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«Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo»: e si sbagliava alla grande – si potrebbe dire, massacrando per par condicio anche Dante –: perché il suo campo non è la pittura, ma il marketing.

L’addetto culturale italiano a Washington, Renato Miracco, è venuto ad Arezzo per spiegare al sindaco Fanfani, all’assessore alla cultura Macrì, al Soprintendente Bureca e al vescovo Fontana perché dovrebbero precipitarsi a spedire negli Stati Uniti il grandissimo Crocifisso di Cimabue conservato nella chiesa di San Domenico. L’opera dovrebbe essere esposta a Washington nel 2013 (in occasione dell’Anno della cultura italiana in America) insieme al Satiro danzante di Mazara del Vallo: non perché qualcuno veda un nesso tra le due opere (almeno spero), ma perché si tratta di due ‘capolavori assoluti’ e ‘rarissimi’.

L’assessore Macrì ha prontamente commentato: «Siamo di fronte a un’occasione irripetibile che offre ad Arezzo due eccezionali opportunità. La prima è di legare, negli Stati Uniti, la cultura italiana alla nostra città. Gli eventi programmati in occasione dell’Anno della Cultura avranno formidabili riflessi mediatici in America e noi saremo sotto la luce dei riflettori. Essere stati scelti per rappresentare l’Italia è una gratificazione, ma soprattutto un “treno promozionale” che non può essere assolutamente perduto».

Non discuto le ottime intenzioni dell’assessore. Ma l’effetto di queste parole è terrificante: dipingono l’Italia come una vecchia aristocratica decaduta che per mantenersi deve prostituire le sue bellissime figliole, con i mezzani che si fregano le mani quando c’è un cliente col portafoglio gonfio. Guai a perdere l’occasione. Ma è davvero a questo che serve, Cimabue? Io credo di no, e credo che spedirlo in America sia profondamente sbagliato per almeno quattro ragioni.

La prima è che è pericoloso. Se tra i giganti dell’arte italiana ce n’è uno raro, fragile, sfortunato, ebbene quello è Cimabue. Il tempo, le alluvioni e i terremoti hanno decimato il corpus di questo patriarca della lingua figurativa italiana, e noi non possiamo mettere a rischio una delle sue poche opere sicure e ben conservate: un colosso di 3 metri e 36 per 2 e 67, dipinto a tempera su legno quando Dante aveva meno di cinque anni. Come possiamo anche solo pensare di caricarlo su un aereo per fargli fare l’uomo-sandwich del turismo aretino? L’anno scorso, l’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori provò a spedire a Mosca un’opera analoga per importanza e dimensioni, il Crocifisso di Giotto di Ognissanti, ma per fortuna l’Opificio si mise di traverso: e c’è da sperare che anche questa volta gli organi di tutela battano un colpo.

La seconda è che è illegale. L’articolo 9 della Costituzione dice che la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione italiana. E l’articolo 66 del Codice dei Beni culturali dice che «può essere autorizzata l'uscita temporanea dal territorio della Repubblica» delle opere vincolate solo per «manifestazioni, mostre o esposizioni d'arte di alto interesse culturale, sempre che ne siano garantite l'integrità e la sicurezza». Ma in questo caso non c’è alcun valore culturale, e la natura eccezionale dell’opera rende impossibile garantirne davvero la sicurezza.

La terza è che è diseducativo. Come dimostrano alcune sentenze della Corte Costituzionale, l’articolo 9 dice che il patrimonio serve ad aumentare la cultura, non a fare da volano allo sviluppo economico. Forse mi sbaglio, ma mi aspetterei che un sindaco, un assessore alla cultura, un soprintendente e un vescovo mettessero al primo posto la formazione dei cittadini: e non si strappa un crocifisso da una chiesa, un’opera dal suo contesto originario. E non si assoggetta al mercimonio un testo poetico e sacro così alto.

La quarta è che è inutile. Nessun economista pensa che ci sia davvero un nesso tra l’esposizione del Crocifisso di Cimabue a Washington e il turismo americano ad Arezzo: non c’è alcuna ricaduta, se non per l’immagine personale di coloro che organizzano l’‘evento’, i quali sono gli unici a guadagnarci.

Tutti gli altri – Cimabue, la città di Arezzo, la cultura italiana – hanno solo da perderci.

Questo sisma che non cessa – ancora la terra trema mentre scrivo queste note – ha provocato una immane serie di devastazioni: il patrimonio culturale ha subito danni così rilevanti da rendere irriconoscibili interi centri abitati. Si tratta di un tessuto di edifici e infrastrutture storiche diffuso in modo così capillare da risultare costitutivo del volto di intere cittadine e paesi. E’ quell’insieme di rocche, castelli, ville signorili, edilizia rurale, chiese, conventi, torri che rappresenta la stessa possibilità di identità – e quindi di esistenza - di intere cittadine, da Finale Emilia a Mirandola, da San Felice a Medolla. Per questo ne va respinta l’etichetta di “patrimonio minore”: in questa bassa emiliana, come quasi ovunque in Italia, il patrimonio culturale coincide con lo spazio vitale, il luogo dove si vive e si lavora. Perderlo significa condannarsi ad uno spazio senza identità, un ‘non luogo’ senza storia, nè memoria.

Proprio per questo avremmo voluto vedere, in queste settimane, una reazione immediata ed immediatamente operativa degli organi di tutela territoriali. Al contrario, dobbiamo constatare con amarezza che il modello – negativo – aquilano che ha già provocato il degrado, forse irreversibile, di uno dei più importanti centri storici italiani continua ad essere adottato. il Mibac si è “autoesautorato” dai propri compiti statutari: ormai completamente incardinati nella struttura della protezione civile, gli organi territoriali preposti alla tutela sono scomparsi, in questi giorni, dal territorio e l’attività del Direttore Regionale si riduce quasi esclusivamente alla sottoscrizione di ordini di demolizione. Quasi che l’esercizio della tutela sia considerato ostativo o comunque incompatibile con le più urgenti iniziative di primo soccorso e messa in sicurezza.

Il terremoto ha così evidenziato con spietatezza lo stato di debolezza del sistema di tutela del nostro patrimonio culturale: mancano i mezzi ed è sempre più evidente che il Mibac, annichilito dai tagli lineari tremontiani mai più recuperati, non è più in grado di garantire una decorosa operazione di controllo e manutenzione generalizzata e continuativa del patrimonio che è chiamato a tutelare.

Da anni, per mancanza di risorse e di personale, non vengono più effettuati controlli sistematici, per non parlare dei restauri riservati ormai solo alle “eccellenze”. Le verifiche anche statiche sono episodiche e legate ad eventi particolari. In pratica questo significa l’abbandono ad un destino di inesorabile degrado, accelerato, in questo caso, dall’evento sismico. E bastano davvero pochi anni di mancata manutenzione per aggravare il rischio di vulnerabilità in maniera determinante. Come è successo per Pompei: non appena si cessa l’opera di ricognizione e manutenzione, i danni possono essere devastanti.

La mancanza di un programma di manutenzione degno di questo nome è quindi divenuto il fattore moltiplicatore che ha ingigantito l’effetto distruttivo del terremoto sul patrimonio culturale.

Eppure, anche in questo campo, il Mibac è stato per molti anni un punto di riferimento a livello internazionale, almeno per quanto riguarda le metodologie. A partire dal piano di prevenzione antisismica elaborato da Giovanni Urbani all’inizio degli anni ’80 e da quella Carta del Rischio costituita, faticosamente, a partire dagli anni ’90 dall’Istituto Centrale del Restauro: entrambi i progetti abbandonati per mancanza di risorse e di una visione di politica culturale di ampio respiro.

Da lì occorre ripartire, senza incertezze, abbandonando le chimere della crescita drogata delle Grandi Opere: Italia Nostra propone quindi che le risorse – tutte – previste per la costruzione di infrastrutture quali la pedemontana o la bretella Sassuolo – Campogalliano siano destinate all’opera di ricostruzione e di riqualificazione degli immobili con l’adozione di regole antisismiche finalmente cogenti.

Subito dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980, Antonio Cederna puntò il dito immediatamente sulla mancanza di normative antisismiche e sul dissesto idrogeologico: “Il terremoto è dunque un aspetto di quell’autentico sisma permanente che è il saccheggio generalizzato del territorio e delle sue risorse.”

Forse non è ancora troppo tardi per cominciare ad ascoltarlo.

Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.

Così sul parigino le Figaro il 20 febbraio 1909 il nostro Filippo Tommaso Marinetti lanciava il suo Manifesto del Futurismo. Diventato poi come sappiamo, volenti o nolenti, anche il manifesto della nostra coatta esistenza quotidiana: spiegateglielo voi al precario isterico imbottigliato col furgone nell'ingorgo, che il suo carico di sedie da giardino pieghevoli, che consegnerà quando ormai è buio, " è più bello della Vittoria di Samotracia"! Eppure c'è ancora chi canta il futuro luminoso del bolide sfrecciante, tanto più luminoso quanto più ingrassa i conti correnti degli investitori. Poco importa se sotto le rombanti vetture scompaiono per sempre i pochi ettari di campagna padana scampati all'alluvione sviluppista del Novecento.

Il modello è il cosiddetto "superluogo" ovvero l'atterraggio in spazio vuoto (almeno così lo considerano gli interessi immobiliari) di un formato deciso a tavolino, dove entrano o dovrebbero entrare in sinergia varie attività: una a fungere da ancora, le altre apparentemente aggiunte. In realtà il rapporto è ribaltato: lo stadio, l'aeroporto, la fermata o svincolo della grande linea di trasporto, sono poco più che una scusa. Così come lo sono la cosiddetta domanda del mercato o le ricadute occupazionali. Ciò che conta è la valorizzazione immobiliare e tutto ciò che ne deriva in termini di investimenti finanziari e di interessi privati.

Comunque per comprendere i termini della faccenda, vi invitiamo a leggere il dossier, predisposto dal circolo Legambiente Il Tiglio di Vigasio, scaricabile qui di seguito. Potrete sapere, tra l'altro, che saranno urbanizzati 458 ettari di pianura (7 volte l'estensione di Gardaland), che la superficie commerciale equivale alla somma dei dieci maggiori centri commerciali della provincia, che si prevede la costruzione di una bretella a quattro corsie lunga una decina di km per collegare il sito all'autostrada. Scorrendo le pagine, leggerete i nomi dei promotori e dei loro soci e potrete confrontare questa iniziativa con altre simili, previste dal Piemonte alla Sicilia. Infine, una rassegna delle dichiarazioni dei politici locali.

Buona lettura.

Con lo sviluppo dell’inchiesta guidata dal procuratore aggiunto di Napoli Giovanni Melillo, la devastazione e il saccheggio della biblioteca napoletana dei Girolamini assumono proporzioni inaudite.

Uno dei punti chiave riguarda il ruolo di Marcello Dell’Utri, padrino politico del direttore Marino Massimo De Caro, ora in prigione con l’accusa di peculato e associazione a delinquere finalizzata alla sottrazione dei preziosissimi libri.

Dall’ordinanza cautelare del GIP Francesca Ferri, resa nota per stralci dalle pagine napoletane di «Repubblica», si apprende che De Caro riuscì ad impedire la perquisizione di un appartamento romano a lui collegato sostenendo che, essendo utilizzato dal senatore siciliano, sarebbe stato coperto dall’immunità parlamentare. E d’altra parte, nelle intercettazioni telefoniche della collaboratrice di Dell’Utri (Maria Grazia Cerone, anch’essa indagata) si legge: «Sinceramente la roba è tanta, la roba è tanta, eh... Tante scatole, perciò è impossibile portarle via».

Dubbi non meno inquietanti emergono circa il ruolo del Ministero per i Beni culturali. Nella stessa ordinanza si legge che la nomina di De Caro alla direzione dei Girolamini è avvenuta «ad onta di ogni regola e grazie all’influenza politica correlata all’incarico fiduciario di consigliere dell'ex ministro per i Beni e le attività culturali Gianfranco Galan».

Tale nomina fu il passo decisivo di «un piano criminale studiato in ogni dettaglio», reso possibile dalla «perdurante assenza di controllo e vigilanza da parte degli organi del Ministero a ciò deputati».

Galan ha chiesto pubblicamente scusa per aver nominato De Caro come consigliere, su richiesta di Dell’Utri. Ma ora si apprende che un altro consigliere ministeriale dette l’allarme sulla figura e l’opera di De Caro fin dall’estate del 2011: perché né Galan né il suo staff ne tennero conto? Si apprende inoltre che l’ex direttore generale per le biblioteche del Mibac, Maurizio Fallace ha riferito ai magistrati «delle insistenti pressioni ricevute affinché rilasciasse il nulla osta della sua direzione generale alla nomina di De Caro, ciò che di fatto avvenne lo stesso giorno».

La Corte dei Conti dovrà ben porsi il problema delle responsabilità dell’enorme danno erariale (oltre che culturale) provocato da una simile condotta: ed è intollerabile che, a fronte di questo tradimento dei vertici del Mibac, i due bibliotecari fedeli che hanno fornito le prime prove dei furti siano tuttora precari (dopo trent’anni), e rischino addirittura il posto.

Il silenzio di Lorenzo Ornaghi è, dunque, ogni giorno più grave. In un paese serio, un ministro il cui consigliere personale finisse in galera per aver saccheggiato una biblioteca pubblica avrebbe un’unica strada dignitosa: le dimissioni. Ma perfino in Italia Ornaghi non può non spiegare perché il suo Ministero non vigilasse, non controllasse e invece obbedisse a «insistenti pressioni»; perché egli stesso abbia confermato De Caro come proprio consigliere (quando invece ne licenziò altri due, egualmente di Galan ma ben più innocui); perché l’ispezione ministeriale che avrebbe permesso di scoprire quelle enormità già a febbraio sia stata congelata fino a ben dopo la denuncia del «Fatto».

Ma il caso dei Girolamini spinge a riflessioni più ampie. La procura di Napoli è riuscita a gestire esemplarmente l’inchiesta perché esiste un pool specializzato in reati contro il patrimonio: non sarebbe l’ora di applicare ovunque questo modello? Non è poi possibile lasciare i carabinieri del Nucleo di tutela sotto il controllo diretto del Ministro dei Beni culturali: troppe vicende degli ultimi mesi (dal Crocifisso ‘di Michelangelo’, al prezioso mobile settecentesco svincolato contro ogni norma, fino allo scandalo colossale dei Girolamini) dimostrano che il patrimonio va difeso anche dalle troppe deviazioni del Mibac.

L’espressione è forte, pulizia etnica. Sta a indicare le demolizioni di campanili e di torri nei paesi emiliani flagellati dal terremoto. E a usarla è Italia Nostra, dietro le cui insegne si ingrossa la schiera di chi vorrebbe metterli in sicurezza, quei monumenti, e non abbatterli. L’espressione la spiega l’architetto Elio Garzillo, fino al 2004 soprintendente e direttore regionale dei Beni culturali in Emilia Romagna: «Quando si demoliscono edifici dicendo che sono di scarso valore, si procede in base al principio che in architettura si può salvare solo ciò che è d’altissimo pregio. È un’idea culturalmente arretrata ».

Il j’accuse viene rilanciato oggi in un incontro promosso a Bologna da Italia Nostra (oltre a Garzillo, partecipano l’architetto Pierluigi Cervellati, Giovanni Losavio e Anna De Rossi, presidenti delle sezioni di Modena e di San Felice sul Panaro, ed Emanuela Guidoboni, storica dei terremoti). Dopo il sisma del 20 e del 29 maggio, una delegazione di Italia Nostra ha battuto l’area più colpita. Urbanisti e architetti hanno visto ciò che resta dei campanili demoliti a Poggio Renatico e Buonacompra, della ciminiera di Bondeno o del Mulino Parisio a Bologna.

Mentre si aspetta di conoscere la sorte delle torri di Reno Centese, Castelmassa, Ficarolo, San Giacomo Roncole e Suzzara, è soprattutto il ministero dei Beni culturali, il bersaglio di roventi critiche: «Le strutture statali di tutela hanno dimostrato un’inedita disponibilità ad autorizzare o tollerare tutte le demolizioni».

Il punto è questo, secondo Garzillo: la sicurezza dei cittadini poteva essere garantita con interventi di consolidamento dei monumenti, senza ricorrere alle demolizioni, per le quali — come a Poggio Renatico — si è usata anche la dinamite. O agli “smontaggi controllati”, secondo alcuni un ipocrita eufemismo, secondo altri la condizione indispensabile per un’eventuale ricostruzione.

La memoria torna al terremoto in provincia di Reggio Emilia del 1996. «A Correggio e a Villa Sesso — racconta Garzillo — siamo intervenuti per incatenare e imperniare i campanili. A Bagnolo in Piano la torre campanaria era completamente sfalzata, sembrava un mazzo di carte sparpagliate. Abbiamo messo putrelle e proceduto con incollaggi. Il lavoro è durato sette giorni e costato 50 milioni di lire. Sono operazioni di prevenzione nell’emergenza, tutte ampiamente documen-tate: basta spulciare gli archivi della Soprintendenza e della Direzione regionale». E invece? «E invece ora si è assecondata la Protezione civile, che fa bene il proprio lavoro, ma deve trovare negli organi del ministero per i Beni culturali un interlocutore consapevole del proprio compito. Che è quello di salvaguardare un monumento e di demolire solo in casi di assoluta necessità».

Secondo Giovanni Losavio, magistrato di Cassazione, il vizio d’origine è nel decreto del ministero che attribuisce il coordinamento degli interventi alla Direzione regionale e non alle Soprintendenze. «Ma la Direzione regionale », spiega Losavio, «è un organo prevalentemente ammini-strativo e non ha le competenze operative e tecniche proprie delle Soprintendenze. In questo modo la tutela è condannata a essere subordinata alla Protezione civile ».

In molti casi le demolizioni sono chieste a gran voce dalle stesse popolazioni. Alcuni sindaci, come Alberto Silvestri di San Felicesul Panaro, hanno spiegato che «tutti i monumenti hanno pari diritti ». Invoca abbattimenti l’assessore della Provincia di Mantova, Alberto Grandi, («dolorosi, ma inevitabili»), beccandosi da Salvatore Settis l’appellativo di Attila.

La memoria di Garzillo corre indietro nel tempo. Giovane funzionario della Soprintendenza napoletana, visse il terremoto del 1980 in Irpinia e Basilicata. «L’allora ministro dei Beni culturali Oddo Biasini mandava ispettori a chiedere a ognuno di noi quanti pronti interventi avevamo realizzato, quanti monumenti avevamo messo in sicurezza. Operazioni che praticavamo sfidando anche le ire di altre istituzioni. Ora la prassi è molto più accomodante».

ROMA— La grande scritta sulla vetrata a volta si vede già da lontano, arrivando sulla via Ostiense, oltre il Gazometro e il Porto Fluviale, tra ponteggi di restauri industriali e vecchi docks sul Tevere. “Eataly”: il nome spicca tra le arcate del famoso Air Terminal progettato dall’architetto spagnolo Julio Lafuente per i mondiali di Italia 90, struttura all’avanguardia costata cinquanta miliardi di denaro pubblico e quasi mai utilizzata, simbolo di spreco e degrado, ridotta negli anni a rifugio per senzatetto, profughi e diseredati.

È qui, in questo panorama completamente ridisegnato e restituito alla città, che è approdato “Eataly Roma” l’ultima creatura dell’imprenditore di Alba Oscar Farinetti, che dopo aver fatto prosperare la catena di negozi di elettrodomestici “Unieuro”, sta facendo riscoprire all’Italia (e non solo), il gusto del cibo di qualità, con un business che per il suogruppo ormai sfiora i 300 milioni di euro l’anno. “Eataly Roma”, che aprirà al pubblico il prossimo 21 giugno, è un gigantesco, immenso villaggio del buon mangiare e del buon vivere, 17mila metri quadri dedicati al gusto e alle eccellenze gastronomiche di ogni angolo d’Italia, no, anzi, alla bellezza, come dice Farinetti, perché, in genere, «chi cerca l’armonia mangia bene». E dunque un grande luogo conviviale, un po’ piazza, un po’ mercato, un po’ ristorante un po’ caffè, con librerie e aule didattiche, dove «il cibo italiano di alta qualità si può comprare, mangiare e studiare», scelto, cucinato e insegnato da grandi chef e chef emergenti, produttori doc piccoli e grandi, in collaborazione con Slow Food, e dove ogni scelta ha il suo perché.

La mozzarella di bufala ad esempio. Quella di Eataly è prodotta, a vista, nel suo “Mozzarella Show” da Roberto Battaglia, che oltre a saperla fare secondo la più rigorosa tradizione casertana (tutto latte di bufala senza aggiunta di latte vaccino), è anche uno dei pochi produttori che ha denunciato i boss della camorra che lo perseguitavano. O gli aperitivi dell’associazione “Vino libero” che si impegnano a produrre etichette prive da concimi chimici, diserbanti e solfiti aggiunti. Eccolo allora “Eataly Roma”, il più grande dei 19 Eataly sparsi in tutto il mondo, Tokio e New York compresi, una vera sfida imprenditoriale in una Capitale fortemente impoverita e depressa. Progetto nel quale Farinetti e il suo gruppo hanno investito oltre80 milioni di euro, acquistando e ristrutturando il vecchio Terminal Ostiense, immagine fino a ieri di uno dei grandi sprechi italiani, e assumendo 500 giovani lavoratori.

Dice Nicola Farinetti, figlio di Oscar e responsabile di “Eataly Roma”: «Abbiamo puntato su Roma perché ci dispiaceva che il nostro negozio più grande e famoso non fosse in Italia ma all’estero, a New York. E abbiamo pensato a Roma perché è l’unica vera metropoli italiana, immaginando un luogo frequentato sia da romani che da turisti, dove si possa mangiare, bene, a partire dai 4 euro di un panino, o ai 5 euro di una pizza margherita. Le nostre aspettative: 35mila visitatori e seimila pasti al giorno. Una sfida enorme…».Entrando è la luce delle vetratedisegnate da Lafuente riflessa in lampadari color acqua che colpisce prima di tutto, nei quattro piani collegati da scale mobili, tra spazi dove i decori dei tavoli e delle sedie ricordano il rosso della carne, l’ambra della birra, l’azzurro della pescheria. Tutto a Eataly si può comprare o consumare in loco, che sia una bistecca del presidio Slow Food “La Granda”, o un piatto di culatello di Zibello, un fritto misto nel “cuoppo” (cartoccio) di Pasquale Torrente da Cetara, o un piatto di spaghetti espressi ma soltanto dei pastifici di Gragnano.

E partendo dal piano terra si passa dai panini d’autore di “Ino”, alla piadineria dei “Fratelli Maioli”, costruita come i chioschi delle spiagge romagnole negli anni Venti. E poi la cioccolateria Venchi, dove la crema gianduia, con nocciole Piemonte ed emulsionata con olio extravergine Roi di olive taggiasche, sgorgherà ancora calda da rubinetti cromati per la gioia (e lo sballo) dei golosi. Racconta Nando Fiorentini, anima e cuore di tutte le pescherie diEataly: «Vorremmo insegnare alla gente a mangiare, anche il pesce povero, quello che non si conosce, e di cui invece i nostri mari sono ricchi …».

Oltre l’immenso reparto salumi e formaggi, oltre le pizze napoletane con farina macinata a pietra, l’ultimo piano è quello degli chef. Per il ristorante Italia, lusso con vista su Roma, Gianluca Esposito, 29 anni, per la cucina dei grandi eventi Massimo Sola. Il 14 giugno apertura di gala per politici e ministri. Ma attenzione: al pubblico ad inviti sarà servito un “non pranzo”. «Offriremo soltanto acqua minerale a tutti — raccontano i collaboratori di Oscar Farinetti — e devolveremo i soldi del pranzo ai terremotati dell’Emilia.

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Slow Food rappresenta i buoni, quindi questa iniziativa sponsorizzata è automaticamente buona. Mi pare già di immaginarlo, anzi lo provo anch’io, l’automatismo da vittima della pubblicità occulta. Ma mi scatta anche l’altro automatismo, quello di provare a collegare una cosa all’altra, come del resto ha fatto anche la giornalista nel titolo: il parco giochi dell’alimentazione, la Disneyland della pastasciutta, l’outlet della cucina della mamma … Ricorda qualcosa, no? Ricorda per esempio come anche i primi osservatori non adolescenti del parco tematico originale negli anni ’50 notavano una cosa, ovvero che dentro il recinto la gente andava a cercare esattamente quello che stava sparendo (che si stava facendo consapevolmente sparire) fuori, ovvero la via tradizionale, la piazzetta dove ci si ritrova, le relazioni amichevoli semplici e spontanee. Secondo un criterio commercialmente ineccepibile: rendo scarsa una risorsa e la rivendo in esclusiva. Ora, è vero che magari Eataly “recupera” cose perdute o difficili da trovare, ma secondo quale percorso? È una specie di monastero benedettino dove si ricopiano pazientemente codici in attesa di tempi migliori per ristamparli e farli leggere a tutti, o l’ennesimo scatolone introverso a pareti cieche con ingresso a pagamento, dove si compra quello che prima era gratis, o quasi? Chilometro zero, o conto chilometrico a parecchi zeri? Ovviamente una risposta io non ce l’ho, chiedete magari a Slow Food (f.b.)

Si disegna la Città metropolitana. Il primo passo intrapreso da Palazzo Isimbardi si chiama Ptcp, piano territoriale di coordinamento provinciale urbanistico della Grande Milano; è stato adottato e sarà approvato entro la fine di ottobre.

Parola d’ordine zero consumo di suolo.

Si viaggia controcorrente: se tra il 1999 e il 2007 il cemento ha coperto circa 60 chilometri quadri di terreno (ovvero quasi 5.500 campi da calcio, per rendere l’idea) l’obiettivo è recuperare le aree dismesse e salvaguardare la vocazione agricola del territorio, a partire dai suoi parchi regionali come il Parco Agricolo Sud Milano e il Parco delle Groane. Alle tutele già previste sono stati aggiunti ulteriori vincoli per evitare «cattive interpretazioni» e speculazioni edilizie

Sarà potenziata anche la «rete ecologica» con la creazione di due nuove dorsali verdi tra le quali la «Ovest, Valle dell’Olona».

Nelle linee guida anche il potenziamento del trasporto pubblico: è previsto il prolungamento della M2 da Gessate a Trezzo sull’Adda e da Assago a Binasco, della M3 da Comasina a Paderno e della M4 da Linate a Segrate e successivamente fino a Pioltello. Nuove fermate delle linee suburbane a Opera e San Giuliano e interscambi d’interesse sovracomunale a Magenta, Castano Primo, Parabiago, Rho, Garbagnate, Paderno, Sesto, Pioltello, Melegnano, Locate Triulzi e Albairate. Infine sono previste quote obbligatorie minime che tutti i Comuni dovranno riservare all’housing sociale.

«L’adozione del Piano territoriale di coordinamento provinciale, rappresenta il primo passo verso l’istituzione della Città metropolitana – sottolinea il presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà -. Sono sempre stato convinto, infatti, che un territorio caratterizzato da un continuum di Comuni e densamente popolato come si presenta la Grande Milano possa essere amministrato con maggiore efficacia e minori costi attraverso l’adozione di politiche di area vasta almeno in materia di trasporti, infrastrutture, ambiente, urbanistica e gestione delle risorse idriche e dei rifiuti».

«È un risultato importante per il territorio e per i suoi abitanti, che potranno contare su nuove tutele ambientali e su una maggiore competitività a livello europeo – ribadisce l’assessore al Territorio Fabio Altitonante -. La nostra Provincia, concentrando circa il 10% del Pil nazionale, ha un grande potenziale, che dobbiamo valorizzare attraverso uno sviluppo strategico e sostenibile del territorio». Il diktat ora è passare da una visione «milanocetrica» a una rete, che metta in connessione il capoluogo ai 24 Comuni dell’hinterland.

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Parte della minoranza in consiglio (non citata da questo articolo un po’ declamatorio) osservava che come spesso accade con questi piani di coordinamento c’è qualche discrasia fra obiettivi e strumenti reali, ad esempio nell’effettiva tutela delle superfici agricole. E riguardo al Grande Disegno Metropolitano, val la pena osservare come, contemporaneamente a queste solenni affermazioni (e alle innocue righe colorate su una mappa che sarebbero le nuove linee del trasporto pubblico) si inaugura col sostegno delle cariche della polizia il cantiere della Tangenziale Esterna, che secondo la manualistica territoriale da alcuni decenni a questa parte costituisce la premessa alla classica espansione edilizia che si dice di voler contrastare ad ogni costo. Mah! (f.b.)

Alberi e varchi d'accesso sul confine del Lazzaretto, un sistema interno di mini-rotatorie e gobbe stradali. Sull'asfalto, sui pali: una nuova segnaletica dedicata. I marciapiedi, sui due lati: più larghi. Negli spazi pedonali: panchine e rastrelliere per le bici. Su tutto, a riordinare la viabilità della prima isola ambientale della giunta Pisapia, un limite di velocità più stringente per le auto: trenta chilometri orari anziché cinquanta. Il Comune vara l'operazione «Zone 30» e parte dal reticolo di strade appena oltre Porta Venezia, uscendo dall'Area C, sulla sinistra di corso Buenos Aires. Eccoci. Via San Gregorio e via Casati, via Palazzi e largo Bellintani, via Panfilo Castaldi, via Settala, via Lecco e via Tadino. C'è la mappa, il «progetto pilota» è stato condiviso con il parlamentino di Zona 3, ha già incassato il via libera del comitato di residenti Baires Futura e l'ok dei commercianti delle Vie dello shopping. I cantieri preliminari apriranno nelle prossime settimane, tra fine giugno e luglio.

La riforma delle «Zone 30» è uno dei pilastri del programma urbanistico-ambientale dell'amministrazione Pisapia: «Vogliamo salvaguardare le fasce più deboli della mobilità». La revisione dell'impianto viabilistico nelle aree più «delicate» del tessuto cittadino è sollecitata da tempo dalle associazioni di ciclisti e pedoni, è stata rilanciata dal referendum civico del giugno 2011 ed è raccomandata dalla «Risoluzione del Parlamento europeo sulla sicurezza stradale in Europa 2011-2020». Dunque: si farà. Il Comune inizia dal Lazzaretto perché ha le caratteristiche adatte per accogliere le modifiche: strade a senso unico, traffico leggero e sosta ordinata sui lati. Spiega l'assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran: «Tutti i nostri provvedimenti, a cominciare da Area C, vogliono restituire spazio ai cittadini a dispetto delle auto. Le future Zone 30 rientrano in questa strategia. Si parte dal Lazzaretto dove i cittadini si son dimostrati molto sensibili».

Qui, in via Casati, è già stato sperimentato il progetto «car free» davanti alla scuola elementare: divieto di accesso alle macchine mezz'ora prima e dopo l'ingresso-l'uscita dei bambini. Questa Ztl temporanea, nei prossimi mesi, sarà inglobata nell'isola ambientale: «Siamo assolutamente favorevoli — commenta Riccardo Bacci, presidente del consiglio d'istituto —. Le famiglie chiedono sicurezza per i loro figli. La Ztl è stata il primo passo e contiamo che sarà riproposta a settembre. La Zona 30 è un'ulteriore buona notizia. Ora aspettiamo le piste ciclabili». Prima, per gradi, sarà posizionato un nuovo arredo urbano, saranno installati cartelli e totem informativi e verranno segnalati i varchi d'accesso al quartiere: «Per far rispettare un limite di velocità così stringente — sottolinea Maria Berrini, presidente dell'Agenzia Mobilità, Ambiente e Territorio — predisporremo un mix d'interventi che diano agli automobilisti la percezione netta di muoversi in uno spazio diverso, regolamentato e sorvegliato. I luoghi saranno caratterizzati e riconoscibili».

Il piano per rallentare il traffico: 30 chilometri orari, carreggiate più strette, misure per migliorare «le condizioni di visibilità o sicurezza» agli incroci. Gli investimenti leggeri sono già stati finanziati. Per i cantieri strutturali «pesanti» bisognerà verificare la disponibilità di spesa prevista nel bilancio 2013.

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Allora, tanto per cominciare il riferimento d’obbligo è al sistema delle Isole Ambientali prese nel loro insieme, perché agire “per progetti” serve solo come test: ci vuole un piano, e quello è un piano. Poi ci vuole un’idea di città, e quella è più difficile da definire dopo trent’anni di sparate a vanvera, di solito a nascondere il vuoto dentro cui si tuffavano a piene mani interessi particolari. Ivi compresi quelli, apparentemente piccoli e per errata definizione buoni, dei singoli protagonisti della mobilità urbana, la miriade di residenti e city users ciascuno portatore, soggettivamente, della ricetta risolutiva. Ovvero piste ciclabili ovunque (magari le costosissime “autostrade ciclabili” tanto amate dal sindaco di Londra e dalla recente campagna sulla sicurezza sposata senza pensarci troppo anche a sinistra), o la pedonalizzazione coatta e chi se ne frega di cosa succede fuori, o dall’altra parte i megatunnel, i parcheggi sotterranei a go-go, le arterie di scorrimento veloce verso il nulla, o meglio verso lo sprawl metropolitano. Il piccolo quadrato nell’area a griglia ortogonale dell’ex Lazzaretto, al suo interno e nei rapporti con le aree circostanti, potrebbe diventare il test di una idea di area metropolitana meno stupidamente avvitata nella sua guerra tra bande di poveri pedoni, ciclisti, automobilisti, abitanti/utenti della città che spesso si scordano di stare sulla stessa barca, ivi compresi gli isterici del furgone bianco mordi e fuggi. Anche a loro, è dedicato questo piano modulato sulla carota di un quartiere dove si può anche entrare e guidare, ma dove non manca il virtuale bastone di uno spazio esplicitamente regolamentato, dove chi sgarra lo capisce da solo. Speriamo bene, insomma, anche se un conto è lavorare sulla città consolidata, e un vero brivido pensare invece a quei baracconi un po’ anni ’30 lasciati in eredità della destra pubblico-privata (f.b.)

Dovrebbero lavorare 2.222 anni Rosa Lanteri e i suoi due colleghi

della Soprintendenza di Siracusa, per pagare i danni che vengono loro chiesti per aver fatto il proprio dovere. Cioè preteso d'applicare la legge che vieta di cementificare il Porto Grande ricordato dagli scrittori dell'antichità. E lo Stato che fa? Invece che dare loro una medaglia d'oro fa impazzire quei suoi servitori tra le scartoffie. Senza precipitarsi a difenderli.

Il decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana del 30 settembre 1988 è chiarissimo fin dal titolo: «Dichiarazione di notevole interesse pubblico del bacino del Porto Grande e altre aree di Siracusa». Vi si dice che «constatato che lungo la costa che dal Castello Maniace va sino alla punta della Mola si gode lo spettacolo affascinante di Ortigia, dello stesso Castello Maniace, dello scosceso Plemmirio, e da lì la foce dei fiumi Ciane e Anapo e l'area delle Saline di Siracusa, il tutto dominato, sullo sfondo, dall'altopiano dell'Epipoli su cui si erge la fortezza del Castello Eurialo con la cinta delle Mura Dionigiane» e che «lo spettacolo di mare costituente l'insenatura portuale, oltre ad essere ricordato da Tucidide a Diodoro a Cicerone, è stato teatro di avvenimenti di fondamentale importanza»: il bacino è «un insieme unico al mondo». E va dunque vincolato. Dubbi interpretativi? Zero.

Tutte le zone nevralgiche di quella che è stata probabilmente la più importante città della Magna Grecia dovrebbero stare a cuore agli amministratori. Basti ricordare che già nel 1947 il soprintendente alle antichità Bernabò Brea ammoniva che il turismo dovrebbe essere «la maggiore risorsa economica di Siracusa. La cura della propria bellezza, il rispetto e la valorizzazione dei propri monumenti non sono quindi per Siracusa solo un lusso o l'adempimento di un dovere verso la cultura, ma un'intima ragione di vita e di benessere, anche dal punto di vista economico».Parole al vento. Per decenni il territorio è stato preso d'assalto dalla speculazione più insensata. Non solo nella parte nord dell'Ortigia, dove è tutto un ammasso di capannoni e ipermercati. Ma fin dentro la grandiosa cinta muraria di 21 chilometri fatta costruire dal tiranno Dioniso I, che secondo Diodoro impiegò sessantamila contadini e si spinse ad affiancarli nei lavori più pesanti così che «il muro fu terminato, al di là di ogni speranza, in 20 giorni».

In un paese serio, in una città seria, quelle mura sarebbero sacre e intoccabili. Tanto più che il Castello Eurialo che domina Siracusa è l'unica fortezza di quel periodo esistente al mondo. E invece? Invece, come denunciano Italia Nostra, Wwf, Legambiente, «Energie nuove» e mille altre associazioni che si riconoscono in «SoS Siracusa» guidata da Enzo Maiorca, hanno costruito dappertutto minando seriamente il Parco delle Mura Dionigiane. Villette a schiera sulla balza della Neapolis. Un centro commerciale ai piedi del castello. Un progetto per 840 alloggi di edilizia popolare in contrada Tremilia...

Tutti edifici tirati su in aree, sulla carta, di rispetto. Sul giornale «La Civetta» Marina De Michele ha denunciato la costruzione di una villetta (autorizzata, pare!) perfino dentro una «latomia», cioè un'antica cava teoricamente protetta. Per non dire di un progetto di lottizzazione alla Pirillina, un magnifico tratto di costa a sud, dove gli ambientalisti tra i quali c'è don Rosario Lo Bello, un prete cugino di Ivanhoe, il leader degli industriali protagonista della svolta nella guerra alla mafia, lottano contro la costruzione di un mega villaggio turistico di 80 mila metri cubi di cemento. Bloccato (per ora) dal vincolo provvisorio che riconosce la necessità di una riserva naturale.

Ma torniamo al Porto Grande. I porti turistici previsti sono in realtà due. Il primo, in fase di realizzazione, si sviluppa a partire dal già esistente Molo sant'Antonio, si chiama «Marina di Archimede» (ogni speculazione è meno vistosa con un nome poetico: c'est plus facile), ha dietro Francesco Caltagirone Bellavista, già finito in manette per il porto a Imperia e, dice il sito web, «prevede opere a terra per 49.467 mq e opere a mare su una superficie di oltre 97.000 mq» per 500 posti barca. Il secondo si chiama «Marina di Siracusa», ha dietro il gruppo Di Stefano, e allargandosi in mare perfino con un'isola artificiale di 40 mila metri quadri a partire dai ruderi di una fabbrica per la spremitura di olio, la «Spero», vorrebbe offrire ai suoi clienti anche 54 appartamenti.

La legge che vincola lo specchio d'acqua, prima citata, è chiara: manco a parlarne. Eppure, miracolo miracoloso, sia il primo sia il secondo porto sono riusciti ad avere qualche anno fa il via libera della allora soprintendente Mariella Muti, moglie dell'architetto Amilcare la Corte, progettista e direttore lavori di una edificazione sulla Balza di Acradina, lavori bloccati perché l'area è sotto vincolo paesaggistico. Quella della Muti è una storia esemplare: il 10 dicembre 2010, dopo aver dato l'ok anche al piano regolatore che prevedeva una zona di concentrazione volumetrica sul pianoro dell'Epipoli (dove c'è l'«inedificabilità assoluta»), se ne andò in pensione a 55 anni grazie alla legge 104 perché doveva accudire la madre malata. Cinque giorni dopo giurava come assessore comunale alla cultura del municipio sul quale per 7 anni aveva «vigilato». Pazzesco? Ma no, spiegò a Panorama: «Fare l'assessore non è poi così impegnativo».

Fatto sta che, fuori lei, il Dirigente generale dei beni culturali siciliani Gesualdo Campo si è messo di traverso con una nota durissima ai lavori e ai progetti in corso ricordando che non c'è deroga che possa consentire nuove strutture ricettive entro la fascia di 150 metri dalla battigia. Il che ha convinto «Aquamarcia» a fermarsi per capire meglio. Quanto all'altro porto, i nuovi dirigenti della Soprintendenza Rosa Lanteri (archeologia), Alessandra Trigilia (paesaggio) e Aldo Spataro (beni architettonici) hanno chiesto la revoca della concessione mettendo paletti rigidissimi.

Il verbale della conferenza dei servizi del gennaio scorso è netto. No al progetto perché «rispetto all'intervento principale, ovvero la realizzazione di un porto turistico, la prevalenza delle opere previste (vi è anche una piscina) è evidentemente l'edilizia». E poi no perché il porto ha «un parcheggio multipiano» e «ricade nella buffer zone» dell'Unesco e «non c'è alcuno studio del rischio tsunami» e altererebbe «lo sky-line della città» e via così … Tutte obiezioni basate sulla legge. Fatte invocando la legge. In nome dello Stato.La risposta? Un ricorso al Tar con la richiesta di condannare i tre funzionari a pagare 200 milioni di euro di danni. Pari appunto, per Rosa Litari e gli altri due, a quanto guadagnerebbero in 2.222 anni. Della serie: guai a te. E lo Stato? Non sarebbe il caso che battesse un colpo ai livelli più alti?

Questa mattina il Consiglio di Stato ha accolto l’istanza cautelare di sospensiva presentata da Italia Nostra contro la costruzione del Crescent, l’enorme complesso condominiale che il Comune di Salerno ha autorizzato a pochi metri dal Lungomare e dal centro storico, nell’area più pregiata della città. Una mezzaluna di cemento alta più di 30 metri e lunga oltre 280 che deturperebbe per sempre il paesaggio creando una barriera tra il mare e il centro antico. “Oggi si è fatto un primo passo per il bene della città – ha commentato Raffaella Di Leo, presidente di Italia Nostra Salerno – Il Crescent è una scelta che non condividiamo perché non va nella direzione della tutela del paesaggio e del territorio”.

La IV sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto opportuno evitare che la prosecuzione dei lavori per la realizzazione di un edificio di cospicue dimensioni, in una situazione controversa, produca una trasformazione dello stato dei luoghi difficilmente reversibile e tale da determinare per la collettività un pregiudizio grave e irreparabile.

“Il ricorso è stato un atto dovuto - chiarisce Raffaella Di Leo - successivo alla mancanza di un confronto proficuo con la Pubblica Amministrazione di Salerno sull’intervento che si è programmato e si sta realizzando nell’area di Santa Teresa, interessata inoltre dalla presenza di un vasto bacino idrogeologico e del torrente Fusandola, deviato nel suo corso per permettere l’edificazione del Crescent”.

L’opera, allo stato eseguita per la parte delle fondazioni solo in alcuni lotti, è da oggi bloccata. Il Consiglio di Stato ha disposto, in via cautelare, di “sospendere l’esecutività della sentenza impugnata” (quella del novembre 2011 emessa dal Tar di Salerno ndr) e di fermare il cantiere, rimettendone la riapertura alla pronuncia di una eventuale sentenza favorevole nel merito.

“Aspettiamo adesso di poter entrare nel merito della vicenda che presenta diverse irregolarità”, conclude Raffaella Di Leo che ringrazia, oltre allo staff dei legali, i tanti salernitani che hanno supportato l’associazione ambientalista in questa battaglia legale a difesa del paesaggio dall’aggressione violenta del cemento: “In particolar modo i Figli delle Chiancarelle che hanno ampiamente contribuito alle spese per l'appello al Consiglio di Stato."

Le immagini del degrado abissale di Palazzo Reale mandate in onda da Sky equivalgono ad un salutare e ben assestato calcio nel sedere. Non che non esistano luoghi monumentali di Napoli messi anche peggio: la climax dello sfascio del patrimonio storico e artistico è inesauribile. Quel che è significativo, e perfino simbolico, è che ad esser ridotto in questo stato sia proprio Palazzo Reale: e non solo perché è come se a versare in condizioni allucinanti fosse Palazzo Pitti a Firenze, o Palazzo Madama a Torino.

Il punto è che Palazzo Reale è la sede della Soprintendenza per i beni architettonici, paesaggistici, storici, artistici ed etnoantropologici per Napoli e provincia, retta in questo momento da Stefano Gizzi.

Quale credibilità può avere un’istituzione che non riesce, non sa o non vuole tutelare nemmeno la propria (straordinaria) sede? Come non immaginare che qualunque cittadino napoletano che da oggi riceva un richiamo da parte della Soprintendenza non risponda: «medico, cura te stesso»?

O il soprintendente Gizzi intenderà forse concedere il bis delle sue stupefacenti dichiarazioni sui Girolamini, dicendo che anche questa volta si tratta di un complotto ordito dalla stampa per favorire chissà quali riposti interessi, e che Palazzo Reale è in verità tenuto come Versailles? E che almeno ci si risparmi l’intollerabile ipocrisia della rituale giustificazione economica, per cui la cronica mancanza di fondi giustificherebbe lo sfascio.

Qualcuno ricorda la ‘decorazione’ della cupola della sala prove ipogea del San Carlo, denunciata da questo giornale nell’ottobre del 2010? Un dosso di cemento, irto di cavalli dalla testa di alluminio e compresso tra due alti muri di pietra che lacera la prospettiva architettonica del Palazzo Reale visto da Castel Nuovo, vulnerando un segno fondamentale delle vedute che hanno consegnato a tutta Europa il ritratto di Napoli. I soldi per ferire l’identità storica di Palazzo Reale si sono trovati: come sostenere che non ce ne sono per la manutenzione ordinaria?

E cosa dire della mostra sulla regina Margherita, tenutasi esattamente un anno fa a Palazzo Reale? Una docu-fiction ‘culturale’ composta da tavole apparecchiate con pasticcini veri, grandi schermi che proiettavano improbabili dialoghi ‘storici’, e molti oggetti scelti perché ‘facevano Savoia’. Una mostra senza progetto scientifico, realizzata da una fondazione che produce format espositivi sui soggetti più disparati. E soprattutto una mostra il cui allestimento invadente e grossolano devastava le sale storiche di Palazzo Reale, coprendone gli arazzi e rendendo impossibile il godimento di molti capolavori pittorici.

Ebbene, per quella mostra i soldi si sono trovati eccome. Il Palazzo Reale di Napoli ha dunque tutte le carte in regola per diventare il simbolo della ‘valorizzazione’ all’italiana: lasciar andar in malora tutto il nostro patrimonio all’infuori di qualche sala rileccatissima che possa servire da location per Grandi Eventi.

La vera domanda suscitata dalle immagini di Sky non è «come possiamo cambiare le cose?», ma: «perché, in fondo, non ci interessa cambiarle?». Finché non rispondiamo a questa domanda, nulla davvero cambierà.

I beni culturali, "binomio malefico, un buco nero, capace di inghiottire tutto, e tutto nullificare in vuote riforme verbali; un enorme scatolone vuoto entro ci avrebbe dovuto trovar posto, secondo l'aulico programma spadoliniano, l'identità storica e morale della Nazione, salvo poi non aver saputo infilarci dentro che l’ultimo o penultimo dei Ministeri». Parole di Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, che nel 1983 dedicò un libro e una mostra alla Protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico.

Quel concreto progetto, ispirato dalla semplice idea che prevenire è meglio che curare, stimava le spese (allora) in qualcosa come 2.700 miliardi di lire (5 miliardi di euro), ma cadde nel vuoto. Afflitti da amnesia cronica, i nostri governi fingono di ignorare che l’Italia è un Paese sismico, pronti a stracciarsi le vesti a ogni scossa o a inventarsi soluzioni placebo.

L’incapacità di prevenire i danni dei terremoti non si può certo attribuire all’attuale ministro Ornaghi, ma fa un certo effetto sapere che a coordinare gli interventi del suo ministero non sarà un Soprintendente ma un prefetto, e che dopo i primi ottimismi («numeriamo le pietre e ricostruiamo tutto», 21 maggio) si è passati alla disperazione («sospese le verifiche sui monumenti », 30 maggio). O che, dopo le lesioni alla Basilica del Santo a Padova e l’allarme sulla Cappella degli Scrovegni, le notizie “tranquillizzanti” vengano non da un Soprintendente, ma dal Comune, lo stesso che ha autorizzato a un passo dalla Cappella la costruzione di due alte torri residenziali, le cui fondamenta profonde accentueranno le infiltrazioni d’acqua, già presenti a pochi centimetri dagli affreschi di Giotto.

Ma la causa principale di queste e altre (peggiori) disfunzioni dei Beni culturali non è Ornaghi, bensì l’intrinseca debolezza di quel ministero. Inventato da (o per) Giovanni Spadolini nel 1975, si chiamò ministero per i Beni culturali e ambientali, dizione che restò in piedi fino al 1999, anche dopo il 1986 quando fu creato un separato ministero dell’Ambiente.

Per tredici anni, dunque, vi fu sulla carta un “ambiente” (competenza di un ministero) senza “beni ambientali” (competenza di un altro ministero), e per converso i “beni ambientali” senza “ambiente”. In questo contesto traballante, i Beni culturali furono il fanalino di coda di ogni governo, con ministri e sottosegretari spesso imbarazzanti; è su questa scia di marginalizzazione ormai strutturale che, forse senza intenzione ma certo senza attenzione, Ornaghi divenne il solo ministro decisamente non-tecnico in un governo “tecnico”.

Intanto, si gonfiava negli anni la struttura del ministero, moltiplicando burocraticamente le direzioni generali e aggiungendo le direzioni regionali. In compenso le soprintendenze, glorioso baluardo della tutela sul territorio, venivano minate e delegittimate (anche con pretestuosi commissariamenti), svuotate di personale, borseggiate di risorse, lasciate alla deriva.

Lo sfortunato ministero nacque dalla costola della Pubblica istruzione, dove a dire il vero stava molto bene: anche un ministro come Benedetto Croce, più interessato alla scuola, seppe varare la prima legge sulla tutela del paesaggio (1920).

Si può ancora salvare un ministero ormai agonizzante? Tre proposte diverse sono state fatte negli scorsi anni. Lettera morta è rimasta la prima (Argan - Chiarante), che voleva accorpare i Beni culturali con Università e ricerca, altro “derivato” della Pubblica istruzione. L'idea era di puntare sull’intersezione fra professionalità e campi del sapere, esaltando la ricerca sul campo (essenziale alla tutela), la didattica (per esempio del restauro) e il valore educativo del patrimonio culturale.

Passò invece la riforma Veltroni (1999), che ai Beni aggiunse le Attività culturali, intendendo per tali anche sport, spettacolo e turismo: infelice connubio, che comportò una nuova marginalizzazione del core business del ministero.

Resta in campo la terza proposta, che va anzi rilanciata con forza: formare un ministero forte e funzionale accorpando Beni culturali e Ambiente. Questo fu il progetto di Giovanni Urbani, teso a «una politica della tutela fondata sul rapporto fra beni culturali e ambientali» (1989). Io stesso l’ho riformulato, nel mio libro Paesaggio Costituzione cemento (2010) e altrove; e vi è tornato ora Gian Antonio Stella sul Corriere del 25 maggio, proponendo di aggiungere le competenze sul Turismo.

L’accorpamento ambiente-paesaggio-beni culturali è ovvio: lo mostrano vicende recenti, dalla discarica che minacciava Villa Adriana a quelle a ridosso del Real Sito di Carditello o di Pompei. Lo mostrano le cento fragilità del Paese, dal rischio sismico a quello idrogeologico, che richiedono interventi organici e coordinati di recupero e prevenzione.

Ai disastri sismici stiamo reagendo in modo assai improprio, ridistribuendone i costi sui cittadini con l’aumento della benzina (“tassa sulla disgrazia”) e ipotizzando un’assicurazione obbligatoria contro i terremoti. Bizzarro palliativo, che comporta la finale abdicazione dello Stato al suo compito costituzionale primario, la messa in sicurezza del territorio.

Il teatrino dell’“assicurazione obbligatoria” pretende di archiviare decenni di inadempienze dietro uno scaricabarile indegno di questo (e di qualsiasi) governo. Se lo Stato ha speso 137 miliardi di euro per i danni sismici negli ultimi 40 anni, quale compagnia privata di assicurazione coprirà cifre analoghe? E a quali costi per i cittadini? Che farà chi è troppo povero per pagare le alte tariffe che verrebbero richieste? E chi pagherà l’assicurazione degli edifici abusivi o fabbricati con materiali scadenti, il costruttore (colpevole) o il proprietario (spesso innocente)? Quale stato di polizia va instaurato per obbligare i riluttanti a pagare, anche se disoccupati, il dovuto balzello alle imprese private? 137 miliardi, dopo tutto, sono più o meno l’ammontare dell’evasione fiscale in un solo anno.

100 miliardi, ha dichiarato Passera pochi giorni fa, saranno spesi per le “grandi opere”: ma la prima e maggiore “grande opera” è la messa in sicurezza del territorio e del patrimonio culturale. O no?

La ventilata assicurazione obbligatoria contro i terremoti è una prova d’orchestra: se passa, la prossima mossa (inevitabile) sarà l’assicurazione obbligatoria sulla salute, cioè l’abolizione dell’assistenza sanitaria pubblica, la fine del diritto alla salute sancito dalla Costituzione (art. 32).

Ma proteggere la vita dei cittadini, il paesaggio e l’ambiente è un valore costituzionale primario e assoluto. Richiede un’Italia memore di se stessa e non ansiosa di svendersi a compagnie private.

Richiede un lavoro di prevenzione, necessariamente pubblica, che deve essere guidato da un forte ministero del Patrimonio, che unisca ambiente, paesaggio, beni culturali.

Anche il turismo, purché ci ricordiamo che non è per i turisti, ma per noi stessi, che la Costituzione ci impone la tutela della nostra storia e del nostro territorio.

Postilla

L’analisi di Salvatore Settis è, come sempre, drammaticamente puntuale e quasi del tutto condivisibile.

Sicuramente lo è per quanto riguarda la situazione di crisi ormai irreversibile del Mibac che la gestione del terremoto emiliano sta puntualmente sottolineando. Ormai completamente incardinati nella struttura della protezione civile, gli organi territoriali preposti alla tutela sono scomparsi, in questi giorni, dal territorio e l’attività del Direttore Regionale si riduce quasi esclusivamente alla sottoscrizione di ordini di demolizione.

Sembra quasi che l’esercizio della tutela sia considerato ostativo o comunque incompatibile con le più urgenti iniziative di primo soccorso e messa in sicurezza.

Ma se è ormai urgente una riforma del Ministero, la liaison suggerita con il turismo torna ad appiattire le finalità del nostro patrimonio culturale proprio su quell’aspetto mercantile che ha rappresentato una delle derive più evidenti di questi ultimi lustri.

Dietro la concessione di Settis (“anche il turismo”), si intravede il tentativo di respingere le critiche di sempre: non ci sono più risorse per mantenere decentemente l’insieme del nostro patrimonio culturale, inutile fare le anime belle. Tanto vale rassegnarsi cercando di sfruttare la coperta offerta dalle entrate turistiche. Che si tratti di una liaison dangereuse è ben noto allo stesso autore che sui rischi di un turismo rapace e dissipatore si è espresso sempre con chiarezza esemplare.

Ma la situazione è forse così grave che occorre chinarsi ad un compromesso. Forse, ma i dubbi restano e non solo sui pericoli che un turismo sregolato possa rappresentare su di un patrimonio così fragile come il nostro, ma sulla stessa efficacia per entrambi i settori di un legame contronatura.

Non si tratta tanto di demonizzare il turismo, ma mentre quest’ultimo rappresenta un’attività a pieno titolo economica (la prima industria mondiale), la tutela del patrimonio è e deve restare un servizio al cittadino pari ad altri quali istruzione e sanità. E per conseguenza essere governata da altre logiche che non siano quelle del profitto.

Piuttosto sarebbe necessario e urgentissimo che, in un rapporto chiaro ed equilibrato, un’industria turistica finalmente aggiornata nelle strutture e nella stessa cultura imprenditoriale, contribuisse con fondi finalmente adeguati alla salvaguardia di quel patrimonio e di quel paesaggio che ne costituiscono la prima risorsa. La discussione è aperta. (m.p.g.)

I rischi riguardanti la cappella Scrovegni sono almeno sei e in questo articolo affronterò solo i primi tre (il terzo in maniera incompleta): quanto influiscano sulla sua staticità le differenti fondamenta di abside e navata, con conseguenti crepe e fessure, la mancanza di messa in sicurezza sismica, l’allagamento della cripta. Rimangono da affrontare: la mancanza di sicurezza anti-attentati; la mancanza della messa a norma dell’impianto elettrico con le possibili conseguenze sugli affreschi, il dissesto che la costruzione in atto di due torri vicine alla cappella, con scavi profondi più di 30 metri potrebbe creare alla falda idrica che è in connessione con quella della cappella stessa.

Il terremoto che ha colpito e continua a colpire così duramente la regione emiliana non bada a confini geografici ed è giunto anche a Padova dove è crollato un pezzo di una vela della Basilica del Santo.

Una toppa bianca spicca in mezzo al fondo blu decorato. Anche l’ala destra della chiesa è stata transennata. E la cappella Scrovegni? Le autorità il 30 maggio hanno assicurato che “la cappella è ok”, basandosi come sempre sul loro infallibile occhio o in alternativa, buon senso.

La cappella, terminata nel 1305, era in origine saldamente integrata nel palazzo Scrovegni. Dopo l’abbattimento di quest’ultimo nel 1827, voluto dagli sciagurati ultimi proprietari, i nobili Gradenigo, per farne materiale edilizio, la cappella subì un primo dissesto, a cui concorse anche un ulteriore limite intrinseco all’edificio. La navata poggia infatti sulla cripta, che è ancorata sull’anfiteatro romano; l’abside, aggiunta dopo, poggia invece direttamente sul terreno. Abbattuto il palazzo, la cappella non più sostenuta dal palazzo, risentì delle differenti fondamenta. La crepa fra la navata e l’abside, segnalata fin dal 1835, ne è la prova. Per contrastare questa e altre crepe prodottesi nel tempo, nel 1967 si procedette a: sostituire “il tetto in legno con una nuova copertura in acciaio”, alla realizzazione di “un cordolo in cemento armato alla sommità delle pareti della navata” e alla sostituzione delle catene, spezzate e/o malandate.

Così scrivevano nel 1998 il professore Claudio Modena e gli ingegneri Giovanni Lazzaro e Carlo Bettio dell’Università di Padova nel loro “Aggiornamento sulla statica della cappella degli Scrovegni”. Alla luce del terremoto di Assisi, dove proprio le capriate in cemento sostituite a quelle originarie in legno hanno provocato il tragico crollo delle vele, il rimedio dovrebbe indurre ad un riesame urgente della sua validità. Nel 1998 il prof. Modena posizionò sull’estradosso della volta 6 basi di misura per distanziometri, semplici apparecchi per misurare le variazioni di ampiezza delle fessure stesse ed eventuali scorrimenti. Fatte alcune prove il professore Modena concludeva per indicazioni in generale confortanti, “ma che lasciano aperti aspetti di dettaglio del comportamento statico che possono avere notevole importanza sulla conservazione degli intonaci affrescati, e che devono quindi essere approfonditi”.

Quali furono gli approfondimenti? I distanziometri furono tolti e a tutt’oggi nessuno monitora le fessure e le crepe.

In assenza di qualsiasi altro strumento di valutazione del comportamento della cappella nei terremoti; in assenza di opere per la messa in sicurezza sismica della Cappella e di caratterizzazione sismica del sito, costerebbe poco il ripristino dei distanziometri e il loro sistematico controllo, che dovrebbero comunque coinvolgere l’intera cappella, cripta compresa.

La cripta, chiusa al pubblico, ha il pavimento – una gettata di cemento coperta di fango – costantemente invaso dall’acqua che emerge dalla falda sottostante. Per risolvere il problema del compromesso assetto idrogeologico è stato installato un rozzo vascone appoggiato alla parete ovest della cripta, all’interno del quale è collocata un’ulteriore vaschetta con due pompe che succhiano l’acqua in eccesso del pavimento. Attraverso un condotto la riversano nei condotti di smaltimento esterni, che comunque la rimettono nella falda in un giro senza sosta. I rigagnoli che scorrono sull’impiantito giungono a inumidire la base dei muri perimetrali con quale conseguenza sull’assetto strutturale della cappella, non si sa. O meglio, sempre le solite autorità dicono che non c’è alcuna conseguenza. Su quali dati? Mistero.

Ma chi di noi, se avesse una casa il cui garage immediatamente sottostante fosse sempre allagato, starebbe tranquillo? Certo lo Scrovegni non aveva progettato di scender con gli stivali nella cripta dove nella volta si vedono le stelle dipinte da Giotto. È impossibile però apprezzare la bellezza della cripta perché sono rimasti in piedi i set-ti murari in mattoni che a intervalli ravvicinati, dovevano, durante l’ultima guerra, evitare che le onde d’urto delle bombe facessero crollare la cappella. (La Cappella era infatti segnalata sul tetto affinché i piloti dei bombardieri non la colpissero). Sempre il professor Modena nel 1998 scriveva che occorreva affrontare il problema dei “massicci setti murari presenti nella cripta, addossati alle pareti laterali e alle volte, e con esse ormai probabilmente interagenti”. Una possibilità molto pericolosa e che andrebbe esaminata nelle sue implicazioni. In questi giorni funzionari dell’Unesco stanno censendo i monumenti, sollecitati dal terremoto: a Padova trascureranno obbligatoriamente la cappella che a non è stata ancora dichiarata patrimonio dell’umanità: povero Giotto, che credeva di essere un grande pittore!

postilla

C’è un aspetto della “sicurezza di Giotto” necessariamente sottovalutato da questa pur sistematica lettura: il contesto urbanistico in cui si colloca il complesso degli Scrovegni, e di cui non a caso altri articoli sul tema hanno messo in rilievo la scarsa chiarezza e definizione. Accade infatti che prima la storia e la geografica abbiano scaricato il classico “viale della Stazione” giusto lì davanti, e poi che i vari piani urbanistici per la città non abbiano mai risolto definitivamente il ruolo del quartiere, lasciando aperte fin troppe possibilità di intervenire per singoli progetti. Che per lo stesso motivo si ammucchiano, a volte contraddittori, a volte autoreferenziali come certe proposte di trasformazione che corrono il rischio di compromettere il delicato equilibrio idrogeologico che poi interessa la cappella, e gli affreschi. Forse mai come in casi del genere si dovrebbe capire che ruolo ha l’approccio di metodo urbanistico, contrapposto a quello puramente progettuale (per quanto su una superficie notevole), e come abbia ragione chi preferisce una tutela diversa da quella dei soli vincoli. Almeno quando lo fa in buona fede. Un approccio che di sicuro costa molto meno, salvo che in termini di spremitura meningi (f.b.)

Davanti alle immagini dell’Emilia terremotata e alla civiltà dei comportamenti di tutti, ripenso fra i brividi al Cavaliere che va a visitare impettito l’Aquila diroccata, con trecento morti tutt’intorno, e proclama che lui la ricostruirà in pochi mesi, edificherà le “new towns” (senza sapere di cosa stia parlando) e tutto tornerà “più grande e più bello che pria”. Specie dopo la gran parata spettacolare del G8 scippato alla Maddalena e le solenni promesse di adozioni da parte straniera di questo o quel monumento. Un delirio allucinato che pure tanta parte dell’Italia applaudì al canto “meno male che Silvio c’è”. Un incubo fosco per noi che avevamo in vario modo partecipato alle tragedie di Tuscania, del Friuli, di Umbria e Marche, con centri storici colpiti a morte, chiese rase al suolo o comunque crollanti a partire dalla basilica-simbolo di San Francesco in Assisi riconsegnata invece in piena salute in un biennio, ricavando da quelle ricostruzioni una cura “italiana” apprezzata nel mondo. Non disperdere le comunità locali, far sentire subito il calore della solidarietà, creare condizioni di abitabilità in nuclei vicini a case, casolari, fabbriche e stalle, lavorare sulla coesione sociale, puntare, d’intesa con gli abitanti, sulla ricostruzione com’era dov’era. Anche in Irpinia - dove il “cratere” era stato enorme, tremila i morti, novemila i feriti nel gelo dell’autunno inoltrato - per i beni culturali l’intervento della Soprintendenza speciale di Napoli e di quelle regionali fu efficace e senza “code” giudiziarie, senza “cricche” di mezzo. Nella stessa Napoli - commissario alla casa, Maurizio Valenzi, responsabile degli uffici, Vezio De Lucia - furono risanati e redistribuiti circa 10 mila alloggi senza ombre di sorta.

Perché tutto questo non è stato ricordato abbastanza nei giorni tragici dell’Aquila trasformata in un crudele set televisivo per un presidente che l’“Economist” chiamava “the jester”, il giocoliere, il buffone? Uno che si vantava di seguire un suo modello originale che avrebbe ridato all’Aquila e all’Abruzzo una rinascita pronta e radiosa. L’abbiamo veduta quella rinascita, e l’inquinamento sottoculturale è stato così profondo che anche adesso in loco si favoleggia di archistar, di smart-city, senza avvedersi di altri atroci inganni.

Per quest’area vasta dell’Emilia-Romagna colpita a più riprese dal terremoto la rinascita ha da essere quella evocata dal presidente Napolitano per il Friuli, a cominciare dai beni culturali che sono segni forti di identità collettiva, fondamenta di una intensa storia comunitaria. Citerò un caso che ben conosco: Pieve di Cento, al di là del Reno, verso Bologna, uno dei centri storici che l’intesa fra Soprintendenze ed enti locali aveva restaurato e recuperato nel modo più generale e rigoroso. La sua chiesa maggiore è ora scoperchiata dal sisma, le tele di Guercino, Guido Reni, Albani, Lavinia Fontana sono coperte di polvere, il suo bel teatrino comunale è segnato da crepe profonde. Decenni di sforzi vanificati o sfregiati in una notte? Ho saputo che gli abitanti si mostrano riluttanti persino al necessario trasferimento in laboratorio di quelle grandi tele con l’argomento: “Non le abbiamo lasciate portar via nemmeno a Napoleone, neanche ai Tedeschi…”. Mi sono sentito rassicurato. Anche su questo, come sulle case, sulle fabbriche, sulle stalle del parmigiano-reggiano, la gente di qui non vuol mollare e non mollerà. E se qualcuno – come si dice – vorrà demolire più di quanto serve per scongiurare il pericolo di altre morti, scatterà, credo, con l’opposizione, la molla del recupero, del restauro, del ripristino fedele. L’ha già scritto qui Vezio De Lucia: per decenni l’Emilia-Romagna è stata all’avanguardia in Italia (e quindi in Europa) nella politica di restauro e di riuso dei centri storici, col piano Cervellati-Fanti, preceduto dai censimenti di un grande fotografo, Paolo Monti. Così come fu davanti nella pianificazione territoriale, poi più volte tradita. Sono pagine di ieri che bisogna far tornare in onore. Ora che l’Italia non ha più Arcore come capitale. Ora che essa guarda agli esempi migliori e mostra il dignitoso, paziente coraggio di tante altre occasioni.

Creare la nuova Torino, come capitale europea della terza rivoluzione industriale europea. A proporre questo progetto che interessa il capoluogo e tutta la provincia sono un gruppo di sindaci, capeggiati dal primo cittadino di Settimo, Aldo Corgiat, che ha elaborato un documento attraverso cui intraprendere un confronto istituzionale, con le forze economiche e sociali e definire insieme un iter condiviso per avviare la fase costituente della nuova Città Metropolitana di Torino.

«Pensiamo che a questa iniziativa sia necessario contribuiscano fin dall’inizio attivamente – spiega Corgiat - non solo le istituzioni elettive, ma anche e soprattutto i rappresentanti di interessi economici, le università e il mondo della ricerca, della formazione, della cultura, l’associazionismo e le organizzazioni del no profit e del terzo settore, i sindacati, le categorie professionali e in generale tutta la società civile».

Il documento, inviato a tutti i sindaci della provincia torinese, una tra le più estese d’Italia (315 Comuni con oltre 2,3 milioni di abitanti), è il manifesto che invita tutti ad un incontro il 23 giugno alle 9,30 a Venaria, presso il Centro del Restauro, per un approfondimento e per dar vita al comitato costituente che porterà, almeno questa è l’intenzione dei promotori, alla convocazione degli Stati Generali della nuova Città metropolitana, già in autunno.

«Il quesito cui dobbiamo dare risposta è – prosegue Corgiat – se la Città metropolitana sia utile o no. Noi crediamo sia importante. Torino e la sua provincia è da sempre una città laboratorio che, insieme al ruolo di città industriale e al contributo fondamentale fornito al Paese e alla Regione in termini di ricchezza prodotta, costituisce con Genova e Milano un sistema territoriale tra i più attivi e dinamici d’Europa, un luogo di innovazione, di formazione e di ricerca capace di competere su scala globale». Innovazione, economia digitale, sostenibilità ambientale e non solo, ricerca e conoscenza sono, infatti, le parole chiave della proposta dei sindaci, per costruire un ambito metropolitano più credibile, più forte e capace di sostenere la sfida imposta dalla crisi economica. «L’obiettivo è unire le potenzialità, le buone pratiche, le energie e le sinergie – chiarisce ancora Corgiat, promotore tra l’altro della prima Unione dei Comuni in ambito metropolitano - capaci di competere su scala europea con gli altri sistemi urbani».

'Coniugare ambiente e sviluppo': uno slogan ripetuto con enfasi da esponenti di partiti fuori tempo massimo – come ha scritto su queste pagine Flavio Soriga con la consueta efficacia. Un'espressione svuotata di senso, mistificante perché non esclude le peggiori scelte contro il disgraziato territorio italiano (molto vulnerabile e troppo maltrattato – come sappiamo bene). C'è spesso malafede dietro queste parole. O l'inadeguatezza di chi pensa di cavarsela con quel guizzo linguistico buono per prendere tempo.

Per 'coniugare ambiente e sviluppo' si programmano grandi opere inutili, si dà il via a piani-casa, si promuovono iniziative con titoli fantastici. La Sicilia di Lombardo annuncia una sfacciata speculazione edilizia nei litorali con titolo 'Progetto per la salvaguardia del sistema costiero' dentro un 'Piano straordinario per la conservazione dei beni culturali'.

Chi usa queste formule ambigue sa che passa per moderato. Piero Bevilacqua nel suo «Elogio della radicalità» ha scritto di moderatismo: virtù suprema della politica che spintona tutti al centro sconsigliando ogni altra collocazione («Esso si fonda interamente, malgrado i vari scongiuri di rito, sul ’senso comune’ neoliberista: un insieme di convinzioni dottrinarie fra le più estremiste») .

La battuta di Totò – «E poi dice che uno si butta a sinistra» – nel film anni Cinquanta, è la sintesi di un'Italia bigotta: chi si sposta dal centro lo fa perché costretto suo malgrado a lasciare la rassicurante postazione, dove si sta tutti assieme badando a non perdere nessuno.

La distanza tra parole e fatti è “antipolitica”, contribuisce ad accrescere quel sentimento di sfiducia o di avversione per i partiti. Sconveniente soprattutto per la sinistra incapace di suscitare passioni, per la propensione a rendere vaghe le differenze tra un progetto politico e un altro, che nelle scelte urbanistiche annuncia i peggiori patteggiamenti.

Si veda la pubblicità di Cappellacci a leggi incostituzionali, e quindi estremiste; si legga la rappresentazione che il suo assessore all'urbanistica dà dell'azione di governo. Un quadro capovolto, per cui la sua circolare sulle case in agro passa per intransigente, più severa del Ppr – gulp – e invece è volta ad abrogare norme di salvaguardia della fascia costiera interpretando allegramente una legge contro il Ppr .

Questo lessico ingannevole sta trionfando. In questa campagna elettorale, ovunque serva chiarezza sui programmi di governo del territorio trovi l' idea di conciliare tutto. Chiunque può passare per ecologista e ottenere consensi qua e là.

Sentite come risponde alla stampa un candidato sindaco alla domanda sulla pressione dei costruttori. «Mi batterò – premette – per la conservazione dell'esistente e la riqualificazione di vaste zone». E poi prosegue indicando il sito costiero per ubicarci volumi «... ma senza assalti alle coste» – esaltando il suo progetto per – «alberghi da costruire verso l'interno, nella pineta». Nella pineta? verso l'interno? Che si può immaginare chissà quanto lontano dal mare, e invece la pineta – vittima designata – confina con la spiaggia e si estende per 200 metri. Evidente che «senza assalti alle coste» vuol dire che non si metteranno i plinti dei palazzi sulla riva. (Non importa chi, dove, di che parte politica: conta la mancanza di adeguate reazioni).

Il Movimento Cinque Stelle ha certamente difetti, ampiamente segnalati dai commentatori, ma l'impressione è che abbia adottato un linguaggio chiaro e diretto, forse alla base del suo successo tra i più giovani elettori, meno disposti a farsi raggirare, e che sui temi delle trasformazioni dei luoghi sono molto attenti. Forse pure dal comico Grillo qualcosa da imparare c'è: per i partiti che dicono di volersi rinnovare.

Ma che senso ha prendere un quadro degli Uffizi e spedirlo in una cittadina della provincia di Milano per ‘impreziosire’ la visita del papa, che vi si reca a celebrare la Giornata della Famiglia? Per la nostra classe politica (affetta da congenito e inguaribile analfabetismo figurativo) i musei sono ormai depositi di attrezzeria scenica di lusso, da tirar fuori a comando per abbellire i mitici ‘eventi’.

In un primo tempo era stato il celeste Formigoni a chiedere al pio Ornaghi di estrarre da Brera nientemeno che lo Sposalizio della Vergine di Raffaello. Ma una funzionaria coscienziosa aveva fatto notare all’ignaro ministro che si trattava di una tavola assai delicata, a cui forse non era il caso di far correre rischi inutili. Così il ministro aveva eroicamente ripiegato su un Correggio (nientemeno), che sarebbe dovuto andare alla Regione: poi lo yacht di Daccò deve aver fatto il miracolo che la Costituzione non era riuscita a fare, e nessuno aveva più osato attentare alla tutela dei quadri di Brera.

Ma lo spirito del tempo evidentemente esiste davvero, e qualche altro genio deve aver detto che era scandaloso accogliere il papa senza tirar fuori almeno una ‘chicca’. E qui (ma vado per congetture) immagino che il direttore degli Uffizi Antonio Natali (uno dei pochi funzionari Mibac con le idee chiare) sia riuscito ad evitare che partissero Giotto, Raffaello o Leonardo e abbia tirato fuori dal cappello la meravigliosa e da poco splendidamente restaurata Madonna della Gatta di Federico Barocci. Con una generosa lettura iconografica, dagli Uffizi spiegano che il tema del quadro è perfettamente consono al tema della giornata (“La famiglia, il lavoro, la festa”): Giuseppe che lascia gli strumenti del falegname per accogliere Elisabetta e Zaccaria che portano il piccolo Giovanni a trovare il cuginetto Gesù, nato da poco. Al centro del dipinto c’è poi la famosa gatta, intenta ad allattare i suoi piccoli. Sul web non si manca di far notare che Benedetto XVI ama particolarmente i gatti: e certo fargli trovare un quadro con San Paolo primo Eremita nutrito dal corvo sarebbe stata una vera cattiveria, vista la fauna attuale dei Sacri Palazzi.

In questo deprimente aneddoto dell’Italia della decadenza ci sono almeno due morali, una culturale e una costituzionale.

La prima è che i quadri non sono soprammobili. Pochi mesi fa uno storico della chiesa e un prelato hanno usato una Madonna di Giotto per «impreziosire l’anno Italia/Russia» (parole loro): in un incredibile misto di arroganza e ignoranza si trattano i testi sacri della storia culturale occidentale alla stregua di bigiotteria. Si suggerisce che forse Barocci dipinse la Madonna della Gatta in occasione della visita di Clemente VIII ad Urbino: e allora? Barocci era intimamente legato alla sua Urbino, che lasciava assai malvolentieri e il cui Palazzo Ducale ritrae in moltissimi dei suoi quadri. Che senso ha collegare quell’episodio (vero o falso che sia) all’idea di spedire oggi il quadro a Bresso? Quella storiella non avrebbe dovuto (semmai) suggerire che non bisognava spogliare gli Uffizi (che col papa a Bresso c’entrano come il cavolo a merenda), ma rivolgersi ad opere e tradizioni di quella terra (se proprio era necessario tirar fuori un quadro da un museo: e non lo era)?

La seconda è che, entrando nei musei, le opere del passato hanno perso la loro funzione originaria (politica, religiosa, familiare…) acquistandone una puramente culturale (forse più alta, forse più libera: certo diversa). Esse sono uscite dal flusso degli scambi economici: ora non sono più in vendita, e grazie alla Costituzione appartengono a tutti i cittadini italiani, e in maniera più lata a tutta l’umanità. Un cittadino italiano di fede musulmana, o semplicemente ateo, ha tutto il diritto di disapprovare il fatto che un ‘suo’ dipinto venga piegato e strumentalizzato nei rapporti tra il potere politico italiano attuale e il Vaticano. Oltre al fatto che avrebbe tutto il diritto di trovare quel quadro appeso al suo chiodo, agli Uffizi.

Lo giudicherei comunque culturalmente insensato, ma perché non è la Pinacoteca Vaticana a far dono ai cittadini italiani dell’esposizione di qualche sua poco visibile opera? Perché l’Italia non perde occasione per autorappresentarsi come una grande periferia della Città del Vaticano?

Come in questi giorni ci ricordano le tragiche immagini dell’Emilia, il nostro patrimonio è il tessuto vivo e indifeso della nostra identità: ed è su questo che dovrebbero concentrarsi le poche energie economiche e mentali. E invece preferiamo baloccarci con musei ridotti a location di sfilate di moda, o a forzieri da cui estrarre gemme per compiacere i piccoli e grandi potenti del momento.

Sul terremoto abbiamo alcune certezze.

La prima è che, purtroppo, tornerà. Quasi tutta l’Italia è, più o meno, sismica. E certo lo è il Mezzogiorno.

La seconda è che, quando tornerà un forte terremoto al Sud, i danni saranno terribili. E una delle vittime più massacrate sarà sicuramente il patrimonio storico e artistico monumentale.

La terza certezza è che questo si potrebbe evitare, almeno in misura significativa.

Se, nonostante tutto, abbiamo ancora il tessuto storico-architettonico che abbiamo, lo dobbiamo all’umile manutenzione assiduamente curata lungo i secoli. Una manutenzione che oggi è completamente trascurata: per mancanza di soldi, ma assai prima per mancanza di interesse per qualunque cosa non dia un immediato ritorno mediatico.

Oggi, anzi, il nostro patrimonio è ancora più esposto di cento o duecento anni fa. Perché è abbandonato, reso malsicuro dal dissesto dei suoli, non di rado appesantito e compromesso da ‘restauri’ moderni. Non è, per esempio, difficile immaginare che tutto il cemento improvvidamente iniettato nelle strutture delle chiese storiche di Napoli dopo il 1980 le condannerebbe a morte in caso di una nuova forte scossa sismica.

Dunque, che fare? Forse è venuto il tempo di dire che la vera Grande Opera che lo Stato dovrebbe mettere in campo per far ripartire l’economia meridionale è la messa in sicurezza del patrimonio storico e artistico. Sarebbe un investimento economico, sociale, intellettuale e morale.

E consentirebbe anche uno straordinario risparmio: di vite umane, di monumenti e di denaro. Il fiume di denaro che da decenni continuiamo a gettare per riparare ai gravissimi danni sismici che ci ostiniamo a non voler prevenire.

E, purtroppo, la quarta certezza è che nemmeno la lezione dell’Emilia servirà.

La storia del trasloco dell'Istituto dei Tumori e del neurologico Besta è un'odissea lunga dodici anni scandita da annunci politici, plastici finiti chissà dove e progetti finanziati con soldi pubblici e mai decollati.È una domenica pomeriggio del 2 luglio del Duemila quando gli allora ministro della Salute (Umberto Veronesi), assessore alla Sanità (Carlo Borsani) e sindaco (Gabriele Albertini) si vedono in via Ripamonti per una riunione riservata. L'esito dell'incontro fa decollare per la prima volta il trasloco dell'Istituto dei Tumori — destinato a trasferirsi nell'ex Maserati di Lambrate — e del neurologico Besta — che doveva (ri)sorgere entro il 2009 alla Bicocca su un'area ex Pirelli —. Dodici anni e innumerevoli conferenze stampa dopo, i due istituti sono ancora in cerca di una (nuova) casa.

Eppure. È sempre il luglio del Duemila quando Borsani lancia l'allarme: «L'Istituto dei Tumori in via Venezian rischia di soffocare»; e lo stesso vale per il neurologico Besta che — a colpi di slogan del tipo «Valorizzare questo istituto è un dovere per l'Italia» — viene addirittura riprodotto nella nuova sede in un plastico, presentato nel 2005 davanti a due ministri (Girolamo Sirchia e Roberto Maroni) e svariate altre autorità. Di anno in anno, la frase «il progetto è ormai esecutivo» è stata pronunciata troppe volte per riuscire a contarle. Così succede anche nel settembre 2010 quando — con la firma dell'atto esecutivo su quella che nel frattempo è diventata la «Città della Salute di Vialba» — viene detto: «È stata imboccata la strada del non ritorno».

E i soldi pubblici spesi per i progetti abbandonati? È Alessandro Moneta, ai tempi della sua presidenza al Besta ad assicurare: «Il progetto già pronto per la Bicocca potrà essere clonato per la nuova destinazione del neurologico Besta. È come una bella scatola che può essere posizionata in qualsiasi luogo». Il concetto è stato ripetuto, poi, per lo studio realizzato dal consorzio creato per realizzare la Città della Salute, guidato da Luigi Roth e sciolto dopo essere costato un milione e mezzo di euro: «Il documento elaborato resta, comunque, utile», viene assicurato lo scorso dicembre.

A gennaio, dopo che anche l'idea di unire Tumori, Besta e Sacco in Vialba finisce affossata sotto il peso di costi troppo alti e collegamenti viabilistici scarsi, si ritorna al punto di partenza: dove fare sorgere la Città della Salute (dalla quale nel frattempo è stato depennato il Sacco)?Di qui il balletto delle aree degli ultimi sei mesi: con il comune di Milano che propone la caserma Perrucchetti di piazza d'Armi e il sindaco di Sesto San Giovanni che offre l'ex area Falck.

Arriva, poi, un altro colpo di scena. Mentre la politica non decide, una lettera firmata da operatori della sanità, tra cui Alessandra Kustermann e Giuseppe Landonio, insidia addirittura dubbi sull'utilità stessa della realizzazione della Città della Salute: «Con il trasferimento solo dei due istituti scientifici, c'è da domandarsi se una simile fusione valga davvero la candela e risponda alle esigenze dei malati e degli operatori — scrivono i medici —. Le consonanze tra Istituto Tumori e Neurologico sono del tutto marginali, e la loro fusione non otterrebbe reali miglioramenti degli assetti di base dei due presidi. L'uno non risolverebbe i problemi dell'altro, e anche le prospettive di ricerca comuni riguardano campi solo marginali. È proprio la mancanza di un grande ospedale, con tutte le strutture di base e i supporti necessari, a rendere discutibile l'operazione». Di ieri lo strappo del sindaco Pisapia che fa sorgere l'ennesima domanda: il 13 giugno il governatore Roberto Formigoni riuscirà davvero — come annunciato — a chiudere la partita?

postilla

Premessa: la notizia (che ovviamente campeggia con evidenza sulle edizioni locali dei giornali) è che a Milano il sindaco Pisapia manda al diavolo il presidente della Regione Formigoni dicendo che sul polo sanitario non si può decidere come se si trattasse solo di una questione urbanistica. Il che sarebbe una non-notizia in un paese civile, e neppure su questo sito, che ormai da qualche anno ribadisce la stessa cosa: un quartiere dedicato alla ricerca medica e alla salute parte da obiettivi scientifici, organizzativi, di servizio, e poi si inserisce adeguatamente (con tutti gli adattamenti del caso) nel contesto spaziale locale. La garbatamente spietata cronologia proposta in un angolino di pagina da Simona Ravizza sul Corriere, ribadisce invece l’esatto contrario, e scorrendo i nomi dei protagonisti forse si intuisce anche un po’ perché. Oggi, per fortuna, uno dei vari poteri coinvolti dice per la prima volta che il re è nudo. A un anno esatto dall’insediamento della nuova giunta di centrosinistra a Milano, con tutte le riserve del caso, è uno dei segnali di cambiamento: forse non si torna ancora in Europa, ma almeno si prova a uscire dal letamaio surreale dei signori della guerra tra bande (f.b.)

L’Agro Romano– la vasta area a vocazione agricola intorno allaCapitale– rischia di scomparire definitivamente. A preoccupare sono i risultati di un bando promulgato dal sindacoGianni Alemannoad inizio legislatura per la selezione “di nuovi Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata, finalizzati al reperimento di aree per l’attuazione del Piano Comunale di housing sociale e di altri interventi di interesse pubblico”. In poche parole: nuovi terreni da rendere edificabili. Delle 334 proposte pervenute – numerosi i proprietari di terreni agricoli che hanno partecipato – ben 160 sono ammissibili. Queste le valutazioni della Commissione istituita ad hoc nel 2008 (composta dal direttore dell’Ufficio per le Politiche Abitative e dai direttori dei Dipartimenti Urbanistica, Patrimonio, Mobilità, Ambiente e Riqualificazione delle periferie).

Sommando le 160 aree ritenute compatibili con i requisiti fissati dall’invito pubblico, sono complessivamente 2.381 gli ettari di campagna romana (già in parte fagocitata negli anni da grandi capannoni industriali, ville e palazzoni) che presto potrebbero essere cancellati da una nuova colata di cemento. Aree bellissime sottoposte a vincoli, adiacenti allaRiserva del Litorale, a quella Marcigliana, ai parchi dell’Appia Antica, diVeioe tanti altri.

Legambiente Lazio commenta sconcertata la cartografia dei nuovi insediamenti proposti,diffusa dal Dipartimento Urbanistica di Roma Capitale: “Il progetto di Alemanno va fermato subito – lancia l’allarmeLorenzo Parlati, presidente dell’associazione ambientalista – la giunta non può approvare questo scempio, l’assemblea capitolina tanto meno”. Entro l’estate infatti la giunta potrebbe dare il via alla maxi variante del piano regolatore (i tecnici sono già a lavoro per la stesura della delibera). Perché l’emergenza abitativa va affrontata: “Servono 25.700 alloggi – spiegava qualche mese fa il sindaco – di cui 6mila in edilizia agevolata e 19.700 in housing sociale.

In questo modo potremmo offrire abitazioni con mutui e affitti a prezzi molto più bassi di quelli che si sono mai potuti vedere in questa citta”. Quelle fasce deboli, a cui si riferisce il sindaco, la possibilità di accendere un mutuo (ancorché piccolo) non ce l’hanno di certo. Ma sarebbe comunque uno spreco, se si considera che a Roma gli immobili non utilizzati, vuoti, sfitti, sono 245mila (ultimo dato disponibile, riferito al 2009). A tal proposito va segnalato l’invito del forum “Salviamo il Paesaggio, Difendiamo i Territori” al sindaco di Roma (così come ai sindaci degli altri 8100 Comuni d’Italia) a partecipare alla campagna per il nuovo censimento degli edifici sfitti o non utilizzati. Manco a dirlo, nessuna risposta.

Su 2.381 ettari, però, si possono costruire quasi 23 milioni di metri cubi di superficie edilizia. Corrispondenti non a 25.700 alloggi, ma ad oltre 66mila (il dato è fornito dalla stessa commissione). “Bisogna offrire ai privati terreni edificabili in cambio di nuove metropolitane – spiega l’assessore all’ Urbanistica,Marco Corsini– e poi ci sono delle compensazioni edificatorie ancora da riconoscere”. Cioè tutte quelle cubature che sono state sottratte dal Comune ai privati, in presenza di aree di pregio ambientale, e che vengono compensate dando la possibilità di costruire altrove. Non a parità di metri cubi bensì di valore immobiliare. “E comunque quelle 160 aree sono state selezionate – sottolinea Corsini – non scelte. Ciò vuol dire che alla fine saranno di meno”.

Esprime però le sue “perplessità” anche l’Istituto Nazionale di Urbanistica: “Già nel 2008 avevamo criticato i criteri del bando, in particolare il fatto che si rendessero disponibili aree agricole, che fosse stabilita una distanza troppo grande dalle fermate del trasporto pubblico. E sul perché non venivano utilizzate le aree edificabili messe a disposizione dal Piano regolatore, né venivano attuati i ben 35 piani di zona per l’edilizia residenziale pubblica già approvati”. E Legambiente rincara la dose: “Utilizzare la scusa dell’ housing è ridicolo e patetico. La verità è che Alemanno,dopo l’acqua, vorrebbe cedere ai privati anche l’Agro Romano”. Insomma una strumentalizzazione per dar vita a nuove anonime periferie senza servizi. L’ennesimo regalo – dopo quelli diRutellie Veltroni– a chi muove voti. D’altronde, come dice il presidente di Legambiente Lazio, “la campagna elettorale è già aperta”.

la Repubblica

Cascine, via al piano recupero Palazzo Marino apre l’asta

di Alessia Gallione

Qualcuna è ancora immersa nel verde di un parco o ai margini della città. Altre, ormai, sono circondate dalle case. Mura abbandonate o dal futuro amministrativo incerto, in alcuni casi poco più che ruderi a dispetto della loro storia. E qualche indirizzo noto come quello del centro sociale Torchiera o della Monluè. Che, adesso, però, il Comune vuole riportare a nuova vita. Perché, nella Milano del Parco Sud e dell’Expo dedicato all’alimentazione, Palazzo Marino fa partire un piano per recuperare le sue cascine. In tempi di casse vuote e risorse scarse, per un gruppo di sedici stabili apre la caccia a privati, associazioni o enti, che possano prenderli in gestione e recuperarli. Con nuovi criteri che, d’ora in poi, prevederanno assegnazioni in diritto di superficie lunghe fino a 90 anni e, in alcuni casi, la vendita.

Ancora la crisi, fa partire la ricerca di sponsor anche per il restauro di una ventina di monumenti: dai 500mila euro per l’Arco di Porta Ticinese e i 600mila per quello di piazza Cavour ai 105mila del Leonardo di piazza Scala, dalla statua di Napoleone III nel Parco Sempione (360mila euro) a Palazzo Moriggia, la sede del museo del Risorgimento che ha bisogno di 750mila euro fino alle lapidi della Loggia dei Mercanti. Anche questo progetto fa parte del bilancio: tra le pieghe del documento, è stata inserita la possibilità per sedici delle trenta cascine che l’amministrazione vuole recuperare, di fare bandi - saranno lanciati dopo l’approvazione in Consiglio comunale - per gestioni molto lunghe: dalla Carliona alla Cottica in via Natta, dalla San Bernando nel parco della Vettabbia per cui era andata deserta una gara pochi mesi fa, alla Campazzino. Segni di un passato agricolo da reinventare. L’obiettivo, spiegano in Comune, non è tanto fare cassa, ma fare in modo che pezzi del patrimonio non vadano in malora. Chi presenterà un’offerta - sono previsti anche project financing - dovrà finanziare i lavori di ristrutturazione e presentare piani tecnici ed economici. È anche per dare la possibilità di rientrare dei costi, che la gestione si è allungata e che saranno previste anche funzioni private come ristoranti o, magari, ostelli. Nelle linee guida, però, il Comune immaginerà soprattutto un futuro pubblico. Con punteggi maggiori per le attività agricole, l’alimentazione, la residenza sociale e temporanea, le attività per la città.

Per la cascina Brusada e per la Cottica, descritte come «inserite in contesti residenziali», è prevista la vendita. C’è già un caso, però, che diventa politico. È quello della cascina Torchiera, occupata dagli anni Novanta. Il bando, chiariscono da Palazzo Marino, sarà «aperto a tutti». Se vorranno partecipare, gli occupanti dovranno comunque costituirsi in un’associazione. Il capogruppo del Pdl Carlo Masseroli parte già all’attacco: «Prima si sgombera e poi si pensa alla gara». Il presidente del Consiglio comunale Basilio Rizzo non vede ostacoli alla partecipazione del centro sociale, anche senza bisogno di liberare gli spazi: «Senza di loro sarebbe già caduta a pezzi». Il consigliere di Sel Luca Gibillini si augura «un tavolo» sul modello del Leoncavallo.

Corriere della Sera

Il Comune vende le cascine, ma è scontro sul Torchiera

di Elisabetta Soglio

Mica solo la Sea e la Galleria. Il Comune ha definito anche un piano di cessione di alcune delle proprie cascine: 16, per la precisione, destinate ad essere assegnate in diritto di superficie fino a 90 anni, attraverso un bando pubblico «sulla base degli esiti di gara e con valutazione di offerta tecnico-economica». La decisione è già formalizzata e inserita all'interno del bilancio 2012 e del pluriennale 2012-2014. «Obiettivo principale — garantisce l'assessore all'Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — non è tanto quello di fare cassa, quanto di evitare che si disperda un patrimonio, dando allo stesso tempo la possibilità di attivare all'interno delle strutture una serie di iniziative utili per la città».

Ma c'è già una polemica, perché l'elenco comprende anche la Cascina Torchiera da anni occupata da un gruppo di giovani e da qualche famiglia (per il primo giugno è tra l'altro organizzato un happening: «Venite a ballare a Cascina Torchiera per coprire il nostro buco di bilancio, perché non abbiamo né Lusi né Belsito a darci una mano».Se ne è discusso in commissione consiliare, quando il capogruppo del Pdl, Carlo Masseroli, ha tagliato corto: «Prima di mettere a gara questa struttura è chiaro che va liberata. Come è chiaro che non può partecipare a una gara chi ha occupato». Pronta la replica di Basilio Rizzo, della Federazione delle Sinistre: «Va bene la gara e va bene non concedere privilegi a nessuno. Ma non possiamo neppure tagliar fuori chi in tanti anni ha comunque tenuto in piedi un pezzo del patrimonio del Comune, evitando che cadesse a pezzi come altrimenti sarebbe accaduto». Ancora Masseroli: «Rischiamo di creare un precedente pericoloso. Occupo e tengo in ordine, così dopo quel pezzo di città diventa mio. Così si esce dalle regole e senza regole Milano diventa fuori controllo». Dal Comune non sono giunte ancora risposte ufficiali al quesito posto dall'opposizione, anche se pare che l'orientamento sia quello di consentire ai chiunque voglia di partecipare al bando. Poi, si vedrà.

Il progetto del Comune prevede che i bandi partano appena approvato il bilancio, quindi entro l'estate. Le cascine Brusada e Cotica sono le uniche che verranno messe in vendita: per le altre si procederà con il diritto di superficie e qualche concessione d'uso, sulla base dei progetti che errano presentati. I vincitori dei bandi dovranno impegnarsi al recupero degli immobili e all'insediamento «di specifiche funzioni pubbliche individuate in sede di bando, da affiancare a quelle di carattere privato capaci di generare reddito, che dovranno garantire la sostenibilità economica del recupero».Nel bilancio si lancia anche una ricerca di sponsor per salvare venti monumenti cittadini: da Palazzo Moriggia, sede del Museo del Risorgimento (spesa prevista di 750 milioni, divisi in due interventi), all'Arco di Porta Nuova (600 milioni) e a quello di Porta Ticinese 850 milioni); dalla statua di Napoleone III al Parco Sempione (360 milioni) a quelle di Leonardo da Vinci (105 milioni) e di Giuseppe Missori (90 milioni).

la Repubblica

Fiumi e canali soffocati dai rifiuti resta il mistero su chi deve salvarli

di Franco Vanni

Il canale Vettabbia, che attraversa il Sud milanese, è una discarica per batterie d’auto e latte di vernice. Dal Seveso, che pure è interrato, la polizia provinciale recupera almeno due volte l’anno carcasse d’auto, bombole del gas e intere cucine. La Martesana, in cui ancora si scaricano acque sporche, all’altezza di via Idro viene periodicamente riempita di pneumatici di auto esausti che nella maggior parte dei casi recuperano i vigili urbani pur senza averne competenza. E c’è il caso eterno del cosiddetto Lambro meridionale, il tratto del fiume Olona che incrocia senza mischiarsi il Naviglio Pavese all’altezza di via Chiesa Rossa, sempre intasato di plastica e rifiuti pesanti. Le prime interrogazioni al Comune sullo «scempio ambientale» dei corsi d’acqua milanesi le fece il Pci negli Anni Ottanta e da allora poco è cambiato. I fiumi e i canali di Milano soffrono: nonostante gli allarmi periodici di Legambiente e delle guardie ecologiche volontarie, le Gev, le istituzioni sembrano lontane dal trovare una risposta a una domanda apparentemente semplice: a chi spetta la pulizia?

Minimo comune denominatore delle situazioni di degrado nei corsi d’acqua cittadini è la contesa fra Comune, Provincia, Amsa e consorzi di gestione sulle competenze per la cura e il recupero di alveo e acque. «A noi spetta la pulizia delle sponde, non dei corsi, e solo nel caso gli argini costeggino strade comunali - spiega Sonia Cantoni, presidente di Amsa - Non mi pronuncio sulla razionalità di questa situazione, ma il nostro contratto è chiaro». La convenzione fra Amsa e Comune sarà rinnovata a giugno 2013. «L’augurio è che si renda più razionale il sistema delle competenze - dice Lorenzo Baio, del settore acqua di Legambiente Lombardia - si decida finalmente a chi spetta fare cosa». Cantoni pone una condizione: «Sarebbe bene che il soggetto incaricato delle bonifiche e della pulizia fosse unico».

Nella giungla delle competenze non riconosciute succede che nelle "teste" dei fontanili del parco delle Cave, alla periferia ovest cittadina, siano rimasti immersi per anni quintali di pannelli di eternit da 60 centimetri per 80, rimossi poi dalla polizia provinciale grazie alla buona volontà di una pattuglia di agenti. E la Roggia Vettabbia, che raccoglie acqua di falda pompata per evitare l’allagamento delle fermate della metropolitana, è inquinata al punto che si preferisce non bonificare il fondo. «Smuovendo il limo - dice un perito a cui Palazzo Marino si rivolse nel 2010 - si rischierebbe di disperdere nell’acqua le sostanze pesanti imprigionati nel fango». Ma il problema non è solo la contaminazione chimica. Il consigliere di Zona 5 Piermario Sarina ha consegnato al parlamentino di quartiere un dossier fotografico sulle condizioni «vergognose e indecenti» del canale all’altezza di via dell’Assunta: sacchi dell’immondizia, copertoni e arredi da ufficio riempiono il canale. «Si decida chi pulisce, punto e basta», dice Sarina. Ma non è così facile.

Della cura dei 38,9 chilometri della Martesana per statuto si occupa il Comitato per il restauro delle chiuse dell’Adda, «con la Provincia di Milano» e «con il sostegno della Regione Lombardia». Ma a nessuno dei tre enti spetta la pulizia dell’alveo. La «manutenzione strutturale» dei Navigli maggiori, Grande e Pavese, è disciplinata da una convenzione fra Scarl (società regionale) e consorzio Villoresi: anche in questo caso non c’è chiarezza su chi debba pulire acqua e fondo, da cui ogni anno vengono recuperati quasi 250 quintali di rifiuti. Per il tratto cittadino del Lambro - dalle cui rogge Legambiente periodicamente tira fuori tonnellate di televisori, materassi e cartelli - la competenza è formalmente distribuita fra Comune, Provincia e Regione. Peccato che a pulire alla fine siano i volontari.

Tra il 2008 ed il 2011 il bilancio del Ministero per i Beni culturali si è ridotto di un terzo (1,42 miliardi di euro). La nostra spesa per istruzione e cultura (4,4 per cento del Pil; 9,7 per cento della spesa pubblica) si colloca sotto la media europea (rispettivamente 5 e 11 per cento), e siamo sotto al ventesimo posto (peggio di noi, paesi come la Grecia o la Romania). Il massacro dei bilanci degli enti locali ha fatto il resto.

In compenso, siamo l’unico Paese al mondo in cui la tutela del patrimonio storico e artistico sia iscritto tra i principi fondamentali della Costituzione (articolo 9). E quell’enorme e straordinario patrimonio è capillarmente diffuso sul territorio, fuso in un’unica cosa con l’ambiente ed il paesaggio.

L’incredibile vicenda di Corcolle è perfettamente simbolica anche da questo punto di vista: la discarica riusciva in un colpo solo a distruggere l’ambiente (e dunque la salute dei cittadini), il paesaggio (non un valore estetico, ma identitario e ‘sociale’ nel senso più ampio), il patrimonio storico e artistico (con un bene simbolo come Villa Adriana, uno dei 47 siti italiani che l’Unesco ha dichiarato di valore universale per l’umanità). Su Corcolle si è ingaggiata una battaglia che ha visto uniti, e alla fine vittoriosi, il ministro dell’Ambiente e quello dei Beni Culturali (che ha dato qui il suo primo, e speriamo non ultimo, segno di vita). Un’ulteriore prova della bontà della vecchia idea di Giovanni Urbani (rilanciata da Gian Antonio Stella in questi giorni) di unificare i due ministeri. Ma per una vittoria ci sono mille sconfitte.

A Milano non si riescono a fermare le ruspe che devastano il cimitero paleocristiano di Sant’Ambrogio per costruire un parcheggio interrato: una causa evidentemente indegna non dico di una minaccia di dimissioni, ma almeno di una parola, da parte del milanesissimo e cattolicissimo ministro Ornaghi, che come rettore dell’Università Cattolica è pure dirimpettaio dello scempio. Quella di voler costruire parcheggi sotterranei sotto monumenti delicati è una mania italica. Nel centro di Pistoia, per esempio, se ne vuol scavare uno sotto la meravigliosa e fragile chiesa romanica di San Bartolomeo in Pantano: che, come dice il toponimo, sorge su un terreno non esattamente solido.

Oltre alle minacce dal sottosuolo, ci sono quelle che vengono dalle sopraelevazioni e dalle cementificazioni.

A circa centocinquanta metri dalla Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto (uno dei santuari della storia dell’arte italiana) l’amministrazione comunale di Padova vorrebbe costruire un auditorium con un piano interrato profondo 19 metri. Secondo la relazione dell’autorevole commissione scientifica nominata dallo stesso Comune, se i lavori non fossero condotti con particolari cautele, l’alterazione dell’equilibrio della falda potrebbe mettere in pericolo la statica della Cappella (la cui cripta è già perennemente allagata). Dopo l’appello di un folto gruppo di intellettuali e cittadini guidati da Chiara Frugoni, il sindaco Flavio Zanonato si è detto disposto a rinunciare al piano interrato (che dunque non doveva essere così necessario!).

Ma a 200 metri da Giotto, nell’area cosiddetta PP1 (già prevista a verde pubblico), ha preso il via la costruzioni di due torri, una delle quali sarà alta 109 metri, con uno scasso profondo 30 metri e una vasca che interferisce direttamente con l’equilibrio delle acque che minacciano la cappella. Insomma, una metafora perfetta dell’incombere della cementificazione sul tessuto paesaggistico e storico-artistico di quello che un tempo si definiva il giardino del mondo.

Di nuovo vicino a Roma, a Genazzano, il contesto naturale del ninfeo protocinquecentesco collegato all’antico palazzo dei Colonna e attribuito a Bramante (oggi in proprietà del Comune) è in corso di distruzione : un muro di cemento e cinque ville a schiera devastano uno dei più precoci esempi di giardino rinascimentale all’antica. D’altra parte, se attentiamo alla stessa Villa Adriana, perché risparmiare le sue conseguenze storiche?

Più a sud, tra Napoli e Caserta, sorge la reggia borbonica di Carditello, saccheggiata di ogni suo arredo sotto l’occhio annuente della Camorra. Una delle cose che fa più impressione, visitando Carditello e il suo territorio, e che mentre nessuno monta la guardia alla reggia, l’esercito controlla in modo assai efficiente le vicinissime e terrificanti discariche, apostrofando con durezza i cronisti e gli studiosi che usano le macchine fotografiche per documentare lo scempio. Grandi cartelli gialli avvertono che le fotografie sono proibite perché le discariche sono “di interesse nazionale strategico”, e dunque sono protette da “sorveglianza armata”. Per noi, insomma, non è Carditello, non è il patrimonio storico e artistico ad essere strategico per il futuro del Paese. Mentre lo sono la monnezza e i suoi criminosi affari.

Difficile pensare che la salvezza possa venire da sponsor privati, legittimamente interessati ai propri utili e quindi a finanziare solo redditizi luoghi simbolo (come il Colosseo): basti pensare che lo Stato sta per ricomprarsi proprio Carditello, che appartiene virtualmente a Banca Intesa, la quale non ha alcuna intenzione di restaurarla e proteggerla.

Ma per ognuno di questi casi si è creato un movimento dal basso, fatto di comitati di cittadini che chiedono che le loro tasse servano anche a mantenere il patrimonio di cui sono proprietari in forza della Costituzione. È da qui che bisogna ripartire.

Rispondendo a una interrogazione alla Camera il 19 aprile scorso, il ministro Lorenzo Ornaghi diceva di aspettare “sereno l’esito delle indagini”. Fosse stato un po’ meno “sereno” avrebbe potuto evitare di perdere la faccia. Le responsabilità del Mibac in questa storia, infatti, sono tante e pesantissime: una gravissima e continuata omissione della tutela di un inestimabile bene dello Stato. Il primo punto riguarda la nomina di uno come Marino Massimo De Caro a direttore dei Girolamini. La Biblioteca è statale, ma una convenzione prevede che il conservatore del complesso sia un religioso (Sandro Marsano, indagato anch’egli), il quale deve scegliere il direttore della Biblioteca tra gli stessi religiosi . Visto che la Congregazione dell’Oratorio è ormai svuotata, si pensò bene di scegliere De Caro, chiedendo una deroga al Mibac. Ebbene, quando, il 1° giugno 2011, il Direttore Nazionale delle Biblioteche Maurizio Fallace ratificò la nomina, avrebbe dovuto prendere qualche informazione.

E sarebbe bastato Google per capire che era come mettere una volpe a guardia del pollaio. Ciò non venne fatto per una ragione ben precisa: De Caro era consigliere del ministro dei Beni culturali, Giancarlo Galan (probabilmente su richiesta di Marcello Dell’Utri, già capo di Galan in Publitalia). E questo è il secondo punto. Perché, prendendo il posto di Galan, Ornaghi conferma De Caro come proprio consigliere, senza nemmeno chiedersi chi fosse? È stata solo un’imperdonabile leggerezza, o il ministro tecnico ha obbedito a pressioni politiche? Terzo, cruciale, punto. Il 23 febbraio viene disposta una ispezione ai Girolamini. La svolta? Manco per nulla: l’ispezione viene ‘rimandata’. E quando (5 aprile) i bibliotecari onesti chiedono formalmente al Mibac di valutare molto attentamente la consegna della chiave del sancta sanctorum della biblioteca al direttore, da Roma arriva un burocratico, terribile, nulla-osta. L’ispettrice, invece, arriva solo il 17 aprile, cioè quasi venti giorni dopo il mio articolo sul Fatto (30 marzo) che ha fatto esplodere la questione. E ciò che scrive supera ogni immaginazione: la biblioteca appare devastata. Due giorni dopo arrivano i sigilli dei carabinieri.

Quarto punto. Nemmeno la millanteria della laurea (accertata da Gian Antonio Stella il 17 aprile) convince Ornaghi a cacciare il suo immacolato consigliere. Va alla Camera a dire che ne accetta l’autosospensione. Solo dopo una visita del procuratore aggiunto di Napoli, si decide a cacciarlo. Ma non lo dice a nessuno: troncare, sopire. Scandalosamente, Marsano e De Caro rimangono al loro posto: De Caro si dimette il 15 maggio, Marsano viene rimosso (dai suoi superiori) solo il 21. E nella lettera in cui Marsano accetta le dimissioni di De Caro, il religioso scrive che, essendo state suggerite dal direttore Fallace, egli ritiene le dimissioni “un ordine superiore”. Il che fa cadere come un castello di carte le autogiustificazioni che Ornaghi aveva esibito alla Camera, scaricando il barile sugli Oratoriani: sappiamo con certezza che, se Ornaghi avesse voluto, avrebbe potuto indurre De Caro a dimettersi quasi due mesi fa (invece che pochi giorni prima che fosse arrestato!).

Se i Carabinieri del Nucleo di Tutela guidato da Raffaello Mancino e il pool di magistrati guidato dal Giovanni Melillo avessero reagito come il Mibac, oggi la devastazione e il sacco dei Girolamini sarebbero in sereno svolgimento. Lorenzo Ornaghi ha l’occasione di fare qualcosa che nessuno in questo Paese sembra saper fare: chiedere scusa agli italiani, e ringraziare le migliaia di cittadini che, firmando l’appello promosso dallo storico dell’arte Francesco Caglioti, hanno innescato il salvataggio dei Girolamini. Vera supplenza civile e popolare di una tutela pubblica ormai vacante.

Ha vinto la cività

di Antonio Padellaro

Davanti alla sciagurata decisione di aprire una discarica di rifiuti accanto a Villa Adriana, patrimonio dell’Umanità, c’eravamo appellati alla sensibilità civile e istituzionale di Monti e dei suoi ministri. Non è possibile, scrivevamo, che personalità europee, illustri cattedratici e gran commis dello Stato si comportino come quei politicanti da quattro soldi che hanno ridotto l’Italia in brandelli.

Infatti, con una decisione che fa onore a questo governo, Villa Adriana è stata salvata dallo stupro organizzato a cura delle solite cricche affaristiche con buoni addentellati nella Pubblica amministrazione. Una volta tanto è la civiltà che sconfigge la barbarie.Ciò non avviene per caso ma per la combinazione positiva di due fondamentali fattori di democrazia.

Prima di tutto c’è la pressione esercitata da un giornalismo libero che non ha timore di disturbare il manovratore. Lo rivendichiamo con orgoglio noi del Fatto Quotidiano che alle prime notizie sullo scempio che si stava perpetrando non abbiamo perso tempo. Le nostre inchieste sulla discarica di Corcolle che già “puzzava” (e non solo a causa dell’immondizia), unite alla sollevazione dei nostri lettori, cui ha dato voce forte e chiara (è il caso di dirlo) Adriano Celentano, hanno agito da detonatore.

Si chiama opinione pubblica: quando si fa sentire e ottiene il giusto la democrazia è più forte. Oggi possiamo dirlo con orgoglio.Tuttavia, la pressione della libera stampa non sarebbe stata sufficiente senza un governo capace di riflettere e di cambiare strada. Monti e alcuni ministri hanno probabilmente capito che la scelta iniziale era condizionata da valutazioni parziali e orientate non verso il bene collettivo, ma a favore di interessi privati anche oscuri. Conseguenza inevitabile, le dimissioni del prefetto di Roma Pecoraro responsabile del malsano progetto, assieme al presidente della Regione Lazio Polverini non nuova a imprese del genere.

Un cambiamento di rotta che con il governo precedente, ne siamo certi, non sarebbe accaduto. Oggi possiamo dirlo con maggior fiducia: qualcosa sta cambiando.

VILLA ADRIANA È SALVA

Il governo rinuncia alla discarica a Corcolle Prefetto costretto alle dimissioni da Commissario

di Malcom Pagani

Per somigliare definitivamente a Gianni Letta, il sottosegretario Antonio Catricalà dovrà studiare a lungo. Il primo vero esame affaristico-politico dell’era tecnica lo boccia inesorabilmente e, in un’afosa mattina romana di inizio estate, trascina a fondo la fredda logica della devastazione del patrimonio artistico. Villa Adriana è salva. La discarica di Corcolle non si farà. Il commissario straordinario Giuseppe Pecoraro vede il mondo ribaltarsi in una notte. Da padroncino dell’emergenza rifiuti a rifiuto da licenziare in tronco con lo struggente espediente delle dimissioni su richiesta, a sole 48 ore dalla fiducia governativa.

Sostituito da Goffredo Sottile, il grande amico di Luigi Bisignani ha il profilo sgualcito di un uomo che perde due partite in un sol colpo. Aveva affidato la consulenza sulla cava nei pressi di Tivoli a un vecchio amico di famiglia e al suo consulente. Sognava di diventare Capo della Polizia. Rimarrà invece, fino alla prevista sostituzione, Prefetto di Roma. Intorno alla sua figura obliqua, volano stracci e insulti (“irresponsabile”) tra Renata Polverini e Gianni Alemanno. Il sindaco, convinto teorico della giravolta in corso d’opera, tira in ballo la Provincia: “La competenza per individuare le aree idonee o non idonee allo smaltimento di rifiuti è sua” e Zingaretti, lesto, risponde parlando di “stop alle discariche” e guarda lo spettacolo dall’uscio, come è di moda, a propria insaputa: “Non è vero. Non c’entriamo nulla”. Ieri mattina, facendo slittare il previsto Cdm di 40 minuti, nello studio privato del premier a Palazzo Chigi si è svolto un prevertice. Cinque personaggi in cerca d’autore. Facce tirate. Gelo. Il titolare dell’Ambiente Clini, reduce dal Brasile, quello dell’Interno Cancellieri, Monti, Ornaghi e il sottosegretario Catricalà, uno degli sponsor dello scempio. Incredulo. Teso. Il premier, di pessimo umore per la sottovalutazione complessiva dell’intera vicenda, aveva trascorso il pomeriggio precedente ad ascoltare lo sdegno di un altro presidente, quello onorario del Fai, l’amica quasi novantenne Giulia Maria Mozzoni Crespi.

La fondatrice del Fondo ambiente italiano, una donna che dopo aver guidato giganti dell’editoria, si occupa di tutela dei capolavori dal 1975, avrebbe ricordato a Monti la sua recente presenza nel Cda della creatura nata per impedire orrori e saccheggi e chiesto “saggezza e dignità”. Monti l’ha ascoltata. Poi ha fatto lo stesso con Anna Maria Cancellieri, combattiva: “Pecoraro è stanco, va immediatamente sostituito” e impegnata a descrivere i contraccolpi anche mediatici che un’accentuata insistenza governativa avrebbe fatto deflagrare: “I giornali ci descrivono per quelli che non siamo. Il Paese non capirebbe. Dobbiamo fermarci”. Poi, dopo aver registrato la contrarietà di Catricalà al passo indietro: “Mi adeguo, ma è un manifesto di debolezza”, è stata la volta di Clini e Ornaghi. Il primo, laconico, ha ricordato l’opposizione formale del suo ministero.

Il secondo, messo di fronte a un dilemma amletico, ha scelto, per una volta, di essere. “Se andiamo avanti, rimetto oggi stesso il mandato”. Un’opzione coraggiosa, una di quelle curve annunciate da cui fuggire è impossibile. Con le dimissioni del rettore della Cattolica sul tavolo e lo spettro di una minicrisi di governo, Monti, concentrato per l’intera assise, si è deciso. Incarico di commissario straordinario conferito al Prefetto Sottile per cercare rapidamente un nuovo sito che sostituisca Malagrotta (Quadro Alto, Riano, è il preferito di Clini ma in corsa c’è anche il vicino Pian dell’Olmo) e rapido passaggio collegiale in Consiglio dei ministri per esporre la sindone di Clini e Ornaghi e il “sacrificio” di Pecoraro. Nel pomeriggio, dopo mesi di critiche aspre, mentre Clini ammetteva l’addio ufficiale al progetto: “Direi di sì”, Ornaghi ha assaporato la revanche.

Il salvataggio di Villa Adriana gli vale il plauso di mezzo arco costituzionale, compreso quello del nemico di ieri, l’archeologo Carandini, in prima fila nel pomeriggio con Veltroni e mezzo Pd al “Teatro dei Servi”. Ornaghi, comprensibilmente retorico, incassa senza esagerare. Ma è raggiante: “Qui non ci sono né vincitori né vinti. Hanno prevalso ragionevolezza e buon senso. L’unica trionfatrice è la cultura”. L’altra faccia della luna è l’ovale di Renata Polverini. Il governatore non si aspettava un finale del genere. Su Corcolle e sul suo indotto, lavorativo ed elettorale, aveva puntato moltissimo un rilevante segmento di centrodestra laziale. Polverini non si dà pace e prima difende Pecoraro: “Ha subìto un’aggressione assolutamente vergognosa” poi rende, anche plasticamente, la decomposizione in corso nel fu Pdl.

Il bersaglio è l’antico sodale Gianni Alemanno, prima favorevole e poi contrario alla discarica: “Rimettiamo al Sindaco e al consiglio comunale le loro competenze”. Tradotto: trovino rapidamente il sito perché – si rivela Renata – minacciando: “Non sono disponibile a firmare la proroga di Malagrotta e soprattutto” le sfugge in un lampo rivelatorio: “Non sono disposta ad andare verso una soluzione che mantenga un monopolio privato in questa città”. Allora, a guardare oltre capitelli, profili, colonne e appelli, si trattava di questo. La discarica era un affare. Corcolle un nome privo di senso. Bisognava indebolire Manlio Cerroni, il paperone dell’immondizia dal cuore cattocomunista. Togliergli un potere incalcolabile. Ridistribuire, non solo geograficamente, il prodotto di un’equazione. Di un paradosso della modernità precipitato in duemila anni di storia. Ciò che mangiamo. Chi fa sparire i resti. Quanto costa il disturbo. Sopra Roma volano i gabbiani. Fino a ieri vigilavano gli avvoltoi.

Il nuovo commissario tra immondizia e razze equine

Goffredo Sottile, il nuovo commissario per i rifiuti del Lazio, con l’immondizia ha già avuto a che fare, essendo stato commissario delegato per l’emergenza rifiuti in Calabria. Romano, classe 1940, ha intrapreso la carriera prefettizia nel 1969. Un uomo di lungo corso, che ha prestato servizio presso le Prefetture di Nuoro, Frosinone (Capo di Gabinetto) e a Roma, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, in qualità di Capo della Segreteria Tecnica del sottosegretario delegato ai Servizi di Informazione, e il ministero dell’Interno, dove, in ultimo, fino alla nomina a Prefetto, ha svolto le funzioni di vicecapo di Gabinetto e, per molti anni, quella di Segretario del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica. Nel 2007, su proposta dell’allora ministro Paolo De Castro, fu nominato presidente dell’Unire, Unione nazionale per l’incremento delle razze equine. La sua voglia di trasparenza e pulizia non gli ha portato molti consensi. Lo scorso anno è stato anche vicepresidente generale del Club Alpino italiano.

INTERVISTA. Il professor Salvatore Settis

“Ma sui Beni culturali siamo allo sbando”

di Alessandro Ferrucci

Professore Salvatore Settis, ci spiega l’importanza di Villa Adriana?

È uno dei siti archeologici più importanti al mondo: la Villa privata di un Imperatore molto particolare.

Da che punto di vista?

Adriano era un architetto, un uomo colto, amante della cultura greca. Le fonti ci rivelano che lui stesso progettava. E la Villa era una residenza arredata in modo straordinario: le sue statue e i suoi mosaici sono nei grandi musei del mondo, da quando si è iniziato a scavare nel ’600. Poi c’era un’integrazione straordinaria con il paesaggio, che negli ultimi anni è andata progressivamente persa a causa dell’incuria e dei pochi fondi. Oltre al calo dei visitatori nonostante il bollino Unesco.

Magari questa storia ha portato nuova notorietà alla Villa...

Sarebbe bello, ma lo Stato deve tornare a curarla come merita, stiamo pagando il taglio ai Beni culturali voluto da Berlusconi nel 2008.

Oltre un miliardo...

Di più: ci avviciniamo al miliardo e mezzo di euro. E ora si iniziano a vedere gli effetti di una politica del genere.

Perché solo adesso?

Semplice: progressivamente stanno terminando i fondi già programmati e stanziati. L’incuria di Villa Adriana è il corrispettivo esatto dei crolli di Pompei o della Domus Aurea a Roma. Ma in Italia abbiamo anche altre situazioni preoccupanti.

Come la Cappella degli Scrovegni a Padova.

Un caso clamoroso! Lì gli affreschi di Giotto, incunabolo di tutta la pittura occidentale europea, sono in pericolo. A pochissima distanza hanno iniziato a scavare le fondamenta per realizzare due torri enormi, quando in tutta la zona incide una falda acquifera che già penetra nei sotterranei della Cappella.

Il ministro Ornaghi è intervenuto?

Totalmente assente. C’è qualche timida iniziativa della Soprintendenza locale, niente più.

Possibile?

Purtroppo è così. In compenso il sindaco di Firenze, Renzi, ha dichiarato che Ornaghi andrà a Palazzo Vecchio per visitare quei buchi orribili sugli affreschi di Vasari. Vogliono cercare un Leonardo che non c’è.

A questo punto le chiedo un giudizio generale sul tecnico Ornaghi.

Premesso: non è un tecnico dei Beni culturali e questo lui lo sa benissimo. Per fortuna nel caso di Corcolle si è fatto sentire, aiutato dall’intervento del ministro Clini. Spero vivamente che l’episodio segni una svolta nel suo impegno al Mibac. Per adesso sembra aver avuto pochissima voglia di fare il ministro.

Però ha trovato il tempo per commissariare il Maxxi a Roma.

Lasciamo perdere. Pensi: in quel caso ha defenestrato uno dei migliori funzionari italiani, Pio Baldi, in un altro ha legittimato Marino Massimo De Caro, mercante di libri, sospettato di furti, a dirigere la biblioteca Girolamini.

Lei prima ha nominato Clini. Il ministro dell’Ambiente, assieme a Ornaghi, si è occupato di “inchini” dopo la tragedia della Concordia. A Venezia le navi da crociera entrano ancora.

Il governo dopo essersi stracciato le vesti per il disastro del Giglio, ha trovato una soluzione : le grandi navi non si possono avvicinare a meno di 400 metri dalla costa, con l’eccezione di Venezia. Quindi, il luogo più delicato d’Italia non è tutelato.

Magari non c’è pericolo...

A marzo ero a Venezia quando una di queste navi ha rotto gli ormeggi. Per fortuna sono intervenuti due rimorchiatori che erano nei paraggi. Forse per risolvere il problema aspettano un incidente.

Quando è all’estero, qual è l’aspetto che più la colpisce. Cosa vorrebbe importare?

Al Louvre o al Prado gente come De Caro non sarebbe mai entrata. Da noi non si ragiona per competenze, ma per amicizie. Eppure Ornaghi non sente l’esigenza di scusarsi. Almeno il suo predecessore, Galan, ha ammesso di averlo preso su consiglio di Dell’Utri.

Abbiamo fermato i barbari del Terzo millennio”

I COMITATI RILANCIANO: “NESSUN’ALTRA CAVA, SERVE UN PIANO SERIO PER I RIFIUTI DEL LAZIO”

di Nello Trocchia

Nei pressi della Villa campeggia una scritta: “Adriano scatena l'inferno”. Una invocazione, una preghiera laica impressa su uno striscione per scongiurare l'incubo pattumiera. Sotto un cuore diventato il simbolo della protesta anti-discarica. Protesta pacifica che ha attraversato l'oceano con le petizioni firmate da docenti e presidi di facoltà internazionali. “Il mondo ha sollevato un bel vallo – ricorda il musicista e attivista anti-discarica Alberto Marchetti – come quello che aveva fatto Adriano per fermare i barbari, noi abbiamo fermato i barbari del Terzo millennio”.

Dopo 7 mesi la battaglia è vinta, i comitati si ritrovano nel primo pomeriggio per festeggiare davanti alla Villa Adriana che ormai è salva. Il nuovo sito previsto per il dopo Malagrotta, il mega invaso che serve Roma da 30 anni, non sarà realizzato a 700 metri dalla zona di rispetto della residenza dell'imperatore Adriano. La notizia arriva a metà mattina: il Consiglio dei ministri ha detto no alla discarica in zona Corcolle, al confine tra Roma e Tivoli, il prefetto Giuseppe Pecoraro si è dimesso da commissario per l'emergenza. Parte un tam-tam di messaggi tra i componenti del comitato che fin dall'inizio si sono mobilitati in difesa del sito, patrimonio dell'Unesco. “Ieri il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi – ricorda Gianni Innocenti, comitato anti-discarica – è venuto a Corcolle, quello che non ha fatto il commissario Pecoraro. Ornaghi si è reso conto che da Villa Adriana si vedeva la parete della cava dove sarebbe sorta la discarica. Così ha vinto il buon senso”.

Al brindisi di metà pomeriggio arrivano tutti. I comitati mettono in fila le personalità del mondo della cultura e del cinema che si sono spesi per la villa: “Franca Valeri, Sabina Guzzanti, Philippe Daverio, Antonio Padellaro, Urbano Barberini”. I turisti e le scolaresche guardano divertiti i festeggiamenti. Gabriella Cinelli gestisce il ristorante di famiglia di fronte alla villa, prende emozionata il libro dei ricordi. “Ha vinto la memoria. Villa Adriana ha sorpreso gli intellettuali del mondo della cultura. In questo volume ho conservato le firme dei grandi da Fellini a Togliatti, da Mastroianni a Bergman”. Una vittoria che è anche una dedica racchiusa nei versi di Adriano: Animula, vagula, blandula, piccola anima smarrita e soave. “L'idea folle di Pecoraro – conclude Gabriella – se realizzata, avrebbe sconfitto la nostra anima”. E c'è chi evoca una staffetta culturale in difesa del sito, patrimonio dell'Unesco. “Abitavo nella villa – ricorda Tito – mio padre era custode, ricordo la battaglia condotta negli anni Sessanta per salvare la residenza dell'imperatore. Quando mi hanno detto che volevano fare la discarica ho pensato che la storia si ripete”. Vittorina è una professoressa in pensione, insegnava italiano e latino al liceo: “È stato evitato uno sfregio. Abbiamo festeggiato alla notizia delle dimissioni di Giuseppe Pecoraro”. Il prefetto che esce sconfitto così come la governatrice del Lazio Renata Polverini che aveva difeso la scelta di Corcolle. Un brindisi che è anche consapevolezza.

I rifiuti prodotti dalla città di Roma ora dovranno trovare un altro buco e si sono persi sette mesi inseguendo siti inidonei, mentre la raccolta differenziata, nella capitale, è ferma al 25 per cento. La legge prevede che si raggiunga il 65 per cento entro il dicembre di quest'anno. Sono circa due mila le tonnellate che ogni giorno finiscono in discarica senza alcun trattamento in violazione della normativa vigente.

“Non è sufficiente – ricorda Gianni Innocenti – salvare Corcolle e condannare un'altra cava. Fino a quando non ci sarà un piano serio dei rifiuti nel Lazio, non si può gioire completamente”.

Arriva il momento del brindisi liberatorio. I comitati si fanno immortalare in una foto e tra i più giovani c'è Giuliano che, con la villa alle spalle, scrigno di storia e memoria, evoca Peppino Impastato, intellettuale e giornalista, ucciso dalla mafia nel 1978: “Aveva ragione lui. Brindiamo alla bellezza”.

La campagna del “Fatto” e l’appello di Celentano

Subito prima che il Consiglio dei ministri decidesse delle sorti di Villa Adriana, ieri sulla prima pagina del Fatto è comparso l’appello di Adriano Celentano: “Caro Monti, ancora un paio di questi colpi e alle prossime elezioni i Grillini te li troverai anche in camera da letto”. Celentano ha fatto propria la preoccupazione di milioni di italiani per un bene che è patrimonio mondiale dell’Unesco e ha lanciato l’allarme per una possibile nuova bomba ecologica.

GIUSEPPE PECORARO

LO SCERIFFO DEI ROM E LE AMICIZIE PERICOLOSE

di Silvia D’Onghia

Ma figuriamoci se Bisignani si è speso per la sua nomina a Prefetto di Roma... Bisignani, nella manifesta ingenuità di Giuseppe Pecoraro, è solo “un imprenditore che conosce tutti”. Ecco perché si è rivolto al faccendiere coinvolto nell’inchiesta P4 per contattare Angelo Rovati, costruttore del parco giochi di Valmontone. La Presidenza del Consiglio non gli aveva risposto, e così il secondo numero in agenda era quello di Bisignani. “Il Pecoraro – si legge nell’interrogatorio del faccendiere – sapendo che ero buon amico di Rovati, mi disse che lo stesso avrebbe avuto problemi e che lui non avrebbe mai potuto autorizzare l’apertura (del parco, ndr) per problemi di viabilità legati all’Autostrada A1”. Oggi, passando da Valmontone sull’A1, Rainbow Magicland lo si saluta con la manina.

Giuseppe Pecoraro è Prefetto della Capitale dal novembre 2008, quando – mettendosi “al servizio della città” – sostituì Carlo Mosca, rispettoso dei Rom e per questo nemico del sindaco Alemanno. Il quale evidentemente, secondo il neo funzionario di Governo, aveva già fatto il miracolo: a Roma “non ci sono emergenze” dichiarò Pecoraro appena insediato e appena sette mesi dopo la campagna elettorale vinta dal candidato del centrodestra sulla paura degli stupri e degli stranieri.

Il Prefetto dettò subito la sua agenda: cortei, sgomberi e, appunto, nomadi. Non una parola – mai, nel corso di questi anni – sulle mani delle mafie che si stavano prendendo la città, lasciando sull’asfalto una scia di morti e vendette. Anzi. “I recenti omicidi non sono assolutamente da attribuire alla presenza della criminalità organizzata”. Non vedo, non sento, ma parlo. Solo “risse tra gruppi di balordi”.

Rimarrà alla storia, oltre alla pessima figura internazionale dovuta alla scelta di Corcolle per la nuova discarica, la pantomima del Piano nomadi. Il motivo per cui era stato tanto voluto da Alemanno e, forse, anche il motivo per cui quell’amicizia è drammaticamente finita. Le prime parole di Pecoraro furono una manna per le orecchie del sindaco. “Intendo realizzare quanto prima un progetto di integrazione sociale delle persone che vogliono e meritano di essere inserite nella comunità”. dichiarazione battuta dalle agenzie il 26 dicembre 2008, Santo Stefano. “Integrazione e monitoraggio dei campi nomadi”: 26 gennaio 2009.

Un climax. “Campi recintati con presìdi di controllo interni ed esterni, ma senza i militari, tesserino d’identificazione da mostrare ogni volta che si entra”: 18 febbraio 2009. “Sgomberare i 200 micro-accampamenti abusivi, arrivare a dieci campi autorizzati”: 7 settembre 2010. “Sgombereremo oltre 50 micro-insediamenti abusivi”: 8 febbraio 2011. Passano gli anni, ma i Rom restano. I campi previsti nel Piano non si realizzano, i sindaci dell’hinterland romano non li vogliono, la guerra agli accampamenti produce solo un grave dispendio per le casse del Campidoglio. E quel filo rosso che collega Palazzo Valentini al Campidoglio, poche centinaia di metri, si spezza. “Il nuovo protocollo sui cortei al momento ‘non è una priorità’. Ne è convinto il prefetto Pecoraro. Ed è scontro col sindaco”, recita un’Ansa del 24 maggio dello scorso anno.

E allora ecco che, nominato commissario per l’Emergenza rifiuti, tra un Cafonal di Dagospia e l’altro, Pecoraro ha prospettato scenari apocalittici con Roma invasa di rifiuti come Napoli: “Prenderò provvedimenti contro chi ci farà andare in emergenza”. Ieri i provvedimenti li hanno presi contro di lui.

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