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youtg.net, 2 settembre 2017

LEGGE URBANITICA. ILURO DELLA REGIONE

CONTRO ILOPRINTENDENTE.
«HA PREGIUDIZI E BLOCCA TUTTO»

La lettera più recente è indirizzata al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. A firmarla è l'assessore regionale all'Urbanistica ed Enti Locali Cristiano Erriu. L'oggetto è il disegno di legge urbanistica, la legge "madre" di governo del territorio approvata dalla giunta. Un argomento che nelle ultime settimane ha dato tanto da scrivere e da replicare al governatore Pigliaru e ad Erriu. Battaglia di lettere. Venerdì il presidente del Consiglio si era rivolto con una lettera al premier Paolo Gentiloni per replicare alla dichiarazioni del sottesegretario ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni. Il governatore non aveva gradito in particolare «l'aver stabilito arbitrariamente una continuità tra le politiche in materia urbanistica della precedente Giunta di centrodestra e l'attuale, da sempre impegnata nella tutela del paesaggio e dell'ambiente». Per questo Pigliaru aveva scritto che la sottosegreteria chiedesse scusa.

Interviene Erriu.

Ora è l'assessore Erriu a difende il testo che porta il suo nome dalle critiche mosse dal rappresentante del ministero ai Beni culturali nell'isola, il sovrintendente per l'archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Cagliari, Oristano e ud ardegna, Fausto Martino. Che, scrive Erriu al ministro Franceschini, «attraverso molteplici e discutibili dichiarazioni tanto alla stampa che attraverso blog e social network, assume un atteggiamento considerato da tanti inappropriato per un alto funzionario dello tato nei confronti dell'istituzione regionale, esprimendo pareri di merito sulle scelte politiche dell'attuale Giunta».

Erriu ricorda le ultime dichiarazioni del Sovrintendente successive all'impugnazione da parte del Governo di alcuni articoli della legge 11 del 2017 - la legge omnibus o delle manutenzioni - «con le quali ha espresso giudizi sulle scelte politiche contenute nel disegno di legge sul governo del territorio attualmente in discussione in Consiglio regionale, scelte sulle quali la Regione ha competenza primaria, anticipando una posizione censoria delle decisioni che nell'assemblea verranno democraticamente assunte».

Martino aveva contestato la possibilità di incrementi volumetrici sulle coste dicendo che non è quella la strada giusta per tutelare il paesaggio. Erriu nella lettera a Franceschini spiega che con il Soprintendente i rapporti sono da sempre complicati: «Con gli uffici locali del ministero dei Beni e delle attività culturali c'è stata un'estenuante difficoltà di interlocuzione sin dal momento dell'insediamento dell'attuale governo regionale». Nonostante la Regione abbia «incessantemente cercato una fattiva collaborazione con il Mibact e i suoi organi locali per riprendere le attività di verifica e adeguamento del Ppr che si erano interrotte negli ultimi mesi della scorsa legislatura, tutte le proposte di dialogo e confronto che abbiamo avanzato non hanno prodotto risultati concreti - conclude l'assessore Erriu -. Ciò rende dubbia la praticabilità di prossime interlocuzioni con il Soprintendente che pare mosso da posizioni pregiudiziali, irrispettose dei ruoli e dell'autonomia sarda».
Nuova puntata

La sensazione è che ci saranno ancora lettere e comunicati al vetriolo. A innescare la nuova miccia è Maria Antonietta Mongiu, ex assessore della giunta Soru e sino a poco tempo fa presidente del Fai. In un recente incontro a Pattada la Mongiu, oggi al timone di Lamas e Sardegna oprattutto aveva puntato il dito contro l'accondiscendenza della giunta verso certi investitori stranieri (vedi Qatar) suscitando la reazione forte e indignata dell'assessore Erriu. Ora la Mongiu commenta la lettera di Pigliaru e Gentiloni: «Le parole con cui il presidente Pigliaru si rivolge al primo ministro Gentiloni contro la Borletti Buitoni impressionano per la violenza verbale e per come a sproposito difende l'autonomia speciale e il consiglio regionale contro lo stato centrale. In questo caso, Costituzione alla mano, è lo stato centrale che sta difendendo il paesaggio ed il suolo della Sardegna contro la classe dirigente che governa la Regione. piace constatare - l'affondo della Mongiu - che ha ragione la sottosegretaria nel dire che non c'è discontinuità tra Cappellacci e Pigliaru». (si. sa.)

la Nuova Sardegna, 3 settembre 2019
LO CONTRO ULL'URBANITICA.
ERRIU ATTACCA MARTINO

CAGLIARI. “Attraverso molteplici e discutibili dichiarazioni tanto alla stampa che attraverso blog e social network, il Sovrintendente per l'Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Cagliari, Oristano e ud Sardegna, Fausto Martino, assume un atteggiamento considerato da tanti inappropriato per un alto funzionario dello tato nei confronti dell'istituzione regionale, esprimendo pareri di merito sulle scelte politiche dell'attuale Giunta”.

Lo sostiene l'assessore dell'Urbanistica Cristiano Erriu, in una lettera inviata al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. L'esponente della Giunta Pigliaru nella missiva ricorda le ultime dichiarazioni del oprintendente successive all'impugnazione da parte del Governo di alcuni articoli della legge n.11 del 2017 “con le quali ha espresso giudizi sulle scelte politiche contenute nel disegno di legge sul governo del territorio attualmente in discussione in Consiglio regionale, scelte sulle quali la Regione ha competenza primaria, anticipando una posizione censoria delle decisioni che nell'assemblea verranno democraticamente assunte”.

“L'atteggiamento critico e irrituale tenuto dal Soprintendente - prosegue Erriu - si accompagna a una estenuante difficoltà di interlocuzione con gli uffici locali del Ministero dei Beni e delle Attività culturali sin dal momento dell'insediamento dell'attuale governo regionale. Questo - attacca l'assessore all'Urbanistica - vale per la annosa questione della necropoli di Tuvixeddu, per la copianificazione dei beni paesaggistici per la verifica e adeguamento del Ppr che il soprintendente Martino ritiene indispensabile ma per la quale non si è mai reso effettivamente disponibile, e per la stessa legge urbanistica la cui bozza, per leale collaborazione, gli fu trasmessa svariati mesi prima della presentazione, senza ricevere osservazioni in merito".

Il titolare dell'Urbanistica segnala al Ministro Franceschini che “la Regione ha incessantemente cercato una fattiva collaborazione con il Mibact e i suoi organi locali per riprendere le attività di verifica e adeguamento del Piano Paesaggistico, ai sensi dell'articolo 156 del Codice del Paesaggio, che si erano interrotte negli ultimi mesi della scorsa legislatura. A tal fine - ricorda Erriu - io stesso mi sono recato più volte al Mibact con il mio staff tecnico per istituire un rapporto di leale collaborazione sui vari e delicati temi che riguardavano congiuntamente le due istituzioni, ricevendo dalle sottosegretarie Barracciu, prima, e Borletti Buitoni, poi, ampie rassicurazioni in tal senso e l'impegno alla più ampia collaborazione". E tuttavia, lamenta l'assessore, "mi duole rilevare che, purtroppo, agli impegni presi in quelle sedi, da parte degli uffici ministeriali non seguirono i fatti".

“Non certo alla Regione sarda – si legge nella lettera indirizzata a Franceschini - può essere attribuita la volontà di affrontare queste delicate questioni in solitudine, ma che, al contrario, ogni tentativo sia stato fatto per operare con il pieno coinvolgimento del Ministero, purtroppo senza apprezzabili risultati, con la conseguenza che questioni particolarmente critiche per l'Isola, attendono ancora soluzione. Ciò - denuncia Erriu - rende dubbia la praticabilità di prossime interlocuzioni con il Soprintendente che pare mosso da posizioni pregiudiziali, irrispettose dei ruoli e dell'autonomia regionale sarda”.

“Ci rendiamo tuttavia disponibili - conclude l'assessore - per affrontare al più alto livello istituzionale le diverse questioni con l'obiettivo di riportare il rapporto su un piano di ragionevolezza e di lealtà istituzionale”.
la Nuova Sardegna, 3 settembre 2019
LO CONTRO ULL'URBANITICA.
ERRIU ATTACCA MARTINO
CAGLIARI. “Attraverso molteplici e discutibili dichiarazioni tanto alla stampa che attraverso blog e social network, il Sovrintendente per l'Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Cagliari, Oristano e ud Sardegna, Fausto Martino, assume un atteggiamento considerato da tanti inappropriato per un alto funzionario dello tato nei confronti dell'istituzione regionale, esprimendo pareri di merito sulle scelte politiche dell'attuale Giunta”.

Lo sostiene l'assessore dell'Urbanistica Cristiano Erriu, in una lettera inviata al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. L'esponente della Giunta Pigliaru nella missiva ricorda le ultime dichiarazioni del Soprintendente successive all'impugnazione da parte del Governo di alcuni articoli della legge n.11 del 2017 “con le quali ha espresso giudizi sulle scelte politiche contenute nel disegno di legge sul governo del territorio attualmente in discussione in Consiglio regionale, scelte sulle quali la Regione ha competenza primaria, anticipando una posizione censoria delle decisioni che nell'assemblea verranno democraticamente assunte”.
“L'atteggiamento critico e irrituale tenuto dal Soprintendente - prosegue Erriu - si accompagna a una estenuante difficoltà di interlocuzione con gli uffici locali del Ministero dei Beni e delle Attività culturali sin dal momento dell'insediamento dell'attuale governo regionale. Questo - attacca l'assessore all'Urbanistica - vale per la annosa questione della necropoli di Tuvixeddu, per la copianificazione dei beni paesaggistici per la verifica e adeguamento del Ppr che il soprintendente Martino ritiene indispensabile ma per la quale non si è mai reso effettivamente disponibile, e per la stessa legge urbanistica la cui bozza, per leale collaborazione, gli fu trasmessa svariati mesi prima della presentazione, senza ricevere osservazioni in merito".
Il titolare dell'Urbanistica segnala al Ministro Franceschini che “la Regione ha incessantemente cercato una fattiva collaborazione con il Mibact e i suoi organi locali per riprendere le attività di verifica e adeguamento del Piano Paesaggistico, ai sensi dell'articolo 156 del Codice del Paesaggio, che si erano interrotte negli ultimi mesi della scorsa legislatura. A tal fine - ricorda Erriu - io stesso mi sono recato più volte al Mibact con il mio staff tecnico per istituire un rapporto di leale collaborazione sui vari e delicati temi che riguardavano congiuntamente le due istituzioni, ricevendo dalle sottosegretarie Barracciu, prima, e Borletti Buitoni, poi, ampie rassicurazioni in tal senso e l'impegno alla più ampia collaborazione". E tuttavia, lamenta l'assessore, "mi duole rilevare che, purtroppo, agli impegni presi in quelle sedi, da parte degli uffici ministeriali non seguirono i fatti".
“Non certo alla Regione sarda – si legge nella lettera indirizzata a Franceschini - può essere attribuita la volontà di affrontare queste delicate questioni in solitudine, ma che, al contrario, ogni tentativo sia stato fatto per operare con il pieno coinvolgimento del Ministero, purtroppo senza apprezzabili risultati, con la conseguenza che questioni particolarmente critiche per l'Isola, attendono ancora soluzione. Ciò - denuncia Erriu - rende dubbia la praticabilità di prossime interlocuzioni con il Soprintendente che pare mosso da posizioni pregiudiziali, irrispettose dei ruoli e dell'autonomia regionale sarda”.
“Ci rendiamo tuttavia disponibili - conclude l'assessore - per affrontare al più alto livello istituzionale le diverse questioni con l'obiettivo di riportare il rapporto su un piano di ragionevolezza e di lealtà istituzionale”.

postilla

Ho conosciuto Fausto Martino fin dai tempi in cui era alla Soprintendenza di Salerno. Sono stato felice quando ha assunto il ruolo di Soprintendente in Sardegna. Siamo stati sicuri (credo di poter testimoniare anche a nome degli altri componenti del Comitato scientifico del Piano) che il nostro lavoro di tutela delle coste era affidato a mani sicure (almeno per la parte di competenza dello tato). Ho conosciuto personalmente anche Francesco Pigliaru, all'epoca assessore della Giunta di Renato Soru. Francamente non pensavo che potesse comportarsi addirittura peggio del suo predecessore, Ugo Cappellacci, fedelissimo di Silvio Berlusconi. Ma i tempi cambiano, e con essi le persone. Non ho invece il piacere di conoscere l'assessore Erriu; ma mi basta aver letto dell'aboniminevole articolo col quale la sua legge urbanistica si propone gli affari immobiliare alla tutela per non desiderarlo (e.s.)

«Bisognava scegliere “il meglio” in astratto, senza riguardo alla storia culturale e professionale dei prescelti, se davvero avevamo scelto il meglio, perché ora ce lo facciamo sfilare?». la Repubblica, 2 settembre 2017 (c.m.c.)

«Un brutto segnale». Il giudizio di Stefano Boeri, membro del comitato scientifico degli Uffizi, è azzeccato.Chi scrive ha un giudizio radicalmente negativo della riforma che ha portato Eike Schmidt a dirigere il più importante museo italiano. Ma è proprio chi crede in quella riforma che ora dovrebbe porsi alcune domande.Ci è stato detto che bisogna trattare i musei come aziende, scegliendone i direttori sul mercato internazionale. Ebbene, quale amministratore delegato di una grande impresa annuncerebbe — prima ancora della metà del mandato, e con la proprietà che incoraggia pubblicamente a progettarne un secondo — che abbandonerà quel posto per assumerne uno analogo presso un concorrente?

Ci è stato detto che bisogna scegliere “il meglio” in astratto, senza riguardo alla storia culturale e professionale dei prescelti. Se avevamo davvero scelto il meglio, perché oggi non ci viene portato via dal Metropolitan di New York o dal Louvre ma da un museo, che seppur meraviglioso, non è paragonabile agli Uffizi, nella carriera di un direttore? Più semplicemente: se davvero avevamo scelto il meglio, perché ora ce lo facciamo sfilare? Se concepiamo il sistema dei musei come una sorta di “calcio mercato” allora non dovremmo anche disporre dei soldi per tenerci stretti i “campioni” che abbiamo “comprato”? Il dubbio è che una riforma affrettata non abbia dato ai direttori gli strumenti, e la serenità, necessari ad attuare i cambiamenti largamente annunciati. Basti pensare alla sentenza del Consiglio di Stato che dovrà decidere sulla legittimità di alcune delle nomine dei direttori non italiani (con potenziali effetti a cascata su tutte, Uffizi inclusi).

A fare le spese di tutto questo rischiano ora di essere gli Uffizi: un museo, anzi un complesso museale, delicatissimo. Eike Schmidt ha attuato qualche cambiamento: da quello del nome ufficiale a quello delle tariffe d’ingresso. Ma soprattutto ha annunciato decisioni molto ambiziose: dall’attuazione dell’ormai storico progetto del nuovo ingresso al riordinamento complessivo delle collezioni. Si tratta di passi davvero molto impegnativi, ciascuno dei quali meriterebbe una profonda e serena discussione. Ma ora, dopo l’annuncio dato agli italiani dal ministro della Cultura austriaco, è legittimo chiedersi con quale autorevolezza, convinzione, credibilità tutto questo potrà essere attuato da chi ha già scelto di non legare il proprio futuro professionale al frutto del proprio lavoro.

il manifesto, 30 agosto 2017 con riferimenti (c.m.c.)

Ieri il consiglio dei ministri ha deciso di impugnare la legge sull’edilizia della giunta Pigliaru (Pd) approvata a metà luglio dall’assemblea regionale sarda. Con i suoi 34 articoli la legge interviene in diversi campi: regolamentazione delle varianti di progetti edilizi in corso d’opera, mutamenti di destinazione d’uso, procedimenti di semplificazione per l’approvazione dei Piani urbanistici comunali (Puc), utilizzo degli usi civici.

La richiesta di impugnativa è stata avanzata dalla soprintendenza ai beni culturali di Cagliari e istruita dal ministero di cui è titolare Dario Franceschini, che ha portato la pratica sul tavolo del consiglio dei ministri. Per palazzo Chigi, alcuni passaggi della legge impugnata «prevedono interventi che si pongono in contrasto con le norme fondamentali in materia di paesaggio contenute nella legislazione statale, eccedendo dalle competenze statutarie attribuite alla Regione Sardegna dallo statuto speciale di autonomia e violando l’art. 117 della Costituzione», che affida allo stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali.

Lo stop che arriva da Roma avrà due conseguenze. La prima è politica. Subito dopo la approvazione in consiglio della legge sull’edilizia bocciata ieri dal governo, la giunta Pigliaru ha presentato una legge urbanistica di governo del territorio fortemente avversata da tutto il fronte ambientalista sardo e nazionale. Per due motivi: primo perché viene disposto che sui tratti di costa sarda ancora non cementificati e tutelati dal Piano paesaggistico regionale (Ppr) del 2006 si possano costruire alberghi e villaggi turistici qualora alla giunta vengano presentati da imprenditori privati progetti edilizi che l’esecutivo giudichi «di particolare rilevanza economica e sociale» .

E secondo perché viene prevista la possibilità di un aumento di volumetria degli alberghi già esistenti situati nella fascia di trecento metri dal mare protetta dal Ppr. Ora che il governo rigetta una legge, quella sull’edilizia, che, rendendo più flessibili regole e normative, era chiaramente propedeutica a quella urbanistica, è evidente che per la giunta Pigliaru sarà molto più difficile difendere questo secondo provvedimento, che ancora deve passare al vaglio del consiglio.

Gli ambientalisti segnano un punto a loro favore nella battaglia per difendere il Piano paesaggistico regionale e le coste sarde. Ma segna un punto anche la corrente, minoritaria dentro il Pd, che si rifà a Renato Soru, ex presidente della giunta “padre” del Ppr. Soru ha dichiarato più volte che, qualora la legge urbanistica arrivasse in consiglio così com’è oggi, darebbe indicazione ai suoi consiglieri di votare no.

La seconda conseguenza è che adesso sarà molto più difficile raddoppiare il deposito altamente inquinante dei fanghi rossi scarto di lavorazione della fabbrica Eurallumina di Portovesme, nel Sulcis. Per far ciò, infatti, bisognerebbe occupare terreni soggetti a usi civici. La legge sull’edilizia bocciata dal governo questo lo consentiva; dopo lo stop di ieri tutto sarà bloccato. E visto che i padroni di Eurallumina, il gruppo russo Rusal, vincolano alla realizzazione del progetto di raddoppio del deposito gli investimenti per rilanciare una fabbrica la cui gestione ritengono antieconomica, per gli operai la prospettiva di uscire dalla cassa integrazione, che dura ormai da otto anni, si allontana.

D’altra parte, il raddoppio del deposito è stato dichiarato illegale da una recente sentenza della Corte costituzionale, che il consiglio dei ministri ieri non ha potuto che ribadire.

Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg le interviste di Edoardo Salzano a la Nuova Sardegna e al manifesto, e gli articoli di Costantino Cossu, di Antonietta Mazzette e di Sandro Roggio.

Una meraviglia della storia e della cultura, divenuta oggetto di uno scandalo, iniziato dai governi di centrosinistra, che prosegue indisturbato con la giunta M5s. In calce il link a un'ampia illustrazione del caso

In un articolo su il manifesto del 7 marzo 2017 intitolato Pareggio di bilancio, la 'rivoluzione' mancata di Chiara Appendino, Maurizio Pagliassotti ha tracciato un'analisi sconfortante della Amministrazione comunale pentastellata che si conclude così:

«Da questo percorso emergono alcuni cardini culturali del M5S in salsa sabauda: la post ideologia pentastellata – non siamo di destra né di sinistra – è neo liberismo mimetizzato, dato che il dogma è rappresentato dal pareggio di bilancio da raggiungere attraverso l’austerità. In tal senso l’elettorato di movimento, dagli animalisti agli sfrattati, passando per quelli che non vogliono la privatizzazione dei beni comuni, è tutto sacrificabile. Rimane la prospettiva di lungo termine, il punto di fuga della propaganda via internet permanente, fatto di sempre nuove promesse per un futuro sempre più lontano e sempre più radioso».

Difficile non condividere l'analisi del giornalista torinese, buon conoscitore del cosiddetto 'Sistema Torino' e difficile sottrarsi al dovere di documentarla con un contributo di pensiero critico relativo ad un caso emblematico e complesso, quello della Cavallerizza Reale.

Già iniziammo a parlarne su questo sito insieme a tre autorevoli urbanisti, Riccardo Bedrone, Paolo Berdini e Paola Somma, lo scorso anno quando a Palazzo Civico siedeva ancora la Giunta PD guidata da Piero Fassino, ma il caso resta tutt'ora aperto come una ferita infetta e apparentemente insanabile, nonostante l'esplicita promessa di salvataggio contenuta nel programma elettorale dei 5S, laddove nel capitolo dedicato all'urbanistica recita testualmente: “Interruzione del processo di vendita della Cavallerizza Reale . Pianificazione del processo di riacquisizione dell'immobile al fine della trasformazione dello stesso, attraverso un processo partecipativo che coinvolga i cittadini, in polo culturale sotto il controllo pubblico”.

Il “processo di vendita” al quale si fa riferimento è quello avviato nel 2010 dalla Giunta Chiamparino e proseguito con zelo dalla Giunta Fassino, osteggiato dalla allora consigliera 5S Chiara Appendino; contrastare quel processo è divenuto uno dei cavalli di battaglia del Movimento, tanto da essere esplicitamente citato nel programma che li ha portati alla schiacciante vittoria nel giugno del 2016.

Il compendio della Cavallerizza Reale è la Zona di comando dell'immenso complesso che dalle Porte Palatine, cuore della città romana, si è sviluppato a partire dalla metà del Seicento attraverso piazza Castello fino all'edificio della Zecca in via Verdi, a pochi isolati da dove sorge la Mole Antonelliana e dal fiume Po. Esso costituisce nel suo insieme unitario e tuttora esistente la eccezionale testimonianza materiale della nascita dello Stato unitario italiano, realizzato per mano dei migliori architetti dell'epoca, tra i quali Amedeo di Castellamonte e Benedetto Alfieri. Il compendio comprende diversi corpi di fabbrica per un totale di circa 40.000 mq nei quali avevano trovato spazio l'Accademia militare, le Cavallerizze, le scuderie e la Regia Zecca.

Non a caso l'intero complesso risulta iscritto dal 1997 nella lista del Patrimonio Mondiale dell'UNESCO come insieme seriale delle Regge Sabaude. Destinato a funzioni di servizio prevalentemente improprie e svilenti col passaggio di proprietà dalla casa Savoia allo Stato italiano, è stato poi ripensato a fine anni Novanta per la rinascita postindustriale torinese in versione culturale, come emblema dell'apertura e dello status internazionale della città e come occasione di ricomposizione funzionale dell'intero Complesso, in parte già destinato a spazi museali, conservativi e istituzionali (Palazzo Reale, Galleria Sabauda, Prefettura, Archivio di Stato, Teatro Regio). L'unico intervento di recupero, coerente con questa logica, è stato la realizzazione della nuova Aula Magna dell'Università nel Maneggio Chiablese, confinante con la ex Regia Zecca, inaugurata nell'autunno 2014 su progetto di Agostino Magnaghi.

La concessione di questo edificio all'Università è stata deliberata prima che il Comune di Torino decidesse di rinunciare al progetto, partito nel 2003, di progressiva acquisizione di tutto il compendio dal Demanio (un primo blocco di circa 20.000 mq e uno successivo di analoghe dimensioni) per realizzarvi le attività istituzionali e culturali previste dalla legge e prima che, nel 2010, utilizzasse nella forma più discutibile e cruda il cosiddetto 'federalismo demaniale'.

A causa dei resti tossici della 'finanza creativa' tremontiana, cristallizzata nelle “Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico” (L. 410/2001) ed al non riconoscimento dell'inalienabilità del bene in quanto appartenente al patrimonio culturale NAZIONALE (L.42/2009, art.19) che lo avrebbe messo al riparo dalla possibilità di vendita, la Giunta Chiamparino ha potuto completare la cartolarizzazione della parte di sua proprietà del Compendio (compreso l'edificio della ex Zecca), ossia ne ha decretato la morte come bene comune e ne ha affidato la vendita sul mercato immobiliare ad una sua società, la Cartolarizzazioni Città di Torino (CCT).

Ciò ha aperto la strada alla successiva rinuncia della Giunta Fassino ad acquisire l'altra metà del Compendio ancora in capo al Demanio militare (all'incirca altri 20.000 mq.) che invece è stata comprata obtorto collo nel dicembre 2014 da un Fondo Speculativo di Cassa Depositi e Prestiti.

Se la società di cartolarizzazione CCT non è finora riuscita nell'intento di vendere la sua parte di Cavallerizza, come se si trattasse di un edificio qualunque, anche il destino della parte comprata da CDP, ibrida istituzione a cavallo tra pubblico e privato, è rimasto avvolto nella più totale incertezza. Tuttavia, il senso dell'operazione nel suo complesso lo si capisce nel quadro della sciagurata politica prima statale e poi locale di 'valorizzazione' intesa come privatizzazione del patrimonio storico-architettonico italiano. CDP infatti ha puntato sulla 'valorizzazione' dell'immobile, collocando il bene nel fondo immobiliare speculativo FIV. E' l'ultima tappa della strategia neo-liberista di estrazione del valore dai beni comuni storico-architettonici di un Paese le cui città, volenti o nolenti, si trovano a far cassa con i propri gioielli di famiglia, capitolazione che vediamo oggi in atto in Grecia.

Se, come purtroppo sembra stia accadendo, la Giunta Appendino, disattendendo i suoi impegni elettorali, non tratta con CDP la retrocessione di quei 20.000 mq alla proprietà pubblica (per un valore pari a circa 12 milioni di €) la CDP, stanca di attendere un segnale concreto e credibile di un progetto culturale unitario e con esso di recupero del capitale investito, andrà senz'altro avanti nel suo autonomo progetto di 'valorizzazione', e di sicuro otterrà dal Comune la delibera necessaria ad intervenire sulla parte di sua proprietà per realizzarvi un qualche tipo di struttura alberghiera che vanificherà per sempre la possibilità di una ricomposizione unitaria.

Altra conferma che è proprio vero, come scriveva Pagliassotti, che il dogma del pareggio di bilancio è quello che detta anche la politica dei 5S.

Ma se è così, per quale ragione è stato preso l'impegno di 'riacquisizione dell'immobile'? Alla allora consigliera Appendino non mancavano certo i dati sul debito della Città, essendo vicepresidente della Commissione Bilancio! Per non svelare la contraddizione, si sta invece tentando di 'spacciare' per 'progettazione partecipata' quello che altro non è se non un accordo sulle operazioni immobiliari di CDP presentate come coerenti con le destinazioni culturali della Cavallerizza. Ma i guai non finiscono qui.

Andiamo dunque a vedere quello che sta succedendo nell'altra metà del compendio, quella cartolarizzata, e nel Maneggio Reale, l'unica parte del bene che per un necessario maquillage del bilancio della CCT è stata de-cartolarizzata da Piero Fassino nel dicembre del 2015.

Se, per fortuna, la crisi del mercato immobiliare ha ostacolato la CCT nella ricerca di uno speculatore disposto ad accollarsi l'onere di un complesso intervento di recupero di tutto l'insieme (come prescritto dal P.U.R. del 1995), l'operazione di ulteriore spezzettamento del bene, tentata col Masterplan (di cui abbiamo scritto a giugno 2016) voluto dalla giunta Fassino, è finita troppo a ridosso delle elezioni comunali per tradursi in delibera e diventare operativa prima del voto. Anche per non alienarsi il consenso elettorale di quella non piccola parte della cittadinanza contraria alla vendita del bene, la Giunta ha ritenuto meglio aspettare la scontata rielezione e poi procedere nel programma: una volta spezzettato il compendio della Cavallerizza in 10 unità indipendenti (una delle quali corrispondente all' intera proprietà di CDP) sarebbe stato più facile trovare subito dei compratori, almeno per le parti più ghiotte, quali l'edificio della ex Zecca o il lungo corpo di fabbrica con lo splendido affaccio sui Giardini Reali o la corte che affaccia su via Verdi. Il riacquisto (de-cartolarizzazione), infine, del Maneggio Reale (da destinare necessariamente, a norma di legge, ad attività istituzionali e/o culturali) ha tentato di dimostrare all'opinione pubblica la sensibilità del PD per il tema della salvaguardia dell'uso pubblico della Cavallerizza. Peccato che si sia trattato di soli 1.000 mq su un totale di 40.000: non un gran risultato. Con tante belle mappe colorate Fassino ha cercato di narrare al cittadino inesperto la favola di uno spazio pubblico che sembrava sovrapponibile in toto alla superficie lorda calpestabile del compendio (anche se non lo era affatto, come il nostro citato dossier ha messo in evidenza).

L'equilibrismo pentastellato sembra ora andare sostanzialmente nella stessa direzione, con però l'immancabile tocco di retorica sulla 'democrazia dal basso' e una complice strizzatina d'occhio al gruppo di occupanti che da oltre tre anni, era il maggio 2014, si è insediato nel compendio per denunciare le mire speculative del Comune.

Da occupazione temporanea di denuncia ad occupazione perpetua per usucapione o, per dirla in versione contemporanea più cool, per uso civico, il passaggio è stato segnato dalla tolleranza sia di Piero Fassino (e del suo Assessore al Bilancio Gianguido Passoni, forse consapevole che il marketing urbano oggi è fatto anche di fenomeni squatt-culturali o pseudo-culturali) sia di Chiara Appendino: nessuno dei due ha mai richiesto lo sgombero per il rischio che corrono sia gli edifici storici fatiscenti sia le persone che vi abitano stabilmente o che li frequentano, nonostante due incendi già scoppiati e l'allarmato sopralluogo di un docente del Politecnico di Torino che ha chiesto serie verifiche (mai fatte) sull'agibilità delle uniche scale di accesso ai piani superiori, delle quali l'Assessore all'Urbanistica Guido Montanari ha “sconsigliato in via precauzionale l'uso” inventandosi una formula elusiva della responsabilità della Amministrazione pubblica dalla valenza giuridica opinabile.

Alcuni Consiglieri comunali 5S molto vicini agli occupanti hanno, a fine luglio 2017, presentato una mozione che, se approvata da Sindaca e Giunta, permetterebbe di riconoscere agli occupanti, al di fuori di ogni sensata e oggettiva valutazione pubblica delle qualifiche e competenze necessarie, il diritto esclusivo alla progettazione del futuro della Cavallerizza, oltre alla gestione delle attività e degli spazi occupati, in nome di una loro auto-proclamata rappresentanza della cittadinanza torinese.

Negli ultimi proclami degli occupanti, che si firmano Assemblea 14:45, non c'è più traccia di rivendicazioni per la restituzione dell'intero complesso (facente capo a CDP e CCT) alla Città, Regione o Stato come conditio sine qua non per abbandonare la lotta .

La partita ora si gioca sul piano molto più prosaico del chiedere (genericamente e sul lungo periodo) molto per ottenere subito (per sé) almeno un pezzettino (il Maneggio Reale e spazi annessi), mentre è chiaro che tutto il resto, in nome del “neo-liberismo mimetizzato” servirà (inutilmente) a tappare una piccola falla nella voragine del debito pubblico e a far felici alcuni developers, forse locali o forse cinesi o del Quatar.

Il tutto con buona pace dei Movimenti dal basso, della Sindaca né di destra né di sinistra e degli Assessori al Bilancio e all'Urbanistica, uno di destra e uno di sinistra per fare media e non scontentare nessuno (o scontentare tutti).

Per chi si domandasse quale alternativa si potrebbe contrapporre ad un simile esito, la risposta la può trovare nel dossier dettagliato allegato. In esso, accanto ad una più articolata presentazione del caso, abbiamo avanzato idee sul metodo da seguire, sugli esempi più istruttivi e convincenti a cui ispirarsi. Tutti aspetti ampiamente e pubblicamente illustrati ai suddetti Assessori ma apparentemente non raccolti e non recepiti neppure dalla stessa Sindaca. Ogni contributo di chi ci legge con esperienza politica, professionalità e perfino semplice buon senso sarà benvenuto.

La Cavallerizza Reale è un bene comune di rilevanza nazionale, europea e mondiale (UNESCO) e come tale va trattata. Come ha dichiarato Gustavo Zagrebelsky nel 2015 «Abbiamo un complesso monumentale straordinario che va dal Duomo all'Antico Macello: Palazzo Reale, Archivio di Stato, Teatro Regio, Zecca, Università, ex Accademia militare, scuderie….E' un complesso straordinario collocato in una linea strategica. Io mi chiedo se i nostri amministratori sappiano quali siano questi palazzi, uno collegato all'altro. Sarebbe davvero un obbrobrio pensare che lì in mezzo si facciano delle case di abitazione private».

Il triste destino dei centri storici lasciati all'abbandono, all'incuria e al menefreghismo. il manifesto, 22 agosto 2017 (p.d.)

La Calabria va a fuoco da mesi. Bruciano i suoi boschi, bruciano le pendici delle sue montagne precipiti sul mare, bruciano le valli e le pianure coltivate, brucia il terzo paesaggio delle desolate periferie urbane, brucia anche la maestosa Silva Silae dei romani senza che nessuno riesca a porvi rimedio. Sabato è andato a fuoco anche un palazzo, fra i più antichi e importanti, del martoriato centro storico di Cosenza. In questo caso, gravissimo, sono morte nel rogo violentissimo ben tre persone. Hanno perso la vita tre individui marginali che avevano occupato abusivamente una casa, proprio in quel centro storico diventato, ormai, l’estremo riparo degli ultimi. I diseredati, per un accidente del destino, sono diventati gli unici eredi della bimillenaria storia della città di Telesio.

Un centro storico che , fino a non molti anni or sono, era, pur con tutte le sue debolezze, uno dei più integri da un punto di vista urbanistico ed architettonico, quasi privo di superfetazioni ed interventi moderni perché era stato abbandonato dai cosentini che preferirono, soprattutto dal secondo dopoguerra, insediarsi in pianura. Negli ultimi anni, a causa di incuria ed assenza di ordinaria manutenzione da parte delle Amministrazioni comunali, questa città, fondata dai Bruttii nel IV sec. a.C. sul colle Pancrazio, ha iniziato a crollare, a smontare, a scivolare, pioggia dopo pioggia, verso valle. Per tutta risposta a questo degrado strutturale, ed abitativo, l’attuale Amministrazione ha deciso, per mezzo di ben due ordinanze, di abbattere alcuni palazzi antichi di Cosenza perché pericolanti.
La stessa Amministrazione che ha investito 14 milioni di euro per costruire un piccolo ed inutile parcheggio al centro della città nuova, 20 milioni (altri 40 o 50 serviranno per le infrastrutture) per costruire un ponte, disegnato da Calatrava, che collega il nulla con il nulla e che vorrebbe spenderne altri 7 per costruire un Museo in onore di Alarico, re dei Goti che, per caso, morì sulle sponde del Crati e del quale non abbiamo nessuna testimonianza archeologica. Una Amministrazione, guidata dal sindaco di Fi Occhiuto, che, invece di investire energie e progetti nello straordinario centro storico della città, lo considera solo come un gravoso ed inutile fardello del quale occuparsi, con fastidio, solo per mezzo di demolizioni preventive ed indiscriminate.

Dopo lo sgombero dei centri sociali dagli edifici ex militari bolognesi è il momento di riaprire una discussione seria sulla utilizzazione più ragionevole di questa ampia categoria di spazi pubblici inutilizzati. La Repubblica, ed. Bologna, 20 agosto 2017


LE discussioni accese che hanno seguito losgombero agostano di Làbas, non quelle corali di indignazione per l’azionepoliziesca, ma quelle dei giorni successivi sulla Staveco come possibiledestinazione del centro sociale, nella loro asprezza e inconciliabilità,portano a ragionare sulla strana sorte toccata a Bologna alle ex aree militari.Comparti preziosi per la vivibilità urbana, su cui da anni si discute e sispendono progetti ma continuano a restare dominio dei ratti.

Nel 2015 il Comune ha approvato un Poc (Pianooperativo comunale, l’ultimo stadio della pianificazione) che ha un titolosornione “Rigenerazione di patrimoni pubblici”. Un documento in cui siindividuano una serie di aree afferenti a proprietari pubblici: Agenzia delDemanio, Cassa Depositi e Prestiti Investimenti Sgr, Invimit Sgr, Ferroviedello Stato; c’è anche l’Università di Bologna ma lì sappiamo come,saggiamente, è andata a finire. La ritirata dell’Università, proprio dall’areaStaveco da cui siamo partiti, la dice lunga.
Un'idea dalle gambe corte, o addiritturamonche, sbocciata sul finire di due mandati, uno da rinnovare, l’altro daglorificare.
La questione però è seria, ci si ubriaca di parolema nulla mai cambia. Neppure i costruttori, che avrebbero tutto l’interesse afarlo, protestano. Il Poc prevede infatti una bella quantità di edifici a variadestinazione d’uso in tutte le aree identificate: ai Prati di Caprara larealizzazione di residenze (da 800 a 1200), centri direzionali e commerciali,parcheggi; al Ravone di residenze se ne prevedono tra 750 e 790; alla casermaSani 340 ma non mancano centri commerciali e direzionali; alla caserma Masini,quella occupata da Làbas, un albergo, una trentina di alloggi, attivitàcommerciali e ristorative.
Una previsione esorbitante, poco assennata con isupermercati che falliscono e il tanto residenziale invenduto (pensiamo anchesoltanto al mostro Trilogia Navile).
Ma tanto quella programmazione non ha piùvalore delle chiacchiere, nei fatti si procede per deroghe. Com’è successo peril campus nell’ex-Telecom, sgomberato per consentire un business tutto privato,in deroga al Poc che prevede invece uno studentato nell’area ferroviaria exOMA, retrostante Borgo Masini.
Rinunciando insomma a dirottare investimenti supatrimoni pubblici. Ma in quel tripudio di esuberante progettualità non mancanoscuole, housing sociale e parchi. Che meraviglia, hanno pensato a tutti!Macché, come nei più crudeli giochi dell’oca sempre si torna alla casellainiziale. Ogni volta tutto daccapo a discutere e infervorarsi per poi nondecidere nulla — come per l’annosa questione della cittadella della giustizia,sballottata tra Staveco e Stamoto come in un ping pong.
Ma vuoi che sia per favorire interessi privati oper una sorta di pulizia preludio della gentrificazione, le uniche decisioniprese sono quelle di sgombero. Avvenute, ohibò, all’insaputadell’amministrazione!
Dunque persino su operazioni di questo pesosociale le potestà politiche dell’amministrazione non si sono esercitate.Allarmante. E chi decide allora le sorti della città, tra annunci roboanti poidisattesi, bisticci e inerzie?
E i cittadini? Forse amareggiati per larepressione della creatività giovanile, preoccupati della qualità della vitaurbana e dell’inutile degrado di aree che potrebbero costituire dei regolatoriambientali essenziali, comunque incerti sul destino economico di una città cheha sposato il turismo come unica vocazione e non sa prendere decisioni di piùampio respiro, si chiedono quale sia il disegno che l’amministrazione ha inmente. L’urbanistica è sempre una buona lente con cui guardare la realtà, laconfusione e l’afasia attuali dicono molto intorno alla crisi delladecisionalità e al vuoto di idee di cui la politica soffre. Un problema nonsolo bolognese ma che qui si presenta paralizzante.

il manifesto 18 agosto 2017, con riferimenti (c.m.c.)





«Non credo che si possa far crescere il turismo in Sardegna senza alcun intervento nella fascia dei 300 metri dal mare». Mario Ferraro, amministratore delegato della Smeralda Holding (la società con cui il Qatar controlla il patrimonio immobiliare della Costa Smeralda) esce allo scoperto. Nel dibattito sulla legge urbanistica che la giunta presieduta da Francesco Pigliaru (Pd) sta per presentare al consiglio uno dei principali player della partita che ha come posta il futuro delle coste sarde interviene per dire che gli interventi di ampliamento degli alberghi nella fascia protetta dei 300 metri dalla battigia sono assolutamente necessari si si vuole «far crescere il turismo».

Un sostegno aperto alla giunta Pigliaru che Ferraro consegna a un’intervista al quotidiano l’Unione sarda. «Gran parte del futuro sviluppo turistico dell’isola dipenderà da quella legge», specifica l’uomo del Qatar. E come se non bastasse, Ferraro non esclude che, se resta l’articolo 43 della legge, quello che in presenza di «progetti di rilevante interesse economico e sociale» concede alla giunta la facoltà di far costruire nuovi alberghi anche nelle aree sinora non toccate dal cemento, la Smeralda Holding possa approfittarne. «In quel caso – dice – parleremmo con i comuni eventualmente interessati e con la Regione Sardegna per capire quale sviluppo vogliono promuovere, e faremmo le nostre valutazioni».

Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg le interviste di Edoardo Salzano a la Nuova Sardegna e al manifesto, e gli articoli di Costantino Cossu, di Antonietta Mazzette e di Sandro Roggio.

la Nuova Sardegna, 13 agosto 2017

Travolto da critiche autorevoli, il Ddl Erriu [assessore della giunta Pigliaru] perderà pezzi? Chissà se reggerà il famigerato art. 43, promotore dei “grandi progetti” a sportello; o se farà – com'è probabile – la brutta fine dell'articolo 6 della LR 23/93 sugli “accordi di programma” immaginati allora. Più difficile prevedere la sorte dell'art. 31. Perché c'è chi ci crede agli alberghi più 25%, che “in fondo non fa male” – ci spiegano: pure sommando deroghe a deroghe. E nonostante il PPR lo impedisca: senza alcun dubbio nella fascia di massima tutela (altrimenti a che servirebbe l'art.31?).

Trascuro di dire sulle discutibili scappatoie pensate dagli azzeccagarbugli per dare il via alle giostra delle eccezioni. Mi interrogo invece sul senso di questa proposta, sul clima politico nel quale è maturata (copyright Berlusconi&Cappellacci ), e sul rilancio da parte della coalizione a guida PD che ne aveva preso le distanze. Le temibili larghe intese contro visioni progredite, in Sardegna, guarda caso, contro il PPR.

In questo solco la deroga per gli alberghi, pure a due passi dal mare: nati al tempo della vacanza per pochi, zero tutele e quindi in posizioni di grande privilegio. Poi il turismo di massa e la coscienza di luogo, quindi l'obbligo di fare altri conti. Le conclusioni nel Codice dei Beni Culturali, da cui discende pure il sardo PPR inaspettatamente all'avanguardia. Troppo intransigente crede il governo Pigliaru, convinto di contenere il malumore degli imprenditori azzoppandolo. Per quanto le attese degli operatori del turismo siano altre ( più aerei, ad esempio); e sia forte l'impressione che il Ddl non piaccia ai sardi preoccupati di mettere a rischio le coste più belle del Mediterraneo. Ma non solo gli ambientalisti temono per la risorsa paesaggistica, come dimostrano le analisi intelligenti e coraggiose di Cgil e Cna a proposito del nodo lavoro - ambiente. Nello sfondo lo stupore che le disposizioni dell'art. 31 non siano supportate da uno studio che assicuri il lieto fine: alberghi più grandi = stagione più lunga o che spieghi almeno com'è che albergoni superdotati aprano solo tre mesi all'anno.

I più informati attribuiscono ai litorali sardi un valore pari a quello delle città d'arte e non sbagliano, basta guardare l'attenzione verso gli habitat più intatti dell'isola. Ecco, tra i beni paesaggistici del Paese ci sono la fasce costiere sarde: non solo perché lo dice la dura lex (già le due leggi Bottai del 1939 riguardavano “bellezze naturali” e “cose d'arte”). La Sardegna è nel cuore di tanti continentali che verrebbero ritrovare integri i suoi paesaggi in ogni dettaglio, come dimostra l'interesse della stampa nazionale. Quindi c'è qualcosa che non torna se temerariamente si consentono protuberanze di un albergo nelle rive sarde.

Nessuno ammetterebbe che per fare crescere il turismo a Venezia, Firenze, Roma si possano elevare di mezzo piano i palazzi adibiti ad alberghi nel Canal Grande, in via dei Calzaiuoli, in Campo dei Fiori. Vale in questi casi la consapevolezza che il vincolo paesaggistico e monumentale prevale sull'interesse economico. E non solo perché lo ripete da un po' la Consulta. Ma in quanto il danno sarebbe insostenibile: assurdo che per migliorare gli standard ricettivi si possa modificare il profilo di una strada nei libri di storia. E allora si tratta di spiegare perché gli alberghi negli scenari sardi più tutelati, possano crescere in altezza o allargarsi di lato, modificando la percezione di uno scorcio, straziando una duna, minando rocce o eliminando vegetazione; e quindi alterando un assetto consolidato. Nessuno stop all'impresa, però. Nei luoghi sottoposti a vincolo l'accoglienza si può migliorare riqualificando l' esistente, con le integrazioni per assicurare standard di sicurezza e delle dotazioni impiantistiche. E la ricettività si può incrementare nelle aree urbane trasformabili, secondo il modello indicato dal PPR.

A queste conclusioni sono arrivati da tanto gli economisti più accorti e impegnati a mettere a punto formule per rafforzare le ”motivazioni economiche per un uso conservativo della risorsa”. Tra gli studiosi più determinati, occorre riconoscerlo, il prof. Francesco Pigliaru che già alla fine degli anni Novanta (UniCa- Crenos) scriveva a proposito del paesaggio richiamo di turisti. Esauribile ci avvisava, ricordandoci che “... ogni investimento effettuato per aumentare il grado di sfruttamento turistico della risorsa (strutture ricettive, per esempio), ne determina un 'consumo' irreversibile, e di conseguenza la qualità ambientale, l’attrattività del suo scenario naturale diminuisce". Ero e sono d'accordo con lui e non con il presidente Pigliaru.

». il manifesto, 11 agosto 2017 (c.m.c.)

Lunedì scorso l’incontro con il presidente della giunta regionale Francesco Pigliaru: Renato Soru e il capo dell’esecutivo sardo faccia a faccia. Tema del confronto la legge urbanistica regionale. Pochi giorni fa, in un’intervista al manifesto, Soru non ha usato mezzi termini: se il testo presentato dall’assessore all’Urbanistica Cristiano Erriu resta così com’è, la cosa giusta da fare, quando i diversi articoli arriveranno in consiglio per l’approvazione, è votare no.

All’indomani dell’incontro di lunedì erano circolate voci di un possibile ammorbidimento della posizione di Soru. Ma così non è. Ieri, raggiunto al telefono, Soru ci ha confermato le cose già dette nell’intervista. In particolare l’ex presidente della giunta che a suo tempo fece approvare il Piano paesaggistico regionale (Ppr) resta fermo sull’articolo 43 del progetto di legge della giunta, che prevede deroghe al Ppr nel caso uno o più imprenditori privati presentino piani di costruzione di nuovi alberghi su tratti di costa ancora vergini di “particolare interesse economico e sociale”.

Dopo che Soru aveva prospettato un possibile voto contrario sull’articolo 43, la giunta aveva risposto avanzando la proposta di togliere all’esecutivo la facoltà di disporre le deroghe al Ppr per assegnarla al consiglio. «Lo dico – scandisce ora Soru – in maniera ancora più chiara: l’articolo 43 è irricevibile. Nessuna deroga al Piano paesaggistico è accettabile. Ciò che si deve fare è cancellare quell’articolo. E non può certo farmi cambiare idea il fatto che a decidere sulle deroghe sia il consiglio».

Ma soprattutto una cosa Soru tiene a dire: «Ciò a cui dovrebbe servire una buona legge urbanistica è fare in modo che i comuni sardi approvino i loro piani urbanistici. Il Ppr a questo serviva e serve. È stato concepito infatti come una legge di indirizzo generale che indica i criteri in base ai quali le amministrazioni comunali devono approntare i loro strumenti di pianificazione urbanistica. Di questo si deve ragionare. E non di deroghe sulle zone costiere dove ancora non si è costruito. Servono regole per facilitare l’approvazione dei piani urbanistici comunali. Da questo punto di vista la proposta della giunta non solo non aiuta i comuni, ma anzi rende più complicato il quadro normativo, con una Regione centralista che vuole entrare nei dettagli della programmazione locale. Per non parlare poi di una tabella, la A4, inserita nella proposta di legge, che calcola i posti letto insediabili per ogni metro di costa in base agli stessi criteri che, prima del Ppr, hanno portato a costruite in passato oltre 300 mila seconde case, oggi disabitate per nove mesi all’anno».

Altro punto di contrasto è quello dell’aumento delle volumetrie che, con l’articolo 31, la proposta di legge della giunta concede agli alberghi già esistenti. «Dentro la fascia dei trecento metri dal mare – dice Soru – i metri cubi in più è meglio evitarli. Così dispone il Ppr. Se esiste un problema di adeguamento delle strutture a una domanda turistica mutata, si provveda, ma fuori dai trecento metri tutelati».

Sul fronte ambientalista, dopo gli stop alla giunta arrivati da Legambiente e da Italia nostra, ora si fa sentire il Wwf, che chiede al governo di impugnare un’altra legge voluta dall’esecutivo regionale, quella sul turismo, che autorizza un aumento delle volumetrie dei campeggi attraverso la costruzione di casette di legno. «Se il governo Gentiloni non dovesse intervenire – dice il Wwf – in presenza di singoli provvedimenti concessori li impugneremo presso il Tribunale amministrativo regionale».

la Nuova Sardegna, 9 agosto 2017, con postilla, si spera, chiarificatrice

Se Renato Soru è il padre politico e filosofico del Piano paesaggistico, Edoardo Salzano ne è il massimo architetto teorico. L’urbanista è stato a capo del pool che ha creato il Ppr. E interviene in modo deciso sul dibattito legato alla nuova legge urbanistica e sugli aspetti controversi di alcuni articoli del nuovo testo. Lo fa con decisione e nettezza.

Le piace la legge urbanistica varata dalla giunta?
«No. Non mi piacciono alcuni aspetti. Per prima cosa l’articolo 43 (quello che consente alle norme del Ppr). È una aperta violazione. Una inammissibile deroga. Il nocciolo della questione è che con questo articolo si apre la strada al prevalere degli interessi immobiliari su quelli della tutela dell’ambiente. Che poi a decidere sia la giunta o il consiglio è un aspetto del tutto irrilevante. La tutela della fascia costiera deve restare una priorità».

Cosa si deve fare secondo lei?
«Semplice, l’articolo 43 andrebbe cancellato completamente. È in contraddizione con il Ppr. Il Piano deve essere conservato. È il risultato di un lungo lavoro ed è un modello che viene studiato e apprezzato in tutto il mondo».

Sì, ma una legge urbanistica serve alla Sardegna
«Certo. Una legge urbanistica serve, bisogna vedere come è fatta. La legge non è una coperta che va bene qualunque sia il suo tessuto. Se si violano le regole più importanti, la legge va cancellata. Ho letto di tutto nelle proposte di legge che ha avuto la Sardegna. Non è mai stata fortunata. Qualcuno ha parlato di vocazione edificatoria dei suoli. Una cosa inconcepibile.
«Al di là di tutto si deve avere un principio netto. Nessuna deroga per interessi immobiliari. La difesa delle coste della Sardegna deve restare al primo posto».

Ma lei aveva previsto nel Ppr la possibilità delle “intese”
«Le intese non potevano derogare alle regole del Ppr e in ogni caso erano uno strumento transitorio. Servivano per attuare le norme del Ppr e cessavano appena avvenuta l’approvazione del Puc, che doveva avvenire entro 18 mesi».

Lei punterebbe ancora sul Ppr?
«Di sicuro non si deve modificare. Andrebbe completato ed esteso a tutto il territorio sardo».

Ma il resto della nuova legge urbanistica le piace?
«C’è un altro aspetto che contesto. È la possibilità di incrementare del 25% gli hotel nella fascia dei 300 metri».

Ma gli alberghi devono avere servizi moderni se si vuole fare turismo
«Certo, ma mi spieghi dove è scritto che per rimodernare si deve aumentare la volumetria. Con la stessa cubatura si può migliorare la struttura. Non si può derogare al Ppr in questo modo.

Soru aveva una sua filosofia, aveva cominciato con la costituzione di un patrimonio dei beni immobiliari regionali per trovare un uso corretto.
«La logica del piano era decongestionare le coste per ridare fiato alle zone interne. Nei paesi dell’interno c’è un patrimonio immobiliare in abbandono che va restituito alla vita. Spalancare gli occhi sull’interno della Sardegna è un’impresa intelligente. Il Ppr non ha mai bloccato lo sviluppo economico. Si deve invece diffidare da chi si affida in modo sistematico alla rendita immobiliare».

Cosa pensa della norma che incrementa le Case mobili?
«Sono vietate. Perché i campeggi non possono diventare strutture permanenti.

postilla

La comunicazione dei nostri tempi ha un bisogno straordinario di protagonisti. Quando non li trova pronti li inventa. Questo e altri articoli sul piano paesaggistico della Sardegna hanno individuato Salzano come Padre, Autore, Protagonista del Ppr. E arbitro della sua attuazione. Non sono stato qualcosa del genere per nessuno dei piani cui ho collaborato. Sono contrario all'ideologia e alla prassi del "Piano d'Autore". Qualsiasi piano urbanistico o territoriale è una costruzione condannato alla rapida decadenza se è figlia di un solo autore. Così il Ppr sardo è figlio di un gruppo, a geometria variabile nelle varie fasi della sua costruzione, cui hanno partecipato moltissime persone: negli apparati tecnici e amministrativi, nei consulenti, nei tecnici, negli amministratori, nella stampa.

Nel caso specifico, se si vuole individuare la persona e il nucleo che hanno avuto la prima e più forte e costante funzione nell'avvio e nella costruzione del piano questa è indubbiamente costituita da Renato Soru, con il piccolo gruppo di persone (ricordo Giorgio Todde, Giulio Angioni, Helmar Shenk, Ignazio Camarda) che ebbero l'intelligenza e la fortuna di incontrare e interpretare una corrente positiva e creatrice della società civile (es.).

il manifesto, 11 agosto 2017 vedi postilla

Edoardo Salzano è uno dei maggiori urbanisti italiani. Classe 1930, ha messo le mani nella programmazione urbanistica di città come Roma, Napoli e Venezia.

Porta la sua firma anche il Piano paesaggistico regionale (Ppr) della Sardegna, nato nel 2006 quando a Cagliari era governatore Renato Soru. Uno strumento urbanistico di tutela della fascia costiera della Sardegna, chilometri di spiagge da sempre oggetto del desiderio della speculazione immobiliare e dell’edilizia di rapina. Il Ppr di Salzano è da alcune settimane al centro dell’attenzione. Tutto è nato dalla proposta di legge urbanistica presentata dalla giunta regionale presieduta da Francesco Pigliaru (Pd). Una proposta che non piace al fronte ambientalista e contro la quale si è schierato, in una recente intervista al manifesto, anche Renato Soru.

A Salzano la legge preparata dall’assessore all’urbanistica, Cristiano Erriu, non piace neanche un po’. E se su alcuni punti del testo proposto dalla giunta c’è un Soru che sembra disposto a discutere, Salzano ha una posizione più netta. Il padre del Ppr difende la sua creatura, in tutto il mondo indicata come un caso eccellente e riuscito, un caso di scuola, di tutela pubblica dei beni ambientali.

Cominciamo dall’articolo della legge urbanistica più contestato, il 43. Che ne pensa?
«L’articolo 43 prevede che se uno o più gruppi imprenditoriali privati presentano all’esecutivo regionale “progetti di particolare rilevanza economica e sociale”, la giunta può concedere licenza di costruire anche in deroga alle norme di tutela stabilite dal Ppr. Questo è inaccettabile. E lo è per un motivo molto semplice. L’obiettivo del Piano paesaggistico, la sua stessa ragione d’essere, è quella di privilegiare il valore paesaggistico delle coste rispetto agli interessi economici privati. La bellezza dei litorali della Sardegna viene considerata un valore primario rispetto a qualsiasi tipo di calcolo economico. L’articolo 43 dice esattamente il contrario: in presenza di un rilevante interesse economico si può stabilire che la tutela delle coste e della loro bellezza viene dopo. E può essere sacrificata».

La giunta Pigliaru ha annunciato che vuole correggere il 43 per togliere alla giunta la facoltà di concedere deroghe agli imprenditori per affidarla al consiglio regionale…
«Ma mi spiega che cosa cambierebbe? Anche se a decidere fosse il consiglio, non cambierebbe proprio nulla. Il punto è che di deroghe alla tutela assoluta delle aree vergini protette dal Ppr non ce ne devono proprio essere. Questo, almeno, se si resta fermi a quello che, l’ho già detto, è il fondamento stesso del Ppr: prima la tutela delle coste, prima la loro bellezza. La bellezza è un bene comune da mettere al riparo dalla logica del profitto economico».

E poi c’è l’articolo 31, quello che consente aumenti di cubatura per gli alberghi già esistenti, anche entro la fascia protetta dei trecento metri dal mare. Il suo parere?
«Sento che si discute di scendere da un tetto massimo del 25 per cento di ampliamento a misure più basse. Sono trucchetti. L’articolo 31 va respinto per lo stesso motivo per cui va respinto il 43: il principio resta che la tutela delle coste è un interesse pubblico preminente rispetto all’interesse economico privato».

Ma si dice che gli aumenti di cubatura servono ad adeguare gli alberghi a una domanda turistica mutata e più esigente…
«Chiacchiere. Mi dice, per cortesia, dove sta scritto che per rimodernare un albergo e adeguarlo alla domanda dei clienti si deve aumentare la cubatura? Le strutture possono benissimo essere migliorate anche senza crescere di un solo metro cubo⋄.

E della legge sul turismo presentata dalla giunta sarda insieme con quella urbanistica, che ne pensa?
«Che cosa vuole che pensi di una legge che consente di costruire casette di legno collegate alle fogne e alla rete idrica anche sulla riva del mare, in aree di grande pregio ambientale, con l’obiettivo di aumentare la capienza dei campeggi? Penso che si voglia dar vita a villaggi turistici mascherati da campeggi. Un’altra violazione del Ppr. I campeggi sono campeggi, non possono diventare strutture permanenti».

Il sovrintendente ai beni culturali di Cagliari, Fausto Martino, ha chiesto al governo di impugnare di fronte alla Consulta le norme con le quali la giunta Pigliaru ha di fatto privatizzato gli usi civici.

«La Corte costituzionale aveva già respinto una volta quelle norme, con argomentazioni ineccepibili. I terreni sottoposti a usi civici sono beni inalienabili al patrimonio pubblico. Dopo la sentenza della Consulta, le stesse norme sono ricomparse nel testo della legge urbanistica, e a quel punto Martino ha sollecitato l’intervento del governo. Mi auguro vivamente, anche se ci credo poco, che Gentiloni e il ministro ai beni culturali Franceschini accolgano la richiesta del soprintendente».

rinvio alla postilla precedente sul medesimo argomento

«Un tunnel di vetro e acciaio inutilizzabile nella parte coperta. Comune e parlamentari locali aspettano dal Governo una deroga per consentire l'apertura di attività permanenti. Come a Firenze e Venezia». la Repubblica online 9 agosto 2017 (p.s.)

Un'astronave atterrata su un torrente spesso in secca alle spalle della stazione ferroviaria. Un tunnel di vetro e acciaio costato 25 milioni di euro di soldi pubblici. Si chiamerebbe ponte Europa, poiché legato all'insediamento della vicina Efsa (Agenzia europea per la sicurezza alimentare) ma nella controversa storia recente delle opere pubbliche di Parma è più noto come ponte Nord. Progettato nel 2010 da Vittorio Guasti, architetto, ex senatore di Forza Italia ed ex capogruppo di maggioranza in Consiglio comunale negli anni in cui in città appalti e finanziamenti del governo Berlusconi (potente ministro il parmigiano Pietro Lunardi) abbondavano, è tuttora un'opera in cerca di destinazione. Lungo 180 metri, largo 33 e alto 15, tre piani, quattro corsie e pista ciclopedonale, è stato pensato come ponte abitabile per spazi espositivi e commerciali ma l'abilitazione non è mai arrivata perché la legge Galasso vieta costruzioni con usi permanenti sull’alveo dei fiumi.

ll progetto originario, che prevedeva anche una torre con uffici poi stralciata, prospettava un centro di documentazione, formazione e informazione sull'alimentare e i prodotti tipici. Poi si è parlato di museo del design e di un centro di aggregazione della cultura giovanile; ipotesi tramontate come gli spazi per start up giovanili e le attività legate all'università. D'altra parte, aprendo negozi o attività fisse si produrebbe un abuso edilizio. Occorre prima una deroga del Governo per consentire un utilizzo stabile di interesse pubblico all’interno dell'infrastruttura. A nulla è servito finora il pressing dei parlamentari locali sul Governo. L'ultima bocciatura è stata l'esclusione dell'opera dallo Sblocca Italia: insormontabile il rischio idrogeologico secondo la commissione Ambiente della Camera. Impossibile rimuovere il vincolo, si creerebbe un precedente pericoloso sul fronte della sicurezza; oltretutto a pochi anni dall'alluvione che a Parma ha sommerso un intero quartiere.
I deputati del Pd puntano a "consentirne l'utilizzo stabile attraverso l'insediamento di attività di interesse collettivo sia su scala urbana che extraurbana, anche in deroga alla pianificazione vigente" per "trovare una soluzione e non lasciare la struttura coperta inutilizzata e abbandonata al suo destino, dopo averla costruita". Nel 2012, appena eletto, il sindaco Federico Pizzarotti, all'epoca grillino, aveva evitato manifestazioni ufficiali per il taglio del nastro; prima dell'apertura al traffico una breve cerimonia con la benedizione del parroco don Luigi Valentini e un classico della canzone dialettale "Parma Voladora" intonata sul ponte. L'assessore ai Lavori publici Michele Alinovi, confermato nell'incarico, allora come oggi si concentra sulle possibili funzoni e "usi ammissibili per concludere questa triste avventura".
A distanza di cinque anni la situazione è pressoché la stessa nonostante la buona volontà dell'Amministrazione comunale che ha speso altri soldi per rendere la galleria fruibile almeno in via temporanea. Gli spazi, ad esempio, debbono essere ogni volta raffreddati o rinfrescati a seconda della stagione. Nel frattempo sono stati organizzati un paio di eventi a scopo benefico, l'ultimo un concerto con apericena a pochi giorni dal voto e prima una serata con ospiti, tra gli altri, Giorgia Palmas e Vittorio Brumotti. "E' un’opera finanziata con fondi pubblici e non si può lasciare andare in rovina" ripete Alinovi. Il destino del tunnel-vetrina dipende, dunque, dal Governo che dovrà decidere se concedere una variante urbanistica per permettere di utilizzare il ponte anche al suo interno. "La speranza c'è, è una questione politica", dice Alinovi.
Se mai la deroga dovesse arrivare il ponte Nord diventerebbe il terzo abitato d'Italia accanto ai secolari ponte Vecchio di Firenze e di Rialto a Venezia. Per ora, come scritto da un cittadino il giorno dell'inaugurazione, è quello dei sospiri.
Riflessioni sul quadro politico e culturale nel quale si pone l'episodio degli sgomberi forzosi di due centri di vita sociale. La lezione è chiara: rigenerazione urbana significa arrendersi al mercato e alle sue logiche oppure essere picchiati dalla polizia. Una corrispondenza per eddyburg, 8 agosto 2017

Questa mattina il capoluogo emiliano si è svegliato a suon di sgomberi ai danni di due esperienze sociali: Làbas e Laboratorio Crash. L’operazione di oggi è il tentativo di snaturare e cancellare un effervescente laboratorio politico.

Un risveglio triste quello bolognese. Làbas e Laboratorio Crash, due spazi sociali, sono stati sgomberati nella desolata mattinata dell’8 agosto. Già nella serata di lunedì le prime voci su un presunto sgombero ai danni di Làbas, esperienza sociale al suo quinto anno di età, che al suo interno racchiudeva esperimenti di mutuo lavoro, un dormitorio con 12 posti letto, il mercato contadino del mercoledì, un luogo di socialità trasversale nel cuore della città. I sigilli hanno messo fine anche al Laboratorio Crash, esperienza diversa ma con una storia lunga 17 anni, figlia del g8 di Genova, laboratorio politico e location di eventi di ogni genere, un luogo attivo nella lotta del diritto all’abitare. Un altro pezzo di Bologna che se ne va, quella Bologna, di cui oggi è stata cancellata grossa parte della memoria collettiva, fatta di resistenze, di esperimenti politici e iniziative dal basso.

Cosa ne rimane? Una riflessione sulla direzione che questa città ha preso è d’obbligo. Nell’ultimo anno il segnale è stato ancora più forte: non c’è più spazio per l’autorganizzazione. Lo dimostrano gli sgomberi fatti negli ultimi due anni, alcuni senza nessun tentativo di trattativa; i più recenti “BancaRotta” del collettivo LuBo e la Consultoria TransFemministaQueer, murata solo dopo 4 giorni. Via DeMaria, la biblioteca di scienze umanistiche in via Zamboni 36, Via Gandusio, Arci Guernelli e, prima ancora, Atlantide, ExTelecom e la lista potrebbe essere lunga, come dimostra l’inchiesta di Zic. “Chiedi (ancora) alla polvere”. Tutti spazi occupati, abitativi o sociali, che sono stati tolti all’incuria, la cui fine è stata decretata con la costruzione di muri, per poi essere nuovamente abbandonati o svenduti a privati.

Emblematico è il caso di Làbas, nato dalle ceneri di un’ex caserma di proprietà prima del Demanio, poi di cassa Depositi e prestiti. Dal 2010 lo stabile è stato messo più volte in vendita, fino a essere acquistato nel 2014 da Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), insieme ad altre ex caserme militari e immobili per una somma di 50 milioni di euro, di cui 7,5 milioni nelle casse del comune. La riqualificazione dello stabile è stata inserita tra gli interventi previsti dal POC (piano operativo comunale), tramite un accordo tra comune e Cdp che prevedevano “la costruzione di un albergo, una trentina di alloggi, attività commerciali e ristorative” (come si legge nel sito aggiornato al 2016). La stessa amministrazione, guidata dal sindaco Merola, si era, poi, espressa positivamente su Làbas, mentre Cassa Depositi e Prestiti si era detta favorevole a un incontro con il collettivo, nonostante l’emissione di un decreto di sequestro da parte della Procura nel dicembre del 2015. D’altra parte l’appoggio del quartiere è stato tale per cui il centro sociale è diventato, negli anni, una vera e propria piazza di socialità e ha dato vita a un Comitato per la difesa e la valorizzazione dell’ex caserma, sede in epoca fascista della XXIII Brigata Nera “Eugenio Facchini” e luogo di tortura di partigiani, ma completamento abbandonato per 15 fino all’occupazione del 2012.

In una giornata di mezza estate due esperienze sono state cancellate. Dietro l’egida della legalità si giustificano sgomberi in cui i manganelli fanno da protagonisti, ultimo quello di Labas, ma non il solo. A Bologna la rotta è cambiata, non c’è più spazio nonostante gli innumerevoli edifici abbandonati o in costruzione da decenni, un esempio è la discussa Trilogia Navile.

Una città per chi? Viene da chiedersi. La strada intrapresa è quella della rigenerazione urbana, etichetta dietro cui si celano tutta una serie di meccanismi che sembrano riversarsi in un processo di vetrinizzazione della città. È questo che fanno presumere le recenti campagne di marketing urbano, i progetti di riqualificazione previsti nel quartiere popolare della Bolognina o in altre aree periferiche, o il progetto di riqualificazione della controversa piazza Verdi. Alla retorica neoliberista che rappresenta la città come uno spazio per le grandi cattedrali del consumo (si veda il progetto FICO), si affianca quella sulla sicurezza delle città che vede gli spazi occupati come luoghi del degrado, che trova la sua summa nel decreto Minniti sul decoro urbano. Se infatti, da una parte ci si dota di strumenti quali regolamenti sui beni comuni o patti di collaborazione, dall’altra, si emettono ordinanze, privatizzano servizi, si dota la città di tutto un arredo fatto di videosorveglianza e militari per fronteggiare la narrazione sulla questione sicurezza e degrado.

Ritorna vivido alla mente il murale di Blu, #OccupyMorodor, che rappresentava la battaglia tra forze opposte che in questi giorni si sta consumando nelle strade bolognesi. Il murale, dipinto sulle pareti di Xm24, altro centro sociale sotto sgombero e ultimo baluardo di quella Bologna che si vuole neutralizzare, è stato cancellato un anno fa dal suo stesso autore e da attivist* di Xm e Crash come gesto radicale contro la privatizzazione della street art bolognese a opera della Fondazione Genius Bononiae. Così come le pennellate grigie non hanno eliminato del tutto la memoria dell’opera, i muri non cancelleranno un’altra idea di città.

Quella che si combatte è una lotta per il diritto alla città, che nessuno sgombero può fermare. Riprendendo le parole di D. Harvey: “La domanda riguardo a che tipo di città vogliamo non può essere separata dalla domanda circa che genere di persone vogliamo essere, quali tipi di relazioni sociali ricerchiamo...” (Rebels cities, p.22)

«Manganellate contro gli attivisti del Làbas, apprezzato anche dalla sinistra istituzionale. Proteste dall’Arci alla Cgil». E una domanda al sindaco: chi comanda a Bologna? la Repubblica, 9 agosto 2017, con postilla

BOLOGNA. Uno sgombero in vecchio stile, manganelli all’alba, ha chiuso le porte del centro sociale più amato di Bologna, il Làbas, e aperto la strada a un fiume di polemiche nella città un tempo laboratorio delle più svariate esperienze sociali. Un corposo gruppo di ragazzi, molti dei quali studenti, che da anni si era impegnato a creare una piccola cittadella vivace e solidale — mercatini, corsi, aiuto ai più deboli, musica e impegno sociale — dopo molti ultimatum ha dovuto alzare le braccia e abbandonare l’ex caserma di proprietà della Cassa depositi e prestiti. Azione ordinata dalla procura, eseguita dalla polizia e osservata a distanza dal Comune. «Non potevo interferire — ha detto il sindaco Merola — nel rispetto dei ruoli istituzionali. Ma cercherò una soluzione per quelli di Làbas».

Quelli del Làbas, in verità, la soluzione l’attendevano da tempo, forti di alcuni sponsor che ne avevano elogiato l’impegno e la capacità di coinvolgere il vicinato, oltreché di offrigli momenti di svago. Il mercatino del mercoledì (sì, proprio oggi) era di gran lunga l’appuntamento più frequentato dai bolognesi, anche di rango, in un tripudio di frutta e verdura obbligatoriamente bio e a km zero. Ma alla socialità il Làbas aveva sempre saputo aggiungere un impegno non di facciata, e uno stile di lotta anche politica che si era sempre tenuto ben a distanza dalla violenza.
«Una ferita gravissima per la città, per le persone del quartiere, per il percorso di quei ragazzi», ha subito dettato alle agenzie Amelia Frascaroli, consigliera di stretta osservanza prodiana ed ex assessore ai servizi sociali. «Il fallimento della politica», ha invece commentato lapidariamente Andrea Colombo, consigliere Pd e a sua volta ex assessore al traffico. Ma dalla Cgil all’Arci, passando per la Fiom e l’Arcigay, nessuno ha fatto mancare il proprio sostegno a Làbas. Che forse avrebbe avuto bisogno di tutto quel consenso nei mesi precedenti all’annunciatissimo sgombero. «Decisione improvvida e miope, su quell’esperienza bisognava lavorare per farla crescere e integrarla alla città», è stato il commento del filosofo Stefano Bonaga, da sempre vicino a quelli del collettivo. «Certamente la legalità andava ristabilita — ha osservato il politologo Piero Ignazi — ma non in modo così cruento, è mancata la governance ».

Il Pd, fisiologicamente, si è diviso. La destra ha esultato. Il sindacato di polizia ha denunciato 5 agenti lievemente feriti negli scontri durante lo sgombero. Quelli della Cassa depositi e prestiti hanno detto che ora vedranno che fare della ex caserma di via Orfeo. E il collettivo Làbas, in una caotica conferenza stampa all’ombra della statua del Nettuno, ha dato un mese di tempo al sindaco per trovare una soluzione alternativa. Soluzione alla quale pareva si lavorasse da tempo, ma che non è mai saltata fuori. Allargando così la distanza tra la sinistra diffusa e il governo della città, rieletto da un anno non a furor di popolo. Facile prevedere che lo sgombero di un torrido agosto apra la via a un autunno caldo.

postilla

Il sindaco ha dichiarato che non poteva interferire con la polizia, e ha ragione. Ma con la Cassa depositi e prestiti, e con la decisione di quest'ultimadi destinare la ex caserma a una destinazione diversa da quelle di fatto definta dalla utilizzazione in atto?.Perché a Bologna non è il potere elettivo a decidere sull'utilizzazione degli spazi della città? La legge stabilisce che le trasformazioni degli spazi della città vengano stabilite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, potestà degli organi elettivi, non dalla Cassa depositi e prestiti. Magari a Bologna vale già la nuova legge urbanistica regionale che legittima l'abusivismo urbanistico, ma non è ancora in vigore...

al di là degli slogan inganna-citrulli - della dirigenza politica sarda, in materia di territorio, immobiliarismo e turismo. Sardegna Soprattutto online, 7 agosto 2017

Il 28 luglio scorso è stata approvata la L.R. n. 16 “Norme in materia di turismo” mentre, da alcuni mesi è all’attenzione pubblica la proposta “Disciplina generale per il governo del territorio”, meglio nota come Legge Urbanistica Regionale. Se sulla prima le opinioni critiche tutto sommato sono state assai contenute, sulla seconda si è sviluppato un denso dibattito critico, sollevato da autorevoli intellettuali. Viceversa, i sostenitori entusiasti dell’una e dell’altra norma sono non casualmente gli stessi. Infatti, se facciamo una lettura comparata della legge sul turismo e della legge urbanistica, appare chiaro quale sia l’orientamento complessivo del governo regionale.

Alla base del mio percorso riflessivo vi sono tre quesiti. Qual è la filosofia di fondo insita in queste norme. Quale idea di sviluppo e di turismo vengono esplicitate. Chi sono i principali interlocutori a cui la Giunta regionale rivolge dette norme e proposte.

Tralasciamo le Finalità e i Principi dichiarati, nei quali la parola “sostenibilità” ricorre in modo fastidiosamente retorico, parola che viene immediatamente disattesa negli articoli successivi. Infatti, se la filosofia che guida entrambe le norme fosse stata realmente quella della sostenibilità, sarebbero state sufficienti poche righe iniziali del tipo “La Regione Sardegna si impegna a non consumare altro territorio per i prossimi cinquant’anni e si impegna, altresì, a orientare ogni intervento verso il riuso e il recupero del patrimonio esistente”. Stop al consumo del suolo, dunque, e non un generico “minimizzazione del consumo del suolo” richiamato qualche volta nel testo della proposta di legge urbanistica, assente del tutto, invece, nel testo approvato sul turismo.

Eppure, di ragioni per sostenere lo stop al consumo del suolo ce ne sarebbero tante. In primis, perché la Sardegna è tra le regioni che, sia in termini assoluti sia in rapporto alla popolazione, si colloca stabilmente ai primi posti per il consumo del suolo, in modo particolare a ridosso delle aree urbane e lungo le coste. In secondo luogo, perché a fronte di una popolazione che invecchia e non subisce ricambi (è di questi giorni l’ennesimo allarme che in Sardegna il rapporto vecchi/giovani è di 6 a 1), c’è un eccesso di edifici di cui già oggi le generazioni più giovani non sanno come mantenere, vuoi per il loro reddito che è mediamente più basso di quello dei loro genitori, vuoi perché si tratta di persone con lavori precari nel migliore dei casi, quando non disoccupati, vuoi perché i nostri giovani stanno letteralmente scappando dall’Isola in cerca di un vero lavoro. Pertanto, è facile prevedere che questo sterminato patrimonio edilizio nel prossimo futuro sarà in balia del degrado e dell’abbandono, esattamente come è lo è già gran parte di quello disseminato nei nostri paesi sempre più spopolati.

C’è una coincidenza di intenti, ossia di incentivi, nella legge sul turismo e in quella urbanistica. Guarda caso, questi incentivi riguardano incrementi di volumetria (amovibili e non), come se i problemi di sviluppo della Sardegna, e non solo di quello turistico, avessero a che fare con la capacità ricettiva degli alberghi (e quant’altro), per lo più chiusi nove mesi all’anno, ad eccezione di quelli situati in aree urbane come Sassari e Cagliari, e non invece in tutti quei fattori che possono rendere un luogo attraente sia per i residenti che per i turisti. Mi riferisco principalmente alla cura di un luogo e dei suoi abitanti, alla possibilità di accedervi facilmente, alla professionalità che dovrebbe caratterizzare quanti intendono occuparsi di economia turistica e non solo. Sono questi gli ingredienti che fanno di un luogo un Buon Luogo, insieme alla capacità di produrre beni primari e secondari (ossia quelli derivanti dall’agricoltura, dalla pastorizia e dalle industrie, piccole e grandi).

Orbene, il testo sul turismo è stato approvato, ma l’idea di turismo che sottende è ancora quella di cinquant’anni fa. Siamo invece ancora in tempo ad archiviare il testo di legge urbanistica della Giunta regionale e che, a mio avviso, è inemendabile, proprio per la filosofia di fondo sui cui si poggia, in primis il principio di perequazione, i presunti diritti edificatori dei proprietari di suolo, l’impianto per così dire normativo a cui questa proposta è stata ispirata: il Piano Casa nelle sue varie edizioni.

Una breve considerazione, per concludere: l'assessore Erriu è recidivo. È l'autore della legge regionale sul riordino (si fa per dire) degli Enti Locali, mentre ora ha la paternità della proposta di legge urbanistica. Il primo testo è stato confezionato con tecnica legislativa irresponsabile, confidando nel fatto che il referendum del 4 dicembre scorso avrebbe eliminato la Provincia come ente di area vasta. Ne deriva un pasticcio inestricabile, in cui si sommano dannosa moltiplicazione di enti, confusione delle competenze e aggravi di spesa, che si coniugano con la mancanza di fondi per provvedere a funzioni essenziali. Nessuno sembra intenzionato a intervenire per rimediare al mal fatto.

Allo stesso modo, il contenuto della nuova normativa urbanistica proposta sembra costruito come primo (ma decisivo) passo per lo scardinamento del PPR. All'orizzonte non si profila alcun referendum, per cui è legittimo temere che il danno possa, questa volta, restare senza rimedio.

il manifesto, 6 agosto 2017, con postilla

Qualcosa si muove sul fronte che vede una parte del Partito democratico e tutto lo schieramento ambientalista in campo contro la legge urbanistica regionale presentata dalla giunta Pigliaru (Pd).

Ieri l’assessore competente Cristiano Erriu ha fatto sapere che l’esecutivo intende modificare l’articolo 43, quello più duramente contestato da Renato Soru nell’intervista apparsa venerdì sul manifesto. All’interno del Pd sardo Soru, che da presidente della giunta nel 2006 fece approvare le norme molto rigorose di tutela delle coste contenute nel Piano urbanistico regionale (Ppr), guida l’opposizione alla legge urbanistica presentata da Erriu. Al manifesto Soru ha detto che sull’articolo 43 è pronto a chiedere che in consiglio si voti no. La giunta, nel tentativo di aprire un dialogo almeno con una parte dei contrari, annuncia che l’articolo 43 sarà modificato mettendo in capo al consiglio regionale, e non più alla giunta, la facoltà di chiedere accordi in deroga al Ppr con imprenditori che presentino, dice la proposta di legge, «progetti di investimenti immobiliari di particolare interesse economico e sociale». Secondo Erriu ciò consentirebbe di eliminare il rischio di decisioni discrezionali legato al fatto che titolare del potere di firmare accordi con gli imprenditori sia la giunta. Difficile però che questo possa bastare agli oppositori. Il fronte ambientalista, più duro dell’opposizione interna al Pd, chiede infatti che l’articolo 43 sia cancellato, non modificato. E a Soru basterà che a decidere sia il consiglio?

Ma non c’è solo la legge urbanistica al centro delle polemiche. C’è anche quella sul turismo, approvata lo scorso 28 luglio, che ora diventa oggetto di una richiesta di ricorso per conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale presentata due giorni fa dal soprintendente all’archeologia, belle arti e paesaggio di Cagliari, Fausto Martino. Il dirigente segnala al governo, e in primo luogo al ministro Franceschini, la possibilità offerta ai campeggi e ai villaggi turistici dalla legge sul turismo di realizzare casette in legno anche in aree vincolate. Per Martino la legge «incentiva la formazione di agglomerati edilizi privi di qualsivoglia qualità in aperto contrasto con le norme tecniche di attuazione del Piano paesaggistico regionale». L’aumento di cubatura consentito arriva sino al 35 per cento di ciò che già esiste. Il rischio è che i campeggi possano trasformarsi in villaggi turistici mascherati.

Ma c’è di più: con il direttore generale del ministero del Beni culturali Caterina Bon Valsassina e con l’avvocato dello Stato Francesco Caput, Martino chiede che il governo ricorra anche contro un’altra legge della giunta Pigliaru, quella che sclassifica i cosiddetti «usi civici», aprendo la strada alla loro privatizzazione.

Gli usi civici sono diritti perpetui spettanti ai membri di una collettività, nella maggior parte dei casi un comune, su beni appartenenti al demanio o a un privato o allo stesso comune: acque, pascoli, boschi, terreni coltivabili. Sono di origine antichissima e si collegano a remoti istituti di proprietà collettiva sulla terra: in alcune regioni d’Italia (è il caso della Sardegna) risalgono all’età preromana e non sono stati cancellati dalla conquista romana; in altre regioni sono stati introdotti dai popoli germanici nell’alto medioevo. Privatizzare gli usi civici potrebbe aprire, nelle zone costiere, alla possibilità che i terreni interessati siano acquistati da imprenditori privati a fini speculativi. Sul ricorso di Martino contro la sclassificazione degli usi civici incombe però il rischio di scadenza dei termini: se la decisione di andare alla Consulta non sarà presa dal Consiglio dei ministri di domani (l’ultimo prima della pausa estiva), l’impugnazione non sarà più possibile per scadenza dei termini previsti dalle leggi: sessanta giorni dalla presentazione della richiesta di impugnativa.

postilla

L'articolo 43 proposto dal presidente Pigliaru prevede che la Giunta possa consentire la deroga alle tutele del piano salvacoste a «progetti di investimenti immobiliari di particolare interesse economico e sociale». La correzione pastrocchio sposterebbe questa facoltà di deroga dalla Giunta al Consiglio regionale. Più che un pastrocchio sarebbe una truffa. Il punto da tener fermo è che il piano salvacoste ha assunto come principio inderogabile che nella fascia litoranea (che è ben più ampia dei 300 metri della legge Galasso, la tutela paesaggistica prevalga su qualsiasi altro interesse, e soprattutto rispetto ai «progetti di investimenti immobiliari di particolare interesse economico e sociale».

il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2017

Come è noto, il nostro Parlamento sta procedendo da tempo, a colpi di fiducia, all’emanazione di leggi che tentano in ogni modo di favorire l’iniziativa economica privata, prescindendo dai limiti posti dall’art. 41 della Costituzione, il quale dichiara che l’“iniziativa economica privata è libera”, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Con l’approvazione della legge annuale per il mercato e la concorrenza (art. 1, commi 175 e 176), avvenuta in data 2 agosto 2017, il Parlamento, non solo conferma oggi di non tenere in alcuna considerazione il citato limite della “utilità sociale” favorendo l’utilità dei mercanti di opere d’arte, ma, abbassando i limiti della “tutela” e rendendo maggiormente esportabili all’estero i nostri beni culturali, viene a intaccare addirittura la struttura stessa della nostra Comunità nazionale (art. 1 Cost.), della quale il “patrimonio artistico e storico” è parte integrante (art. 9 Cost.). Infatti in tali commi si prevede, al pretestuoso fine di “semplificare le procedure relative al controllo della circolazione internazionale delle cose antiche che interessano il mercato dell’antiquariato”, una sostanziale modifica dell’art. 10 del vigente Codice dei beni culturali e del paesaggio (Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42), stabilendosi che l’età minima che una cosa mobile o immobile deve avere per essere dichiarata bene culturale passa dagli attuali cinquanta anni a settanta, con ciò violando anche il diritto europeo che fissa in genere un’età minima di cinquanta anni.

Ne consegue la perdita immediata e diretta di tutti i beni culturali realizzati fra il 1947 e il 1967, di proprietà pubblica o di persone giuridiche private senza fine di lucro, che il Codice dei beni culturali e del paesaggio ha finora tutelato in virtù del combinato disposto degli artt. 10 comma 1 e 12 comma 1, nonché l’impossibilità di proteggere in futuro tutti i beni realizzati nello stesso torno di anni. Una perdita grave e immotivata causata da una norma introdotta al solo scopo di favorire i mercanti d’arte che non dovranno più avere un’autorizzazione (l’attestato di libera circolazione) per trasferire all’estero beni con meno di settanta anni. Si prevede inoltre che potranno essere esportati senza autorizzazione anche tutti i beni culturali più antichi che abbiano un valore commerciale, “autocertificato” da chi richiede l’uscita, inferiore ai 13500 euro.

In sostanza si sostituisce al criterio dell’“interesse culturale”, quello dell’“interesse commerciale”, rimettendo, per giunta, tale valutazione non più a un organo tecnico dello Stato capace di tutelare l’interesse della Comunità nazionale, ma a un singolo esportatore, il cui interesse è esattamente l’opposto dell’interesse pubblico. E ciò in pieno dispregio del criterio della “ragionevolezza”, di cui all’art. 3 della Costituzione (secondo la lettura che ne dà la giurisprudenza costituzionale) e, ancora una volta, del diritto europeo che vieta di considerare “merce” i beni culturali. Come si vede, la legge annuale per il mercato e la concorrenza ammette, per la prima volta nella storia e nell’ordinamento del nostro Paese, il discutibile principio secondo cui vi sono beni culturali legittimamente perdibili, solo perché ritenuti di scarso “valore economico”.

Nessun significato ha inoltre il riferimento di detta legge al registro delle operazioni che i commercianti di cose antiche o usate sono obbligati a tenere, per fini di “sicurezza pubblica”, ai sensi del Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza (Regio Decreto 18 giugno 1931 n. 773), precisandosi che d’ora in poi esso dovrà avere “formato elettronico con caratteristiche tecniche tali da consentire la consultazione in tempo reale al soprintendente”. Tale registro, come rilevato in aula dalla Deputata Claudia Mannino, è stato infatti abrogato dal recente Decreto Legislativo 25 novembre 2016, n. 222 e, se anche fosse ripristinato in forma elettronica, servirebbe a ben poco, visto che non riguarda tutti i beni, ma solo quelli trattati dai mercanti d’arte, e non potrebbe in ogni caso contenere tutti i dati necessari al riconoscimento di una “cosa” come “bene culturale”, riconoscimento che, secondo i metodi di indagine artistica e storica, può avvenire solo con la visione diretta dei beni. (…)

Un vero e proprio scempio della Costituzione ai danni degli interessi del Popolo italiano, al quale vengono immotivatamente sottratti beni culturali di grande importanza e pregio, che avrebbero dovuto restare sul nostro territorio ad attirare quel mercato internazionale dell’arte che ora si incentiva a fiorire solo fuori dai nostri confini. (…)

E non si può passare sotto silenzio il fatto che questo affronto alla nostra Costituzione è stato reso possibile da un “emendamento” inserito al Senato su richiesta e pressione del Gruppo di interesse “Apollo 2”, che rappresenta case d’asta internazionali, associazioni di antiquari e galleristi di arte moderna e contemporanea e soggetti operanti nel settore della logistica dei beni culturali, come si legge in un trafiletto uscito su “Plus24” del Sole24ore, n. 667, del 13 giugno 2015.

Illustre Presidente della nostra Repubblica, siamo certi che Ella non vorrà firmare un provvedimento legislativo tanto costituzionalmente illegittimo, quanto dannoso per gli interessi fondamentali della nostra Comunità nazionale. E siamo certi che Ella non vorrà perdere questa occasione per far comprendere ai nostri politici che essi sono a servizio, non del mercato, ma della “Nazione”, come ricorda l’art. 67 della Costituzione.

*Gaetano Azzariti, Paolo Berdini, Lorenza Carlassare, Alberto Lucarelli, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari, Salvatore Settis

l Piano paesaggistico sardo approvato nel 2006, è oggi preso a modello in Italia e all’estero da chi pensa che tutelare il territorio sia fondamentale. Ora la giunta che governa la Sardegna propone una serie di norme che cancellerebbero quella riforma». il manifesto, 4 agosto 2017 (c.m.c.)

SARDEGNA,
«NELLA LEGGE URBANISTICA
C'È UNO SCEMPIO»

di Costantino Cossu


«A rischio quel 50% delle coste ancora intatte, l’ex governatore Renato Soru contro l’articolo 43 del piano della giunta Pigliaru: "Per quella parte dove non si è costruito la tutela garantita dal Ppr deve rimanere, le regole devono valere per tutti"»

C’è un articolo della legge urbanistica preparata dalla giunta sarda del presidente Pigliaru (Pd), al centro in queste settimane di molte polemiche, che a Renato Soru proprio non piace. L’uomo che guidava l’esecutivo quando nel 2006 fu approvato il Piano urbanistico regionale (Ppr) che ha messo al sicuro le coste della Sardegna dall’edilizia di rapina spara a zero contro l’articolo 43. Su tutto il resto è disponibile a trattare, ma su quella parte del testo darà battaglia.

Cos’ha l’articolo 43 che non va?
Non va perché dice che per “progetti di particolare rilevanza economica e sociale”, questa è la formula indicata nel testo, possono essere stipulati accordi di programma in deroga al Ppr. È inaccettabile. Significa che in base a un accordo del tutto discrezionale con la giunta regionale, questo o quell’altro imprenditore privato può non rispettare le regole del Piano urbanistico regionale. Quindi, ad esempio, costruire alberghi o villaggi turistici nelle zone costiere ancora libere da costruzioni. Su questo non è possibile alcuna mediazione.

Sarebbe di fatto uno svuotamento del Ppr?
Sì. E su questo punto davvero non è possibile accettare alcuna discussione. Vede, le destre hanno costruito una specie di leggenda secondo la quale il Ppr impedisce di costruire, dà un colpo mortale all’industria edilizia e danneggia il turismo. Non è così. Il piano fissa invece dei criteri generali di tutela nell’interesse collettivo. Nei decenni passati sulle coste sarde si è costruito molto e soprattutto male. Sono trecentomila le seconde case disseminate da nord a sud, da est a ovest. Il cinquanta per cento del suolo è stato consumato in questo modo: ville, villette e villaggi a schiera che per gran parte dell’anno restano disabitati. Resta un altro cinquanta per cento che invece è incontaminato. Per ciò che riguarda il già fatto, il suolo già occupato dal cemento, il Ppr detta regole che insistono sul concetto di recupero e di riqualificazione. Per ciò che invece ancora non è stato toccato, indica criteri generali di tutela assoluta.

E se passasse l’articolo 43? Il cemento potrebbe arrivare nel 50 per cento vergine?
Per “progetti di particolare rilevanza economica e sociale” il vincolo potrebbe cadere. Una deroga inaccettabile. Per quella parte delle coste dove non si è costruito la tutela garantita dal Ppr deve rimanere, le regole devono valere per tutti. Chi è che stabilisce che un progetto, presentato magari da un grande gruppo nazionale o internazionale, ha “particolare rilevanza economica e sociale”? In base a quali criteri verrebbe presa la decisione di dare il via libera? Basta un po’ di buon senso per capire quali sono i rischi.

Il progetto della giunta Pigliaru prevede anche un aumento di cubature per gli alberghi che già esistono, sino al 25% del volume in essere. Su questo punto cosa pensa?
Con il “Piano casa” approvato dalla giunta di centrodestra (guidata da Cappellacci, ndr) che ha preceduto il governo Pigliaru, già quasi tutti gli alberghi, in Sardegna, hanno aumento le cubature. Solo in pochi non ne hanno approfittato. Per chi già è stato “premiato” dalle norme della giunta di centrodestra, un secondo “premio” deve essere escluso. Per gli altri, quelli che ancora non hanno aumentato le cubature, si può vedere. Ma devono essere ammessi soltanto interventi di riqualificazione finalizzati ad adeguare la domanda a una richiesta turistica che nel tempo è mutata. E poi va fissato un tetto massimo differenziato caso per caso. Perché se un albergo è già molto grande, è impensabile che gli si possa concedere di ampliarsi del 25%.

Se la giunta porta in aula un testo che prevede l’articolo 43 così come oggi è formulato?
Se fossi un consigliere regionale, voterei no. Ripeto, quell’articolo è inaccettabile.

La giunta ha presentato anche un testo unico sul turismo che per i campeggi prevede un aumento di cubature per casette di legno e bungalow. Lei che ne pensa?
Tutto il male possibile. Nei campeggi ci devono stare le tende e poche strutture removibili. D’inverno le zone occupate dai campeggi, che spesso sono zone di pregio a due passi dal mare, devono tornare vuote. Cosa facciamo, autorizziamo sulle spiagge villaggi turistici mascherati da campeggi?

Eduardo Salzano, il grande urbanista che lei ha voluto come consulente per redigere il Ppr, ha scritto sul suo sito Eddyburg: “La giunta Pigliaru fa strame del Ppr, cede la sovranità dell’isola agli sceicchi del Qatar”… Gli sceicchi non sono soltanto quelli in ghutrah e kandura. Ci sono anche “sceicchi” in abito scuro e cravatta. Dico, però, all’amico Salzano, che ancora, per fortuna, non è così. O meglio, bisogna impegnarsi perché non diventi così.

È BATTAGLIA CONTRO
IL TESTO DELLA GIUNTA PIGLIARU,
PD DIVISO

di Costantino Cossu
«Salvacoste a rischio. Fronte ambientalista unito, democratici in lite e la maggioranza scricchiola»

La legge urbanistica scritta dalla giunta regionale guidata da Francesco Pigliaru è al centro di un’aspra polemica. Le norme che dovrebbero regolare lo sviluppo urbanistico dell’isola per i prossimi decenni sono entrate nell’occhio di un ciclone alimentato dalle proteste di tutto il fonte ambientalista, che accusa la maggioranza di centrosinistra al governo in Sardegna di voler demolire le tutele contro la devastazione edilizia delle coste garantite dal Piano paesaggistico regionale (Ppr) approvato undici anni dalla giunta di Renato Soru.

L’ultima levata di scudi è arrivata da Angelo Bonelli: n Sardegna il Partito democratico propone di cancellare a colpi di cemento la legge salvacoste – ha detto il coordinatore nazionale dei Verdi – ma noi impugneremo la nuova legge sia davanti il governo nazionale sia in Europa». l Piano paesaggistico sardo approvato nel 2006 – dice Bonelli – è oggi preso a modello in Italia e all’estero da chi pensa che tutelare il territorio sia fondamentale. Ora la giunta che governa la Sardegna propone una serie di norme che cancellerebbero quella riforma: via libera a nuove costruzioni turistiche perfino nella fascia costiera finora considerata inviolabile, cioè spiagge, pinete, scogliere e oasi verdi a meno di 300 metri dal mare».

«L’obiettivo della maggioranza – prosegue Bonelli – è di portare in consiglio regionale un testo da approvare in tempi stretti, ma noi ci opporremo con tutte le nostre forze anche davanti alla Commissione europea e con una petizione che partirà nei prossimi giorni».

Nell’isola oltreché dall’area ambientalista (Italia Nostra e Gruppo di intervento giuridico) l’opposizione alle nuove norme urbanistiche arriva dalle sigle a sinistra del Pd (Sinistra italiana e Rifondazione) ma anche dall’interno del partito di Renzi. Su quest’ultimo fronte le riserve più forti provengono dalla componente di cui è leader Renato Soru, “padre” delle norme di tutela che sinora hanno tenuto in scacco i signori del cemento. Sotto attacco dei “soriani” soprattutto l’articolo 43 della proposta di legge Pigliaru, che consentirebbe di costruire anche in aree non toccate dal sacco edilizio precedente il Ppr.

Qualora infatti fossero presentati alla giunta – dice il testo – “progetti di particolare rilevanza economica e sociale”, sarebbe possibile un accordo tra imprenditori e governo regionale in deroga al Ppr. Di particolare rilevanza economica sono, ad esempio, il progetto presentato da Marina Berlusconi per Costa Turchese in Gallura o quello presentato dal Gruppo Sansedoni (partecipato al 24% dalla famiglia Benetton) a Capo Malfatano nel Sulcis o quello allo studio della Qatar Holding in Costa Smeralda. E poi ci sono le norme che permettono agli alberghi già esistenti di ampliare le volumetrie: secondo gli ambientalisti, è un “Piano casa 2” dopo quelli di Berlusconi e della giunta di centrodestra che ha preceduto quella attuale.

L’assessore all’Urbanistica di Pigliaru, Cristiano Erriu, replica che la legge serve soltanto a semplificare le procedure e a garantire agli alberghi margini di maggiore concorrenzialità. E che niente sarà fatto contro le norme di tutela del Ppr. La battaglia è aperta. Dopo l’estate arriverà in consiglio, con la possibilità che il Pd e la sua maggioranza si spacchino.

la Nuova Sardegna, 2 agosto 2017 (m.p.r.)

In giro per la Sardegna vedo vecchie e recenti manomissioni. Fanno penare quelle più brutali, dell'inquinamento con seguito di malattie, e la somma di mille atti devastatori nello sfondo, gli incendi anzitutto. Fanno la loro parte anche le brutte case sparse dappertutto nell'isola. Una marea (ci sono curiose raccolte a tema in FB) e passano per carine/eleganti, la manna per l'isola. Ma credo che ci faranno riflettere passata la ubriacatura. Si capirà, vivendo e riguardandole, che l'edilizia sarda di questo mezzo secolo è tanta e pregiudizievole, come spiegano i rapporti Ispra sullo spreco di terra. Ma non sottovaluterei il messaggio imbarazzante della mascherata, né potrà trascurarlo chi teme lo svilimento della cultura sarda e si appassiona nella difesa della lingua.

C'è di mezzo il deficit di accortezze storico-antropologiche, direbbe Giulio Angioni, nel solco degli equivoci risaputi: la caricatura del sardo con i panni che gli vogliono vedere addosso prontamente indossati: cosa non si fa per piacere ai turisti, e agevolare la vendita della mercanzia. Almeno un po' esecrabile direi: perché la maschera in Sardegna è una cosa seria, nasce da riti arcaici per alleviare paure primordiali, esorcizzare la morte e preparare la rinascita. Le case “in perfetto stile sardo” – leggo in un post – sono ormai la cifra delle riviere, paesaggi camuffati nella linea deformante e omologante della villeggiatura.

Le fogge della città turistica hanno radici lontane e sono ormai percepite come nostrane, in linea con la storia dell'isola, ci spiegano. Invece è un abbaglio collettivo. L' esordio, si sa, con il primo insediamento di Costa Smeralda, scenografia dedotta da cartoline di villaggi vacanze dappertutto. Il modello – reinterpretato negli anni da trovate estemporanee – diventato irresistibile e invadente. Ognuno l'ha declinato nel modo più conveniente, con la propria visione e in base ai propri mezzi.

Protagonista l'arco (pieno centro, ribassato, ogivale) in genere senza valore strutturale in tutte le varianti di audaci correzioni/accostamenti, pretesto per scriteriati revivals stilistici. Archi quanti più ce ne stanno, impilati in modo fumettistico come i cappelli portati dai venditori nelle spiagge in questi giorni. Lo “stile sardo”: se fosse una parlata avrebbe il carattere del grammelot reinventato da Dario Fo. Comprensibilmente pop, e il successo lo capisci dallo sconfinamento: dai litorali alle campagne, alle periferie di città e paesi.

Preoccupa che l' epidemia tentacolare abbia iniziato a colonizzare le parti antiche di molti centri abitati, con contraffazioni di tipologie originarie, senza riguardo per sobri palazzetti, fin troppo compassati per la ritrosia - pensate un po' - ad accogliere gli apparati decorativi modernisti. Così in tanti luoghi autentici si somma temerariamente il vero e il falso, gli interventi in blocchetti in cls e alluminio (ingredienti del non finito sardo) ai trattamenti - apparentemente innocui e amabili - per somigliare ai villaggi turistici. Il florilegio di addobbi distribuiti in modo approssimativo, un successo la simulazione degli acciacchi del tempo con intonaci che mimano quelli d’epoca lasciando parti scrostate.

Si esaltano le imperfezioni costruttive che consentono l'impiego di manodopera mediocre. Il malfatto rustico dilaga pure negli interni, con la esaltazione della pietra del Trentino incollata e la immancabile pittura a spugna. Generando le atmosfere malinconiche di cose che non sono mai state nuove e non potranno invecchiare con dignità. Nel tempo dell'individualismo estremo, la libertà della reinvenzione di sè non ammette appelli alla coerenza, men che meno all'eleganza. Ogni appello a tornare in sé, alla buona buona creanza estetica, rischia di apparire incomprensibile e pedante. E credo non darebbe frutti in tempi brevi.

Sarà però il caso di rifletterci meglio su questa resa di massa ai modi espressivi della vacanza. Di parlarne. Mentre resta ai margini l'architettura che, pure nell'isola si studia nelle università; e magari potrebbe stare al passo con i tempi (gli stili che a suo tempo abbiamo accolto erano quelli all'avanguardia in Europa). Peccato che la Sardegna rinunci al confronto con il mondo - scivolando dal kitsch al trash - proprio quando il mondo sarebbe disposto a guardare con interesse alle sue storie vere.

E infatti mentre molti si interessavano della brutta legge urbanistica, il Consiglio regionale, infilava nella legge sul turismo, oplà, una norma per rimpinzare i campeggi di case mobili(?), maldestra forzatura che produrrà sicuramente altre brutture. Che tristezza.

la Nuova Sardegna, 2 agosto 2017, con postilla

Non perde mai l'aplomb, ma la passione per la Sardegna traspare dalla voce che si fa vibrante. Giulia Maria Crespi, presidente onorario del Fai, ha lo spirito combattivo di una guerriera per l'ambiente. Boccia senza nessun appello la legge urbanistica varata dalla giunta e non ancora arrivata in Consiglio e non ha nessun dubbio. «Le coste sarde sono in pericolo».

Le piace la nuova legge urbanistica?
«Ho sempre difeso quest'isola. Amo questa terra come se fossi nata qui. Sono arrivata in Sardegna nella primavera del 1960 ed è stato amore a prima vista. Nei miei occhi resta questa immagine e mi rattrista leggere le prospettive che si aprono con questa nuova legge urbanistica. Sono convinta che sia in atto una nuova invasione da parte del Qatar e vedo questa legge come una concessione agli interessi di questo investitore. In questo io vedo un pericolo».

Ma la legge urbanistica non riguarda solo la Costa Smeralda, ma tutta l'isola.
«Lo so benissimo. E io dico questo perché la Sardegna va tutta tutelata. È molto triste che la giunta contravvenga al Piano paesaggistico regionale ideato da Renato Soru».

Per lei il Ppr rimane un punto di riferimento?

«Certo. Il Ppr non deve essere toccato. Per anni con il Fai abbiamo spiegato in tutta Italia che la Sardegna è una delle due regioni a essersi dotata di un Piano paesaggistico. Un motivo di orgoglio. Uno strumento che ha salvato la Sardegna dai cementificatori. Vedo in questa giunta un atteggiamento omissivo e ambiguo. Pronto ai compromessi. Si deve essere intransigenti».

Cosa farebbe lei?
«Per prima cosa si deve salvare il Ppr, poi io porterei la linea di inedificabilità da 300 a 500 metri dal mare. Dobbiamo difendere la Sardegna e il suo ambiente che è il suo bene più prezioso. Ho letto in questi mesi delle inchieste delle procure sarde sui casi di possibile inquinamento legato alle attività industriali. Non è quello il futuro dell'isola».

Su cosa si dovrebbe puntare?

«Non ho dubbi: la bellezza e l'integrità del suo territorio, delle sue bellezze naturalistiche e artistiche. La maggior parte delle persone non le conosce. Si deve sfruttare il turismo di alto livello nei mesi di spalla. Si deve portare a conoscere i grandi artisti e le bellezze uniche di quest'isola. Lo si fa ancora troppo poco. In Sardegna c'è un artigianato di grande qualità. Un altro cardine è l'agricoltura. Un tempo l'isola forniva le primizie al resto dell'Italia. Dai carciofi ai fiori. Si deve ritornare là. A quella qualità. L'isola ha dei prodotti agroalimentari insuperabili. Il pecorino è una prelibatezza, la ricotta di pecora qualcosa di inimitabile, non come quella che viene fatta con il latte in polvere arrivato dalla Germania. Per non parlare di carne e prosciutti. Il futuro passa dalla valorizzazione di « prodotti e tradizioni».

La giunta dice di lavorare in questo senso.
«Non fa abbastanza. L'interno della Sardegna si svuota. I paesi si spopolano, si dovrebbe al contrario incentivare i giovani a ritornare nelle campagne e nei paesi dell'interno dell'isola. In questo modo si migliora la qualità della vita della Sardegna e le si dà un futuro. La Regione dovrebbe incentivare il ritorno dei giovani e in particolare il ritorno al lavoro nelle campagne. Le terre dell'isola vanno valorizzate e difese. Non si pensa mai all'agricoltura. In tanti hanno abbandonato le terre che ora sono devastate dai cinghiali. Aiutamo i giovani a riscoprirle. Io ho 94 anni e queste battaglie le faccio per i giovani e per il loro futuro».

Si deve pensare meno al cemento e più all'ambiente?
«Non c'è dubbio, la Sardegna non deve diventare il bersaglio di chi pensa solo a depredarla e a sfregiarla per arricchirsi».

Gli hotel devono poter adeguare i loro standard ricettivi alle esigenze del mercato se si vuole fare turismo.
«Nessuno lo nega. Si possono fare tutte le ristrutturazioni che si vuole all'interno, ma senza aumentare le volumetrie sul mare di un solo metro cubo e senza fare sopraelevazioni. Si deve seguire il Ppr di Soru e non tentare di aggirarlo concedendo possibilità di costruire in aree pregiate».

La nuova legge urbanistica ha come principio filosofico di fondo il concetto del riuso. Del non consumo del suolo.

«Non sono d'accordo. Si deve restare ancorati alle linee dettate dal Ppr di Soru, che è un esempio per tutta l'Italia».

Ma la Sardegna deve avere una legge urbanistica. Lo sostiene anche Soru.

«Certo, ma serve una legge che conservi l'assoluto divieto del consumo del suolo. Esistono delle linee precise. Si deve recuperare l'esistente come ha fatto il Fai con le Saline Conti Vecchi e la batteria di Talmone a Palau, Ho letto in questi giorni che nel Testo unico sul turismo è previsto l'incremento delle case mobili anche nella fascia dei 300 metri. Ecco questo è un esempio di cosa non si deve fare. Questo è un esempio di cosa la giunta Pigliaru dovrebbe combattere e non prevedere». (l.roj)

postilla
Anche a Giulia Crespi sfugge un elemento del Piano paesaggistico di Renato Soru: questo piano non tutela solo i 300 metri più vicini al mare (già vincolati dalla Legge Galasso del 1985, valida per tutta l'Italia), ma anche una fascia costiera di ampiezza variabile, dal minimo dei 300 a quasi 3mila. Naturalmente una tutela differenziata, non l'inedificabilità assoluta.
Forse è utile ricordare le ragioni di tale tutela, riportando un estratto delle norme del siano (art.19):

«La legge Galasso indicava già i territori costieri compresi nella fascia dei 300 m dalla linea di costa come bene paesaggistico meritevole di tutela. Tale limite, meramente geometrico, costituiva una prima “sciabolata” (come tutte le altre indicazioni quantitative, dal decreto del 1983 al Codice del 2006).
«Tra i beni a matrice prevalentemente ambientale gioca quindi, in particolare in Sardegna, un ruolo del tutto particolare il bene costituito dalla fascia costiera nel suo insieme. Questa, pur essendo composta da elementi appartenenti a diverse specifiche categorie di beni (le dune, le falesie, gli stagni, i promontori ecc.) costituisce nel suo insieme una risorsa paesaggistica di rilevantissimo valore: non solo per il pregio (a volte eccezionale) delle sue singole parti, ma per la superiore, eccezionale qualità che la loro composizione determina.
«Essa non può essere artificiosamente suddivisa, se non per scopi amministrativi, ma deve mantenere il suo carattere unitario complessivo soprattutto ai fini del PPR e, pertanto, deve essere considerata come un bene paesaggistico d’insieme, di valenza ambientale strategica ai fini della conservazione della biodiversità e della qualità paesistica e dello sviluppo sostenibile dell’intera regione.
«É anche grazie al suo eccezionale valore, e alla scarsa capacità di governo delle risorse territoriali che dimostrata nei decenni trascorsi dai gruppi dirigenti, che questo incomparabile bene è oggetto di furiose dinamiche di distruzione. È qui che si è esercitata con maggior violenza nei decenni trascorsi, e minaccia di esercitarsi nei prossimi, la tendenza alla trasformazione di un patrimonio comune delle genti sarde in un ammasso di proprietà suddivise, trasformate senza nessun rispetto della cultura e della tradizione locali né dei segni impressi dalla storia nel territorio, svendute come fungibili e generiche merci ad utilizzatori di passaggio, sottratte infine all’uso comune e al godimento delle generazioni presenti e future (ad esclusione dei privilegiati possessori).
«Massima qualità d’insieme e massimo rischio: due circostanze che giustificano la particolare attenzione che si è posta per delimitare, secondo criteri definiti dalla scienza e collaudati dalla pratica, il bene paesaggistico d’insieme di rilevanza regionale costituito dai “territori costieri”, e per disciplinarne le trasformazioni sotto il segno d’una regia regionale attenta sia alla protezione che alla promozione delle azioni suscettibili di orientarne le trasformazioni nel senso di un ulteriore miglioramento della qualità e della fruibilità».

«Innovative, autosufficienti e inaccessibili ecco le nuove città dei giganti della Rete». la Repubblica, 1° agosto 2017 (p.d.)

Gigantesche, distanti, inaccessibili. Ecco le Versailles delle grandi aziende hi-tech, le nuove sedi di quella manciata di multinazionali che per capitalizzazione hanno superato singolarmente il prodotto interno lordo di Stati come Svezia, Norvegia o Svizzera. Apple, Amazon, Facebook, Google, Alibaba, Tencent, Huawei, stanno per gridare al mondo la loro grandezza attraverso l’architettura. Come facevano imperatori e papi, presidenti e dittatori. «Non sono più delle compagnie, ma famiglie reali» aveva scritto qualche tempo fa Bruce Sterling, fra i “padri” della letteratura cyberpunk. «Siamo in pieno feudalesimo digitale ». Abbandonata l’idea del campus universitario, abbracciano quella della fortezza ermetica firmata da un’archistar.

L’astronave della Apple a Cupertino è solo un esempio. Concepita da Steve Jobs, l’ha disegnata sir Norman Foster. Un disco con una circonferenza di un chilometro e mezzo, 260 mila metri quadrati per ospitare 12 mila dipendenti che vi si stanno trasferendo. Città cinta da mura alte quattro piani con un giardino interno ombreggiato da novemila alberi. Il Cerchio del romanziere Dave Eggers fatto costruzione. Sorge in una delle aree più costose del pianeta: 160 milioni di dollari il prezzo del terreno, cinque miliardi quello dell’edificio.

La nuova sede di Amazon, dello studio Nbbj, è invece un grattacielo da quattro miliardi di dollari che verrà terminato nel 2018 a Seattle. Oltre 306 mila metri quadrati su 37 piani. E tre grandi sfere trasparenti alla base accessibili solo ai dipendenti: conterranno una foresta equatoriale in omaggio al nome della compagnia di Jeff Bezos, diventato l’uomo più ricco del mondo. Un altro edificio è stato invece dedicato ai senza tetto e ong. Mentre a Shenzen, sempre la Nbbj che ha già all’attivo le sedi di Alibaba a Hangzhou, sta ultimando due torri da 250 metri per la Tencent, terzo colosso del Web.

«Nessuno di questi edifici vuole davvero avere un rapporto con la città » commenta lo storico dell’architettura Carlo Olmo. «E pensare che la città per secoli è stata il centro dell’innovazione e che queste compagnie sono figlie delle contaminazioni tra università e aree urbane».

Facebook, dopo il quartier generale disegnato da Frank Gehry, vorrebbe ora un villaggio. Il Willow Campus, progettato da Rem Koolhaas, avrà per la prima volta anche mille e cinquecento abitazioni e parte di queste dovrebbero essere a basso costo. Oltre a negozi, farmacie, hotel, bar, alimentari e un milione e mezzo di metri quadrati di uffici. Niente mura né torri insomma. Di villaggi la Huawei ne ha in mente 12 da un miliardo e mezzo di dollari in costruzione a Shenzen. Scimmiottano lo stile europeo da Verona a Oxford. Qui però più che di reggia si tratta di semplice pessimo gusto. Meglio, anche dal punto di vista simbolico, il Googleplex a Mountain View immaginato dall’architetto danese Bjarke Ingels: spazi coperti da un enorme tenda di vetro sotto la quale gli edifici modulari potranno esser mossi secondo le esigenze dei dipendenti.

«Molti imperi sono caduti subito dopo che i loro governanti avevano finito di costruire una sontuosa capitale» scriveva Deyan Sudjic, curatore della Biennale 2002 e direttore del Design Museum di Londra alla fine di Architettura e potere (Laterza). «E ciò mostra come l’architettura non sia sempre uno strumento politico efficace». Ma si vede che nella Silicon Valley non è un saggio che è andato per la maggiore.

». Il Fatto Quotidiano online, blog di Salvatore Settis, 30 luglio 2017 (c.m.c.)

Il diavolo fa la pentola, ma non il coperchio. La retorica governativa insiste sui successi e i traguardi di un’Italia che (si annuncia) è uscita dalla crisi, o sta per farlo, e marcia verso un radioso futuro. Poi però c’è la doccia fredda dei dati, gli indici di sviluppo corretti al ribasso, i rating severi, gli ammonimenti da Francoforte o da Bruxelles; segue una qualche correzione di rotta mescolata a rivendicazioni e proteste, come se chiunque sollevi dubbi sull’azione di governo sia complice di losche congiure. E, ciliegina sulla torta, la periodica esibizione di muscoli: Italia, patria della bellezza! della cultura! dell’ingegno! Grandi investimenti, straordinari progressi, miracolosi risultati.

Guai a chi dice che il ministero dei Beni culturali, o quello dell’Istruzione, disinvestono in tutela o in ricerca: qualcuno prontamente ricorderà che ci sono anche Regioni ed enti locali, a compensare; e insomma la spesa pubblica nel suo complesso, si predica, gareggia col resto d’Europa.

I soldi messi sul sapere continuano a calare

Ma stavolta la doccia fredda viene da Palazzo Chigi: l’Agenzia per la Coesione Territoriale, che dipende direttamente dal Presidente del Consiglio, ha diffuso il 24 luglio la sua relazione annuale, che analizza i flussi di spesa 2015-16 del settore pubblico allargato, disaggregandoli per aree geografiche e per settori. Per esempio, appunto, la cultura. È uno dei rari esercizi di riflessione sulle politiche pubbliche d’investimento e di spesa, ancor più interessante perché contiene un confronto inesorabile fra la spesa italiana e quella degli altri Paesi europei, e ricostruisce la serie storica degli interventi finalizzati allo sviluppo del Mezzogiorno in un periodo molto lungo (1951-2015). Dati nudi e crudi, raccolti con impeccabile professionalità da un osservatorio privilegiato. E la pentola del diavolo mostra tutte le sue crepe.

Scopriamo così che «nel settore cultura, nonostante alcuni recenti interventi volti ad affermare la centralità della cultura come motore per il rilancio socio-economico dei territori, gli effetti sui livelli di spesa continuano ad essere inesistenti», anzi «la spesa pro capite complessiva rimane invariata con tendenza al decremento», e nulla indica che «qualcosa è cambiato», come viceversa si pretende. «Quello in cultura rimane il più grande disinvestimento settoriale che si sia avuto in Italia negli anni 2000, certamente influenzato dalle politiche di contrazione della spesa pubblica, che tuttavia nella cultura hanno pesato più che in tutti gli altri comparti». Nel contesto europeo, «il confronto internazionale risulta impietoso: la spesa primaria per attività culturali e ricreative in rapporto al Pil risulta in Italia – nonostante lo straordinario patrimonio artistico e la ricchissima eredità culturale – decisamente inferiore a quella media dei Paesi Ue».

Già nel 2008, dopo la cura dimagrante firmata Tremonti-Bondi, l’Italia era il fanalino di coda, con lo 0,8% del Pil; nel 2015 abbiamo gloriosamente raggiunto lo 0,7%, penultimi in classifica (dopo di noi, solo l’Irlanda). E pensare che non solo la Danimarca e la Finlandia, ma anche Slovenia, Lettonia e Bulgaria registrano una spesa superiore al 2% del Pil, e quasi tutti gli altri Paesi europei sono comunque sopra l’1%. Anche la quota spese delle famiglie italiane in attività culturali e ricreative (6,6%) non è in linea con l’Europa (media 8,5%, con picchi oltre il 10% in Svezia, Olanda, Danimarca, ma anche Malta); meno che in Italia si spende solo in Romania, Portogallo, Grecia e Irlanda.

Queste cifre scoraggianti diventano ancor più deprimenti se andiamo a guardare le differenze fra Centro-Nord (71,2 % della spesa totale) e Mezzogiorno (28,8 %): quote significativamente sbilanciate in rapporto alla popolazione residente, sei punti-percentuale a sfavore del Sud. Eppure ci vien detto che asse delle politiche pubbliche è «il raggiungimento di una quota spesa nel Mezziogiorno superiore o almeno pari alla rispettiva quota di popolazione». Viceversa, «il crollo di tutta la spesa pubblica a finalità strutturale dal 2008 in avanti» ha pesantemente colpito il Sud, accentuandone il divario dal resto d’Italia.

È un divario che si è ormai radicato profondamente, fino all’attuale “disparità strutturale di dotazioni effettive e di servizi nel Mezzogiorno: i treni sono più vecchi e più lenti, la rete ad alta velocità costituisce solo il 5,6% della rete complessiva, la presenza turistica per abitante è pari a 3,7 contro i 7,9 del Centro-Nord, la distribuzione dell’acqua è irregolare per il 18,3% delle famiglie a fronte del 4,9% del Centro-Nord, i Comuni che dispongono di strutture per l’infanzia sono meno della metà che nel Centro-Nord”. In questo quadro desolante, si salva forse la spesa in cultura? No. «Il crollo è comune alle varie Regioni, ma nel Centronord si passa da 65 euro pro capite a 24, mentre nel Sud si passa da 43 a 18», e quanto alle decantate «risorse aggiuntive», i dati implacabilmente confermano che «le risorse aggiuntive sono risultate sostitutive della spesa ordinaria e settoriale».

Il disastro vero c’è da Roma in giù

Se possibile ancor più drammatico è il generale declino di ogni investimento nel Mezzogiorno, qui analizzato nella sequenza cronologica 1951-2015. I dati di spesa non lasciano spazio al dubbio: dallo 0,68% del Pil nel decennio 1951-60 si passa allo 0,85% negli anni Settanta, fino al crollo del quinquennio 2011-2015, quando gli investimenti calano allo 0,15%, anzi «negli ultimi anni raggiungono un peso inferiore allo 0,1 % rispetto al Pil». In altri termini, i nostri governi sembrano aver rinunciato a qualsiasi obiettivo di riequilibrio fra le diverse aree del Paese. Eppure, nelle previsioni del DPEF 2007-2011 si era stabilito su questo fronte un livello di investimenti ideale di almeno lo 0,6% del Pil, e comunque non inferiore allo 0,4%.

Sarebbe bello, in mezzo a tante discussioni su come ricomporre una sinistra di governo degna di tal nome, che dati come questi venissero discussi per costruire una piattaforma programmatica. E messi in tensione con altri dati, per esempio l’immensa evasione fiscale (la terza al mondo dopo Messico e Turchia) o la disoccupazione giovanile che ha il suo record europeo in Calabria (58,7%), superata solo dalle enclaves spagnole in terra d’Africa. O, per parlare di cultura, la carenza di politiche pubbliche indirizzate alle attività culturali degli immigrati: anche qui l’Italia brilla per un terrificante 55,5% di immigrati che nell’intero 2016 non ha partecipato a nessuna forma di attività culturale (dati Istat). Verrà mai il momento in cui il pulviscolo delle sinistre anziché discutere solo di alleanze e collegi elettorali vorrà accorgersi di quel che accade in Italia?

«Nel 1948 l'Architectural Association – sino a quel momento nota soprattutto per essere la fonte di qualunque fantasticheria megalomane di stampo corbusieriano in Gran Bretagna – fece qualcosa di davvero inatteso (segue)

«Nel 1948 l'Architectural Association – sino a quel momento nota soprattutto per essere la fonte di qualunque fantasticheria megalomane di stampo corbusieriano in Gran Bretagna – fece qualcosa di davvero inatteso: invitò per una conferenza l'architetto anarchico italiano Giancarlo De Carlo. De Carlo era rimasto molto colpito dalla situazione abitativa dei poveri nel suo paese, una situazione, spiegava “non molto diversa da quella degli schiavi del terzo secolo avanti Cristo, o dei plebei nella Roma Imperiale”. Le abitazioni di iniziativa comunale non si erano rivelate una soluzione adeguata, dato che si trattava di “squallide baracche come quelle che oggi si allineano monotone ai margini delle nostre città”. E dunque, sosteneva, “Il problema delle abitazioni non si può risolvere dall'alto: si tratta di un problema delle persone, che non può trovare soluzione, e nemmeno provare ad essere avvicinato in alcun modo efficace, salvo attraverso la concreta volontà e azione delle persone stesse. La pianificazione urbanistica poteva contribuire, nella misura in cui era concepita in quanto “manifestazione di collaborazione comune” e se diventava “impegno a liberare davvero l'esistenza umana, il tentativo di stabilire un armonioso contatto fra natura, economia, ed ogni altro genere di attività umana”».

Su questo breve passaggio, o se volete lunga ragionata citazione, Peter Hall nel suo classico Cities of Tomorrow (p. 271) innesta la nascita moderna del movimento partecipativo di base nella costruzione della città. Dobbiamo subito aggiungerci che, trattandosi del 1948, solo un paio d'anni scarsi dopo l'approvazione del New Towns Act, è la stessa lettura dell'intuizione di De Carlo (perché di intuizione si tratta) a meritare qualche inquadramento storico in più, che ne illumina meglio il senso, probabilmente ben oltre le intenzioni originali. È infatti proprio nel dipanarsi del gigantesco programma attuativo delle nuove città, che si ripropone l'equivoco mai risolto sin dai tempi di Ebenezer Howard e del suo braccio secolare Raymond Unwin: chi decide le forme dei contenitori sociali, e neppure troppo implicitamente il modello di relazioni che finiranno per plasmare? Ma soprattutto, in base a quali principi, forme di comunicazione e interazione, avviene la decisione del modo in cui «stabilire un armonioso contatto fra natura, economia, ed ogni altro genere di attività umana»? Secondo la coppia fondatrice del modello spaziale città giardino, la lettura della tradizione identitaria nazionale (il villaggio ancestrale), filtrata dalla cultura critica dell'architetto-urbanista, era già anni luce più avanti di quella sterile «risposta del mercato» che aveva prodotto sino a quel momento i tuguri speculativi in affitto. De Carlo a ben vedere pare ancora fermo a quella dicotomia, salvo appunto individuare la risposta nella partecipazione attiva degli abitanti, per evitare che qualche architetto pur benintenzionato finisca per riprodurre alveari di alloggi «come quelli che oggi si allineano monotoni ai margini delle nostre città». Già: ma quali bisogni e quali progettualità vanno lette? E interpretate da chi?

Unwin e De Carlo, lontanissimi su ogni fronte, condividono però l'approccio caratteristicamente architettonico del piano-progetto, che ne inquina loro malgrado in vari passaggi, la lucidità dell'analisi e della proposta. Un tema non vagamente intuito, ma assai trattato, sistematicamente, proprio nel citato successivo svolgersi del programma New Town, le cui «polemiche urbanistiche» più interessanti, dal nostro punto di vista, non sono certo quelle tra i fautori del modello razionalista-modernista-corbusieriano e i sostenitori del vernacolo popolare (tema presente anche nelle nostre coeve discussioni interne al Fanfani-Case), ma tra progettisti e sociologi-operatori sociali. Riassunto in poche battute, tutto si riduce a: come leggiamo i bisogni e le aspirazioni di quelle persone? In cosa esattamente coinvolgiamo la loro partecipazione? Per gli architetti risulta quasi automatico, immaginare quelle sessioni di co-progettazione, in cui i futuri residenti esprimono gusti e preferenze sulle qualità spaziali più desiderate. Ma per il sociologo, giustamente, si tratterebbe di guardare un po' più in là della disposizione dei locali, degli edifici nel verde, della dislocazione dei servizi. E chiedere invece: che modello sociale, familiare, economico quotidiano, volete? Da quelle risposte, adeguatamente filtrate e interpretate, e non dall'improvvisarsi progettista dilettante allo sbaraglio, dovrebbe discendere poi tutto il resto, inclusa magari anche la sessione coi foglietti appesi in bacheca così di moda, o la campagna stampa, o i corsi divulgativi nello stile dell'antico Wacker's Manual concepito a Chicago nel lontano 1913.

Il Naviglio Pavese in periferia. Foto F. Bottini
E se vale per le forme dei quartieri e il loro rapporto coi servizi, i posti di lavoro, i trasporti locali, perché non dovrebbe valere, a maggior ragione, sul futuro prossimo e non prossimo della società locale? Questa lunghissima premessa che pare guardare molto all'indietro e poco all'oggi, ha invece un preciso obiettivo di metodo, e un legame diretto con la cronaca contemporanea: il Progetto Navigli a Milano, di cui molto recentemente è stato presentato e in parte discusso il piano di fattibilità. Con una serie di limiti di metodo e trasparenza che proprio quella lunga introduzione prova a sottolineare: sia il referendum originario, sia la discussione mainstream, sia gli approfondimenti tecnici ed economici, paiono sorvolare abbondantemente su un aspetto molto sociale e molto di per sé visibile, che riguarda la vera e propria «ricostruzione artificiale del centro storico» che Milano di fatto non ha mai avuto, perlomeno da quando esiste quel concetto. Anzi è addirittura l'identità locale popolare a far propria a modo suo l'antica invettiva di Marinetti contro il folklorismo decadente tanto manifesto a Venezia, centro storico paradigmatico dell'immaginario turistico, già parco a tema della nostalgia prima che il concetto si manifestasse esplicito.

S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. la notissima canzoncina sul testo di Luciano Ramo musicato da Vittorio Mascheroni, esce nel 1928, ovvero quasi contemporaneamente alla tombatura della fossa dei Navigli, e nel quadro delle grandi trasformazioni prospettate dalle prospettive di Piero Portaluppi e sviluppate nel piano di Cesare Albertini per la «Manhattan tascabile» dal Duomo alle lontane periferie dei Comuni appena aggregati, e idealmente alla regione metropolitana (per la prima volta introdotta ufficialmente dall'assessore Cesare Chiodi come requisito per il concorso di piano regolatore nel 1925-27). «Ogni vicolo Fu. Strade non ce n'è più. Con lo sfondar, son tutti boulevard. Ti smollan qua, ti sgonfian là. StraMilano, S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. Piano piano, Monte Merlo confondi col Pincio, e il Naviglio col Po». Da più di un punto di vista, mai autoironia fu più illuminante di questo breve estratto, una specie di riverniciatura in allegro e ottimista dei quadri periferici di Boccioni, dove anche i simboli cittadini, come l'amata collinetta del passeggio ai Giardini Pubblici (il Monte Merlo, col gazebo per la banda) o gli storici canali, entrano nel turbine della sarabanda. Ovviamente, di come poi debba e possa svilupparsi questa sarabanda, che lascia come ogni mutamento le sue vittime e i suoi vincitori, c'è sempre molto da dire. Ma la vera domanda a cui risponde è di sicuro: volete la «città che sale» o quella sonnacchiosa chiusa nelle sue mura che aspetta i viandanti di passaggio per vendergli vino annacquato nelle osterie?

A suo modo illuminante, un titolo di giornale locale di questi giorni parla del centro di Milano dopo il ripristino dei Navigli e dei quadretti paesaggistici, come di «Una promenade per la movida», illuminandoci a modo suo su quale sia l'idea di città inconsapevolmente (almeno inconsapevolmente per molti) inseguita da operatori e tanti cittadini: una sorta di centro storico posticcio, privo di storia degna di questo nome, file di locali in cui si spilla birra e si esibiscono orchestrine più o meno improvvisate, locale milanese e autentico come certe sagre paesane decise a tavolino da una pro-loco molto attiva, con prodotti made in China spacciati come frutto del territorio. Certo, nulla in contrario a qualche progetto di abbellimento, e ri-arredo, dell'ex Manhattan tascabile e incompiuta malamente improvvisata negli anni '20, ma sulla base di quale idea di città, localizzazione delle attività economiche, mix sociale di residenti, servizi e immaginario? Forse questo, sarebbe stato un quesito più coerente e trasparente da porre ai cittadini, invece dell'ovvio «volete una città più brutta o più carina?» a cui ci hanno sottoposto, con una logica che continua a permeare un dibattito che non è tale. L'alternativa tra la popolare e amata S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. e l'ennesimo dozzinale S.T.R.A.P.U.N.T.I.N.O del turismo alcolico di massa, magari coi medesimi gravissimi problemi delle città d'arte, non pare un tema di secondaria importanza.

Su questioni analoghe, ho già espresso altre perplessità di lungo periodo in Arcipelago Milano, più di recente nel mio blog del lunedì su Today o in generale le riflessioni su Milano

La situazione del trasporto pubblico a Roma è catastrofica. Che si intende fare per rimediare al disastro? La giunta cinquestelle sfugge al confronto sul merito, caccia chi dissente e non informa i cittadini. (m.b)

La situazione di ATAC, l'azienda dei trasporti partecipata al 100 % dal Comune di Roma, è catastrofica. Ma non da ora. Da anni. Per molti motivi e con molte responsabilità, dalla lunga serie di cambiamenti ai vertici, con emolumenti stratosferici e buone uscite incredibili - soprattutto a fronte degli inesistenti risultati raggiunti - alle assunzioni clientelari, da ascrivere non solo alla parentopoli più famosa della Giunta Alemanno, ma alla levitazione costante del personale (dirigenti e impiegati), al sistematico spoil system e alle solite mangiatoie elettorali che hanno accomunato destra e sinistra. Per non parlare dei molti casi di mala amministrazione finiti nelle aule giudiziarie. E dell'alto tasso di assenteismo dei dipendenti e - va detto - del corporativismo di una categoria dove proliferano le sigle sindacali. E dell'evasione tariffaria record degli utenti. E del lungo braccio di ferro Comune - Regione per i fondi per il trasporto pubblico della Capitale. E di molto altro ancora.

Non è un mistero che l'ATAC sia arrivata alla frutta da un pezzo. Lo racconta anche l'ex Sindaco Ignazio Marino nel suo libro, dove descrive assai bene come spesso l'interesse per l'azienda da parte di pezzi della politica di destra e di sinistra si attivasse «più per il salario o il posto di lavoro di un dirigente», che «per la necessità di ridimensionare e rendere più produttiva l'azienda»; e già allora, racconta Marino, «secondo alcuni osservatori avrei dovuto portare i libri contabili in tribunale e dichiararne il fallimento».

Oggi la situazione non è migliorata, anzi. Le parole dell'ex direttore generale dell'ATAC, Bruno Rota (il manager milanese nominato dalla Sindaca Raggi, a cui sono state affidate le deleghe operative poco più di un mese fa) non lasciano spazio all'interpretazione: «L’azienda è in stato di dissesto conclamato. Oltretutto in queste condizioni ci sono anche chiari obblighi di legge: se non riesce a far fronte ai propri impegni, noi abbiamo l’obbligo di ufficializzare questa situazione(...) Bisogna ristrutturare il debito».

Rota parla chiaro anche sulle motivazioni che lo hanno spinto a lasciare l'incarico: «Come dico nella lettera di dimissioni, [lascio] per la gravissima situazione di tensione finanziaria della società. Una situazione che può essere risolta soltanto con un intervento drastico e con il pieno riconoscimento di quanto accaduto. Avrei dovuto sentire attorno a me un clima di totale fiducia. E così non è stato».

Parole inequivocabili che come altre dichiarazioni rilasciate alla stampa in questi giorni, tirano in ballo il tentennamento della Sindaca e della Giunta nell'affrontare con serietà e coraggio un’emergenza non più rinviabile. E appare orwellianamente inquietante l'interpretazione della vicenda pubblicata sulla pagina facebook della Sindaca Virginia Raggi (forse opera dei suoi spin doctor), in cui ribalta la situazione e attribuisce il passo indietro del direttore generale non alla mancanza di sostegno al suo piano da parte dell’Amministrazione capitolina, ma a personali preoccupazioni sulle possibili conseguenze legali. E che quello della Sindaca sia un maldestro gioco di prestigio verbale, simile a quelli dei politici navigati invisi ai Cinque Stelle, ci sembra evidenziato dal fatto che non vengano date spiegazioni ai cittadini, a cui ci si rivolge solo con brevi post pubblicati in rete.

Perché il vero punto è: che cosa intende fare questa Amministrazione - facendolo rapidamente - per affrontare una situazione del trasporto pubblico ormai abbondantemente oltre il punto di non ritorno, che a quanto pare sta per implodere definitivamente? Quali sono state le vere cause della rottura (tra l'altro annunciata) e perché il Piano di Rota non andava (più) bene? Quali piani alternativi esistono, a parte tirare a campare aspettando l'ennesimo uomo della provvidenza?

Più in generale, perché, in un anno di permanenza nella stanza dei bottoni, questa amministrazione non è ancora stata capace di aprire le porte del Campidoglio e mostrare gli scheletri nell'armadio dei conti che non tornano? Dove sono finiti gli ardimentosi consiglieri M5S che dall'opposizione promettevano sfracelli sui cosiddetti "derivati" e che avrebbero fatto chiarezza una volta per tutte sul debito monstre della Capitale e sulle mangiatoie bipartisan delle partecipate? E per quanto ancora le mancanze e le devianze di - alcune - Giunte precedenti saranno usate dalla Giunta Raggi come scudo spaziale per proteggersi dalle critiche? Dopo più di un anno bisogna cominciare a rispondere ai cittadini di quello che si è fatto e non fatto. In modo chiaro e trasparente, con la serietà dovuta verso chi ti ha eletto per cambiare le cose.

Invece la Sindaca chiude il suo post invitando i suoi consiglieri e e i suoi assessori a «non distrarsi dal lavoro alimentando sterili polemiche» avvertendo «chi preferisce polemizzare" che «si mette da solo fuori dalla squadra.» Un ulteriore segnale della debolezza di questa maggioranza pentastellata, che si preoccupa di silenziare la critica e il dissenso, e sfugge dal confronto sul piano delle idee e dei fatti. Ma ma anche un vizio con cui dovrebbe fare i conti fino in fondo il MoVimento, se ambisce davvero a fare un salto di qualità.

Perché a Roma - e non solo - i Cinque Stelle hanno due possibilità.

Vivere alla giornata, gloriandosi di iniziative secondarie e titubando di fronte a scelte strutturali e improcrastinabili. Cercando di farsi meno nemici e inimicandosi tanti, amici e non amici. Estromettendo le voci critiche e ritrovandosi circondati dagli yes men e dagli adulatori. Affidandosi alle tecniche di distrazione di massa degli esperti di comunicazione anziché dire ai cittadini come stanno le cose. Pensando alle elezioni nazionali e non alla drammatica quotidianità dei cittadini romani.

Oppure andare dritti per la propria strada, scegliendo la trasparenza, il confronto democratico e la partecipazione della cittadinanza, senza temere il conflitto, né l'impopolarità. La strada di chi cerca di fare la cosa giusta e che per questo è sicuro di sé, anche se è disposto a mettere in discussione le proprie scelte quando è necessario.

Noi ci auguriamo che nel Movimento prevalgano le teste pensanti e non gli esperti di marketing.

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