto di ricorsi e di pronunce del Tar e del Consiglio di Stato. Intanto si mobilitano le associazioni ambientaliste - Italia Nostra, il Fai, Legambiente - tutte a sostegno del sindaco. Interviene Salvatore Settis. A favore delle villette si schiera invece Vittorio Sgarbi. Il caso mantovano diventa un caso nazionale. Nel 2007 viene emesso dalla Soprintendenza un primo vincolo, che però viene bocciato dal Tar. Il vincolo viene riproposto nel 2009 e questa volta, siamo nel marzo del 2011, passa il vaglio dei giudici amministrativi. Inoltre il Consiglio di Stato stabilisce che la Via è obbligatoria, nonostante quanto sostiene una perizia tutta a favore dei costruttori: la firma l'allora Provveditore alle opere pubbliche della Toscana, Fabio De Santis, finito in galera nell'inchiesta contro Angelo Balducci, Diego Anemone e gli altri della "cricca".
Nel frattempo è cambiata la scena politica cittadina. Nel 2010 Fiorenza Brioni è stata sconfitta alle elezioni (in molti hanno parlato di "fuoco amico" alimentato proprio dalla polemica sulla lottizzazione) e sindaco è stato eletto Nicola Sodano, Pdl. Che ha assunto un atteggiamento molto più morbido verso i costruttori, preoccupato, ha dichiarato, per le richieste di risarcimento minacciate da Antonio Muto. Il quale conta su diversi amici nel partito del sindaco, fra i quali Carlo Acerbi, capogruppo in Consiglio comunale e amministratore della società Ecologia & Sviluppo s. r. l. di cui Muto è socio unico.
La vicenda è alle ultime battute. Il Consiglio di Stato deve decidere se sono prevalenti le ragioni di un privato che da un decennio guarda alle sponde del Mincio e alle mura di Mantova come un'irripetibile occasione di business. O se invece vale di più la difesa di un paesaggio che resterebbe intatto soltanto sullo sfondo di un quadro.
Riflettere attorno al tema del paesaggio, in Italia e in particolare a Milano, che nel nostro Paese rappresenta una delle aree a più alto tasso di disordinata urbanizzazione, è una buona occasione per affrontare tutte le contraddizioni che caratterizzano i nostri comportamenti sul tema stesso. Come italiani, pur avendo promosso la Convenzione europea sul paesaggio, continuiamo a essere tra i più scriteriati consumatori di suolo dell'intero continente e, anche in tempi economicamente magri come questi, ci mangiamo, tra abusivismo e lassismo, leggi eluse o leggi compiacenti, centinaia di ettari al giorno sull'altare di una edilizia discutibile per qualità e per utilità.
È una politica irresponsabile, qui come altrove, che consuma territorio e suolo, a danno di altre finalità necessarie, che sono verde pubblico, agricoltura non intensiva in una parola, paesaggio. Una politica, per noi, doppiamente colpevole, perché in Italia il paesaggio non è solo l'indice di un rapporto armonico o disarmonico tra i luoghi e i suoi abitanti. È anche un prodotto vendibile, un attrattore pregiato che può convogliare verso l'Italia, in modo selezionato e territorialmente diffuso, e in particolare verso Milano con l'approssimarsi dell'Expo, visitatori e risorse economiche. Grazie a quello che continuiamo a chiamare «turismo» inteso come mix di bisogni culturali, in senso ampio, cioè l'insieme delle attività, delle emergenze storiche, delle iniziative necessarie per conservare, anche in senso evolutivo, la nostra identità. Il paesaggio riassume tutti quei valori cui il TCI, da 118 anni, rivolge ogni impegno perché sia difeso, valorizzato e promosso.
Quest'anno il Touring ha distribuito a tutti i suoi soci un volume, realizzato in collaborazione con Coldiretti, intitolato «Campagna e città» (invertendo, il binomio città e campagna spesso esaminato dagli storici) con un sottotitolo che recita: dialogo tra due mondi in cerca di nuovi equilibri. Un dialogo in atto, con segnali di un consapevole ritorno. Il rapporto campagna-città sarà anche uno dei temi centrali affrontati proprio nell'Expo 2015: per TCI e Coldiretti rappresenta un'altra grande occasione per dei progetti comuni.
È fortemente auspicabile che Milano da qui al 2015 riveda la condizione urbanistica del suo territorio e con buon senso, realismo, senza inseguire progetti utopici di improbabile realizzazione, si dedichi ad una ottimizzazione degli spazi, valorizzi la sua eccellente (e spesso insospettata) agricoltura urbana e suburbana, destini razionalmente a un uso finalizzato ai temi propri dell'Expo tutti quei «non luoghi», quelle aree degradate e recuperabili che solo la crisi economica ha salvato da una edilizia forsennata, inutile e di bassa qualità.
Anche fuori dall'area espositiva vera e propria, la città deve porgersi all'Expo. E il Touring, associazione nazionale che ha qui la sua sede centrale, crede nel ruolo turistico di una agricoltura corretta e responsabile come elemento principale per disegnare o ripristinare un paesaggio di elevato valore artistico.
La replica del pm Giuseppina Mione al processo sulla urbanizzazione dell’area di Castello, nel quale sono imputati per corruzione, fra gli altri, gli ex assessori Pd Gianni Biagi e Graziano Cioni e il costruttore Salvatore Ligresti, patron di Fondiaria Sai, proprietaria dei terreni
Gli scempi compiuti in nome dell’urbanistica contrattata e la lottizzazione politica degli incarichi sono stati i temi più sottolineati nella replica del pm Giuseppina Mione al processo sulla urbanizzazione dell’area di Castello, nel quale sono imputati per corruzione, fra gli altri, gli ex assessori Pd Gianni Biagi e Graziano Cioni e il costruttore Salvatore Ligresti, patron di Fondiaria Sai, proprietaria dei terreni. Il processo si avvia alla conclusione. Altre due udienze di maggio saranno riservate alle repliche dei difensori. Il tribunale tornerà a riunirsi in aula bunker il 29 giugno e per quel giorno è prevista la sentenza.
"L’urbanistica contrattata ha rappresentato per i difensori un tema salvifico. Ci si sono gettati a capofitto", ha osservato il pm Mione. Molti avvocati hanno sostenuto che le norme urbanistiche non escludono e in alcuni casi prevedono convenzioni fra pubblico e privato. "Si è criticato aspramente il pm per la sfiducia negli accordi fra privati e pubblica amministrazione", ha replicato Giuseppina Mione: "Eh sì —ha aggiunto con una punta di ironia venata di amarezza — perché notoriamente la pubblica amministrazione italiana è forte, è un interlocutore capace di garantire l’interesse pubblico e di sottrarsi alle lusinghe corruttive. Noi siamo stati invitati a studiare il diritto amministrativo. Ed è giusto. Noi invitiamo i difensori a leggere i numerosi testi che documentano gli scempi compiuti in nome dell’urbanistica
contrattata. E chiediamo se per caso essa autorizzi i pubblici amministratori a scostarsi dal ruolo ad essi affidato dalla Costituzione, che è quello di rappresentare e difendere l’interesse pubblico. In questa vicenda urbanistica l’interesse pubblico è stato la stella polare per gli amministratori? La risposta per il pm è no. I difensori sostengono che l’assessore Biagi voleva una cosa bella, voleva che in quell’area sorgesse un mix di funzioni. In realtà ha fatto esattamente il contrario. Ha favorito il rilascio di permessi per la realizzazione di case e centri commerciali, quando ancora non si sapeva se Regione e Provincia si sarebbero spostate in quell’area, né se sarebbe sorto il parco, né se la convenzione sarebbe stata buttata all’aria in forza di accordi che si proponevano di portare a Castello un indotto del tutto nuovo: la cittadella dello sport. Per volontà dell’assessore Biagi sono stati rilasciati permessi al gruppo Ligresti che hanno aumentato a dismisura il valore dell’area. Questa non è urbanistica contrattata, è interesse pubblico svenduto".
Riguardo agli incarichi professionali agli architetti Vittorio Savi e Marco Casamonti, per un importo complessivo a carico di Fondiaria Sai di circa tre milioni di euro, il pm ha sostenuto che "nessuna norma può rendere lecita la nomina occulta di professionisti voluti da un assessore a spese del privato". E ricordando che i nomi dell’assessore Biagi e degli architetti Savi, Casamonti e Natalini (altro professionista indicato a Fondiaria) figurano nella lista degli aderenti al Partito democratico, ha parlato di "rapporto collusivo intessuto da Biagi con professionisti che quanto meno erano a lui vicini politicamente". Per concludere con una stoccata: "I difensori non hanno mai sentito parlare di lottizzazione politica, di incarichi pilotati?".
Corriere della Sera Milano
Gli artisti del gruppo «Macao» occupano la torre Galfa
di Livia Grossi
«Vogliamo restituire ai cittadini la Torre Galfa». Da ieri il primo dei 31 piani del grattacielo tra via Fara e via Galvani, abbandonato da oltre 15 anni (proprietà gruppo Ligresti), diventa la sede di Macao, il nuovo centro per le arti di Milano. A ridargli vita, un gruppo di «lavoratori dell'arte» composto da artisti, critici, grafici, performer, giornalisti, studenti e insegnanti, una compagine compatta unita da un solo obiettivo: «La cultura come bene comune»; la stessa parola d'ordine che ha mosso diverse occupazioni, dal Teatro Valle di Roma, alle Docks di Venezia, al Teatro Garibaldi di Palermo.
«Un luogo aperto a tutti dove artisti e abitanti del quartiere possono partecipare in prima persona, l'unico modo per far diventare la cultura un soggetto di trasformazione sociale», afferma il collettivo Macao. Laboratori artistici, teatro, musica, film, dj set, ma anche assemblee cittadine (oggi ore 14) e momenti d'incontro con il gruppo San Precario (oggi pomeriggio) e riflessioni collettive sulla formazione in collaborazione con rappresentanti delle università milanesi e incontri sul tema «stereotipi di genere». Un calendario aperto, aggiornato di ora in ora, un lavoro entusiasta anche nelle fasi più difficili. «I lavori di pulizia e di messa in sicurezza sono già iniziati — fanno sapere gli occupanti — come quelli di costruzione del palco che ospiterà performance create ad hoc per lo spazio». Dopo l'inaugurazione di ieri sera con Andrea Labanca e Cassandra Casbah, stasera sono attesi Paolo Bonfanti, i Motus, Walter Leonardi e una special guest a sorpresa.
Ma i contenuti sono più importanti. «Non siamo un sindacato né vogliamo diventarlo», sottolineano i portavoce. «Siamo quella moltitudine di lavoratori precari delle industrie creative tagliati fuori anche dall'attuale riforma del lavoro, tutta concentrata intorno all'articolo 18. Macao è la risposta a una città devastata dalla logica, fare il profitto di pochi per escludere i molti».
Cosa vi aspettate dalla giunta Pisapia?
«Il nostro interlocutore non è il Comune, è la cittadinanza» rispondono, «Macao vuole essere un ambiente diverso, né luogo istituzionale né privato, un luogo gestito dai cittadini. Boeri ieri, di passaggio alla torre, ha fatto trapelare possibili soluzioni, vedremo».
Quali sono i rapporti con la proprietà?«Nessuno. Per ora sappiamo che la Torre è sotto tutela dei Beni culturali, dopo essere stata la sede della Banca Popolare di Milano, il palazzo è stato venduto all'Immobiliare lombarda del Gruppo Ligresti. Dopo la bonifica per l'amianto del 2008, i lavori di ristrutturazione sarebbero dovuti partire l'anno scorso, ma la torre è tuttora vuota e senza lavori in corso. Sappiamo che c'è un curatore fallimentare che sta gestendo i rapporti con i creditori», concludono i manifestanti.
la Repubblica Milano
L’arte invade i 31 piani della torre Galfa
di Alessandra Corica
Grattacielo occupato: ieri mattina i Lavoratori dell’Arte hanno invaso i 31 piani della Torre Galfa, il grattacielo di proprietà del gruppo Ligresti alle spalle della Centrale, abbandonato da anni. Scopo: realizzare Macao, un centro per l’arte e la cultura, in cui tutti i cittadini possano andare e partecipare attivamente. «In Italia si investe poco sulla cultura», spiegano gli occupanti. Il Comune mette dei paletti:« Gli spazi vuoti a Milano ci sono, stiamo studiando come utilizzarli. Ma il no alle occupazioni abusive è netto».
L’arte all’attacco dei grattacieli. Ieri i protagonisti della scena creativa milanese hanno occupato la torre Galfa, per chiedere «un luogo per la cultura in cui tutti possano partecipare e sentirsi protagonisti». Sono i Lavoratori dell’Arte, il collettivo di artisti che già a dicembre aveva occupato il Pac per chiedere luoghi per la creatività a Milano. Ieri hanno preso di mira il grattacielo alle spalle della Centrale. Scopo: dare vita a Macao, «un nuovo centro per le arti, un esperimento di costruzione dal basso di uno spazio dove produrre arte e cultura». Tra gli occupanti, anche i lavoratori del teatro Valle di Roma (in autogestione dal giugno 2011), quelli del teatro Coppola di Catania, del Garibaldi di Palermo, del Sale Docks di Venezia e dell’Asilo della creatività di Napoli. Tutti all’insegna della stessa frase, scritta su uno striscione di 50 metri che da ieri campeggia sull’edificio: «Si potrebbe anche pensare di volare».
L’arte tra fili elettrici, pavimenti divelti e spazzatura. Perché la torre (che sorge tra le vie Galvani e Fara, da cui il nome Galfa) è uno scheletro di vetro e acciaio, «abbandonato da quasi 15 anni», dicono gli occupanti. Che sono danzatori, artisti, attori e creativi di tutte le età, accomunati dalla stessa condizione: la precarietà. «In Italia si investe poco sulla cultura - dice Camilla, frangetta bionda e fisico esile - abbiamo deciso di occupare per rivolgerci non alle autorità, ma alla cittadinanza: vogliamo creare uno spazio autogestito in cui realizzare laboratori, spettacoli e performance». Grattacielo occupato a oltranza, insomma. Dalle 10 di ieri, quando in 150 (nel pomeriggio sono diventati una cinquantina) sono entrati e hanno riempito il primo piano del palazzo, progettato dall’architetto Melchiorre Bega nel 1956. Un edificio avveniristico di 31 piani per 109 metri, annoverato tra i beni culturali della Lombardia. Ma da anni in rovina: costruito per la società Sarom, fu poi acquistato dalla Bpm, che per 30 anni ne fece la sua sede centrale.
Abbandonato dalla metà degli anni ‘90, nel 2006 è stato comprato dalla Fonsai di Ligresti, che lo ha fatto bonificare dall’amianto due anni dopo. Da allora, è in attesa di ristrutturazione. «Abbiamo scelto questo luogo - spiega Andrea, un altro degli occupanti - perché simbolo di una società basata solo su economia e profitto. È per superare questo pensiero che vogliamo costruire Macao. Sarà un centro per l’arte, all’insegna della partecipazione dal basso». In programma ci sono concerti, spettacoli serali e dj set notturni. Un’occupazione a cui Palazzo Marino guarda con preoccupazione «per lo stato dell’edificio». Ieri pomeriggio l’assessore alla Cultura Stefano Boeri ha fatto visita agli artisti. «Ne condivido le idee, ma non l’azione - spiega Boeri - visto che si tratta di un’occupazione abusiva. A Milano ci sono molti spazi vuoti che potrebbero essere una risorsa per le imprese creative: stiamo studiando come fare. Il modello è quello di città come Londra o Berlino, dove gli edifici abbandonati, anche privati, possono essere affidati agli artisti, con la vigilanza delle amministrazioni».
il manifesto
L’arte di occupare un grattacielo non dispiace a Boeri
di Luca Fazio
Esagerati. L’esperimento di costruzione sarà pure partito dal basso, però è forte la tentazione di volare altissimo. Dal 32esimo piano di questo grattacielo occupato gira quasi la testa. Si vede tutta Milano. Bello, anche sotto il primo monsone di maggio. Di fronte svetta «il nuovo» che avanza – lo scempio, oppure un gioiello, è questione di punti di vista: il palazzo di Formigoni, di fianco la pancia di un grattacielo a spirale che punta ancora più in alto (160 m.) e nemmeno troppo all’orizzonte - guarda che combinazione - «il bosco verticale» progettato dall’architetto Stefano Boeri, l’assessore alla cultura del comune di Milano.
Da quassù tira aria di immaginario metropolitano che sta precipitando nel futuro, tutto sta a ridisegnarlo ad immagine e somiglianza di chi la città sempre la subisce senza avere mai la possibilità di costruirsela al di fuori di logiche speculative. Questa è la scommessa delle ragazze e dei ragazzi di Macao, metterci le mani (e anche la faccia) per trasformare la retorica piena di insidie dei beni comuni in «pratiche reali». C’è qualcosa di più folle dell’occupazione di un grattacielo? No, eppure, dopo un anno di Pisapia, veniva quasi spontaneo chiedersi come mai nessuno aveva ancora osato tanto.
Adesso bisogna continuare a ragionare, confrontarsi, discutere, magari anche litigare e prendere la cazzuola. Il grattacielo è malconcio.Ma gli spazi, per ora due piani, sono enormi. Luminosi. Pieni di persone che già fanno e disfano confrontandosi anche solo per darsi il «cinque». Sì, è una figata. Intanto, chi sono. Una parola non basta, in rozza sintesi: sono il Teatro Valle di casa nostra.Maè poco. E nemmeno «giovani» funziona più. Loro dicono che Macao diventerà «il nuovo centro per le arti e la ricerca di Milano », da restituire ai cittadini. Cultura, roba che non si mangia e soprattutto non dà da mangiare - ecco allora spunta la richiesta di unwelfare che garantisca il futuro anche dei lavoratori delle arti applicate o anche solo sognate.
Ma loro chi? Sono artisti (definizione piuttosto scivolosa), curatori, critici, guardia sala, grafici, performer, attori, danzatori, musicisti, scrittori, giornalisti, insegnanti d’arte, ricercatori, studenti, insomma la parte più vivace sfruttata e precaria di questa città che è pur sempre la capitale del terziario avanzato. Ribelli, almeno nelle intenzioni: «Siamo il cuore pulsante dell’economia del futuro, e non intendiamo continuare ad assecondare meccanismi di mancata redistribuzione e di sfruttamento». E questo proposito, tra un suicidio e l’altro, basterebbe come premessa per progettare la rivoluzione.
Da dove cominciare è la questione più controversa, e di questo sono chiamati a ragionare artisti, intellettuali (speriamo anche no), esperti del diritto (speriamo anche di storia o genetica) e attivisti vari. Insomma, cittadini. Ma se lo tengono il grattacielo? Una volta si sarebbe detto: ma quando li sgomberano? L’assessore Stefano Boeri ha l’aria di essere troppo intelligente per non saper gestire una situazione di questo genere, forse è un’occasione da non sprecare, anche per lui e per Milano. Ha detto questo: «Siccome rappresento una istituzione, non posso condividere il metodo dell’occupazione, ma...».
E in quel ma, c’è qualcosa che da queste parti non siamo ancora abituati a sentire: «Le questioni che sollevano gli occupanti sono importanti, a Milano esiste il problema dei troppi spazi inutilizzati per imprese di tipo creativo. Mi auguro che questa esperienza venga formalizzata attraverso forme legali di riutilizzo temporaneo degli spazi, come già accade in città come Berlino. Con un gruppo del Politecnico stiamo lavorando in questa direzione».
Come toccare il grattacielo con un dito (poi tocchiamo ferro).
In occasione della presentazione al Politecnico di Milano di un volume curato da Andrea Arcidiacono e Laura Pogliani [1], si è parlato, sia pure per vaghi cenni, del nuovo PGT: presenti il sindaco Pisapia, l’assessore all’Urbanistica Ada De Cesaris, alcuni relatori titolati, fra cui il professore emerito Giuseppe Campos Venuti.
Aula affollatissima di studenti, docenti e cultori della materia; atmosfera da attesa di una “nuova stagione urbanistica” che, però, a ripensarci, è iniziata in maniera anomala: nessuno dei presenti conosceva, se non attraverso poche paginette di sintesi, i contenuti del nuovo PGT, emendato dagli uffici tecnici del Comune con la consulenza esterna di alcuni ricercatori del Politecnico, quasi tutti riferibili a una molto identificabile area cultural-disciplinare.
Ma anche dopo questo affollato evento, il piano non è stato fatto circolare; solo quando è stato consegnato in forma di bozza a tutti i membri del Consiglio Comunale, se ne è potuto conoscere il contenuto, di fatto ingenerando molte perplessità: in generale, sullo stile di comunicazione della Giunta e dell’Assessorato all’Urbanistica e, in particolare, su alcuni aspetti del piano stesso. La scelta di ri-partire dalle osservazioni dei cittadini per modificare il PGT di Moratti & Soci era stata motivata con argomenti più che condivisibili: restituire democrazia al processo di pianificazione e legittimità di ascolto alla società civile[2]. Ma questa scelta è stata obbligata: per non ‘rifare il Piano’, dati i vincoli strettissimi sui tempi di approvazione e pubblicazione, si è deciso di procedere a una sua correzione, sulla base delle osservazioni ricevute, per passare poi rapidamente al dibattito consiliare e all’approvazione. Si è trattato di una correzione puntuale e pignola, fatta di tagli, aggiunte, modifiche (alcune anche molto consistenti e certamente migliorative, quali la drastica riduzione delle volumetrie previste dall’insensato PGT di Moratti & Soci, la tutela del Parco Sud, l’attenzione per l’housing sociale): ma sul risultato complessivo ci sono molte perplessità.
Alcune riflessioni critiche sono già state pubblicate in eddyburg; mi riferisco alle osservazioni di Italia Nostra, di Alberto Roccella e di Roberto Camagni: le ultime due in particolare nel merito del modello di perequazione urbanistica proposto a suo tempo nel PGT di Moratti & Soci che rimane nella nuova bozza di PGT sostanzialmente inalterato [3]. Intendo di seguito aggiungere qualche elemento alle considerazioni critiche di Camagni e Roccella in merito alla assoluta anomalia della “perequazione sconfinata alla milanese”, o di “seconda generazione” come l’ha più eufemisticamente definita Ezio Micelli.
Esistono esperienze simili in ambito internazionale? Sulla base di una mia ricerca piuttosto approfondita mi sembra di poter sostenere che in nessun paese o contesto locale, neppure là dove il Transfer of Development Rights (TDR) è stato inventato e sperimentato da più lungo tempo, e cioè gli Stati Uniti, se ne trova traccia.
E, naturalmente, la domanda che mi pongo e pongo al sindaco Pisapia è: perché proprio a Milano insistere nello sperimentare questa sedicente ‘innovazione’? perché, soprattutto, per iniziativa di una Giunta di sinistra che si è insediata dopo venti anni di potere berlusconiano in cui la logica del mercato ha totalmente prevalso sulla logica del piano?
Il trasferimento dei diritti edificatori nel paese che l’ha inventato. Gli Stati Uniti.
“If in a given community unchecked popular rule means unlimited waste and destruction of the natural resources - soil, fertility, waterpower, forests, game, wild-life - which by right belong as much to subsequents generations as to the present generation, then it is sure proof that the present generation is not yet really fit for self-control, that it is not yet fit to exercise the high andresponsible privilege of a rule which shall be both by the people and for the people” (Theodore Roosevelt, 1916).
Spesso, gli scritti americani, teorici o operativi, sul Transfer of Development Rights (TDR) iniziano con la citazione di questa frase lungimirante, che precede di 70 anni la nota definizione di sviluppo sostenibile contenuta nel Rapporto Bruntland.
Ed è stato proprio per contrastare lo sprawl insediativo, l’abnorme e incessante dilatazione del suburbio nordamericano divoratore di risorse territoriali, che il TDR è stato sperimentato nel corso del tempo e in numero crescente di Stati e di amministrazioni locali degli USA: uno strumento che viene utilizzato per la prima volta a New York nel 1968 per tutelare gli edifici storici del centro (dove viene incorporato nella “ New York’s Landmarks Preservation”), ma che verrà applicato estesamente, dagli anni ’80 in poi, soprattutto per garantire tutela perenne alle aree agricole suburbane minacciate dal proliferare di quartieri a bassa densità, autostrade e grandi centri commerciali.
Il meccanismo del TDR è noto: per arginare lo sprawl, per preservare il territorio agricolo e tutelare le risorse di paesaggio, si procede a spostare i diritti edificatori che ogni suolo di proprietà privata incorpora negli USA [4]in altre aree già destinate dal piano di zonizzazione locale a funzione residenziale/commerciale/produttiva: acquistando diritti edificatori dalle “ sending zones” (SZ) e trasferendoli nelle “ receiving zones” (RZ), il developer otterrà un surplus di edificabilità ( downzoning), mentre il proprietario del suolo agricolo vedrà per sempre congelato il diritto a trasformare la sua proprietà.
Come già sottolineato, il TDR è stato utilizzato negli USA anche con un secondo obiettivo: tutelare gli edifici storici dei downtown, consentendo che diritti edificatori garantiti dallo zoning in una porzione centrale del tessuto urbano non vengano dal proprietario esercitati demolendo o elevando gli edifici stessi, ma trasferendo la capacità edificatoria concessa in isolati, per lo più prossimi, che gli garantiscano comunque il vantaggio economico atteso.
Il TDR si affida dunque a meccanismi di mercato per rendere più flessibile e, se ben amministrato, più vantaggioso anche per la collettività, il rigido piano di destinazione d’uso dei suoli : uno zoning che da un lato inonda di case e casette unifamiliari il territorio agricolo suburbano e, dall’altro, rischia di omologare gli edifici dei distretti più centrali cancellando le testimonianze architettoniche del passato.
In breve: a quali condizioni si realizza il TDR “all’americana” ?
Occorre una precisa identificazione delle aree di origine e delle aree di atterraggio e, come già detto, il proprietario che vende i diritti edificatori, o chi gli succederà, deve accettare di vedere congelata per sempre ogni possibilità di trasformazione.
Il TDR opera inoltre all’interno di un sistema di regole molto preciso e cogente (e quindi anche molto complesso); non sostituisce il mercato al piano, poiché lungi dall’annullare lo zoning, richiede anzi l’elaborazione di un comprehensive plan (un piano generale relativo a tutta la città e che vuole mettere a sistema gli aspetti economici, sociali, ambientali e trasportistici) molto più coerente, integrato e proiettato al futuro di quanto normalmente avviene nelle routine tecnico-amministrative locali. Obbliga infatti le amministrazioni a “guardare avanti”, tenendo in piena considerazione i futuri bisogni e cambiamenti della comunità; e richiede una precisa identificazione nei piani locali (sia nel comprehensive plan che nello zoning plan) delle aree che si intende sottoporre a tutela perenne e delle aree meglio vocate alla densificazione.
Richiede inoltre la presenza nell’amministrazione di competenze sofisticate, capaci di realizzare esercizi assai complessi per definire un “predictable real estate environment” e, in particolare, per verificare l’esistenza di una forte domanda di mercato nelle RA; e per effettuare una valutazione finanziaria del valore delle specifiche aree al fine di determinare il giusto valore dei diritti maturati dalle SA, da corrispondere da parte dei developer delle RA [5].
Infine, può essere utile per la comunità locale istituire una Banca dei Crediti ( TDR Credit Bank) dove i diritti edificatori possano essere temporaneamente depositati in attesa che siano acquistati dai developer. E in tale banca possono essere depositati anche i crediti (diritti edificatori) acquistati dai governi locali per tutelare aree di alto pregio ambientale [6]
Si può dunque affermare che il TDR americano si è sviluppato secondo un setting molto controllato dalla amministrazione locale su dove potrà avvenire lo sviluppo e dove non potrà realizzarsi; in questo senso possiamo attribuirgli un connotato “regolativo” atto a facilitare una più virtuosa destinazione degli usi del suolo (nonché una precisa definizione del valore dei “crediti”). E infatti oggi, nelle grandi città con amministrazioni locali lungimiranti, il TDR viene utilizzato come strumento di Smart Growth; viene associato ad altre misure e progetti che connotano il modello “sostenibile” di trasformazione urbana: quartieri a dimensione del pedone, diversificazione funzionale locale, potenziamento dell’offerta abitativa per i gruppi meno agiati, accessibilità con il trasporto pubblico, etc.
Infine, e questo aspetto è da considerarsi cruciale, il TDR è legittimato da processi partecipativi. Soprattutto nelle aree di atterraggio, in tutte le leggi dei singoli Stati, i cittadini non solo devono essere informati in merito all’incremento del carico insediativo e ai suoi possibili effetti, ma anche in merito al mix funzionale e alle tipologie di intervento progettuale; e possono determinare la drastica modifica o addirittura la soppressione del progetto di intensificazione.
Casi di successo in USA.
A puro titolo di esempio cito alcuni casi, che corrispondono alle principali tipologie di applicazione del TDR:
- una buona pratica “pionieristica”: si tratta della Grand Central Station di New York dove, nei tardi anni ’60, per impedire che la proprietà usufruisse del diritto di sviluppo in altezza che le veniva accordato dallo zoning (una addizione di 53 piani che avrebbe compromesso irreversibilmente un importante Landmark), la amministrazione locale decide trasferire gli ‘height development rights’ (i diritti di sviluppo in altezza) in una zona adiacente, ottenendo altresì di ridurre l’effetto canyon promuovendo edifici ad altezze differenti in tutto il distretto centrale;
- una buona pratica recente: si tratta del ‘Comprehensive Downtown Restoration Plan’ iniziato a Seattle nel 1985 con gli obiettivi di tutelare le abitazioni per i gruppi basso livello di reddito, gli edifici storici e quelli dedicati alla cultura e all’arte; promuovere un addensamento compatibile con il tessuto preesistente in alcuni distretti specifici; incentivare la realizzazione di nuovi interventi edilizi molto diversificati per dimensione. Il modello di TDR sperimentato a Seattle è complesso: in alcuni distretti molto vivibili e turistici (i frequentatissimi Harbourfront e Pike Market Mixed Zone) non è consentito individuare alcuna SA; nel downtown commerciale il TDR può avvenire soltanto fra edifici appartenenti allo stesso isolato urbano con un rigido controllo sulla qualità estetica e la diversificazione del mix funzionale; in altri distretti centrali il TDR è utilizzato più estesamente, ma con il criterio di trasferire diritti da zone con importanti istituzioni storiche e culturali a zone prevalentemente destinate ad uffici. Accanto alla definizione di una densità di base (generalmente inferiore a quella prevista dallo zoning), l’amministrazione introduce due tipi di incentivi economici: use incentives per i developer che realizzano edilizia per i gruppi a basso reddito e servizi locali, e design incentives per i developer che realizzano aree pedonali, piste ciclabili, spazi pubblici al piano terra, tetti verdi, spazi espositivi;
- infine, per la tutela perenne delle aree agricole, possiamo citare, fra le esperienze di successo, quella della Montgomery County nel Maryland e di Pinelands nel New Jersey dove la dimensione delle superfici agricole sottoposte a tutela perenne risulta molto elevata.
Ad oggi, più di 20 Stati hanno introdotto il TDR. Buon ultimolo Stato dell’Oregon, noto per l’eccellenza della sua legislazione urbanistica[7]. Sette stati hanno specifici statuti TDR dedicati a proteggere esclusivamente il territorio agricolo.
E in Canada?
Nel caso del Canada, il TDR, opportunamente ridefinito Trasfer of Development Credits, è stato applicato in maniera molto più limitata e prevalentemente in contesti urbani (mentre nel caso degli USA il 63,5% dei programmi TDR riguardano la tutela del territorio agricolo). I più importanti sono stati quelli sperimentati a Vancouver, Toronto e Calgary: tutti e tre dedicati alla tutela del patrimonio storico-architettonico. In particolare, Vancouver ha a tutt’oggi un programma di TDC ( Heritage Density Transfer System), iniziato nel 1983 e revisionato nel 1993, che viene utilizzato per proteggere e restaurare i Lamdmark storici, ma anche per tutelare spazi aperti e realizzare parchi urbani. Inoltre, sono i governi provinciali, da cui dipende il controllo degli strumenti urbanistici delle municipalità, che definiscono le direttive e le modalità di supporto tecnico e finanziario dei progetti.
In Canada non soltanto il coinvolgimento della comunità è considerato cruciale, ma è previsto il ricorso alle urne ( polling) nel caso si manifestino forti opposizioni locali.
Potremmo estendere il nostro sguardo anche ad alcuni paesi dell’America Latina o dell'Asia, ma veniamo piuttosto all’Europa.
Il trasferimento dei diritti edificatori emigra in Europa.
In Europa il TDR ha ricevuto molto minore attenzione e gode di una assai modesta applicazione.
In primo luogo, perché in molti paesi del Nord Europa vige il principio che la proprietà del suolo non include il diritto del proprietario alla cattura del plusvalore determinato dall’urbanizzazione e il plusvalore è catturato per l’essenziale dalla collettività (Svezia, Finlandia, Danimarca, Germania, UK,…). Nell’Europa del Sud invece, tendenzialmente si lascia al proprietario fondiario la cattura del plusvalore, ma lo si tassa (più o meno adeguatamente…notoriamente in modo assolutamente inadeguato in Italia).
Ciò avviene perché vi è una differenza sostanziale in materia di diritti di proprietà applicati allo spazio nei sistemi giuridici ispirati dal diritto romano, rispetto a quelli ispirati dalla common law anglosassone. Nella maggior parte dei paesi dell’Europa Occidentale vale infatti il principio del non indennizzo dei proprietari di aree in cui vige l’interdizione a costruire.
Su questo principio che genera iniquità nel trattamento dei singoli proprietari, alcuni paesi (dell’Europa del Sud) hanno introdotto il TDR come rimedio alla eccessiva rigidità e arbitrarietà del piano di destinazione d’uso dei suoli e, come in Italia, come strumento sostitutivo dell’indennità di esproprio al fine di costituire un patrimonio di aree a destinazione pubblica e incrementare il capitale fisso sociale.
La Francia [8] è stata fra i primi paesi dell’Europa del Sud a inserirlo nella legislazione urbanistica: il “ transfert de COS (Coefficient d’Occupation des Sols)” è oggetto della Loi Galley del 1976 che dà la possibilità di trasferire diritti da una zona ( émettrice) a un’altra ( réceptrice). L’obiettivo dichiarato nel testo di legge è, come negli Stati Uniti, la protezione di zone dotate di “buona qualità del paesaggio”; ma questa locuzione, come ha ben evidenziato Renard, si è prestata a vistose ambiguità. Infatti, poiché il territorio agricolo, negli anni ‘70/’80 era difficilmente assimilabile a questa categoria, il consumo di suolo agricolo periurbano in Francia non solo non è diminuito ma, anzi, proprio a partire dalla metà degli anni ’70 è diventato esplosivo grazie alle politiche di incentivazione dell’accesso alla casa in proprietà promosse da Giscard d’Estaing [9]. E anche Renard giunge alla conclusione che il meccanismo della perequazione può funzionare solo nelle condizioni di un contesto di pianificazione e di regolamentazione molto stretto e con il supporto di una valutazione molto fine dei mercati locali.
Comunque, in Francia, a 23 anni dalla approvazione della legge Galley che ha suscitato infinite polemiche, le esperienze di trasferimento dei COS risultano assolutamente modeste per entità. Si è trattato spesso di accordi informali fra pochi proprietari soprattutto e a piccolissima scala. E, comunque, la stretta identificazione delle aree di partenza e di atterraggio è requisito indispensabile per la realizzazione dello strumento TDR: di nuovo, una differenza sostanziale, rispetto al “modello milanese”.
Inoltre, la legge urbanistica nazionale approvata in Francia nel 2000 ( SRU) ha posto severi argini regolamentari al consumo di suolo agricolo periurbano, senza ricorrere a meccanismi perequativi. Essa riconferma l’importanza del piano di destinazione d’uso dei suoli comunale, che diventa il “prodotto finale” di un esercizio complesso di messa in prospettiva del territorio comunale attraverso l’individuazione degli obiettivi di medio periodo, la definizione di “progetti di futuro” e il coinvolgimento civico ( Plan Local d’Urbanisme); e rilancia altresì la pianificazione di scala intercomunale con precise regole non contrattabili in materia di consumo di suolo perturbano ( Schéma de la Cohérence Territoriale).
In Spagna esiste la TAU (Transferencia de Aprovechamiento Urbanistico), anche se non tutte le leggi urbanistiche regionali la hanno adottata: comunque le aree di origine e di atterraggio devono essere chiaramente individuate all’interno di comparti omogenei (“los terrenos se encuentran en una misma área de reparto).
Assai differente (e per molti aspetti anomala) la situazione lombardo/milanese: una legislazione urbanistica regionale piena di contraddizioni e aporie, che consente una eccessiva flessibilità dello zoning; l’eredità di un bruttissimo PGT morattiano, che è stato certo emendato e migliorato significativamente, ma sottovalutando completamente il rischio implicito nel modello, unico al mondo, di “perequazione sconfinata”. Infatti, la trasferibilità dei diritti edificatori su quasi tutto il territorio comunale (sugli ambiti del Tessuto Urbano Consolidato) potrà determinare abnormi processi di addensamento centrale e un indebito vantaggio per il proprietario di aree non centrali al quale sono attribuiti diritti edificatori utilizzabili ovunque.
Una domanda al Sindaco Pisapia: perché non è stato emendato il principio della “perequazione sconfinata”?
Perché non si è ritenuto opportuno modificare, nella riscrittura del Piano delle Regole, l’art. 7, comma 5 che recita “L’impiego, anche in forma frazionata, dei diritti edificatori di cui al comma 4 è libero e può essere esercitato su tutto il territorio comunale edificabile nel rispetto della presente norma (…)”?
Perché non rimediare immediatamente al danno riscrivendolo, ad esempio in questo modo: “ la perequazione attua il principio di equità consentendo la trasferibilità dei diritti edificatori all’interno di fasce omogenee del territorio comunale, oppure stabilendo rapporti di concambio di diritti volumetrici per fasce omogenee di origine e di destinazione”?
Era il minimo che ci si poteva attendere. Ma forse è ancora possibile!
RIFERIMENTI CITATI
Gibelli M. C. (2012), “Governare l’esodo urbano e il consumo di suolo. Perché? Come?, in Bonora P. (a cura di), Visioni e politiche del territorio. Per una nuova alleanza fra urbano e rurale, Quaderni del Territorio n. 2, http://www.storicamente.org/quadterr2/index.html
Merlin P. (2009), L’exode urbain, Paris, La Documentation française.
[1] Arcidiacono A., Pogliani L. (2011) (a cura di), Milano al futuro. Riforma o crisi del governo urbano, Milano, et al.
[2] Era una scelta che auspicavamo anche noi di eddyburg: in un articolo pubblicato in questi giorni sulla rivista spagnola Urban, ma scritto nel maggio scorso prima delle elezioni municipali, avevamo successivamente aggiunto una postilla: “Riconosciuta l’aperta violazione delle procedure partecipative, si è deciso di revocare la delibera di approvazione del Piano di Governo del Territorio, tornando all’esame delle osservazioni dei cittadini che erano state respinte in blocco dal governo precedente: un preludio necessario a una complessiva revisione del Piano con cui si intende ricostituire un sistema di garanzie, trasparenza e pubblicità” (Bottini F., Gibelli M. C., “Milán: la difícil herencia de veinte años de desregulación urbanística”, in Urban, n. 3, marzo-agosto, Madrid).
[3] La perequazione sconfinata avrebbe limitata coerenza giuridica e debole base normativa, godrebbe di iniqui vantaggi fiscali, attribuirebbe diritti edificatori a titolo definitivo riacquistabili quindi soltanto a titolo oneroso per la collettività (Roccella); e introdurrebbe una nuova fattispecie di esiti speculativi basati su un incremento di rendita differenziale di cui godrebbe un diritto edificatorio generato su un’area periferica trasferibile senza limitazioni in un’area centrale (Camagni).
[4] Il Quinto Emendamento della Costituzione Americana recita: “nor shall private property be taken for public use without compensation”.
[5] La definizione del giusto valore, anzi di un valore che incentivi il proprietario delle SA ad alienare i diritti edificatori, è fondamentale, in quanto il meccanismo dei TDR non ha carattere obbligatorio.
[6] Soltanto con una precisa definizione del valore dei “crediti” scambiati, implicita nella loro connotazione di origine e di destinazione, la Banca dei Crediti può funzionare come una cassetta di sicurezza di beni preziosi e come un mercato “regolato” di questi beni. Cosa che non si verificherebbe in una Borsa dei diritti alla milanese in cui si scambierebbe un unico astratto metrocubo edificabile a Milano, soggetto a facilissime e prevedibili manovre speculative.
[7] Nel 2009 lo Stato dell’Oregon ha approvato il Senate Bill 763 che autorizza i governi locali a sperimentare il TDR e, allo stesso tempo, ha approvato l’House Bill 2228 che istituisce un programma pilota che autorizza la Land Conservation and Development Commission (il “ministero” statale che ha competenza in materia di pianificazione urbanistica, territoriale e ambientale) a selezionare tre progetti pilota di TDR. Nel caso dei progetti pilota, i meccanismi di controllo sono severissimi e molto centralizzati: le SA vengono identificate dall’Oregon Department of Geology and Minerals; le RA devono essere individuate anche attraverso processi comunicativi e partecipativi; ma preliminare alla discussione dei progetti, è il benestare della contea, in particolare se l’area è interna all’Urban Growth Boundary. Necessario per decidere della eleggibilità della RA e del livello di addensamento è il parere di un comitato di peer review composto da valutatori, giuristi, rappresentanti della LCDC e della amministrazione locale coinvolta.
[8] Faccio qui riferimento all’utilissimo saggio di Vincent Renard: “Où en sont les sistémes de transfert de COS” pubblicato inEtudes Foncières, 1999.
[9] A conferma della osservazione di Renard stanno i dati sul consumo di suolo agricolo per urbanizzazione in Francia: 807.000 ettari urbanizzati fra il 1992 e il 2004 (184 ettari al giorno); e sono stati le abitazioni unifamiliari (410.000 ettari contro 11.000 ettari destinati a edilizia condominiale) e le infrastrutture stradali (148.000 ettari) i maggiori consumatori di territorio aperto. Il dato ancora più preoccupante è il seguente: nel periodo analizzato l’80% del territorio urbanizzato per realizzare la “villettopoli” francese era precedentemente dedicato alla produzione agricola (Merlin, 2009; Gibelli, 2011).
“Il sentiero”. Si chiama così una delle tele che Carlo Levi – sì, lo scrittore di Cristo si è fermato a Eboli era anche un pittore di razza – ha dipinto sulle alture di Alassio. In cinquanta centimetri per sessanta ci sono la luce, la vegetazione, la bellezza della Liguria degli anni Cinquanta. Oggi, chissà, Levi camminando sulla stessa collina potrebbe dipingere un quadro titolato “Il cantiere”. Per anni è stato un assalto incessante di ruspe e gru. Ovunque. L’ultimo: il progetto di Punta Murena, proprio di fronte al paradiso naturalistico dell’Isola Gallinara.
“Ma per combattere le battaglie, ci vuole anche qualche vittoria. C’è bisogno ogni tanto di una buona notizia”, sorride Antonio Ricci, alassino, un passato da professore, un presente da padre di “Striscia la notizia”.
Eccola, allora: Villa La Pergola con il suo straordinario parco riapre al pubblico. È una novità importante, ma è anche e soprattutto un segnale per chi in Liguria si batte contro la cementificazione e da anni deve registrare tante sconfitte. Invece oggi (dalle 15.30 alle 18) e domani (dalle 10 alle 18) i cancelli della famosa villa saranno aperti con la collaborazione del Fai (Fondo per l’Ambiente Italiano). “Quaranta studenti di licei classici e scientifici, di istituti agrari e alberghieri faranno da guida nel parco”, racconta Ricci. È proprio lui che ha messo insieme la cordata improvvisata che ha acquistato la Pergola e il Pergolino: “Mi sono gasato e ho deciso di provare. Senza pensarci e senza ascoltare gli avvertimenti di mia moglie”, aveva raccontato Ricci nel 2006. Certo, un’impresa un po’ “folle”: comprare due ville costruite dagli inglesi alla fine dell’Ottocento con lo splendido parco (forse il vero tesoro), metterle a posto, mantenerle. Ma la posta in gioco è grossa: sul Pergolino avevano messo gli occhi immobiliaristi, per occupare definitivamente la collina di Alassio.
Ma non sarà così facile, adesso: “Abbiamo salvato la villa e chiuso la strada che avrebbe portato alla conquista della collina”, spiega Ricci. Che ha mantenuto la promessa fatta anni fa: “La Pergola sarà aperta ai ragazzi”.
Una storia che è diventata anche un libro : Un sogno inglese in Riviera, le stagioni di villa della Pergola (a cura di Alessandro Bartoli, Mondadori Electa). Dalle memorie vittoriane di aristocratici e scrittori inglesi nella Riviera Ligure al recupero della villa. Dal generale McMurdo, dal cugino di Virginia Woolf, Walter Dalrymple, dalla famiglia Hanbury fino al padre del Gabibbo. Che ha vinto un’altra battaglia, quella contro i grattacieli di Albenga. La cittadina che sognava di diventare una specie di Manhattan della Riviera.
Ma le vittorie si contano sulle dita di una mano, in una cittadina, in una regione che somiglia sempre più a quella descritta da Italo Calvino nella Speculazione edilizia. Le colate di cemento, gli appetiti che suscitano tra imprenditori, politici e cittadini sono gli stessi degli anni Cinquanta. La Liguria, però, non è in grado di reggere un’altra rapallizzazione, con progetti che ogni giorno sorgono con il placet di centro-destra e centrosinistra.
Alassio da anni è uno dei campi di battaglia. La collina di Carlo Levi, della Pergola, punteggiata da gru. Il sindaco è stato a lungo l’architetto Marco Melgrati (Pdl). Guidava il Comune e firmava progetti guadagnandosi una sfilza di avvisi di garanzia per illeciti urbanistici per poi presentarsi in tribunale con la bandana stile Cavaliere. “Oggi il nuovo sindaco (che poi è Roberto Avogadro, in passato già sindaco con il Carroccio) guida una lista civica composta da ex leghisti, ma anche da assessori del centrosinistra.
Finora hanno dimostrato di voler frenare l’invasione del cemento”, racconta Giovanna Fazio, presidente di Italia Nostra Alassio. Aggiunge: “Il Comune è intervenuto per frenare i progetti di altre villette in collina (alla Madonna delle Grazie) e del megaparcheggio sotterraneo sotto lo storico tennis. Ma resta il progetto di Punta Murena, un promontorio affacciato sull’isola della Gallinara. Un luogo meraviglioso, uno dei più belli e delicati della Liguria”, racconta Fazio. Italia Nostra e il Wwf si sono battuti contro il progetto. Ma sarà dura: il consiglio comunale due anni fa ha approvato la costruzione di appartamenti all’interno della villa e della dependance di Punta Murena. Poi bungalow. I progettisti? “Tra gli altri, l’ex sindaco Melgrati”.
Con la sentenza n. 421/2012, pubblicata lo scorso 2 maggio, il Tar Sardegna ha respinto il ricorso della società Coimpresa nei confronti del decreto 8 luglio 2010, n. 81, con cui il Direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Sardegna aveva dichiarato l'immobile denominato "Complesso Minerario Industriale di Tuvixeddu", di proprietà del Comune di Cagliari e della Nuova Iniziative Coimpresa s.r.l., di interesse culturale, storico e artistico ai sensi degli articoli 10 e 13 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, con i conseguenti vincoli di tutela previsti da tali norme.
Come si legge nella sentenza, l’intervento di tutela riguarda i beni mobili e immobili utilizzati, dagli ultimi anni del secolo XIX fino agli anni ’60 del secolo scorso, per l’esercizio di una cava di materiale calcareo, tanto che l’area è stata inquadrata nell’ambito dei “siti di interesse minerario”, ai sensi del D.lgs 22 gennaio 2004 n. 42. Si tratta dell’area del "Catino", quella del "Canyon", nonché una vasta “area centrale”, ampiamente interessata da opere di urbanizzazione previste nel piano attuativo dell'accordo di programma del 2000. Il nuovo vincolo interessa 12 ettari circa dell'intero compendio e, come ricorda lo stesso Tar, si aggiunge, e si sovrappone nelle rispettive aree, al più esteso vincolo paesaggistico (50 ettari) contenuto nel P.P.R. del 2006.
Il medesimo organo di giustizia amministrativa non ha trascurato di mettere in risalto, nel trattare la complessa questione, la portata della assai nota sentenza n. 1366 del 26 gennaio 2011 del Consiglio di Stato, che aveva ritenuto legittimo il vincolo di inedificabilità (di natura paesaggistica e non culturale) posto dal Ppr sul complesso delle aree di Tuvumannu - Tuvixeddu, in attesa dell'adeguamento del Puc del comune di Cagliari alle prescrizioni dello stesso atto di pianificazione paesaggistica regionale (art. 49 norme attuazione del Ppr).
Sarà bene ricordare che la sentenza del Consiglio di Stato n. 1366/2011 aveva ribaltato, annullandola, la contraria posizione del Tar Sardegna, espressa con la sentenza del 13 dicembre 2007, n. 224, che aveva invece ritenuto inapplicabile l'articolo 49 delle norme di attuazione del Ppr, salvaguardando così il piano di Coimpresa e del comune di Cagliari contenuto nell'accordo di programma del 2000. Per sgombrare il campo da equivoci lo stesso Tar si è ora visto costretto a precisare, nella decisione appena pubblicata, che il vincolo paesaggistico del Ppr su Tuvumannu - Tuvixeddu "essendo stato confermato da una sentenza avente valore di giudicato, è tuttora valido ed efficace", e ciò pur "dopo che per molti anni le diverse amministrazioni coinvolte avevano avvallato la realizzazione dell’intervento edilizio proposto da Coimpresa"
Nel negare alla radice "la prevalenza delle aspettative privatistiche formatesi in relazione ai pregressi provvedimenti di contenuto favorevole" sul "persistente interesse pubblico ad una piena tutela dei beni culturali e paesaggistici", ha afferma inoltre il Tar, quanto alla tanto declamata supremazia dei diritti edificatori pregressi dei privati (Coimpresa) su quelli generali di tutela del paesaggio in capo alla collettività:
- che numerose delle opere previste nell'accordo di programma del 2000 "non sono state ad oggi completate e ciò ulteriormente giustifica un intervento di tutela che l’Amministrazione statale basa su di una disposizione normativa - il decreto legislativo n. 42/2004 – che ha innovativamente inserito i “siti minerari” fra le categorie di beni per i quali è possibile procedere ad una valutazione di notevole interesse culturale";
- "che l’Amministrazione, pur in presenza di atti che in precedenza hanno radicato interessi privati all’utilizzazione del territorio, resta comunque titolare del potere-dovere di adottare i provvedimenti necessari ad una piena tutela dei beni affidati alle sue cure";
- che "come recentemente osservato dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana (sentenza 10 giugno 2011, n. 418), “la disciplina costituzionale del patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9 Costituzione) erige la sua salvaguardia a valore primario del vigente ordinamento”, tanto che “l’imposizione del vincolo non richiede una ponderazione degli interessi privati con gli interessi pubblici connessi con l'introduzione del regime di tutela, neppure allo scopo di dimostrare che il sacrificio imposto al privato sia stato contenuto nel minimo possibile”.
Si tratta affermazioni di così ampia portata chiarificatrice, quelle del Tar, tali da indirizzare una potente luce, ove ce ne fosse stato bisogno, sulla questione relativa all'efficacia o meno dell'accordo di programma per Tuvixeddu del settembre del 2000 a fronte dell'intervenuta sentenza n. 1366/2011 del Consiglio di Stato. Che quell'accordo fosse divenuto inefficace con l'entrata in vigore del Ppr della Regione nel settembre del 2006, pareva chiaro dalla lettura della citata sentenza n. 1366 del 2011. Ma una strana nebbia aveva d'un tratto avvolto l'intera questione.
C'erano infatti coloro - dai giornalisti bloggers poco propensi agli approfondimenti necessari agli studiosi di diritto a loro dire imparziali sino ai politici disinteressati a cui (a tutti loro) mi sia consentito dare comunque il beneficio della buona fede - che anche dopo quella sentenza avevano continuato a ritenere che nulla fosse mutato, ritenendo l'accordo di programma del 2000 ancora efficace a norma dell'articolo 15 delle norme di attuazione del Ppr, che faceva salvi gli interventi previsti in strumenti urbanistici attuativi approvati mediante convenzione di lottizzazione efficace prima dell'entrata in vigore dello stesso Ppr.
Alcuni di essi avevano anche citato, a sostegno delle loro disquisizioni, le sentenze del Tar Sardegna n. 541 e 542 del 20 aprile 2009, che avevano fatto salvo l'accordo di programma del 2000 proprio attraverso articolo 15 delle norme di attuazione del Ppr. Ignoravano però, e spero che di ignoranza si tratti, che entrambe le sentenze del Tar Sardegna erano state successivamente annullate dal Consiglio di Stato (sentenze n. 538/2010 e n. 1491/2010) che aveva invece ritenuto prevalenti "le prescrizioni introdotte dal Ppr per il corrispondente ambito di paesaggio".
Resta ovviamente aperta - e il Tar lo sottolinea - la questione della copianificazione (Regione, Comune di Cagliari, Sovrintendenza beni culturali e paesaggistici) relativa al sito, previa "valutazione, coordinata e complessiva, delle soluzioni allo stato concretamente adottabili". E qui il Tar cita ancora la sentenza n. 1366/2001 del Consiglio di Stato secondo cui “la regolamentazione definitiva dell’area è rinviata ad un’intesa tra Comune e Regione, fermo che all’interno dell’area individuata è prevista una zona di tutela integrale, dove non è consentito alcun intervento di modificazione dello stato dei luoghi, e una fascia di tutela condizionata".
A parte il PAI (piano di assetto idrogeologico) approvato dalla Regione nel 2006, che già da solo aveva reso inedificabile il 40 per cento circa delle volumetrie del piano di Coimpresa, pur nell'imbarazzante e perdurante silenzio dell'allora sindaco Emilio Floris, della sua giunta e dei dirigenti comunali che avevano fatto finta, da prima, di ignorare i vincoli di inedificabilità del Pai e, successivamente, messo in essere la pantomima della rinuncia da parte di Coimpresa a costruire laddove comunque non avrebbe potuto farlo, con tanto di delibere di giunta e del consiglio comunale in scadenza ad accogliere i desiderata della società costruttrice divenuta d'un tratto rispettosa delle aree paesaggisticamente più delicate.
I pronunciamenti giurisprudenziali del C. di Stato ed ora del Tar dovrebbero rendere meno arduo, nella definizione degli atti di tutela del sito Tuvumannu-Tuvixeddu, il compito del comune di Cagliari e del suo sindaco Massimo Zedda, al quale va dato atto, nella vicenda dell'apposizione del vincolo minerario, di aver rinunciato al giudizio davanti al Tar revocando la costituzione in giudizio del 26 novembre 2010, contro gli atti del Sovrintendente Tola, decisa dal suo predecessore Emilio Floris. Un importante atto politico che ci aiuta a sperare nell'azione di tutela e valorizzazione, non solo nell'interesse della città di Cagliari, dell'importante compendio.
I guai di Ligresti travolgono i cantieri del Cerba. Umberto Veronesi l’aveva definito il progetto «apripista di Expo». Eppure, quella cittadella della scienza che l’oncologo sogna fin dagli anni Novanta, non sarebbe comunque riuscita a inaugurare i reparti come previsto insieme ai padiglioni del 2015. Colpa del grande gelo calato sulla disponibilità finanziaria dei possibili sponsor, che aveva già fatto slittare di un anno, all’autunno del 2012, anche l’ultima ipotesi di avvio dei lavori. Adesso anche questo obiettivo si allontana sempre di più. E, nella migliore delle ipotesi, gli operai non si presenteranno su quei 620mila metri quadrati di Parco Sud destinati a trasformarsi nel Centro per la ricerca biomedica avanzata prima della primavera-estate del 2013. Tutto sospeso. In attesa che si definisca proprio il primo dei presupposti: la disponibilità delle aree di proprietà di una società del gruppo Ligresti (la Im.Co.) per cui la procura ha chiesto il fallimento.
È un cammino accidentato quello del Cerba: un moderno polo dedicato alla cura e alla ricerca (dall’oncologia allo studio del Dna), accanto all’attuale Istituto europeo di oncologia, che avrebbe dovuto ospitare anche un campus per far lavorare i cervelli di tutto il mondo, un grande parco, strutture per accogliere i familiari dei pazienti. Ma che stenta a prendere il via. I lavori sarebbero dovuti partire nel 2009 per terminare in due fasi: un primo taglio del nastro nel 2012, il completamento del progetto nel 2017. Sono stati rimandati di anno in anno, tra ostacoli burocratici, la crisi economica, la difficoltà a trovare partner per un disegno che, in totale, vale 1 miliardo e 300 milioni. E ora arriva anche l’ultimo rinvio, che non consegna neppure una data certa a cui appigliarsi.
Il motivo? Proprio in questi giorni sarebbe scaduto il tempo a disposizione della Fondazione Cerba per siglare gli ultimi atti urbanistici necessari per inaugurare i cantieri. Ma «in via prudenziale» le istituzioni hanno «rinviato» ogni decisione che riguarda la stipula delle convenzioni finali del Piano integrato di intervento. Impossibile mettere quelle firme nell’incertezza di base che riguarda le aree stesse su cui gettare le fondamenta. Serve tempo per capire come sciogliere il nodo dei 620mila metri quadrati di terra nel Parco Sud. I terreni, infatti, sono di proprietà di Im.Co., una società del gruppo Ligresti che rischia il tracollo sotto il peso dei debiti. Dopo la richiesta di fallimento della procura, i legali della spa hanno presentato un piano di salvataggio e il tribunale fallimentare si è riaggiornato al prossimo 13 giugno. È da queste decisioni che dipende il destino del Cerba. Ed è per questo che tutti gli attori (Regione, Provincia, Comune, Parco agricolo Sud, Fondazione Cerba e la società Im.Co.) che partecipano all’accordo di programma urbanistico ieri hanno rinviato ogni passo urbanistico. Al Pirellone, però, sarebbe stata assicurata la volontà di portare avanti il progetto. Con il governatore Roberto Formigoni che ha sottolineato la necessità «di non pregiudicare la realizzazione di questo importante e strategico intervento». È questo che ha fatto il Collegio di vigilanza che sovrintende all’accordo urbanistico: concedere una proroga. La soluzione per il Cerba sarebbe quella di far confluire i terreni in un fondo immobiliare, gestito dalla società Hines di Manfredi Catella, che potrebbe farsi carico anche dei debiti di Ligresti con le banche. Sempre che le trattative con creditori e procura vadano in porto.
Una precisazione: contemporaneamente a questo articolo di Repubblica , il berlusconiano Giornale pubblica un brevissimo trafiletto intitolato “La Città della Salute verso via Ripamonti” in cui senza citare fonti particolari si afferma che il potenziale polo di ricerca pubblico (sinora presentato come complementare al privato Cerba) potrebbe rinunciare alle opzioni localizzative in aree dismesse prospettate, per andarsi a collocare esattamente al posto dell’ospedale caldeggiato da Veronesi. Il che conferma se necessario la natura tutta speculativa delle pressioni sui terreni di Ligresti, e l’estraneità sostanziale degli aspetti sanitari, di accessibilità ecc., lasciati tutti alla pura capacità della comunicazione. Insomma i vecchi vizi sono non solo duri a morire, ma ancora vivi e vegeti (f.b.)
È la rivincita dei nuovi contadini. La riscoperta dell’agricoltura sana, biologica, legata al territorio, capace non solo di produrre alimenti buoni, ma di tutelare il paesaggio e l’ambiente, di disegnare la pianura con i filari di piante, le siepi, i canali tra i campi, il recupero degli antichi fontanili. È l’agricoltura come bisogno di bellezza e di armonia. Parte dal convegno "L’agricoltura è salute. L’agricoltura è arte", nell’ambito del progetto Expo Days, promosso dall’assessore Stefano Boeri, la sfida milanese al tema "Nutrire il pianeta, energia per la vita", che sarà al centro dell’Expo 2015. Sabato prossimo, dalle 9,30 alle 13,30 alla Triennale, agricoltori, medici, agronomi, esperti in alimentazione, si danno appuntamento per discutere come migliorare la nostra vita, a partire dalla nostra città. Perché anche Milano, molti non lo sanno, è ricca di campi e allevamenti.
Giulia Maria Crespi, presidente onorario del Fai, il Fondo per l’ambiente italiano, fondatrice della più grande azienda agricola biodinamica italiana, alla Zelata di Bereguardo, in provincia di Pavia, racconterà questa «nuova consapevolezza»: «I milanesi stanno cominciando a imparare che il loro Comune e la loro provincia non è fatta solo di cemento e asfalto. Basta inforcare una bicicletta e uscire dalla città per riscoprire, a pochi minuti, quel mondo contadino che ci può ancora salvare e che noi dobbiamo aiutare a crescere».Su "Povertà, qualità del cibo e salute" sarà l’intervento di Matteo Giannattasio, docente di Qualità degli alimenti e salute all’Università di Padova. «In passato i ricchi erano obesi e i poveri erano magri e sofferenti di disturbi legati alla malnutrizione - spiega Giannattasio. - Oggi paradossalmente l’obesità dilaga maggiormente tra i poveri, ma si accompagna, nonostante gli eccessi alimentari, a carenze nutrizionali. Un paradosso che si spiega col fatto che la povertà porta al consumo di alimenti di bassa qualità».
Segnali incoraggianti per l’agricoltura più attenta alla salute viene dal forte incremento del numero di consumatori che si rivolgono ai prodotti biologici. Fabio Brescacin, amministratore delegato di EcorNaturaSì spa, la più grande rete di distribuzione di alimenti biologici in Italia, tra i relatori del convegno, spiegherà come cambiano i gusti alimentari degli italiani: «Anche in epoca di crisi, il mercato dei prodotti bio, che costano mediamente almeno il 50% in più degli altri, è in notevole espansione». Sul delicato tema del monopolio dei semi, e della biodiversità perduta, in un pianeta dominato dalle multinazionali agroalimentari, interverrà Salvatore Ceccarelli, genetista, consulente in miglioramento genetico dell’International Center for Agricultural Research. «Il 60% del mercato del seme è nelle mani di 10 grosse compagnie, delle quali quattro, Monsanto, DuPont, Syngenta e Bayer detengono circa il 40% - denuncia Ceccarelli. - A fronte delle circa 250mila specie di piante viventi sul pianeta, di cui 50mila sono commestibili, noi ne mangiamo solo 250, ma soltanto 15 forniscono il 90% delle calorie».
postilla
Da quando sono tramontate almeno in parte le fortune del centrodestra monolitico-cementificatore pare che il tema del grande evento inizi a incidere davvero su ciò che si fa e si propone, e non fare da sfondo confuso a vari progetti di trasformazione territoriale, quasi tutti con contenuti diametralmente contrari. Ma, c’è sempre un ma.
In parole molto povere: riuscirà l’animazione culturale di alto livello a recuperare davvero, prima di tutto localmente (e non è egoismo planetario), il dibattito dalle secche tragicomiche dello scontro fra i sedicenti modernizzatori a colpi di nuova tecnologia a vanvera, e la scombinata banda un po’ frescacciona (diciamocelo, va’) dei sedicenti neo-contadini? Ovvero a riportare su binari visibili la questione città/campagna?
A chi scrive è capitato di recente, solo per fare un esempio, di leggere un articolo “scientifico” dove si sosteneva la liceità di colture destinate agli agro-carburanti nelle aziende agricole di prima cintura milanese, presentandole come sostenibili. E si leggono tutti i giorni, o si ascoltano per radio, ridicoli richiami a quanto si stava bene cent’anni fa, magari mangiando solo polenta e abitando in famiglie allargate tutti dentro la stessa stanza di una cascina, insieme alle galline.
Ecco: speriamo che discutere ad alto livello su come nutrire il pianeta, vivere la metropoli, coniugare ambiente ed economia con una nuova qualità della vita, insieme a sperimentazioni locali trasparenti, magari proprio sponsorizzate da Expo, inizi a diradare certe nebbie padane sinora un po’ troppo fitte (f.b.)