È giustificato l’allarme delle associazioni ambientaliste sull’inclusione del Dipartimento di pianificazione urbanistica nella Direzione Ambiente del comune di Napoli? Si teme — pare — una confusione fra controllato e controllore: «Interesse speculativo e conservativo: sono in contrasto e non possono essere accentrati nelle stesse mani, dicono gli oppositori del provvedimento » (la Repubblica, 14 luglio, II di Cronaca).
A parte il dubbio circa l’identificazione dell’interesse speculativo con una delle due articolazioni degli uffici, mi sembra che si debba discutere anche — e prima — di altre cose. Tento di contribuire, in modo schematico per brevità.
Il Prg vigente ha il merito di aver costruito un convincente sistema di regole per la tutela, manutenzione, riqualificazione e valorizzazione sostenibile delle parti di territorio in cui si riscontrano pericolosità o si registrano valori storico-culturali, naturalistici e/o paesaggistici. È questo uno dei contenuti fondamentali della componente strutturale della pianificazione. Deve essere difeso e conservato anche nelle future strumentazioni per il governo del territorio.
L’altro contenuto fondamentale è di tipo strategico: quali trasformazioni si vogliono realizzare per migliori condizioni economico- sociali dei suoi cittadini? Pure per questo aspetto, il Prg ha assunto scelte rilevanti: l’incremento dei servizi e degli spazi pubblici; l’intermodalità dei trasporti basata sulla centralità del ferro; un sistema di grandi parchi, da Bagnoli ai Camaldoli e al Sebeto. Anche queste scelte vanno confermate.
Ma non possono ritenersi sufficienti. In primo luogo per i confini: si evoca di continuo la dimensione metropolitana, ma non si compie alcun passo concreto per uscire dal generico richiamo verbale. E poi per la consistenza e la qualità dell’apparato economico e dell’organizzazione sociale.
Napoli, quella vera, da Monte di Procida ai Regi Lagni a Nola e Castellammare, non può vivere di turismo e di costruzioni (comparto a cui appartengono anche infrastrutture e attrezzature pubbliche), specie nella crisi, che fra l’altro falcidia le finanze pubbliche. E l’edilizia nel Napoletano è troppo spesso speculativa aggressione ad ambiente e paesaggio. Occorre un grande rilancio produttivo di segno alternativo, soprattutto una pervasiva e articolata green economy: rinvio per brevità alla terza rivoluzione industriale di Jeremy Rifkin, che qui può trovare condizioni più che favorevoli se si dà vita a coesione sociale e cooperazione pubblico-privato. Ma occorre una forte regia istituzionale che indirizzi e coordini — anche nel breve termine operativo — le iniziative private secondo linee convergenti, se non proprio secondo un disegno unitario. Anche perché il disagio sociale è a Napoli esteso e profondo e di ciò si deve tenere costantemente conto (per fare un esempio, non servono tanto più case, quanto più case per i ceti a debole capacità finanziaria).
Il Prg ha oltre un decennio di vita e vige da otto anni, nei quali hanno avuto avvio numerosissime iniziative edilizio-urbanizzative di varia dimensione e portata, a riprova della falsità
dell’accusa di impostazione generalmente vincolistica. Il punto è che tali iniziative sono scaturite di volta in volta dalla specifica convenienza del privato di turno, su cui l’azione pubblica non è spesso andata oltre il controllo del rispetto della norma, in assenza di un’organica e complessiva prospettiva di sviluppo. E c’è da temere che le cose non stiano cambiando con la nuova giunta: gli interventi per la Coppa America, il progetto “insula” di Romeo, lo “stadio del tennis”, il nuovo stadio di calcio (fra l’altro tutto nei confini comunali, come se Napoli fosse un’isola).
Se di una cosa le riflessioni sulla sostenibilità hanno convinto, questa è la necessità di valutare preventivamente gli effetti di ogni intervento sia sotto il profilo ambientale che sotto quello sociale. Il governo del territorio non può che essere perciò integrato, articolato per orizzonti temporali differenziati, frutto di un’attività plurale e interdisciplinare, adeguatamente coordinata, condotta da competenti.
Non ha senso, dunque, contrapporre ambiente e pianificazione. Ha senso impegnarsi nella costruzione di strategie istituzionali adeguate per migliorare la vivibilità urbana e la sua base economica in una prospettiva di vera solidarietà sociale. E certo — a tali fini — occorre compiere ogni sforzo per non disperdere e per utilizzare al meglio competenze ed esperienze di grande valore, quali quelle pervenute al Dipartimento di pianificazione attraverso una lunga vicenda (ne sono stato testimone e inizialmente co-artefice) iniziata con il Piano quadro delle attrezzature e il Piano delle Periferie, consolidatasi con il Programma straordinario post-sisma e culminata con la redazione del Prg. È questa la priorità organizzativa da garantire.
Il museo chiude di domenica. Non un piccolo museo, che chiuso sarebbe comunque una ferita, ma la Galleria nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini a Roma, che ospita la Fornarina di Raffaello, l’Annunciazione di Filippo Lippi, il Ritratto di Enrico VIII di Hans Holbein. I custodi non sono sufficienti e non possono più cumulare straordinari, le maggiorazioni festive sono troppo salate e così, dopo aver tenuto sbarrate alcune sale nelle domeniche di primavera, da domenica scorsa si è adottata la soluzione più drastica: niente visite. Tutti fuori. E pazienza che a restare senza Raffaello, ma anche senza Mattia Preti e Pietro da Cortona, fossero tanti turisti stranieri, che in questi giorni si accalcano nelle vie di Roma.
Palazzo Barberini off limits di domenica (anche la prossima e quelle successive) è uno smacco per il sistema dei Beni culturali in Italia. Che va ad aggiungersi agli orari ridotti della Ca’ d’Oro e di Palazzo Grimani a Venezia (i cui custodi sono stati trasferiti per tenere aperte alcune sale delle Gallerie dell’Accademia). Alle tante domus non visitabili a Pompei. Alle sezioni inaccessibili del Museo Nazionale Archeologico di Napoli. Alle difficoltà di tenere aperti altri musei meridionali, come quelli archeologici di Pontecagnano e di Buccino, in provincia di Salerno, da poco restaurati anche con fondi europei. Oppure al paradosso del museo di Baia, in provincia di Napoli, dove le sale sono accessibili solo di mattina perché alcuni restauratori si sono trasformati in custodi.
Una lista dolorosa, e incompleta, effetto dei tagli ai finanziamenti e della drastica riduzione dei custodi. Ma le conseguenze dell’asfissia in cui giace il nostro patrimonio si scontano anche altrove. L’Istituto centrale per i Beni sonori e audiovisivi, l’ex Discoteca di Stato, ha perso la propria autonomia. Poche righe nelle norme della spending review ne hanno decretato il trasferimento presso la Direzione generale dei Beni librari, lasciando nell’incertezza assoluta il direttore e i quasi 40 fra funzionari e tecnici che custodiscono un immenso archivio sonoro (le voci e le musiche che hanno fatto la storia d’Italia, raccolte su oltre 500 mila supporti).
In grave affanno è anche l’Archivio centrale dello Stato a Roma. La goccia che potrebbe far traboccare un vaso colmo da anni è la decisione della direzione di non rinnovare il contratto a cinque giovani precari addetti a recuperare i faldoni nei depositi. Ma, appunto, è solo una goccia. Sullo sfondo c’è la crisi in cui si dimena una delle strutture fondamentali per la memoria di un paese, l’Archivio che in 140 chilometri di scaffalature custodisce le carte in cui quella memoria è consegnata. Falcidiato dai tagli, con un personale sempre più scarso, invecchiato, mortificato eppure tenace nel non abbandonarsi allo sconforto, l’Archivio centrale condivide la sorte di altre strutture della tutela in Italia. Ieri si è svolta un’assemblea dei lavoratori e il direttore, Agostino Attanasio, ha garantito che troverà una soluzione per i cinque giovani precari. I quali lavorano all’Archivio da otto anni, sono stati addestrati a un compito solo apparentemente manuale e invece essenziale per recuperare una media di 70 mila buste l’anno. L’alternativa alla quale aveva pensato la direzione era di rivolgersi all’Ales, una società del ministero che dal prossimo anno dovrebbe essere liquidata: ma, assicurano all’Archivio, il costo sarebbe maggiore rispetto a oggi e per un numero di addetti minore, il che renderebbe ancora più difficile il funzionamento del servizio.
Su Palazzo Barberini si scaricano i paradossi che gravano su tutto il ministero. Per sistemare nell’edificio la Galleria si sono attesi decenni, a causa del braccio di ferro ingaggiato con il Circolo ufficiali che lì era installato. Una battaglia memorabile. Finalmente, nel 2007, Palazzo Barberini ha recuperato la destinazione a museo. Ci sono voluti però altri quattro anni di costosi (22 milioni) e accurati restauri perché le oltre 500 opere, che vanno dai crocifissi duecenteschi ai dipinti neoclassici, fossero ospitate in 37 sale. Ora l’allestimento è di fascinosa bellezza. Ma, a dispetto dell’impegno profuso, un anno dopo la fine dei lavori, si scopre che il personale di custodia è insufficiente. 30 persone su 3 turni sono poche. Con gli straordinari dimezzati si è andati avanti tenendo chiuse la domenica alcune sale. Domenica scorsa i custodi sarebbero stati appena 2. Non c’era altra scelta che chiudere. Fuori al portone sono comparsi i biglietti amareggiati o infuriati di persone venute da tutto il mondo. All’indirizzo elettronico di Palazzo Barberini anche la mail indignata di un professore di Anversa, Willem Lemmens, che lamenta «l’assoluta mancanza di intelligenza delle cose » di chi in Italia gestisce il patrimonio culturale.
Avevo ascoltato il presidente Cappellacci al convegno “Finestra sul paesaggio indetto dal Consiglio superiore della Magistratura nell’Aula magna del Tribunale di Cagliari. Il suo caloroso apprezzamento del PPR guidato da Renato Soru. Mi era sembrato il segno di un deciso cambiamento di orientamento: aveva abbandonato la demagogia becera delle pagine a pagamento pubblicate (a spese del contribuente) sui giornali dell’Isola, o perché improvvisamente illuminato dallo Spirito Santo oppure perchè convinto da una più attenta riflessione o magari dal consenso registrato da quel piano, in quell’aula e nel mondo, pconer i suoi e per le speranze che apriva per una piena messa in valore delle qualità dell’Isola e delle sue coste.. Ingenuità mia, ovviamente.
Oggi possiamo dire che quelle parole d’elogio erano solo fumo negli occhi. Il documento preliminare al nuovo PPR in discussione al Consiglio regionale, benchè si appropri, come ha scritto Sandro Roggio su questo giornale (16 luglio), di molte parole del piano di Soru, ne comporta il completo ribaltamento e conferma il generale cambiamento di rotta che la giunta Cappellacci ha operato: un cambiamento nella visione della Sardegna, nella progettazione del suo futuro, nel ruolo che al paesaggio viene attribuito.
Come ha scritto Monia Melis sul Fatto quotidiano (12 luglio) il nodo fondamentale è la mediazione tra “la tutela delle risorse primarie del territorio e dell’ambiente con le esigenze socio‐economiche della comunità, all’interno delle strategie di sviluppo territoriale e sostenibilità ambientale”. A chi parla di mediazioni tra elementi diversi bisogna ricordare sempre che il risultato della mediazione dipende dalla diversa forza e consistenza dei due elementi tra cui si vuole mediare. E certamente nella Sardegna e nel mondo di oggi, e in particolare nella compagine di cui Cappellacci è espressione, la forza degli interessi economici basati sull’appropriazione d’ogni bene riducibile a merce e suscettibile di arricchirne oggi il possessore è una forza ben maggiore di quella degli interessi volti a riconoscere e tutelare il valore delle qualità che natura e storia hanno costruito, che è espressa dal paesaggio: quelle qualità che costituiscono la base di ogni possibile domani migliore
L’espressa volontà d’inserire o comunque di rendere compatibili col piano paesaggistico, i devastanti provvedimenti per i campi di golf (e annessi) e per il “piano casa”, testimonia il senso della “mediazione”, mentre la proposta di frammentare la tutela della fascia costiera in una molteplicità di vincoli rivela il livello culturale al quale l’intera operazione si colloca.
La speranza di fermare la nuova avanzata dei saccheggiatori della Sardegna e della sua bellezza è ancora intatta per almeno tre ragioni. Innanzitutto, perché nel Consiglio regionale siedono persone e gruppi che non sono tutti devoti alle stesse divinità (e agli stessi interessi) dell’attuale presidente della Regione; si spera che essi comprendano quale sia la posta in gioco e assumano la responsabilità che hanno nei confronti del mondo intero (poiché la bellezza della Sardegna, non è patrimonio solo di quanti oggi vi abitano). In secondo luogo, perché la tutela del paesaggio (e in particolare la paternità del PPR) non è competenza della sola Regione, ma di tutte le istituzioni della Repubblica, e in particolare dello Stato, in assenza del quale il piano paesaggistico non esiste. Infine, perchè in Italia c’è ancora qualcuno che sa far rispettare le leggi. Non vorrei passare dall’ingenuità all’eccessiva malizia, ma forse fu proprio la consapevolezza di quest’ultima ragione che spinse il presidente Cappellacci a pronunciare parole di elogio per il PPR di Soru, nell’Aula magna del Tribunale di Cagliari, nel dicembre scorso.
Un grido di dolore si leva da coloro che amano la natura e vorrebbero preservarla. Una parte di costa abruzzese sta per essere cementificata brutalmente, legalmente, con il solito argomento della crescita e dello sviluppo.
«Abbiamo perso l'opportunità di salvare il rarissimo tratto di fascia costiera non ancora edificato», scrive il Comitato riserva naturale regionale Borsacchio. Al posto della spiaggia «avremo palazzine e stabilimenti e al posto della splendida pineta, strade e piazze coperte di asfalto».
Stiamo parlando di una riserva naturale che si trova nei comuni di Roseto degli Abruzzi e Giulianova con spiagge pulite e pinete intatte chiamato Riserva del Borsacchio. Nata nel 2005, da anni la Riserva è nelle mire di chi vorrebbe costruire megavillaggi e casette a schiera. Eppure, come spiegano quelli di Legambiente, «centinaia di appartamenti costruiti negli ultimi lustri rimangono sempre più desolatamente inutilizzati e invenduti».
«Perché tanta indifferenza del governatore, dei sindaci e di buona parte dei consiglieri regionali e comunali, che pur potendo non lo hanno impedito?» si chiedono preoccupati. «Avranno una sola buona ragione? Purtroppo sembra che l'unica spiegazione del loro comportamento sia di non sapere dire no a chi, con mezzi economici convincenti, impone il solo interesse realmente tute
lato in questa brutta vicenda, lo spessore del suo portafoglio».
«L'area protetta del Borsacchio del Teramano è stata oggetto di numerosi interventi legislativi finalizzati alla modifica della linea di confine per rispondere agli appetiti della speculazione edilizia», commenta Fabio Celommi del Comitato.
I cittadini in maggioranza si sono schierati contro la divisione in due della Riserva che verrebbe a perdere gran parte della sua pineta e le foci del Tordino e del Borsacchio, per cui si avrebbe «una Riserva del Borsacchio senza il Borsacchio medesimo», come dice Pio Rapagnà che da anni difende coraggiosamente le ragioni della comunità... Ma come al solito, gli appetiti degli speculatori si dimostrano più forti della volontà popolare.
C'è chi si riempie la bocca della magica parola «sviluppo». Ma è cieco e sordo chi pensa che lo sviluppo consista solo nella moltiplicazione delle case e nelle gettate di asfalto. Oppure è in malafede e usa la comoda parola per nascondere le ingordigie di grossi investitori.
Ormai lo sanno tutti: lo sviluppo non sta nel costruire su ogni angolo di costa rimasto intatto, ma al contrario nel preservare la bellezza, l'integrità dell'ambiente che oltre a proteggere il territorio da allagamenti, slavine, desertificazione, dà vita al turismo e quindi porta anche guadagni. I turisti cercano l'ombra degli alberi, la pace di una spiaggia pulita, un mare non inquinato. E la gente del luogo lo sa. Sono gli speculatori che fingono di non sapere. E gli amministratori pubblici che usano in malafede la parola «sviluppo».
Il ministro per i Beni Culturali Lorenzo Ornaghi ha scritto al «Corriere della sera» per rispondere ad una doppia lettera aperta in cui Italia Nostra ed alcuni storici dell’arte (tra cui il sottoscritto) gli chiedono spiegazioni sulla mostra del Rinascimento fiorentino a Pechino e sulla designazione del filosofo del diritto Francesco De Sanctis alla presidenza del Consiglio superiore dei beni culturali.Nel breve testo, tuttavia, di risposte non ce ne sono. Il ministro non parla della sicurezza delle fragilissime opere d’arte spedite in giro per il mondo come agenti di commercio (Italia Nostra chiedeva di sapere «quante opere vengono prestate ogni anno, quali e quante opere sono tornate danneggiate, quale è stato il “ritorno” in termini economici e di prestigio culturale»), né si degna di spiegare perché ha messo un filosofo del diritto nel ruolo che fu di Federico Zeri e Salvatore Settis.
In compenso, sotto il belletto un po’ avariato di un’involuta prosa curiale cova un veleno non meno curiale: Ornaghi ne fa una questione di stile. Il «fraseggio» della lettera di Italia Nostra e i valori su cui essa si fondano gli paiono «ideologicamente grossolani». Se preoccuparsi per l’incolumità del patrimonio è «grossolano», ci si chiede quali siano i parametri di giudizio del massimo tutore (per fortuna pro tempore) di quello stesso patrimonio: non dimettersi dalla carica di rettore della Cattolica infischiandosene dei mille conflitti di interesse deve apparire ad Ornaghi una mossa ideologicamente raffinata; designare al vertice del Consiglio superiore dei Beni culturali l’ex rettore di un’altra università privata senza alcuna competenza deve sembrargli raffinatissimo; nominare nel consiglio di amministrazione della Scala il proprio assistente personale dev’essere per lui un vero vertice di raffinatezza.
Ma la lettera di Ornaghi tocca l’apice laddove ‘rettifica’ una frase della lettera di Italia Nostra relativa alla nomina di Marino Massimo De Caro alla direzione della Biblioteca dei Girolamini: «non ho mai nominato De Caro a un tale incarico», precisa, risentito, il ministro. Ma si guarda bene dall’aggiungere che De Caro (oggi in carcere per averla svaligiata, quella biblioteca) fu nominato grazie ad un improvvido nulla osta del suo ministero; che un’ispezione ministeriale ai Girolamini fu insabbiata per ragioni su cui la magistratura sta indagando; e soprattutto sul fatto che egli ha incluso De Caro tra i propri consiglieri personali. Tutti atti che gli devono apparire così poco «grossolani», anzi così fini, da non doversene minimamente scusare.
Fino ad oggi il ministro ha detto di aver confermato De Caro perché parte del ‘pacchetto’ ereditato da Giancarlo Galan (il che non è comunque vero, perché due di quel gruppo furono espunti), lasciando intendere di non aver avuto sostanzialmente alcun rapporto con il detentore dell’imbarazzante primato di essere il primo consigliere del ministro dei Beni Culturali finito in carcere per aver saccheggiato una biblioteca statale.Ma a giudicare da quanto si legge sull’ultimo numero dell’Espresso, le cose non stanno proprio così. Il 25 febbraio scorso De Caro comunica al suo mentore Marcello Dell’Utri (allora momentaneamente espatriato in America latina, in attesa del verdetto della Cassazione sui suoi rapporti con la mafia) che i senatori del Buongoverno (il gruppo di Dell’Utri coordinato dallo stesso De Caro) hanno presentato un subemendamento per esentare dall’Imu gli edifici storici di proprietà della Chiesa. Il consigliere De Caro può anche riferire al senatore che Ornaghi (ministro-e-rettore-della-Cattolica) «è contentissimo» (strano, vero?). Memorabile il commento di Dell’Utri che, con un piede nella latitanza, benedice l’operazione: «È cosa di giustizia, sottoscrivo».
A legger tutto ciò si capisce, finalmente, perché il ministro Lorenzo Ornaghi scriva al «Corriere» che le preoccupazioni di Italia Nostra sarebbero «ideologicamente grossolane»: egli coltiva frequentazioni assai più pragmatiche e pratica conversazioni assai più raffinate.
Su Roma una nuova pioggia di case: la campagna nelle mire dei palazzinari
Due mila ettari di terreno lasceranno il posto a 66 mila case. Merito degli "ambiti di riserva", aree selezionate dal Comune per circa 200 mila abitanti. Tanti quanti quelli di Salerno o Brescia. Legambiente denuncia che nella Capitale già esistono più di 250 mila appartamenti vuoti. Alemanno promette che questi alloggi, fuori dal Piano Regolatore del 2008, saranno in parte destinati all'edilizia popolare. Ma è necessario costruire ancora?
Il titolo è burocraticamente innocuo: "Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata". Il senso è un altro. Su Roma possono abbattersi 66 mila nuovi alloggi, cioè 23 milioni di metri cubi di appartamenti che si piazzeranno su 2 mila 400 ettari di campagna romana. Le lottizzazioni sono sparse per ogni dove nelle "erme contrade", come Giacomo Leopardi chiamava nella Ginestra la cintura agricola intorno alla città - e "erme" vuol dire solitarie.
Una campagna dove, nonostante tante aggressioni, si fa ancora molta agricoltura, dove fitta è la trama archeologica e altissimi i valori paesaggistici. Se in ogni appartamento andranno a vivere dalle due alle tre persone, ecco profilarsi, dentro il territorio comunale, una città dai 130 ai 200 mila abitanti. Grande quanto Salerno o quanto Brescia. Che viola persino il Parco dell'Appia Antica, ai bordi del quale potrebbe sorgere un bel quartiere con 3 mila abitanti. L'allarme è alto. Sono mobilitate le associazioni ambientaliste, i comitati di cittadini preparano barricate. Nei giorni scorsi si è svolto un sit-in davanti al Campidoglio. È intervenuto anche l'Istituto nazionale di urbanistica (Inu). E due deputati di Pd, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, hanno presentato un'interrogazione parlamentare.
Ma, prima di tutto: c'è bisogno d'altro cemento a Roma? Il Piano regolatore, approvato appena quattro anni fa dalla giunta di Walter Veltroni, prevede edificazioni per 70 milioni di metri cubi, un diluvio di calcestruzzo che sta inondando di gru, di villette e di palazzi la capitale in tutte le direzioni - la terribile "macchia d'olio" descritta cinquant'anni fa da Antonio Cederna -, ma che non trova giustificazioni nella crescita demografica: l'ultimo censimento inchioda la popolazione residente a 2 milioni 600 mila abitanti, appena 50 mila in più rispetto al 2001. I 66 mila nuovi alloggi sono proprio nuovi, cioè sono oltre quelli del Piano, molti dei quali appena costruiti giacciono lì, invenduti, a fare la muffa e a impensierire le banche che con i costruttori si sono esposte enormemente e ora vedono in pericolo i capitali anticipati, prefigurando scenari da bolla immobiliare spagnola. Si attendono i dati dell'ultimo censimento, ma nel 2001 risultavano 193 mila appartamenti inutilizzati che, secondo molti, è una cifra molto sottostimata. Legambiente calcola almeno 250 mila appartamenti vuoti a Roma.
Uno dei requisiti fissati dal Comune è proprio che i nuovi alloggi vengano costruiti in suoli che il Piano riserva come agricoli. Molto esplicita la relazione del Dipartimento urbanistica del Comune di Roma: "Le aree selezionate andranno ad aggiungersi agli Ambiti di Riserva a trasformabilità vincolata già individuati dal Prg vigente". Insomma è come se il Piano, abbondantemente sovradimensionato e sottoutilizzato, fosse già carta straccia. Inoltre, fa notare l'Inu, non vengono attuati 35 Piani di Zona già approvati per realizzare case popolari, cioè case di proprietà pubblica.
Per Gianni Alemanno e per il suo assessore all'urbanistica, Marco Corsini, arriva in porto una promessa fatta ai romani subito dopo l'insediamento in Campidoglio nel 2008 per fronteggiare l'emergenza abitativa, molto alta nonostante le troppe case che si costruiscono ma che restano inaccessibili ai ceti più deboli. I 66 mila appartamenti servono, dice il sindaco, perché destinati in parte ad housing sociale. Che vuol dire case ad affitti agevolati, realizzate da privati i quali ottengono in cambio licenze per costruire altre case da vendere a mercato libero. Sei euro al metro quadrato, assicurano al Comune, l'importo di un affitto agevolato, 420 euro per una casa di 70 metri quadrati, due stanze, doppio bagno, cucina e soggiorno. Ma su questa materia non esistono norme di legge, tutto dipenderà dalle convenzioni fra Comune e costruttori.
Appena eletto, Alemanno lanciò un bando per dare casa, diceva, a chi casa non se la poteva permettere - giovani coppie, single, studenti fuori sede, famiglie a basso reddito. Ma neanche poteva accedere alle liste per vedersi assegnato un alloggio popolare, che a Roma come in tutta Italia si costruiscono sempre meno. Sono arrivate 334 proposte. Una commissione le ha valutate e ne sono state selezionate 160 (che potrebbero forse scendere a 135: ma sono pur sempre 20 milioni di metri cubi). Il Comune sostiene che si tratta solo di una ricognizione. Mancano passaggi fondamentali, primo fra tutti l'approvazione di una variante urbanistica in Consiglio comunale, che ha tempi molto più lunghi di quelli che mancano alla fine della legislatura (primavera 2013). Ma non sfugge alle associazioni ambientaliste e ai comitati quanto la pubblicazione della lista sul sito del Comune generi aspettative sfruttabili elettoralmente, faccia sentire i proprietari selezionati in possesso di diritti e soprattutto inneschi meccanismi di valorizzazione fondiaria (un terreno edificabile vale enormemente di più rispetto a uno agricolo). Circolano depliant di cooperative edilizie, se ne parla sui social network.
Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la mappa degli "ambiti di riserva" che compare in rete è un florilegio di puntini neri sparpagliati dovunque, quasi un fiotto di coriandoli lanciati per aria e piovuti al suolo, senza nessuna logica di pianificazione. Senza nessun supporto del trasporto pubblico. Basti pensare che una delle prescrizioni imposte dal bando del Comune è che il terreno sul quale costruire sia a non più di 2 chilometri e mezzo da una fermata dell'autobus. Che comunque deve essere raggiunta in macchina.
I tagli dei terreni sono vari. Si va dai 2 ettari e poco più a Tor Vergata, dove si possono realizzare 82 appartamenti ai 90 ettari complessivi della società agricola Cornacchiola, dove di appartamenti se ne possono fare 2.500. Questo terreno, diviso in due parti, è il più grande degli insediamenti previsti in tutta Roma, ma non è solo questo il primato di cui può fregiarsi. Questi 90 ettari si stendono proprio al confine con il Parco dell'Appia Antica, zona con vincoli di ogni genere, archeologici e paesaggistici e che, nonostante tutte le norme impongono debba restare integra, potrebbe essere lo scenario di stupefacente bellezza sul quale affacceranno finestre, balconi e terrazzi di oltre cinquemila persone. Un vero sfregio per la Regina viarum, che si aggiungerebbe agli abusi che la vilipendono da decenni. Ma sono picchiettate di lottizzazioni zone adiacenti altri parchi, come quelli di Veio, della Marcigliana o la Riserva del Litorale.
"Dal bando per l'housing ci aspettavamo un disastro", sbotta Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio, "ma i risultati che Alemanno vorrebbe approvare sono peggiori di qualsiasi incubo. L'associazione dei costruttori aveva chiesto l'1 % del territorio e Alemanno ne elargisce quasi il 2 %. Una brutta ipoteca sul futuro, visto che il sindaco non potrà mai vedere attuata prima delle elezioni l'assurda variante generale al Piano Regolatore scritta sulla base dei risultati di un bando, ma rischia di generare diritti edificatori che non ci toglieremo più". Molto duro è anche il giudizio di Italia Nostra che si dice "assolutamente contraria a tale iniziativa perché porta ad una dispersione caotica dei nuovi insediamenti residenziali che non rispondono ad alcun progetto di città ma sono determinati casualmente in base alle offerte della proprietà fondiaria. Prima di pensare a nuove urbanizzazioni dell'Agro romano, sarebbe piuttosto necessario utilizzare le aree e i fabbricati dismessi o sottoutilizzati da censire immediatamente per trovare soluzioni alternative e più articolate all'emergenza abitativa".
A Roma Nord, nel XIX Municipio, calano 29 insediamenti, per un totale di 454 ettari e quasi 15 mila appartamenti. Un acquazzone cementizio anche nel confinante XX Municipio, 357 ettari compromessi da oltre 10 mila appartamenti. In questi due Municipi risiede il Parco di Veio, da dove sono arrivati alcuni capolavori archeologici ora custoditi nel Museo di Villa Giulia. Altri insediamenti per oltre 110 ettari si annunciano nella zona di Porta di Roma, sempre a Nord della città, dove sono stati costruiti negli ultimi sei anni quasi 3 milioni di metri cubi e dove la sera, se ci si aggira fra le palazzine tirate su da Caltagirone, dai fratelli Toti e da Mezzaroma, i grandi nomi dell'edilizia romana, sono pochissime le finestre illuminate in un desolato panorama di case vuote. In pericolo le aree verdi di Selva Candida e Villa Santa, la Cecchignola, Colle della Strega. E altre palazzine potrebbero prendere il posto degli ulivi secolari nei 30 ettari di una tenuta a pochi metri da Villa Segni, un edificio storico sull'Anagnina. Anche qui vincoli paesaggistici e vincoli archeologici non sono bastati: questo terreno è finito, insieme agli altri 159, nella lista che potrebbe sconvolgere gli assetti già molto precari di Roma.
L’intera inchiesta con video, interviste, documenti su repubblica on-line
Nuovo Ppr: è più impudente la presentazione del contenuto. Dopo i ripetuti annunci qualcosa si comincia a capire: ma la conclusione del primo impegno di Berlusconi (e quindi di Cappellacci) con gli elettori sardi è ancora una promessa arruffata. Di un centinaio di pagine di illustrazione delle intenzioni, più della metà riportano le linee guida del 2005, inutilmente. Perché quel documento, interpretato da chi all'epoca non lo ha condiviso, ha esaurito la sua funzione dando vita al Ppr, e questo, caso mai, meriterebbe di stare in premessa.
Il resto ha un profilo vago, punteggiato di formule un po' apodittiche e retoriche (“Il paesaggio dell'isola è di tutti i sardi”) e un po' scontate e generiche (“Conoscere, governare e valorizzare per una progettazione consapevole dei paesaggi”). Ricorre il ritornello minaccioso: viva “l'approccio dinamico al paesaggio”, contro quello statico, ovviamente riprovevole. L'incitamento futurista è a non essere spettatori renitenti alla costruzione di nuovi paesaggi – senza dirci quali (ma noi che ci guardiamo attorno e abbiamo fantasia riusciamo a immaginarceli i paesaggi che hanno in mente).
Ci siamo assuefatti allo stile del solito Cappellacci, riluttante a dire chiaramente le intenzioni, che rinnega le spacconate della campagna elettorale e abusa delle parole dell'ambientalismo intransigente facendosene scudo, manipolandole. Come la destra fa ordinariamente con riferimento a principi fondanti della convivenza – "democrazia", "libertà", "giustizia" – svuotandoli di senso.
Il succo del documento in una decina di pagine. La trovata: si prendono le disposizioni del piano casa – le norme intruse sulla pianificazione paesaggistica – e si trasferiscono, insieme a quelle sul golf, nel Ppr da domare. Poco importa se le leggi da innestare sono impugnate dal governo e per le quali è stata depositata una proposta di legge di consiglieri della maggioranza (n.378/2012) per rimediare ai difetti di costituzionalità.
L'idea di fondo è quella di abbassare il livello di tutela dappertutto e di ogni componente del paesaggio.
Ma la variante più pericolosa e che supporta il resto – sempre in chiave futurista – riguarda la “fascia costiera”, concentrazione di paesaggi preziosi (che è bene immaginare statici o pressoché invariabili) e di interessi molteplici che li insidiano da mezzo secolo. Per la “fascia costiera”, disciplinata in modo univoco nel Ppr 2006, è previsto un declassamento. Smette di essere bene paesaggistico per assumere il titolo fantastico “sistema ambientale ad alta intensità di tutela”. Un bel titolo (potrebbe essere di un'opera di Boccioni) utile esclusivamente a togliere di mezzo quell'altro molto più impegnativo, riferito al Codice dei beni culturali del 2004, ma dimenticando che serve per questo la concertazione con lo Stato.
Nella fretta di rinominare – a scapito della completezza – non si dà conto delle diverse valutazioni alla base di questa nuova scelta, molto distante dalla tutela del paesaggio insistentemente evocata nell'intervento del presidente. Alla “fascia costiera”, identificata nelle carte, è stato già attribuito un valore grazie a un complesso di studi, per cui sarebbe doveroso precisare le ragioni tecniche della retrocessione. Nè basta la parola di Cappellacci, secondo cui tutto si regge perché frutto del processo partecipativo “Sardegna nuove idee”. O perché c'è bisogno di alimentare la stessa bolla immobiliare che ha inguaiato la Spagna.
L' approvazione del documento, ambiguo e reticente, corrisponde a una delega alla Giunta che potrà interpretarlo molto liberamente. Per questo serve svelarne la doppiezza, spiegando la contraddizione chi si propone insieme fautore di “alta intensità di tutela” e custode di interessi palazzinari.
Italia Nostra non si unisce al coro di quanti ritengono che la revisione-cancellazione del PPR rappresenterà il motore dello sviluppo dell’economia sarda. Ritiene anzi che il processo di cancellazione della pianificazione paesaggistica regionale metterà ancora più in crisi la traballante economia della Sardegna.
Assistiamo all’ennesimo tentativo di “revisionare” il PPR giustificando tale scelta con slogan privi di senso e di fondamento economico. Continuare ad affermare che costruire inutili case lungo le coste dell’isola potrà rilanciare l’economia, significa non aver capito che proprio la bolla immobiliare è tra le principali cause di questa crisi economica. La distruzione delle coste, funzionale agli interessi di qualche imprenditore privo di scrupoli, darà il colpo di grazia alla stessa industria turistica della Sardegna.
Il Consiglio Regionale si accinge in questi giorni a derubricare la fascia costiera da bene paesaggistico a terra di conquista, trasformando le aree agricole in terreni marginali al servizio della nuova speculazione immobiliare. La “revisione” del vincolo paesaggistico presente sui colli di Tuvixeddu e Tuvumannu, inoltre, renderà nuovamente edificabili le aree attualmente tutelate.
Il Ministero dei Beni Culturali, parte fondamentale del procedimento, non può e non deve condividere l’annientamento delle misure di protezione esistenti.
Per rappresentare le “ragioni del paesaggio”, forse dimenticate da quanti si apprestano a demolire il più avanzato progetto di pianificazione paesaggistica realizzato in Italia, l’Associazione ha reiterato la richiesta, presentata più volte all’Assessorato Regionale all’Urbanistica e agli organi periferici del Ministero dei BBCC, di partecipazione alle riunioni di valutazione tecnica indette ai sensi degli articoli 143 e 156 del Codice Urbani e dell’articolo 49 delle norme tecniche di attuazione del PPR.
Italia Nostra ha, infine, ricordato che il mancato coinvolgimento dell’Associazione, in assenza di motivato diniego, rappresenta motivo di illegittimità degli atti adottati dalla Regione e comporta un concreto rischio di danno erariale, considerato che per il procedimento di revisione del PPR sono stati stanziati ben 14 milioni di euro.
Cagliari, 12 luglio 2012
La chiusura di Cinecittà e la trasformazione degli storici studi nell’ennesima speculazione fondiaria forniscono la migliore chiave interpretativa del profondo tunnel in cui è piombata l’Italia. Il primo elemento riguarda il disvelarsi della nefandezza dell’ideologia dellaprivatizzazionea tutti i costi, che ha dominato la cultura di questi due ultimi decenni. Non che non ci fosse il bisogno di dismettere pezzi di attività che non attengono a una moderna concezione dello Stato. Il problema è che in questo caso, come in quello della Telecom, delle Autostrade, dell’Alitalia e tanti altri ancora, la privatizzazione è servita per creare un monopolio privat o per lanciare nuovi“capitani coraggiosi” che si sarebbero poi rivelati come modesti speculatori. Nel 1997 la proprietà di Cinecittà passa a una holding guidata daLuigi Abete, famiglia di imprenditori romani con grandi presenze nel sistema creditizio. Non si fanno investimenti e i gloriosi studi cinematografici declinano verso un inevitabile fallimento.
E qui arriva la secondo pilastro su cui questa irresponsabile classe dirigente ha pensato e pena di trovare la base per il futuro italiano: laspeculazione fondiaria. Un futuro dal cuore antico se si pensa che la storia dell’Italia unita – a iniziare dallo scandalo della Banca Romana del 1887-88 – è stato caratterizzato da ignobili speculazioni e scempi del territorio. I due edifici gemelli di piazza Esedra a Roma, ad esempio, versavano proprio negli stessi anni della privatizzazione di Cinecittà in condizioni di degrado. Il maggior industriale alberghiero italiano, Boscolo, si candida per trasformarne uno in un albergo di prestigio ma pretende un regalo in termini speculativi: aumentare l’altezza dell’edificio di un piano per costruirvi piscina e spazi comuni. L’amministrazione comunale guidata daFrancesco Rutelliaccolse entusiasticamente la proposta e così la prima piazza della Roma piemontese che ebbe vita da un concorso internazionale vinto dall’architetto Koch nel 1888 è stata sfregiata per sempre.
Si perdonobellezza e memoriain cambio di modesti risultati. Come a Cinecittà, dove un’attività di oltre settanta anni di produzione aveva creato una rete importante di piccole aziende specializzate, di tecnici di grande bravura e professionalità; di maestranze in grado di dare soluzione alle richieste dei più grandi registi del mondo. Questa straordinaria cultura del lavoro e della qualità delle risorse umane viene cancellata per creare l’ennesima (Roma ha otre 100 mila posti letto in alberghi) struttura ricettiva in cui lavoreranno al gradino più basso della specializzazione, addetti alle pulizie e inservienti.La ricchezza dei saperi e dei mestieri sacrificata alla speculazione. E qui si apre l’ultimo capitolo dell’incapacità dellaclasse dirigenteitaliana a delineare un futuro possibile. La monocultura del mattone ha funzionato per oltre un secolo, ma oggi non ha più alcuna possibilità. Gli operatori più avveduti e le ricerche di settore più autorevoli ci dicono che il numero degli alloggi invenduti in ogni parte d’Italia rischia di creare unabolla immobiliarecome quella che ha travolto l’economia spagnola e che sta sfiorando persino la solida Olanda. A Roma le stime più prudenti parlano di centomila alloggi invenduti, ma basta girare per l’intero paese per vedere una selva di alloggi vuoti, di capannoni abbandonati e di cartelli con la scritta “vendesi”.
Ma se esiste questa situazione di squilibrio di mercato, perché i dirigenti di Cinecittà o delle tante operazioni speculative che punteggiano il paese danno vita a nuove iniziative edilizie? Se non c’è mercatonon si vende: quindi il cemento si dovrebbe fermare. Invece non si ferma: la risposta sta nella condizioni strutturali. Le leve dell’economia urbana sono nelle mani delle grandi istituti di credito che negli anni scorsi si sono esposti oltre misura nel finanziare la comoda speculazione edilizia. Devono oggi rientrare a tutti i costi delle loro esposizioni: ecco il motivo del progetto Cinecittà o dellascandalosalegge sugli “stadi” approvata ieri alla Camera dei Deputati che consente alle società di calcio, indebitate fino al collo con le banche, di costruire in deroga rispetto a qualsiasi regola urbanistica, alberghi, centri commerciali e quant’altro. Come a Cinecittà. Nella guerra senza quartiere che caratterizza questa convulsa fase dicrisi economicae finanziaria ciascuno cerca di scamparla o di ridurre le perdite. Se si perde la storia produttiva, se si cancella una città intera o un’economia intera non interessa più. Lo sguardo di quella che fu classe dirigente si ferma al breve periodo, a speculazioni che denunciano soltanto un tragico vuoto di prospettive.
La gestazione è stata lunga, e non poteva essere altrimenti. Passano gli anni ma in Sardegna il piatto forte resta sempre il Piano paesaggistico regionale e la sua revisione. Ingredienti: ambiente e cemento. Attorno è battaglia, politica ed economica, tra chi teme la speculazione edilizia lungo le coste e nelle campagne e chi da sempre ha contestato lo strumento voluto dalla giunta dall’ex governatore Renato Soru nel 2006 perché troppo restrittivo. Qualche giorno fa la giunta di Ugo Cappellacci (Pdl) ha dato l’ok alle linee guida, e domani verranno illustrate davanti al Consiglio regionale riunito in seduta straordinaria. I tempi sono maturi: il nuovo Piano paesaggistico era una delle voci più importanti anche in campagna elettorale e già in autunno era stata diffusa una bozza che allentava i vincoli. La discussione di domani, non obbligata visto che l’atto è amministrativo, si annuncia già incandescente, con una maggioranza incrinata. Ma in ogni caso le decisioni definitive spetteranno alla giunta.
I punti fondamentali.
Nelle linee guida volute dalla giunta Cappellacci cambia l’impianto: se finora la costa sarda è considerata “bene paesaggistico” nel suo complesso, secondo le linee guida potrebbe diventare “sistema ambientale ad alta intensità di tutela”. Da garantire con alcune misure di salvaguardia, caso per caso. Quindi meno vincoli globali ma “regole più precise e quindi più trasparenti”, nonché “la maggiore qualità della pianificazione e la massima cura delle peculiarità paesaggistico‐ambientali”, si legge nel documento.
Tre le parti fondamentali: la prima illustra il Ppr attuale, la seconda fa riferimento al cosiddetto Piano casa 1 (all’articolo 11, legge regionale 4 del 2009) che prevede la revisione e nell’ultima, appunto i principi. Per le campagne, in virtù anche dell’ultimo Piano Casa (legge regionale 21, n. 11) si prevede una sorta di ricognizione dell’esistente “in contrasto con il frazionamento” che, tradotto, potrebbe significare sanatoria di chi ha costruito nelle campagne. Questi gli intenti del Ppr: “Analizza e regola il fenomeno dell’edificato urbano diffuso, costituito da edifici residenziali, localizzati nelle aree agricole limitrofe alle espansioni recenti dei centri maggiori”. Aree in cui spesso si è costruito senza regole, abusivamente, attorno all’hinterland di Cagliari, ma anche sulla costa orientale, in Ogliastra, anche a pochi passi dal mare. E quest’estate si è assistito alle prime demolizioni delle case fantasma, secondo quanto disposto dalla Procura di Lanusei.
Altro nodo fondamentale è la mediazione tra “la tutela delle risorse primarie del territorio e dell’ambiente con le esigenze socio‐economiche della comunità, all’interno delle strategie di sviluppo territoriale e sostenibilità ambientale”. E si fa riferimento sia ai già contestati Piani casa, sia alla legge sul golf (n. 19, 2011) che prevedeva 20 nuovi campi in tutta l’Isola con altrettanti alberghi e strutture ricettive, soprattutto vicino all’agognata costa. Legge impugnata dal governo su cui dovrà esprimersi la Corte costituzionale. In mezzo c’era stata addirittura una campagna pubblicitaria istituzionale della Regione sui due principali quotidiani sardi che spiegava, con linguaggio e metodo messo in discussione anche dall’Ordine dei giornalisti, i motivi delle modifiche. Come la “libertà di chiudere una veranda” o “aprire una stanza in più”. Un uso dei soldi pubblici considerato “partigiano” dai consiglieri di opposizione.
Le reazioni. Alcuni sono già sul piede di guerra. Per Luciano Uras, capogruppo Sel in consiglio regionale, le linee guida ricevute in questi giorni “legittimano quanto è stato prodotto in questi anni, i vari Piani casa e la legge sul golf”. Non solo, i tempi potrebbero allungarsi ancora per anni e la Sardegna, così, sarebbe di nuovo di fronte a un Far West, senza regole. Si riferisce ai vari Piani urbanistici comunali, quasi tutti non in linea con il Ppr, materia calda in tanti centri, sul mare ma non solo, su cui si concentrano gli interessi e per cui sono cadute alcune giunte (Alghero). Anche il vicesegretario regionale dell’Italia dei valori, Salvatore Lai, condanna le nuove linee guida e teme una strategia di corto respiro: “In Sardegna si è costruito già troppo – afferma – e adesso non è possibile né allentare i vincoli che nella passata legislatura hanno impedito l’assalto alle coste, né concedere le nostra campagne alla speculazione edilizia come vorrebbe fare il centrodestra”.
In una lunga intervista alla Nuova Sardegna scende di nuovo in campo il principale sponsor del testo in vigore, Renato Soru, ora consigliere Pd. Difende il suo Ppr e parla anche lui di “nuovo assalto alle coste” e di “cementificazione delle campagne”. E difende lo strumento delle deroghe, sotto accusa da parte della maggioranza di centrodestra perché ha dato il via libera ad alcuni interventi con volumetrie ingombranti. Altri del Pd chiedono comunque una nuova legge urbanistica. Ognuno al posto di combattimento, insomma.
Dall’altra parte Matteo Sanna (Fli), presidente della commissione Urbanistica, storce il naso: “Sono accuse ridicole – dice al telefono – nel documento non si parla né di metri quadri, né di metri cubi. C’è solo la filosofia. Il vecchio piano non è tutto da buttare, e non sarà stravolto. Saranno corrette alcune storture. I comuni devono diventare protagonisti e poi bisogna essere coraggiosi: non si può dire che una cosa è bella o brutta perché è a 300 metri dal mare o a due chilometri”. Nessuna distruzione, assicura il consigliere dell’Mpa, Franco Cuccureddu, ex sindaco di Castelsardo: “ma attenzione all’esistente e a una visione d’insieme e soprattutto ai beni identitari”. Intanto la Cna Sardegna con un certo tempismo diffonde i dati del settimo anno di crisi per l’edilizia isolana, che registra un meno 36 per cento.
Avevo ascoltato il presidente Cappellacci al convegno Finestre sul paesaggio indetto dal Consiglio superiore della Magistratura nell’Aula magna del Tribunale di Cagliari. Mi era sembrato quasi eccessivo il suo caloroso apprezzamento del PPR guidato da Renato Soru. Mi è sembrato il segno di un deciso cambiamento di orientamento: aveva abbandonato la demagogia becera delle pagine a pagamento pubblicate (a spese del contribuente) sui giornali dell’Isola, o perché improvvisamente illuminato dallo Spirito Santo oppure perchè convinto da una più attenta riflessione sul consenso registrato, in quell’aula e nel mondo, a elogio e difesa del piano. Ingenuità mia, ovviamente. Ma credo che sarà utile, a mia discolpa, pubblicare su eddyburg le poche (ma calorosissime) frasi che il Presidente pronunciò in quella sede. A pensarci adesso, mi viene il dubbio che ad esprimere quelle parole lo abbia spinto , più dei moventi che gli attribuivo, la severità dell’Aula; ma non vorrei trascolorare dall’ingenuità alla malignità.
Mi esprimerò sul documento in discussione quando avrò potuto esaminarlo con attenzione. Ma quello che i comunicati e i giornali hanno rivelato è sufficiente a chiarire il cambiamento generale di rotta (rispetto al PPR vigente e alla sua matrice culturale) nella visione della Sardegna, del suo futuro, e del ruolo che la tutela del paesaggio può svolgere. Come ha scritto Monia Melis su il Fatto quotidiano « nodo fondamentale è la mediazione tra “la tutela delle risorse primarie del territorio e dell’ambiente con le esigenze socio‐economiche della comunità, all’interno delle strategie di sviluppo territoriale e sostenibilità ambientale”. A chi parla di mediazioni tra oggetti diversi bisogna ricordare sempre che il risultato della mediazione dipende dalla diversa forza e consistenza dei due oggetti. Ed è indubbio che nella Sardegna e nel mondo di oggi, (e in particolare nella compagine di cui Cappellacci è espressione) la forza degli interessi economici basati sull’appropriazione d’ogni possibile bene riducibile a merce e suscettibile di arricchirne oggi il possessore è ben maggiore della forza degli interessi volti a riconoscere e tutelare il valore delle qualità che natura e storia hanno costruito, che è espressa dal paesaggio, e costituiscono la base di ogni possibile futuro
Non solo Pompei. E non solo Sud. La crisi dei beni culturali nel nostro Paese va oltre i nomi eclatanti e le aree geografiche. Affonda i grandi siti archeologici e le città d’arte . Colpisce al cuore la nostra cultura. Che si disgrega, giorno dopo giorno, come le rovine di Pompei. L'elenco delle cose che non vanno è lungo: musei chiusi, aree archeologiche segnate dai crolli, opere d'arte colpite dall'incuria, progetti avviati e mai finiti. Difficile sperare in un'inversione di tendenza in un'Italia che destina al settore 1,4 miliardi, lo 0,19 per cento del Pil. Meno di un terzo degli altri paesi europei.
L'allarme è generale ed arrivato persino a Torino, ex città industriale che ha puntato molto sulla riconversione nella cultura. Il 18 marzo scorso, alla chiusura della Galleria Sabauda destinata alla Manica nuova di Palazzo reale, «caldo e umidità soffocanti erano all'origine degli scollamenti che tutti abbiamo visto nelle pezzette messe in fretta sulle tele di una collezione in rovina» racconta uno storico dell'arte del calibro di Enrico Castelnuovo. Sotto accusa finisce il disegno di lasciare le vecchie sale al Museo egizio, secondo alcuni dettato dalla fretta degli sponsor e dalla subalternità dello Stato. La soprintendente Edith Gabrielli al telefono nega tutto, il direttore regionale, Mario Turetta minimizza ma non nega: «Il problema è durato un giorno e mezzo, non ha provocato danni ed è stato subito risolto».
A volte, poi, la cattiva tutela è quasi peggio della natura che torna a essere matrigna . Il terremoto in Emilia danneggia pesantemente chiese e campanili. Che poi vengono rasi al suolo per ragioni di sicurezza. Secondo gli esperti , però, con troppa precipitazione. A Poggio Renatico e Buonacompra la campana adesso tace. Sparite anche le ciminiere di Bondeno e del Molino Parisio a Bologna. «Dopo il terremoto nel reggiano del 1996, i campanili di Correggio, Villa Sesso, Bagno in Piano, simili a quello di Buonacompra, vennero messi in sicurezza e salvati. Lo smantellamento della tutela sta provocando un olocausto del patrimonio: il ministero non c'è più, al suo posto c'è la Protezione civile» spiegano Elio Garzillo e Pier Luigi Cervellati di Italia Nostra.
Quando non c'è il terremoto basta l'uomo (e le poche risorse a disposizione) a fare danni. A Venezia, tanto per dire, la Galleria dell’Accademia è aperta. Tutto bene? Insomma, perché Ca’ d’Oro e Palazzo Grimani, sono a orario dimezzato per mancanza di personale. Senza dimenticare l’acqua che, quando piove, lambisce i dipinti di Brera a Milano. O i Grandi Uffizi a Firenze, il cantiere infinito in cui si è esercitata la «cricca» P4 dei vari Balducci e Anemone.
A Roma a soffrire particolarmente è l'area archeologica centrale. Lo scorso autunno le piogge hanno fatto esondare le fogne che finiscono abusivamente nell’antichissima Cloaca Massima , finche hanno inondato il Foro. Millenni di storia tra i liquami. Al Palatino, d'altro canto, rimangono aree tutte da investigare e altre che possono essere spazzate via da una frana da un momento all'altro. «I restauri richiederebbero molto di più dei 30 milioni arrivati» spiega Maria Grazia Filetici, responsabile di opere di consolidamento ispirate alle tecnologie antiche e autrice di un appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per la dignità del lavoro nel settore (a cominciare dagli stipendi) rimasto inascoltato.
A volte, anche se raramente, il problema non sono le risorse: «È la carenza di tecnici che impedisce la capacità progettuale. Si rischia di perdere finanziamenti, di mandare avanti progetti superati o di demotivare i privati» racconta Giuseppe Morganti che scava nella Domus Tiberiana, sul Palatino . In effetti l'area è piena di cantieri avviati e mai finiti, di zone restaurate di nuovo a rischio per mancanza di manutenzione, senza parlare del degrado delle uccelliere Farnese. Altro punto dolente è l'Archivio centrale dello Stato: praticamente la memoria della nazione. Una mostra di qualche tempo fa ha «svelato» depositi semi abbandonati, con intere zone funestate dalle infiltrazioni di acqua e con molti documenti in deperimento. L'Archivio è in affitto dall'Ente Eur, proprietario dello stabile: nel 2012 la spesa sarà di 7 milioni di euro.
Si scende al Sud. Precisamente nell'Anfiteatro Flavio di Pozzuoli. Per terra alcuni blocchetti caduti dalla volta. Nulla di irreparabile, certo. Ma un nuovo segno di uno stillicidio che si consuma quasi tutti i giorni. E se i sotterranei della cavea sono in buono stato (grazie ai fondi Ue), il resto della struttura versa in una condizione disastrosa con le volte puntellate alla meno peggio. Un piccolo museo allestito nell’ambulacro interno è una rovina nella rovina, con reperti coperti di polvere, animali morti e pannelli deteriorati. Se si aggiunge che il giorno della visita il sito è chiuso per mancanza di custodi con scolaresche venute per niente che protestano fuori dal cancello , il quadro è completo. Stessa sorte toccata al Rione Terra, il centro storico di Pozzuoli svuotato e scavato, che doveva diventare un polo turistico e che invece è una città spettrale.
«Le risorse sono inadeguate persino per le emergenze», spiega la soprintendente archeologica di Napoli e Pompei Teresa Cinquantaquattro. «Con venti milioni l'anno, la metà in spese morte, cosa possiamo fare?». Lasciando fuori Pompei, solo l'Anfiteatro di Pozzuoli richiederebbe sei milioni di euro. Un'altra decina per Cuma, «mangiata» dalle acque marine. Senza parlare del Castello di Baia, consacrato nel 2008 "il più bel nuovo museo d'Italia" in attesa di essere completato, con il maschio incastonato nella villa di Giulio Cesare, che cade in rovina. La direttrice Paola Miniero, 1700 euro al mese di stipendio per un lavoro con responsabilità civili e penali, spiega: «Per rimanere aperti abbiamo proposto ai restauratori attività di “monitoraggio conservativo”. In pratica se un custode va in pensione, chiudiamo». A qualche chilometro, nella famosa Piscina Mirabilis, lavora, per uno "stipendio" di 360 euro netti l'anno, l’ottantenne signora Giovanna. Il giorno della nostra visita, però, è chiuso. E lei, alle prese con una dolorosa flebite, urla da lontano verso chi la disturba.
L'emergenza di Napoli città , invece, è quella dei beni artistici. Il soprintendente Fabrizio Vona racconta che può contare solo su 25 storici dell’arte che, assicura, «lavorano giorno e notte». Come Serena Mormone, per esempio, direttore del Gabinetto dei disegni e delle stampe, curatore del fondo grafico dell’Accademia, responsabile dei depositi esterni e di più di una chiesa, che al museo di Capodimonte gestisce le collezioni di Ottocento e Novecento. Vona ci racconta delle finestre rattoppate e delle perdite d’acqua quando piove a Villa Floridiana, che ospita una collezione di ceramiche tra le più belle del mondo. Poi ci mostra anche i sotterranei gotici della Certosa di San Martino, museo dimenticato della scultura napoletana dove le opere giacciono in mezzo a erbacce, calcinacci e umidità. Senza contare alcune delle duecento chiese del centro. Troppe per un bilancio di 3,7 milioni l'anno, che se ne vanno per la metà in bollette. Basta entrare nel Sacro Tempio della Scorziata per rendersi conto della devastazione: spazzatura, topi e puzzo di fogna. Più che sacro, profano.
«Il Mibac sta interrompendo il passaggio generazionale delle conoscenze in un blocco del turnover che dal 2001 al 2011 ha visto il passaggio da 25mila a 18mila dipendenti. Oggi rimangono troppi amministrativi e non abbastanza tecnici. D'altronde, una volta, il ministero lavorava con le soprintendenze, non contro» conclude con amarezza Vona. Il viaggio finisce a Napoli ma potrebbe concludersi a Palermo o a Reggio Calabria dove il museo dei 150 anni di un'Italia in crisi aspetta di essere aperto. E i bronzi di Riace sono sottratti da tre anni alla vista del pubblico.
«Mi vendo!», la canzone di Renato Zero sembra ormai compendiare la triste sorte del MAXXI, il museo, ma forse l’ex Museo delle arti e dell’architettura del XXI secolo di Roma, in via di trasformazione in una sorta d'appendice di un polo del lusso, nascente sotto gli auspici di Bernard Arnault e del gruppo Fendi e Vuitton. Ma sì, la meravigliosa struttura progettata da Zaha Hadid sarebbe destinata a diventare il solito polo multifunzione, in sostanza un pot-pourri all'insegna della commercializzazione».
Faccio in fretta un altro inventario, smonto la baracca e via» recita la canzone di Zero e infatti l'idea è presto detta: al posto dei due edifici ancora da realizzare dell'originario progetto, ecco un bel palazzotto del lusso ad usum Fendi - Vuitton, costruito a spese di Arnault (25 milioni di euro), che lo avrebbe suo per 40 anni al prezzo di circa 500 mila euro l'anno. Dunque, via la biblioteca archivio e via il museo con archivi dell'architettura, largo alla moda, al lusso, all'eccesso: «Io vendo desideri e speranze in confezione spray» cantava Zero. Il progetto nasce dalla direzione di Pio Baldi, prima che la struttura fosse commissariata, ed è perseguito con convinzione dall'attuale commissario Antonia Pasqua Recchia. che al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali riveste anche il ruolo apicale di segretario generale. Chiaro l'intento: racimolare soldi privati per il Maxxi, nato come molte altre Fondazioni sotto i peggiori auspici, vale a dire con un solo socio lo Stato - ma a che serve fare un ente privato di proprietà solo pubblica?-, e per di più quando era ministro Bondi e dunque con un finanziamento miserrimo.
Eppure non poche sono le perplessità: innanzi tutto il nascente palazzotto del lusso, il cui progetto preliminare dovrebbe essere di Zaha Hadid, sorgerebbe su un terreno dello Stato, - difficile capire se dell'Agenzia Spaziale Italiana o del Mibac dunque sarebbe un cosiddetto progetto di finanza (project financing) assegnato al miliardario del lusso Arnault senza bandi o concorsi, cosa discutibile da un punto di vista legale. Anche il manufatto poi sarebbe dello Stato e quindi per la costruzione ci dovrebbe essere un altro bando pubblico, con tutto ciò che comporta di aumento dei costi e probabili ricorsi - basti ricordare o costi del Maxxi stesso pressoché triplicati. Lecito chiedersi se alla probabile crescita della spesa dai preventivati 25 milioni farà fronte lo Stato Pantalone o andrà a detrimento del canone di affitto. Per dirla con Zero «Mi vendo, e già! A buon prezzo si sa», perché anche ammesso tutto funzioni, e sarebbe davvero straordinario, in cambio il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali avrebbe una cifra modesta da girare al Maxxi: 500 mila euro a fronte di un fabbisogno che si aggira sui 10 milioni l'anno.
Ma a comandare sono sempre l'appalto, il cemento e i soldi che portano: in altre parole, molti pensano che il recente commissariamento del Maxxi, con tanto di tradimenti interni alla sua direzione, nasca dalla volontà di «controllare. da vicino gare e assegnazioni da parte di vecchie e nuove cricche. E sono cose che capitano quando il marketing si sostituisce alla cultura. Proporrebbe Zero: «Ti vendo, un'altra identità» perché poi la presenza di un vicino potente e, come capita ai potenti, anche arrogante come la moda e il lusso, probabilmente andrà a infiltrare con logiche di commercializzazione un museo come il Maxxi, già penalizzato da penuria economica ma forse anche da scarsità di idee.
E lo dimostra il fatto che per cercare finanziatori non si sia puntato sull'attività del Maxxi, trovando privati disposti a sostenerla, ma sul sempiterno mattone. Stupisce però che il Mibac usi strumenti come il progetto di finanza che funziona, e non sempre. nell'espansione delle città, ma assai meno nella cultura. E la storia del Maxxi è il simbolo di tante altre strutture pubbliche, costruite a caro prezzo con i soldi dei contribuenti, gestite attraverso stratagemmi come le fondazioni con criteri privatistici -che avrebbero dovuto essere la salvezza di queste stesse strutture- e alla fine svendute ai privati: è il momento di ricominciare pensare a musei pubblici con la pretesa che funzionino. Altrimenti: «Mi vendo la mia felicità, ti dò quello che il mondo distratto non ti dà».
Sulla tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio non devono abbattersi altri tagli di fondi né amputazioni di strutture e di personale dopo quelle già pesantemente inferte nei mesi e negli anni scorsi fino ad intaccare l’ossatura stessa dei Beni Culturali e quindi la copertura territoriale della tutela. Rivolgiamo un appello forte e accorato al governo Monti affinché con la “revisione della spesa” in corso non pratichi né nuovi tagli di risorse né l’assurdo accorpamento burocratico delle Soprintendenze con altri uffici dello Stato, del tutto estranei alla tutela, né il pre-pensionamento di tecnici di grande esperienza e qualificazione di cui si parla in queste ore e che sguarnirebbe in modo decisivo la salvaguardia territoriale.
Il disastroso terremoto che ha colpito l’Emilia-Romagna e i gravi danni subiti dal patrimonio storico-artistico hanno confermato la mancanza di una politica di prevenzione e di messa in sicurezza antisismica del Belpaese e svelato la contraddizione di fondo di quanti pretendono che una parte del patrimonio diventi una “fabbrica di soldi” e però trascurano poi gli elementi fondamentali della conservazione del patrimonio stesso, “redditizio” o no che esso sia.
Nuovi colpi di accetta sui pochi fondi disponibili e nuovi vuoti nella rete della tutela aggraverebbero in modo irreversibile una situazione, già vicina al coma, la quale esibisce al mondo intero i nostri paesaggi aggrediti da cemento e asfalto senza piani regionali e spesso senza neppure controlli pubblici di sorta, con pesanti infiltrazioni malavitose; i nostri centri storici a rischio di svuotamento totale e/o di trasformazione in sempre più volgari “divertimentifici”; i nostri musei, siti archeologici, archivi, biblioteche immersi in crescenti, penose difficoltà; un Ministero ormai inerte da anni, Soprintendenze devitalizzate, disossate, private di fondi, di mezzi, di tecnici, frustrate da commissariamenti fallimentari a base di supposti “manager” (L’Aquila, Pompei, ecc.). Eppure c’è chi, a livello economico, individua la Salvezza nella magica formula “far fruttare i beni culturali”, “sfruttarli a fondo”, monetizzare in chiave privatistica il nostro patrimonio collettivo.
I firmatari di questo appello vogliono dire chiaro e forte:
“Noi non ci stiamo ad assistere inerti al massacro del Belpaese. Una vera, generalizzata politica di tutela dei beni culturali è l’opposto di una politica che riduce fondi, mezzi, strutture e punta contemporaneamente allo sfruttamento dei beni considerati “redditizi” secondo una logica privatistica.
L’Italia ha bisogno di una vera rinascita culturale, ma, per ritrovare un rapporto forte con la cultura, dobbiamo sgombrare il campo da una serie di luoghi comuni economicistici stratificati su cultura e beni culturali. Eliminiamo per sempre dal nostro lessico la frase: “la cultura è il nostro petrolio”. Dizione altamente pericolosa, anche perché equipara la cultura alla rendita fornita da un propellente fra i più inquinanti. La cultura non è una rendita di posizione. E’ un processo creativo continuo che presuppone ricerca, studio, tutela, restauro, conservazione. E’ un patrimonio di tutti.
I siti archeologici o i centri storici, gli archivi o le biblioteche, non sono “giacimenti” industriali sui quali intervenire con misure sbrigative ignorando, oltretutto, la storia specifica dell’amministrazione. Non sono cioè rendite da “sfruttare”: sono beni complessi e delicati, da tutelare, da restaurare, da conservare, da vivere, sì, da vivere con rispetto. Sono la nostra storia, la nostra identità, concorrono a fare la nostra qualità di vita. Come il paesaggio dove tutto si tiene.
Il momento economico è grave, gravissimo per il Paese, ma l’Italia, che è già agli ultimi posti negli investimenti pubblici e privati per la cultura e per i beni culturali (pur avendo un patrimonio ingentissimo), non può rattrappire ancor più questa spesa già modesta e talora avvilente. Non può pensare di “risparmiare” sul personale e sugli strumenti della tutela che provvedono a salvaguardare il Belpaese minacciato da ogni parte da cemento legale e illegale. Né stabilire una gerarchia fra beni maggiori e beni minori.
Verrebbe colpita a morte la cultura del “contesto”, cioè una delle conquiste centrali dalla nostra idea di tutela, da Raffaello in qua. Per noi non c’è edilizia maggiore e edilizia minore, non ci sono “monumenti” scissi dal resto della città antica che quindi si può abbattere, sventrare, diradare, ecc. Questa logica aberrante – proposta di recente dall’Ocse per l’Aquila - ci fa regredire, quanto meno, agli sventramenti mussoliniani. Mentre l’Italia può vantare di aver raggiunto negli anni ’60 e ’70 del ‘900 un autentico primato culturale in materia di restauro integrale dei centri storici (anche della città “vecchia”), di vivibilità, di tutela accurata. Sarebbe quindi una regressione raccapricciante.
Possiamo operare salvaguardie e anche risparmi importanti (per esempio nel dissennato consumo di suolo) riportando in onore la pianificazione. A cominciare dai piani paesaggistici lasciati invece marcire da tutti i ministri, da Bondi a Ornaghi, nonostante il Codice per il Paesaggio. Dobbiamo richiamare Stato, Regioni, Enti locali ai loro compiti strategici, alla responsabilità così chiaramente identificata dall’articolo 9 della Costituzione, uno dei più disattesi negli ultimi anni. Da tutti. Dobbiamo richiamare con energia i partiti, i sindacati, i movimenti politici alle loro responsabilità: così il Belpaese corre verso l’autodistruzione. Senza un piano generale per la difesa del suolo e per la messa in sicurezza antisismica (che darebbero molto più lavoro, e più diffuso, alle imprese delle grandi opere), il Belpaese va incontro ad altri disastri, ad altre vittime innocenti, ad altre dissipazioni di beni preziosi ed irripetibili.
Non dobbiamo stancarci di chiarire che la tanto declamata “redditività” dei beni culturali e paesaggistici è semmai indiretta e non diretta. Non sono i musei, ad esempio, a “fruttare” (i mega-musei come il Louvre non “rendono” un solo euro, ma registrano un forte passivo coperto, per oltre la metà, con denaro pubblico). Può rendere invece, può produrre reddito e occupazione l’indotto turistico creato attorno ad essi, con una rete di accoglienza turistica “virtuosa” e rispettosa. Non il turismo miope e speculativo che sfrutta, invade, degrada e consuma sempre più centri storici e paesaggi.
Siamo pienamente favorevoli ad una seria e trasparente politica di detassazione per le donazioni e per gli investimenti privati nei beni culturali recuperando, ad esempio, i criteri della buona legge Scotti del 1982, che favorì in modo molto concreto gli interventi privati in dimore e giardini storici senza far perdere una lira al fisco. Anzi, facendone guadagnare coi maggiori lavori. Buona legge purtroppo mutilata nella grande crisi del 1992-93.
Siamo anche pienamente favorevoli ad una riorganizzazione in senso tecnico (ma tecnico davvero) dell’Amministrazione dei Beni culturali che la renda più snella, che semplifichi le procedure di spesa riducendo grandemente i pesanti residui passivi: bisogna dare più poteri ai Soprintendenti e insieme garantire tutti con regole inattaccabili sul piano della trasparenza e della qualità degli appalti. Su entrambi i versanti sentiamo di dover lavorare con approfondimenti e proposte.
Noi crediamo infatti alla ricerca, alla cultura e ai suoi beni come straordinario generatore di una nuova, epocale rinascita, anche economica, del Paese. Noi crediamo alla Bellezza come pilastro di tale politica, come diritto civile, come bene sociale fondamentale. Di cui dobbiamo essere assai più coscienti di quanto non siamo stati sinora.
Vittorio Emiliani e Desideria Pasolini dall’Onda (Comitato per la Bellezza), Irene Berlingò (Assotecnici), Marisa Dalai (Associazione R.Bianchi Bandinelli), Alberto Asor Rosa (Rete Comitati), Maria Pia Guermandi (Eddyburg), Donata Levi (PatrimonioSos), Carlo Alberto Pinelli (Mountains Wilderness), Giuserppe Basile (Associazione Cesare Brandi), Marina Foschi (Italia Nostra, presidente regionale Emilia-Romagna), Antonio Pinelli, Licia Borrelli Vlad, Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Luigi Manconi, Salvatore Settis, Arturo Osio, Carlo Ripa di Meana (presidente sezione romana di Italia Nostra), Anna Donati (assessore alla Mobilità del Comune di Napoli), Francesco Caglioti, Cesare De Seta, Andrea Emiliani, Mario Torelli, Rita Paris, Anna Coliva, Rossella Rea, Carlo Pavolini, Nicola Spinosa, Ruggero Martines, Bernardino Osio, Maria Luisa Polichetti, Corrado Stajano, Marino Sinibaldi, Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana, Sandro Petraglia, Jacqueline Risset, Chiara Valentini, Carmine Donzelli, Gianfranco Pasquino, Furio Colombo, Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, Tomaso Montanari, Massimo Teodori, Giovanna Borgese, Enrico Menduni, Andrea Purgatori, Chiara Frugoni, Marta Bruscia, Sauro Turroni, Gianni Mattioli, Franca Fossati Bellani, Carla Ravaioli, Annarita Bartolomei, Vito Raponi, Mario Canti, Milton Gendel, Gianni Venturi, Benedetta Origo, Giuseppe Marchetti Tricamo, Elena Doni, Roberto Meneghini, Giuseppe Barbalace, Gianandrea Piccioli, Alfredo Antonaros, Antonio Lubrano, Elio Veltri, Violante Pallavicino, Ivana Della Portella, Paolo Sorcinelli, Toni Jop, Isa e Mario Sanfilippo, Arturo Guastella, Nino Criscenti, Stefano Rolando, Fernando Ferrigno, Pino Coscetta, Gabriella Turnaturi, Massimo Loche, Giovanna Arciprete, Paola Germoni, Stefano Antonetti, Giorgio Cerboni Baiardi, Mario Baccianini, Patrizia Guastella, Valentina Gallenti, Gianluca Guastella, Maria Nicoletta Pagliardi, Fedora Filippi, i consiglieri nazionali di Italia Nostra: Nicola Caracciolo, Maria Teresa Roli, Luca Carra, Giovanni Gabriele, Oreste Rutigliano, Teresa Liguori, Leandro Janni, Franca Leverotti, Maria Rosaria Jacono, Ebe Giacometti, Maria Rita Signorini.
Nel mese di maggio del 2006 la Sardegna si è dotata – Giunta Soru – di un Piano Paesaggistico che fissa le norme di tutela dell’unica ricchezza dell’Isola, il Paesaggio. Contro il Piano si scatenarono una parte dei Sindaci dei 380 comuni sardi, le forze politiche di opposizione e la sinistra edilizia. Un furore che generò centinaia di rabbiosi ricorsi amministrativi dai quali il Piano uscì indenne. Ci fu perfino un referendum regionale indetto dagli sviluppisti che furono bastonati. Insomma il Piano si rivelò una costruzione talmente solida che oggi resiste nonostante la stella polare della nuova Giunta sarda sia il mattone in ogni suo travestimento. Edilizia travestita da turismo, travestita da eco sostenibilità, travestita da falso bisogno. Piani urbanistici che prevedono crescite demografiche di fantasia, ma metri cubi reali. Ora vogliono un Piano paesaggistico che dica sì a tutto. E perderanno nelle aule dei tribunali.
In Sardegna appare ogni tanto, dal mare o dal cielo, qualche piccolo dio. Una volta nei panni di un principe ci dà specchietti in cambio della Costa Smeralda. Un’altra, nei panni del petroliere, ci dà fondi di bottiglia per mettere su raffinerie. Insomma, l’elenco delle apparizioni sacre è molto lungo. Regalavano fabbriche fallimentari e tossiche, sogni turistici e conti in rosso. Mai apparse Madonne.
Ora è la volta dell’emiro del Qatar il quale è il nuovo sire della Costa Smeralda e anche dei preziosi 2300 ettari inedificabili, grazie al Piano Paesaggistico, nel territorio di Arzachena, Principato della Costa Smeralda. Il Qatar, dice Amnesty, limita i diritti civili, specie delle donne e degli immigrati. Ma ha un Pil che sfavilla. E non è un Pil di cartapesta come il nostro. Petrolio e gas naturali. Così, per l’ennesima volta, la Sardegna, che non resiste a Pil luccicanti, né a prìncipi, emiri, sceicchi, petrolieri, è in vendita. E il primo atto per venderla senza intoppi consiste nel cancellare le regole del Piano Paesaggistico. A questo lavora la alacre Giunta sarda. Così organizza incontri segreti al vertice con l’emiro. E lassù, in cima, discutono clandestinamente del destino dell’Isola. Intanto molti sardi – appesa la fierezza al chiodo – sognano di vendere la loro terra e, nel silenzio dei discendenti di Lussu, sostengono l’idea di vendere le porzioni migliori all’emiro che non è tipo da mezze porzioni. In cambio avremo il territorio divorato, qualche posto di cameriere. E qualche garçon pipì locale, quello che tiene l’orinale al nobile, si ingrasserà un poco.
Ci siamo ricordati, vedendo tanta sottomissione, la tragica storia del capitano Cook. Il capitano venne considerato dagli hawaiani l’incarnazione del dio della fertilità. Ma quando gli indigeni compresero che il capitano non era un dio, lo fecero a pezzi e un capo tribù restituì le mani e qualche osso alla marina inglese. Eravamo nel 1779. Queste cose non accadono più e nessuno le augura. Ci contenteremmo di sardi che difendono la loro patria e non dimenticano «Vorremmo che che un popolo senza terra si dissolve nel nulla.
La madre dei Caravaggio è sempre incinta. E se i poveri parti non meriterebbero nessuna attenzione, è invece la madre stessa ad indurre a qualche riflessione.
Due illustri sconosciuti agli studi caravaggeschi (e, più in generale, storico-artistici) che si chiamano Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli annunciano di aver ‘scoperto’ cento (siamo ai saldi estivi, cento al prezzo di uno: «venghino siore e siori!») autografi di Caravaggio nel Civico Gabinetto dei disegni del Castello Sforzesco a Milano.
Si tratta di un fondo ignoto agli studi? Manco per sogno: come hanno ricordato subito i funzionari del museo, esso è noto da sempre, ed è almeno dagli anni cinquanta che gli specialisti di Caravaggio lo frequentano e ne scrivono, interrogandosi su alcuni nessi con l’opera del grande naturalista. Nonostante i dispareri sulla paternità dei singoli fogli, si è concordi nel ritenere che i disegni vadano ricondotti alla bottega di Simone Peterzano (1540-1596), il pittore bergamasco con cui Caravaggio si formò a Milano. Ma ora i due novelli caravaggisti hanno una soluzione geniale, un vero uovo di colombo: quei nessi si spiegano perché i disegni son tutti autografi del giovane Caravaggio. Semplice no? E tanti saluti a quei babbioni degli studiosi che da decenni ci si stillano il cervello.
Le prove? Esilaranti fotomontaggi al photoshop che incollano particolari di disegni, palesemente di mani e di epoche diverse, su quadri di Caravaggio, con effetti tragicomici. Non si fa desiderare l’imperdibile perizia calligrafica che stabilisce che, sì, la scrittura di un biglietto annesso ai disegni è proprio quella di Caravaggio. Insomma, manca solo il Ris di Parma: ma quello ha già dato, avendo autenticato due anni fa le ossa del Merisi a Porto Ercole, nella madre di tutte le bufale caravaggesche.
Non ci sarebbe altro da aggiungere, se non fosse per l’inconcepibile eco mediatica che ogni volta esalta queste operazioni, con l’effetto di trasformare la storia dell’arte in un circo equestre. L’Ansa ha voluto la notizia in esclusiva, dedicandole non so più quanti lanci e parlando di «svolta storica per la storia dell’arte».
Ma nessuno all’Ansa, o per esempio a «Repubblica» (che ha dedicato alla vicenda una pagina francamente imbarazzante), si è posto il problema della credibilità della ricerca. In storia dell’arte, come in fisica, le ‘scoperte’ vengono proposte a riviste riconosciute dalla comunità scientifica, dotate di comitati e basate su un sistema di revisione preventiva che vaglia e seleziona in contributi: e la scientificità di una ricerca (concetto ben presente anche nelle scienze umanistiche) si basa in primo luogo sulla verificabilità delle affermazioni e sul controllo della comunità. Ora, possibile che nessun giornalista si sia chiesto perché una simile ‘scoperta’ non era uscita su nota e autorevole rivista, ma su due ebook di Amazon? O è mai possibile che nessuno sia andato a vedere il sito ufficiale della ‘scoperta’ (http://www.giovanecaravaggio.it/)? Sopra un accompagnamento al piano elettronico degno di un thriller di quart’ordine, una voce da spot di tv locale legge un testo che inizia con queste memorabili parole: «È una autentica rivoluzione del Sistema Merisi, una delle maggiori e articolate scoperte nel campo della storia dell’arte e della cultura». La conclusione è un’apoteosi: «L’operazione Giovane Caravaggio … ha pure un grande valore economico e ricadute istituzionali di enorme valenza: si calcola infatti che solo il valore dei disegni, di proprietà del comune di Milano, possa ammontare a circa 700 milioni di euro». Davvero un geniale omaggio alla ‘valorizzazione del bene culturale’, con ammiccamento alla Giunta Pisapia: che grazie all’intelligenza di Stefano Boeri si è, tuttavia, prontamente smarcata da questo abbraccio mortale. Meno avvertito lo staff del ministro Lorenzo Ornaghi (quello che di solito fa come il Prodi di Guzzanti: sta fermo, non si muove), che si è precipitato a chiamare in Italia da Pechino (dove si trova per festeggiare, con un seguito assai nutrito, la deportazione dei nostri ‘capolavori’ del Rinascimento Fiorentino) per sapere se si poteva cavalcare la tigre caravaggesca, e, chissà, magari girare i 100 disegni da sette milioni l’uno al ministro Passera, per una bella messa all’incanto.
Nessuna redazione potrebbe prendere sul serio una fonte come il sito ‘giovanecaravaggio’, non dico per una notizia politica o economica, ma nemmeno per una di storia politica, per non dire di fisica. Se dichiaro di aver visto a occhio nudo il Bosone di Higgs nel mio salotto, mi portano giustamente alla Neuro: ma se il primo che passa sostiene di aver scoperto un Michelangelo, un Leonardo o un Caravaggio, il circo mediatico lo porta, immediatamente, in trionfo. Quando si parla di storia dell’arte tutto è possibile: in Italia il giornalismo storico-artistico è pressoché defunto, ed è ormai talmente abituato a concepire se stesso come il megafono celebrativo dei Grandi Eventi da non essere più in grado di distinguere una notizia da una bufala. È questo uno dei sintomi più gravi della riduzione di una disciplina umanistica ad escort della vita pubblica italiana: da mezzo per alimentare e strutturare il senso critico, a strumento di ottundimento di massa. E assai prima dell’indegnità della classe politica o dell’insufficienza di fondi, tra le tante cause del disastro del nostro patrimonio storico e artistico c’è anche questa desolante mutazione della storia dell’arte.
C’erano una volta i ragazzi del piano, il gruppo di giovani urbanisti, funzionari pubblici, le cui storie sono state raccontate nel bel libro di Gabriella Corona, il cui percorso umano e professionale a un certo punto ha finito per identificarsi con quello che ha condotto, nel 2004, all’approvazione del nuovo Piano regolatore della città. La notizia di questi giorni è che quel gruppo non c’è più, perché è stato decapitato nel giro di pochi giorni, si potrebbe dire di poche ore, con l’urbanistica napoletana letteralmente allo sbando, priva di guida, proprio nel momento in cui la giunta comunale annuncia alla città provvedimenti rilevanti, come la variante per i 20.000 alloggi nella zona orientale, e l’avvio della manifestazione di interesse per il nuovo stadio Come è noto, Roberto Giannì era già andato via, subito prima dell’insediamento della giunta de Magistris, chiamato dal presidente della Regione Puglia Nichi Vendola a dirigere l’urbanistica pugliese. Un’altra figura di spicco, Elena Camerlingo, è in pensione da pochi giorni. Poi, in un fine settimana convulso, si è improvvisamente dimesso Giovanni Dispoto, che era succeduto a Giannì alla direzione del Dipartimento urbanistica. Mentre tutto il gruppo storico di dirigenti in servizio, a partire da Laura Travaglini, è stato degradato, dopo dieci anni, al rango di semplici funzionari. Tutto ciò per effetto di un vecchio e controverso ricorso, che ha invalidato la graduatoria concorsuale in base alla quale Dispoto e i suoi colleghi erano stati reclutati. Dulcis in fundo, nello stesso giorno, il Comune ha pensato bene di licenziare tutti giovani borsisti che coadiuvavano il lavoro degli uffici.
È inutile precisare che qui non si sta parlando di persone, che pure meritavano ben diverso trattamento per il servizio reso in questi anni alla città, ma del governo dell’urbanistica nella terza città d’Italia. La maniera con la quale l’amministrazione e la giunta hanno assecondato gli eventi, senza uno straccio d’iniziativa in grado di assicurare la continuità di delicate funzioni amministrative, getta ombre lunghe sul futuro. La sensazione è che ci sia un gran desiderio di cambiar rotta; che il modello napoletano dell’ultimo ventennio, caratterizzato nel bene e nel male dal fatto che la programmazione fosse svolta direttamente all’interno degli uffici competenti, con l’idea che questo potesse meglio garantire l’interesse pubblico, sia ritenuto oramai superato.
Perché a ben vedere gli eventi delle ultime ore appaiono come il naturale esito di un processo che parte da lontano, sin dai primi passi della nuova amministrazione, quando ha iniziato a delinearsi il nuovo stile di governo della città, con gli uffici chiamati ad apprendere dalla stampa le
decisioni di volta in volta già assunte, ed il Dipartimento urbanistico relegato in un ruolo marginale in tutte le decisioni di forte rilevanza territoriale, si tratti di Vuitton Cup come della localizzazione degli impianti di compostaggio; dello svincolo della tangenziale spuntato all’improvviso a Bagnoli, come del nuovo stadio.
È come se i ritmi concitati, l’orizzonte temporale compresso che l’amministrazione comunale si è data, non necessitino più di valutazioni complesse, di scala urbana, in grado di contemperare i diversi interessi sociali ed economici di una cittadinanza estremamente variegata; ma vivano piuttosto della sola dimensione progettuale: un annuncio e un progetto alla volta, il cui carattere di urgenza è soprattutto legato agli accordi preventivi che l’amministrazione ha già stipulato con i diversi gruppi di interesse.
È evidente come per governare questi processi risulti più funzionale il lavoro solerte degli staff, anziché quello a volte pedante degli uffici, condannati come si sa al rispetto delle regole, ed allora viene anche da riflettere sui contenuti di una proposta di ristrutturazione della macchina comunale, che circola in questi giorni, nella quale una funzione urbanistica autonoma non esiste più, declassata al rango di articolazione secondaria di una mega direzione “Ambiente”.
In conclusione, se è vero, come recita l’adagio, che “la pianificazione è umana, ma l’implementazione è divina”, è anche vero che disporre di un Prg, al quale pure si assicura assoluta fedeltà, ma non di strutture amministrative adeguate e robuste per il governo quotidiano dei procedimenti che da esso discendono, significa essersi messi proprio in una brutta situazione.
All’amministrazione l’onere di rassicurare tempestivamente le forze politiche e la cittadinanza circa il modello di governo della città pubblica degli anni a venire: dirci se esso sarà basato sulla riflessività e le garanzie delle procedure democratiche, oppure sull’adrenalinica velocità di più efficienti elites e tecnostrutture.
Si vedano, in questa stessa cartella i molti articoli sul PRG094 e sugli “scivoloni” recenti della Giunta De Magistris
Il 6 luglio sarà inaugurato uno ‘spazio museale italiano’ presso il Museo Nazionale della Cina, in Piazza Tian’an men a Pechino, frutto dell’accordo di Stato tra Italia e Cina firmato dai rispettivi ministri della cultura nell’ottobre 2010.
Il primo ‘evento’ italiano sarà una mostra che durerà un anno. Il titolo, originalissimo e inaspettato, è: Rinascimento a Firenze. Capolavori e protagonisti.
Le uniche cose indiscutibili, in questa vicenda, sono l’abnegazione e l’amor patrio con cui il direttore generale per la valorizzazione del Ministero per i beni culturali Mario Resca ha sostenuto questa iniziativa politico-diplomatica.
Alla vigilia della conclusione del suo mandato bisogna riconoscere che - in un Mibac riverso su se stesso, paralizzato dall’incapacità dei ministri e dalla corruzione della burocrazia – l’alieno Resca ha almeno provato a spezzare questa morbosa autoreferenzialità, e ad aprire il patrimonio storico e artistico ai cittadini e al mondo. Ma i burosauri del Mibac si sono vendicati, propinandogli formule che erano già vecchie sessant’anni fa.
Le prime mostre-kolossal all’estero furono fortemente volute da Mussolini (che si vantava, coerentemente, di non essere mai entrato in un museo), e hanno costellato la storia repubblicana fino agli ultimi mesi, in cui si susseguono a ritmo vertiginoso le comparsate di Stato del povero Caravaggio (spesso sostituito da improbabili controfigure): a Cuba, a Mosca, e ora alla Casa Fiat di Belo Horizonte, in Brasile (una sagra del tarocco che evidentemente a Sergio Marchionne non appare folcloristica, a differenza delle sentenze dei tribunali italiani).
Ammettiamo che organizzare scambi di mostre tra Stati non sia un patetico residuo dell’ancien régime, ed abbia ancora un qualche valore diplomatico che superi quello dei buffet che spezzano le trattative sui trattati commerciali. Bisognerebbe, allora, concepire un vero progetto scientifico (con l’intento di aumentare la conoscenza, trattando i visitatori come esseri pensanti e non come barbari da stupire) e con un ‘rischio zero’ per le opere. Lo impone l’articolo 67 del Codice dei Beni culturali (che, in assenza di queste caratteristiche, vieta che le opere varchino i confini della Repubblica), e lo imporrebbe la deontologia degli storici dell’arte: se ci fosse.
Il Rinascimento pechinese è «un’antologia abborracciata, forse dettata unicamente dall’arrendevolezza di alcuni soprintendenti». Sono parole del fulminante articolo con cui Antonio Cederna massacrò, nel 1956, un’analoga iniziativa. E sono perfettamente attuali. Per esplicita ammissione degli organizzatori (il Polo museale fiorentino), il progetto scientifico (obbligatorio) non è scientifico: sostanzialmente si sono prese delle opere a casaccio, badando al fatto che ce ne fossero di grosse e di artisti famosi. Risultato: un grottesco guazzabuglio che riesce a mettere insieme Lorenzo Monaco e Benvenuto Cellini.
Per nulla si è invece badato alla tutela delle opere, scelte in spregio ad ogni criterio, norma, legge. Tra pezzi evidentemente riempitivi, la lista dei deportati comprende ben trentadue dipinti su tavola (tra gli altri di Gentile da Fabriano, Paolo Uccello, Filippo Lippi, Botticelli e Raffaello) e cinque affreschi staccati, tra cui due dei famosi Uomini illustri di Andrea del Castagno, l’Annunciazione di Botticelli degli Uffizi (la bellezza di 5 metri e 50 per 2 e 46!) e il San Girolamo di Ghirlandaio, proditoriamente sottratto alla chiesa di Ognissanti e al suo pendant dipinto da Botticelli. Si tratta di pitture fragilissime, che non dovrebbero viaggiare per nessun motivo: figuriamoci per «una carrettata bassamente propagandistica, una scelta affrettata e fortuita, conforme appunto alla inanità degli scopi confessati» (ancora Cederna).
Come se non bastasse, andrà in Cina anche l’Ercole e Anteo di Bartolomeo Ammannati della Villa di Castello: un gruppo di bronzo, alto due metri e nato per stare su una fontana, che è demenziale esporre al chiuso tra quadri sacri e ritratti. E poi ancora l’analoga Venere Anadiomene di Giambologna, una manciata di robbiane, un disegno di Leonardo e nientemeno che il cosiddetto David-Apollo di Michelangelo, un inestimabile marmo alto un metro e mezzo, conservato al Bargello nei pochi momenti in cui non esercita come commesso viaggiatore.
Ci si chiede come la soprintendente di Firenze, il Comitato di settore (in blocco sotto processo contabile per l’acquisto del famoso pseudo-Michelangelo) e il direttore generale abbiano potuto autorizzare simili enormità: «Grandi equilibristi – è ancora Cederna – disposti sempre all’obbedienza verso i pezzi più grossi di loro, sulla cui mancanza di carattere e di convinzioni generali i vandali sanno di poter contare».
Vogliamo davvero portare ai cinesi un’immagine positiva del nostro Paese? Organizziamo mostre di artisti italiani: non morti da mezzo millennio, ma vivi, e possibilmente giovani. Finanziamo film di grandi registi che raccontino l’Italia di oggi (come quelli meravigliosi di Folco Quilici, sull’Italia vista dal cielo, degli anni sessanta), riproduciamo perfettamente a Pechino qualcuno dei nostri siti monumentali (una Cappella degli Scrovegni in scala uno a uno sarebbe del tutto accettabile alla cultura cinese). Insomma, qualunque cosa che non fotografi un’Italia convinta di avere il meglio della propria storia dietro di sé, ridotta a togliersi le mutande e a far sfilare i propri capolavori, in catene, nella capitale dei nuovi padroni del mondo.
Tutto lascia invece pensare che continueremo a organizzare mostre come questa: clamorosamente inutili, dannose, illegali. Avverando così la profezia del più grande storico dell’arte italiano del Novecento, Roberto Longhi, che nel 1952 si augurava che lo Stato «ponesse un fermo a questa stolida e spesso servile mania esibizionistica dell’Italia all’estero. Mania che, ove non venisse ormai stroncata, finirebbe, oltre agli irreparabili danni materiali, per revocarci stabilmente dal novero delle nazioni culturalmente più progredite».
Il berlusconismo è resistente. Appiccicoso, come ampiamente previsto dai politologi. Resistono, seppure acciaccati, i modelli proposti con successo agli italiani. Tra questi gli scenari di uno stile di vita ammirato – le case dove pubblico e privato si intrecciano ancora – evocati nel film proiettato continuamente nelle aule dei tribunali.
Dell'iconografia berlusconiana rimarranno a lungo i cascami in Sardegna. La tenuta sarda di Berlusconi è ancora nelle cronache, concentrato di manipolazioni kitsch proposte in un crescendo imbarazzante – credo soprattutto per gli incaricati di accertare la coerenza con il paesaggio di tutta quella roba assurda che ci mette da anni. L' ultima puntata – il villaggio nuragico nel parco di villa Certosa – era prevedibile e non ci coglie impreparati. Non sorprende gli archeologi, più preoccupati giustamente per la dispersione in diverse sedi dei giganti di Mont'e Prama. Questa sì archeologia marketing, a dispetto di una cultura giuridica che non ammette lo smembramento dei reperti provenienti da uno stesso sito o delle collezioni d'arte.
Marketing come piace a Berlusconi, che non ha mai voluto interlocutori scienziati, estraneo e insofferente al dibattito sui beni culturali che ha visto Giolitti discutere con Croce, Bottai con gli intellettuali di «Primato», Spadolini con gli editorialisti del «Corriere», Urbani con Settis.
Sappiamo dei danni all'immagine del Paese prodotti dall'ex premier intento a dare retta al suo istinto, e ai consigli degli amici più estrosi. Inevitabile che si arrivasse prima o poi al punto: ad avvertire la necessità di cambiare registro, di prendere le distanze dai simboli di un passato diventato improvvisamente scomodo.
Non credo che conterà nel bilancio della stagione turistica in corso, ma una cosa è certa: la politica non farà passerelle in Sardegna questa estate, il cambiamento di rotta è indispensabile. In qualche caso rinnegare il passato da politici-villeggianti in Sardegna può servire a imputati e avvocati, per cui si minimizza il valore di beni al sole sardo, come fa Formigoni per allontanare i sospetti sulla (sua?) casa in Costa Smeralda (in un'altra fascia le mansarde della parlamentare leghista, da grigia periferia metropolitana come nei racconti di Giorgio Falco, più facilmente deprezzabili).
Così la politica per corrispondere ai nuovi modi annunciati – viva la sobrietà – deve stare alla larga dai lidi sardi, specie da quelli che rappresentano l'epopea berlusconiana, e da quel frastuono di incontri in Gallura che ha fatto dire improvvidamente a Giuliano Amato “troppa Sardegna nella vita politica italiana”. Sul «Corriere della Sera» (16 giugno 2012) un servizio sulle ferie estive dei ministri del governo Monti. Un messaggio eloquente per segnare la differenza col passato: per cui non c'è un ministro uno che atterri o veleggi nei pressi dell'isola; e anche il mare sembra bandito. Meglio laghi e montagne.
Troppa Sardegna? Credo che ci siano stati eccessi nella rappresentazione di una Sardegna fiction, di troppi luoghi finti sparsi dappertutto – anche più finti del villaggio nuragico di villa Certosa – una propensione a evidenziare continuamente gli artifici meno eleganti, e spesso pacchiani, per stare nel mercato.
Finito il grande show escono di scena protagonisti e comparse e guardie del corpo. E chiudono gli scenari più compromessi da quella continua ostentazione di volgarità. Chiude pure il “Billionaire”. Ma liberarsi da queste visioni non sarà facile. Cappellacci, uno dei resistenti del berlusconismo, annuncia ieri la imminente controriforma, un nuovo Ppr che accentuerà le contraddizioni dell'isola: per cui a distanza di pochi km dal cartello “vendesi una villa da molti milioni” non ti comprano un gregge di pecore lattifere neppure se ci aggiungi qualche ettaro di pascolo di prima qualità.
Strano il caso della Villa di Cesare-Massenzio nel comune di San Cesareo alle porte di Roma. Una delle scoperte più straordinarie degli ultimi vent'anni, dove i quasi 20mila metri quadri di strutture antiche, databili dalla fine dell'età repubblicana al IV secolo d.C. hanno restituito mosaici policromi con paste vitree, marmi pregiati, ambienti affrescati, un sontuoso ninfeo e un complesso termale monumentale con una vasca da 600 metri quadri. Una dimora imperiale riconosciuta dagli studiosi come la villa di Cesare, che qui avrebbe dettato il suo testamento adottando Ottaviano, ma anche la stessa residenza che avrebbe accolto Massenzio il giorno in cui fu acclamato Augusto (306 d.C.). Ebbene, invece di essere musealizzata con un destino 'franco' da parco archeologico, rimane ancora in balia dello spettro del piano integrato edilizio 'Parco della Pietraia' voluto dal comune di San Cesareo e realizzato dalla DueG immobiliare srl.
«L'area archeologica versa oggi in uno stato di totale abbandono. I mosaici e le murature nono sono stati adeguatamente protetti e la neve, il gelo e le piogge dei mesi scorsi hanno fatto uno scempio, oltre alle erbacce che ora stanno infestando le strutture», denuncia Paolo Scacco del Comitato Salviamo la Villa di Cesare. Un'incuria che ha spinto Marianna Madia (Pd) a presentare il 22 giugno scorso una nuova interrogazione
alla Camera per chiedere un intervento del ministro per i beni culturali Lorenzo Ornaghi. Una prima conquista la Villa di Cesare-Massenzio l'aveva portata a casa a luglio 2011 grazie all'intervento dell'ex sottosegretario Francesco Giro che si era attivato per l'apposizione del vincolo diretto. «La mobilitazione popolare nasce ora proprio dal fatto che la soprintendenza non ha ancora apposto il vincolo indiretto, non facendo chiarezza su quella che è l'area di rispetto della villa», dichiara Emilio Ferracci esponente del comitato e per 15 anni ispettore onorario della Soprintendenza. «Ad oggi - insiste Ferracci - non abbiamo alcuna informazione su quale piano edilizio sia effettivamente da considerarsi in itinere, visto che il piano approvato dal comune aveva ricevuto solo un parere di massima dalla sovrintendenza e non definitivo».
In ballo, ben 54mila metri quadrati tra palazzine residenziali, un centro commerciale e la nuova chiesa parrocchiale di San Giuseppe. «Mentre non si sa ancora dove arriverà il vincolo indiretto, l'impresa ha acquisito la disponibilità di aree attigue e sta facendo nuovi sondaggi per verificare ulteriori reperti», avvisa Paolo Scacco. Indagini che hanno riportato alla luce un muro perimetrale della villa e l'antico tracciato della Via Labicana. Alla preoccupazione dei cittadini di veder tramontato l'idea di un parco archeologico, si aggiunge la beffa dell'orologio di Giulio Cesare. Nel corso degli scavi è stata ritrovata una meridiana marmorea di epoca cesarea, che invece di rimanere a San Cesareo è stata trasferita lo scorso anno presso il museo archeologico di Sperlonga, di cui direttore Marisa De Spagnolis, funzionario della soprintendenza, risulta responsabile degli scavi della villa a San Cesareo. L'interrogazione della Madia chiede anche la restituzione della meridiana, tanto per ridare a Cesare quel che è di Cesare.
«Ecco, sarebbe bello che l’amministrazione riprendesse lo spirito di allora e scardinasse la subcultura che intanto si è affermata ». È un po’ una sorpresa. Vezio De Lucia, il padre del piano regolatore, nume tutelare di tutti coloro che vogliono difendere Prg e programmazione, torna a Napoli, invitato da Sel a un convegno sull’urbanistica che sembra fatto apposta per crocifiggere le ultime scelte dell’amministrazione arancione. Non che De Lucia salga sulla barca di de Magistris, però alla fine gli rivolge quasi un appello. E scassa, anche lui, il clima con una rivelazione pessimistica assai sulla città: «Mi sono reso conto che la proposta che facemmo per Bagnoli era in realtà estranea alla cultura di una città che preferisce l’“horror vacui”, che ha paura di godersi la bellezza e un posto in cui passeggiare, e dove invece contano solo il cemento e l’asfalto».
Una requisitoria che lascia sul tappeto anche «tanti geni», come li definisce l’ex assessore. Finiscono nel suo «sillabo» economisti come Mariano D’Antonio, «che sostiene che Napoli non può permettersi 120 ettari di parco, ovvero una cosa come Villa Borghese a Roma». Oppure «l’ex assessore regionale Cascetta: perché hanno cancellato la Metro fino a Bagnoli? Come diavolo ci si arriva ora?».
I guasti del passato sembrano deviare gli strali che parevano dover correre verso l’attuale giunta, peraltro rappresentata in aula dall’assessore Luigi De Falco. Ad aprire il fuoco su Palazzo San Giacomo ci pensa però Carlo Iannello, consigliere di “Napoli è tua”, molto in rotta di collisione con il sindaco. I casi da segnalare sono soprattutto il nuovo stadio e la famigerata Insula proposta dalla Romeo immobiliare. Due esempi di proposte non discusse da una amministrazione che Iannello definisce «disordinata». Si salva De Falco, lodato dagli intervenuti per aver posto il problema della non aderenza della delibera. Mentre De Lucia si dice totalmente d’accordo sui rilievi mossi da Iannello a Insula, che comprendono anche il patto perverso con il quale il Comune dovrebbe poi riconoscere degli introiti al privato in cambio dell’aumento di valore catastale che il suo intervento produrrà agli immobili. La conclusione politica spetta al padrone di casa, il segretario di Sel Peppe de Cristofaro: «Vogliamo dare il nostro apporto all’amministrazione, ma senza esimerci da critiche. E sull’urbanistica poniamo due questioni. Una di metodo, c’è troppo accentramento nelle decisioni. L’altra di merito, ovvero l’esigenza di tenere il piano regolatore come punto fermo».
Domenica scorsa Madonna ha noleggiato gli Uffizi. Così la popstar ha potuto vedere i quadri del popolo italiano senza il popolo italiano tra i piedi, e col vantaggio di noleggiare contestualmente anche la soprintendente di Firenze, che le ha fatto da guida di lusso. Il giorno dopo, lo stilista Stefano Ricci ha organizzato due sfilate nel Corridoio di Ponente degli Uffizi: una è stata aperta da una tribù di Masai, che correvano brandendo scudi e lance di fronte al Laocoonte di Baccio Bandinelli, sotto lo sguardo incredulo dei ritratti cinquecenteschi della Gioviana. Per la gioia di un Occidente narcisista e neocoloniale che balla sull’abisso, tutto è merce, tutto è in vendita: gli abiti griffati, il museo e perfino i Masai, portati a Firenze come bestie da serraglio e numero da circo.
Le cronache locali permettono di capire che il vero tema della serata non erano gli abiti, né tantomeno la storia dell’arte, ma il lusso come valore assoluto: il parterre comprendeva “uno stuolo di clienti danarosi arrivati per l'occasione dai cinque continenti, molti dei quali hanno dovuto ripiegare sull'aeroporto di Pisa per parcheggiare il loro jet privato”. Alcune fotografie – che sembrano ritagliate da Roma di Federico Fellini – documentano poi la cena “esclusivissima” che l’Enoteca Pinchiorri ha servito sulla terrazza degli Uffizi, ospite d’onore un Matteo Renzi immemore dell’austerità che grava sul Paese che egli si candida a guidare. Una nota comunica che, in questo trionfo della sobrietà, l’obolo pagato per ‘privatizzare’ i pubblici Uffizi è stato davvero risibile: 30.000 euro. È vero che altri 100.000 euro Ricci li ha spesi per realizzare l’impianto di illuminazione della Loggia dei Lanzi da lui stesso progettato, ma parliamo di cifre irrilevanti. Pochi giorni fa, per esempio, il Louvre ha accolto un ricevimento di Ferragamo, che aveva sponsorizzato la mostra di Leonardo. Nemmeno quello è stato un bel segnale, ma i francesi hanno tenuto la sfilata fuori dalle sale del Museo, ben alla larga dalle opere (tutto si è svolto nel Peristilio Denon): e ciò nondimeno hanno ottenuto “alcuni milioni”. Come dire: se si arriva a vendere il decoro pubblico, almeno che lo si venda caro. Ma il punto non è questo. Gli Uffizi noleggiati a ore, appartengono oggi al popolo italiano. Che li mantiene con le proprie sudatissime tasse non perché siano ‘belli’, ma perché sono un potentissimo strumento di educazione alla cittadinanza e di innalzamento spirituale. L’articolo 3 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Il patrimonio storico e artistico della nazione (menzionato – caso unico al mondo – sempre tra i principi fondamentali della Carta, pochi articoli dopo) è precisamente uno degli strumenti che permettono alla Repubblica di rimuovere quegli ostacoli, e di rendere effettiva la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Uscito da una messa in cui aveva sentito predicare gli atti di misericordia corporale, il piccolo Luigi Pirandello tornò a casa seminudo perché aveva rivestito del suo abito un bambino che aveva visto coperto di stracci. Ma, una volta a casa, egli venne aspramente rimproverato: e comprese, una volta per tutte, che nessuno prendeva sul serio il cristianesimo. Allo stesso modo, ogni tentativo di mostrare il valore civile dei musei è annullato dal noleggio degli Uffizi.
Se gli Uffizi diventano lo sfondo della “quaglia farcita ai funghi porcini con fagioli al fiasco”; se gli Uffizi diventano una location dove ostentare e celebrare l’onnipotenza del lusso, la diseguaglianza sociale ed economica e il trionfo del denaro di pochi; se gli Uffizi diventano la prosecuzione delle scarpe e delle borse con altri mezzi; se gli Uffizi vengono risucchiati da questo turbine di volgarità e ignoranza provinciali; se non è più possibile distinguere tra gli Uffizi e il Billionaire, ebbene, la Repubblica italiana prende un potentissimo strumento di educazione e di eguaglianza, che mantiene a caro prezzo con i soldi di tutti, e lo trasforma deliberatamente in un altrettanto potente mezzo di diseducazione e discriminazione.
Come dice il comico americano Bill Hicks, “piantatela di mettere il maledetto segno del dollaro su ogni fottuta cosa di questo pianeta”.
Il Consiglio Direttivo di Italia Nostra riunito oggi 23 giugno 2012 si riconosce, sostiene e condivide l’analisi e le critiche espresse nei confronti dell’azione del Ministero dei beni culturali nella conferenza stampa dell’11 giugno 2012 promossa dalle sezioni dei territori colpiti dal sisma.
In particolare respinge:
- l’esautorazione delle Soprintendenze territorialmente competenti e capaci di gestire i problemi della messa in sicurezza del patrimonio culturale.
- l’illegittimo incardinamento degli organi di tutela - che significa acritica subordinazione - alla protezione civile che ha dimostrato scarso interesse alla difesa del patrimonio culturale colpito, come evidenzia il numero ancora imprecisato di demolizioni già realizzate o programmate.
- la tendenza, frutto di ignoranza culturale, di dividere il patrimonio storico delle zone colpite in edifici di serie A da conservare ed edifici di serie B da tutelare.
- l’abbandono del concetto di centro storico come complesso indivisibile da tutelare nel suo insieme, così come Italia Nostra, a partire dalla Carta di Gubbio, ha sostenuto sempre. Il centro storico rappresenta per la popolazione elemento indispensabile di identità civile e sociale.
Segnala con vivissima preoccupazione:
- i ritardi delle operazioni di ricognizione del danno e di messa in sicurezza degli immobili
- la mancanza di trasparenza e di coinvolgimento di queste fasi post-sisma, pericolosa anche sotto il profilo della tenuta democratica.
Vista la gravità e l’urgenza dei problemi, Italia Nostra richiede un incontro immediato con il Ministro Lorenzo Ornaghi ai fini di esporgli nel dettaglio le criticità della situazione attuale e proporgli immediate azioni correttive, senza le quali il Ministero rischia di uscire definitivamente screditato.
La gestione aquilana è un’esperienza da archiviare e Italia Nostra metterà in atto ogni azione legittima affinché non si ripeta.
Roma, 23 giugno 2012
Oggi, lunedì, comincia a Pieve di Cento la complessa operazione di estrazione dalla Collegiata di Santa Maria Maggiore delle grandi tele di Guido Reni (l’Assunzione misura 4 metri x 2,80), di Guercino, di Lavinia Fontana, di Scarsellino e di altri ancora, nonché del grande crocifisso ligneo di fine ‘200. La volta della chiesa è crollata con la seconda forte scossa di terremoto (la messa in sicurezza antisismica degli edifici s’impone ovunque, senza indugio). Le pale d’altare – che bisognava sottrarre ai pericoli di una chiesa scoperchiata - verranno ricoverate nella vicina Cento. I pievesi infatti si sono ribellati all’idea che andassero più lontano. Temevano di non rivederle più. Com’è capitato ai loro antenati con le altre tele di Guercino presenti nella Collegiata. Segno di un forte attaccamento ai propri beni storici, all’identità comunitaria che gli stessi concorrono a mantenere viva. Come il museo della canapa, coltura sviluppata per secoli, fino a metà del ‘900, o quello della liuteria, rifiorita a Pieve con l’arrivo, nel 1900, del faentino Luigi Mozzani (1869-1943), il “Paganini della chitarra”, liutaio non meno pregevole.
Ma questo amore per la conservazione, per la tutela percorre davvero tutta l’area del sisma? E da Roma si è veramente compreso lo sciagurato errore commesso, scientemente, all’Aquila esautorando le Soprintendenze e affidando il timone alla Protezione Civile? Non mi pare. La degenerazione sottoculturale del berlusconismo ha inquinato i pozzi delle politiche della tutela e del restauro. I tagli feroci inferti da Tremonti – e da nessuno riparati – hanno indebolito e in più casi annichilito le Soprintendenze, ridotte con pochissimi tecnici e mezzi. Le dichiarazioni post-terremoto del segretario generale del MiBAC, Antonia Pasqua Recchia, parevano andare in una direzione opposta rispetto all’Aquila, cioè verso una ricostruzione di tipo friulano o umbro-marchigiano. Ma alla guida (si fa per dire) del Ministero c’è un ministro, Lorenzo Ornaghi, che “tecnico” proprio non è e che lascia fare o non fare. Né si avverte la voce del suo sottosegretario, Roberto Cecchi che tecnico è, ma che definì “una cartolina virtuale” il restauro di Venzone.
Così il governo “dei tecnici” si è riaffidato in toto, con una circolare, alla Protezione Civile: le Soprintendenze della zona colpita “dovranno riferirsi esclusivamente alla direzione generale territorialmente competente (…) l’unica struttura del MiBAC” collegata alla Protezione Civile. In tal modo – nota il magistrato modenese Giovanni Losavio già presidente nazionale di Italia Nostra – le Soprintendenze “di merito” vengono “mortificate e in pratica escluse”, sottraendo loro quel “pronto intervento” con cui potevano “adottare immediatamente le misure conservative necessarie”. “Inammissibile, illegittima lacerazione nel compatto tessuto della tutela” che burocratizza e spegne le Soprintendenze.
Nasce così, anche secondo altri esponenti di “Italia Nostra” - l’ex soprintendente arch. Elio Garzillo, e l’archeologa Maria Pia Guermandi – la “questione dei campanili”abbattuti qui in gran fretta. Mentre nel 1996, dopo un pesante sisma, nella Bassa reggiana vennero messi subito in sicurezza e salvati. Inoltre, si è riaperta una pericolosa discussione sul “valore” degli edifici, la stessa che tende di nuovo, dopo decenni di meritato oblio, a distinguere fra beni maggiori, o monumenti, e beni minori. A questa inopinata, micidiale resurrezione – essa marcia assieme alla monetizzazione dei beni culturali (redditizi e non redditizi) – dovrebbero opporsi i soprintendenti e anche i sindaci. “Gli uomini e le loro “cose” non costituiscono più un unicum inscindibile”, commenta Garzillo. “I restauri verranno riservati soltanto alle eccellenze?”, si chiede Maria Pia Guermandi. Le preoccupazioni sono tali che a livello nazionale “Italia Nostra” chiede in merito un incontro urgente al ministro Ornaghi. “La gestione aquilana”, si denuncia nella richiesta, “è un’esperienza da archiviare”.
Finalmente il berlusconiano direttore generale alla Valorizzazione, Mario Resca, ha traslocato dal MiBAC alla privata Società Acqua Marcia senza aver valorizzato nulla né attratto a Brera fondi privati considerevoli. E però gli anni in cui Giovanni Urbani, direttore dell’ICR, elaborava il Piano di prevenzione antisismica dell’Umbria e all’Istituto Centrale del Restauro si lavorava, con fatica ma con passione, alla Carta del Rischio, pur temporalmente vicini, sembrano culturalmente remoti dopo la desertificazione inferta al MiBAC e ai suoi organi tecnico-scientifici. Un’esortazione al commissario-presidente Vasco Errani che ieri ha ribadito di voler “ricostruire” (e non costruire): guardi ai buoni esempi della sua Regione, ai lavori dell’Istituto per i Beni Culturali, ai censimenti, ai restauri filologici, riapra il dialogo con le Soprintendenze, ascolti le voci delle associazioni territoriali.
Resca lascia (nel caos) i Beni Culturali. In concomitanza cominciano a emergere i risultati dei suoi circa 3 anni di servizio per lo Stato, di cui il caso più emblematico e grottesco sono i bandi per i servizi aggiuntivi, oramai nel caos. Arriva al Mibac nel 2008 per la luminosa intuizione dell'allora ministro Sandro Bondi, che vuole un super manager come lui, già in Mc Donald Italia e gran sodale di Berlusconi, tanto da essere anche nel CdA di Mondadori, e lo piazza al comando della neonata Direzione alla valorizzazione del patrimonio. Uno stratega aziendale per portare i metodi del management nei beni culturali e far largo ai privati, e non ci sarebbe settore più indicato per dare spazio alla libera impresa come quello dei servizi aggiuntivi.
Per intenderci si tratta delle biglietterie - in appalto- e di bar, ristoranti, librerie, audioguide, visite guidate -in concessione - che si dovrebbero trovare nella maggior parte dei nostri musei. È stato il ministro Ronchey nel lontano 1994 ad aprire questo settore al partenariato pubblico/ privato. I bandi indetti negli anni '90 ebbero un esito valutato come positivo forse con eccessiva fretta. In una analisi recente - pubblicata da II Giornale dell'arte e mai smentita- infatti è emerso che per i cinque grandi poli di attrazione (archeologico e artistico di Roma, Pompei, Napoli e Firenze) che secondo i dati Mibac del 2009 assommavano il 91% dei visitatori paganti in Italia, i servizi aggiuntivi erano finiti a tre grandi gruppi, che agivano anche con società satellite: Civita servizi (facente capo a Luigi Abete) Electa Mondadori del gruppo Fininvest (e di chi volete che sia?), e infine Prc Codess, appartenente a un gruppo cooperativo.
Esempio tipico della leale concorrenza del nostro libero mercato, l'assegnazione dei servizi aggiuntivi dava l'impressione di essere una spartizione politica da qualche centinaio di milioni di euro. Lo ripetiamo, è un'impressione ma, se è possibile, peggiorata dal fatto che una volta scaduti i contratti per questi servizi, al Mibac nessuno si è peritato di fare nuovi bandi andando avanti con proroghe annuali, cristallizzando un monopolio e incorrendo quindi in varie reprimende della Commissione Europea nonché in salatissime sanzioni - paga Pantalone, no? A questo andazzo pensa di mettere fine Buttiglione che, come ministro nel 2005, con accigliatissima circolare impone di indire i bandi al più presto: ma dall'anno dopo il suo successore Rutelli in materia sonnecchia. Così, quando nel 2009 le gare da bandire per i servizi aggiuntivi sono assegnate alla sua Direzione alla valorizzazione è una occasione d'oro per Resca di mostrare l'efficienza e la moralità del super-manager a confronto della lassista e opaca gestione ministeriale. Invece di fare tesoro di quanto di buono e di cattivo era stato fatto con i precedenti bandi, Resca affida la stesura delle linee guida delle nuove gare a società esterne (Roland Berger Strategy Consultant e Price Waterhouse Coopers) che si prendono un bel po' di soldi (200 mila euro) e un anno di tempo per studiare il caso.
A scanso di equivoci i gestori dei servizi aggiuntivi sono prorogati indefinitamente, fino all'assegnazione dei nuovi bandi -una pacchia per Civita, Prc ed Electa Mondadori di cui Resca è membro del CdA. Le stazioni appaltanti, vale a dire le Direzioni regionali e le Soprintendenze speciali del Mibac, fanno molte osservazioni in merito alle linee guida, che ritengono inadeguate, ma Resca tira diritto, e i funzionari del Mibac si adeguano, sedendosi sulle rive del fiume ad aspettare - non sarà edificante, ma sono sfiniti dai continui attacchi di ministri come Bondi, Brunetta, Tremonti e via dicendo. Si arriva al 2010 inoltrato quando finalmente appaiono le «Sollecitazioni alla domanda di partecipazione»: una specie di pre-bando, redatto seguendo alla lettera le linee guida, per selezionare quanti hanno le caratteristiche per partecipare alle gare. Il bando vero e proprio arriva dopo, trasmesso unicamente alle imprese che hanno passato questa prima fase e che per iscritto e in solido si impegnano a non divulgarne il testo - ennesima prova luminosa della trasparenza negli italici appalti pubblici. Del resto non sorprende, in ballo ci sono ben 22 gare tra cui quelle succulentissime per i già ricordati grandi poli di attrazione (Roma archeologico e artistico, Pompei, Firenze e Napoli). A questo punto, e siano oramai nel 2011, scoppia il caos: già le “Sollecitazioni alla domanda», appaiono piene di incongruenze - a esempio si chiedeva a chi aveva una concessione di fare anche la sorveglianza notturna!!! -, scritte oscuramente, tanto che la pagina Faq (dei chiarimenti) del sito Mibac viene presa d'assalto dalle richieste di delucidazione (ancora oggi periziabili sul sito). Con i bandi veri e propri le cose vanno perfino peggio: fioccano i ricorsi al Tar, con gragnuola di sentenze in favore dei ricorrenti e conseguenti controricorsi.
Le pagine scritte in nome del Popolo italiano dal Tar di Firenze, che l’11 aprile scorso con malcelata ironia sberleffa il Mibac per le grossolane imprecisioni, meriterebbero di apparire a imperitura memoria in un'antologia della letteratura italiana. Ma si tratta realmente di errori? In certi casi sì, il dubbio invece sopraggiunge riguardo a una serie di misure vessatorie imposte dalle linee guida, il cui scopo sembra essere quello di restringere la concorrenza a pochi eletti (o Electi che dir si voglia). È il caso di onerosissime fideiussioni - e materia di plurimi ricorsi - richieste come si trattasse di appalti per lavori pubblici - es. la costruzione di un ponte -, e non di concessioni per dei servizi, come una libreria di un museo. Così, al solito, tutto si blocca e i precedenti gestori continuano a regnare indisturbati: delle 22 gare a oggi ne risultano assegnati appena 3, Paestum, Ravenna e Cerveteri/Tarquinia. Da un punto di vista economico si tratta di realtà minori, eppure anche in questo caso qualcosa non funziona. Si prenda Paestum dove era stata messa a bando anche una biglietteria per il sito archeologico dei templi: ma sul cancello campeggia l'avviso che per comprare i biglietti bisogna raggiungere il vicino museo. Perché nessuno controlla? Resta una domanda: perché con tutta la prosopopea di Resca sull'intervento dei privati, proprio la sua Direzione generale sembra aver originato il blocco delle poche imprese che si affacciavano nei beni culturali, cosicché lo Stato Pantalone rischia di dover pagare salatissimi indennizzi a causa dei ricorsi per i servizi aggiuntivi? Senza rimpianti: Goodbye mister Hamburger.
RESCABOLARIO
Benchmark
Alla Valorizzazione del Mibac snocciola benchmark (tabelle) con mirabolanti risultati: per il 2010 l'aumento è del 12,2% di presenze. Arrivano i complimenti di Berlusconi. Dalle statistiche del Mibac risulta però che al Pantheon, privo di biglietti o tornelli per contare gli ingressi, cambia il metodo di stima approssimativa dei visitatori, che da 1.740.00 mila del 2009 svettano così a 4.721.000 nel 2010. Senza questo aumento di 3 milioni di presenze ”stimate», i visitatori dei luoghi d'arte italiani si sarebbero attestati sui livelli dei 2008. Complimenti mister H!
Fundraising
Propugnatore dell'intervento dei privati nella cultura, una volta nominato nel 2010 commissario straordinario alla Grande Brera, dichiara alla stampa, anche all'Unità, che sarebbe riuscito a reperire dai privati tutti i fondi per la realizzazione del nuovo museo. Quando il suo mandato scade, qualche settimana fa, per Brera il fundraising sui privati ammonta alla mirabolante cifra di euro 0 (zero) e gli unici finanziamenti a disposizione sono pubblici e provenienti dal Cipe. Complimenti mister H!
Know-how
Mentre infuria la polemica sullo sponsor Tod's per Il Colosseo, dichiara alla stampa che dopo quell'accordo lui è costretto a chiedere a Della Valle se può usare l'anfiteatro Flavio per altre sponsorizzazioni. Malgrado lavori da oltre un anno al Mibac non ha ancora il know-how: tali concessioni vanno chieste alla Sovrintendenza competente (i.e. Roma). Oppure gli secca che la più importante sponsorizzazione nel settore Beni culturali non sia arrivata dalla sua direzione? Complimenti mister H!