Dear Prime Minister Monti...”. Così si apre la missiva con la quale il professor Lionel Salem ringrazia il presidente del Consiglio per aver reso possibile la restituzione alla sua famiglia del meraviglioso Cristo portacroce di Girolamo Romanino, che apparteneva alla Pinacoteca di Brera. Ma non è una lettera di cortesia. Il mittente chiede che ora Monti faccia staccare di corsa un altro quadro rinascimentale dalle pareti di Brera – una Madonna col Bambino attribuita a Bernardo Zenale – e glielo spedisca a Londra il più speedly possibile. I due quadri facevano parte della collezione del nonno di Salem – Federico Gentili, ebreo e console italiano a Parigi fino al 1940 – e vennero venduti all’asta dal governo di Vichy nel 1941. Secondo la famiglia, quella vendita si dovette alle leggi razziali: su questa base, un tribunale francese ha deciso la restituzione di cinque quadri del Louvre.
L’Avvocatura generale dello Stato italiano, invece, fin dal 2001 aveva dato parere negativo. E questo sia perché lo Stato aveva acquistato i quadri sul mercato (dopo alcuni passaggi di mano), sia – soprattutto – perché la vendita del 1941 non sarebbe legata alle persecuzioni, ma a un debito gravante sull’eredità del Gentili, morto nel 1940.
Dello stesso parere, nel 2012, la Commissione interministeriale per il recupero delle opere d’arte: i quadri non vanno resi alla famiglia, ma sono lecitamente posseduti dallo Stato. Dunque, com’è possibile che il 7 giugno scorso il Romanino di Brera sia stato battuto da Christie’s a New York per la bellezza di 3.650.000 euro, finendo in mano a un collezionista privato ed estero? È stato forse rubato nottetempo? Nossignori, il Romanino è stato vittima della ‘valorizzazione’ : immolato sull’altare della dottrina del marketing abbracciata da tutti gli ultimi ministri dei Beni culturali e perfezionata da Lorenzo Ornaghi. Per quest’ultimo è opportuno, anzi necessario, organizzare a ritmo continuo mostre promozionali all’estero: non importa dove, non importa come, e soprattutto non importa se a prezzo di “qualche rischio”.
Nel 2011, infatti, il Romanino è stato incluso tra i 50 quadri che Brera ha spedito alla mostra Baroque Painting in Lombardy, in Florida. Peccato che Romanino c’entri col Barocco come la Minetti con le novene mariane, o che il Mary Brogan Museum For Art and Science di Thallassee non sia proprio il Metropolitan: la Ragion di Stato imponeva che Brera pagasse un tributo alle celebrazioni di “ITALY@150”. Non appena il quadro è sbarcato negli Stati Uniti gli agenti federali sono entrati nella mostra, hanno staccato il quadro dal muro e lo hanno consegnato alla famiglia che ne richiedeva la restituzione, la quale lo ha prontamente messo all’asta. Con tanti saluti a Brera.
Ora, un cittadino si chiede: se la soprintendente di Caserta invia a 19 istituzioni un verbale di tre pagine per ottenere “ogni notizia utile al recupero” di una zuccheriera e di un cucchiaino “stampati in argento del secolo XX” sottratti a una canonica di Benevento (e non è un exemplum fictum), come diavolo è stato possibile che la soprintendente di Milano nonché direttrice di Brera abbia fatto uscire dall’Italia un quadro strepitoso sul quale da dieci anni pendeva un simile contenzioso? E ora, cosa risponderà il “Dear Prime Minister Monti” al suo cortese corrispondente? Deciderà di sconfessare la posizione giuridica del Mibac, che non riconosce i titoli dei vecchi proprietari, cedendo spontaneamente un altro quadro di Brera, e costituendo così un precedente esiziale? O terrà la linea fin qui seguita dall’amministrazione, negando la restituzione? In quest’ultimo caso, l’errore di Brera apparirebbe in tutta la sua clamorosa gravità, e la Corte dei conti dovrebbe domandarsi di chi siano le responsabilità di questo pazzesco danno erariale. Come rileva l’ottimo sito storiedell’arte.com, la direttrice del museo di Thallassee ha dichiarato che i colleghi italiani erano terrorizzati non tanto dalla perdita di un capolavoro, quanto dall’eco mediatica della vicenda. Nell’amministrazione dei Beni culturali tira, in effetti, una pesante aria di censura.
Niente potrebbe essere più sbagliato: sulla tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio urge un’apertissima riflessione pubblica. A meno di non voler continuare a perdere i pezzi.
Il consiglio regionale sardo approva le «linee guida» per cambiare il Piano paesaggistico. La lobby dei costruttori fa festaIl 23 luglio il consiglio regionale della Sardegna ha approvato a maggioranza le «Linee guida alla modifica del Piano paesaggistico regionale» presentate dalla giunta di centro destra guidata da Ugo Cappellacci. È il primo passo verso lo smantellamento della legislazione di tutela delle coste che l'isola si è data durante l'amministrazione Soru (dal 2004 al 2008). Il Piano, approvato nel 2006, considera le coste bene ambientale da preservare, sulla traccia del Codice Urbani e dell'articolo 9 della Costituzione. L'intera fascia costiera viene messa al riparo dalle logiche speculative e/o di pura e semplice profittabilità economica, che, in Sardegna come nel resto d'Italia, hanno portato, in aree vastissime, a uno spaventoso dissesto del territorio. Tutti i comuni sono sollecitati ad approvare Piani urbanistici che limitino le cubature disponibili per le nuove costruzioni e puntino invece al recupero e al restauro del patrimonio immobiliare esistente.
Su questo progetto la giunta Soru, e in particolare il suo presidente, avevano puntato molto. Era un elemento centrale del programma di governo. Il Piano paesaggistico regionale (Ppr) è uno dei risultati positivi di un'amministrazione che contro la devastazione delle coste, mossa dagli interessi di una potente lobby di costruttori e di speculatori, si è schierata sin dall'inizio con coerenza e determinazione; e che questa scelta, alla fine, ha finito per pagare a caro prezzo. Bisogna ricordare, infatti, che la giunta Soru cadde con quasi un anno di anticipo rispetto al termine della legislatura perché il suo presidente dovette prendere atto, con le dimissioni anticipate, della resistenza di una parte cospicua della sua stessa maggioranza ad estendere - come il Codice Urbani prevede - le norme di tutela paesaggistica dalle coste all'intero territorio dell'isola. Nel tardo autunno del 2008 Soru si dimise contando di poter imporre ai suoi alleati il rispetto del programma di governo attraverso una riconferma del mandato che gli elettori gli avevano conferito quattro anni prima. Le cose, però, non andarono così. Durante la campagna elettorale Silvio Berlusconi in persona venne a più riprese in Sardegna per sostenere un candidato, Cappellacci, che dello smantellamento del Piano paesaggistico regionale aveva fatto un punto cardine della futura di agenda di governo. Agitando l'argomento propagandistico secondo il quale il Ppr, bloccando l'edilizia (una delle principali attività economiche di una regione che ha un apparato industriale debolissimo e per buona parte in via di smantellamento), avrebbe causato la perdita di migliaia di posti di lavoro, ilcandidato del centro destra riuscì ad intercettare una fascia ampia di opinione pubblica.
A urne chiuse, nel febbraio del 2009, Cappellacci riuscì a prevalere, anche se di poco, su Soru. Da quel momento la pressione della lobby dei costruttori edili che avevano sostenuto la candidatura del pupillo sardo del Cavaliere, cominciò ad esercitarsi con forza. La cambiale doveva essere pagata, e a meno di due anni dalle elezioni regionali non si può più aspettare.
Cappellacci non ha agito subito perché smantellare il Ppr non è facile. Intanto c'è la resistenza politica dei gruppi ambientalisti e della minoranza di centrosinistra schierata (con sfumature e gradi di convinzione diversi) con un Soru che si muove attraverso la sua associazione, Sardegna democratica, per fermare i cementificatori. E poi il Piano è uno strumento di rigorosa attuazione non solo del dettato costituzionale, ma anche della legislazione nazionale (in primis il Codice Urbani) di tutela del paesaggio. Non ha caso esso ha resistito a diversi ricorsi presentati in sede amministrativa, con il Tar che è sempre intervenuto a respingere i tentativi di invalidarlo in tutto o in arte. Smontarlo significa esporsi ad azioni legali già annunciate da Italia nostra e da Legambiente e anche all'azione di controllo che lo Stato, e in particolare le Sovrintendenze e il ministero dei Beni culturali e ambientali, sono chiamati a svolgere nell'ambito delle loro competenze istituzionali.
È per questo che le «Linee guida» presentate da Cappellacci e approvate dal Consiglio regionale puntano non alla cancellazione del Ppr ma a un suo snaturamento per vie indirette. Un solo esempio. Si legge a pagina 20: «Più che la norma vincolistica che assume efficacia solo nei confronti della conservazione, dovranno emergere maggiormente le prescrizioni e gli indirizzi». Ebbene, questa impostazione in Italia è purtroppo molto diffusa, con esiti nefasti. Si pensi soltanto al «Documento di indirizzo» ideato dalla ex-sindaco di Milano, Letizia Moratti, in sostituzione del Piano regolatore generale del capoluogo lombardo, non a caso prontamente sospeso dalla giunta Pisapia. Indirizzi e non regole certe.
La giunta regionale sarda questo vuole: sostituire alle regole certe stabilite dal Ppr indirizzi generali fissati con una delibera della giunta Cappellacci. Maglie larghe che consentirebbero ai costruttori di riprendere a cementificare le coste seguendo la bizzarra definizione di «sviluppo sostenibile» contenuta alla oagina 15 nelle Linee guida: «Sviluppo sostenibile, ovvero un equilibrio tra esigenze di tutela ambientale e sviluppo economico che consenta da una parte di soddisfare i bisogni delle persone senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare i loro bisogni, dall'altra di generare reddito anche nell'immediato. In un quadro che garantisca la mediazione tra la tutela delle risorse primarie del territorio e dell'ambiente e le esigenze socio-economiche della comunità».
«A chi parla di mediazioni tra elementi diversi - commenta Edoardo Salzano, l'urbanista veneziano che ha guidato il gruppo di lavoro che a suo tempo ha redatto il Ppr - bisogna ricordare sempre che il risultato della mediazione dipende dalla diversa forza e consistenza dei due elementi, in questo caso profitti e ambiente, tra cui si vuole mediare. E certamente nella Sardegna e nel mondo di oggi, e in particolare nella compagine di cui Cappellacci è espressione, la forza degli interessi economici basati sull'appropriazione d'ogni bene riducibile a merce e suscettibile di arricchirne il possessore è una forza ben maggiore di quella degli interessi volti a riconoscere e a tutelare il valore delle qualità che natura e storia hanno costruito, che è espressa dal paesaggio: quelle qualità che sono la base di ogni possibile domani migliore».
Il simbolo dell’abbandono è diventato la Torre Galfa occupata dai ragazzi di Macao, quel gigante di vetro e acciaio inutilizzato da quindici anni. Proprio mentre, poco distante, i grattacieli di Porta Nuova stanno cambiando lo skyline. Solo un indirizzo, però, di un’altra Milano: una città fantasma nascosta in altri palazzi, in altri piani, ex cinema, uffici, torri, scali ferroviari, che adesso Palazzo Marino cercherà di ricostruire in una mappa. Un censimento per risalire soprattutto alla proprietà di quegli edifici: perché è solo così, capendo a chi appartengano, che si potrà tentare la svolta. «Intendiamo fare in modo - spiega l’assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris - che chi ha immobili in disuso o abbandonati non possa ottenere autorizzazioni per nuovi interventi su aree libere». Un disincentivo forte a costruire ex novo, insomma, prima di aver pensato a come riutilizzare i tanti vuoti della città.
Sono norme precise quelle che sta studiando Palazzo Marino: saranno inserite nel nuovo regolamento edilizio che il Comune sta scrivendo. «Una bozza verrà presentata alla città a settembre» racconta l’assessore De Cesaris. Sarà il primo passo per aprire il confronto con i gruppi consiliari, i partiti, gli operatori; e approvare entro la fine dell’anno uno strumento essenziale per far funzionare pienamente il Piano di governo del territorio, e quindi di progettare la nuova città. «Serve un regolamento aggiornato alle nuove esigenze di Milano - aggiunge De Cesaris - e al nuovo Piano che, allo stesso tempo, possa snellire anche alcuni procedimenti». In quegli articoli, che dovranno stabilire le future regole per qualsiasi intervento edilizio, diventeranno legge anche alcuni punti del Pgt: dal divieto di costruire nei cortili ai premi volumetrici per chi seguirà i criteri di consumo energetico. Fino alla rivoluzione che dovrebbe portare all’impossibilità di far spuntare nuovi palazzi per chi è proprietario di stabili vuoti. Un problema, quello dell’abbandono, che riguarda anche i cantieri che rimangono a metà, magari per anni. «Dobbiamo fare in modo dice l’assessore di essere più incisivi verso i proprietari, introducendo ad esempio obblighi legati al decoro del territorio».
Ma quante sono le torri Galfa a Milano? Per ora, le prime stime alla base di un “progetto di riuso temporaneo dei luoghi dimenticati” che l’amministrazione ha avviato con il Politecnico e con l’associazione Temporiuso.net arrivano a ipotizzare quasi quattro milioni di metri quadrati vuoti tra caserme dismesse (un milione), scali ferroviari (un altro milione), e un patrimonio pubblico e privato che comprende uffici, appartamenti, negozi. Così, ad esempio, solo due piani delle torri di Ligresti di via Stephenson sono occupati, e a molte cascine si aggiungono cinema come l’ex Maestoso di corso Lodi e l’ex poligono di tiro. «È un problema che va affrontato dice l’assessore. L’obiettivo è recuperare l’esistente seguendo il principio del minor consumo possibile di suolo, naturalmente senza preclusioni a nuove proposte di costruzione o al cambio di quello che si è già costruito».
La città eterna in mano agli alemanni: successe nel 1527, e fu il Sacco di Roma; poi con l’occupazione nazista, ed è meglio sorvolare. Se quelle furono tragedie, oggi il tutto ricicla in farsa. «L’irto e increscioso Alemanno» (profetico Giovanni Berchet!) ne ha detta un’altra delle sue.
Nel 2008, dribblando le domande sulla croce celtica che si era fatto benedire a Gerusalemme, aveva sentenziato che gli sembrava un’enormità aver definito il fascismo un male assoluto («molte persone vi aderirono in buona fede»). Oggi aggiunge che nessuno ha spazzolato il Colosseo come Mussolini: «un intervento così forte, così complessivo, così organico, così significativo» non si vedeva, secondo il sindaco, dal 1938. Poco importa che non sia vero (come ha chiarito la direttrice del monumento parlando con la «Stampa»): il punto è la coazione a sciorinare il proprio intramontato orizzonte culturale.
E immagino i sospiri di Della Valle, che certo non aveva in mente proprio quel modello quando ha deciso di investire 25 milioni in un restauro che durerà tre anni, e che aprirà i cantieri entro dicembre. Folclore a parte, gli interrogativi veri riguardano proprio il ruolo dell’imprenditore. Il ministro Lorenzo Ornaghi – indefesso difensore del patrimonio e dell’interesse pubblici – non ha parlato di ‘sponsorizzazione’, ma di «mecenatismo». La differenza è cruciale. Lo sponsor conta di ricavare (legittimamente) un immediato utile economico dal suo investimento: e ciò molto spesso (se non sempre) risulta in irrimediabile contrasto con il fine costituzionale del patrimonio, che non è quello di produrre reddito, ma cultura ed eguaglianza. Il mecenate, invece, ha un obiettivo di legittimazione morale, culturale e sociale non traducibile in denaro: una figura consueta negli Stati Uniti, non solo grazie alla defiscalizzazione delle donazioni, ma grazie ad un diverso modello culturale. Se Della Valle sarà un mecenate o uno sponsor saranno i fatti a dircelo: quale sarà l’uso di quello che oscenamente viene chiamato il ‘brand Colosseo’? Quanto sarà impattante la nuova sede del centroservizi-merchandising che sarà costruito in un’area delicatissima e supervincolata? Quale l’effettivo controllo del Mibac sui restauri, e quale l’accessibilità alla documentazione?
Fin da ora si può notare che un vero mecenate sarebbe forse stato disposto a legare il proprio nome a monumenti ben più in pericolo del celeberrimo anfiteatro. Ma lo Stato non gli può certo imporre come spendere i suoi soldi: non siamo mica ai tempi di Mussolini!
Giornata nera per la Galleria Borghese e se è nera per la Galleria Borghese è nerissima per tutto il patrimonio culturale italiano. Dalla facciata dell'edificio, proprio sotto la terrazza, si è staccato parte dello stemma con i simboli dei Borghese, che quell'edificio costruirono all'inizio del Seicento. Un visitatore è stato appena sfiorato. Mentre si allestiva l'impalcatura per mettere in sicurezza il resto dello stemma, indebolito dalle nevicate, alcuni operai smontavano il bar: niente più caffè e acqua minerale per i duemila visitatori che in media ogni giorno visitano la galleria. Che d'estate sono di più e, allibiti, assistevano allo sgombero, dovuto, si sentiva dire, al mancato rinnovo di una concessione, a royalties non pagate... Scaduta è anche la convenzione con il presidio della sicurezza, per cui da ieri non c'è chi controlli l'impianto di climatizzazione o l'ascensore.
E non è finita: domenica è seriamente a rischio l'apertura del museo. I custodi in servizio saranno 6, la soglia minima per garantire la sicurezza delle sale, le poche che comunque saranno accessibili, e i servizi necessari ai visitatori. Se qualcuno si ammalasse, la Galleria Borghese, con l'Apollo e Dafnedi Bemini, il Ritratto d'uomo di Antonello da Messina e poi Raffaello, Canova, Caravaggio, Tiziano, Veronese, Rubens, non potrebbe aprire. Un altro collasso per il Polo museale romano, ancor più tragico della chiusura domenicale di Palazzo Barberini, dove almeno si è riusciti a mettere una toppa per il mese di agosto, consentendo in via eccezionale l'allungamento dello straordinario ai custodi e garantendo che almeno alcune sale siano aperte. Il problema, alla Galleria Borghese come a Palazzo Barberini, è lo stesso: mancano i custodi, gli straordinari sono stati ridotti dal 100 al 50 per cento e in periodi di ferie il sistema si paralizza, anche perché, denuncia qualcuno, il personale di vigilanza è mal distribuito fra tutti i musei romani.
Da tempo la Galleria Borghese è in sofferenza. Sono partite diverse segnalazioni sui rischi che la neve di quest'inverno ha prodotto. Alcune sale restano chiuse e alla cronica penuria di fondi si è aggiunto il fatto che sono saltate due mostre di arte contemporanea, quella di giugno e quella in programma a ottobre, mostre integralmente pagate da sponsor, con i soldi dei quali si riusciva comunque a pagare straordinari ai custodi per tenere aperto tutto il museo. Problemi burocratici, si è detto, autorizzazioni in ritardo: e gli sponsor sono fuggiti. Il ministero tace, impotente, proprio mentre annuncia per dicembre l'avvio dei restauri del Colosseo con i 25 milioni di Diego Della Valle. Da qualche giorno è insediata una nuova direttrice generale alla Valorizzazione, Anna Maria Buzzi, che ha preso il posto di Mario Resca. Ma ieri alla Galleria Borghese erano in visita i direttori della due principali case d'asta di Taiwan e di Hong Kong. Chissà che impressione avranno ricavato dello stato in cui versa il nostro patrimonio d'arte.
Non c’è pace per il paradiso di Malfatano, sulla costa di Teulada: un facoltoso avvocato milanese ha deciso che centinaia di ettari di terra a due passi dal mare, quelli sui quali la Sitas ha costruito in parte un resort per milionari, deve passare in mani arabe. Un po’ come la Costa Smeralda, ma con obiettivi da chiarire. C’è un documento che lo prova: la società cui il legale Paolo Francesco Calmetta ha trasferito i diritti ereditari sull’area, che sostiene di aver acquisito dal pastore teuladino Ovidio Marras e dalla sorella Giovannica, si chiama Ace of Spades Guandong Opportunity Investments limited, la sede dichiarata è Dubai, negli Emirati. Su quest’operazione milionaria infuria una battaglia legale senza esclusione di carte bollate e da qualche mese la Procura di Cagliari indaga contro ignoti per truffa.
L’inchiesta. Chiusa la prima fase di raccolta degli atti da parte della Guardia di Finanza, il pm Giangiacomo Pilia si prepara a volare a Milano per dare una risposta giudiziaria agli interrogativi contenuti in un esposto firmato dall’avvocato Carlo Federico Grosso, il legale incaricato dalla Sitas – l'immobiliare sarda di Caltagirone, dei Benetton, di Toti e della Sansedoni – di contrastare in giudizio l’assalto alla costa di Teulada lanciato da Calmetta. Ma più che interrogativi quelli proposti dal celebre penalista sono sospetti, fondati sull’intreccio di società e di atti costruito da Calmetta perché il giudice civile avalli con una sentenza quello che appare come l’affare immobiliare del secolo: in ballo ci sono decine e decine di milioni.
Milioni di euro. Ma per capire quali interessi ruotino attorno alla proprietà familiare dei Marras occorre fare un passo indietro, fino all’anno scorso quando giornali e canali tv di tutta Italia raccontano la vicenda come fosse il remake del leggendario duello fra Davide e Golia: il pastore ottantenne Ovidio Marras contro il gigante Sitas, Ovidio il tutore di una Sardegna arcaica e spontaneamente ecologica che difende il suo stradello e ottiene dal tribunale la demolizione di un hotel a cinque stelle avversato dagli ambientalisti e fortemente voluto dall'amministrazione di Teulada. Sembrava che il lotto dei contendenti, per quanto squilibrato, fosse circoscritto a questi nomi. Invece, col passare dei mesi, lo scontro aperto sul paradiso di Malfatano è diventato un intrigo internazionale che coinvolge misteriosi personaggi di Dubai e soprattutto lui, l’avvocato d'affari Paolo Francesco Calmetta, vertice di una galassia di società con sede nel Delaware e nel Nevada. Il punto è questo: Calmetta, grazie a un contratto firmato sbrigativamente dai Marras e attraverso la società Zylberberg Fein LLc con sede a Dover nel Delaware, sostiene di aver acquisito dalla famiglia teuladina i diritti ereditari sull'area di Tuerredda, oggi in parte occupata dal resort della Sitas. Ma com’è che il vecchio Ovidio entra in contatto con uno studio legale milanese griffatissimo come il Calmetta Avvocati Attorney Llp, trascinando l’immagine innocente del proprio furriadroxiu, sei pecore e orticello, fra i grattacieli sfavillanti di Dubai?
L’intermediario. Il tramite si chiama Jochen Bruch, imprenditore svizzero che opera a Teulada. E’ lui che ha convinto la famiglia Marras – ormai rassegnata a vedere la propria dimora storica circondata da hotel – a chiedere aiuto a Calmetta. Ovidio non sopportava che per mettere in piedi il corpo centrale del resort gli avessero deviato la stradina sterrata che conduce al suo rifugio spartano. Ma può scomodarsi un legale del calibro di Calmetta per gestire una questione di questo genere? Bruch ha pensato di sì e infatti l'avvocato milanese ha preso in mano la situazione. Prima ha ottenuto dal tribunale un'ordinanza di demolizione dell'hotel, poi ha proposto alla famiglia Marras di firmare un contratto incomprensibile per chi non mastichi a fondo il diritto civile, in base al quale Ovidio avrebbe ceduto gratis alla Zylbelberg Fein srl i diritti ereditari sull'area Sitas, rimasta per complesse ragioni legali in mano ai Marras. Quando la famiglia teuladina s'è accorta del rischio e ha nominato un nuovo legale, l'avvocato Andrea Pogliani, Calmetta ha fatto valere la clausola contrattuale che prevedeva il ricorso a un collegio arbitrale di Milano.
La controversia. Così Ovidio, partito da una lite condominiale, si è trovato a fronteggiare una controversia internazionale dagli esiti imprevedibili. Controversia aperta: mentre l’avvocato Pogliani metteva insieme gli atti per capire come difendere Ovidio e la sorella Giovannica nel giudizio arbitrale, la Zylbelberg Fein non ha perso tempo e ha citato Sitas, Montepaschi Capital Service e Intesa San Paolo davanti al tribunale di Cagliari per ottenere quanto sostiene che gli spetti: i diritti sull'area oggi in gran parte occupata dal resort, a sua volta bloccato dal Tar dopo il ricorso di Italia Nostra.
Ma è qui che messe da parte le stranezze cominciano i misteri. Perché a siglare l'atto di citazione non è Zylbelberg Fein, firmataria del contratto coi Marras: nel documento compare Ace of Spades Guandong Opportunity Investments limited con sede a Al Tower, Sheikh Zayed road di Dubay, negli Emirati Arabi che come racconta l’avvocato Grosso nell’esposto, dice di agire per conto di tale Andreas Moustras, incaricato a sua volta con una procura firmata a Limassol, nell’isola di Cipro. Così che il presunto titolo di proprietà sulle terre di Ovidio e Giovannica Marras danza tra Milano, Dubai, Dover e Limassol mentre sulla vicenda si affacciano personaggi di cui è incerta persino l’identità. Al punto che il giudice Paolo Piana, cui Ace of Spades ha ricorso contro Sitas per ottenere il riconoscimento della proprietà su Tuerredda, anziché decidere punta un faro sugli affari di Calmetta e nell’ordinanza chiede ad Ace of Spades di mettere le carte in tavola.
Personaggi misteriosi. Perché a parte le sedi esotiche e l’impianto piuttosto aggrovigliato della storia, nell'atto di citazione firmato dall'avvocato Vincenzo Cuffaro del foro di Roma l'amministratore si manifesta con due nomi diversi – Andreas Moustras nell'atto di citazione e Andreas Thomas Montrsas nella certificazione rilasciata dall'ufficio del registro della zona franca di Al Kaimaii – e soprattutto non si capisce attraverso quali passaggi e perché i diritti milionari sull'area di Tuerredda siano stati trasferiti il 24 gennaio 2011 a Dubai dove ha sede la società o alle Isole Vergini come compare nella corrispondenza legale intercorsa con Sitas.
Ma c’è dell’altro e l’avvocato Grosso non manca di sottolinearlo nell’esposto alla Procura: perché all'indirizzo di Dubai la società non è reperibile? Grosso spiega di aver disposto ricerche d’ogni tipo, anche attraverso il Cerved Group, il servizio leader nel settore delle informazioni finanziarie: Ace of Spades risulta società «completamente sconosciuta». Ed è il Cerved che raccomanda «massima prudenza in caso di relazioni di affari con la società vista la poca trasparenza che la circonda». Insomma: Ace of Spades, se esiste, non si sa dove sia registrata. A meno che non si debba prestare fede all’intestazione di una nota legale – citata dall’avvocato Grosso nella denuncia – in cui la fantomatica società risulterebbe avere una sede a Tortola, nelle British Virgin Island: «Con questa missiva – osserva il penalista – Ace of Spades è agilmente balzata dal centro della penisola araba al clima subtropicale dell’isola delle Tortore». Salvo poi tornare a Dubai in un’altra lettera del 13 giugno 2011. Peraltro il 6 giugno 2011 un avvocato di nome Michael C. Spencer dello studio Milberg Llp di New York – riferisce Grosso – ha contattato il sindaco di Teulada Gianni Albai, presentandosi come legale della Ace of Spades e «asserendo senza fornire elementi concreti che la Ace of Spades avrebbe acquistato alcuni diritti riguardanti immobili situati nel territorio del Comune di Teulada». Chi è Spencer? E per chi lavora? Ecco perché, travolto dai dubbi, il giudice Piana ordina ai legali di Ace of Spades di chiarire e intanto dispone la trasmissione del provvedimento motivato alla Procura, che delega la Guardia di Finanza a indagare. Un lavoro complicato, quello condotto delle Fiamme Gialle: solo collegare le società che fanno capo al legale lombardo è come affrontare un rebus. Anche perché a scorrere le visure e ad analizzare gli atti si scopre che spesso le società entrano in conflitto tra loro e poi si accordano, con atti firmati per una società da Calmetta e per l'altra ancora da Calmetta, ma per conto dell'amico viennese Jacob Hirchbeck.
Il personaggio. Quarantasette anni, madre tedesca, descritto come uomo affabilissimo e dall'eloquio raffinato, Calmetta si muove preferibilmente sull'asse Milano-Lugano. E' nella città svizzera che abita, in una villa con giardino. A Milano ha studio in via Santo Spirito 14, circa 400 metri e tre box auto alle spalle di via Monte Napoleone. Per muoversi sul medio raggio usa una Mercedes Amg da 220 mila euro, ma la società di Monaco di Baviera che gestisce i suoi leasing offre a lui e agli amici altre vetture come Jaguar e Audi A8. Un tenore di vita che apparirebbe in contrasto con la dichiarazione dei compensi professionali del 2008: appena 8200 euro. Impressionante l'albero geneaologico delle sue società: nel Delaware e nel Nevada – dove non c'è reciprocità giuridica con l'Italia – compaiono la Coldwell e la Zimbalist, in Italia a seconda dell'affare in corso compare l'Immobiliare Ellebi, la Gragnana, la Cantarana o la Mediaonline. Una galassia fortemente interconnessa in cui Calmetta si muove agilmente. Solo che nel caso di Tuerredda-Malfatano e dello strano rapporto d’affari con gli ignari fratelli Marras qualcosa sembra non quadrare: «Si tratta – scrive l’avvocato Grosso nell’esposto – della messa in atto di una strategia ben precisa e coordinata, avviata e condotta a dir poco con buona dose di disinvoltura e in spregio alle più elementari regole di trasparenza, utilizzando un soggetto inafferrabile come Ace of Spades». Conclude Grosso: «Gli artifizi e gli abili espedienti esposti inducono a ritenere di trovarsi di fronte ad una serie di iniziative dalla caratura inesorabilmente truffaldina».
Come è possibile che una giunta che aveva fatto della difesa dei beni comuni il suo principale punto di forza, l’astro guida dell’ampio spettro delle sue politiche, potesse in pochi giorni di fatto smantellare l’ufficio comunale che più di ogni altro aveva nel corso degli ultimi venti anni realmente e concretamente lavorato per tutelare il principale bene comune e cioè la nostra città?
Ho studiato e seguito il gruppo — conosciuto ormai come “I ragazzi del piano”, il titolo del mio libro del 2007 — che ha dato vita agli inizi degli anni Novanta all’Ufficio di Piano e che aveva lavorato insieme fin dalla fine degli anni Settanta a importanti progetti di riqualificazione urbana. Si è trattato di un gruppo molto competente che ha fatto pratica di urbanistica pubblica, realizzata negli uffici comunali, svincolata da interessi speculativi, ispirata ai valori della riqualificazione, della tutela della salute, delle risorse naturali, del paesaggio.
Un’urbanistica che ha guardato alle politiche per il territorio urbano non come interventi giustapposti, e segmentati, ma tenendo conto delle intime e profonde relazioni che legano insieme parti diverse della città. Per svariati anni l’Ufficio è stato un laboratorio dove si sono formati molti giovani urbanisti, e meta di gruppi di stranieri giunti qui per imparare come creare strumenti di politica urbana ispirati ai principi dell’interesse collettivo e della tutela ambientale.
Non sarà che di tutto ciò si è parlato e si continua a parlare poco? Cosa ne sanno i cittadini di Napoli, anche i più colti e informati, di quello che ha realizzato l’Ufficio di Piano? Si sussurra, quasi a vergognarsi, che qualcosa in questa città ha funzionato bene. E infatti, a parte gli articoli di firme autorevoli apparsi su “Repubblica” e la protesta isolata di Carlo Iannello, non assistiamo a un vivace e acceso dibattito pubblico su queste tematiche. Eppure qualcosa di importante che riguarda tutti noi è successo, la cui perdita potrebbe essere immensamente più grande rispetto al guadagno puramente di immagine che deriva dalla Coppa America o dalla costruzione dello stadio o dalle insule di Romeo.
Ho studiato e seguito questo gruppo perché ho sempre fortemente creduto che Napoli abbia bisogno di rappresentarsi anche per ciò che di buono cresce e matura in sé. La reificazione senza fine e senza speranza all’interno del dibattito pubblico locale, nazionale e internazionale dell’immagine della Napoli dell’inefficienza, della corruzione, della speculazione, della clientela, della camorra, del malaffare e via dicendo non solo produce danni gravissimi sul piano economico, ma finisce con l’indurre tutti a confermarla, a non lottare per migliorarla. Lo stereotipo assolutizza una parte della realtà. E le altre?
Ricordiamo qui in estrema sintesi alcune delle principali esperienze realizzate dall’Ufficio del Piano nel corso di due decenni. Innanzitutto l’elaborazione del Piano regolatore generale, la cui elaborazione è durata circa dieci anni dal 1993 al 2004. Il Piano impone vincoli e regole all’attività dei privati (che pure trova grande spazio a dispetto di quanto dicono i suoi detrattori) volti a tutelare un ambiente urbano fragilissimo, come ci ha insegnato la storia della Napoli contemporanea corredata di dissesti idrogeologici e degli effetti più disastrosi di un uso indiscriminato e scriteriato del suo territorio. Ed è nell’ambito del Prg che è stato concepito quel sistema di mobilità su ferro di cui cominciamo a godere i frutti grazie all’apertura delle nuove stazioni metropolitane. Oltre a ciò esso ha consentito l’istituzione del Parco delle Colline, un ampio polmone verde a nord di Napoli che ha salvato quest’area di confine dalla speculazione edilizia e dove di realizza una agricoltura urbana con produzioni pregiate di vino, olio e frutta.
Occorre inoltre ricordare che secondo un dato dell’Unione industriali dall’approvazione definitiva del Piano, i progetti di riuso e riqualificazione a fini sia produttivi che abitativi che sono stati avviati da privati nel suo ambito ammontano nel loro complesso a 3 miliardi di euro. Progetti che portano soldi sotto forma di oneri di urbanizzazione che il Comune può reimpiegare per servizi pubblici come scuole, asili, parchi, impianti sportivi e così via.
Una grande mobilitazione di risorse, dunque, di cui il Comune potrebbe avvantaggiarsi portando benefici alla città proprio in un momento di acutissima crisi finanziaria.
So che l’assessore all’Urbanistica Luigi De Falco, che è persona di sicura provenienza ambientalista, nella sua intervista a Stella Cervasio, ha ribadito che il Prg non verrà messo in discussione. Non è chiaro, tuttavia, quali parti della città rimarranno di competenza del suo assessorato e quali passeranno ad altri. Il ridimensionamento dell’Ufficio del Piano, tuttavia, non è poca cosa e riveste comunque un grande valore simbolico. E la politica, si sa, si nutre di simboli.
In conclusione, l’Ufficio del Piano andrebbe sostenuto, potenziato e rilanciato dalla politica e dall’amministrazione proprio in virtù di ciò che è stato realizzato nel passato e delle straordinarie potenzialità per il futuro che esso incarna. Siamo ancora in tempo? La decisione della giunta suscita serie perplessità. E se dovesse essere confermata, la Napoli dei nostri figli potrebbe pagare amaramente le conseguenze di scelte prive di una visione riformatrice di lungo periodo, non fondate sulla consapevolezza di quale sia l’interesse generale, schiacciate invece sul bisogno del consenso immediato. E sarebbe, ancora una volta, il trionfo della Napoli dello stereotipo.
Milano. Dalla Cascinazza di Monza alla Company town di Milano 3. Corre lungo questo perimetro l’ultimo sogno edilizio di Paolo Berlusconi. Nel primo caso, però, il fratello del Cavaliere, dopo vent’anni di trattativa, ha visto naufragare il progetto e si è ritrovato indagato per istigazione alla corruzione. Nel secondo, invece, l’affare, che mette sul piatto, nel comune di Basiglio, quasi 300mila metri cubi di cemento per un utile netto stimato in 150 milioni di euro, sembra non trovare ostacoli. Tanto più che qui il business plan, a differenza del progetto monzese, non ha bisogno di variante ma rientra nel nuovo Programma di governo del territorio, voluto da Marco Flavio Cirillo, sindaco Pdl al secondo (e ultimo) mandato, già in lizza per la carica di coordinatore provinciale del Popolo della libertà, poltrona poi persa a favore del larussiano Sandro Sisler.
Ai nastri di partenza dell’ennesima speculazione, che si svilupperà tra un campo da golf e un laghetto, ci sono l'Immobiliare Leonardo e la Green Oasis. La prima è partecipata al 100% dalla Finsec, srl di Paolo Berlusconi (95%) e della figlia Alessia (5%). Amministratore delegato della Leonardo è Antonio Anzani, architetto storico di Arcore, presente con la sua Milano real & Com.
Lo stesso Anzani può vantare una carica di consigliere nella Milano Serravalle Engineering, società di progettazione partecipata al 100% dalla Milano-Serravalle, detenuta per il 52% dall'Azienda sviluppo e mobilità, a sua volta riferibile (per l'82%) alla Provincia. Ha sapore berlusconiano anche la Green Oasis. La società entra nella partita dopo aver rilevato le quote della In House srl (già titolare dei terreni). Patron dell’operazione è l'imprenditore Fulvio Claudio Monteverdi, il quale, nel gennaio 2010, firma l'atto di compravendita. A dicembre In House viene incorporata nella Green Oasis riconducibile sempre a Monteverdi. La società è partecipata per il 30% dalla Deb Holding fondata da un ras della finanza come Daniel Buaron, il quale con la sua First Atlantic (poi Idea Fimit), pur non indagato, finirà in mezzo all'inchiesta sull'Enpam (Istituto di assistenza previdenziale dei medici), per alcune compravendite di immobili.
Tra gli assetti societari della Deb Holding compare anche Maurizio Carfagna, consigliere della Banca Mediolanum di Ennio Doris e di Molmed, azienda specializzata nelle ricerca nucleare con un goloso libro soci composto, tra gli altri, da Fininvest, dal San Raffaele di don Luigi Verzé e da Marina Del Bue, il cui fratello Paolo è tra i fondatori di Arner, la banca d'affari accusata dalla Procura di Milano di aver gestito i fondi neri della stessa Fininvest. Tutto bene, dunque? Non proprio perché sul Pgt di Basiglio si allunga la protesta dell’Associazione per il Parco sud Milano e del Comitato cittadino per il territorio di Basiglio. Loro, dicono, questo mare di cemento non lo vogliono. “La popolazione – sostengono – è in diminuzione, oltretutto il 10% delle case presenti risultano vuote”.
Le due associazioni, inoltre, si mettono, ventre a terra, a raccogliere firme per un referendum consultivo, che faccia esprimere la popolazione. A luglio il via libera e in poche settimane il comitato referendario mette in fila oltre 1.500 firme. Quorum raggiunto. Si voterà. Il risultato non sarà, però, vincolante. Il sindaco potrà anche non tenerne conto e procedere con il Pgt.
Eccoci, dunque, a sud-ovest di Milano. Poco oltre, il cemento di Rozzano, le bretelle ingolfate di traffico, i centri commerciali. Accanto il comune di Basiglio (il più ricco d'Italia): 500 anime fino al 1975, quando le gru della Edilnord di Berlusconi trasformano prati e rogge in una città satellite a pochi chilometri dal Duomo. Tanto cemento, ma in fondo, non troppo. Il verde viene salvaguardato. Nel 1993, però, Paolo Berlusconi torna alla carica. Tenta una variante al Pgt: 257 metri cubi di cemento e utile netto di 300 miliardi di lire. In prima fila la Cantieri Riuniti Milanesi di Berlusconi junior. Finirà male. Operazione bloccata. Decisivo un referendum, voluto e messo nel regolamento comunale dall'allora sindaco Dc Alessandro Moneta, un manager vicino al Cavaliere di Arcore.
Adesso, vent'anni dopo, la storia sembra ripetersi. E mentre buona parte della popolazione lancia l'allarme, la giunta comunale affida una consulenza (per il 2011) in materia urbanistica ad Antonino Brambilla, già coinvolto in Mani Pulite e che da lì a poco (gennaio 2012) verrà arrestato per corruzione assieme al consigliere regionale Pdl Massimo Ponzoni. Dubbi, ombre, domande che il Fatto Quotidiano ha rivolto al sindaco Cirillo attraverso il suo ufficio stampa, senza, però, ricevere risposta.
ERA uno dei simboli della magnificenza formigoniana, un eliporto annesso al grattacielo quasi come negli States. Ma ora lo spazio di decollo e atterraggio realizzato all’altezza dell’undicesimo piano di Palazzo Lombardia non potrà più essere utilizzato come tale, perché viola i limiti previsti dalla legge per le emissioni sonore. A stabilirlo è il Tar della Lombardia, che con una sentenza ha annullato l’autorizzazione rilasciata dall’Enac alla Regione per utilizzare la superficie rotonda come base di partenza e arrivo degli elicotteri. Un giudizio che accoglie il ricorso presentato dai residenti delle case intorno a Palazzo Lombardia, circa trecento famiglie di sei condomini in via Alessandro Paoli (una piccolatraversa di Melchiorre Gioia) che da maggio del 2011 hanno intrapreso una battaglia legale contro l’eliporto.
Di elicotteri, a dirla tutta, non se ne sono visti granché: giusto una manciata di voli tra cui spiccal’atterraggio dei finalistiIsola dei famosi”, arrivati lì lo scorso 5 aprile per disputare le “prove di sopravvivenza” dell’ultima puntata organizzate nella piazza del nuovo Pirellone. Quello che però preoccupava maggiormente i residenti era il progetto, più volte annunciato dalla Regione, di realizzare un servizio di elitaxi per collegare gli aeroporti milanesi con i centri nevralgici della città, che aveva proprio su quella superficie una delle sue “stazioni”. Un incubo per quelle famiglie, considerato che già le poche volte in cui si sono visti elicotteri poggiarsi sulla piattaforma si sono vissuti momenti di panico: vibrazioni fortissime, rumori assordanti e odore di carburante che entrava dalle finestre, spinto da potenti vortici d’aria.
Adesso la sentenza del Tar sembra porre definitivamente la parola fine anche su quel progetto, peraltro mai realmente partito. Secondo il tribunale amministrativo, infatti, il ricorso dei residenti è fondato perché denuncia la «violazione dei limiti previsti dalla legge per le emissioni sonore» e stabilisce il principio per cui il rumore prodotto da un elicottero, per quella zona, è troppo forte. Nella tesi presentata nel testo — e accolta dal tribunale — si sosteneva che l’autorizzazione all’uso dell’elisuperficie era incompatibile con la classificazione acustica del quartiere. Non essendo ancora pronto il piano di zonizzazione acustica del Comune, l’area intorno al nuovo Pirellone rientra quindi nei termini della legge nazionale, che stabiliscono un limite di 50 decibel notturni e 60 diurni. Numeri ben al disotto degli 85 di un elicottero, secondo il comitato.
Per i residenti è una battaglia vinta, anche se la guerra è tutt’altro che finita. «Siamo soddisfatti soprattutto perché il tribunale ha accolto le nostre osservazioni sui livelli di rumore — spiega Anna Fabris del comitato “quartiere Modello” — e questa per noi, che abbiamo sempre combattuto da soli, era la priorità. Adesso comunque è ancora presto per esultare, perché ci aspettiamo un ricorso in Consiglio di Stato». Nel frattempo, però, di elicotteri non se ne vedranno.
Postilla
Quella sanzionata dal tribunale amministrativo parrebbe a prima vista una cosuccia, per quanto positiva a suo modo, che non va oltre la difesa della qualità della vita o magari dei valori immobiliari di un paio di isolati milanesi. E invece si sanziona ufficialmente l’arroganza, di metodo e di merito, con cui il Celeste, i suoi accoliti e clientes, ma ci aggiungere senza problemi il modo di produzione dell’architettura globalizzata e degli annessi uffici di pubbliche relazioni di intendere la trasformazione urbana. Un’area scelta per motivi che nulla hanno a che vedere con la ragionevolezza, con un pur vagamente inteso rapporto con la città, le sue forme, le sue specificità (il confronto facile senza cercare chissà cosa se ne sta lì di fianco nell’ex famosa e occupata torre Galfa). Un gigantesco oggetto di design nato su un remoto tavolo da disegno del tutto “sterile”, e scaraventato appunto dove capita, nel caso specifico dove decide il piccolo despota da pianerottolo Formigoni, con contenuti urbanistici e strategici uguali a zero, basta il potere di volerlo lì e così. Ignorando anche il resto degli edifici che gli stanno attorno, come in certe vecchie stampe newyorkesi prima che lo scempio della massa incombente dell’Equitable Life Insurance Building producesse la prima ordinanza moderna di zoning. Nel fallico Formigon Tower c’è stata anche la cacatina di piccione sopra una torta sufficientemente indigesta da sola, con quella piattaforma di atterraggio davanti ai balconi dei vicini, gerani al sesto piano inzaccherati di scarichi e orecchie sfondate dai rotori, perché il ducetto regionale potesse godersi il panorama insieme a ospiti di rilievo del suo cosiddetto governo del territorio e della società. E lo stop del TAR è solo la punta di un iceberg, la constatazione che ahimè avevano santa ragione Elio e le Storie Tese quando concludendo la loro canzoncina Parco Sempione proprio sul già svettante prodotto di arroganza architettoide, sanzionavano a modo loro: questi grandissimi figli di troia! - Suonerà volgaruccio, ma coglie in pieno. Resta solo un dubbio, chissà se le vittime riuscivano anche a intravedere qualche riflesso delle leggendarie giacchette pacchiane, durante le manovre (f.b.)
Se all'Italia è toccato il «presidente operaio», Firenze non sfugge al «sindaco storico dell'arte». Non conosco altri casi (beninteso, nelle democrazie occidentali) in cui il capo di un governo (per quanto cittadino) firmi una lettera ufficiale in quanto responsabile e,garante di una ricerca scientifica. E’ quanto ha fatto, il 18 luglio, Matteo Renzi scrivendo alla soprintendente Cristina Acidini una lettera che ha trasformato definitivamente la sua personalissima «caccia al Leonardo» in una ricerca di Stato (e Maurizio Seracini in uno storico-scienziato di corte). Siamo in presenza di una serie di dati accertati», scrive il sindaco-storico-dell'arte. Ma quali? Non è certa la parete sulla quale Leonardo lavorò, è del tutto improbabile che qualcosa fosse ancora visibile quando dipinse Vasari, e se ci fosse stato è impensabile che quest'ultimo lo abbia deliberatamente occultato dietro un inamovibile muro affrescato. L'esistenza della famosa intercapedine «sospetta» è stata smentita dal fisico dell'Università di Firenze che progettò e usò il radar nel Salone dei Cinquecento.
A tutte queste obiezioni, Seracini oppose i famosi prelievi che avrebbe effettuato sulla parete retrostante all'affresco vasariano. Quei prelievi avrebbero restituito proprio le sostanze che appaiono in testa all'elenco che Google sputa fuori quando si digitino nel campo di ricerca le parole Leonardo e pigments: sia pure un tale miracolo, ma è concesso fare delle controanalisi in un laboratorio terzo? Lo chiedemmo in tanti, senza ottenere risposte plausibili. Ebbene, ora ci risponde il sindaco-storico-dell'arte: «Il quantitativo di materiale prelevato nei punti di passaggio individuati dall'Opificio non è risultato sufficiente per ulteriori analisi di laboratorio, motivo per il quale dovrebbero essere effettuati nuovi prelevamenti di campione». Questa è sostanzialmente una dichiarazione di bancarotta scientifica: è la candida confessione che le conferenze stampa trionfalistiche e il documentario con il quale National Geographic ha messo a reddito il suo sostegno all'operazione erano fondati su un esperimento non ripetibile. In altre parole: si passa dalla scienza alla fede, e a Seracini o si crede o non si crede, con buona pace di Galileo e del suo metodo, rottamato per l'occasione. Già, perché se anche i nuovi prelievi si facessero, e se «per caso» l'Opificio non trovasse le stesse sostanze, a quel punto la vicenda si avviterebbe in un eterno stallo tra chi potrà provare che ora non ci sono più, e chi comunque continuerà a sostenere di averle trovate, ma poi di averle (destino cinico e baro!) del tutto consumate in laboratorio.
Infine, Renzi afferma che il «professor Maurizio Seracini» avrebbe pubblicato tale ricerca «su riviste scientifiche». E l'allusione è a Medicea, rivista il cui direttore non è uno storico dell'arte né uno scienziato, ma il giornalista portavoce di Cristina Acidini. Con questa lettera Renzi ha compiuto un passo inaudito, perché ha trasformato una serie di ipotesi di ricerca (che godono di credibilità quasi nulla presso la comunità scientifica di riferimento) in una sorta di verità di Stato. Sulla Battaglia di Anghiari, il Comune ha ora la sua dottrina ufficiale: e chi non la pensa così è un nemico del popolo, un dissenziente, un avversario politico. Aspettiamo di sapere quali saranno le ritorsioni per gli intellettuali eretici che osano pensare della caccia alla Battaglia ciò che il ragionier Fantozzi pensava della Corazzata Potemkin: il confino alle Piagge, la rieducazione con la lettura obbligatoria di Stil novo oppure l'abiura in Piazza della Signoria, sul luogo del rogo savonaroliano?
La risposta di Cristina Acidini, al confronto, appare perfino normale. Intendiamoci: appare normale a coloro che sono ormai abituati al tono vetero-democristiano che vela da decenni l'esercizio del potere più forte e meno controllato della città, quello della Soprintendenza. Acidini giudica «interessanti» i risultati, ignorando che i maggiori studiosi di Leonardo e l'intera comunità internazionale degli storici dell'arte hanno firmato una petizione che dice esattamente il contrario. Acidini vieta (giustamente) ulteriori traumi alla parete vasariana, in nome del «mutare dell'inquadramento deontologico della professione» e dell'«evoluzione della teoria del restauro». Ma tace sul fatto che Cecilia Frosinini, massima responsabile del settore all'Opificio, si era rifiutata, per le stesse ragioni, di avallare la campagna di fori che lei stessa ha invece benedetto. Infine, Acidini invoca l'intervento del Comitato tecnico scientifico del Ministero per i Beni culturali, presentato come istanza superiore e oggettiva. Il che fa un po' sorridere quando si rammenti che i quattro membri del suddetto comitato sono (insieme alla stessa Acidini) in attesa di sentenza della Corte dei Conti per l'acquisto del famoso pseudo-Michelangelo. In queste condizioni, su quale terzietà e autorevolezza possiamo contare? La verità è che nessuno, né in soprintendenza né a Palazzo Vecchio, scommette un euro sul ritrovamento del Leonardo perduto: ma l'importante è continuare il palleggio istituzionale, per dare l'idea che la caccia continui. Almeno sui media, almeno fino alle primarie del Pd.
Chiusure festive, orari ridotti, l'umiliazione dei biglietti rimborsati. Notizie dai nostri beni culturali lasciati a sé stessi. Con la perdita di importanti introiti La Galleria Barberini, restaurata con 24 milioni di spesa, non si può visitare la domenica, iI turismo culturale è una delle poche voci che continuano a "tirare", ma l'Italia sembra fare di tutto per spegnerla. Anche questo governo e il ministro Lorenzo Ornaghi lesinano somme molto modeste perdendo introiti importanti e sfregiando la nostra immagine nel mondo. La domenica rimane clamorosamente chiusa quella Galleria Nazionale di Arte antica del colossale Palazzo Barberini che, dopo anni di lavori e 24 milioni di spesa, con le sue 37 sale rinnovate, fresche, munite di audio-guide in più lingue, col favoloso salone affrescato da Pietro da Cortona, dovrebbe essere fra le formidabili novità di Roma e d'Italia. Mancano i fondi per un paio di custodi, si perde la faccia, si fanno imbestialire i turisti, si rinuncia ad un incasso non trascurabile.
Non ci si poteva mettere attorno ad un tavolo e studiare un tipo di orario meno oneroso di quello su tre turni? Non c'è addirittura una Direzione generale per la Valorizzazione creata per Mario Resca, ex McDonald's, ex Casinò di Campione, che ora la lascia senza glorie particolari per l'Acqua Marcia? E al Polo Museale di Roma l'articolo non interessa? «Il MiBAC (ministero dei Beni e le attività culturali) è imbottito di burocrati, per giunta bizantini», si commenta, «mentre i direttori generali regionali sono dei "nominati" di fatto dalla politica». Con scarsa capacità di controllo se il funzionario addetto agli appalti nel Lazio, Luigi Germani, ha potuto sparire nel nulla, mesi fa, con 5 milioni di euro.
Minacciata di chiusura è la stessa Galleria Borghese, museo unico al mondo, dove la malattia di un custode già provoca drammi e dove si operano umilianti chiusure parziali col rimborso di parte del biglietto. Inoltre due mostre attraenti, per le quali c'erano già gli sponsor, sono già saltate nel 2012 perché la direttrice del Polo Museale romano, Rossella Vodret, bocciata in due concorsi, non ha ritenuto di doverle autorizzare. E il Collegio Romano? E il ministro? Tacciono. «Almeno Bondi si scusava di non poter fare granché», si osserva. Lorenzo Ornaghi ha tacciato di «valori grossolani» "Italia Nostra" contraria all'ultima "esportazione" a Pechino di opere d'arte come articoli-civetta, comprese tavole delicatissime che viaggiare non dovrebbero proprio. Poi si è chiuso nel solito mutismo. Del resto, non ha sostituito col suo giovane segretario nel consiglio di amministrazione della Scala il finanziere-musicofilo Francesco Micheli, suscitando l'ira di Giulia Maria Crespi e del sindaco Giuliano Pisapia? Siamo alla desertificazione della cultura.
La situazione operativa è drammatica ovunque si fa tutela e valorizzazione con musei e siti archeologici strepitosi, difesi dall'impegno personale di chi se ne occupa. Archeologi, storici dell'arte, architetti, archivisti, bibliotecari costretti a usare i loro cellulari, a spendere del loro, visto che "godono" del lauto stipendio (meno della metà delle medie europee) di 1.700 euro che a chi va in pensione frutterà il "grasso" mensile di 1.400, dopo decenni. Dal 2011 sono scomparsi anche i 120 euro al mese del Fondo Unico per l'Amministrazione e, dal 2010, gli incentivi. E i concorsi per la progressione economica da quegli abissi? In cronico ritardo. Il 12 maggio scorso centinaia di funzionari, fra cui le direttrici delle Gallerie Borghese, Barberini, Corsini, di Palazzo Massimo, Colosseo, Appia Antica hanno inviato alle più alte cariche dello Stato una drammatica lettera-appello dove denunciano la follia suicida dello stato in cui sono lasciati beni culturali invece essenziali per rilanciare cultura ed economia. Qualcuno ha loro risposto? Nessuno. O meglio, indirettamente ha replicato un sociologo del tempo libero ritenuto importante. Sul "Corriere della Sera" romano li ha così ritratti: «La gestione storico-artistica è affidata ai soprintendenti: persone colte, topi di biblioteca, che di mestiere dovrebbero scrivere libri. Li attornia uno stuolo (sic!) di addetti, creativi mancati, che avrebbero voluto fare i pittori o gli architetti: gente frustrata, che si mette sempre di traverso “. Volete commentare?
Cinque luglio 2012, ore 17.35: l'Ansa batte, in esclusiva mondiale, una notizia clamorosa: «Caravaggio, trovati cento disegni mai visti». Peccato che i disegni fossero ben noti e, soprattutto, peccato che non siano di Caravaggio. Ma questa è solo l'ultima delle «bufale» storico-artistiche propalate negli ultimi mesi: il Sant'Agostino «di Caravaggio», la «vera» Visione di Ezechiele di Raffaello, l'Autoritratto «di Bernini», il «Guercino» esposto a Castel Sant'Angelo e la seconda Gioconda del Prado. E, naturalmente, il discusso Cristo «di Michelangelo» comprato da Sandro Bondi: per non parlare della ricerca delle ossa del solito Caravaggio o della povera Monna Lisa o della tragicomica caccia al fantasma della Battaglia di Anghiari. Cosa è successo alla storia dell'arte? Perché la rigorosa disciplina di Roberto Longhi ed Erwin Panofsky si è trasformata in un simile allevamento di bufale?
Da una parte questa mutazione è uno dei sottoprodotti del ruolo che la storia dell'arte gioca nel discorso pubblico, specialmente in Italia. Essa è ormai, per il pubblico, sinonimo di «grandi mostre», anzi di «grandi eventi». E nella logica dell'intrattenimento spettacolare è assai difficile mantenere vive le regole, anche le più elementari, del sapere critico. Assai più che nella storia o nella filosofia, nella storia dell'arte si è così verificata una frattura verticale tra l'autoreferenzialità di chi studia seriamente, ma non ha né l'interesse né la possibilità di trasmettere la sua ricerca al grande pubblico e l'improvvisazione di chi ha invece accesso ai media, ma solo per fare «marketing» degli eventi. Ma, d'altra parte, bisogna riconoscere che l'involuzione investe ormai i meccanismi intimi della disciplina. In altri termini, l'incredibile vicenda dei «cento disegni di Caravaggio» è il sintomo (in sé assai poco serio) di una malattia che si sbaglierebbe a non prendere sul serio. Si stenta ormai perfino a dirlo, ma la storia dell'arte è una scienza storica e l'attribuzione (cioè la capacità di riconoscere gli autori delle opere d'arte) non è una dote innata, ma il frutto di un lungo e faticoso esercizio, una tecnica che si impara e che si insegna, un metodo del quale si può dar conto razionalmente e i cui risultati si possono verificare e falsificare.
Ma, perché tutto questo funzioni, occorre che la comunità scientifica si autogoverni e si autocontrolli: per esempio attraverso riviste autorevoli dotate di comitati di studiosi che vaglino preventivamente e trasparentemente le proposte e che in base a tutto ciò siano poi valutate. Invece, nella storia dell'arte di oggi le riviste sono troppo spesso legate a circoli chiusi e «parrocchiali». Peggio: le sedi completamente autoreferenziali e slegate da ogni controllo preventivo (come i cataloghi delle troppe, e spesso dannose, mostre, le strenne bancarie, i libri a vario titolo autofinanziati) sono importanti quanto, e più, delle riviste o delle collane dotate di vaglio scientifico. La storia dell'arte sta così rinunciando ad esercitare il giudizio critico su se stessa e rischia oggi di trasformarsi in uno «studio della domenica» assolto da ogni rigore.
Una situazione che si è man mano sfilacciata fino ad arrivare alla moda delle «scoperte» pubblicate sui quotidiani e ora addirittura ai cento disegni di Caravaggio lanciati in due ebook di Amazon, a cui altri hanno risposto (seppur in buona fede) non attraverso recensioni scientifiche, ma attraverso l'istituto, non particolarmente scientifico, del comunicato stampa. La comunità degli storici dell'arte ha dunque una ragione tutta speciale per accettare di buon grado i meccanismi di valutazione e autocontrollo della qualità scientifica, che (seppur con molte contraddizioni) l'Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca sta cercando di introdurre anche in Italia e anche nei refrattari studi umanistici.
E’ vero che un controllo troppo stretto può, alla lunga, indurre al conformismo e rallentare il progresso della ricerca, ma in questo momento la storia dell'arte ha bisogno di iniezioni massicce di serietà e credibilità: se non vogliamo trasformarci in guardiani delle «bufale» dobbiamo provare a chiuderne l'allevamento. La risorsa sprecata del turismo culturale
DOPO la comprensibile indignazione nell’impressione che l’interesse pubblico sia stato sacrificato per proteggere piccoli interessi privati, cerchiamo di capire le ragioni del Consiglio di Stato senza pensar male, senza vedere complotti.Il Consiglio di Stato nel sospendere Area C potrebbe avere ragionato in questo modo: c’è un interesse offeso per cui ci occupiamo di questa vicenda? Sì, c’è, è quello dei ricorrenti, il parcheggio a rotazione che perde clienti a causa del ticket antitraffico. C’è un motivo per cui il provvedimento Area C potrebbe essere illegittimo? Sì, c’è, è il fatto che non s’inserisce in un piano generale del traffico o della mobilità vigente. I piani approvati anni fa sono scaduti.
Difatti questo è stato per molto tempo uno dei problemi dei Comuni, dover rivedere, re-impostare e approvare ogni cinque anni il Piano del traffico. Cosa che non è stata più fatta dopo il 2003. È vero che era invigore già Ecopass, ma Area C non è stata istituita come modifica di Ecopass, bensì come provvedimento nuovo. E si è trattato di una semplice delibera di giunta, non di Consiglio. Ammettiamo dunque che questa osservazione di “non adeguato inquadramento” del provvedimento sia giustificata. È però assurdo che il Consiglio di Stato sospenda direttamente Area C invece di dare un termine al Comune per inquadrare e motivare il provvedimento. Cos’è questa improvvisa riscoperta dei principi di programmazione e perché la si applica anzitutto a uno dei provvedimenti più dibattuti e condivisi (referendum) della storia di una città italiana?
Perché si son lasciate fare tante singole varianti urbanistiche senza nuovi piani generali? Perché si lasciano partire i lavori dei vari Tav e di varie autostrade senza pretendere una programmazione delle priorità di un Piano nazionale di logistica e trasporti?E addirittura: perché si possono falcidiare le Province senza un piano generale di riassetto degli enti locali? E così via.Certo, vista la situazione, è bene che il Comune nel frattempo motivi e inquadri Area C e se necessario gli cambi il nome. Ma chiediamo anche una legislazione più aggiornata, logica, eco-logica. Se è giusto richiedere al Comune un piano aggiornato della Mobilità e del Traffico, perché far decadere una limitazione (in questo caso con pedaggio) del traffico, e non il suo contrario? Forse perché si considera normale la cosiddetta libertà di circolazione delle auto ed eccezionale — e da motivare — la limitazione. E perché non potrebbe essere il contrario? Il Comune spieghi perché lascia libera circolazione alle auto in corso Buenos Aires, altrimenti il Consiglio di Stato blocca il traffico...
Villa Adriana ora rischia concretamente di perdere lo status di patrimonio dell’umanità. Ora le decisioni adottate dal World Heritage Center dell’Unesco, a seguito della 36esima riunione annuale del comitato che si occupa appunto dei siti considerati patrimonio dell’umanità, sembrano confermare se non aggravare l’ipotesi di tale rischio. Il World Heritage Committee “richiede, allo Stato membro – si legge nel report finale – di informare il Whc in tempo utile rispetto a qualsiasi progetto di sviluppo pianificato nell’area buffer, includendo anche il progetto di sviluppo edilizio del ‘Comprensorio di Ponte Lucano’, per il quale deve fornire inoltre una valutazione sull’impatto in relazione al paragrafo 172 delle linee guida, prima di mettere in atto qualsiasi impegno irreversibile”.
La storia, come ilfattoquotidiano.it ha già raccontato, gira intorno a un’operazione urbanistica che porterebbe alla costruzione di nuove palazzine vicino al celebre monumento a cielo aperto. Capofila del progetto la Impreme Spa di Massimo Mezzaroma.
Sostanzialmente l’Unesco, preoccupata della possibile colata di cemento nelle vicinanze del sito protetto, che violerebbe la buffer zone, una sorta di zona cuscinetto stabilita con un accordo internazionale tra la Repubblica e l’Unesco per proteggere l’area archeologica di Villa Adriana, da delle direttive ben precise allo stato italiano: pena la possibile cancellazione dall’elenco dei siti patrimonio dell’Unesco. Il Comitato del Patrimonio mondiale richiede inoltre “di inviare al Whc entro il 1 febbraio 2014 un report aggiornato sullo stato di conservazione del sito”.
“La documentazione depositata dal governo italiano a marzo scorso – spiega Luciano Meloni, responsabile di Italia Nostra a Tivoli – non è sufficiente secondo il Whc. Sostanzialmente il governo non ha motivato come il Comprensorio Ponte Lucano possa essere compatibile con i criteri con i quali è stato inserito nell’elenco dei siti patrimonio dell’Unesco Villa Adriana”.
Violare la zona buffer potrebbe seriamente compromettere lo status di patrimonio dell’umanità ma nell’ultima audizione in Regione, l’assessore all’urbanistica Luciano Ciocchetti, affiancato dall’immobiliarista Roberto Carlino, presidente della commissione Ambiente, ha rassicurato tutti – comitati cittadini e associazioni ambientaliste – dichiarando che la visuale della Villa sarebbe stata salvaguardata.
“Ciocchetti non ha ben chiari i vincoli inerenti alla buffer zone, la visuale non c’entra niente. In questa zona cuscinetto – spiega Meloni – al massimo si possono costruire solo edifici compatibili con il monumento in questione, quindi al massimo si può edificare un albergo, un punto di ristoro o altre cose simili ma solo in funzione del sito in questione, in questo caso la Villa di Adriano. Costruire palazzine da vendere a privati non si può certo dire che sia un’azione compatibile in tal senso. Tra l’altro non può parlare di autorizzazioni regionali per difendere il progetto di Mezzaroma, quando a monte c’è un accordo internazionale tra il governo Italiano e l’Unesco”.
“Alla luce di questo richiamo ufficiale – dichiara Angelo Bonelli, presidente dei Verdi – è assolutamente urgente bloccare la lottizzazione. L’Italia non vuole e non può riempirsi di vergogna nei confronti della comunità internazionali con un sfregio di tale portata ad uno dei monumenti più importanti del mondo, dal punto di vista storico ed architettonico”.
Dall’ufficio coordinamento Unesco del Ministero per i Beni e le Attività Culturali non abbiamo ottenuto nessuna risposta in merito “poiché – hanno comunicato – non è arrivata ancora nessuna nota ufficiale sull’esito della riunione, quindi al momento non ci possiamo pronunciare”. L’Unesco nel frattempo ha sanzionato ufficialmente il nostro Paese con una sorta di cartellino giallo che, se l’Italia non farà chiarezza sulla colata di cemento, si tramuterà in rosso.
Auriga globetrotter
Francesca Sironi - L’Espresso
Momentaneamente assente. E chissà per quanto. L'Auriga di Mozia, una delle più straordinarie sculture greche, ha lasciato Marsala per fare da star nella mostra olimpionica del British Museum di Londra. Poi sarà trasferito a Malibù e forse anche in Ohio. Tornerà in Italia nel 2014, in un giorno imprecisato. Ma si tratta di un campione molto fragile: ha circa 2450 anni e tanti acciacchi. Per questo — come può rivelare "l'Espresso" - una perizia nel 2008 aveva escluso categoricamente la possibilità che l'opera venisse mandata in tournée. Ma gli assessori della Regione Sicilia l'hanno ignorata, spedendo il capolavoro in una rischiosa missione di propaganda mondiale delle bellezze isolane. Eppure il divieto di espatrio porta la firma di Guy Devreux, responsabile del restauro di marmi dei Musei Vaticani, uno dei massimi esperti in materia. Che scrive: “È impossibile eseguire una fredda descrizione sullo stato di conservazione di questa scultura senza sottolineare che si tratta di un'opera di singolare bellezza, che colpisce in modo indimenticabile ogni visitatore che ha la fortuna di poterla ammirare,,. Il cocchiere è testimone di una rivoluzione: il passaggio da arte arcaica a classica. E’ stato rappresentato "di sbieco", rompendo lo schema arcaico della rappresentazione frontale, e mostra il suo corpo sotto un panneggio "bagnato" tipico della classicità. Lo hanno ritrovato nel 1979 a Mozia, l'isoletta poco distante dalla costa trapanese che ospitava una fiorente città fenicia poi conquistata dai puniti: si tratta infatti, con ogni probabilità, di un'opera saccheggiata a Selinunte dopo l'arrivo dei cartaginesi. Una preda bellica di enorme valore già all'epoca: «Ultima delle più belle sculture sopravvissute dall'antichità», conferma Peter Higgs, curatore della mostra " Winning at the ancient games", realizzata al British Museum per le Olimpiadi.
Ovvio che tutti i musei del pianeta sognino di esporre l'atleta di Mozia. Nel 2007 una direttiva della Regione Sicilia firmata dall'assessore Nicola Leanza lo inserì in una lista di 21 opere inamovibili. Poi l'anno dopo il "certificato medico" dell'esperto dei Musei Vaticani. Ma l'Istituto Culturale italiano di Londra è riuscito a battere il veto. La delegazione sorridente che ha firmato l'accordo col British Museum era formata dall'ormai ex assessore Sebastiano Messineo, il direttore dei beni culturali Gesualdo Campo e il responsabile del servizio museografico siciliano Stefano Biondo. «Il nostro Auriga è la prima statua ospitata nel salone del fregio del Partenone», sottolinea Campo, «ed è un motivo di grande orgoglio e visibilità per la nostra regione. E poi l'Auriga era già destinato a breve ad un altro viaggio». Infatti: dopo Londra, l'Auriga partirà alla volta degli Stati Uniti, per rispettare l'accordo firmato nel 2007 dall'allora ministro Francesco Rutelli. Un'intesa che ha chiuso le trattative per ottenere la restituzione della Venere di Morgantina, trafugata dalla Sicilia e finita al Paul Getty Museum. Così da aprile ad agosto del 2013, il capolavoro di Mozia sarà al Getty di Malibù per la rassegna "Sicily: Between Greece and Rome", esposizione che si sposterà a Cleveland per poi arrivare a Palermo: «Non è detto però che anche l'Auriga vada in Ohio, stiamo ancora discutendo i dettagli dell'accordo», precisa Biondo. Di viaggi comunque si parla, e lunghi. E destinati a riaprire la discussioni su un tema sempre scottante, quello dei prestiti delle nostre opere d'arte.
Come quando, nel 2005, il "Satiro danzante" di Mazara del Vallo venne prestato al Giappone per l'Expo: la Regione aveva promesso che in cambio la sala del museo che ospita il satiro sarebbe stata climatizzata, ma niente è stato fatto. L'anno seguente, per portare il"Cristo Morto" di Mantegna a Mantova Vittorio Sgarbi scatenò una guerra contro la Soprintendenza di Brera: alla fine Rutelli concesse il prestito. E nel 2007, mentre l'Annunciazione di Leonardo veniva preparata per il viaggio a Tokyo, un senatore del Pdl arrivò a incatenarsi al loggiato degli Uffizi per protesta. Ora tocca all'Auriga. E sì che Devrrux era stato categorico: «La scultura del Giovane di Mozia non deve assolutamente più essere trasportata in altre sedi museali. Questo andrebbe a compromettere il suo stato di conservazione in modo irreversibile». Perciò la Fondazione Whitaker; che gestisce il museo di Mozia, ha cercato di opporsi al trasferimento: «Siamo riusciti perlomeno ad ottenere che l'Auriga arrivasse a Londra via mare e terra, e non in aereo», dice Maria Enza Carollo, direttore della Fondazione: «La cabina pressurizzata e le bassissime temperature dell'aereoplano potrebbero danneggiarla gravemente». Negli Stati Uniti però ci andrà di sicuro in jet. E la Fondazione ha scritto una lettera chiedendo dettagli alla Regione. «Ma i malati sono pietre», replica Campo, «molto più solidi di alcuni dipinti che spesso vengono trasferiti in aereo. Non vedo quale sia il problema nell'inviare l'Auriga in America. E poi siamo costretti a farlo nel segno del protocollo del 2007». Su questo punto, il ministero dei Beni Culturali non è d'accordo: il patto con il Getty non indicava quali fossero le opere da scambiare.
Intanto a Mozia i turisti si lamentano. «Abbiamo dovuto risarcire intere scolaresche che hanno rinunciato al viaggio», dice la Carollo, «e la stagione si presenta magra: molti hanno disdetto le prenotazioni». Per l'assessorato, la Fondazione non ha da lamentarsi. In cambio dell'Auriga ha ricevuto per questi mesi dal British Museum l'Apollo di Strangford: una bella statua, ma di certo non una star che possa compensare l'eccezionalità dell'atleta. ll Getty invece, annuncia Campo, «renderà la statua con un nuovo basamento antisismico offerto da loro». Che però non proteggerà l'Auriga nel corso del viaggio per il quale ormai è partito, senza sapere quando tornerà.
Concessioni chi decide?
Tomaso Montanari – Corriere del Mezzogiorno
Tra le tante ipocrisie che avvolgono e nascondono il sistematico tradimento dell'obbligo costituzionale della tutela del patrimonio storico e artistico una delle più insopportabili riguarda la formazione delle decisioni dell'amministrazione pubblica. Chi decide, ad esempio, cosa si può prestare, o cosa no, ad una mostra? La delicata, e ovviamente discrezionale, valutazione del rischio materiale e dell'opportunità culturale dei prestiti è affidata ad organi tecnici (le soprintendenze, i comitati tecnico-scientifici del Ministero per i beni culturali), ma alla fine la decisione finale spetta agli organi amministrativi centrali del Mibac. Il paradosso è che nei rari casi in cui i tecnici danno parere negativo, prevale una pretesa «ragion di Stato» (in realtà quasi sempre la ragione, privatissima, dell'interesse personale dei promotori dell'iniziativa) e alla fine l'opera viene comunque imballata e spedita. Ultimo caso, l'Auriga di Mozia: il meraviglioso marmo greco del V secolo avanti Cristo prestato al British Museum non per una mostra scientifica, ma come «testimonial del patrimonio artistico e culturale siciliano» (parole dell'assessore alla cultura siciliano) in occasione delle Olimpiadi londinesi, e poi destinato ad un lungo soggiorno sulla Faglia di Sant'Andrea, al Getty Museum. Il prestito è avvenuto contro il motivato parere della Soprintendenza di Trapani, e per volere incontrastabile della Giunta regionale: un prestito dei politici contro i tecnici, un trionfo della cosiddetta “valorizzazione" ai danni della tutela. Il ministro Ornaghi, in visita a Mozia, si è detto, come sempre, tranquillo: «La Regione avrà valutato bene». Tutto va bene, madama la marchesa: almeno finché un capolavoro non finirà in frantumi. Chissà se almeno quel giorno qualcuno comprenderà a cosa servono i pareri dei tecnici.
La vicenda dei concerti pop in Piazza Plebiscito incrocia questioni cruciali, e oggi roventi, nel nostro rapporto col patrimonio storico e artistico pubblico: a cosa serve quel patrimonio, e dunque qual è il suo uso corretto? E poi: entro che limiti, e in che modi, il patrimonio pubblico può generare profitto privato?
Non esiste una risposta condivisa a queste domande, né tantomeno una linea univoca e chiara del Ministero per i Beni Culturali, perpetuamente afflitto da una sostanziale ‘sede vacante’.
La soprintendente di Firenze trova normale far svolgere una sfilata di moda (aperta da guerrieri Masai che corrono brandendo spade e lance), e la relativa mondanissima cena, nel sancta sanctorum dell’arte italiana, la Galleria degli Uffizi. Pochi giorni dopo, al contrario, il soprintendente di Napoli giudica fuori posto un concerto di musica leggera in Piazza Plebiscito.
Mi sembrano entrambe posizioni insostenibili, perché non tengono conto della natura e dei fini dei luoghi monumentali a cui si riferiscono.
Il delicatissimo corridoio cinquecentesco degli Uffizi, gremito di sculture antiche, non è fatto per ospitare eventi mondani che lo mettono a rischio materialmente, e lo tradiscono moralmente: i musei pubblici servono a costruire l’eguaglianza dei cittadini attraverso la crescita morale e culturale, non ad approfondire, attraverso l’esaltazione del lusso, il solco che li divide.
Al contrario, le piazze storiche nascono per accogliere manifestazioni popolari, anche di massa se le dimensioni lo consentono. Il patrimonio monumentale ha senso se è teatro della vita della comunità: un museo e una piazza devono poter svolgere fino in fondo la loro funzione (possibilmente senza confonderle!).
E, francamente, non vedo proprio niente di male nel fatto che Ligabue, o Laura Pausini si esibiscano in Piazza Plebiscito.
Il problema è la tutela dei monumenti sulla Piazza? Se è davvero così, il soprintendente non solo può, ma deve, intervenire con atti formali prima della manifestazione, e non già dopo con un’intervista.
Se il problema è lo sporco, non è certo difficile risolverlo. Due volte l’anno quel salotto gotico che è Piazza del Campo a Siena accoglie trentamila persone, stipatissime per assistere alla corsa del Palio. Quando lasciano la ‘conchiglia’ del Campo, essa è inevitabilmente coperta di rifiuti: che vengono rimossi in meno di due ore. E mi rifiuto di credere che non possa avvenire lo stesso a Piazza Plebiscito.
Il problema è invece l’uso improprio della terrazza di Palazzo Reale? La soprintendenza ha tutti i mezzi per reprimere duramente l’abuso della propria stessa sede: e se è vero che sono stati addirittura staccati gli allarmi notturni del Palazzo, immagino che anche la Procura della Repubblica potrà dare una mano a farlo.
Nel caos che contraddistingue l’utilizzo del patrimonio monumentale italiano c’è un’unica costante: il trionfo dell’interesse privato su quello pubblico.
Anche chi non condivide il mio giudizio sulla sfilata di moda agli Uffizi, trova che aver affittato per la miseria di 30.000 euro il più famoso museo italiano ad un’impresa privata (e al suo marketing) sia stato un’indecenza: una vera svendita di un bene pubblico, i cui contorni dovrebbero destare l’interesse della Corte dei Conti.
Per lo stesso motivo trovo incredibilmente grave lo sconto del 99,9% praticato sulla tariffa pagata da chi occupa Piazza Plebiscito per un’iniziativa che crea un notevole utile privato. Ogni giorno qualcuno ci spiega che per salvare il patrimonio monumentale c’è bisogno di sponsor privati. Personalmente sono assai scettico su questa soluzione, perché l’esperienza insegna che quasi mai i legittimi interessi di lucro del privato coincidono con i fini costituzionali del patrimonio pubblico.
Ebbene, una volta tanto che le due cose coincidono (una piazza è fatta anche per i concerti), cosa fa l’autorità pubblica (in questo caso la Giunta comunale)? Sostanzialmente regala il bene pubblico a chi lo usa per (legittimi) fini di lucro. Si potrebbe ricordare al sindaco, con qualche ironia, che il bene comune non è il bene del Comune: che non può dunque decidere arbitrariamente a chi ‘regalarlo’, ma deve amministrarlo nel vero interesse della comunità.
La prossima volta che qualcuno lamenterà i crolli delle statue sulla facciata di Palazzo Reale verso il plebiscito non dica, per favore, che non si sa come trovare il denaro per restaurarle.
Gli occhi dei senesi e degli italiani che hanno a cuore le sorti del patrimonio storico e artistico della nazione sono puntati su Renato Saccone, prefetto di Siena. Due mesi fa, la sezione senese di «Italia Nostra» gli ha presentato un esposto, rispettoso quanto fermo e documentato.
Il 29 aprile (festa di Santa Caterina: ironia del destino!) del 2011 l’Opera della Metropolitana di Siena (l’ente che da quasi novecento anni mantiene in vita il Duomo) ha ceduto «un ramo d’azienda» ad una società privata con fini di lucro, Opera Laboratori Fiorentini del gruppo Civita, che gestisce dal 1998 tutti i servizi di accoglienza e assistenza alla visita in più di venti musei del Polo Museale di Firenze. Quel «ramo d’azienda» comprendeva «l’accoglienza ai visitatori» e le «attività culturali». Secondo Italia Nostra, supportata da un ottimo ufficio legale, questa cessione è «palesemente illecita, illegittima e perciò nulla» perché avvenuta in violazione dello statuto dell’Opera della Cattedrale.
In sostanza Italia Nostra dice che quest’ultima istituzione non è un’azienda, non agisce per fini di lucro e deve continuare ad operare per l’interesse pubblico: può, al limite, diventare (come è successo) una onlus, ma non già vendere proprie parti ad un’azienda.
Insomma, sarebbe come se il Liceo «Piccolomini» cedesse un suo ‘ramo’ al CEPU, o se tre reparti delle Scotte fossero ceduti ad una clinica privata. È per questo che Italia Nostra denuncia il fatto che questi contratti, «realizzando il soddisfacimento di un interesse privato», contrastano «clamorosamente con l’interesse pubblico».Il mondo che vive delle concessioni del Ministero dei Beni Culturali presenta molti lati oscuri, e non di rado appare un bizzarro ircocervo di clientelismo parastatale d’antan, marketing all’amatriciana, incompetenza e improvvisazione. Di recente, e proprio su queste colonne, l’amministratore delegato di Opera Laboratori Fiorentini ha dichiarato che gli pare normale assumere i parenti dei dipendenti (magari illustri) del Polo Museale Fiorentino: «a parità di condizioni scegliamo qualcuno di cui ci possiamo fidare». Se il Mibac non fosse una perpetua sede vacante, i tempi sarebbero maturi per un azzeramento generale delle concessioni (bloccate da tempo per un incredibile pasticcio legale), e per una azione di moralizzazione e trasparenza che smantelli i monopoli a favore di quell’apertura che, peraltro, ci impone la Direttiva Bolkenstein dell’Unione Europea.Ma nel caso di Siena in gioco c’è molto di più: qui non si tratta di un appalto, ma di una vera e propria alienazione (per di più in cambio di un corrispettivo ridicolo: poche diecine di migliaia di euro) che spezza irreversibilmente una storia plurisecolare. La crisi del Monte dei Paschi e del Comune scuote in profondità uno dei modelli più antichi di governo del bene comune. In questo momento la città ha un disperato bisogno di poter contare sui propri simboli e sulla propria altissima tradizione culturale: e la lunghissima e gloriosa storia dell’Opera della Metropolitana è davvero troppo importante per liquidarla come se fosse una catena di pizzerie da poter dare in franchising.È per questo che in molti aspettano una parola risolutiva da parte del prefetto, a cui spetta la sorveglianza sul fatto che l’Opera Metropolitana di Siena rimanga fedele ai propri antichissimi fini istituzionali, e non venga né spogliata né trasformata surrettiziamente in un’azienda.Se sarà necessario, Italia Nostra è pronta a rivolgersi direttamente al ministro degli Interni e a suscitare su questo caso un vasto movimento di opinione: ma sarebbe assai meglio se Siena dimostrasse di avere ancora gli anticorpi attivi. Ora è il prefetto a dover decidere se dichiarare nulli i contratti tra l’Opera Metropolitana e Opera Laboratori: in molti aspettano la sua risposta.
Le macerie del municipio ottocentesco di Sant’Agostino - fatto saltare con la dinamite per ordinanza del sindaco, e a favore di telecamere – sono anche le macerie del nostro millenario rapporto con l’arte.
L’assessore ai Lavori Pubblici del comune emiliano ha dichiarato all’Ansa che le decorazioni del salone: “non erano opere di valore: si tratta di opere di soggetto campestre realizzate da artisti locali, e comunque non sarebbe stato facile recuperarle … È anche il segno della ripresa. Ora si potrà partire con un concorso di idee per un nuovo palazzo”.
Sull’ineluttabilità della demolizione è difficile avere informazioni precise: bisogna sostanzialmente fidarsi di chi l’ha disposta. Può darsi che davvero non si potesse far niente per salvare il municipio, anche se è impossibile non notare che, se fosse vero, sarebbe singolare averlo lasciato in piedi per due mesi. È però un fatto che, fin dai primi giorni dopo il terremoto, la sezione emiliana di Italia Nostra ha messo in guardia dagli abbattimenti decisi senza reale necessità e senza rispettare le leggi di tutela.
A far sospettare che la decisione sia stata corriva è il resto della dichiarazione dell’assessore, per il quale non si trattava in fondo di opere ‘di pregio’, e per il quale l’esplosione e il successivo, prevedibile, cemento sarebbero vitalistici e futuristici segni di ripartenza.
Personalmente non riesco a capire come la ripresa possa passare attraverso la dinamite e il cemento. “Solo i vandali possono pretendere che la città moderna nasca dalle macerie della città antica. Dobbiamo inchiodarci nel cervello la convinzione che la salvaguardia integrale del vecchio e la creazione del nuovo nelle città sono operazioni complementari, due momenti indissolubili dello stesso procedimento, che antico e moderno hanno prerogative materiali e spirituali distinte e vicendevolmente necessarie … Insomma, solo chi è moderno rispetta l’antico, e solo chi rispetta l’antico è pronto a capire la necessità della civiltà moderna”. Lo scriveva Antonio Cederna nel 1956: e a me sembra sempre verissimo.
Quanto al concetto di ‘pregio’. La Costituzione non tutela “le opere di pregio”, ma il “patrimonio storico e artistico della nazione”. Quel patrimonio è il tessuto continuo di cui parla Cederna, non le singole emergenze ‘di pregio’: ed è il martellamento del marketing che pompa i Caravaggio e i Leonardo veri e finti che ce lo ha fatto dimenticare, inducendoci a pensare che la tutela avvenga su basi estetiche.
Con quale coraggio il Comune di Sant’Agostino, e le soprintendenze emiliane che hanno distrutto il municipio, negheranno domani la distruzione di un giardino, o di un padiglione ottocentesco o liberty, al cittadino che vuole farsi l’autorimessa o la piscina? Non potrà dire, quel cittadino, che la sua personalissima ripresa ha da passare per quella distruzione?
Ma per fortuna in Italia non ci sono solo cittadini che inneggiano al cemento e alle ruspe.
A Ferentino, per esempio, un comitato civico ha ingaggiato una sacrosanta battaglia per difendere il contesto architettonico antico della chiesa romanica di Santa Lucia. Dopo aver denunciato la distruzione di un muro, al più tardi rinascimentale, appoggiato alla chiesa, il Centro ricerche e documentazione Ferentinum ha scoperto che la decisione era venuta nientemeno che dalla Soprintendenza archeologica, che non si era consultata con le altre soprintendenze, e che non aveva ritenuto quel muro – guarda un po’ – ‘di pregio’.
Sempre in Lazio, a Colleferro, è in corso un’altra battaglia: questa volta per difendere il castello medievale sito sul colle eponimo. Nonostante una valanga di pareri contrari (tra cui quello della sua stessa Commissione edilizia), il Comune vorrebbe avallare la costruzione di nove palazzine (una di quattro piani e tutte con garage) in un’area verde addossata al Castello. I cittadini reagiscono (li si può aiutare firmando qua), e propongono destinazioni alternative coerenti con l’interesse pubblico.
Il loro slogan è anche la convinzione di quella parte di Italia che pensa che il futuro non passi attraverso la distruzione: “Non possiamo seppellire sotto una colata di cemento le radici stesse della storia!”.
Siamo certi che i celebrati musei stile Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry facciano davvero rifiorire le città? Siamo certi che servano per il marketing urbano, il turismo e la crescita? Contro la retorica dell' «effetto Bilbao» diffusa in gran parte del mondo, retorica che sta portando le città a competere nel collezionare architetture spettacolari, è uscito un libro di Davide Ponzini e Michele Nastasi "Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee" (Allemandi, pp. 146, 30). Ponzini è un ricercatore dell'area urbanistica che ha studiato a lungo le ricadute di queste architetture in chiave economica e sociale ed è intervenuto in recenti convegni internazionali al termine dei quali, riporta la pubblicistica straniera, persino importanti fondazioni sono state indotte a riflettere su alcune aperture di musei futuri. In alternativa all'insistente celebrazione mediatica di ogni architettura nichilista dell'iperconsumo — che comunque rappresenta e rispecchia i nostri tempi — gli autori propongono una lettura critica delle molteplici implicazioni urbane di edifici, piani e progetti per le varie Bilbao, Abu Dhabi, Parigi e New York. L'architettura, infatti, non è solo un linguaggio e, tantomeno, un «evento». E uno dei temi che si è sottovalutato è la rapida obsolescenza architettonica e mediatica di queste gioiose macchine da guerra messe in scena in città non sempre appropriate. Per dirne una — e forse è una buona notizia — appare incerto il destino dell'approvato nuovo Museo di arte contemporanea di Milano firmato da Daniel Libeskind. Fu vera gloria?
Il PPR DI SORU va difeso. E’ in linea con la Costituzione e per le altre Regioni è un modello insuperato. Pericolo cemento. Tornando indietro l’isola perderebbe paesaggi unici al mondo. I ritardi di Mario Monti. Sui Beni culturali si fa poco e il ministro Ornaghi forse è anche peggio di Bondi
Archeologo e storico dell’arte di prestigio internazionale, accademico dei Lincei, direttore sino al 2010 della Scuola Superiore Normale di Pisa, Salvatore Settis da anni si batte per la tutela del paesaggio e dei beni culturali, anche dalle pagine di Repubblica, di cui è una delle firme più autorevoli. Domani pomeriggio sarà a Cagliari per partecipare ad una tavola rotonda dal titolo “Il valore della Terra”, organizzata da Sardegna Democratica.
Il presidente della Regione Ugo Cappellacci ha presentato il 13 luglio le sue "Linee guida" alla modifica del Piano paesaggistico . Qual è la sua valutazione del progetto della giunta regionale?
«Con incredulità e con dolore, vedo nel nuovo progetto l'intento di devastare la Sardegna, e lo strumento per renderlo possibile. Questa la mia valutazione, ma vorrei specificare. Credo infatti che bisogna rispondere pensando alla Sardegna, ma pensando anche all'Italia.
Pianificare il paesaggio è un tema importantissimo, delicatissimo in tutto il mondo, e in Italia lo è ancor di più, per due ragioni: la straordinaria stratificazione di bellezza e di storia del nostro paesaggio, ma anche la tradizione altissima di civiltà e di cultura che è alla base della normativa italiana di merito. Basti ricordare che la prima legge sul paesaggio è dovuta a un ministro della Pubblica istruzione che si chiamava Benedetto Croce (1920). La legge Croce fu poi riscritta e ampliata in una delle due leggi Bottai nel 1939:leggi di un governo fascista che nulla ebbero di fascista, tanto è vero che nell'Assemblea costituente di una Repubblica nata contro il fascismo nacque l'articolo 9 della Costituzione, che contiene (lo ha scritto Sabino Cassese) la "costituzionalizzazione delle leggi Bottai". Prima al mondo, l'Italia poneva la tutela del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato.
Da questa lunga linea di continuità nasce anche il Codice dei Beni culturali e del paesaggio (2004), che contiene l'attuale normativa. Ora il fatto è che la Sardegna è stata, con la giunta Soru, la regione italiana che ha interpretato questa tradizione con la massima intelligenza e fedeltà alla legge e alla Costituzione, e nel massimo rispetto della storia della Sardegna, ma soprattutto del suo futuro. Quel piano paesaggistico è un modello insuperato in Italia e, data la rilevanza dei paesaggi sardi, ha importanza europea e globale. Buttando via quel Piano, la Sardegna commetterebbe due specie di suicidio: danneggiando irreversibilmente i propri paesaggi unici al mondo, ma anche perdendo l'occasione storica di essere la Regione-modello per tutta Italia».
Uno degli argomenti che vengono portati a sostegno delle modifiche al Ppr è che i vincoli avrebbero causato la perdita di migliaia di posti di lavoro. Argomento fondato? «Da decenni ci vien ripetuto che l'edilizia è il principale motore dell'economia in Italia, che condominii, villette a schiera, autostrade e altre "grandi opere" ci salveranno dalla recessione. Su questa spietata cementificazione del territorio viene posta un'etichetta incoraggiante: sviluppo. E' in nome di questo sviluppo che si sono succeduti, da Craxi in poi, condoni edilizi e ambientali, piani casa, disposizioni in deroga alla legge. Ma se questa retorica dello sviluppo fosse vera, visto che la pratichiamo da almeno quarant'anni, allora come mai l'Italia è in recessione? Perché la crisi economica mondiale è partita dalla "bolla immobiliare" degli Stati Uniti e di altri Paesi, dall'Irlanda alla Spagna? Difendere i posti di lavoro è importantissimo, ma la priorità numero uno oggi in Italia, quella su cui indirizzare l'occupazione, è la messa in sicurezza del territorio, il più fragile d'Europa. Occorre una politica, e una poetica, del riuso degli edifici abbandonati o sottoutilizzati. E' folle continuare a costruire in un Paese in cui ci sono da 2 a 4 milioni di appartamenti invenduti. Dove (credo anche in Sardegna) si lasciano morire interi villaggi di meravigliosa architettura tradizionale per costruire squallide imitazioni di architettura californiana».
La crisi globale spinge a una ridefinizione delle coordinate su cui basare economia e finanza. Ambiente e beni culturali possono svolgere un ruolo? «Abbiamo in Italia, pronto per l'uso, un manifesto da mettere in pratica: la Costituzione. Essa ha al centro l'idea di bene comune, il progetto di costruire una società libera e democratica sulla base dei diritti dei cittadini. Il grande movimento mondiale contro la cieca dominanza dei mercati potrebbe e dovrebbe trovare in Italia un punto di forza. Vorrei dirlo con le parole di un grandissimo economista, Keynes. Egli esortava a liberarsi dell' "incubo del contabile", e cioè del pregiudizio secondo cui nulla si può fare, se non comporta immediati frutti economici. "Invece di utilizzare l'immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, creiamo ghetti e bassifondi; e si ritiene che sia giusto così perché fruttano, mentre – nell’imbecille linguaggio economicistico – la città delle meraviglie potrebbe ipotecare il futuro". E Keynes continua: “Questa "regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo". Ecco: devastare il paesaggio in Sardegna sarebbe come fermare il sole e le stelle».
C’è anche un problema di tutela del paesaggio agrario. Cosa si sta facendo in Italia?
«Molto si sta muovendo, ma in modo assai disordinato. In alcune regioni (come il Piemonte, la Puglia o la Toscana) sono in corso interessanti discussioni ed elaborazioni di piani paesaggistici, in cui quello sardo della giunta Soru è sempre un cruciale punto di riferimento. In altre manca invece una vera volontà di affrontare questo tema. Ma la vera tragedia è un'altra, la quasi totale mancanza di coordinamento fra le varie regioni, anche quando i loro territori sono confinanti. La Sardegna è un caso a parte, perché è un'isola. Ma Abruzzo e Molise condividono un territorio nel quale c'è un importante Parco nazionale; il Lago di Garda è diviso tra tre regioni. Eppure i coordinamenti sono pochissimi. Manca la capacità politica e culturale del ministero di proporsi come il vero cuore di un coordinamento a livello nazionale, come è prescritto dall'articolo 9 della Costituzione, dove si parla di tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione, e cioè in modo uniforme e coordinato in tutta Italia».
E ci sono anche i beni culturali. Come si sta muovendo, su questo terreno, il governo Monti?
«Beni culturali e paesaggio (come dice l'articolo 9) formano in Italia una superiore unità. In questa legislatura la gestione del ministero ad essa preposto ha toccato il fondo dell'abisso. Abbiamo assistito a un continuo calo di risorse e di attenzione, con una micidiale sequenza di tre ministri pochissimo interessati e di nessuna competenza specifica (Bondi, Galan, Ornaghi). E' con dispiacere che, per amore della verità, bisogna dire che dei tre Ornaghi è forse il peggiore. Mario Monti è persona di grande cultura, ma non ha ancora trovato un'ora per accorgersene. Anche lui è dominato dall' "incubo del contabile"».
Le amministrazioni locali sono all’altezza del compito?
«L'inadeguatezza delle amministrazionr locali non è colpa dei sindaci. La giunta Soru aveva istituito un Ufficio del Piano (con fondi adeguati) per supportate i Comuni per l'adeguamento del Puc al Ppr. Ma l''Ufficio del Piano è stato smobilitato e ridimensionati i finanziamenti. Al punto che solo dieci Comuni hanno adeguato il Puc, e luoghi come Arzachena hanno strumenti fermi al 1971! E' in questa programmata disfunzione e inerzia delle istituzioni che alcune lobby di costruttori e di progettisti vorrebbero ritornare alla cosiddetta "urbanistica concertata". Concertata con loro, si capisce, contro la legge, secondo cui le scelte urbanistiche devono essere orientate esclusivamente dal bene comune di tutti e non dagli interessi di pochi».
Se c’è ancora un motivo per perder tempo con la galattica bufala caravaggesca, è che essa mette a nudo gli ingranaggi del bufalificio.
Il modello è quello dell’arte contemporanea: dove, da decenni, un ‘artista’ si crea a tavolino, dal nulla. Come lì non conta nulla la qualità, qua non conta nulla la ricerca: la responsabile del Gabinetto disegni del Castello Sforzesco ha detto che non ha mai visto i due ‘scopritori’ studiare le opere.
Quel che invece conta davvero è la comunicazione: i contatti, i lanci, gli eventi, gli scandali e perfino le risse. E se il contemporaneo è, da tempo, materia più da pierre che da critici o storici dell’arte, siamo sulla buona strada perché la stessa fine la faccia la storia dell’arte antica.
Caravaggio, ormai, è più di là che di qua. Negli scorsi mesi, una campagna martellante ha accreditato l’attribuzione di una seconda Medusa. Basta guardarla per capire che è una copia, più tarda e comunque ottusa, di quella celeberrima degli Uffizi. Ma la società di comunicazione «Once – Extraordinay Events» l’ha lanciata in modo assai efficace, anche grazie alla disponibilità di storici dell’arte ‘ottimisti’. E i risultati sono stati clamorosi. In una puntata di «Chi vuol esser milionario», Gerri Scotti ha chiesto quale soggetto fosse stato dipinto da Caravaggio una sola volta: la concorrente ha indicato («senza l’ausilio di alcun aiuto», narrano le cronache) la Medusa degli Uffizi. Ed aveva perfettamente ragione: ma il ‘pubblico a casa’ è insorto, perché la campagna promozionale era stata tanto pervasiva che tutti sapevano che esisteva un’altra Medusa. Il finale tragicomico è stato che, nella puntata successiva, Scotti si è dovuto scusare.
È istruttivo sapere che Once ha curato anche la recente sfilata di moda agli Uffizi, ed è l’«agenzia di riferimento territoriale che supporta la ricerca» della Battaglia di Anghiari brandita da Matteo Renzi.
Masai agli Uffizi, Caravaggio finti, Leonardi immaginari: tutto fa brodo in un marketing per cui l’arte figurativa è, davvero, «carne da cannone», come scriveva Roberto Longhi. In un paese in cui si fa fatica a spiegare perché i monumenti danneggiati da un terremoto non debbano essere abbattuti con la dinamite, tutto questo non è solo un errore: è un crimine.
Riuscite a immaginare 16 pale eoliche più alte del grattacielo Pirelli piantate su un'antica strada romana a corona del magnifico sito archeologico di Saepinum? Eppure il sovrintendente, poi sconfessato dai superiori e inquisito dal giudice penale e dalla Corte dei Conti, disse sì. E quel «sì» pesa maledettamente. Ponendo un problema generale: fino a che punto la firma di un solo funzionario, magari infedele, può impegnare lo Stato?
Ma la storia non è tutta qui. Sulla trincea opposta, a difesa delle rovine, c'è un altro dirigente che per affermare il rispetto della legge è andato a beccarsi una richiesta danni di 23 milioni di euro, che mai nella vita potrebbe pagare, da parte dei costruttori dell'impianto. E chi risulta essere padrone per metà della società pronta a investire decine di milioni di euro? Un terzo funzionario pubblico.
Ma partiamo dall'inizio. E dal cuore del problema: i resti di Saepinum, una città sannitica e poi romana adagiata nella valle del fiume Tammaro, vicino all'odierna Sepino, in provincia di Campobasso. Scavate a partire dagli anni 50, le rovine hanno una caratteristica: i contadini della zona hanno costruito qua e là delle abitazioni con le pietre a vista recuperate dalle macerie dell'antico insediamento. E tutto l'insieme, i colonnati della Basilica e il Foro e le grandi porte di accesso e le case coloniche offrono un colpo d'occhio che non dev'essere molto diverso dalle visioni che avevano nei secoli scorsi, visitando i nostri siti archeologici, i grandi viaggiatori come Thomas Coryat, Wolfgang Goethe o Alphonse de Sade. Massimo esempio di questa meravigliosa commistione, il Teatro. La cui cavea è circondata da una corona di case in pietra. Luogo di fascino straordinario. Indimenticabile.
È impossibile che chi vuole costruire una palizzata di pale eoliche alte 130 metri sulla cresta delle colline che dominano la valle abbia visitato Saepinum. A meno che, ovvio, non se ne fotta delle bellezze naturali e dei tesori archeologici. Ma ancora più stupefacente è che un sovrintendente addetto a tutelare quel patrimonio sia stato di manica così larga. Per non dire dell'indecente appoggio al progetto della Regione di Michele Iorio.La storia puzza fin dall'inizio. Occhio alle date: la società «Essebiessepower» invia alla Sovrintendenza per i beni archeologici del Molise il progetto per tirar su la gigantesca palizzata eolica sul crinale collinare mercoledì 11 maggio 2005. E il 18 maggio, nonostante il weekend di mezzo, in soli 7 giorni, il sovrintendente Mario Pagano dà la risposta: ok. Un prodigio prodigioso di efficienza. Fatto sta che, nella fretta di concedere il permesso, il funzionario «dimentica» che da un quarto di secolo, dal 1982, lo studio «Saepinum — Il museo documentario dell'Altilia» del professor Maurizio Matteini aveva documentato che proprio lì dove andranno le pale c'è un'antica strada sannitica «risalente ai secoli V-IV secolo a.C. sopravvissuta come callis romana» sicché, scriverà il procuratore regionale della Corte dei Conti Francesco Paolo Romanelli, era fuori discussione «la sua qualificazione come area archeologica».
Poche settimane e appena il superiore diretto del disinvolto funzionario, il direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici Gino Famiglietti, viene a sapere della cosa, si mette di traverso, rivendica d'avere per legge l'ultima parola e avverte la Regione di voler imporre un vincolo per «salvaguardare l'incontaminato contesto paesaggistico che incornicia il gioiello archeologico monumentale e paesaggistico di Sepino-Altilia».
Da quel momento (vi risparmiamo i dettagli giuridico-burocratici) si apre una commedia surreale. Di qua la direzione regionale insiste nell'opporsi al progetto eolico, annulla l'autorizzazione concessa dal sottoposto, dà battaglia su tutti i fronti legali e amministrativi per bloccare lo stupro di quelle colline e dell'antico tratturo. Di là, mentre dilaga la rivolta degli ambientalisti appoggiati da un furente Vittorio Sgarbi, Mario Pagano va avanti come niente fosse nel suo rapporto diretto con la «Essebiesse». Un rapporto anomalo, accusa la Corte dei Conti. Soprattutto in due momenti. Il primo è l'impegno a versare 50 mila euro l'anno per 29 anni di sponsorizzazione in favore del parco archeologico da parte dei costruttori che chiedono (sbalorditivo, per uno sponsor) «la massima riservatezza».
Il secondo è l'ok del funzionario, a dispetto delle diffide dei superiori, alla nuova richiesta della società: vuol coprire l'antico tratturo nel quinto secolo a.C. «con misto di cava al fine di preservarlo dal passaggio degli automezzi». Una presa in giro. Ma lui dice sì all'istante. Una scelta che convince infine il magistrato contabile sulla «buona +fede» o no del sovrintendente. Al punto che l'accusa con cui gli chiede 1.147.127 euro di danni archeologici e paesaggistici gronda d'indignazione: «aperto dispregio alle regole», «macroscopica negligente condotta di servizio», «assoluta e inspiegabile arrendevolezza»… Parallelamente, va avanti un'altra partita. Quella avviata dal Tar che, avendo dato la Regione l'ok all'impianto (che importa, ai giudici amministrativi, dei resti archeologici?) decide su ricorso della società di accelerare nominando un commissario ad acta, Vincenzo Caprioli. Il quale, convinto evidentemente che sia la prima parola di Pagano quella che conta, a prescindere dall'annullamento disposto dai suoi superiori, tira diritto: la palizzata eolica s'ha da fare. Anzi, «gli attuali impianti eolici possono costituire anche un ornamento del paesaggio naturale». Sic… Fatto sta che passano i mesi e gli anni. E la battaglia per difendere Saepinum vede entrare in campo, oltre alla Corte dei Conti (udienza il 9 ottobre prossimo) e al ministero, che infine sposta il funzionario a Perugia (mica male, come realtà artistica e paesaggistica, per un uomo così «attento» ai beni da tutelare…), anche la magistratura ordinaria. Che rinvia a giudizio il sovrintendente (processo il 27 settembre) per «danno a bene immobile aggravato dal fatto che si tratta di bene vincolato».
Qualche settimana, insomma, e vedremo come va a finire. Un'ultima curiosità: di chi è questa «Essebiessepower» che sembra avere così buone conoscenze in Regione e non solo? Di un signore di nome Gennaro Spasiano, che in certe carte figura anche come direttore dei lavori a Sepino, e di sua moglie Antonella Del Gaudio. I quali, insieme, da soli o coi figli sono presenti con quote di maggioranza o di partecipazione importante, in altre 11 imprese che si occupano di energia rinnovabile. Un piccolo impero eolico, collegato tramite società in comune a un impero ben più grande: quello di «Fortore energia», gruppo alleato di un big tedesco dell'energia, finito mesi fa, a ragione o a torto, nelle intercettazioni dell'inchiesta sulla cosiddetta P3 del faccendiere Flavio Carboni.
Tutto ciò presuppone tanti soldi di contributi e tanti d'investimento. Ogni pala eolica di quelle progettate a Sepino, per capirci, costa secondo Legambiente intorno ai tre milioni di euro. Tre milioni per 16 uguale 48.
Ma chi è questo Spasiano, un milionario? Macché: è un funzionario della Provincia di Caserta, già sub commissario delegato all'emergenza rifiuti per il Casertano negli anni più controversi e oggi «esperto delle energie rinnovabili» (così dice il sito ufficiale) con uno stipendio lordo di 80.606 euro e 93 centesimi. Tolte le tasse, per comprare una sola pala dovrebbe risparmiare 60 anni.
Ha fatto rumore ieri la notizia del rischio del fallimento della regione Sicilia a causa di un debito consolidato di 17 miliardi. L'isola ho poco più di 5 milioni di abitanti: ogni siciliano - neonati compresi - ha un debito di 3.400 euro ciascuno.
Roma, per esplicita ammissione del sindaco Alemanno, ha 11 miliardi di debito consolidato. A questa cifra spaventosa va aggiunto il debito di alcune municipalizzate (Atac e Ama in primis dove sono stati assunti senza concorso un numero imprecisato di amici e camerati della prima ora) e quello dovuto agli espropri per opere pubbliche non perfezionati: si arriva a 15 miliardi. La popolazione di Roma è di circa 2 milioni e 600 mila abitanti: ogni romano - neonati compresi- ha un debito di 5.800 euro ciascuno. Se la regione Sicilia rischia di fallire, la capitale non ha neppure il beneficio del dubbio: è alla bancarotta.
Il debito della regione Sicilia è frutto della irresponsabile politica clientelare di rigonfiamento degli organici nelle istituzioni pubbliche e della spesa per opere spesso inutili e controllate dalle organizzazioni criminali. La cura per il rientro dal debito è chiara, anche se non immediata: dimagrire l'elefantiaca pubblica amministrazione. Il presidente Lombardo, formalmente dimissionario, aveva invece continuato ancora in questi ultimi giorni ad assunzioni a spese della collettività.
Il debito della capitale è solo in parte riconducibile al rigonfiamento della pubblica amministrazione, che pure esiste, come dicevamo. La causa principale del debito romano sta piuttosto nel dissennato modello di crescita che ha causato una espansione urbana incontrollata: periferie che generano altre periferie sempre più lontane e costringono l'amministrazione comunale ad indebitarsi per portare servizi, trasporti, strade e per la quotidiana gestione.
La cura per il rientro del debito è dunque chiara anche in questo caso: bloccare qualsiasi ulteriore espansione urbana e razionalizzare la città esistente. Il sindaco Alemanno sta invece cercando in questi giorni di far approvare dal Consiglio comunale una ulteriore gigantesca crescita urbana: nuovi quartieri residenziali per un totale di 66 mila alloggi; venti milioni di metri cubi di cemento che cancelleranno per sempre oltre 2 mila ettari di territorio agricolo.
Nuove aree agricole, dunque, in deroga alle già irresponsabili dimensioni delle espansioni previste dal piano regolatore approvato dalla precedente giunta Veltroni (prevedeva 400 mila nuovi abitanti in una città che non cresce più da venti anni). Il pretesto è quello dell'emergenza abitativa: mancano le case per le famiglie più povere e la generosa rendita fondiaria risolverà il problema dei senza tetto a patto di regalargli una plusvalenza di centinaia di milioni di euro. Poi, inevitabilmente, il comune che ha già il debito di 15 miliardi dovrà accollarsi le spese per i servizi. E' evidente che l'approvazione del pacchetto urbanistico di Alemanno sarebbe il colpo finale per una città in grave crisi.
Il presidente del Consiglio ha intimato al governatore Lombardo di dimettersi poiché sta attuando politiche che aggravano ulteriormente il debito siciliano: perché non usa lo stesso metro con il sindaco di Roma così da impedirgli di portare alla definitiva bancarotta la capitale?
In attesa di una convincente risposta resta da formulare una proposta. Alemanno è costretto a portare fino in fondo la scellerata proposta: tra pochi mesi inizia la campagna elettorale amministrativa e dopo l'evidente fallimento della sua amministrazione non può permettersi di scontentare i suoi migliori alleati, i costruttori e gli immobiliaristi romani. L'opposizione -fatta eccezione per Alzetta e Azuni- non batte un colpo, prigioniera della mancata riflessione critica sull'approvazione del piano regolatore 2008 che ha provocato il nuovo sacco edilizio. Non resta allora che venga sottoscritto da chiunque si candiderà alle prossime elezioni un solenne impegno: revocare la delibera che verrà approvata nei prossimi giorni. La città ha bisogno di segnali di discontinuità: non si può continuare a fondare il futuro di Roma sull'espansione urbana mentre ci sono almeno 100 mila alloggi nuovi invenduti che da soli risolverebbero la questione.
L’avvilente sesto posto di Roma nella classifica dei luoghi in grado di sfruttare al meglio la risorsa costituita dai beni culturali la dice lunga sull'indifferenza che circonda il nostro incredibile e ricchissimo patrimonio artistico, architettonico e archeologico. Abbiamo i monumenti più importanti del pianeta e li gestiamo come un fastidioso intralcio alla circolazione automobilistica. Prova ne sia quel gigantesco spartitraffico chiamato Colosseo che assiste ogni ora, come ha dimostrato una recente indagine di Legambiente, al passaggio di oltre duemila veicoli senza che il rumore scenda mai al di sotto della soglia limite di 70 decibel. In quale altro Paese del mondo sarebbe accettabile una tale assurdità? Crediamo nessuno. Altrove l'Anfiteatro Flavio e i Fori Imperiali, compresa magari piazza Venezia, sarebbero parte di una splendida ed enorme area pedonale a destinazione turistica. Invece qui, sembriamo più angosciati dal destino di qualche finto centurione che si aggira tra le rovine per accalappiare turisti sprovveduti impugnando una spada di legno, che interessati a tutelare e far rendere al meglio gli inestimabili tesori che ci sono toccati immeritatamente in eredità. Il circuito Colosseo-Palatino-Fori Imperiali (stiamo parlando di una zona archeologica che non ha confronti nel mondo intero) genera ogni anno introiti lordi per circa 35 milioni di euro: per capirci, non basterebbero venti anni di quegli incassi per tappare il buco delle perdite accumulate fino al 2010 nel bilancio dell'Atac. I soli servizi aggiuntivi (bookshop, ristorante, bar, parcheggio...) del Metropolitan Museum di New York garantiscono un fatturato doppio. Mentre l'incasso annuale del Louvre parigino supera quella cifra di tre volte e mezzo. Umiliante. Studi internazionali dimostrano che il riconoscimento dato dall'Unesco come patrimonio dell'umanità accresce mediamente del 30 per cento la redditività economica di un sito. Ma non in Italia, Paese che tuttavia ha più luoghi storici e paesaggistici tutelati dall'Onu di qualunque altra nazione. Meno che mai, poi, da queste parti. La dimostrazione è a pochi chilometri da Tivoli. Nel dicembre 1999, l'area archeologica di Villa Adriana, dove si possono ammirare i resti della meravigliosa reggia dell'imperatore Adriano, ha ottenuto anch'essa l'agognato bollino dell'Unesco. Ebbene, da allora, il numero dei visitatori paganti è crollato, riducendosi di oltre 1140 per cento: i biglietti sono scesi da oltre 1843 mila a meno di no mila. Un ventesimo rispetto ai turisti che, ogni anno, vanno alle rovine di Efeso in Turchia. Nel frattempo, lo stanziamento pubblico per la conservazione di Villa Adriana è ai minimi termini. Il bello è che qualcuno ancora si stupisce perché un prefetto, nominato commissario, insieme a qualche politico stravagante, avevano progettato di mettere a 800 metri dal sito archeologico una enorme discarica destinata ad accogliere i rifiuti della città di Roma. Capito in che mani siamo?