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Si inaugurano i parcheggi sotterranei di via Ampère a Città Studi. Quando era stato aperto il cantiere dieci anni fa (10!), si pensava a poco più di un anno di disagio per avere poi una situazione di maggiore ordine in una zona dove ogni giorno si riversano 35.000 studenti e 5.000 addetti dell'università. Molti di loro si affacciano qui dalla stazione del metrò Piola, di fatto di fronte al parcheggio. Gli studenti che nel 2002 uscivano dal liceo e si presentavano tremanti al Politecnico o alla Statale hanno concluso i loro studi da molti anni. Sono stati costretti per tutto il periodo ad attraversare un cantiere fangoso e per la gran parte del tempo abbandonato. A Shanghai nel 2002 non avevano ancora vinto l'assegnazione di Expo 2010 e nello stesso periodo hanno realizzato, tra l'altro, 190 nuove stazioni sotterranee collegate da 490 km di nuove linee metropolitane.

Sappiamo che il parcheggio, deciso dall'amministrazione Albertini, ha incontrato diverse difficoltà: imprese fallite, ricorsi degli abitanti per le case lesionate. Ma è la storia di molti progetti dei parcheggi interrati, realizzati sulla base di un atteggiamento acriticamente favorevole alla realizzazione di interventi destinati ad infliggere ferite profonde nel tessuto urbano per far posto alle auto. La pretesa era che si trattasse di una scelta pragmatica senza costi per la collettività. I costi sono stati ben più rilevanti dei paventati oneri economici: per dieci anni le automobili si sono accatastate ancor più disordinatamente nella zona, si è persa una piccola piazza alberata, oggi sostituita da una spianata di cemento poco accogliente, in gran parte occupata dalle rampe di accesso a box privati che difficilmente porteranno benefici alla vivibilità della zona. Rimarginata la ferita c'è da chiedersi cosa possiamo imparare da questa vicenda.

Provo ad elencare alcune possibili cose:

1) è tramontata l'epoca del «a costo zero», molti costi non sono economici ma impongono alla comunità oneri ancor più gravosi;

2) nessun progetto può essere approvato senza considerare come affrontare gli imprevisti. Negli anni abbiamo sentito parlare di commissari straordinari, di commissioni: nulla che possa sostituire una quotidiana attività di controllo;

3) non è ammissibile che una città come Milano accetti di far durare il cantiere di un parcheggio per poche auto più a lungo del cantiere per 500 km di metropolitana in Cina;

4) dobbiamo interrogarci a fondo sul senso di progetti di parcheggi che incoraggiano l'uso dell'auto in una città già ingessata dal traffico quando tutte le società avanzate lavorano sulla limitazione dell'uso urbano dell'auto;

5) vorremmo infine anche poter considerare possibile la realizzazione di un parcheggio interrato, quando serve davvero, come un progetto «normale» se fattibile, mentre oggi, grazie alle esperienze disastrose degli ultimi 10 anni questo è diventato un tabù.

Solo se potremo dire di aver imparato queste cose Milano potrà festeggiare l'inaugurazione tardiva del parcheggio di via Ampère. Altrimenti si tratterebbe solo della sospirata scritta «Fine» di un brutto film che non vorremmo più rivedere.

San Lorenzo non abita più qui

di Eleonora Martini

La notizia, riportata sulle cronache romane dei quotidiani qualche giorno fa, e rimbalzata sui siti di movimento, ha avuto l'effetto di uno schiaffo che risveglia da un sonno narcotico. «San Lorenzo, aggressione razzista di un centro sociale contro i rifugiati». Ma come? San Lorenzo, il quartiere rosso per eccellenza della capitale. E perdipiù i brutti ceffi in questione - due o tre, armati, secondo quanto riportato dalle cronache, di coltellacci -, che avrebbero insultato i rifugiati del Darfur al grido di «negro di merda torna a vendere banane nel tuo paese», sarebbero frequentatori del «32» di Via dei Volsci. Un centro sociale che in Italia e non solo è sinonimo di estrema sinistra: dall'Autonomia operaia in poi, in quelle stanze - chiuse negli anni '80 e riaperte nell'attuale veste solo negli anni '90 - sono passate almeno due o tre generazioni di militanti comunisti. Da lì e da Radio Onda Rossa, a cento metri sulla stessa via, il germe della militanza si è diffuso negli anni a raggera. Sono figli di quella storia molti dei centri sociali romani e tante esperienze movimentiste degli ultimi decenni. «Il centro storico del movimento, un centro sociale diffuso», come lo definisce Nunzio D'Erme, ex consigliere comunale e tra i portavoce del «32». E allora, come è possibile un attacco razzista in piena via dei Volsci?

L'evento di per sé non è degno di particolare nota: sono volati insulti razzisti e nient'altro, ma soprattutto i rifugiati sudanesi si sono trovati solo nel posto sbagliato al momento sbagliato. La bega privata, tra i protagonisti della lite, non ha alcun interesse di cronaca e si è risolta con l'incontro tra gli avvocati di parte. Rimane un solo dato di fatto: gli attuali frequentatori del «32» e di via dei Volsci - ma il ragionamento si potrebbe estendere a molti se non a tutti i centri sociali, almeno quelli romani - si nutrono del buon cibo prodotto dalle cucine dell'osteria ma molto raramente della sua cultura fondativa. Il razzismo, anche solo quello delle parole, è un'onta che loro stessi, i «compagni del 32», non vogliono rimuovere. Si interrogano come forse non avevano mai fatto prima - e gliene va dato atto -, indicono riunioni, costringono alle scuse chi ha offeso, incontrano i rifugiati vittime del brutale episodio invitandoli, domani, a un'iniziativa nei locali del centro sociale e sabato ad una trasmissione dai microfoni di Radio Onda Rossa.

Basta? «No - scrivono in un comunicato diffuso on line - Perché l'intervento sul tessuto sociale più disagiato, con le problematiche anche gravi annesse, rappresenta una delle ragioni stesse dell'esistenza del centro sociale, fuori dalle logiche assistenziali e di carità, che negli anni ha prodotto centinaia di iniziative di denuncia e di lotta per i diritti di tutti, ma anche di solidarietà concreta». Non solo immigrati, rom o rifugiati. Vent'anni fa, dopo l'uccisione di Auro Bruni, attivista del centro sociale Corto Circuito, morto in un rogo appiccato da estremisti di destra, i militanti romani fecero una scelta ben precisa: lavorare soprattutto nel proprio territorio; nel caso di San Lorenzo in un quartiere proletario che allora non era ancora il divertificio smodato e a tratti ributtante che è oggi.

La «gentrification» era solo agli inizi, la camorra non aveva ancora interessi locali, la legge Fini-Giovanardi sulle droghe non esisteva, mentre oggi è tra quelle vie che si possono misurare gli effetti nefasti di un mercato senza scrupoli e uno spaccio senza separazioni tra sostanze leggere e droghe pesanti. Solo più tardi la legge Bossi-Fini relegherà all'ultimo gradino della scala sociale profughi e immigrati, senza via di fuga. La sfida allora era soprattutto quella di sottrarre i giovani borgatari alle organizzazioni neofasciste, alle curve ideologizzate dall'estrema destra, allo spaccio, alle palestre «nere». «Non a caso decidemmo di ripartire dai corpi - racconta Rino Fabiano, consigliere comunale di Action nel III Municipio - aprimmo una palestra popolare nel quartiere che fu la prima di una serie di iniziative di questo tipo e che oggi raccoglie giovani di qualunque provenienza etnica e culturale, perfino giovani fascistelli».

«Ci assumiamo la responsabilità che ci compete», ammettono nel comunicato dopo l'aggressione razzista. Ma prima di tirare le somme e di verificare fallimenti e errori, vale la pena approfondire il contesto. All'angolo tra Via dei Volsci e via degli Equi, fino a qualche anno fa c'era una sede della tifoseria romanista dove campeggiava una grande croce celtica. Ma i militanti del «32» riuscirono a intessere rapporti personali con gli ultrà di destra, neutralizzandone di fatto l'aggressività. Oggi San Lorenzo, inglobato nel centro storico capitolino, è però uno strano quartiere, che soffre di un degrado culturale forse peggiore di quello precedente alla gentrificazione. Qui, a differenza di Harlem o di Berlino, non c'è stata alcuna integrazione tra i tanti benestanti - artisti, professionisti, universitari - che vi sono trasferiti e i poveri locali, che pure resistono in alcune enclave. Le narcomafie, con la loro manovalanza locale immigrata e italiana, la fanno ormai da padrone. La spartizione delle piazze garantisce la pax mafiosa. Difficile, se non impossibile, oggi, tenere fede a quella regola ferrea che voleva spacciatori e droghe pesanti fuori dal «32» e da via dei Volsci. «Non l'abbiamo mica inventata noi Scampia, dove una dose di eroina o di cocaina costa pochi euro di più di una di marjuana - dice Nunzio D'Erme - E Scampia ora è arrivata fino qui».

Dunque, «l'idea che il lavoro politico sul territorio produca luoghi immuni alla violenza, al razzismo o al sessismo è una favola che non ci possiamo raccontare», fa notare Rino Fabiano. «Quello che è successo qui l'altro giorno accade purtroppo con frequenza nei condomini di case occupate. Stiamo parlando di persone che hanno conosciuto i riformatori giovanili o la galera, la violenza in famiglia o l'eroina». Ma a volte succede anche nelle palestre o nelle iniziative politiche, dovunque si intercetti il disagio delle periferie, ovunque si tenti di introdurre elementi di novità culturale in contesti proletari e marginali. Può succedere perfino in una partita di calcetto amatoriale tra squadre di diverse etnie, raccontano Fabiano e Nunzio D'Erme, seduti a ora di pranzo ad un tavolo del centro sociale insieme ad alcuni dei militanti del «32», prima di correre al lavoro. D'altronde, loro stessi sono «figli della strada». Rivendicano però con orgoglio, malgrado tutto - «malgrado il mercato, la spoliazione dei diritti e della cultura popolare» - le tante lotte di cui sono stati protagonisti e che senza il loro «controllo del territorio» non avrebbero potuto vedere la luce: dall'asilo nido ai campi estivi fino all'ultima occupazione, quella del Cinema Palazzo, sottratto a interessi speculativi che lo avrebbero voluto trasformare in un casinò. «Non solo antirazzismo di maniera».

Però, se il bicchiere è mezzo pieno, è pur sempre mezzo vuoto: «Se guardiamo ai militanti più giovani, è indubbio comunque un certo fallimento su cui dobbiamo interrogarci», riconoscono. «Oggi - continua Rino - la proposta culturale dei centri sociali è fruibile in qualsiasi locale, non c'è differenza tra chi frequenta un pub qui o al Pigneto e chi frequenta un centro sociale. Il fallimento è non aver cresciuto una nuova generazione politica; bisogna invece ristabilire il primato dell'impegno politico, rigenerare principi e idee, avvicinare le persone che sono alla ricerca di una vita migliore e più giusta». A cominciare dalle droghe, da quella legge Fini-Giovanardi di cui avevano previsto gli effetti ma a cui non hanno saputo far fronte. «Dobbiamo ricominciare a parlare di sostanze, di uso e abuso, senza scadere nel lassismo e nella ideologizzazione della cultura antiproibizionista che a volte degenera in esaltazione», conferma Nunzio.

«L'autogestione non è la panacea di tutti i mali - continua l'ex consigliere comunale - porta con sé i limiti e le contraddizioni dell'intera società». Senza dubbio, il loro lavoro «soffre di solitudine». Politica e culturale. Ma prendere atto del fallimento è già ricominciare. «È successo a tutti i movimenti di avanguardia, anche alle Black Panther, di accorgersi che a lavorare nella merda, la merda ti può fagocitare», commenta un giovane scrittore emergente molto vicino al «32» che non cerca protagonismi. Da discutere, però hanno ragione quando dicono che la storia del «32» non è molto differente da quella di altre esperienze della sinistra. «Se veniamo sconfitti noi, venite travolti tutti».

Paul Connett a San Lorenzo

«Nella città che cambia sempre più velocemente, dove gli effetti del malgoverno cittadino si sommano alle ordinarie dinamiche sociali di sfruttamento e alienazione, cambiano altrettanto velocemente le reti di relazione e il tessuto sociale delle comunità e dei singoli quartieri. In Via dei Volsci troppe attività hanno chiuso e quelle rimaste, a fronte di quotidiane difficoltà economiche e inutili vessazioni amministrative, conservano elementi di qualità nella proposta e di correttezza non formale nei rapporti di lavoro che ci spingono verso la loro tutela e salvaguardia». Per questo lo Spazio sociale Ondarossa Trentadue ha indetto una giornata di discussione. Mentre, per discutere un piano rifiuti adeguato alla città, l'appuntamento è per sabato 29 settembre presso la scuola Saffi di via dei Sabelli. Interverranno, tra gli altri, il presidente del municipio Roma 3, Dario Marcucci, e Paul Connett, docente della St. Lawrence University di New York.

Nel quartiere della fabbrica dei sogni

di Ylenia Sina

Fermare i licenziamenti, la speculazione ai danni del territorio e i tagli ai servizi sociali. Con queste idee ieri pomeriggio almeno mille e cinquecento persone hanno manifestato per le strade del Decimo Municipio di Roma. Dai lavoratori alle prese con delocalizzazioni, cassa integrazione e licenziamenti alle cooperative sociali, dai precari della scuola alle insegnanti dei nidi fino ad arrivare alle realtà sociali del territorio sostenute dall'amministrazione municipale rappresentata da Sandro Medici, il presidente che ha camminato a fianco dei manifestanti con la fascia da minisindaco.

Sono queste le diverse espressioni che hanno animato la giornata di "sciopero cittadino del X Municipio", con le adesioni di sindacati (Cgil, Camera del lavoro Roma Sud, Fiom, Unione sindacale di base e Cobas a cui si aggiungono le Rsu delle aziende locali) e una parte del mondo politico attivo nei circoli del territorio (Pd, Ecodem, Sel e Fds). «La scommessa è quella di declinare le questioni lavorative come elementi inseriti all'interno di un territorio che da un lato viene coinvolto e travolto da quanto accade al suo tessuto produttivo e dall'altro è sempre più indebolito dai tagli alla spesa sociale e dalla speculazione» spiega Cristiana Cortesi, consigliere municipale di Roma in Action.

La giornata di «sciopero territoriale» inizia la mattina con un'azione davanti alla Deutsche Bank, chiusa simbolicamente «contro il potere delle banche nel definire i destini dei nostri territori». Anche se l'appuntamento del pomeriggio è alle 17.30, due ore prima i manifestanti già iniziano a radunarsi in Piazza di Cinecittà, davanti alla sede del X Municipio, a ridosso di via Tuscolana. Ci sono le insegnanti dei nidi che denunciano «continui tagli che peggiorano condizioni di lavoro e il servizio alle famiglie». La Rete Roma Social pride e gli operatori delle cooperative sociali, alcune delle quali, fin dalla mattina hanno protestato «con uno sciopero bianco: abbiamo lavorato per un quarto d'ora in più» racconta un'operatrice che si occupa di assistenza agli anziani. Ci sono i precari della scuola che mercoledì sera hanno «occupato simbolicamente» la sede del municipio «non per opporci a questa amministrazione ma per chiedere di esprimere una posizione di netta contrarietà rispetto al concorso indetto dal ministro Profumo».

Quando i lavoratori di Cinecittà Studios, che proprio in questi giorni toccano da vicino l'avvio del piano industriale di «spacchettamento e delocalizzazione in diverse società» del presidente Luigi Abete, si uniscono ai manifestanti con un corteo nutrito e rumoroso, vengono accolti da un caloroso applauso. Per loro, dopo oltre tre mesi di occupazione e sciopero, proprio oggi «ci sarà un incontro tra la proprietà e i sindacati, motivo per cui abbiamo sospeso lo sciopero». Ci sono loro, i lavoratori degli studi cinematografici , quelli del call center di Almaviva al «nostro primo giorno di cassa integrazione avviata per 632 lavoratori perché l'azienda si sposta in Calabria» come spiega Andrea. Il corteo cammina su via Tuscolana (una delle principali arterie stradali della città). Il traffico si blocca, ma al passaggio dei manifestanti i balconi dei palazzoni da otto piani che chiudono ai lati la via, si riempiono di gente che ascolta e applaude alle parole che escono dalgli altorpalanti. E così accade per il resto del tragitto che continua all'interno del quartiere, fino alla conclusione in quella via Lamaro «che su un lato ha il muro della Fabbrica dei sogni romana e sull'altro la sede del call center di Almaviva». E proprio qui, quando ormai si è fatto buio, la manifestazione termina e inizia un'assemblea pubblica.

Chi da piazza Cavour vada per via Palestro in corso Venezia, vedrà di fronte un palazzo con un grande colonnato e sul cornicione una schiera di statue: è il palazzo progettato verso il 1812 da Giovanni Perego per l'allora sovrintendente della Scala, il Barbaja, l'inventore dellabarbajata, la cioccolata con la panna ormai dimenticata. Il palazzo del Perego, ispirato dal palazzo Chiericati a Vicenza e dal colonnato del Louvre, verrà considerato un vero scandalo architettonico, perché i milanesi erano affezionati alle facciate delicate del Piermarini — palazzo Reale e la stessa Scala — dove le colonne sporgono dal muro soltanto per metà, tagliate verticalmente in due.

Quello scandalo nessuno lo ricorda: il fatto è che il fascino della città europea consiste anche nella libertà espressiva di ogni cittadino nella facciata della propria casa, ed è la loro varietà ad incuriosirci, e dunque il progetto di Herzog de Meuron sul viale Pasubio — e la sua estensione simmetrica in viale Montello — con la facciata inclinata come un tetto spiovente per parecchi piani, così evidente imitazione delle case nordeuropee tuttora caratteristiche del paesaggio di Strasburgo, farà forse scandalo ora ma nessuno ci farà più caso di qui a qualche anno.

Tuttavia un guaio c'è. Quando nel tardo Ottocento al posto delle mura costruite tre secoli prima in tutte le città europee sono stati tracciati ampi boulevard, all'incrocio con le strade più importanti che venivano dal centro, dove c'erano spesso porte e archi trionfali o caselli daziari, sono state progettate piazze che ne esaltavano la presenza — quando ancora esistevano — o quanto meno ne sottolineavano la memoria: nella vicina porta Garibaldi l'arco sta al centro di una vera piazza, con il teatro Smeraldo a renderla solenne, mentre a Porta Venezia i caselli restano isolati all'incrocio dei due boulevard: chiunque, se volesse percorrere l'intera cerchia di quei boulevard, non farebbe fatica a riconoscere sempre l'ambizione di sottolineare le antiche porte.

A Porta Volta invece nel progetto oggi sul tappeto attorno ai due caselli daziari non c'è né la continuità dei boulevard né una piazza costituita da due facciate progettate per dar loro un quadro nobile ma soltanto l'esito dai due risvolti dei lunghi fabbricati su via Pasubio e su via Montello: in sostanza nella buona pratica seguita finora in questa città consisteva nel progettare prima di tutto la piazza e in seguito lascare ai privati di costruire liberamente lungo le strade dietro agli edifici progettati per fare una bella piazza, mentre qui i privati hanno progettato per prima cosa i loro edifici e la piazza è il risultato secondario dei loro risvolti: e si vede proprio. Ma ormai questo è soltanto uno dei sintomi della modestia di una prassi urbanistica che affida il disegno della città all'iniziativa dei privati cui delega anche quello che da secoli è il compito del Comune, disegnare il quadro di insieme, fatto dalle piazze e dalle strade che costituiscono la città, un compito di interesse collettivo che non può venire delegato a i privati.

Napoli:la strada in salita per la partecipazione

I mass media napoletani hanno battuto la grancassa per sponsorizzare il sesto World Urban Forum, megaconvegno internazionale promosso dall’ONU per analizzare problemi e opportunità dello sviluppo urbano, che si terrà a Napoli dal 1 al 7 settembre. Nessuno spazio è stato invece dedicato a un altro convegno internazionale sulle questioni urbane, anch’esso ospitato a Napoli negli stessi giorni. Il Forum Sociale Urbano (il cui programma è consultabile all’indirizzo web del FSU), organizzato da reti, associazioni e movimenti che lottano a livello locale, nazionale e internazionale per il diritto alla casa, alla terra, ai beni comuni e alla città, e che si pone in un’ottica popolare e antiliberista, alternativa alle prospettive di mercificazione urbana del WUF. Durante la giornata del 5 settembre, dedicata alla difesa delle risorse (acqua, mare, suoli e spiagge), si è svolto un incontro sul diritto alle spiagge, dove cittadini e movimenti di varie realtà italiane hanno discusso lo stato delle coste tra inquinamento, sfruttamento del lavoro, demanio pubblico, regimi concessori e applicazione della direttiva Bolkestein; nel pomeriggio è stata effettuata una passeggiata pubblica sul litorale di Bagnoli, ex area industriale della città, per indagare opportunità e problemi della sua riqualificazione. Promotore delle due iniziative è il comitato “Una spiaggia per tutti” di Napoli, che sta conducendo un’interessante esperienza di democrazia partecipativa incentrata proprio sul recupero dell’inquinato litorale bagnolese; di essa è utile tracciare qui un primo bilancio, al fine di verificare la possibilità di sviluppare processi di partecipazione popolare alle scelte di governo della nostra città.

Il 3 luglio è stata consegnata al comune di Napoli una proposta di delibera per destinare tutto il litorale di Bagnoli a spiaggia pubblica gratuita, sottoscritta da oltre quattordicimila cittadini napoletani; attualmente attende di essere assegnata al consiglio, il quale è tenuto a discuterla entro novanta giorni. Se la delibera venisse rigettata o non fossero rispettati i tempi di discussione, il comitato potrà chiedere con un supplemento di firme l’indizione di un referendum cittadino consultivo. Il ricorso a questi strumenti partecipativi, che costituisce una novità per Napoli ma non ha evidentemente nulla di “rivoluzionario” (il potere deliberativo non viene trasferito ai cittadini ma resta al consiglio, che decide se e come accogliere i contenuti delle proposte popolari), ha incontrato consistenti ostacoli pratici. La loro rimozione avrebbe richiesto uno sforzo non eccessivo né incongruo da parte dell’attuale amministrazione, che della partecipazione ha fatto una bandiera; questa ha però preferito dare priorità ad architetture partecipative apparentemente più avanzate come le consulte popolari.

Il primo impedimento è costituito proprio dalle norme comunali sugli istituti partecipativi. Il numero di firme necessarie a chiedere il referendum non è fissato univocamente (lo statuto dice ventimila, il regolamento attuativo trentaduemila e cinquecento: rispettivamente, il 2,46% ed il 4% degli elettori napoletani) ed è in ogni caso sproporzionato. Basti pensare che per indire il referendum abrogativo nazionale bastano cinquecentomila firme, ossia l’1,06% del corpo elettorale italiano. Inoltre il tempo massimo per la raccolta delle firme è fissato in sessanta giorni, a fronte dei novanta previsti dalla legge 352/70 per il nazionale. Perché mai l’esercizio di uno strumento consultivo dovrebbe essere sottoposto a limitazioni maggiori di quelle richieste per uno strumento abrogativo? E che senso ha condizionare la validità di un referendum consultivo al raggiungimento di un quorum, come fa il regolamento (oltretutto senza fissarne l’entità, abbandonata alla discrezionalità degli equilibri politici contingenti)? Siamo evidentemente di fronte a limitazioni arbitrarie, poste dalle precedenti amministrazioni comunali, che quella presente non ha ancora corretto. Il consiglio comunale discute da mesi una riforma che dovrebbe sciogliere questi e altri nodi (finora ha istituito il referendum abrogativo ed esteso il voto referendario comunale ai sedicenni), ma nulla assicura che essa arriverà in tempo a garantire lo svolgimento del referendum sulla spiaggia pubblica di Bagnoli, né vi è certezza su come si interverrà su questi punti critici.

Un altro ostacolo è costituito dalle modalità di raccolta delle firme, che escludono il ricorso ai moderni strumenti di certificazione telematica. Questo costringe a scontrarsi da un lato con la burocrazia comunale – che impiega una settimana per autorizzare l’allestimento sulla pubblica via di banchetti di sottoscrizione grandi un metro quadro – dall’altro con la scarsa disponibilità dei soggetti autenticatori (solo cinque consiglieri comunali, un presidente e un vicepresidente di Municipalità hanno accettato di effettuare le operazioni di autentica). Malgrado si sia ottenuto che il sindaco istituisse in ogni municipalità punti di raccolta con funzionari delegati, l’assenza di comunicazione al pubblico ha determinato che sette municipalità restituissero tutti i moduli di raccolta in bianco e le altre tre raccogliessero in tutto sette firme!

La mancanza di un’adeguata informazione è il punto critico della vicenda. Il comitato promotore ha incontrato continue difficoltà sia per comunicare l’iniziativa ai cittadini che nel ricevere informazioni dall’amministrazione comunale. Nessun mass media locale ha seguito adeguatamente la campagna e i pochi spazi ottenuti vanno addebitati perlopiù alla sensibilità dei singoli giornalisti, magari reiteratamente sollecitati. Inoltre è rimasta inevasa la richiesta di poter fruire gratuitamente, a tempo limitato, di alcuni tabelloni comunali per affissioni pubblicitarie. Per quanto riguarda l’interlocuzione con il comune, questa è stata lenta e farraginosa, con ripetute manifestazioni di disponibilità cui non corrispondevano adeguate azioni di sostegno. Malgrado le sollecitazioni, il comitato ha verificato il permanere di comportamenti che ignoravano la necessità di risolvere problemi pratici come quelli descritti, e di essere correttamente informato sull’iter di discussione della delibera. Il sospetto che fosse in atto una strumentalizzazione politica, se non un sabotaggio silenzioso dell’iniziativa, spingeva in agosto lo stesso comitato ad affiggere un manifesto in cui si denunciava l’ambiguità dell’amministrazione. Questa critica sortiva due effetti: da un lato, un gruppo di consiglieri di maggioranza presentava una mozione che impegnava il consiglio a discutere la proposta entro settembre; dall’altro l’assessore alla partecipazione, Lucarelli, replicava sdegnato il suo sostegno all’iniziativa e fustigava il comitato per aver insozzato la città con manifesti abusivi!

L’estate sta finendo, la partita si riapre e speriamo che qualcuno abbia spiegato all’assessore come, in mancanza di bacheche pubbliche per le attività civiche, l’attacchinaggio abusivo sia una dolorosa necessità per chi non disponga di sostegni economici. Verificheremo se il consiglio manterrà gli impegni, evitando rinvii o stravolgimenti della proposta di delibera, che inficerebbero la possibilità di ricorrere al referendum. Nel frattempo rileviamo che, date le condizioni sfavorevoli descritte, il fatto che un comitato composto da cittadini, piccole associazioni e qualche gruppo politico abbia raccolto in due mesi oltre quattordicimila firme autenticate, senza l’appoggio di una grande organizzazione cittadina, testimonia quanta capacità di coinvolgimento possano esercitare le realtà di base quando si mobilitano su temi socialmente sentiti, attivando intorno a sé una più vasta rete di cittadinanza attiva (inclusi alcuni settori della macchina comunale). Ma evidenziamo anche i limiti di ipotetiche rivoluzioni arancioni, laddove manchi la volontà politica di agire con fermezza per superare norme e prassi burocratiche ostili, mettendosi davvero “al servizio del popolo” (per usare ironicamente un termine desueto). Siamo convinti che tale volontà si misuri più col concreto sostegno alle esperienze di autorganizzazione dei cittadini che nella costruzione di astratte architetture partecipative.

(Tutte le informazioni sulle attività del comitato so disponibili nel sito una spiaggia per tutti

In questi giorni parecchi trafiletti di stampa nazionale riferiscono di una curiosa ma non certo clamorosa crisi di un’amministrazione locale, determinata da motivi per così dire sentimentali. Succede che un Sindaco nomini Vice Sindaco la sua amata morosa, e che invece di far passare tutto sotto il solito complice silenzio qualcuno (per altri motivi di bottega presumibilmente) abbia scatenato la polemica. Lo sappiamo tutti come viene gestito spesso e volentieri il potere locale italiota, amministrativo o accademico o altro che sia: c’è il o la brillante carrierista di punta, che si trascina appresso con vari ruoli e visibilità la corte dei miracoli amicale e parentale. E le cosiddette strategie dell’ente – chiacchiere e distintivo per placare i gonzi a parte - si piegano e modellano secondo discrezionalità e solidi interessi della fauna dominante.

Ecco, stavolta pare che la fauna dominante l’habitat della valle dell’Adda, specificamente il territorio comunale di Capriate San Gervasio (Bg), col suo patto di ferro tra fidanzati volesse tendere un agguato all’Umanità tutta, cancellandone in un colpo solo un bel pezzo di patrimonio: quel genere di “Patrimonio dell’Umanità” che tale ente non leghista e non bergamasco, l’ONU ogni tanto riconosce per misteriosi motivi suoi. Il glorioso comune di Capriate comprende nelle propaggini meridionali quel mucchio di mattoni e vecchie ciminiere denominato Crespi d’Adda, che è appunto stato classificato bene di interesse planetario dalle Nazioni Unite, nella stessa seduta in cui si è classificata così anche l’Isola di Pasqua, per capirci. Ma questo fa un baffo all’amministrazione fidanzata, assai più attenta a cose moderne come le giostre, l’autostrada, lo zucchero filato e l’architettura postmoderna. Proprio il genere di cose che sta di fianco al villaggio operaio Crespi d’Adda, e che si chiama parco a tema Minitalia.

Così il fidanzamento si è allargato di soppiatto (the swinging local administrators) al comune accanto, Brembate, con la benedizione della provincia pure a maggioranza verde padana. A suggellare il rapporto aperto, due bei progetti di ambito territoriale uno di fianco all’altro, anche se apparentemente senza nessun rapporto ufficiale, se no qualcuno potrebbe diventare geloso. Uno si chiama Accordo di Programma per la riqualificazione del parco a tema, sostenutissimo anche dalla formigoniana Regione, sempre amica delle costruzioni nelle fasce autostradali. L’altro comincia esattamente sui confini comunali su cui si ferma il precedente, ed è classificato Ambito di Trasformazione nel piano regolatore. Basta però accostare le mappe per fare due più due: il progettone è esattamente lo stesso, ovvero allargare le giostre (e le tonnellate di cemento complementari, incluso un bel grattacielo) sino a fidanzarsi col villaggio operaio ottocentesco. Ma cosa dico fidanzarsi: avvolgerlo sensualmente tutto, fargli un cappottino amoroso di metri cubi.

La storia, del progetto, con qualche indispensabile particolare in più, l’ho raccontata a suo tempo qui su eddyburg e sul Giornale dell’Architettura, ma certamente le ultime notizie … ehm … politiche locali aprono nuovi ed entusiasmanti orizzonti interpretativi, del resto perfettamente in linea sia con le note saghe familiari lombarde di trote e dintorni, sia con le lontane ma assai affini contemporanee della valle del Tevere. Insomma dobbiamo rilanciare un bello slogan anni ’60, ricordando il povero Scott McKenzie e il suo flower power: fate l’amore, non la politica. Ma fatelo a casa vostra, please, non in sala consiliare!

Puntuale come gli acquazzoni di fine stagione, piove dal governo l’attesa grida che proclama l’imminente salvezza della patria, se solo ci decidiamo a vendere monumenti e segmenti del patrimonio immobiliare pubblico.

Quest’idea di seconda mano si trascina da oltre vent’anni con risultati miserevoli, eppure a ogni crisi spuntano medici improvvisati che promettono all’Italia malata di debito guarigioni miracolose a suon di dismissioni. Comiciò Guido Carli, ministro del Tesoro con Andreotti nel 1991, proponendo una “Immobiliare Italia S.p.A.”, rimasta sulla carta finché il suo fantasma, invecchiato e inacidito, si materializzò dieci anni dopo con la “Patrimonio dello Stato S.p.A.” di Tremonti.

Ma intanto le ipotesi di dismissioni venivano rilanciate quasi a ogni Finanziaria (anche coi governi di centrosinistra): quelle norme confuse e velleitarie costruirono un retroscena di “precedenti” per Berlusconi, che appena insediatosi a Palazzo Chigi nel 2001 rilanciò il tema con la legge 410. In essa si colpiva al cuore l’inalienabilità dei beni demaniali, resi disponibili alla vendita con decreto del ministro dell’Economia.

La “Patrimonio S.p.A.”, col suo sistema di scatole cinesi e “cartolarizzazioni” che innescava la privatizzazione dell’intero demanio e patrimonio pubblico, è stata un fallimento epocale (fu lo stesso Tremonti a firmare nel 2011 il certificato di morte), un costoso carrozzone che non ha ridotto di un centesimo il debito pubblico, anzi ha peggiorato il conto patrimoniale dello Stato senza produrre alcun beneficio di lunga durata.

Con l’acqua della crisi alla gola del governo, si susseguono gesti retorici che mediante l’effetto-annuncio spargono foglie di fico sull’assenza di progetti per il futuro. Della stessa natura è l’etichetta bugiarda di spending review, indistinguibile dai famigerati “tagli lineari” (cioè alla cieca) di Tremonti; eppure il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, in un’intervista a questo giornale (5 agosto) ha esortato a «evitare la filosofia dei tagli lineari ».

Come fosse un’impensata fatalità, i tagli del governo si accaniscono invece sulla spesa sociale e sulla cultura, corrodono l’equità, diffondono una cortina di fumo che comprime la crescita, ma la sbandiera come se ci fosse. Ma le politiche di austerità mirate solo a ridurre il debito frenano l’economia, riducono la competitività e fanno lievitare il deficit nel suo rapporto percentuale con un Pil in calo (è un paradosso osservato da George Soros).

Intanto i tagli in nome del debito pubblico danno per scontato che gli sprechi (che ci sono) siano dovuti alla spesa sociale (che non è uno spreco): ecco perché la scure si abbatte su sanità, scuola, previdenza, cultura. Si occulta invece una scomoda verità: l’accumulo del debito pubblico è aggravato dal debito di banche e imprese, regolarmente ripianato da interventi degli Stati (37% del Pil in Europa a fine 2011, secondo dati Bankitalia). I paladini della deregulation neo-liberista, quando i loro buchi di bilancio diventano voragini, si tramutano sull’istante in neokeynesiani, invocano l’intervento dello Stato e con subita metamorfosi il debito privato diventa debito pubblico, e i cittadini vengono borseggiati. Non solo: dopo essersi mostrati incapaci di amministrare se stessi, banche e mercati si sostituiscono ai governi, colpendo al cuore i principi della democrazia.

Questo processo è ancor più feroce in Italia, perché si aggancia alla cancrena dell’evasione fiscale, nostro non invidiabile primato. Il presidente Monti ha il merito di aver infranto su questo tema la congiura del silenzio di cui furono complici destra e sinistra; tuttavia, non ha (ancora?) lanciato misure commisurate alle gigantesche dimensioni del problema: 142,47 miliardi di tasse non pagate nel 2011, 154 la proiezione per il 2012 (dati Confcommercio). Gli introiti fiscali sono stati irresponsabilmente frenati distribuendo iniquamente la pressione tributaria, massima sui percettori di reddito fisso e quasi opzionale su tutti gli altri, per non dire di sconti, deroghe e condoni. I mancati introiti impediscono di risanare il debito, accrescendolo nel tempo coi relativi interessi e facendo gravare sui più deboli anche i contributi di Stato a copertura delle perdite bancarie. Solo rimuovendo cinicamente dalla scena l’evasione fiscale e i suoi effetti si può sostenere che le dismissioni delle proprietà pubbliche e i tagli alla spesa sociale siano le sole leve disponibili per ridurre il debito.

La dismissione di beni demaniali non è solo inefficace, è anche incostituzionale. La proprietà pubblica è infatti attributo necessario della sovranità, che spetta al popolo (art. 1 Cost.). Demanio, beni pubblici, beni comuni e beni culturali sono, nel disegno della Costituzione, beni essenziali a garanzia dell’esercizio dei diritti civili e degli interessi collettivi (libertà, salute, democrazia, cultura, eguaglianza, lavoro). Sono, come ha scritto la Commissione Rodotà, «funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona». Diritti dei cittadini e beni economici che ne sono la garanzia fattuale si stringono in un solo nodo: vendere le proprietà pubbliche e comprimere i diritti sono due facce della stessa medaglia. In questa corsa al peggio, la farsa del federalismo demaniale si segnala, secondo Paolo Maddalena (giudice emerito della Corte costituzionale), per la violazione di nove articoli della Costituzione, ma anche del principio di «equa ripartizione dei beni fra tutti i cittadini, ispirato ai criteri dell’utilità generale e del preminente interesse pubblico».

Su questo banco di prova il governo Monti si è mostrato finora inadeguato alla sfida. A una stanca retorica dello sviluppo (che secondo Passera coincide con grandi opere, piattaforme petrolifere a un passo dalla costa e massicce cementificazioni) non ha saputo sostituire un progetto di crescita produttiva del Paese.

Ha lanciato un’ottima legge sui suoli agricoli (proposta dal ministro Catania), ma senza darle l’assoluta priorità che sarebbe necessaria, accelerando intanto i tempi di approvazione della pessima norma sugli stadi, col suo enorme spreco di suoli e di risorse pubbliche per basse operazioni immobiliari (la Repubblica, 17 maggio).

Intanto il ministro dell’Ambiente Clini sponsorizza l’orrido grattacielo di Pierre Cardin che sfregerà per sempre Venezia, e il ministro dei Beni culturali Ornaghi coltiva un attonito silenzio. Di fronte all’incerto futuro del Paese, non è accettabile che di ambiente si parli solo per promuoverne le devastazioni, di patrimonio solo per svenderlo.

Se i suoi ministri non sanno elaborare un’idea degna del Paese e della sua Costituzione, possiamo aspettarci che il presidente Monti si impegni in prima persona, ci dica quale è la sua?

Ornaghi e il Consiglio dei Beni culturali: “a sua immagine lo creò”

Tomaso Montanari – blog su Il Fatto quotidiano online

Lorenzo Ornaghi – uno scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese – diventa ministro per i Beni culturali in un governo tecnico. Quando il suo governo tecnico taglia i consulenti tecnici di quel ministero eminentemente tecnico, cosa fa quel ministro scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese? Tace.

Alcuni di quei consulenti tagliati avrebbero dovuto comporre il Consiglio Superiore dei Beni culturali: un organo importante, che avrebbe dovuto guidare il ministro scienziato della politica in un territorio che non conosce. Ma il ministro scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese non si perde d’animo. E nomina l’altra metà del Consiglio.

E chi nomina, quel ministro scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese? Nomina:

1) Una professoressa emerita di Scienze politiche (Gloria Pirzio Ammassari);

2) il rettore dell’università di Milano (lo storico contemporaneo Enrico Decleva);

3) il rettore di un’università privata, il Suor Orsola Benincasa di Napoli (il filosofo del diritto Francesco De Sanctis: no, non quello…);

4) il preside della facoltà di Psicologia dell’università Cattolica (Albino Claudio Bosio, docente di Piscologia del marketing: proprio quel che ci vuole per ‘valorizzare’ il nostro patrimonio!), di cui egli stesso è rettore.

Infine, nomina anche uno storico dell’arte: e meno male, direte voi. Sì, ma quello storico dell’arte (Antonio Paolucci) è anche il direttore dei Musei Vaticani: un dipendente di un altro Stato, e uno che ha nel curriculum delizie come l’idea di far acquistare allo Stato (quello italiano, ovviamente: i preti col cavolo che li freghi) il finto crocifisso di Michelangelo, o quella di regalare alla Curia di Firenze diciassette miliardi di vecchie lire per una collezione d’arte che era già vincolata alla pubblica fruizione.

La tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio della nazione è da oggi affidata a queste salde competenze, a questa eletta meritocrazia, a questa magnifica succursale della conferenza dei rettori, a questo piissimo stuolo di accademici milanesi. A questo punto, Ornaghi può dimettersi dalla carica di rettore della Cattolica: se l’è portata tutta a Roma, non gli mancherà.

Doveva esserci un punto dell’Agenda Monti che mi era sfuggito: ‘Risolvere il problema del patrimonio artistico. Per sempre’.

Fatto.

Psicologi e filosofi i “tecnici” di Ornaghi

Francesco Erbani – la Repubblica

Un filosofo del diritto. Uno psicologo. Uno storico. Una politologa. Infine, uno storico dell’arte. Sono i nuovi componenti del Consiglio superiore per i Beni culturali e paesaggistici. Li ha nominati il ministro Lorenzo Ornaghi. Saranno loro, in quanto membri del massimo organo di consulenza tecnico-scientifica del ministero, a fornire pareri sulla tutela del patrimonio, sulla sua valorizzazione, sui piani paesaggistici. E su tante altre materie che riguardano musei, siti archeologici, centri storici... Nessuno di loro, salvo Antonio Paolucci, ex soprintendente, membro del Consiglio in passato e ora direttore dei Musei Vaticani, museo di un paese che non è l’Italia, ha competenza specifica e profonda sulla materia. Un organo tecnico, dunque, formato da tecnici di altre discipline.

Il presidente, il cui nome era già noto, è Francesco De Sanctis, filosofo del diritto e rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa.

Lo psicologo è Albino Claudio Bosio, professore di Psicologia del marketing e anche preside della Facoltà di Psicologia della Cattolica di Milano (di cui Ornaghi è stato rettore: sono solo di questi giorni le sue dimissioni).

Lo storico è un altro rettore, però della Statale di Milano, Enrico Decleva, mentre la politologa è Gloria Pirzio Ammassari, che alla Sapienza di Roma insegna Fenomeni politici. A loro si affiancano altri tre membri. Ma questi nomi sono usciti dal cilindro delle Regioni, dei Comuni e delle Province. E le cose cambiano. SoLo un archeologo di grande esperienza, come Giuliano Volpe, uno storico dell’architettura (Luca Molinari) e una storica dell’arte (Francesca Cappelletti). Ornaghi ha invece preferito pescare in tutt’altri settori disciplinari. Accademici illustri, studiosi che vantano ampie bibliografie, ma, tranne Paolucci, nessuno di loro può esibire altrettanta competenza in materia di tutela del patrimonio.

Al ministero spiegano che Ornaghi ha voluto rinnovare e aprire ad altri ambiti della cultura. E che contava sulla competenza dei presidenti dei comitati di settore (uno per l’architettura, uno per l’archeologia, la storia dell’arte, ecc.), membri del Consiglio e da lui già nominati (sulla base, però, di designazioni fatte da altri). Ma i comitati sono stati tagliati dalla spending review, per cui Ornaghi si è trovato spiazzato ed ha sollevato la questione in Consiglio dei ministri. Ma finora senza conseguenze.

Il Consiglio è stato sempre formato da storici dell’arte, architetti, archeologi, economisti della cultura. Quello scaduto alcuni mesi fa era presieduto dall’archeologo Andrea Carandini e, prima di lui, dallo storico dell’arte e dell’archeologia Salvatore Settis. Fra i presidenti del passato spicca il critico Federico Zeri. Nel 2007 l’allora ministro Rutelli nominò, insieme a Settis, Cesare De Seta, Andrea Emiliani, Paolucci e Andreina Ricci. E persino Sandro Bondi, quando Settis si dimise, denunciando tagli massacranti, e con lui se ne andarono De Seta, Emiliani e Ricci, incaricò due archeologi (una dei quali Francesca Ghedini, sorella dell’avvocato Niccolò) e uno storico dell’architettura. Non così, invece, il tecnico Ornaghi.

Il nostro appello di qualche settimana contro la privatizzazione per decreto economico della Pinacoteca statale di Brera ha ricevuto centinaia di adesioni. In testa ci sono i responsabili di alcuni grandi musei e istituti stranieri, a cominciare dal conservateur en chef du Louvre, Catherine Loisel, dal direttore per la parte antica della National Gallery di Washington, Jonathan Bober, da Jennifer Montagu del Warburg Institute. Con loro, tanti direttori di grandi musei italiani: Matteo Ceriana dell’Accademia di Venezia, Anna Coliva della Galleria Borghese, Anna Lo Bianco di Palazzo Barberini, Rita Paris del Museo Archeologico nazionale di Roma, Maria Grazia Bernardini di Castel Sant’Angelo, Luisa Ciammitti della Pinacoteca di Palazzo dei Diamanti di Ferrara, Mariolina Olivari dei Musei Civici Pavia e Castello di Vigevano, ecc., il segretario generale regionale dei BC del Molise, Gino Famiglietti, la responsabile dell’Assotecnici del Ministero, Irene Berlingò, storici dell’arte, museografi, archeologi di alto livello, Licia Borrelli Vlad, Salvatore Settis, Andrea Emiliani, Antonio Pinelli, Piero Guzzo, Mario Torelli, Carlo Pavolini, editori come Rosellina Archinto, Giovanna Pesci Enriques e Mario Curia, il più volte ministro Giovanni Pieraccini, fondatore di “Roma Europa”, storici e scrittori, Carlo Ginzburg, Piero Bevilacqua, Alberto Asor Rosa, Corrado Stajano, Jacqueline Risset, Roberta De Monticelli, rappresentanti delle associazioni: Italia Nostra (la fondatrice Desideria Pasolini, Nicola Caracciolo vice-presidente, numerosi consiglieri), “R.Bianchi Bandinelli”, Comitato per la Bellezza, Amici di Cesare Brandi, Eddyburg, Patrimonio Sos, Rete dei Comitati, Mountain’s Wilderness, ecc. Docenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera (Francesca Valli, Flaminio Gualdoni, Ezio Cuoghi e molti altri), magistrati appassionati ai temi dell’arte e del paesaggio come Paolo Maddalena, Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, Gianfranco Amendola, architetti e urbanisti quali Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Sauro Turroni. Centinaia di adesioni qualificate, con tanti stimati dirigenti del MiBAC quando il Ministero aveva ancora una politica e non era ridotto al fantasma di oggi.

Contro il nostro motivato “no” ad una Fondazione Grande Brera di diritto privato nella quale lo Stato, detentore del patrimonio, immobiliare e mobiliare, perde il controllo tecnico-scientifico della gestione che passa a soggetti non ancora identificati (dopo un decreto convertito in legge!), sono volate accuse di “conservatorismo”, ma dietro di esse è rimasta una gran confusione (che senso ha, ad esempio, paragonare il complesso di Brera alla Biennale di Venezia?). Malgrado ciò, il ministro Ornaghi si è già mosso operativamente chiamando i due primi soci (Fondazione Cariplo e Camera di Commercio), parlando di “fondazione di partecipazione”, di organismo “senza fini di lucro privato”. Ma chi può credergli con queste premesse? Il nodo di fondo è infatti la natura della Fondazione “mista”. Può svelarla soltanto uno statuto che chiarisca “chi governa”, “chi comanda”, “in base a quali criteri”.

Il dibattito succeduto alla nostra presa di posizione non ha dunque fornito certezze di sorta sulla privatizzazione. Ha semmai accresciuto dubbi, perplessità, distinguo. Questo è importante. Il nostro fondato timore è che si vada – oggi per Brera, domani per il Maxxi, dopodomani per la Galleria Borghese o per Santa Maria della Scala di Siena – ad una Fondazione all’italiana in cui lo Stato ci mette gli edifici, il patrimonio, una cospicua dote finanziaria, i servizi esistenti, la tradizione, la consolidata attrattiva internazionale, e i privati, con poca spesa, si prendono la gestione, o meglio la parte redditizia della gestione.

Ci viene chiesto cosa proponiamo in alternativa: proponiamo la politica per i beni culturali che vige in ogni Paese civile, non imbarbarito come sembra il nostro, e cioè una Repubblica (Stato, Regioni, Comune, ecc.) in grado di tutelare per davvero il patrimonio storico e artistico e il paesaggio italiano, di destinare fondi correnti e investimenti decorosi quanto certi all’apparato di tutela e di gestione dei suoi beni (e non l’avvilente miseria attuale), di diminuire tasse e imposte ai proprietari di dimore e giardini storici, ai mecenati veri, agli sponsor accrescendo così investimenti, lavori, occupazione e anche ritorno fiscale. Uno Stato, un Ministero, Soprintendenze che rialzano la testa, riacquistano dignità, privilegiando merito e competenza. Musei pubblici che puntano su didattica di massa, ricerca, rapporto con città e territori, mostre di qualità e di riproposta e non ambiscono ad essere emporii, luna-park del consumo più o meno artistico. Su tutto ciò è importante discutere e il senso della nostra lettera è anche questo: non si possono assumere decisioni tanto importanti in chiave soltanto economicistica senza aver discusso a fondo i problemi strategici posti nel terzo millennio da un grande museo statale da anni in sofferenza come Brera il cui rilancio riteniamo indifferibile.

Vi riproponiamo di seguito il testo della lettera rivolta al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al presidente del Consiglio, Mario Monti e al ministro per i Beni e le Attività culturali, Lorenzo Ornaghi e ad essa alleghiamo l’elenco completo dei firmatari.

Gentile presidente della Repubblica, Gentile presidente del Consiglio, Gentile ministro per i Beni culturali,

leggendo con più attenzione il decreto, poi disegno di legge, sullo sviluppo approvato nei giorni scorsi, abbiamo amaramente constatato che all’art. 8 del medesimo è stato inserito un provvedimento che con lo sviluppo ha ben poco a che fare e che invece apre un varco, a nostro avviso decisivo, in direzione della trasformazione dei grandi musei italiani da pubblici a Fondazioni di diritto privato, con tutte le implicazioni che ciò comporta. Si stabilisce infatti la creazione della “Grande Brera” quale Fondazione privata incaricata di gestire la Pinacoteca Nazionale di Brera e i suoi beni, mobili e immobili.

Anzitutto notiamo che, nel “concerto” ministeriale predisposto per questo importante disegno di legge governativo, non figura il ministro competente per i Beni culturali il cui apporto (e ciò è gravissimo) viene giudicato palesemente inessenziale.

In secondo luogo l’art. 8 del decreto-legge n.83 del 22.6.12 ora convertito in legge, conferisce ad una Fondazione di diritto privato l’intera collezione di Brera, stratificatasi in due secoli, il grande immobile che la ospita (dal quale l’ex commissario Resca ha provveduto a sloggiare l’Accademia di Belle Arti antecedente alla Pinacoteca), nonché ulteriori beni mobili e immobili. E’ pienamente costituzionale un simile trasferimento? Rappresenta davvero una prosecuzione della tutela garantita dall’art. 9 della Costituzione al patrimonio storico-artistico? O non apre al contrario, da apripista, una fase del tutto nuova con l’ingresso di soci privati in un grande museo statale? Dopo la Grande Brera privatizzata, sarà più facile avere i Grandi Uffizi privatizzati o la Galleria Borghese, gli Archeologici di Napoli e di Taranto.

Fra l’altro nell’ultimo comma dell’art. 8 della legge Passera (Ornaghi assente) si dice che “la Fondazione può avvalersi di personale appartenente ai ruoli del Ministero per i beni e le attività culturali e degli enti territoriali che abbiano acquisito la qualità di soci promotori”. Può avvalersi: dunque può ancora non avvalersene, può essere tagliato in ogni momento il cordone ombelicale che lega da sempre questa Pinacoteca Nazionale al Ministero specificamente incaricato della tutela e al personale tecnico-scientifico che esso seleziona.

Il fine generale è quello di una “gestione secondo criteri di efficienza economica”. Il che, se ci consente, rappresenta uno schiaffo ai direttori dei grandi musei nazionali i quali stanno da mesi compiendo sforzi eroici per tenere aperte, vive e vitali tali istituzioni dovendo lottare con fondi ridotti al lumicino (negli ultimi dodici anni il bilancio ministeriale è crollato da 2,5 a 1,5 miliardi. Altro che “efficienza economica”. Questi valorosi servitori dello Stato e i loro predecessori hanno creato musei ammirati in tutto il mondo ed ora sono costretti ad una gestione non “secondo criteri di efficienza economica”, bensì in condizioni di umiliante sopravvivenza (i loro stipendi variano fra i 1700 e i 1900 euro netti). Una “economia di guerra” che minaccia lo sviluppo dello stesso turismo culturale, il solo in crescita, con pericoli continui di chiusure parziali o totali, con la riduzione o l’annullamento delle attività didattiche, per giovani e giovanissimi, e di quelle di ricerca ben più importanti culturalmente di altre attività prettamente “commerciali”.

Perché non si è discusso questa operazione-Grande Brera alla luce del sole? Perché si è esclusa da essa il Ministero per i Beni e le Attività culturali? Perché si è infilato un provvedimento di questa portata quasi nelle pieghe di un decretone per lo sviluppo? Eppure si tratta di una operazione che apre la strada, chiarissimamente, alla privatizzazione dei maggiori musei italiani, già tentata nel recente passato, lontana dai grandi modelli italiani ed europei, e che ora si fa passare nel fragoroso silenzio degli organi di informazione, della maggioranza degli intellettuali italiani e degli addetti ai lavori. Spettacolo avvilente rispetto alla reazione riservata anni fa ad una proposta, forse più ingenua, ma certamente più chiara e lineare, di privatizzazione avanzata dall’allora ministro Giuliano Urbani. In questo caso il ministro competente non c’è, non sente, non vede. Ci pensa il collega dello Sviluppo. Anche l’Arte è più che mai una merce. C’è ancora qualcuno che voglia discutere in positivo nel nostro Paese senza facili populismi, ma con serietà e rigore culturale?

Vittorio Emiliani, Maria Pia Guermandi, Tomaso Montanari (promotori)

Torna il rischio di una nuova colata di cemento sul verde lombardo. L’assessore regionale ai Trasporti ciellino Raffaele Cattaneo è infatti pronto a dare ai concessionari di autostrade i diritti per costruire immobili anche ai bordi delle stesse. Cioè nelle aree finora protette dalle cosiddette "salvaguardie", e riducendo contemporaneamente gli oneri di compensazione a favore degli enti locali. L’opposizione di centrosinistra e le associazioni ambientaliste annunciano battaglia oggi in Commissione Territorio. L’emendamento 4 ter all’articolo due del progetto di legge 146 presentato dall’assessore Cattaneo parla chiaro: la deroga ai vincoli di salvaguardia si «applicherà anche agli interventi infrastrutturali su cui sono già stato apposti i vincoli». In altre parole, anche ai progetti già in fase di esecuzione. Come la nuova autostrada Broni-Mortara e Cremona-Mantova.

O la nuova Tangenziale Esterna Est. Opere che saranno realizzate in aree già molto edificate. La maggioranza di centrodestra conta di approvare le modifiche già nella seduta di oggi per portarlo in Consiglio regionale alla prossima seduta martedì 25. Si tratta del terzo tentativo dopo i due falliti. La prima volta quando la Regione cercò di inserire la modifica nella nuova legge urbanistica. La seconda un anno fa, quando l’articolo 36 della legge Cresci Lombardia, che ampliava i contenuti delle concessioni autostradali per coprire i costi delle opere, fu stralciato a furor di popolo dopo le proteste del centrosinistra e l’allarme lanciato da Legambiente.

«C’è il rischio che la Regione, pur di far costruire autostrade inutili che nemmeno più le banche vogliono finanziare, favorisca gli speculatori edilizi - denuncia il presidente lombardo di Legambiente Damiano Di Simine - Se passa questa legge il rischio è che le rampe delle autostrade diventino l’accesso a grandi lottizzazioni che consumeranno altro suolo».Il consigliere regionale del Pd Franco Mirabelli annuncia che il suo partito farà le barricate. «La cosa più grave - attacca - è che con il nuovo testo la Regione si arroga di decidere di dare la possibilità di costruire anche in prossimità degli svincoli autostradali». Secondo la Regione, invece, l’obiettivo della legge è solo «di «favorire il concessionario dell’autostrada che affronta onerosi investimenti per la realizzazione dell’opera».

postilla

Per capire cos’hanno in mente i poco fantasiosi proponenti di questa “norma strisciante” (nel senso che lavora sulle strisce autostradali) non c’è bisogno di ragionare troppo: basta riguardarsi qualche mappa del rapporto Urban Sprawl in Europe: the Ignored Challenge (2006) e vedere come già spontaneamente l’insediamento di varie attività impropriamente definite urbane si vada a collocare di fianco alle infrastrutture. I nostri eroi vogliono solo dare un ben assestato aiutino alla naturale tendenza degli spiriti animali dell’imprenditoria locale. Quella che chiede sussidi per realizzare capannoni da lasciar vuoti perché già impegnata a chiedere nuovi sussidi per nuovi scatoloni altrove … In tutto il mondo civile si discute di sostenibilità, tutela delle superfici agricole e naturali, mobilità dolce, e invece chi si dichiara pronto a una specie di secessione per diventare il terzo o quarto motorino di sviluppo europeo, con la cosiddetta Macroregione, ci offre questa prospettiva. Ovvero muratori magari in nero, speculatori, giochetti per aggirare le poche norme ambientali, e sopra tutto la grande regia (come certificato dalla magistratura) della criminalità organizzata. Stiamo freschi. Mandiamoli a lavorare (f.b.)

L’ultima vicenda delle città in vendita spetta a Firenze. Appena si scende dalla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella per andare verso il centro storico si passa per la piccola piazza dell’Unità d’Italia. Vi affacciano due alberghi di livello, lo storico Baglioni e il Majestic. Dalle loro finestre c’è la vista meravigliosa sul campanile e sul transetto di S. Maria. Il panorama dall’ultimo piano è – ovviamente – unico e straordinario: figuriamoci quale livello di bellezza ed esclusività si potrebbe raggiungere soprelevando gli edifici esistenti.

E quì entrano in gioco le regole e le città in vendita. Siamo nel centro storico di Firenze, uno dei più straordinari esempi della storia delle città e le regole parlano chiaro: gli edifici esistenti non possono superare l’altezza di venti metri. Quando l’hotel Baglioni chiese di poter soprelevare oltre il consentito l’ultimo piano dell’edificio per ricavarne un ancor più meraviglioso roof garden, quelle regole urbanistiche vennero invocate dalla commissione edilizia comunale che bocciò inevitabilmente la proposta. Era il 7 luglio 2011.

Ma siamo il paese dove le regole vengono aggiustate in relazione alle esigenze di chi esercita il potere e si mette in moto la potente macchina dei legulei. Nella normativa del comune di Firenze esiste un’unica eccezione: le strutture pubbliche possono – ovviamente in casi di assoluta necessità – chiedere di derogare dal divieto di soprelevazione. Ma un albergo è una struttura privata e non potrebbe avvalersi di quella possibilità. Occorre che sia “assimilata” a una struttura pubblica, e cioè che venga giudicata di pubblica utilità.

Il 26 luglio 2012 – poco tempo fa e la vicenda ha avuto eco solo per la denuncia della consigliera comunale Ornella De Zordo da sempre in prima fila nella difesa della città – una nuova riunione della commissione edilizia approva la sopraelevazione. Il trionfo dell’economia senza regole prosegue senza alcun ripensamento: a chi investe, specie in un momento di crisi economica, deve essere consentito tutto, anche di alterare il cento storico di Firenze.

C’è da chiedersi come sia possibile che chi ha espresso il parere positivo non si sia reso conto che l’eccezione approvata per il Baglioni potrà essere invocata dalla decine e decine di alberghi esistenti a Firenze, ad iniziare dall’adiacente Majestic oggi caratterizzato da un’altezza inferiore al Baglioni. Dovrebbe essere chiaro a tutti che le regole valgono fintanto che le amministrazioni pubbliche hanno la capacità di farle rispettare. Se sono proprio quelle istituzioni ad aggirarle si mette inevitabilmente in moto un processo dagli esiti imprevedibili.

Un’ultima questione. L’hotel Baglioni ha messo sul piatto della bilancia 20 mila euro (un modesto obolo) “per riqualificare la piazza”. La morale accettata dal comune di Firenze è dunque questa: siccome non ho risorse per rendere più bella e più vivibile la città, accetto che venga alterata la sua memoria storica perché posso averne in cambio soldi per finanziare opere pubbliche! E pensare che negli anni ’80 l’Italia era un fulgido esempio nel mondo per le regole che tutelavano i centri storici.

Ora c’è una sola via di uscita. Il sindaco Matteo Renzi potrebbe trovare un piccolo ritaglio di tempo nella sua nuova attività di candidato alle primarie del Pd, ricordarsi che era stato eletto per governare Firenze e cancellare la vergogna. Non ci si può candidare a governare un paese se nella propria città le regole sono poco più che carta straccia e si aggredisce la sua storia.

Questa volta è colpa dei tarli del terzo millennio e dell’umidità, se la trave (moderna) ha ceduto a Villa dei Misteri e non si vedono ancora i benefici del grande piano per Pompei presentato in aprile da Monti e da quattro Ministri. Piano presentato in prefettura a Napoli. Non ancora, perché la prima seduta di gara per la valutazione dei progetti per le prime cinque domus pompeiane, prevista per l’11 settembre, è stata spostata al 17 causa ricorsi. Ma la macchina è avviata e ogni tre mesi circa le gare per i progetti saranno espletate con regolarità, informano in soprintendenza. Un meccanismo studiato alla perfezione, tanto da ottenere dall’Unione europea il finanziamento di 105 milioni su fondi Fesr: la salvezza di Pompei in quattro capitoli — messa in sicurezza di strutture e impianto urbano a partire da aree qualificate ad alto rischio dalla “Carta archeologica del rischio”; irreggimentazione e drenaggio

delle acque nell’area non scavata demaniale che incombe sulla strutture antiche (e che fu alla base del crollo della cosiddetta Casa dei Gladiatori a novembre di due anni fa); messa in sicurezza restauro e valorizzazione secondo la metodologia della conservazione già programmata e infine miglioramento della dotazione e delle competenze tecnologiche della soprintendenza. Ed anche in cinque punti, i piani esecutivi: quello della conoscenza, delle opere, della fruizione e del miglioramento di servizi, della sicurezza e del rafforzamento tecnologico e della capacity building.

Bei concetti. Ottime intenzioni. Ma innanzitutto secondo le valutazioni già espresse dai tecnici sotto la soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo, le necessità economiche per salvare Pompei dal degrado al quale è esposta soprattutto da due anni in qua, non è di 105 milioni, ma almeno di 500 milioni. 44 ettari scavati, tre quarti dei 66 totali, 1500 domus, 3 km di perimetro e confine e 56 mila metri quadri considerati ad alto rischio sono cifre spropositate anche per la disponibilità dei fondi Fesr messi a disposizione dal-

l’Europa senza alcuna integrazione, anzi con previsione di ulteriori tagli da parte del governo italiano. Il recupero alla fruibilità, per il Grande Piano per Pompei, è infatti di 23 mila metri quadri soltanto: come si vede, la metà di quelli considerati a rischio.

Il tallone di Achille dell’area archeologica tra le più importanti al mondo, Patrimonio dell’Umanità per l’Unesco dal ‘97, continua a essere incredibilmente, una cosa che uno dei suoi più grandi scopritori, l’archeologo Amedeo Maiuri, aveva risolto con mezzi di molto inferiori allo spiegamento di forze che lascia intuire un progetto del terzo millennio. Si chiama ordinaria manutenzione. Ricordando che i fondi del Grande Piano sono europei, quello che lo Stato italiano ha fatto per Pompei è circoscritto all’invio — pure necessario — di 8 architetti, 12 archeologi e 1 amministrativo: una squadra a ranghi ridotti, di veri eroi, che sta lavorando senza tregua per l’analisi e la diagnosi dei luoghi. Una corsa contro il tempo e contro le precipitazioni atmosferiche. Una corsa con il fiato corto, perché il degrado arriva comunque prima. Manutenzione ordinaria invece era quella che è stata spazzata

via dai commissariamenti straordinari e dalla loro filosofia, tesa al conseguimento immediato di benefici dalla vita breve.

La salute di un monumento è provata dal termometro della quotidianità e quando il mercurio continua a scendere, senza portare a febbroni improvvisi ai quali porre rimedio diventa difficile. Fino a una quindicina di anni fa a Pompei esisteva una squadra che si occupava dei piccoli danni quotidiani. Crolli minimali o rischi prospettati di volta in volta attraverso ispezioni continue. Gli “ispettori” giravano con un piccone telescopico, che arrivava anche ad altezze elevate, con cui sondavano la tenuta delle pietre, lo stato dei legni, la forza dei perni e dei chiodi. In caso di dubbi, l’intervento era immediato. In questo modo la grancassa del crollo avvenuto, a cui assistiamo da alcuni anni, in cui si arriva a paradossi dove la notizia arriva prima alla tv e poi alla soprintendenza, sarebbe un sistema da dismettere perché finalmente inutile.

Tra i paradossi del governo tecnico di Mario Monti rischia di esserci la massiccia estromissione dei saperi tecnici dai ministeri, i quali stanno per essere consegnati al controllo assoluto della casta burocratica dei ministeriali, alla faccia della ‘società civile’. La spending review ha infatti stabilito che i comitati tecnico-scientifici ministeriali in scadenza vengano soppressi: il che ha provocato la morte di tutti quelli del ministero per i Beni culturali. Una piccola morte che si somma ad altri cupi segnali che sembrano annunciare una morte più grande: quella dello stesso Mibac.

Quest'ultimo, infatti, nacque come ministero essenzialmente tecnico: in un primo momento Massimo Severo Giannini propose addirittura di costituire, sotto il cappello politico del ministero, un’agenzia tecnica che fosse un grandissimo ufficio per l’organizzazione e il controllo della tutela del patrimonio storico e artistico italiano. Il perché è presto detto: a partire dall’articolo 9 della Costituzione (che lega indissolubilmente tutela e ricerca) il sistema italiano delle soprintendenze si è sempre basato sulla conoscenza. Come per decidere quali farmaci mettere in commercio ci vogliono i medici, così per dirigere gli Uffizi ci vuole uno storico dell’arte, e per conservare il Colosseo un archeologo. Era dunque perfettamente naturale che anche al vertice di questo sistema avessero spazio le competenze tecniche: e che, anzi, lì il ministero si aprisse ulteriormente, coinvolgendo docenti universitari e altri esperti. A questo servono (servivano) i comitati tecnico-scientifici: a offrire all’amministrazione e alla guida politica del Mibac gli elementi di fatto in base ai quali prendere le decisioni. Da domani, invece, non ci saranno più storici dell’arte a stabilire se una tavola di Giotto può o non può affrontare un viaggio a Pechino, e non saranno architetti o urbanisti a valutare se Pierre Cardin può costruire la sua torre di 250 metri alle porte di Venezia. No: saranno i direttori generali, e cioè direttamente la struttura burocratico-politica. E c’è un’ulteriore conseguenza: i presidenti dei comitati componevano per metà il Consiglio superiore dei Beni culturali, l’organo che dovrebbe dare l’indirizzo all’intera opera del ministero, e che si trova ora ridotto a una piccola corte di nominati dal ministro (il cui presidente annunciato sarà un filosofo del diritto: sempre a proposito di competenza tecnica!). Il giacobinismo contabile della spending review dà il colpo di grazia a un sistema al lumicino: soprintendenze massacrate nell’organico, tutela sacrificata al marketing della valorizzazione, finanziamenti da allarme rosso , ministri flaccidi e incompetenti. Se c’è una strategia è quella di distruggere la tutela pubblica, per poter poi dire (come si è appena fatto per la Pinacoteca di Brera): ‘Ma qui non funziona nulla: diamo tutto ai privati!’. In tutto questo, l’esecutore testamentario del Mibac, professor Lorenzo Ornaghi, tace.

Il labirinto di Borges, realizzato in ricordo dello scrittore nei giardini della Fondazione Cini sull'Isola di San Giorgio a Venezia, è emblematico degli intricati e rischiosi percorsi da intraprendere per tutelare e valorizzare i nostri Beni culturali. In Italia i musei sono più di tremila, ma anche le fonti istituzionali divergono sul loro numero. Poi ci sono le aree archeologiche, gli archivi e le biblioteche. E su di essi, ogni giorno emergono ritardi o controversie: la biblioteca dell'Istituto per gli Studi filosofici di Napoli finita negli scatoloni, l'opposizione degli storici dell'arte alla nascita della Fondazione Brera a Milano, lo Stato che non paga l'ultima tranche per concludere il restauro alla Galleria dell'Accademia a Venezia.

«C'è un problema di efficienza, non solo una mancanza di fondi pubblici, che vengono spesi male», afferma Pasquale Gagliardi, dal 2002 Segretario Generale della Fondazione Cini, con un passato manageriale e di studioso delle istituzioni culturali. «I burocrati di stato trovano spesso spiegazioni cavillose per giustificare inadempienze; affidarsi ai privati significa, invece, correre il rischio che qualcuno consideri beni o finanziamenti pubblici qualcosa di cui approfittare. C'è, da un lato, un problema di denaro pubblico a volte gestito con scarso riguardo. Dall'altra la bramosia di chi non percepisce il valore di gestire risorse comuni». Trovare la via che porti fuori da questo labirinto non è facile, e la strada è stretta: «In Italia manca un'etica pubblica diffusa; ma in nessun Paese del mondo la cultura si fa solo con soldi pubblici. Servono dei privati per i quali l'investimento culturale è una forma di restituzione alla società». Solo che la fenomenologia di questi investimenti, quando ci sono, rivela che i privati (individui, società o fondazioni), prediligono sostenere istituzioni che danno lustro, come la Scala o la Fondazione Cini, trascurando il territorio diffuso, del quale si deve sempre far carico lo Stato.

«Questo perché in Italia manca il mecenatismo classico — dice Gagliardi — e perché è assente un adeguato sistema per la defiscalizzazione dell'investimento culturale. Negli Stati Uniti c'è la corsa per avere il proprio nome sulla targhetta sotto un quadro. Da noi c'è troppo familismo anche in questo. Si lasciano i beni agli eredi, raramente alla società. L'Italia è un Paese di clientele, di salotti buoni, di imprese piccole e poco attente al sociale». Ne consegue che, quando il privato investe in cultura, spesso siamo di fronte a casi di narcisismo individualistico o alla richiesta di poter avere «mani libere» senza lacci e lacciuoli, in un'ottica poco moderna. «Spesso si vogliono abolire i controlli di legge; ma quando si chiede la piena autonomia si sbaglia. Ci vuole un giusto controllo. Anche l'Istituto per gli Studi filosofici, forse, era da gestire in maniera diversa». Meno personalistica? «Non esiste una cultura che non va controllata, che si giustifica in quanto tale. Anche la Cini, per anni, non era interessata al numero di visitatori e non si occupava di quanto fossero distribuiti i libri da lei promossi. La cultura non ha prezzo è uno slogan senza senso». Ma è auspicabile affidare la memoria collettiva a un soggetto privato? Se i «nuovi privati» fossero arabi, russi? «Sarei contrario. I beni sono un patrimonio collettivo e vanno assicurate garanzie e benefici collettivi».

E allora che fare? «Agire in partnership, con finanziamenti privati e statali legati a progetti condivisibili. L'economia non è la negazione della cultura. Lo stato non può fare da solo, bisogna fare connubio. Ma ci vuole anche un personale pubblico partecipe, con qualità tecniche e morali. Quando Pasquale Gagliardi, Segretario Generale della Fondazione Cini dal 2002 gli storici dell'arte si oppongono ai privati, mi sembra un riflesso spontaneo. Talvolta, ciò, è proprio anche dei sovrintendenti, ma non qui a Venezia, dove con Renata Codello abbiamo collaborato con intesa e ottenendo risultati. Ci ha anche difesi nel contrastato intervento alla manica lunga e nel rifacimento del refettorio palladiano». Per la gestione dei musei, dunque, «si potrebbe puntare sulle fondazione di partecipazione, che mantengono un equilibrio tra bene pubblico e progetto privato mirato». Progetti che, alla Cini, riescono meglio anche per la fortissima attrazione del luogo. «Potremmo dare vita — conclude Gagliardi — a laboratori per artisti contemporanei oppure ospitare scrittori che intendono scrivere un racconto su Venezia». Anish Kapoor, Vilcram Seth e il Nobel V.S. Naipaul si sono già assicurati un posto vista San Marco.

Gentile presidente della Repubblica, Gentile presidente del Consiglio, Gentile ministro per i Beni culturali,

leggendo con più attenzione il decreto-legge n. 83 per lo sviluppo divenuto legge nei giorni scorsi, abbiamo amaramente constatato che all’art. 8 del medesimo è stato inserito un provvedimento che con lo sviluppo ha ben poco a che fare e che invece apre un varco, a nostro avviso decisivo, in direzione della trasformazione dei grandi musei italiani da pubblici a Fondazioni di diritto privato, con tutte le implicazioni che ciò comporta. Si stabilisce infatti la creazione della “Grande Brera” quale Fondazione privata incaricata di gestire la Pinacoteca Nazionale di Brera e i suoi beni, mobili e immobili. Tutto ciò anche dopo il confuso “pasticcio” della Fondazione Museo Egizio di Torino.

Anzitutto notiamo che, nel “concerto” ministeriale predisposto per questo importante disegno di legge governativo, non figura il ministro competente per i Beni culturali il cui apporto (e ciò è gravissimo) viene giudicato palesemente inessenziale.

In secondo luogo l’art. 8 del decreto-legge n.83 del 22.6.12 ora convertito in legge, conferisce in uso ad una Fondazione di diritto privato l’intera collezione della Pinacoteca di Brera, stratificatasi in due secoli e il grande palazzo che la ospita. accanto ad altre istituzioni e cioè l’Accademia di Belle Arti - che l’ex commissario Mario Resca ha provveduto a sloggiare, là insediata prima della creazione della Pinacoteca - la Biblioteca Nazionale Braidense, l’Osservatorio astronomico, l’Orto botanico, l’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere. Istituti tuttora operanti, viva eredità culturale dell’illuminismo lombardo che la scissione operata dalla Fondazione farebbe deflagrare. E’ pienamente costituzionale un simile trasferimento? Rappresenta davvero una prosecuzione della tutela garantita dall’art. 9 della Costituzione al patrimonio storico-artistico? O non funge al contrario, da apripista, per una fase del tutto nuova con l’ingresso di soci privati in un grande museo statale? Dopo la Grande Brera privatizzata, sarà più facile avere i Grandi Uffizi privatizzati o la Fondazione Galleria Borghese, privata come gli Archeologici di Napoli o di Taranto. Col pretesto, ribadito più volte dal ministro Ornaghi, che, tanto, lo Stato non ha più soldi.

Fra l’altro nell’ultimo comma dell’art. 8 del decreto-legge Passera (Ornaghi assente) si dice che “la Fondazione può avvalersi di personale appartenente ai ruoli del Ministero per i beni e le attività culturali e degli enti territoriali che abbiano acquisito la qualità di soci promotori”. “Può” avvalersi: dunque può anche non avvalersene, può essere tagliato in ogni momento il cordone ombelicale che lega da sempre questa Pinacoteca Nazionale al Ministero specificamente incaricato della tutela e al personale tecnico-scientifico che esso seleziona.

Il fine generale è quello di una “gestione secondo criteri di efficienza economica”. Il che, se ci si consente, rappresenta uno schiaffo ai direttori dei grandi musei nazionali i quali stanno da mesi compiendo sforzi eroici per tenere aperte, vive e vitali tali istituzioni dovendo lottare con fondi ridotti al lumicino (negli ultimi dodici anni il bilancio ministeriale è crollato da 2,5 a 1,5 miliardi). Altro che “efficienza economica”. Questi valorosi servitori dello Stato e i loro predecessori hanno creato musei ammirati in tutto il mondo ed ora sono costretti ad una gestione non “secondo criteri di efficienza economica”, bensì in condizioni umilianti di mera sopravvivenza (i loro stipendi variano fra i 1700 e i 1900 euro netti). Una “economia di guerra” che minaccia e ostacola lo sviluppo dello stesso turismo culturale, il solo in crescita, con pericoli continui di chiusure parziali o totali, con la riduzione o l’annullamento delle attività didattiche, per giovani e giovanissimi, e di quelle di ricerca ben più importanti culturalmente di altre attività prettamente “commerciali”.

Perché non si è discusso di questa operazione-Grande Brera alla luce del sole? Perché si è escluso da essa il Ministero per i Beni e le Attività culturali? Perché si è infilato un provvedimento di questa portata nelle pieghe di un decretone per lo sviluppo? Eppure si tratta di una operazione che apre la strada, chiarissimamente, alla privatizzazione dei maggiori musei italiani, già tentata nel recente passato, lontana dai grandi modelli italiani ed europei, e che ora si fa passare nel fragoroso silenzio degli organi di informazione, della maggioranza degli intellettuali italiani e degli addetti ai lavori. Spettacolo avvilente rispetto alla reazione riservata anni fa ad una proposta, forse più ingenua, ma certamente più chiara e lineare, di privatizzazione dei Musei statali avanzata dall’allora ministro Giuliano Urbani. In questo caso il ministro competente non c’è, non sente, non vede. Ci pensa il collega dello Sviluppo. Anche l’Arte è più che mai una merce. C’è ancora qualcuno che voglia discutere in positivo nel nostro Paese senza facili populismi, ma con serietà e rigore culturale?

Per aderire alla lettera aperta: http://www.petizionionline.it/petizione/no-alla-grande-brera-privatizzata/7783

I promotori:

Vittorio Emiliani, Maria Pia Guermandi, Tomaso Montanari

I primi sottoscrittori:

Giovanni Pieraccini, Alberto Asor Rosa, Salvatore Settis, Vezio De Lucia, Carlo Ginzburg, Luigi Manconi, Andrea Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Gianfranco Amendola, Paolo Maddalena già vice-presidente Corte costituzionale, Rosellina Archinto, editore, Catherine Loisel, Conservateur en chef Musée du Louvre, Pier Luigi Cervellati, Jonathan Bober, Curator of Old Master Prints National Gallery of Art Washington, D.C., Giovanna Pesci Enriques, presidente Ass. Artelibro, gli archeologi Licia Borrelli Vlad, Mario Torelli, Pietro Giovanni Guzzo, Carlo Pavolini, Gino Famiglietti, direttore generale MiBAC per il Molise, Carlo Alberto Pinelli, Corrado Stajano, Donella e Gianandrea Piccioli, Matteo Ceriana, direttore Gallerie dell’Accademia di Venezia, Rita Paris, direttrice Museo Archeologico Nazionale di Palazzo Massimo, Roma, Luisa Ciammitti, direttrice Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Anna Lo Bianco, Direttrice Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini, Roberta De Monticelli, Jennifer Montagu, Warburg Institute, London, Danielle Mazzonis già sottosegretario ai Beni culturali, Giovanna Borgese, gli storici dell’arte Antonio Pinelli, Università di Firenze, Francesco Caglioti, Università Federico II Napoli, Andrea De Marchi, Università di Firenze, Massimo Ferretti, Scuola Normale Superiore Pisa, Michele Dantini, Università del Piemonte Orientale, Angela Ghirardi, Università di Bologna, Nicola Caracciolo, vicepresidente Italia Nostra, i consiglieri nazionali di Italia Nostra: Ebe Giacometti, Franca Leverotti, Maria Rita Signorini, Laura Cavazzini, Università di Messina, Fiorella Scricchia Santoro, Sofia Boesch Gajano, Pierluigi Carofano, Scuola speciale BC Siena, Federica Tonioli, Arte medievale Università di Padova, Maria Letizia Gualandi, presidente Corso di laurea BC, Pisa, Anna Bisceglia, Galleria Palatina Firenze, Cristiano Giometti, Felicia Rotundo, Soprintendenza Siena-Grosseto, Maria Chiara Cadore, Soprintendenza Friuli-Venezia Giulia, i docenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera, Flaminio Gualdoni, Francesca Valli, Valter Rosa, Sandro Scarrocchia e Stefano Pizzi, Giuliana Ericani, direttore Museo Civico di Bassano, Ezio Cuoghi, direttore della scuola di Nuove tecnologie dell’arte dell’Accademia Belle Arti di Brera, Mario Curia, editore d’arte (Mandragora), Alessandra De Vita, Progetto Ercolano, Antonio Porto, economista, Helen Ampt, Maria Luisa Catoni, Ist. di studi avanzati, Lucca, Maria Fratelli, dirigente settore Musei comunali Milano, Oriana Orsi, ispettrice Musei Civici Imola, i docenti Alberto Lucarelli, Diritto pubblico, Napoli, Claudio Greppi, Dipartimento di Storia, Siena, Lia Formigari, Dipartimento Filosofia, Sapienza Roma, Flavio Fergonzi, Università di Udine, Alberto Gajano, Università di Siena, Francesca Brezzi, Filosofia morale Roma 3, Giuliana Ricci, Storia dell’Architettura Politecnico di Milano, Francesco Petrucci, Fisica applicata ai Bc, Ferrara, Filippo Maria Pontani, Università di Venezia, Rossano Pazzagli, storico, Università del Molise, Massimo Quaini, Università di Genova, Reinhold Mueller, già docente Storia Medioevale Cà Foscari, Maurizio Bertolotti, presidente Istituto Mantovano di Storia contemporanea, Giulia Rodano, consigliere regionale Lazio, Paolo Berdini, urbanista, Sauro Turroni, architetto, Francesca Alesse, ricercatrice CNR, Lorenzo Carletti, CNR Pisa, Nino Criscenti, Gianni Sofri, Mariolina Olivari, Franco D’Emilio, segretario Confsal-UNSA Emilia-Romagna, Alessandro Nova, Patrimoniosos, Francesco Poli, Alberto Cornice, Daniela Pinna, Anna Stanzani, Sergio Landucci, Francesca Salatin, Mirella Cavalli, Piero Bevilacqua, storico, Università La Sapienza, Roma, Giampaolo Ermini, Giandomenico Cifani, Italia Nostra L’Aquila, Iginio Tironi, Mariolina Olivari, vicedirettrice Brera, Francesca Flores d’Arcais, Emanuela Fiori, Maria Cristina Passoni, Maria Beretta, Filomena Cioppi, Fabio Torchio, Simona Lecchini Giovannoni, Gennaro Luongo, Università di Napoli “Federico II”, Alberto Primi, Paolo Togni, Serena Sandri, Cinzia Neri, Cristina Quattrini, Sabina Spannocchi, Laura Fenelli, Alfredo Stussi, Armanda Pellicciari, Andrea Conti, Gianni Negrelli, Cecilia Ghibaudi, Edoardo Villata, Francesca Mattei, Antonello Nave, docente e storico dell'arte, Firenze, Irene Berlingò, presidente Assotecnici, Marco Vincenzo, Mattia Patti, Cecilia Frosinini, Enzo Mecacci, segretario Accademia degli Intronati, Siena, Massimo Maugeri, Annalisa Pezzo, Biblioteca comunale degli Intronati, Siena, Elisa Angelini, Anna Colombi Ferretti, Maria Maddalena Lombardi, Paola Delbianco, Biblioteca Civica Gambalunga Rimini, Chiara Toschi Cavaliere, presidente Italia Nostra Ferrara, Andrea Bacchi ,Università di Trento, Angela Donati, Università di Bologna, Giuseppe Arcidiacono , docente Composizione Arch. Un. Reggio Calabria, Paolo Bensi , docente Storia sociale Dip. Arch. Genova, Fabrizio Lollini , Università di Bologna, Alessandro Volpe , Università di Bologna, Federico Fischetti , storico dell'arte Sopr. di Modena-Reggio E., Patrizia Cuzzani , responsabile Museo della Resistenza Bologna, Oretta Solaroli, Daniela Trastulli, regista, Luca Errera, Nicoletta Serio, Cecilia Cavalca, Fulvio Cervini, Università di Firenze, Fulvio Frati, Michela Metri, Maria Genova, Orietta Piolanti, Maria Luisa Polichetti, ex direttrice ICCD, Rita Cassani, Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Stefano Pezzoli, Istituto Beni Culturali, Bologna, Elisa Griglione, Maria Malatesta, Università di Bologna, Maria Luisa Masetti, Stefano Conti, Manuela Mattioli, restauratrice, Cristiana Mancinelli Scotti, Elena Montanari, Soprintendenza BSAE Mantova, Alessandra Basso, Claudia Cavatorta, CSAC - Università di Parma, Pierangelo Cavanna, Ferruccio Farina, il Consiglio Scientifico del "Centro Interdipartimentale di Ingegneria per i Beni Culturali" dell'Università di Napoli Federico II: Salvatore D'Agostino, Gennaro Improta, Paola D'Agostino, Metropolitan Museum di New York, Anna Esposito, Luciana Sepe, Patrizia Piscitello, Polo Museale Napoli, Maria Paola Pilandri, Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini, Marina Gerra, Soprintendenza Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici, Parma, Marina Angelini,

Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, Elena Pedrotti, Claudio D'Amico, Università di Bologna, Enrico Venturelli, Nicoletta Serio, Fulvia Donati, Università di Pisa, Anna Bacchilega, Serena Romano, Université de Lausanne, Maria Perla Colombini, pres. Ass. Italiana Archeometria, Chimica, Università Pisa, Marinella Pigozzi, Università di Bologna, Stefania Biancani, Massimo Teodori, Alberta Fabbri, Museo d'arte di Ravenna, Corinna Giudici, direttore Archivio foto Soprintendenza Bologna, Gian Marco Vidor, Berlino, Giuseppe Adani, presidente del C.s. Fondazione Il Correggio, Roberto Spocco, Archivio Storico Comunale Parma, Renato Parascandolo, già direttore di Rai Educational, Nicola Spinosa, già Soprintendente Polo Museale Napoli, Massimiliano Biscuso, Silvia Alessandri, Alessandra Malquori, Enrica Ambrosini, Paola Pirolo, Lidia Bortolotti, IBC Servizio Musei, Bologna, Gianfrando Draghi, Michele Feo, Paola Italia, Nino Vaccaro, Angela Nannetti, Francesco Federico Mancini, Marina Miraglia, Paola Cavazzuti, Luciano Puccianti, Maria Grazia Bernardini,

Direttore Museo Nazionale di Castel Sant'Angelo, Linda Guzzetti, Raffaella Fontanarossa, Paola Tumminelli, Alessandra Sarchi, Pierangelo Cavanna, Silvia Camerini Maj, Vincenzo Marzo, Bruno Santi, ex soprintendente, Giovanna Monetti, Daniele Fratini, Maria Giovanna Vezzalini, Cesare Benzoni, Maria Monica Donato, Scuola Normale Superiore - Pisa, Luigi Schiavulli, Gianni Lodi, Benedetta Campana Heinemann, Berlino, Uwe Heinemann, Berlino, Donata Vicini, già direttore dei Musei Civici di Pavia, Letizia Lodi, Direttore Museo Certosa di Pavia, Sbsae di Milano, Claudia Salmini, Bruno Taddei, Luisa Tognoli Bardin, Silvia Baroni, Stefano Monetti, Veronica Lisino, Gabriella Prisco, già ISCR, Flavia Matitti, Accademia di Belle Arti di Firenze, Enrico Parlato, Paolo Castellani, Polo Museale della città di Roma, Paola Pettenella, Responsabile settore archivi storici del Mart, Erminia Irace, Università di Perugia, Emanuela Rollandini, conservatore

Castello del Buonconsiglio, Trento, Alessandro Pasetti Medin

Soprintendenza Beni Storico-Artistici di Trento, Lia Camerlengo

conservatrice del museo del Castello del Buonconsiglio, Trento, Paola Bassani, Adriana Capriotti, Polo Museale della Città di Roma, Beatrice Sica, Grazia Gobbi Sica, Alberto Caprioli, compositore e direttore d’orchestra, Luisa Giordano, Renata Casarin, Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici di Mantova, Brescia e Cremona, Barbara Fabjan, Alba Costamagna, Maria Virginia Cardi, Accademia di Brera di MIlano, Giulia Mastrapasqua, Comune di Milano, Paola Porcinai, Ugo Locatelli, architetto e artista.

T. Montanari, Nicole, ti ritroveremo a Brera?; V. Emiliani, Se Brera diventa privata; T. Montanari, Ministro, faccia il suo lavoro ; Emiliani-Del Frà, No alla Grande Brera privata

Un privato rifà il look alla prima parte di via Oberdan. La giunta ha approvato ieri il progetto di riqualificazione della zona compresa tra via Oberdan, vicolo Tubertini, Mandria, e Limbo. Un progetto che comprende rifacimento del manto stradale, illuminazione, riordino della segnaletica, rimozione e sostituzione dei cassonetti e delle cabine Telecom, tutto spesato dall’immobiliare Immobildue, che sta eseguendo il restauro di palazzo Tubertini e torre degli Uguzzoni.

«Ci hanno detto che lo fanno loro, ben venga» ha detto ieri il coordinatore di giunta Matteo Lepore presentando la delibera, che assicura costo zero per il Comune, e rivalutazione della zona per il privato. Il totale dei fondi spesi per il restyling è di soli 35mila euro, per un complesso di interventi che vanno dalla sistemazione della strada, a quella dell’illuminazione. Un modello, quello della sempre maggiore iniziativa del privato anche nella riqualificazione di spazi pubblici, già sperimentata non senza difficoltà per Piazza Minghetti. In questo caso però, tutto è in mano al privato, grazie al regolamento approvato dal commissario Annamaria Cancellieri nel 2011, che consente «la realizzazione di microprogetti di miglioramento

dello spazio pubblico da parte della società civile », purché non superino il valore massimo di 200mila euro. Immobildue promette di eliminare

e sostituire i cassonetti dei rifiuti e le cabine telefoniche, «spesso oggetto di vandalismi». In arrivo anche nuove luci e nuovo acciottolato. Tutto approvato da Telecom, Hera e dalla Soprintendenza, che non ha mancato di far avere il suo parere, bocciando la nuova pavimentazione «in lastre di granito per agevolare il transito dei portatori di handicap » e imponendo invece l’acciottolato. Ma se il restyling avrà il prezzo contenuto di 35mila euro circa, l’intero progetto di restauro di palazzo Tubertini prevede «una galleria con negozi e caffetteria al piano terra e abitazioni private al piano di sopra». Nella parte dell’edificio che si trova tra i vicoli Mandria e Tubertini, infine, «verrà realizzato un parcheggio sotterraneo multipiano automatizzato, di pertinenza della residenza».


Tutti i dubbi dell’urbanista “Senza criteri si rischia la babele” intervista a Pier Luigi Cervellati

L’architetto Pierluigi Cervellati, ex assessore di Zangheri

«La privatizzazione dello spazio pubblico è pericolosa, perché senza un piano urbanistico del centro storico, che attualmente non c’è, si rischia di finire nella categoria del “gusto”, invece che in quella del “bene comune”». È molto scettico, l’urbanista ed ex assessore tra gli anni ’70 e ’80 Pierluigi Cervellati, quando sente parlare di privati che riqualificano spazi pubblici.

Lei non è d’accordo?

«Mi domando cosa ottengano in cambio, intanto. Che ci guadagnano? E poi si può fare solo se c’è una adeguata partecipazione al progetto da parte dei cittadini. Il problema comunque è un altro».

Quale?

«Sarebbe anche accettabile lasciare che siano i privati a investire nel restyling di strade e piazza, ma solo se esistesse una normativa complessiva per il centro storico, un piano, un disegno che invece non esiste più, e che dovrebbe fissare i criteri da seguire e non seguire. Altrimenti ognuno fa quel che vuole».

Per questo non c’è la Soprintendenza?

«Ma anche la Soprintendenza, se non ha criteri condivisi con le amministrazioni, non basta. Così rischia di diventare una Babele, un complesso di progetti che seguono il gusto dei privati che li propongono, e che mescolano moderno e antico».

Come è successo per Piazza Minghetti?

«Esatto, il problema è che manca il principio di città storica come bene comune. Senza quello, c’è solo confusione».

Invito i lettori di questo blog a firmare l’appello che chiede al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio e al ministro per i Beni Culturali di non imboccare la strada della privatizzazione della Pinacoteca di Brera.

Negli ultimi due post del blog (e in non pochi dei vostri commenti), troverete alcune delle ragioni per cui credo che la creazione della fondazione di diritto privato della ‘grande Brera’ sia un errore in sé, e un primo, micidiale passo verso la privatizzazione del patrimonio storico e artistico italiano. Ma c’è una ragione morale, e dunque più profonda e radicale, della quale finora non ho parlato e che però è stata evocata dalle reazioni milanesi.

In un’intervista al Corriere della sera, il ministro Lorenzo Ornaghi ha smentito di voler privatizzare, ma ha contemporaneamente dichiarato che la sua missione principale, nel caso di Brera e non solo, è quella di «trovare finanziatori privati illuminati».

Ma quale progetto di nazione tradisce un’affermazione come questa? Certo non il progetto che la nostra Costituzione ha tracciato.

Con l’articolo 9 della Carta il patrimonio storico e artistico cambia funzione: dopo secoli in cui esso ha rappresentato il dominio dei sovrani degli antichi stati italiani, ora esso rappresenta visibilmente la sovranità dei cittadini. Di più: esso è uno straordinario strumento per costruire l’eguaglianza sostanziale dei cittadini e attuare l’unità nazionale. Brera appartiene a Mario Monti come al portiere del suo condominio: e a un milanese come a un pugliese. E lo garantiscono il fatto che Brera sia mantenuta con le tasse di tutti, e il fatto che sia governata da storici dell’arte assunti, per merito, con un concorso pubblico.

Conferire Brera a una fondazione vuol dire spezzare questo fascio di significati. Quando Stefano Boeri plaude alla scelta del ministro, conformandosi alla ‘Milano ornaghiana’, lo fa sostenendo che in questo modo il museo sarà più vicino al territorio: ma questo miope cedimento culturale al leghismo non tiene conto del fatto che Brera appartiene alla comunità nazionale, anzi ne è un segno visibile. Quando gli enti locali lombardi nomineranno i vertici della ‘loro’ Brera e quelli campani faranno altrettanto con il loro Capodimonte, cosa rimarrà del progetto per cui i costituenti vollero il patrimonio ‘della nazione’ tra i principi fondamentali dell’Italia nuova?

E quando Ornaghi cerca «finanziatori illuminati» egli fa regredire il patrimonio in una condizione di dipendenza dalla ricchezza privata: una minorità da ancien régime, aggravata tuttavia da un fatto capitale. La ricchezza privata, in Italia, drena la ricchezza pubblica per colpa di un’evasione fiscale così massiccia da renderci interlocutori non credibili agli occhi degli altri stati membri dell’Unione europea. Dunque, da una parte lasciamo illecitamente la ricchezza nelle tasche private a detrimento della cassa pubblica: e poi mendichiamo l’aiuto della ricchezza privata per mantenere il patrimonio artistico di tutti. Derubati, supplichiamo i ladri di mantenere i beni di tutti.

Ma questo aiuto non sarà dato gratuitamente. Il Museo Egizio di Torino è presieduto da un membro della famiglia reale italiana, quella degli Agnelli. Il quale tra pochi giorni lascerà il posto alla moglie del presidente di Telecom Italia e Generali. Così il patrimonio che doveva servire alla costruzione dell’eguaglianza torna a veicolare e legittimare significati di profonde differenze sociali. Non è difficile immaginare Brera nelle mani della Milano già da bere, fino a ieri cupamente berlusconiana, e quindi crepuscolarmente formigoniana.

L’Egizio prima e ora Brera tornano simboli del primato della Casta: un primato fondato sul privilegio, e sull’illegalità dell’evasione fiscale più gigantesca d’Europa. Anzi, meno che simboli: orpelli da affidare ai cadetti incapaci, o alle mogli (relegate da una delle borghesie più maschiliste del mondo ad occuparsi del ‘bello inutile e innocuo’ dell’arte). I musei gestiti con la condiscendenza della beneficenza: luoghi da cui bandire il rigore della scienza e la formazione dei cittadini, e da piegare invece fino a ridursi cornici docili per i riti di autocelebrazione di una ricchezza incivile e ignorante. Il mito è, naturalmente, quello americano: ma si dimentica che i musei americani sono collezioni di milionari infine consacrate alla proprietà e al godimento pubblici, quelli italiani saranno collezioni pubbliche privatizzate contra legem. La diffidenza – direi l’odio – per lo Stato che trasuda dai commenti dei fautori dell’ingresso dei privati nel governo di Brera viene motivata con un’esigenza di efficienza: ma è palpabile l’insofferenza per tutto ciò che è ‘pubblico’.

La Fondazione di Brera non è solo uno sfregio alla Costituzione e al Codice dei Beni culturali, una lesione dei diritti dei lavoratori, una minaccia allo statuto scientifico del museo e alla libertà e al primato della conoscenza. No, è anche un passo drammatico verso la perversione del patrimonio: da strumento pubblico (cioè di tutti) di costruzione dell’eguaglianza costituzionale a trofeo del nuovo feudalesimo castale che sta nascendo dalle ceneri di un Paese senza progetto.

L'appello su eddyburg

Per firmare l’appello

Brera ai privati? No, grazie

Luca Del Fra

E’ intorno alla Grande Brera che si combatte la nuova battaglia della cultura italiana: insorgono

intellettuali, storici dell’arte, tecnici, giornalisti,asserragliati e combattivi attorno a un appello al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Indirizzata anche al Presidente del Consiglio Mario Monti e al ministro Lorenzon Ornaghi, la missiva ha sollevato un vespaio poiché sotto i toni pacati nasconde un j’accuse contro l’ennesima privatizzazione di una delle più importanti istituzioni culturali italiane.

Di grande intorno a Brera infatti per ora si profila solo l’ennesimo pasticcio, ovvero la creazione

di una fondazione privata che prenda in gestione la sede e il patrimonio della Pinacoteca Nazionale,

un classico colpo di mano agostano, inserito all’articolo 8 al momento della conversione in legge del decreto sviluppo, provvedimento peraltro a firma di Passera, ministro dell’Economia e non del suo collega Ornaghi dei Beni Culturali. Nelle sonnacchiose giornate estive la cosa era passata quasi inosservata finché non ha sollevato il caso su l’Unità Vittorio Emiliani, primo firmatario dell’appello, cui hanno aderito circe 120 intellettuali tra cui Settis, Asor Rosa, Guermandi, Ginzburg, Montanari, oltre a restauratori, funzionari del Mibac, e il vicepresidente emerito della Corte Costituzionale Paolo Maddalena. «È pienamente costituzionale un simile trasferimento» della gestione a una fondazione privata? Domandano al capo dello Stato, e proseguono: «Rappresenta

davvero l’applicazione della tutela garantita dall’articolo 9» della Carta?

Naturalmente sono domande retoriche, visto che tutti i grandi musei europei, tra cui quelli italiani, sono dello Stato e non privati. Così, prosegue l’appello, si apre la strada a una privatizzazione degli Uffizi, della Galleria Borghese e così via, malgrado la fondazione privata si sia dimostrata un modello gestionale spesso disastroso, come il ministro Ornaghi sa bene avendo ancora per le mani i cocci del Maxxi, il Museo delle Arti del XXI secolo, nato appena tre anni fa proprio come fondazione privata e di recente commissariato.

Ma è soprattutto il rilievo finale degli appellanti a essere decisivo: «Nell’ultimo comma dell’articolo 8 –scrivono– si dice che “la Fondazione può avvalersi di personale appartenente ai ruoli del Ministero per i Beni Culturali”. Dunque può anche non avvalersene, può essere tagliato in ogni momento il cordone ombelicale che lega la Pinacoteca Nazionale al Ministero e al personale tecnico scientifico». Secondo il provvedimento, insomma, la grande collezione di Brera potrebbe essere affidata perfino a un personale non qualificato. Un rischio più reale di quanto si creda, considerandola progressiva sparizione degli egittologi dal Museo Egizio di Torino dopo la sua trasformazione in fondazione privata.

Il fronte del no alla fondazione in queste ore si è molto allargato, arrivando a includere perfino

Mario Resca, manager che non ha mai nascosto la sua simpatia per i metodi del «privato nella cultura» e conosce bene la situazione essendo stato per tre anni commissario straordinario di Brera:

«Costituire una fondazione –ha dichiarato–, significa abdicare, è uno smacco». L’affidamento a

una fondazione dei locali di Brera poi corrisponderebbe allo sfratto di altre istituzioni culturali

che coabitano con la pinacoteca: l’istituto Lombardo di Scienze, Lettere e Arti, la Biblioteca Braidense, l’Orto Botanico, l’Osservatorio astronomico oltre all’Accademia di Belle Arti, la prima scintilla da cui è nato l’intero complesso, cui è stata comunque già affidata una nuova sede, ancora da restaurare. «È una coabitazione difficile –spiega la docente di Storia dell’arte Francesca Valli– ma rappresenta una importante eredità dell’Illuminismo lombardo che andrebbe conservata».

All’eredità culturale si aggiungono le osservazioni di Patrizia Asproni presidente di Confcultura,

che benché da posizioni ultraliberiste osserva: «In questo Paese la creazione di nuovi “enti” porta

alla superfetazione normativa, burocratica e alla corsa alla poltrona. Pensare al contenitore giuridico, prima che al contenuto è quello che accade sempre in Italia. Da un governo di tecnici ci

aspettavamo qualcosa di meglio».

Un cavallo di Troia per far saltare il sistema statale

Vittorio Emiliani

Nasce di soppiatto malgrado il nome ambizioso, la fondazione di diritto privato Grande Brera, e nasce male, senza quel serio, informato dibattito preventivo che un’operazione di questa portata esige. Nasce con un articolo infilato, all’ultima ora, nella balena del decretone per lo sviluppo, lasciando fuori dal «concerto» interministeriale il ministro per i beni culturali. Roba da matti. Ma

Ornaghi è felice, la sostiene e porta alcuni esempi. A partire dal Museo Egizio di Torino, che sin qui ha suscitato più polemiche che altro: non tutte le collezioni sono state devolute alla Fondazione con una perdita di valore fondamentale; il personale tecnico-scientifico ha preferito rimanere con lo Stato e quindi alla Fondazione è mancato un apporto unico, in compenso il CdA ha nominato direttrice (caso unico) una non egittologa… Questo il luminoso precedente?

Ornaghi cita Venaria Reale che nulla ha che fare con la complessità della Pinacoteca di Brera nata nel primo ‘800 da una razzia «politica» di migliaia di opere soprattutto umbre, marchigiane, emiliano-romagnole ad opera del figliastro dimNapoleone e dalla successiva stratificazione di donazioni. Pinacoteca, fra l’altro, venuta dopo l’Accademia di Belle Arti e altre istituzioni culturali importanti, espressione del miglior illuminismo lombardo. Con problemi, certo, che non risolverà la privatizzazione e quindi la sua scissione da quel contesto storico. Nella Fondazione entreranno il Comune (soldi pochi), la Regione (idem), la Camera di Commercio e i privati. Questi ultimi vorranno dei benefici, dei ritorni, magari dei profitti, specie con l’Expo 2015.

Ma nessun museo europeo o americano - non il Grand Louvre, non il Metropolitan Museum - è autosufficiente o «rende». Ha invece bisogno, di puntuali iniezioni di denaro pubblico, federale, locale, nazionale. Lo stesso ex soprintendente di Brera Carlo Bertelli è prudente, suggerisce una indagine ministeriale sul reale funzionamento delle Fondazioni italiane. Perplessa pure Patrizia Asproni (cultura di Confindustria), che pure ad un convegno romano sbottò: «Io il Ministero dei

Beni culturali lo butterei e darei tutto all’Economia». Inaspettatamente negativo Mario Resca fresco ex commissario di Brera, che caldeggia, con buon senso, una seria politica di detassazioni per i privati. Questo ci si aspettava da un governo di tecnici per rilanciare cultura e ricerca, motori di una

nuova economia, e invece….

C’è chi propone un Polo Museale Brera-Cenacolo autonomo per tenersi a Milano gli incassi. Attenti perché il Polo Museale romano ha speso 3,5 milioni (di cui 700.000 per l’allestimento) per la solita solfa caravaggesca, stroncata dai più, lasciando i propri musei al verde. Ci vuole una politica nazionale per i beni culturali. Ci vogliono progetti seri e fondati da proporre ai privati. Non un ambiguo e macchinoso cavallo di Troia destinato a far saltare il sistema museale statale.

Per firmare l’appello contro la privatizzazione di Brera

— Questa è la storia di una laguna che è diventata una mangiatoia. Una laguna malata e mai bonificata. Un buco nero di sprechi e veleni nel quale lo Stato ha annegato 100 milioni. È una storia di fanghi al mercurio e commissari indagati, di canali otturati e analisi creative. Per raccontare lo scandalo della laguna di Grado e Marano basterebbe dire come è iniziato e come sta (forse) finendo. È iniziato con uno stato di emergenza (3 maggio 2002, ministro dell’Ambiente era Altero Matteoli) e la nomina di un commissario da parte dell’allora boss della Protezione civile Guido Bertolaso (dall’anno dopo e fino allo stop di Monti si andrà avanti col sistema della deroga che ha causato le porcate del G8 e della ricostruzione post-terremoto dell’Aquila).

Lo scandalo sta finendo con la richiesta di rinvio a giudizio per 14 persone (tra commissari e soggetti attuatori; diversi i politici di entrambi gli schieramenti). Dovranno rispondere di peculato, omissione e truffa ai danni dello Stato. Non solo: si sta prefigurando anche il reato di disastro ambientale. Perché — ha scoperto Viviana Del Tedesco, il sostituto procuratore di Udine che indaga sulla vicenda e ha firmato le 40 pagine d’accusa — i lavori per l’eliminazione dei fanghi inquinanti («un falso presupposto »), in questi dieci anni — ecco l’ulteriore beffa — hanno provocato, a loro volta, seri danni alla laguna. «Sia alla morfologia che all’ecosistema». Per la serie: non bastava sprecare 100 milioni per non risolvere un problema; bisognava anche aggravarlo.

Un pasticcio all’italiana. Con tutti gli ingredienti al loro posto e qualche chicca. Per esempio l’immancabile cognato (indagato) di Bertolaso, quel Francesco Piermarini esperto di cinema ma anche

di bonifiche, ma forse più di cinema se dopo il flop della Maddalena (72 milioni per ripulire i fondali che però sono ancora pieni di idrocarburi) l’hanno imbarcato (47mila euro) anche in questa folle operazione nell’Alto Adriatico finita nella maxi-inchiesta della procura di Udine. L’hanno chiamata, non a caso, “finta emergenza del Sin” (sito inquinato di interesse nazionale, la laguna appunto).

In origine è lo stabilimento Caffaro di Torviscosa. La Caffaro sta alla chimica come l’Ilva sta all’acciaieria. Fondata nel 1938 alla presenza di Mussolini come sede produttiva del gruppo “Snia Viscosa”, più di 25mila tonnellate di prodotti venduti ogni anno. Adesso l’azienda è chiusa (il gruppo Snia è in amministrazione straordinaria). Per anni, però, la Caffaro ha sputato veleno. Fango al mercurio trascinato in laguna dai fiumi Aussa e Corno. Il risultato è che lo specchio d’acqua antistante lo stabilimento si è riempito di metalli. I canali (cinque) si sono intasati rendendo sempre più difficile la navigazione e mandando su tutte le furie

le marinerie di Aprilia Marittima (si costituiranno parte civile assieme a Caffaro). «Era chiaro fin da subito che l’inquinamento riguardava solo una minima parte della laguna di Grado e Marano — osserva il pm Del Tedesco —. Ma qualcuno ne ha approfittato». È il 2001, iniziano le sorprese. La commissione fanghi nominata dalla Regione deposita un progetto definitivo per i drenaggi di tutti i canali. Lo studio viene consegnato il 28 febbraio 2002. Resterà nel cassetto per dieci anni. Due giorni fa la Guardia di finanza di Udine va a prenderlo a Trieste negli uffici della Regione.

Una scoperta «interessante». Per due motivi: primo, il 3 maggio del 2002 — tre mesi dopo il deposito della ricerca — il ministero dell’Interno decreta lo stato di emergenza. Che manda il progetto in soffitta. Secondo: il piano “dimenticato” dalla Regione (quanto è costato?) prevedeva di rimettere i fanghi tolti dai canali in laguna (come si fa dai tempi della Serenissima) e non certo, come si è deciso dopo, di portarli a Trieste o a Venezia, o stoccarli come rifiuti speciali in vasche di colmata che cadono a pezzi. Perché si sono scordati del progetto? La risposta ce l’hanno i magistrati. «Hanno voluto e poi cavalcato lo stato di emergenza per abbuffarsi di incarichi, consulenze, nomine, poltrone ». Un valzer costato 100 milioni in dieci anni. I commissari che si avvicendano sono tre. Il primo (giugno 2002) è Paolo Ciani, consigliere e segretario regionale di Fli, già assessore all’ambiente. pidiellino Riccardo Riccardi.

L’anno scorso il premier Monti, d’accordo col ministro Corrado Clini e con il nuovo capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, decide che può bastare: stop al commissario della laguna. I fari della magistratura sono già accessi. Il prosciugamento del denaro pubblico è iniziato con le analisi dei fanghi. Costate 4 milioni, si rivelano inutili perché mai validate da nessun organismo pubblico. I carotaggi vengono affidati alla Nautilus, un’azienda calabrese all’epoca sprovvista del certificato antimafia. Poi arrivano gli altri “investimenti”. Gettati, è il caso di dire, nel fango. Vasche di raccolta e palancole (paratie di ferro) garantite 64 anni che a distanza di seianni stanno crollando (il metallo si sbriciola e inquina la laguna). I commissari ottengono strutture da 30 persone, gli stipendi schizzano da 5 a 11mila euro al mese.

Una bengodi per tecnici e soggetti attuatori. Una piccola Maddalena, con la sua cricca. Persino grottesche alcune iniziative messe in campo: dopo il decreto dello stato di emergenza per inquinamento ambientale, all’Università viene commissionato uno studio di fattibilità per installare un’attività di allevamento di molluschi nella stessa laguna. In tutto questo non può mancare la ciliegia sulla torta: al netto dei 100 milioni spesi, l’area Caffaro — secondo alcuni l’unica inquinata, secondo altri l’epicentro della presunta pandemia dell’intera laguna (1600 ettari) — , non è stata mai bonificata. È il colmo. La giunta regionale tace. Sulla vicenda l’unica a martellare è l’emittente televisiva locale “Triveneta”. Intanto i magistrati vanno avanti. Malata curabile, immaginaria o terminale, per la laguna gli orizzonti sono sempre meno blu.

agosto). “Gli scandali culturali e la loro riduzione a fatti economici o di bilancio tormentano, in un degrado sonnolento, il nostro futuro”, continua il giurista, che cita il saccheggio della biblioteca napoletana dei Girolamini, denunciato dal Fatto, e “lo scempio che sta perpetrandosi a Venezia con le navi che devastano il Canal Grande e il Canale della Giudecca. E le presuntuose ristrutturazioni commerciali operate da altrettanto presuntuosi archistar, di edifici storici, o progetti di nuove opere, autorevolmente con vigorosa preoccupazione denunciate da Salvatore Settis”. Se non di questo, di che si occupa il ministro Ornaghi?

Dopo il mio articolo sull’avvio della privatizzazione della Pinacoteca di Brera (Fatto, 17 agosto) e uno analogo di Vittorio Emiliani (Unità, 20 agosto) decine di intellettuali stanno firmando una durissima lettera in cui si chiede a Napolitano e a Monti di fermare il processo imposto a Ornaghi dal supercollega Corrado Passera, e di aprire un vero dibattito pubblico sulla gestione del patrimonio storico e artistico della nazione tutelato dalla Costituzione.

Il primo atto di questa discussione si è svolto ieri sul Corriere, dove un’intervista al ministro Ornaghi sembra il manifesto del disimpegno, del pilatismo, dell’abdicazione dello Stato dalla propria missione .

“Non ci sono manovre di svendita ai privati. Meno che mai progetti di privatizzare gli Uffizi o la Galleria Borghese”, dice Ornaghi. Che nelle stesse righe, tuttavia, dichiara che bisognerà trovare dei privati disposti a finanziare la Grande Brera. Ci faccia capire, signor Ministro. Lei i soldi per Brera non li chiede a Monti o a Passera, ma li chiede ai privati: gli stessi privati ai quali garantisce di non voler fare nessuno spazio nella conduzione dei musei. E, di grazia, chi sarebbero i privati disposti a regalare alla comunità quei milioni che la comunità non sembra più disposta a impiegare per se stessa? Dove sarebbero i mecenati pronti a finanziare gratuitamente il patrimonio di una nazione immemore di se stessa? Quali sarebbero gli strumenti legislativi e fiscali, e dove l’orizzonte culturale, di un mecenatismo all’americana, disposto a finanziare i musei per ottenere dividendi di legittimazione culturale? Io vedo solo enti locali pronti a lottizzare i Cda dei grandi musei (chi sarebbe felice di un Formigoni che mette bocca nelle nomine di Brera, di un Renzi che governa gli Uffizi o di un De Magistris che gestisce Capodimonte?), sponsor che mirano a piegare il patrimonio al proprio marketing (come nel caso del Colosseo concesso a Della Valle), e ministri che si affrettano a costruire gli strumenti giuridici per cui tutto questo sia possibile.

“Siamo seri”, ammonisce Ornaghi, minimizzando l’allarme. Bene, siamo seri: e cominci lei, signor ministro, a provarci. Le pare serio aver nominato nel Consiglio d’amministrazione della fondazione della Scala (quella che, secondo lei, dovrebbe far da modello a Brera) un suo affezionato creato? Le pare serio aver designato a guidare il Consiglio superiore dei Beni culturali un ignaro filosofo del diritto? Le pare serio non aver ancora messo piede nel centro dell’Aquila devastato dal terremoto di tre anni e mezzo fa, e mai ricostruito? Le pare serio spedire a Pechino delicatissime opere del Rinascimento per ragioni promozionali?

Le pare serio non aver ancora spiegato come sia stato possibile che un suo consigliere abbia svaligiato la biblioteca pubblica che dirigeva, complice la struttura del ministero che lei dirige? Mi rendo conto che è assai più facile per lei – programmaticamente “neoguelfo” – esibirsi in un dibattito su fede e bellezza al meeting di Cl, confrontandosi nientemeno che con un vescovo , con la soprintendente di Firenze sotto processo alla Corte dei Conti per aver acquistato un crocifisso (non) di Michelangelo brandito da prelati in tutta Italia come un vessilo sanfedista, e con un professore della Cattolica di cui lei è (scandalosamente) ancora il rettore. Ma, se l’obiettivo è quello di essere seri, lei dovrà dare ben altre risposte a chi le chiede di rispettare il giuramento di fedeltà alla Costituzione e dunque di trovare i mezzi con cui la Repubblica (cioè lo Stato-persona) continui a tutelare il patrimonio della nazione, cioè dello Stato-collettività, cioè di noi tutti.

Il suo problema, signor ministro, non è quello di “trovare dei finanziatori illuminati”, come ha dichiarato al Corriere, la sua missione non è quella di fare “fund-raising” appaltando agli enti locali o ai privati i pezzi pregiati del patrimonio, in un’ottica per cui tutto ciò che non sarà appetibile sarà destinato alla rovina. No, il suo dovere è conservare e rendere accessibile un patrimonio che si potrebbe mantenere con il 5% dell’evasione fiscale annua che il suo governo sta cominciando a combattere.

Ma finché lei non farà nulla di tutto questo, non potremo che domandarci, con Guido Rossi, “di che si occupa il ministro Ornaghi?”.

Più ancora degli stupri che devastano Roma e che tutti insieme, a partire dall'irresponsabile numero uno Gianni Alemanno, per pietas dovremmo sottrarre alle speculazioni politiche, è il crollo del muro del Pincio, segno di incuria ordinaria e di vandalismo amministrativo, ad anticipare il previsto, inesorabile conto alla rovescia per il sindaco di Roma.

Il crollo del Pincio è infatti il muro della modernità, non le rovine e le vestigia delle mura aureliane che continuano a sgretolarsi, sasso su sasso, dopo il disastro del 2007, ma i mattoni dell’architetto Valadier, pietre lavorate e disegno, i confini belli normali e solidi della città viva, il simbolo dell’eleganza e del garbo dei romani, la scena della bella époque italiana, dei primi baci, delle fughe adolescenziali, delle poesie di Pascarella e degli struggimenti di D’annunzio: «L’autunno moriva dolcemente».

Ebbene, il sindaco Alemanno e il sovrintendente Broccoli dicono che «la colpa del crollo del Pincio è della neve, della pioggia e del caldo secco», e nessuno ormai ride di loro perché nella città più scettica e più sgamata del mondo anche la comicità si è esaurita, e non funziona più l’antico sberleffo che sembrava eterno: «Facce ride’».

Sino a un mese fa proprio in quel tratto del paesaggio segnato dal nomos di Valadier era aperto un grande cantiere di restauro per il decoro della fontana e di alcuni dei busti che arredano come un Pantheon civile il bellissimo giardino. Vi si aggiravano, ben pagati, geometri e geologi, ingegneri, urbanisti, architetti, muratori e ovviamente i soliti professori responsabili della Sovrintendenza. Come mai nessuno si è accorto che quel muro stava per cedere? Eppure tutti mettevano i piedi su una pietra, che secondo il sindaco e il suo fidato Broccoli, era malata di meteoropatia più che di meteorologia.

Dare la colpa al tempo è il più facile dei luoghi comuni. E tutti sappiamo che Alemanno è diventato bersaglio di frizzi e lazzi di ogni genere perché ha imprecato e inveito contro la pioggia, la neve, il caldo. Una volta ha definito gli acquazzoni «un terremoto », poi si è battuto contro la neve andando in giro con una pala per domandare altro danaro al governo. Insomma Alemanno ha fatto del cattivo tempo il capro espiatorio di ogni cosa, dalla morte degli alberi ai crolli dei monumenti, alle buche nella strada… Il sindaco denunzia, sia in estate sia inverno, un’indomabile emergenza clima, una leopardiana natura matrigna. Ma a Roma, per rispondere alle emergenze, ci sono commissari per tutto, in qualche caso da oltre 15 anni. È commissariata la Sanità: il commissario è il presidente della Regione. È commissariata la mobilità: il commissario è il sindaco sin dal 1999, con rinnovi annuali. È commissariata la gestione dei rifiuti: prima fu affidata al presidente della regione, poi a vari politici, quindi ai prefetti e ora al prefetto Sottile. È commissariato il bilancio del comune: per la gestione dei debiti accumulati fino al 2008 il commissario, che prima era il sindaco, oggi è un dirigente del ministero del tesoro. Bisogna dunque commissariare anche la meteorologia con compartimenti specifici, uno per la pioggia e uno per la grandine, un assessore al vento e uno alla nebbia, e un sovrintendente per il cielo coperto e le nuvole a pecorelle.

E però il crollo del Pincio non contiene solo lo spauracchio del cattivo tempo ma, come una matrioska, nasconde e rivela anche il disastro del bilancio, che è filosofia politica prima ancora che cattiva amministrazione. Alemanno applica infatti la logica e la matematica delle professionalità speciali, delle squadre speciali, delle attenzioni sempre più speciali ad ogni evento, sia pioggia sia crollo. E si tratti di accumulo dei rifiuti o di risse nel centro storico, di aumento della criminalità e persino di stupri, Alemanno chiede finanziamenti sempre più speciali. E Roma, come il sud dei piagnistei, diventa l’ospizio di tutti gli eccessi, cresce la criminalità e la capitale si fa mafiosa. Alemanno chiede soldi del governo anche contro l’abuso di quella cartellonistica che è nelle mani di una cosca che controlla e vende gli spazi illegali alla pubblicità, tappezza clandestinamente di orrori le vie consolari e l’intera città come nessuna altra metropoli civile. E la cartellonistica invade, anche legalmente, il centro storico, al punto che in via Veneto non c’è palo della luce e orologio pubblico che non abbiano il suo piccolo obbrobrio pubblicitario. Il Comune, che guadagna sugli spazi legali, combatte solo a parole l’illegalità dei cartellonari, vere e proprie famiglie, piccole aziende potentissime, di cui io evito qui di fare i nomi.

Dunque Alemanno coglie anche l’occasione del crollo del Pincio per chiedere una proroga al patto di stabilità, vale a dire altro danaro. Come dicevamo prima, applica a Roma la scienza dell’emergenza che è tipica del Meridione. Invece di mettere a frutto le proprie capacità e i propri mezzi, come avviene per esempio nell’Emilia terremotata, Alemanno come i Cuffaro e come i Lombardo, sceglie la strada del pianto, del circo dell’emergenza che assale come le mosche l’animale ferito e pretende risorse, e non perché vuole rubare ma perché questa è politica, è macchina elettorale.

Ma il Comune, che non ha soldi per la manutenzione del Pincio, ne ha tanti per organizzare, nientemeno, una festa celebrativa della battaglia di ponte Milvio e dell’imperatore Costantino contrapposto al pagano Massenzio: la croce in cielo, in hoc signo vinces, contro l’aquila di Roma. Alla festa, che costerebbe un’ira di dio, Alemanno vorrebbe la presenza del Papa: preferisce la manutenzione elettorale alla manutenzione dei muri e delle strade di Roma.

E però il bilancio 2012 del Comune che, grazie ad un rinvio, sarà presentato addirittura ad ottobre, è già in deficit da buco nero, nonostante le mille deroghe e i mille rivoli finanziari per Roma capitale ottenuti in un profluvio di nuovi simboli, di inaugurazioni, di tagli di nastri e di chiamate in scena dei semi-vip. L’ultima “vittoria di civiltà” di questa spuma sociale è il trasferimento da Cortina nella capitale degli incontri mondani da cinepanettone intellettuale dei coniugi Cisnetto, sacerdoti e guru del generone romano e specialissimi consiglieri politici del sindaco.

Ma il crollo del Pincio rimanda anche al decoro complessivo che Alemanno dice non potere garantire senza altri soldi: «Scriverò al ministro Ornaghi per chiedere di intervenire sul governo perché si possa avere una deroga per gli interventi più urgenti». E mette le mani avanti: «Senza lavori continuativi c’è il rischio di altri crolli». Ogni giorno, per la verità, le cronache raccontano di crepe e di ferite, e nel giugno scorso addirittura alcuni frammenti di cornicione si staccarono dalla Fontana di Trevi. Anche allora il sindaco disse: «La colpa è della neve». E anche allora si rivolse al ministero: «Abbiamo pochi soldi e poco personale».

Ma al ministero, quando sentono la parola “personale”, mi fanno notare riservatamente che «non c’è nella storia dei comuni italiani un esempio di scandalo nepotista così grande come quello dell’azienda dei trasporti di Roma, l’Atac» dove sono state assunte sorelle, figli, nuore, segretarie, mogli, nipoti e fidanzate di assessori, di senatori e di deputati del Pdl, di sindacalisti della stessa Atac e di dirigenti di un’azienda che ha ora 120 milioni di debiti ed è molto vicina alla bancarotta

Ecco dunque che dal crollo del Pincio si arriva anche all’Atac, vale a dire all’emergenza trasporti, alla viabilità e al traffico che spinge Roma sempre più a Sud, sempre più simile a Palermo e a Napoli. Secondo i dati forniti dall’associazione “Roma si muove” «il 67 per cento dei romani si sposta con mezzi privati, auto e moto, e solo il 27 per cento con i trasporti pubblici che, per appena un terzo, sono su ferro (treno, metrò, tram)». Le conseguenze sono che la Roma di Alemanno ha il primato negativo per morti e feriti sulla strada e per emissioni di anidride carbonica. L’associazione “Roma si muove”, lanciata dall’ex assessore alla Cultura Umberto Croppi, dal segretario radicale Staderini e dal segretario dei verdi Bonelli sta raccogliendo le firme per nove referendum propositivi, uno strumento previsto ma mai attuato dal Comune. Dai trasporti all’uso delle spiagge, dal testamento biologico alle famiglie di fatto, dalla lotta all’abusivismo edilizio alla spazzatura (“zero rifiuti” è lo slogan) questi referendum, se mai si facessero, libererebbero Roma da Alemanno perché esprimono finalmente una politica, condivisibile o meno, nel senso della polis, della città come luogo veramente abitato, luogo della convivenza.

E vedremo se i referendum arriveranno a liberare Roma prima che l’emergenza rifiuti la faccia affogare insieme al suo sindaco. I dirigenti dell’Ama sostengono che, senza la nuova discarica, basterebbe un blocco di 48 ore e le 4000 tonnellate di rifiuti che i romani producono ogni giorno sommergerebbero la città. Non è dunque catastrofismo immaginare un autunno di tanfi e fetori che costringerebbero la gente ad indossare anche a Roma, persino a Roma, la mascherina per strada e a fare slalom tra dossi e cunette in fermentazione.

Un muro che crolla non è mai soltanto calcinaccio e polvere. Ogni muro, infatti, con quella fisica ha sempre una dimensione simbolica e dunque, quando crolla, crolla due volte. Lo sgretolamento del muro del Pincio sgretola anche Alemanno e scopre una Roma a rischio Sudamerica, piccola capitale con tutti vizi della megalopoli, dalle favelas alla violenza quotidiana, alle mafie ai debiti quarantennali con le banche per costosissime metropolitane che non si faranno mai: la linea D è stata definitivamente cancellata, la C rischia di fermarsi a San Giovanni, la B1 degrada la B… Ecco perché quel muro che crolla ci avverte che probabilmente non basta più discaricare Alemanno. Persino Ciarrapico, che comprò la Casina Valadier, ne aveva un rispetto così grande che voleva a tutti i costi portarci gli uomini migliori, come Carlo Caracciolo per esempio: «Ce devi veni’, per far vedere alla gente che qui non ce vengono soltanto i burini come me».

Si è parlato in questi giorni dell’iniziativa intrapresa dal Comune per porre ordine nella “piaga” ultraventennale del condono edilizio. Qualcuno ha equivocato (o volutamente inteso) che si tratti di una riapertura di termini o di dare spazio a nuove attività abusive. C’è solo malafede dietro queste interpretazioni, e il desiderio, ingenuamente malcelato, di insinuare che l’amministrazione de Magistris strizzi l’occhio agli abusivi dell’ultim’ora.

Non mi spendo molto a dire quanto i fatti viceversa dicono: 100 demolizioni è il programma del Sindaco per il 2012, 85 eseguite nello scorso anno. Inconfrontabili i numeri degli anni passati: 15 nel 2010, 32 nel 2009. Significativa la demolizione dello scheletro dell’Arenella, lì da trent’anni.

La strada è tuttavia in salita in una città come Napoli dove l’abuso è nel sangue di molti. Ma è sull’abuso e sulle necessità dell’abusivo che si è> allattata la malapolitica. Quella fondata sulla tutela delle illegalità e non sulla difesa dei beni comuni: il territorio tra questi. La Giunta de Magistris ha decretato il “no” a nuovi condoni, spesso camuffati dietro iniziative di legge d’altro tenore, nazionali e regionali, e pure ribadendo la propria contrarietà a qualsiasi provvedimento che potesse interrompere le demolizioni delle opere abusive insanabili per legge. Il provvedimento della Giunta è stato recepito integralmente anche dal Consiglio comunale, a larghissima maggioranza. Larghissima, ma a maggioranza e ciò lascia pensare. Perché a Napoli c’è pure una minoranza che, a buon diritto, la pensa diversamente.

Oltre all’abusivismo, il condono è una vera piaga sociale: riguarda 45 mila pratiche ancora inevase da uffici comunali storicamente depotenziati. Ma è stato pure argomento politicamente “utile”. Fino a ieri. Utile perché su quelle 45 mila pratiche ci sono 45 mila cittadini (o nuclei familiari) che attendono di risolvere il problema e non ci riescono. E’ qui l’appagante arma politica del bisogno. “A Frà che te serve?” era la frase attribuita ad Andreotti che così si dice si rivolgesse al suo Evangelisti. E “che glie serve” a quei 45 mila richiedenti o meglio, moltiplicati per tre, 135 mila cittadini? E “che glie’ servito” a quei 28 mila che il condono l’hanno avuto? Provvedimenti centellinati da uffici sempre più decimati. 29 mila le pratiche concluse e la legge risale al 1985: 27 anni, mille pratiche l’anno. Dunque 45 anni ancora, se le pratiche sono 45 mila. Si dice che la colpa è della Soprintendenza. Falsità: la Soprintendenza non va certo a prendere le carte al Comune, ma è il Comune che deve inviarle, ma prima deve istruirle. Delle 45 mila, sono 25 mila le domande che riguardano aree di tutela in gran parte idrogeologica o paesaggistica. Sulle prime l’Autorità di Bacino ha riferito che nelle zone ad alto rischio di condono neanche a parlarne.

Col rischio non si tratta. Sul vincolo paesaggistico il caso è diverso. Sinora si è ragionato valutando se l’opera fosse sanabile “se bella piuttosto che se brutta”. La discrezionalità dietro tale criterio è enorme. Il legislatore ha voluto superare questo criterio, senza dubbio degenerante, quando ha stabilito nel 2008 (decreto n. 63) che i provvedimenti di vincolo debbano obbligatoriamente essere “vestiti”. Che significa? Per legge le Regioni, con il Ministero beni culturali, dovevano stabilire quali opere, nei territori vincolati, potessero essere ammesse e quali no. E se le Regioni non avessero attivata la procedura, il Ministero le avrebbe sostituite, facendo da solo. Ma in Italia (e in Campania) le Regioni non si sono mai attivate. I vincoli (a Napoli risalgono agli anni ’50-‘60) sono ancora senza “vestito” e le Regioni (Campania compresa) avrebbero dovuto per legge trasferire queste nuove prescrizioni nelle norme dei nuovi Piani paesaggistici. Intanto, sulla newsletter numero zero dell’assessore regionale all’urbanistica si legge che “redigere il Piano Paesaggistico Regionale è stata una vera e propria sfida”. Ma dove sono i vincoli “vestiti” la cui redazione competeva alla Regione e al Ministero, e dal 31 dicembre 2009 al solo Ministero, che per legge dovranno essere assorbiti nel nuovo Piano Paesaggistico? Dove i decreti di vincolo integrati con le norme di trasformazione possibili nelle aree di pregio paesaggistico?

Per il momento abbiamo (Dio ce li conservi) i piani ministeriali vigenti sulle aree cosiddette “Galasso”. Intanto il Comune di Napoli spiega alla città come si condona e come non si condona all’interno di quelle aree, nel rispetto di quelle condivise indicazioni che pervengono dai piani paesaggistici del Ministero. Il Sindaco ha quest’obiettivo ineludibile: regole chiare, diritti irrinunciabili e certi, quanto i doveri. Tutto qui.

Domanda: ma a chi verrà dato il condono verrà concesso il privilegio di mantenere la propria villa con piscina nelle aree di più elevato pregio? Risposta: no. Anche qui l’amministrazione comunale decide di obbligare i condonati a riunirsi in “comparti” per il successivo trasferimento delle consistenze sanate (demolendo) in siti alternativi, realizzando anche piccoli condominii, ma riducendo il consumo di suolo, liberando e trasferendo al patrimonio comunale quelle aree rimediabilmente recuperabili per più naturali funzioni che il prg individua nel verde dei parchi. Nelle aree compatibili si realizzeranno invece le attrezzature per lo sport e l’istruzione dell’obbligo, gli asili nido, le biblioteche, i luoghi per lo svago.

E’ tutta un’ invenzione? No. Era già scritto nella legge 47 del 1985, quella che istituì il condono. All’articolo 29, disatteso a Napoli come altrove, si dispone che le regioni disciplinano le “varianti” ai piani regolatori per il recupero urbanistico degli insediamenti abusivi in un quadro di convenienza economica e sociale, prevedendo il razionale inserimento territoriale dell'insediamento, un’adeguata urbanizzazione delle aree, il rispetto degli interessi storici, artistici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici.

La Campania ha sì disciplinato, ma rinviando il problema a quando i Comuni dovranno redigere i Puc (piani urbanistici comunali), ovvero chissà quando, mentre la legge 662/96 obbligava le Regioni, decorso il 9 aprile 1997, a commissariare i Comuni che risultavano inadempienti. Napoli sta allora semplicemente anticipando i tempi… con 27 anni di ritardo, e rispettando le regole. A dimostrare che, anche attraverso l’urbanistica, la vera rivoluzione sta “semplicemente” nell’amministrare, lasciando agli altri i proclami e le promesse.

L’autore è assessore all’urbanistica del Comune di NapoliIl testo che eddyburg pubblica in anteprima, costituisce anche la risposta e il commento all’articolo del Mattino del 21 agosto scorso, dal titolo a dir poco fuorviante: In città è pronto il condono per diecimila abusi (m.p.g.)

Anni fa per Ferragosto impazzava la speculazione di Borse più folle. Oggi il governo dei “tecnici” nella pancia del Decreto Salvaitalia decide di varare la privatizzazione di uno dei maggiori Musei italiani – la Pinacoteca statale di Brera – aprendo con essa le porte alla privatizzazione proposta da Giuliano Urbani ministro berlusconiano e contro cui insorsero i direttori di tutti i maggiori musei del mondo. Nel torrido agosto 2012 quasi nessuno commenta la clamorosa notizia. Non c’è un ex ministro, un ex sottosegretario, un responsabile culturale di qualche partito importante, nessuna associazione (temo) che alzi un grido di allarme e di dolore. O almeno un vagito.

Che il ministro per i Beni culturali, il Magnifico Ornaghi, fosse persino più latitante del mellifluo Bondi lo sapevamo. Ma che lasciasse al più potente collega Corrado Passera il compito di dare il via alla maxi-privatizzazione tutta “politica” di Brera non era prevedibile. Fra l’altro il disegno di legge (al cui articolo 8 si prevede la privatizzazione di Brera) è stato “concertato” da Monti coi ministri dell’Economia, dello Sviluppo economico, della Giustizia, delle Politiche agricole, della Cooperazione e del Turismo, assente il solo Ornaghi (forse l’hanno lasciato dormire…).

Si crea infatti la “Fondazione la Grande Brera” col compito di “valorizzare” e gestire “secondo criteri di efficienza economica” il museo creato da Napoleone e dal figliastro Eugenio di Beauharneis razziando opere di grande pregio in tutta Italia (Piero delle Francesca a Urbino, Raffaello a Città di Castello, Barocci a Ravenna, ecc.). Il decreto stabilisce “il conferimento in uso alla Fondazione mediante assegnazione al relativo fondo di dotazione, della collezione della Pinacoteca di Brera e dell’immobile che la ospita” (un sontuoso palazzo del Piermarini dal quale tempestivamente il commissario Mario Resca ha cacciato la più antica Accademia di Belle Arti). Nella Fondazione di diritto privato “La Grande Brera” entreranno rappresentanti dei privati e degli Enti locali. Saranno loro a nominare i tecnici? Pensiamo proprio di sì. Quale primo atto si potrebbe aprire nel cortile piermariniano un bel ristorante tipico meneghino con risòtt e luganeghìn. Quale miglior valorizzazione?

Ma è costituzionale affidare ad una Fondazione privata un patrimonio pubblico ingentissimo, anche per qualità, arricchito da donatori privati (soprattutto nel ‘900) illusi di rendere ancor più grande la principale Pinacoteca statale di Milano e della Lombardia? Noi pensiamo proprio di no e ci meravigliamo che nessuno, sin qui, insorga e se ne indigni. E poi, cosa vuol dire uniformarsi nella gestione ai “criteri dell’efficienza economica”? Che i direttori dei musei italiani sono tutti degli incapaci perché non sanno trasformarli in “macchine da soldi”? Qui bisogna avvertire il ministro Passera (Ornaghi lasciamolo dormire) che i suoi super-ragionieri non sanno nulla della redditività dei musei: non sanno, ad esempio, che lo Stato francese copre ogni anno per il 60 % il passivo del Grand Louvre, dotato di servizi come un ipermercato (forse loro, in vacanza premio, lo credevano in attivo), o che il Metropolitan Museum di New York copre con le entrate proprie soltanto la metà dei costi. Vuol dire che a Brera si faranno mostre decisamente commerciali (magari Caravaggio ch’el tira tant), manifestazioni d’alta moda e simili, presentazioni di auto (se Marchionne ne produrrà ancora in Italia) e non più ricerca, mostre di ricerca, studi e indagini scientifiche? Vuol dire che, invece di far entrare gratis, come avviene, civilmente da noi, circa la metà degli utenti (anziani, giovani, scolaresche, studiosi, ecc.), si esigerà da tutti – al pari dei Musei Vaticani - un salato biglietto d’ingresso? “I beni culturali sono il nostro petrolio”, lo sentenziò l’on. Pedini Mario, ministro dei Beni Culturali, di cui si ricorda soltanto che faceva parte della Loggia P 2.

Al di là dell’ironia, la decisione del governo Monti, lungi dall’essere “tecnica” (come quella di vendere un po’ di gioielli pubblici), realizza in pieno le linee della politica che Berlusconi-Tremonti con la “Patrimonio Spa” e col discusso Museo Egizio di Torino ebbero soltanto modo di abbozzare. Ora essa viene varata col gran pavese. In nome, fate largo, dello Sviluppo. Tutti zitti?

Chi saranno i nuovi padroni della Pinacoteca di Brera? Non più i milanesi, né il popolo italiano: o almeno non solo.

Il Decreto Sviluppo varato dal ministro Corrado Passera il 26 giugno scorso, infatti, non si occupa solo di edilizia, trasporti o settore energetico, ma – all’articolo 8 – stabilisce che «a seguito dell’ampliamento e della risistemazione degli spazi espositivi della Pinacoteca di Brera e del riallestimento della relativa collezione, il Ministro per i beni e le attività culturali, nell'anno 2013, costituisce la fondazione di diritto privato denominata “Fondazione La Grande Brera”, con sede in Milano, finalizzata al miglioramento della valorizzazione dell’Istituto, nonché alla gestione secondo criteri di efficienza economica». Il decreto prevede «il conferimento in uso alla Fondazione, mediante assegnazione al relativo fondo di dotazione, della collezione della Pinacoteca di Brera e dell'immobile che la ospita», e prevede l’ingresso, come soci, degli enti locali lombardi e, quindi, di «soggetti pubblici e privati».

In poche parole: il governo Monti fa il primo grande passo verso la privatizzazione di uno dei principali musei italiani. Un passo sulla cui costituzionalità ci sarebbe molto da dire: possibile che conferire l’intera collezione di Brera ad una fondazione di diritto privato non leda l’articolo 9 della Carta? Ma i problemi non sono ‘solo’ di principio.

Esiste un unico precedente, quello del Museo Egizio di Torino: e non è un precedente brillante. E non tanto per la folcloristica presidenza di Alain Elkann (che scadrà a settembre), quanto per le gravi e paradossali conseguenze di una ‘privatizzazione all’italiana’. Le collezioni dell’Egizio sono state devolute alla Fondazione solo in parte (spezzando tra giurisdizioni diverse complessi archeologici unici), il personale scientifico ha optato di rimanere nello Stato (privando il Museo della più essenziale delle sue componenti) e il consiglio di amministrazione ha nominato la direttrice secondo logiche da manuale cencelli, senza nemmeno consultare il comitato scientifico. E le cicatrici di tutti questi gravi errori, solo in parte recuperati, sono ancora ben visibili.

Ora, ci si chiede, come si comporteranno gli enti locali lombardi, una volta insediatisi sulla plancia di comando della nuova Fondazione? Sarà bene non dimenticarsi che fino a qualche giorno fa ci saremmo potuti trovare la Minetti direttrice di Brera. L’invadenza degli enti locali in un museo di livello e interesse nazionale è un nodo cruciale: non a caso tra i sostenitori di questo tipo di soluzione si conta Dario Nardella, il vicesindaco di Matteo Renzi a Firenze, che come giurista caldeggiava già nel 2003 la cessione degli Uffizi ad una fondazione in cui gli enti locali avessero un peso decisivo. Altro che baloccarsi con l’idea di costruire la facciata michelangiolesca di San Lorenzo o di cercare il Leonardo fantasma sotto il Vasari di Palazzo Vecchio: vi immaginate l’escalation di strumentalizzazione politica della cultura se Renzi potesse nominare il direttore degli Uffizi?

Ma il punto più grave è un altro. Il decreto di Passera (ministro, di fatto, anche dei Beni culturali, vista la sostanziale sede vacante determinata dal sonno di Ornaghi) dice che il fine della fondazione saranno la valorizzazione (eventi, mostre, visibilità mediatica) e la diminuzione dei costi di gestione. Ma un museo come Brera è soprattutto un istituto di ricerca: che riesce a comunicare il suo patrimonio ai cittadini solo in quanto è in grado di produrre e innovare continuamente la conoscenza delle opere che conserva. E la stella polare del cda della Fondazione Brera non sarà certo la scienza, ma il marketing: e così un altro polmone di libertà intellettuale passerà sotto il ferreo dominio del mercato e del denaro.

L’esperienza ventennale della concessione ai privati dei cosiddetti servizi aggiuntivi dei musei italiani «assomiglia ad una soluzione di abdicazione rispetto a competenze centrali da parte degli enti pubblici di gestione» (così, già nel 2009, Stefano Baia Curioni e Laura Forti, economisti della Bocconi). La strada, ancora più radicale, della trasformazione dei grandi musei in fondazioni segnerà un’abdicazione dello Stato ancor più radicale: e con essa un inevitabile allontanamento dagli interessi della collettività.

E non è che l’inizio di un lungo autunno in cui, per pagare la speculazione mondiale sull’enorme debito contratto grazie al Partito Unico della Spesa Pubblica (ancora saldamente aggrappato ai vertici dello Stato), la generazione dei bancarottieri chiuderà in bellezza vendendosi i beni che i padri avevano lasciato alla comunità.

E’ vero che la legge di revisione della spesa non assegna al ministro per i beni e le attività culturali alcuno specifico compito attuativo. E se ne intende bene la ragione. Perché la legge approvata con la fiducia tra luglio e agosto, nel suo articolo 23ter, come già l’articolo 33 della legge 111 del 2011 (la legge di stabilizzazione finanziaria), non modifica in alcun modo il rigoroso regime del demanio culturale come disegnato nel codice dei beni culturali e del paesaggio. Lo aveva sfrontatamente modificato, con il dichiarato fine di dare “massima attuazione al federalismo demaniale”, la legge 116 del 2011 (con le sue “prime disposizioni urgenti per l’economia”), aprendo le maglie dell’assegnazione ai comuni dei beni dello stato, esclusa per i beni di interesse culturale pur soltanto presunto: l’art. 4, comma 16, di quella legge aveva modificato per i soli beni immobili uno dei consolidati requisiti della tutela, spostando a settanta’anni il limite temporale a ritroso che convenzionalmente fin dalla pioniera legge del 1909 era stato fissato al riconoscimento dell’interesse storico e artistico delle “cose”(non essendo soggette alla disciplina di tutela “le cose … la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquant’anni”).

Ebbene, se la legge di revisione della spesa lascia invece integra la disciplina dettata dal codice dei beni culturali e del paesaggio per il patrimonio pubblico, assoggettato alle stringenti regole degli articoli 12 e 53 – 55, si deve constatare che rimangono integralmente estranei all’automatismo di quella legge, con i complessi meccanismi del suo articolo 23ter, i beni di interesse culturale, pur soltanto presunto, e dunque ai costituendi “fondi comuni di investimento immobiliare” potranno essere trasferiti soltanto i beni immobili (la cui esecuzione risalga ad oltre settant’anni) che siano stati riconosciuti privi di alcun interesse culturale con una espressa dichiarazione negativa (che spetta alle direzioni regionali del ministero).

Se il ministro per i beni e le attività culturali non è chiamato a partecipare agli sviluppi attuativi della spending review, alla sua diretta responsabilità è affidata la vigilanza sul rispetto della esclusione del demanio culturale dall’ambito esecutivo della nuova disciplina legislativa.

Sa bene il ministro che il patrimonio pubblico è presidiato dalla presunzione di interesse culturale in forza della quale ogni bene (se immobile) la cui esecuzione risalga ad oltre settant’anni, pur se non sia stato oggetto di formale riconoscimento, è assoggettato al regime del codice dei beni culturali e che i beni immobili di interesse culturale degli enti pubblici territoriali (quindi stato e comuni) costituiscono il demanio culturale. Sa bene che il bene pubblico è soggetto a tutela pur se rivesta un interesse culturale non qualificato, a differenza del bene di appartenenza privata per il quale requisito della tutela è l’interesse culturale “particolarmente importante”; che la vendita dei beni del demanio culturale è preclusa per quelli cui si riconosca valore identitario, come documenti della storia delle istituzioni, e che l’alienazione è altrimenti ammessa (su specifica autorizzazione delle direzioni regionali del ministero) quando “assicuri la tutela, la fruizione pubblica e la valorizzazione dei beni” e che l’osservanza delle prescrizioni dettate al riguardo per conservazione e destinazione è rafforzata dalla clausola legale di risoluzione espressa. Un regime del tutto incompatibile con i meccanismi automatici e indiscriminati - e con gli stessi fini - della legge di revisione della spesa, perciò inapplicabili al demanio culturale.

Non può aver dubbio il ministro che la riserva del demanio culturale, così strutturato, non è forzata dalla legge che avvia il procedimento di valorizzazione economica degli “immobili di proprietà dello stato non utilizzati per finalità istituzionali” “allo scopo di conseguire la riduzione del debito pubblico”, attraverso la costituzione dei “fondi comuni d’investimento immobiliare” affidati alla gestione esclusiva del ministero dell’economia e delle finanze. Spetta al ministro per i beni e le attività culturali presidiare quella riserva con la doverosa fermezza (mettendo innanzitutto in allerta i suoi direttori regionali).

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