Trattative pericolose quelle tra proprietà privata e potere pubblico. Soprattutto quando la proprietà è del maggior potere cittadino. La trasparenza è d'obbligo e i vantaggi per i cittadini l'obiettivo prioritario. Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2012
Un pezzo di città da riqualificare, una potente società calcistica che potrebbe farsene carico (e completare così il progetto inedito e vincente di uno stadio di proprietà), una sciagurata operazione urbanistica di qualche anno fa e una città con un disperato bisogno di denaro liquido per rientrare nel Patto di stabilità. Sono gli elementi di una vicenda che rischia di incrinare la maggioranza di centrosinistra che governa Torino. Lunedì il consiglio comunale voterà la variante del piano regolatore che darebbe il via libera alla Juventus per la costruzione di una “cittadella bianconera” accanto allo Stadium. Variante che quattro consiglieri del Pd, e l’Idv Giuseppe Sbriglio, minacciano di non votare, e non sono mancati aspri dissapori tra quest’ultimo (ex assessore allo sport di Chiamparino) e l’assessore all’urbanistica Ilda Curti (Pd).
Cosa agita, dunque, i consiglieri della maggioranza che sostiene Piero Fassino? Il prezzo troppo basso? In effetti meno di euro al metro quadro per il diritto di superficie è tutt’altro che sfavorevole, ma c’è dell’altro. Il problema, in realtà, riguarda una gestione un po’ leggera della vicenda. Chi è accecato dal tifo avverso evoca sudditanza a casa Agnelli, altri - meno prosaicamente - ci vedono l’esigenza di incassare alla svelta.
La giunta, a fine luglio, ha siglato un protocollo con la Juventus senza fissare un prezzo per la vendita ma accettando tout court l’offerta della società di Andrea Agnelli. Inoltre, nel testo della delibera sottoposto al Consiglio pochi giorni fa, è “magicamente” raddoppiata (da 6 a 12 mila mq) l’area destinata all’edilizia residenziale, quella più redditizia, senza che il Comune - come logica suggerirebbe - abbia chiesto un euro in più. A seguito di questo “incidente” è stata disposta una perizia, che tuttavia vedrebbe la luce solo ex post. Cosa accadrebbe se il prezzo non sarà considerato congruo?
C’è poi la questione di ciò che già esiste alla Continassa: l’ex Palastampa ora in gestione alla famiglia Togni (già in contenzioso con la città) e - soprattutto - l’ex Arena rock. Quest’ultima è un’enorme spianata di terra pensata come area concerti costata 5 milioni di euro e mai (dicasi mai) usata in quasi dieci anni, perché assolutamente e palesemente inadeguata. L’Arena rock è oggi un kartodromo, costruito da una società privata che ha vinto una regolare gara pubblica (a cui la Juventus non ha partecipato). Non è un rischio contabile - si chiedono i consiglieri “ribelli” - far finta che alla città quella struttura non sia costata milioni di euro? E soprattutto, chi manda via i concessionari? E a che prezzo? Il rischio, insomma, è che il ricavato della vendita - se la Juventus non accetterà di farsene carico - finisca in risarcimenti e contenziosi con i privati.
ROMA — Via le bancarelle da Ponte di Rialto a Venezia, legittime o abusive che siano. Via i camion bar dal Colosseo, centurioni compresi, via i banchi del mercato di San Lorenzo a Firenze che asfissiano la basilica e nascondono le Cappelle medicee, via i tavolini e i dehor di via Toledo a Napoli. E già che ci siamo sloggino pure gli ‘gnuri’, le carrozze con cavallo di Palermo, “odorosa” presenza fissa davanti al Teatro Massimo. Via tutto, l’operazione “piazza pulita” del ministro Lorenzo Ornaghi non risparmierà nessuno.
Se anche solo un quarto della direttiva appena emanata dal ministero per i Beni culturali sarà realizzato, le città d’arte cambieranno faccia e i monumenti “respireranno”. L’obiettivo del provvedimento è «contrastare l’esercizio di qualsiasi attività commerciale e artigianale su aree pubbliche di particolare valore archeologico, storico e artistico, non compatibile con la tutela del decoro ». Aggiungendo all’elenco anche le strade, le piazze e gli spazi urbani pubblici realizzati da oltre settant’anni. In pratica, tutti i centri storici d’Italia.
Attenzione, non si tratta di una direttiva che riguarda solo venditori abusivi di chincaglieria varia e i titolari di bar e ristoranti che piazzano tavolini dove vogliono. È indirizzata anche a chi ha concessioni storiche («non danno mai luogo a diritti intangibili», scrive il ministro) o regolare permesso per l’occupazione di suolo pubblico. Se le direzioni regionali del Mibac, sentite le soprintendenze, riterranno quelle attività lesive della bellezza artistica della zona, perché antiestetiche o «pregiudicanti la visuale dei beni vincolati», inviteranno gli enti locali a prendere provvedimenti per chiuderle o, nel caso dei mercati, per spostarle. Perché «la tutela del patrimonio culturale è preminente agli interessi privati». Già da tempo alcuni comuni hanno messo divieti a salvaguardia del decoro. Per esempio l’ordinanza di Milano “anti-movida” per la chiusura dei dehor alle 23. E a Roma ieri sono stati presentati i nuovi minibus color crema per i venditori di gelati, con un look più “integrabile alle aree di pregio”.
Ma appena il sindaco Alemanno ha provato a ridisegnare gli spazi concessi a bar, ristoranti e locali nelle “cartoline” della città, subito si è sentito aria di serrata. La profezia è facile, succederà anche con la direttiva Ornaghi. Giacomo Errico, presidente Fiva (ambu-lanti) della Confcommercio non ci gira intorno: «È una follia — dice — un tentativo maldestro di uccidere i mercatini, con l’unico risultato di favorire abusivi e grandi marchi. Se Ornaghi pensa che ci adegueremo, si sbaglia. Sentirà la nostra protesta. Come nel 1995, quando in 80 mila andammo a Roma per l’aumento della Tosap». E però oggi per vedere la basilica di San Lorenzo a Firenze tocca salire sui tendoni delle bancarelle, e non si riesce quasi a fotografare il Castello Sforzesco di Milano senza immortalare anche un venditore di gelati. «Ma chi lo dice che siamo troppi? — sbotta Errico — Roma ha 2 milioni di turisti al giorno, spostare gli ambulanti in periferia significa ucciderli».
C’è anche chi prova a stimare il danno economico. «Perderemo la metà dei 26 miliardi attuali di introito — dice Mauro Bussoni, vice direttore generale di Confesercenti — 200 mila persone rischiano di perdere il posto. Il ministro ha perso il cervello». I “tavolini selvaggi”, però, non sono un’invenzione. «Le autorizzazioni le danno i Comuni — chiosa Bussoni — possibile che oggi il problema del nostro patrimonio artistico siano i commercianti?».
Postilla
Al solito, sarebbe utile vedere (come probabilmente già sa chi è coinvolto) i particolari delle intenzioni ministeriali, e come si mescolano ai poteri degli altri livelli di governo coinvolto. Quello che è certo, è che così come posta dall’articolo la questione rischia di cadere nel trito calderone degli interessi di bottega contro altri contrastanti interessi di bottega. Che immagine di città ne esce? Da un lato la cosiddetta vitalità economica locale e spontanea, che dà vita a quartieri e monumenti, evoca certe foto Alinari con gli atri muscosi e i fori cadenti che l’iniziativa modesta dei commercianti trasforma in polmoni di vita urbana, in qualche modo contribuendo alla loro grandezza. Ma l’uso vuol dire usura, e allora interviene l’altra idea più aulica di città, quella che immagina un mondo bellissimo modellato sulle sublimi vedute dei quadri di De Chirico, o di certi affascinanti plastici sfornati dagli studi di architettura o restauro. Spazi dove ci si muove con il rispetto dovuto al valore culturale, simbolico, e perché no anche sociale degli ambiti e degli oggetti che li compongono. Peccato che da questa specie di contrapposizione dialettica manchi il contenitore sociale per eccellenza, ovvero la città che la società abita: tutta, non i vasi incomunicanti della segregazione funzionale che tanti danni ha già fatto e continua a fare ovunque. La domanda da porsi forse sarebbe: sino a che punto possono convivere la conservazione e la valorizzazione (non quella puramente mercificata naturalmente) di alcune porzioni urbane, con il tipo di vitalità che trasforma dei potenziali cimiteri in poli di vitalità e interazione, stimolando nuove idee, inseriti nel contesto, tali da produrre identità e rispetto per nulla timoroso da parte di tutti i cittadini? L’alternativa, guerra fra botteghe a parte, è una specie di mosaico fatto da gated communities che si guardano in cagnesco l’una con l’altra, da sopra le recinzioni fisiche o elettroniche, in uno scenario che magari non ricorda più certo degrado commerciale da improvvisazione, ma di sicuro non ha nulla a che vedere con la città, storica o non storica che sia (f.b.)
Ecco un esempio pisano di come l'accrescimento della rendita urbana, derivante dalle decisioni pubbliche, si traduca in ricchezza privata. Il Fatto quotidiano, 7 novembre 2012
Pisa. Ikea sbarca a Pisa con un super store da 33 mila metri quadrati. I lavori sono già iniziati e la multinazionale del mobile ha in programma di terminarli a fine 2013. Ma il primo affare l’ha compiuto la società che le ha venduto l’area, sulla via Aurelia sud, tra l’aeroporto “Galilei” e l’uscita della superstrada Firenze-Pisa-Livorno, la Navicelli spa, con una semplice variante al piano urbanistico ottenuta dall’amministrazione comunale ha quadruplicato il valore dei terreni avuti pochi mesi prima dello stesso municipio. Da circa 50 euro a 200 euro al metro quadrato. Una plusvalenza gigantesca, da 765mila euro a oltre tre milioni per ottenere quei 15 mila metri quadrati necessari per costruire il nuovo grande magazzino. La Navicelli ha pagato i denari dovuti all’amministrazione comunale con grave ritardo e solo dopo la variante urbanistica che consentiva il nuovo insediamento commerciale e dopo aver incassato la prima tranche dei soldi da Ikea. E dire che la società era nata per favorire il settore nautico.
L'arrivo di Ikea a Pisa è storia lunga. La multinazionale svedese aveva messo gli occhi su un’altra area, nel comune di Vecchiano. La struttura doveva sorgere a ridosso del casello autostradale ma l’amministrazione locale, a pochi giorni dalle elezioni, non se la sentì di dare il via ad un progetto che prevedeva anche un grande centro commerciale e un villaggio turistico. Una colata di cemento. Stoppata a Vecchiano, Ikea trova il sindaco di Pisa Marco Filippeschi pronto a cogliere l’occasione di un investimento da 70 milioni di euro che dovrà dare un posto di lavoro a circa 300 dipendenti diretti. Tanto più che a Pisa la società del mobile ha rinunciato alla colata di cemento che voleva r
Sulla carta l’operazione mette tutti d’accordo. Le aree erano state vendute per creare posti di lavoro e nuova occupazione la porterà l’Ikea e poco importa se non sarà l’industria delle barche da diporto. La multinazionale del mobile realizzerà il suo progetto, anche se deve rinunciare alla speculazione edilizia, il Comune ha incassato i soldi che gli doveva Navicelli. Maurizio Bini, capogruppo di Rifondazione comunista in Comune, teme gli effetti della nuova Ikea su una zona già gravata da traffico e pesanti infrastrutture e critica anche la plusvalenza che la Navicelli ha realizzato nell’acquisto e l’immediata rivendita delle aree di Porta a Mare. Dietro Navicelli ci sono personaggi che hanno molti legami con l’amministrazione comunale, dall’ex vice sindaco Stefano Bottai ad alcuni costruttori edili che hanno reso possibile l’operazione Ikea vendendo i loro terreni e che in molti casi sono tra coloro che hanno le mani su tutto quello che si muove sul litorale pisano, dal porto di Marina alla Cosmopolitan di Tirrenia, dal resort del Mary alla società Boccadarno. Due milioni e trecentomila euro di guadagno, senza alcun margine di plusvalenza per le casse comunali, con un paio di atti notarili.
Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.)
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato.
Full Monti
«E' necessario che il sito rimanga in piedi con lavori di qualità e in sicurezza per i lavoratori, aveva dichiarato ad aprile il presidente del Consiglio, Mario Monti, presentando al mondo il "Grande progetto Pompei": 105 milioni di euro, 63 milioni nazionali e 42 di risorse europee, investiti nei prossimi te anni per la manutenzione del sito archeologico. Uno studio del 2005, commissionato dalla Soprintendenza, stimava in 260 milioni di euro il costo degli interventi necessari per la messa in sicurezza di tutta l'area degli scavi. Gli obiettivi, ha aggiunto Monti,«sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio. Sono trascorsi sette mesi e, ancora, nessun cantiere è stato aperto. I primi interventi tra l'altro non saranno di manutenzione e messa in sicurezza delle zone già accessibili ai visitatori ma riguarderanno il restauro e l'apertura di cinque nuove domus - la Casa del Criptoportico, la Casa di Sirico, quella del Marinaio, quella delle Pareti rosse e la Casa dei Dioscuri - con un costo di cinque milioni di euro. Per la scorsa estate era attesa la pubblicazione del bando per la "mitigazione del rischio idrogeologico", cioè proprio quello che serve per evitare infiltrazioni d'acqua e crolli: ad autunno inoltrato non c'è ancora traccia. Eppure, per velocizzare le operazioni sono state effettuate negli ultimi mesi pure ventidue nuove assunzioni di architetti e professionisti. «Da come agiremo sul sito archeologico, dipenderà molto della reputazione che potremo avere come Paese.
Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio.
Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare.
Conti in rosso
Per ripristinare le "squadrette" basterebbe assumere una cinquantina di persone: costo medio 39 mila euro all'anno. Meno di due milioni di euro,che garantirehbero più sicurezza e maggiore salvaguardia del patrimonio.E posti di lavoro. Soldi che, in parte, verrebbero recuperati dagli affidamenti diretti alle ditte chiamate d'urgenza quando c'è qualche cedimento. Oggi, negli Scavi di Pompei lavorano in 213: i loro stipendi, circa 8,3 milioni di euro, li paga il Mibac, il ministero dei Beni culturali. Per il funzionamento e la manutenzione ordinaria viene utilizzato l'incasso: circa 19 milioni per 1,7 milioni di visitatori paganti. Se Pompei fosse un'azienda privata, tra costi di gestione e personale, sarebbe già fallita. Eppure, secondo un vecchio studio del Mibac, servirebbero almeno altri 500 addetti per far funzionare al meglio il sito. Prevalentemente custodi. Garantirebbero la fruizione di tutti o quasi i 67 ettari del sito, l'apertura serale per almeno quattro mesi all'anno, un aumento di almeno il 50 per cento dei visitatori. Per raggiungere il pareggio, bisognerebbe aumentare il costo dei biglietto dagli attuali 11 euro a 15,50 euro, la stessa cifra che si paga per l'ingresso al Moma di New York. Il paradosso è che in cassa, oggi a Pompei, ci sono circa 57 milioni di curo non spesi. Sembra un contrappasso, dopo l'era Fiori in cui si registrarono 54 voci di spesa negli ultimi due giorni di commissariamento: 15 milioni di euro tra il 29 e il 30 luglio 2010, proprio mentre si preparavano gli scatoloni per andar via.
Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.)
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato.
Full Monti
«E' necessario che il sito rimanga in piedi con lavori di qualità e in sicurezza per i lavoratori, aveva dichiarato ad aprile il presidente del Consiglio, Mario Monti, presentando al mondo il "Grande progetto Pompei": 105 milioni di euro, 63 milioni nazionali e 42 di risorse europee, investiti nei prossimi te anni per la manutenzione del sito archeologico. Uno studio del 2005, commissionato dalla Soprintendenza, stimava in 260 milioni di euro il costo degli interventi necessari per la messa in sicurezza di tutta l'area degli scavi. Gli obiettivi, ha aggiunto Monti,«sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio. Sono trascorsi sette mesi e, ancora, nessun cantiere è stato aperto. I primi interventi tra l'altro non saranno di manutenzione e messa in sicurezza delle zone già accessibili ai visitatori ma riguarderanno il restauro e l'apertura di cinque nuove domus - la Casa del Criptoportico, la Casa di Sirico, quella del Marinaio, quella delle Pareti rosse e la Casa dei Dioscuri - con un costo di cinque milioni di euro. Per la scorsa estate era attesa la pubblicazione del bando per la "mitigazione del rischio idrogeologico", cioè proprio quello che serve per evitare infiltrazioni d'acqua e crolli: ad autunno inoltrato non c'è ancora traccia. Eppure, per velocizzare le operazioni sono state effettuate negli ultimi mesi pure ventidue nuove assunzioni di architetti e professionisti. «Da come agiremo sul sito archeologico, dipenderà molto della reputazione che potremo avere come Paese.
Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio.
Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare.
Conti in rosso
Per ripristinare le "squadrette" basterebbe assumere una cinquantina di persone: costo medio 39 mila euro all'anno. Meno di due milioni di euro,che garantirehbero più sicurezza e maggiore salvaguardia del patrimonio.E posti di lavoro. Soldi che, in parte, verrebbero recuperati dagli affidamenti diretti alle ditte chiamate d'urgenza quando c'è qualche cedimento. Oggi, negli Scavi di Pompei lavorano in 213: i loro stipendi, circa 8,3 milioni di euro, li paga il Mibac, il ministero dei Beni culturali. Per il funzionamento e la manutenzione ordinaria viene utilizzato l'incasso: circa 19 milioni per 1,7 milioni di visitatori paganti. Se Pompei fosse un'azienda privata, tra costi di gestione e personale, sarebbe già fallita. Eppure, secondo un vecchio studio del Mibac, servirebbero almeno altri 500 addetti per far funzionare al meglio il sito. Prevalentemente custodi. Garantirebbero la fruizione di tutti o quasi i 67 ettari del sito, l'apertura serale per almeno quattro mesi all'anno, un aumento di almeno il 50 per cento dei visitatori. Per raggiungere il pareggio, bisognerebbe aumentare il costo dei biglietto dagli attuali 11 euro a 15,50 euro, la stessa cifra che si paga per l'ingresso al Moma di New York. Il paradosso è che in cassa, oggi a Pompei, ci sono circa 57 milioni di curo non spesi. Sembra un contrappasso, dopo l'era Fiori in cui si registrarono 54 voci di spesa negli ultimi due giorni di commissariamento: 15 milioni di euro tra il 29 e il 30 luglio 2010, proprio mentre si preparavano gli scatoloni per andar via.
| Autore: Pappaianni, Claudio |
| Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
| I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
| Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
| I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
| Autore: Pappaianni, Claudio |
| Dimenticare Pompei |
| Data di pubblicazione: 04.11.2012 |
| Autore: Pappaianni, Claudio |
| Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
| I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
| Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
| I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
Possibile che non si trovi una maggioranza capace di fare una politica diversa da quella di Craxi-Berlusconi- Monti, con l'appoggio di Di Pietro e Bersani? il manifesto, 2 novembre 2012
Il governo ha deciso: non chiude il progetto del Ponte sullo Stretto ma lo rinvia. La costosissima agonia del Ponte andrà avanti per almeno altri due anni, che serviranno «a verificare la fattibilità tecnica ed economico-finanziaria del progetto», prima della decisione definitiva. La società del Ponte (la Sdm), che spende circa mezzo milione di euro al mese solo per sopravvivere, potrà così continuare a sprecare risorse pubbliche nell'unica attività che porta avanti ormai da una quarantina d'anni: l'eterna progettazione. Ma c'è di peggio: le imprese consorziate per la realizzazione del Ponte, in attesa di un'opera che non si farà mai, potranno realizzare infrastrutture «collaterali, funzionalmente autonome rispetto al manufatto principale ma comprese nel programma». Siamo all'assurdo.
Siamo all'assurdo: una opera non si realizza ma si possono costruire le attrezzature di contorno. Eppure Monti e Passera sembravano avviati sulla strada giusta, la chiusura definitiva di un telenovela costata già moltissimo agli italiani, in una progettazione infinita che in 40 anni non ha dimostrato neppure la fattibilità del manufatto (a dispetto dei CettoQualunquistici annunci di Berlusconi), evidenziandone invece i gravissimi impatti ambientali e paesaggistici, la sostanziale inutilità trasportistica, i sempre crescenti ed esorbitanti costi di realizzazione(8,6 miliardi di euro il conto sintetico allegato all'ultima versione del progetto).
Nei mesi scorsi l'esecutivo aveva preso atto dell'esclusione del Ponte dai programmi di infrastrutture strategiche comunitarie e aveva definanziato completamente il programma (operazione peraltro già avviata prima da Tremonti e Berlusconi), dichiarando più volte che «il ponte non è una priorità» e che la questione sarebbe stata «definita compiutamente». Nelle ultime settimane si era chiarita anche la questione delle penali, inesistenti in caso di bocciatura del progetto definitivo: per cui una chiusura in questa fase comportava solo i rimborsi spese. Tutto faceva pensare ad una fine della storia. Invece è arrivato un rinvio, che sostanzialmente «sbologna» la decisione al nuovo governo. E soprattutto permette a società e imprese di continuare a sprecare soldi pubblici proprio nel giorno in cui l'esecutivo assume, tra l'altro, l'odiosa decisione di negare i contributi ai malati di Slòa.
Protestano gli ambientalisti (che hanno sempre contestato anche tecnicamente il progetto, smascherandone infattibilità e insostenibilità) insieme a buona parte del centrosinistra e ai Noponte. Si chiede l'intervento di Napolitano, sempre schierato contro gli sprechi, oggi più che mai inaccettabili.
Appena insediati, Passera e il suo vice Ciaccia, che da banchieri avevano fatto da consulenti ad Impregilo, l'impresa capocordata del ponte, avevano rassicurato chi si preoccupava di possibili conflitti d'interesse: «Da rappresentanti del governo adesso cambia tutto! Parleranno i fatti», rispondevano. Appunto.
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato.
Full Monti
«E' necessario che il sito rimanga in piedi con lavori di qualità e in sicurezza per i lavoratori, aveva dichiarato ad aprile il presidente del Consiglio, Mario Monti, presentando al mondo il "Grande progetto Pompei": 105 milioni di euro, 63 milioni nazionali e 42 di risorse europee, investiti nei prossimi te anni per la manutenzione del sito archeologico. Uno studio del 2005, commissionato dalla Soprintendenza, stimava in 260 milioni di euro il costo degli interventi necessari per la messa in sicurezza di tutta l'area degli scavi. Gli obiettivi, ha aggiunto Monti,«sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio. Sono trascorsi sette mesi e, ancora, nessun cantiere è stato aperto. I primi interventi tra l'altro non saranno di manutenzione e messa in sicurezza delle zone già accessibili ai visitatori ma riguarderanno il restauro e l'apertura di cinque nuove domus - la Casa del Criptoportico, la Casa di Sirico, quella del Marinaio, quella delle Pareti rosse e la Casa dei Dioscuri - con un costo di cinque milioni di euro. Per la scorsa estate era attesa la pubblicazione del bando per la "mitigazione del rischio idrogeologico", cioè proprio quello che serve per evitare infiltrazioni d'acqua e crolli: ad autunno inoltrato non c'è ancora traccia. Eppure, per velocizzare le operazioni sono state effettuate negli ultimi mesi pure ventidue nuove assunzioni di architetti e professionisti. «Da come agiremo sul sito archeologico, dipenderà molto della reputazione che potremo avere come Paese.
Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio.
Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare.
Conti in rosso
Per ripristinare le "squadrette" basterebbe assumere una cinquantina di persone: costo medio 39 mila euro all'anno. Meno di due milioni di euro,che garantirehbero più sicurezza e maggiore salvaguardia del patrimonio.E posti di lavoro. Soldi che, in parte, verrebbero recuperati dagli affidamenti diretti alle ditte chiamate d'urgenza quando c'è qualche cedimento. Oggi, negli Scavi di Pompei lavorano in 213: i loro stipendi, circa 8,3 milioni di euro, li paga il Mibac, il ministero dei Beni culturali. Per il funzionamento e la manutenzione ordinaria viene utilizzato l'incasso: circa 19 milioni per 1,7 milioni di visitatori paganti. Se Pompei fosse un'azienda privata, tra costi di gestione e personale, sarebbe già fallita. Eppure, secondo un vecchio studio del Mibac, servirebbero almeno altri 500 addetti per far funzionare al meglio il sito. Prevalentemente custodi. Garantirebbero la fruizione di tutti o quasi i 67 ettari del sito, l'apertura serale per almeno quattro mesi all'anno, un aumento di almeno il 50 per cento dei visitatori. Per raggiungere il pareggio, bisognerebbe aumentare il costo dei biglietto dagli attuali 11 euro a 15,50 euro, la stessa cifra che si paga per l'ingresso al Moma di New York. Il paradosso è che in cassa, oggi a Pompei, ci sono circa 57 milioni di curo non spesi. Sembra un contrappasso, dopo l'era Fiori in cui si registrarono 54 voci di spesa negli ultimi due giorni di commissariamento: 15 milioni di euro tra il 29 e il 30 luglio 2010, proprio mentre si preparavano gli scatoloni per andar via.
L’imbarazzo del governo nel colossale pasticcio del ponte sullo Stretto di Messina si spiega con l’esistenza di un accordo segreto con il quale tre anni fa la società statale Stretto di Messina spa ha garantito ai costruttori del consorzio Eurolink (Impregilo, Condotte, Cmc) il pagamento della ormai famosa penale che il contratto originario escludeva. L’accordo è stato firmato il 17 aprile 2009 dal presidente della Stretto di Messina, Giuseppe Zamberletti, e dal presidente di Eurolink, Carlo Silva, e siglato per assenso da Pietro Ciucci, nella veste di commissario governativo per la realizzazione dell’opera, una delle sue tre parti in commedia: è anche amministratore delegato della Stretto di Messina, nonché presidente dell’Anas, azionista di maggioranza della medesima società realizzatrice del ponte.
Prima di entrare nel dettaglio del contratto segreto, val la pena ricordare che mercoledì sera il Consiglio dei ministri si è arenato proprio su questo misterioso documento. Corrado Passera, come ministro delle Infrastrutture, lo conosce. Fabrizio Barca, ministro della Coesione sociale e soprattutto segretario del Cipe, l’organo di governo che decide sul ponte, ha detto di non disporne neppure in copia. E su questo è passata la sua linea del rinvio di due anni, utili per Barca a trovare il modo di non pagare a Eurolink le penali per centinaia di milioni che Passera era pronto a pagare sull’unghia.
Per capire il contenuto esplosivo dell’accordo segreto del 2009 bisogna fare un ulteriore passo indietro, all’11 ottobre 2006. Quel giorno alla Camera dei Deputati la maggioranza dell’Unione votò la mozione con cui si dava al governo Prodi il segnale di stop per il ponte sullo Stretto. Solo sei mesi prima, esattamente il 27 marzo, la Stretto di Messina aveva firmato il contratto per l’affidamento dell’opera con Eurolink, che aveva vinto la gara internazionale. E subito si cominciò a parlare di penali. Il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, come al solito, parlò chiaro: “Perché dovremmo pagare una penale? Non gli abbiamo tolto nulla, la società Stretto di Messina sta lì, Impregilo sta lì, cosa vuole, vuole pure una penale per una cosa che non ha fatto?”. Sì, Impregilo voleva proprio la penale per una cosa che non avrebbe fatto. La cosa era chiara fin dal giorno della gara, vinta con un ribasso pazzesco (17 per cento) per un’opera senza precedenti.
E infatti, sollecitato da una senatrice dei Verdi, nonché dirigente del Wwf, Anna Donati, Ciucci aveva scritto una lettera molto chiara, datata 9 novembre 2005, in cui escludeva l’esistenza di penali. Testualmente: “Fino all’approvazione del progetto definitivo ed esecutivo da parte del Cipe Stretto di Messina spa può dunque esercitare recesso senza pagare alcuna penale”.
Siccome a tutt’oggi il Cipe non ha approvato il progetto, perché si parla invece di penali? Proprio perché nel 2009 Ciucci e Zamberletti hanno avuto una pensata notevole. In seguito allo stop decretato dal governo Prodi nel 2006, tutta l’operazione si è fermata, ma Eurolink, ancora titolare di un contratto, ha deciso di aprire un contenzioso, dicendo che la dilatazione dei tempi le aveva procurato danni per 134 milioni di euro. E fu subito transazione, ma segreta, che non è un bel vedere quando si parla di denaro pubblico. “Il presente accordo transattivo ha carattere riservato”, firmano Zamberletti e Ciucci. E non a caso.
Con un esempio di "diritto creativo", infatti, hanno modificato un contratto derivante da gara pubblica, cosa che anche il profano troverebbe strana. Per esempio, le condizioni della gara dicevano che il costruttore doveva garantire un “prefinanziamento” pari al 10 per cento dell’opera, Eurolink ha offerto di portarlo al 15 per cento, e a gara vinta, con l’accordo del 2009, si è tornati al 10 per cento.
Ma il colpo del maestro è l’articolo 6. La penale del 10 per cento, che scattava solo dopo approvazione del progetto definitivo da parte del Cipe, è ridotta al 5 per cento, ma scatta se l’opera non è partita 540 giorni dopo l’approvazione del progetto da parte della Stretto di Messina. La quale il progetto l’ha approvato all’inizio dell’estate 2011. Contate quando scadono i 540 giorni, e vedrete che manca poco. Il governo nel suo comunicato di mercoledì sera ha scritto che il rinvio delle scadenze per un paio d’anni “dovrà essere accettato dal contraente generale tramite la sottoscrizione di un atto aggiuntivo al contratto vigente”. A Eurolink basta un cortese “no grazie!”, e le penali scatteranno: proprio quei 300 milioni quantificati da Passera nelle bozze della legge di Stabilità. Come disse Woody Allen (La dea dell’amore, 1995): "Prevedo disastri, prevedo catastrofi... Peggio: prevedo avvocati”.
Stop al Ponte sullo Stretto di Messina. Anzi no. Il governo fa una repentina marcia indietro sulla già annunciata messa in soffitta del progetto del ponte che dovrebbe collegare la Sicilia alla Calabria. L'addio all'opera pubblica era stato dato con l'accantonamento nella legge di stabilità di 300 milioni di euro per il pagamento della penale dovuta al Consorzio che avrebbe dovuto realizzarlo, ma nel consiglio dei ministri della scorsa notte il governo ci ha ripensato. Se davvero ci sarà, lo stop al Ponte non verrà dato prima di due anni, tempo necessario - spiega una nota di palazzo Chigi - per «verificarne la fattibilità tecnica e la sussistenza delle effettive condizioni di bancabilità». Nel frattempo non si starà però con le mani in mano, anzi si potrà continuare a cementificare: «In ogni caso - prosegue infatti Palazzo Chigi - durante il periodo di proroga, previa deliberazione del Cipe, potranno comunque essere assicurati sui territori interessati interventi infrastrutturali immediatamente cantierabili, a patto che presentino una funzionalità autonoma e siano già compresi nel progetto generale». Il sospetto è che la decisione sia frutto sia delle pressioni fatte in questi giorni dalla lobby del Ponte, sia della scelta di non spendere oggi, in piena crisi economica e con il governo che taglia i fondi anche ai malati di Sla, i 300 milioni già stanziati. Rimandando la patata bollente al prossimo governo, Monti/bis o no che sia.
Comunque stiano le cose, la retromarcia non è piaciuta a opposizione e associazioni ambientaliste, che nei giorni scorsi avevano salutato come un successo la decisione di mettere finalmente la parola fine a una storia decennale. Nella notte, invece, la brutta sorpresa del rinvio. «E' una decisione sbagliata, anzi è una non-decisione» scrive su Facebook Nichi Vendola. «Pensavamo fosse un capitolo finito - prosegue il leader di Sel e governatore della Puglia - pensavamo fosse chiaro che il progetto è insostenibile e irrealizzabile. Invece no. Il centrosinistra ha un'altra decisione da prendere con urgenza non appena sarà al governo del Paese».
In effetti l'addio al Ponte sembrava essere davvero definitivo. Lo stesso ministro dell'Ambiente Corrado Clini, nelle scorse settimane, aveva spiegato la contrarietà del governo alla realizzazione dell'opera, al punto da definanziarne la costruzione. Invece, complice la notte, l'ultimo consiglio dei ministri ha fatto slittare tutto di altri due anni. Motivando perdipiù la scelta come se le spiegazioni date solo qualche giorno prima non fossero mai state dette: «Tale decisione - spiega infatti palazzo Chigi - è motivata dalla necessità di contenimento della spesa pubblica, vista anche la sfavorevole congiuntura economica internazionale. Ed è in linea con la proposta della Commissione europea dell'ottobre 2011 di non includere più questo progetto nelle linee strategiche sui corridoi trans-europei». «Qualora in questo periodo di tempo non si giungesse a una soluzione tecnico-finanziaria sostenibile - prosegue la nota - scatterà la revoca ex lege dell'efficacia di tutti i contratti in corso tra la concessionaria Stretto di Messina spa e il contraente generale, con il pagamento delle sole spese effettuate e con una maggiorazione limitata al 10%».
Due anni durante i quali non è detto che non si continuino a spendere soldi. «Tenere in piedi il progetto del Ponte - denuncia infatti il vicepresidente di Legambiente Edoardo Zanchini - significa continuare a pagare studi e magari costruire inutili opere di collegamento a un'opera che mai verrà costruita». L'associazione chiede quindi al governo di bocciare il progetto e procedere, subito dopo, a «sciogliere la Società Stretto di Messina». Critico anche il Wwf, che parla di «decisione pilatesca». «Il governo, dopo ben nove anni di studi, visto che il progetto preliminare è stato presentato nel 2003 ha già oggi tutti gli elementi per chiudere con il progetto, con il General Contractor, senza pagare penali, e con quell'ente inutile che è la Stretto di Messina spa», scrive l'associazione. Di «schiaffo all'Italia onesta» parla invece Angelo Bonelli. «Com'è possibile - si chiede il presidente dei Verdi - che un governo che taglia i fondi per l'assistenza ai malati di Sla non cancelli immediatamente un'opera che costerà più di 8,5 miliardi di euro e che rappresenta la sagra dello spreco e dell'inutilità».
Dal centrodestra si leva invece la voce soddisfatta dell'ex ministro alle Infrastrutture Altero Matteoli: «E' certo - dice - che se il centrodestra tornasse a guidare il paese il Ponte sarebbe realizzato perché è un'opera che serve alla Sicilia, al Sud, all'Europa».
Di seguito riportiamo l’editoriale e un’intervista ad Elena Besussi dell’inchiesta, consultabile, con altri articoli e video, all’indirizzo: http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/10/29/news/roma_in_vendita-45511244/
L'Atac vende i preziosi vecchi depositi, ma tra i cittadini è rivolta anticemento
L'azienda del trasporto pubblico della capitale vuole far cassa liberandosi di edifici di archeologia industriale situati in zone centrali e semicentrali. Nasceranno nuovi palazzi in una città affamata di verde? Per vedere come si vendono pezzi di città, bisogna andare a Roma, in piazza Bainsizza, piazza Ragusa e via Alessandro Severo. Quartiere Prati, quartiere Tuscolano, quartiere Ostiense. Tre zone della città storica, molto abitate, tanto trafficate. Qui l'Atac, l'azienda del trasporto pubblico, possiede depositi da anni in disuso. Non sa che farsene e dato che affoga nei debiti (210 milioni nel 2011 oltre a 179 di deficit) ha pensato di venderli. Ma prima di venderli e soprattutto per incassare tanti quattrini non basta un annuncio sul giornale. Occorre una complessa procedura avviata già nel 2004 e proseguita negli anni. Si chiama valorizzazione: quei depositi vanno arricchiti di previsioni edificatorie che, grazie anche a varianti urbanistiche approvate dal Comune, li rendano attraenti, altrimenti nessuno li compra. Sono edifici sorti nei primi decenni del secolo passato, archeologia industriale di pregio, delicate architetture. Devono però diventare piccoli quartieri, palazzi alti anche sette, otto piani, molto commercio, parcheggi, e, se avanzano spazio e soldi, qualche servizio. Cambieranno forma e sostanza. Se era proprio di questo che il tessuto urbano circostante aveva bisogno è un altro discorso.
All'Atac speravano che l'affare scorresse liscio come l'olio. E invece si sono organizzati comitati di cittadini, alcuni depositi sono stati occupati, presidenti di Municipi (le ex circoscrizioni) si sono opposti. E non poche contestazioni hanno fatto leva sulle storie giudiziarie in cui è impelagato il vertice dell'azienda e che attestano l'allegra e familistica gestione dell'Atac (49 assunzioni sospette su 850 avvenute nel solo 2009 - la moglie di un assessore, la cubista, il figlio del caposcorta di Gianni Alemanno... - per le quali sono indagati l'ex amministratore delegato, Adalberto Bertucci e altri dirigenti. E inoltre quattro amministratori delegati cambiati in cinque anni. Superminini di stipendio assicurati a discrezione. Un parco di autobus invecchiato. Una diffusa impopolarità del servizio, nonostante, a causa della crisi, siano più che raddoppiate, fra 2011 e 2012, le tessere di abbonamento annuale.
La vendita dei depositi Atac è un affare da parecchie centinaia di milioni. Riguarda 15 aree edificate e non (depositi, ex rimesse, sottostazioni elettriche, uffici). Tranne un paio, sono tutte in zone centrali o semicentrali (oltre quelle già citate: Portonaccio, Trastevere, Garbatella, Nomentana, Ardeatina) per un totale di 165 mila metri quadrati. Su di esse verranno edificati 540 mila metri cubi. Stando ai calcoli, su ogni metro quadrato di suolo ci saranno 1,08 metri quadrati di costruzione, vale a dire una densità molto alta. Sorgeranno insediamenti massicci, che si svilupperanno anche in altezza, sorpassando gli indici di edificabilità previsti dal Piano regolatore approvato nel 2008 (0,5 metri quadrati su ogni metro quadrato), considerati già abbastanza generosi.
La vendita dei depositi, sulla quale il Dipartimento di studi urbani della Facoltà di Architettura di Roma 3 ha avviato uno studio e organizzato una mostra (curata da Giovanni Caudo, Lorenzo Caiazza, Sofia Sebastianelli e Francesca Romana Stabile), sta dentro una vicenda più ampia: la progressiva dismissione del patrimonio immobiliare pubblico per fronteggiare la montagna del debito. Una vicenda a scala europea. In Italia se ne parla da un decennio almeno, quando Giulio Tremonti inventò la Patrimonio s. p. a., ma sempre a corrente alternata e con successi scadenti. La legge finanziaria del 2008 - governo Berlusconi - ne fece un perno concettuale. E si avviarono una serie di procedure. Intanto partiva il progetto federalista che fra tante altre cose prevedeva il trasferimento ai Comuni di beni dello Stato con il fine, appunto, di essere valorizzati e venduti. Con il governo Monti la questione è stata rilanciata. E il Comune di Roma ha stilato una nutrita lista delle proprietà che vuol mettere in vendita.
L'obiettivo primario, sostiene chi è favorevole alla cessione, è quello di incassare danaro fresco. D'altronde, si aggiunge, vanno sul mercato beni che non hanno più una funzione e la cui manutenzione, da sola, è già un onere insopportabile per aziende o amministrazioni pubbliche vicine al collasso finanziario. Il problema, si sente però ribattere, è più serio quando si cedono pezzi di città, che cambiano la loro destinazione: vengono calcolati gli effetti urbanistici, per esempio, di un sovraccarico di residenza in quartieri già affollati? Sono prese in considerazione le accresciute esigenze di trasporto pubblico? E perché non si procede in altra direzione, utilizzando alcuni di questi luoghi dismessi, invece che per farci appartamenti a caro prezzo o centri commerciali, per offrire ai quartieri in cui essi sorgono le attrezzature, i servizi di cui c'è bisogno (verde, biblioteche, presidi sanitari), sedi di associazioni o anche abitazioni a costi contenuti?
Il dibattito è acceso. Ma gli uffici dell'Atac, azienda pubblica che agisce con logiche da immobiliaristi, vanno avanti con il loro piano. Una parte consistente degli interventi riguarda i tre depositi di piazza Bainsizza, piazza Ragusa e San Paolo. In questi ultimi due gli indici di edificabilità sono ancora più alti della media cittadina (2,05 metri quadrati di costruzioni su ogni metro quadrato, nel primo caso, 1,85 nel secondo). Il deposito di San Paolo è stato costruito nel 1928. Serviva come ricovero dei tram e le foto dell'Archivio storico dell'Atac, esposte alla mostra dell'università, lo ritraggono non molto lontano dalla basilica di San Paolo, in mezzo ad allevamenti di mucche. Fu un avamposto urbanistico. Lì intorno sorsero le prime case di tranvieri e nei decenni crebbe un quartiere, che oggi è affollato di enormi palazzi. L'edificio è stato inserito nella Carta della Qualità allegata al Piano regolatore di Roma, considerato dunque meritevole di tutela, rappresentativo dell'architettura industriale del Novecento. Lo stesso Piano regolatore lo classifica poi come "servizio pubblico di livello urbano", attribuendogli come destinazione quella di ospitare attrezzature utili al quartiere. Nel progetto dell'Atac, che nel frattempo ha concesso all'Ama, l'azienda dei rifiuti, di parcheggiarvi file di cassonetti, sono invece previste costruzioni per 18 mila metri quadrati (la superficie complessiva dell'area non supera i 10 mila). Che per metà sono appartamenti in cui abiteranno 240 persone. L'altra metà sono negozi e non meglio identificati servizi.
Una procedura simile è adottata per piazza Ragusa e piazza Bainsizza. Il primo deposito è di poco successivo a quello di San Paolo. "Rilevante" viene giudicato il suo interesse architettonico nella Carta della Qualità del Piano regolatore. Si programmano costruzioni per 20 mila metri quadrati. 180 persone andranno negli appartamenti che occuperanno il 30 per cento dell'area. Il 70 è destinato a commercio e servizi. Il deposito di piazza Bainsizza venne realizzato nel 1920 e anche intorno ad esso crebbe il quartiere delle Vittorie, allora prevalentemente riempito di villini, poi sostituiti da alti edifici. Fu un grande sforzo della società dei trasporti, che allora si chiamava Atm e che un decennio prima era stata costituita come azienda municipalizzata - azienda pubblica in concorrenza con i privati - per volontà del sindaco Ernesto Nathan e dell'assessore Giovanni Montemartini. Roma cresceva dove la trascinavano le rotaie dei tram, come non avrebbe più fatto in seguito, quando il trasporto pubblico fu costretto a tener dietro alla città che andava in tutte le direzioni. E i depositi dell'Atm, poi diventata Atac, testimoniano questa stagione mai più ripetuta della capitale. L'edificio è vincolato dalla Soprintendenza e, come quello di San Paolo, figura nella Carta della Qualità. Qui, dove ora stazionano i camioncini dell'Ama, si costruiranno superfici per oltre 15 mila metri quadrati, il 60 per cento degli edifici saranno appartamenti in cui abiteranno 240 persone. Il resto saranno negozi. Verrà salvata la sede del Dipartimento di salute mentale che occupa una parte dell'ex deposito, ma tutto il resto sarà stravolto, dicono gli esponenti di un comitato di cittadini che, sostenuti dal Municipio XVII (che ha votato contro il piano dell'Atac), hanno prodotto una progettazione alternativa, che prevede spazi pubblici per il quartiere, "un quartiere affamato di verde e con un grande fabbisogno di servizi che si troverà un insediamento che quel fabbisogno lo aggraverà".
"La crisi economica è un grimaldello per togliere spazio al settore pubblico"
Elena Besussi insegna Plan Making all'University College London. Da anni segue le vicende nel Regno Unito dove, dice, si seguono principi diversi da quelli in voga in Italia.ROMA - Come ci si comporta in altri paesi quando c'è da trasformare parti di città? Elena Besussi insegna Plan Making all'University College London. Da anni segue queste vicende in Gran Bretagna dove, dice, si seguono principi apparentemente diversi da quelli in voga in Italia. "Nel Regno Unito mancano piani urbanistici vincolanti come in Italia in termini di quantità del costruito e di destinazioni. Il piano c'è ma agisce da guida e nel caso di proposte di trasformazione che divergano dalle indicazioni di piano, l'amministrazione pubblica locale può decidere caso per caso quali benefici e quali svantaggi porta la proposta in sé. Il piano fornisce obiettivi generali, ma quello che si realizza è esito di negoziazioni tra privato e pubblico".
Ma nel negoziato chi esercita più forza, il pubblico o il privato?
"Dipende dai casi. A Clay Farm, periferia di Cambridge, l'amministrazione locale si è rifiutata di accettare la richiesta dell'operatore privato di ridurre drasticamente la quota di residenza pubblica adducendo a giustificazione che il crollo del mercato immobiliare avvenuto nel frattempo avrebbe ridotto il margine di profitti, rendendo l'intervento irrealizzabile. Il privato ha fatto ricorso, ma la sentenza è stata a favore dell'amministrazione di Cambridge. In essa c'era scritto che non si possono scaricare sul pubblico i rischi di investimento del privato".
Quindi le istanze pubbliche prevalgono?
"Non è detto. Alcuni provvedimenti introdotti dal governo conservatore di Cameron indeboliscono la capacità di negoziazione del pubblico. Si preferisce la fattibilità sulla qualità o sostenibilità di un progetto, dove per fattibilità s'intende il vantaggio economico dell'operatore privato, anche a scapito della realizzazione di quelle componenti sociali di un intervento che sono viste, in questa logica, solo come costi. Rimane sempre la discrezionalità ma in un momento di crisi, con previsioni di profitto ridotte, l'ago della bilancia non è a favore di residenza pubblica o infrastrutture sociali. Fino al 2010 esisteva un'unità governativa dedicata all'elaborazione di politiche per la gestione del patrimonio immobiliare pubblico. Oggi non esiste più".
La crisi penalizza soprattutto la città pubblica.
"L'esito di queste vicende non è sempre scontato. Nell'area di Elephant and Castle, ex-quartiere di residenza pubblica ora dismessa, l'amministrazione locale di Southwark, uno dei 33 boroughs (quartieri) di Londra, ha rinunciato a negoziare con il privato che ha acquisito l'area per costruire alloggi da affittare a canone sociale. La preferenza è andata verso infrastrutture sociali capaci di giustificare il prezzo a cui dovranno essere vendute unità residenziali e commerciali: verde protetto e modelli di spazio pubblico che favoriscono le attività di consumo (negozi, ristoranti, impianti sportivi) piuttosto che attività di socializzazione".
Cambia qualcosa se il proprietario dei suoli è pubblico o privato?
"Non molto. A volte il settore pubblico agisce come operatore immobiliare attraverso società private o a gestione privata. Nella riqualificazione di Kings Cross (nel borough di Camden), per esempio, in cui si stanno costruendo 750 mila metri quadri su 30 ettari dismessi dalla ferrovia, il proprietario è una società del Ministero dei Trasporti, ma è l'operatore immobiliare e gli investitori che rappresenta ad aver deciso cosa e come si realizza. La maggior parte delle aree ad uso pubblico sono diventate di proprietà privata. L'amministrazione si giustifica dicendo che così ottiene spazi pubblici di qualità a costo zero, ma la logica è che le infrastrutture sociali sono considerate un lusso ingiustificato. Ma c'è un altro motivo che diminuisce le differenze fra pubblico e privato".
Quale?
"È l'imposizione del ministero del Tesoro di regole sulla valutazione e vendita del patrimonio pubblico. Questo deve essere dismesso al valore massimo di mercato. In caso contrario, l'ente pubblico proprietario dovrà fare fronte al mancato guadagno con tagli di bilancio".
In tutta Europa si sta andando verso un sistema in cui è sempre più al privato che spetta di decidere che cosa costruire, come, dove e per chi? Oppure esistono paesi in cui prevale il punto di vista del pubblico?
"Dal mio punto di osservazione, il governo pubblico locale non è sempre il migliore alleato della città pubblica. Però anche quando si devono ridurre le spese in infrastrutture o servizi sociali, si possono fare delle scelte a favore di una città per tutti piuttosto che per pochi: a Clays Farm si è difesa la residenza sociale mentre a Elephant and Castle si eliminano pioppi secolari per far posto a un parco che sta dentro le logiche immobiliari del privato. La crisi economica è il grimaldello per avvalorare la tesi che un settore pubblico più ridotto porti benefici sociali. In Grecia, come a Roma, come a Kings Cross. Non vedo paese europeo, dove la riduzione della spesa pubblica da sola abbia dato questi risultati".
Ai Giovedì di Milano sta mancando l'attore principale: la città. La sperimentazione del ticket-corto, con lo spegnimento anticipato alle ore 18 delle telecamere sui Bastioni (anziché alle 19.30), è passata in silenzio, impalpabile e inosservata. «Non classificata», è il giudizio dell'assessore alle Attività produttive Franco D'Alfonso sui primi sei giovedì di prova: «Ma i cambiamenti non avvengono dalla sera alla mattina».
È stato un avvio minimal, dolce, precisa da Confcommercio Simonpaolo Buongiardino: «Stiamo definendo un palinsesto più ricco per le prossime settimane». I super-giovedì di Area C, al momento, hanno prodotto solo due effetti misurabili: un deciso aumento del traffico in centro a partire dalle sei del pomeriggio e la riorganizzazione dei calendari nei cinema, con il trasloco delleprimedal venerdì al giovedì sera.
Il più grande spettacolo prima del weekend? La riforma feriale di Area C era stata presentata alla vigilia come l'occasione per «prolungare il fine settimana» e trattenere in città il turismo mordi e fuggi. Al debutto, il 20 settembre, il Comune aveva sponsorizzato un programmino di eventi e manifestazioni: da allora, nessuna promozione. I negozianti dei Bastioni, invece, non hanno proposto un'offerta integrata ai clienti. D'Alfonso promette un «ampliamento progressivo» del provvedimento: ingressi gratis nei cinema per chi presenta alla cassa il biglietto dei mezzi pubblici; bonus culturali; accordi con i parcheggi. «La fase di costruzione avrà il suo punto più alto durante la "campagna di Natale" — garantisce l'assessore —. Ma se servirà tempo, riproporremo il progetto a gennaio». E comunque, conclude D'Alfonso, un risultato importante il Comune l'ha incassato: «È stata disinnescata la polemica con le categorie economiche».
Associazioni ambientaliste e referendari temevano che la «concessione» ai commercianti potesse aprire una breccia nell'impianto di regole e depotenziare le politiche ecologiche dell'amministrazione. Una prima risposta arriva dai dati. Nel primo mese di sperimentazione dei giovedì-corti è rimasto invariato il numero dei passaggi ai varchi tra le 7.30 e le 19.30, ma 2.500-3 mila veicoli anticipano l'accesso gratuito all'Area C: «Si è spostata la curva oraria degli ingressi, con la creazione di un primo picco di traffico serale a partire dalle 18 — si legge nel rapporto dell'Amat —. Si è determinato un aumento apparentemente significativo del traffico per tutta la fascia serale».
Oggi, infine, sarà definito in giunta il nuovo schema delle domeniche a spasso: lo stop alle auto potrebbe essere limitato all'Area C e ad alcune zone periferiche. La prossima domenica ecologica è fissata al 18 novembre, ma l'assessore al Tempo libero, Chiara Bisconti, ha già abbozzato la quota per il 2013: saranno almeno otto le giornate senz'auto, una ogni trenta giorni esclusi i mesi di gennaio, luglio, agosto e dicembre.
Postilla
Proviamo a leggere la notizia in una prospettiva del tutto diversa, saltando a piè pari tutte le questioni contingenti: le automobili non fanno la spesa e non fruiscono di servizi, punto e basta. Che altro significa, insomma, verificare con mano e certezza come effetto unico della riapertura serale alle auto, un forte incremento … delle auto e basta? Così si dimostra quanto sotto sotto era già abbastanza ovvio, ovvero come tutte le cosiddette strategie per rilanciare il ruolo degli esercizi centrali, a dir loro penalizzati dall’Area a Traffico Limitato, nulla c’entrano con quello che sostengono di essere, e fanno invece parte di un’altra, e assai più banale strategia. Ovvero quella di minare le basi a ogni tentativo di ripensare la città in forme un po’ meno auto-centriche.
È la stessa stanca storia di tutte le pedonalizzazioni e dintorni del nostro paese, con le urla di chi si sgola a denunciare il killeraggio di ambientalisti, comunisti e compagnia cantante, contro quelli che da secoli garantirebbero vitalità e sicurezza ai quartieri. E invece è solo conservatorismo, spesso bieca reazione, da parte di chi prima si lamenta per l’invasione dei grossi operatori extralocali, e poi adotta il medesimo modello coi paraocchi: per venire da me ci vuole la macchina, ergo spianate il mondo alle quattro ruote fino al mio ingresso. A nulla valgono tutti gli studi che dimostrano come siano accessibilità e abitabilità degli spazi pubblici, la chiave della vitalità urbana e quindi commerciale: il reazionario vociante che (pare scientificamente dimostrato) si annida nelle forme organizzate della protesta bottegaia non vede altro che la matrioska paleo-novecentesca, con le quattro ruote, dentro cui sta il cliente, dentro la cui tasca sta il portafoglio da svuotare alla cassa. Resta solo un dubbio: è possibile elaborare politiche urbane con valore aggiunto di terapia psichiatrica, o ci tocca aspettare l’estinzione della specie per selezione naturale? (f.b.)
IL CAR sharing è cresciuto. Ma non abbastanza: per raggiungere gli standard delle altre capitali europee va potenziato. E così il Comune ha deciso: il servizio di auto in condivisione va liberalizzato. A costo di portarsi la concorrenza in casa, visto che Guida-Mi, il car sharing milanese, è gestito da Atm, partecipata al 100 per cento proprio da Palazzo Marino. Da tempo si fanno avanti operatori stranieri che vorrebbero sbarcare nel mercato milanese, e il tema ora è capire “come” farli entrare senza esporsi al rischio di ricorsi e carte bollate. Anche perché,in un’eventuale gara ancora da indire, secondo moltirumorsuno dei concorrenti sembrerebbe essere già in pole position.
Gli iscritti milanesi all’auto in affitto sono 5.343, e 135 le vetture. Un servizio che funziona, anche se ha ancora limiti come la prenotazione obbligatoria e la riconsegna tassativa dell’auto dove la si è prelevata. Ma secondo Amat, l’Agenzia per la mobilità del Comune, la domanda in città è molto più alta: ben 16mila i clienti potenziali, per i quali servirebbe una flotta di 600 auto. Sono questi i numeri che si prefigge di raggiungere Palazzo Marino, anche per abbattere l’alto numero di auto private: 55 per 100 abitanti, che però, dice l’Amat, la usano solo per il 3 per cento del tempo e per il resto la lasciano nel box o in strada.
Il rilancio del car sharing passerà allora dai privati. L’ipotesi più probabile è quella di una gara pubblica, obbligatoria per le amministrazioni che devono affidare un servizio. Oggi è Atm a gestireil car sharing milanese Guida-Mi, incluso nel contratto di servizio per il trasporto pubblico per un totale di circa un milione di euro sui 650 complessivi. Il senso dell’operazione-privati lo spiega l’assessore comunale alla Mobi-lità,Pierfrancesco Maran: «Dobbiamo risolvere problemi contrattuali perché la vecchia amministrazione ha creato una sorta di monopolio. Nonostante Atm abbia svolto un lavoro importante, utenti e prelievi sono molto bassi rispetto alle esperienze internazionali. La strada, dunque, è la liberalizzazione ».
Tra i primi a farsi avanti (e a detta di molti già “numeri uno” tra i candidati) ci sono i tedeschi di Car2go, marchio del gruppo Daimler Mercedes. Se GuidaMi di Atm punta a sostituirsi all’auto privata, i tedeschi sono più focalizzatisui rapidi spostamenti urbani: 29 centesimi al minuto per il noleggio, auto disponibili su strada e non nelle aree sosta, gestione tecnologica dei prelievi tramite smartphone (un’opportunità che Atm, da contratto, non avrebbe) e possibilità di riconsegnare la vettura dov’è più comodo. Un servizio finora molto utilizzato dagli under 35 che l’auto non ce l’hanno proprio, e che un po’ preoccupa Atm, che con il suo arrivo potrebbe perdere clienti. Ma a proporsi, dice il Comune, ci sono anche i francesi di Autolib’ e l’americana Zip Car. Da capire, nei prossimi mesi, se il privato entrerà come gestore unico o se sarà complementare al servizio offerto daAtm.
Postilla
Immagino qualche naso arricciato o sopracciglio alzato, da parte di chi in fondo pensa sono fatti loro, se la Mercedes (o magari la Rolls Royce) vogliono lanciarsi in qualche programmino collaterale rivolto a fotomodelle e designers appena usciti dal vernissage e con lo sfizio di un’alternativa al taxi, che si accomodino senza scocciare troppo, allineando in qualche angolo centrale di tendenza i loro baccelli ecologici dalle forme presumibilmente stravaganti, pronti a ingoiare succose carte prepagate legate ad altrettanto succosi conti correnti di nicchia. Ma proviamo invece a guardare i numeri: 16.000 famiglie già ora pronte a iscriversi sono una bella fettina della popolazione, cosa succederebbe se il servizio (i privati fanno così: va dove ti tira il portafoglio) iniziasse a diventare una rete? Se per esempio quelle file di auto cominciassero a materializzarsi, che so, nei nodi di interscambio metropolitani, e con la moltiplicazione scendessero anche le tariffe di abbonamento e noleggio? Facile previsione: un sacco di famiglie in più lascerebbero perdere l’auto in proprietà, quella che ti obbliga a pagare un capitale in ammortamento, assicurazione, manutenzioni obbligatorie, e magari pure a tenere quello scomodissimo box che costa come un monolocale e manco l’hai trovato sotto casa: devi prendere la bici per andarci in cinque minuti!
E naturalmente, se le agenzie pubbliche invece di temere la concorrenza del privato facessero al 100% il loro mestiere, e cioè pensare alla città: rafforzando i poli di interscambio, e riempiendo il vuoto ideale e fisico con assetti stradali adeguati, percorsi pedonali e ciclabili sicuri, politiche urbanistiche e di servizi coerenti. Anche questo, soprattutto questo, si chiama demotorizzazione, e poi magari, se ci sono i soldi, investiamo pure risorse in grandi linee di trasporto collettivo … (f.b.)
“Conca d’oro” è il libro scritto da Giuseppe Barbera che ripercorre la storia del paesaggio di Palermo dalle origini fino alla degradazione dei nostri giorni, dopo anni di speculazione edilizia. Il saggio è pubblicato da Sellerio nella collana “La memoria” (pagg. 168, euro 12)
Come è potuto accadere? Come è potuto accadere che la Conca d’oro in cui è adagiata Palermo, la conchiglia «più bella di quella nella quale Venere fu portata attraverso il placido mare » (così cantava un poeta nel Quattrocento), il paesaggio di giardini e di frutteti, di fatiche umane e di strabilianti innovazioni tecniche, di biodiversità e di dolcissimi mandarini, il luogo che fece dire a Goethe che «chi ha visto tutto questo non lo dimentica più», com’è potuto accadere che la Conca d’oro, fitta d’alberi già nel V secolo avanti Cristo (racconta Diodoro Siculo), fra il 1955 e il 1975 sia stata sepolta da trecento milioni di metri cubi? Come è potuto accadere, se lo domanda Giuseppe Barbera, agronomo palermitano, professore di Colture arboree, e il suo angoscioso quesito rimbalza in ognuna delle centoquaranta pagine di Conca d’oro, un libro scritto per Sellerio che non è solo la storia di un luogo.
È anche una storia letteraria, una mitografia, un repertorio fra quelli che meglio documentano quanto la natura correttamente manipolata dall’uomo possa dare materiali alla facoltà dell’immaginazione. Ed è la storia di un simbolo mediterraneo, di una comunità vegetale la cui unità è fornita dal rapporto di diverse colture, perché solo la diversità, la complessità del disegno e delle produzioni assicurano benessere, prosperità, bellezza e armonia.
E sono esattamente queste le qualità che il sacco di Palermo, un misto di mafia, affari, politica e pessima amministrazione, cancella nel volgere di pochi anni con crudeltà sistematica, nel silenzio della cultura accademica e delle professioni rotto soltanto dalle denunce del giornale L’Ora.
Al Piano regolatore è sostituito un più efficace Piano di ricostruzione. Si sfrutta l’emergenza abitativa (120 mila vani distrutti dalle bombe) per dislocare quartieri inospitali sulle aree a maggiore seduzione speculativa. Nobili e grandi borghesi lottizzano ville e giardini e le disseminano di fungaie in cemento. Scaltri proprietari regalano al Comune piccole porzioni che, opportunamente solcate da strade, illuminazione e fogne, valorizzano il resto del possedimento. Le ville liberty di Ernesto Basile vengono demolite in una notte, l’ultima prima che si possano applicare leggi di salvaguardia. Sono gli anni di Salvo Lima e Vito Ciancimino. E in cui architetti laureati sostengono che la monotonia del verde vada vivificata dagli edifici. Il paradiso della Conca d’oro diventa un inferno. Bestioni di cemento travolgono un paesaggio raccontato nei secoli con dispendio di aggettivi, un paesaggio, ha scritto Rosario Assunto, studioso di estetica, «del quale nessuno che lo abbia conosciuto può non sentirne il rimpianto, come di una luce che si sia spenta sul mondo».
La qualità della Conca d’oro sta nell’incrocio di produttività e di bellezza. Trecento generazioni di agricoltori, racconta Barbera, hanno adattato i frutteti a giardini, grandi frutteti e grandi giardini protetti da una barriera di montagne che preservano il clima e che inducono Fernand Braudel a usare l’aggettivo “paradisiaco”. Il paesaggio palermitano è un paesaggio culturale, un sistema equilibrato che modula le risorse disponibili dando alla natura una forma, una «porzione del mondo visibile incorniciata entro limiti che ben distinguono la pianura costiera, che sarà prevalentemente terra di frutteti, orti e giardini, dalle regioni collinari della Sicilia terre di pascoli e di cereali ». L’ulivo cresce in mezzo ai pascoli, la vite splende nei frutteti promiscui. Da terre straniere arrivano le palme nane, i datteri, i melograni e chi c’è già accoglie i nuovi venuti, realizzando una civitas fatta di alberi e piantagioni. La complessità dell’ordito assicura «stabilità contro le malattie e i disastri climatici, sicurezza ambientale ». I romani, poi i bizantini, quindi i musulmani e poi i normanni trovano un paesaggio che assimila diverse tradizioni e lo arricchiscono con innesti colturali. Il punto d’equilibrio cambia costantemente, gli aggiornamenti sono continui, ma chiunque innovi rispetta lo statuto dei luoghi. Anche quando alle coltivazioni si accompagnano le lavorazioni artigianali e industriali. La Conca d’oro, scrive Barbera, conferma un fondamentale “dogma ecologico e culturale”: solo il confronto fra diversi, uno scambio che avviene «attraverso margini permeabili e non barriere insormontabili (muri, fili spinati, recinti e respingimenti), genera nuova vita, saperi e paesaggi che rispondano ai bisogni, sempre in evoluzione, del mondo».
L’equilibrio della Conca d’oro attraversa i secoli. Sorgono le ville, che danno un’altra sistemazione al paesaggio, proponendo una specie di modulo urbanistico attraverso il quale anche la città sarebbe dovuta crescere. Arrivano gli agrumi, che segneranno una evoluzione produttiva, alimentando il mito di una terra dall’eterna primavera. In quest’armonia secolare, che non possiede nulla di immobile, anzi contiene le regole per rinnovarsi, regole che basta solo saper leggere, interpretare e applicare, irrompe la potenza distruttrice della rendita fondiaria, quella per cui un terreno agriinterna,
colo vale molto, ma molto di più vale un terreno edificabile. Palermo diventa esemplare nella letteratura sulla speculazione. L’amministrazione pubblica, la mafia, gli stessi proprietari di quei magnifici giardini consolidano alleanze. La città avanza senza trascinare alcuna qualità urbana e tutto distrugge.
Anche Barbera assiste – lo racconta nelle prime pagine – alla distruzione del giardino di famiglia,
a Resuttana. Il padre, un imprenditore di successo, non è costretto a vendere, ma si trova impigliato in un meccanismo affaristico i cui effetti per lui sarebbero stati poi scarsissimi. Un altro ricordo condisce la sua narrazione. I primi studi sui mandarini tardivi di Ciaculli, giovane ricercatore, li compie in una grande tenuta. Quella tenuta appartiene a un insospettabile Michele Greco, quello che le indagini e le condanne definiranno il “papa” della mafia. «Terribile criminale, autore di stragi efferate, amava il suo giardino di agrumi di un amore profondo».
Formigoni sarà ricordato anche per la sua intensa attività edilizia simbolicamente rappresentata dal nuovo Palazzo della Regione Lombardia. Adesso l'edificio è stato segnalato dal Council of Tall Buildings and Urban Habitats di Chicago, quale migliore grattacielo per la sezione riguardante l'Europa. Altre menzioni sono andate alle Absolute Towers (Mississauga, Canada) dello studio MAD Architects, a un grattacielo a Sydney del gruppo Ingenhoven architects e Architectus, e alla Doha Tower di Jean Nouvel. L'orgoglio del Governatore è così grande che non ha perso tempo per ingaggiare un critico (Gillo Dorfles) e un architetto (Italo Rota) per magnificare la «nuova idea di futuro» espressa dal «primo palazzo di governo dopo il Castello Sforzesco».
Poiché non si può impedire a un'associazione di lobbisti americani di premiare i più stravaganti edifici del mondo, qualche riflessione è invece d'obbligo sul perché un edificio di mediocre qualità architettonica e d'infelice collocazione urbanistica possa essere definito un'architettura di qualità, paragonabile ai monumenti storici di Milano. Innanzitutto va notato che la stampa (vedi il «Corriere della Sera» del 16 ottobre), e in generale i media, continuano a pubblicare l'immagine di un edificio avulso dal contesto urbano mentre il suo inserimento «a forza» lo vede giganteggiare su un nucleo di edifici residenziali preesistenti, quelli a perimetro di un vivaio, poi dismesso e trasformatosi in un piccolo bosco, abbattuto in una notte per lasciar posto al megaedificio pubblico.
Basta scaricare la cartella stampa dal sito dell'associazione americana (www.ctbuh.org ) per capire cos'è il Palazzo formigoniano spinto addosso al «Quartiere Modello» dell'ingegner Antonio Lamaro, questo sì da segnalare (e salvaguardare) quale intervento tra i più eloquenti dell'architettura razionalista tra le due guerre. Ci si accorgerebbe della morsa a tenaglia che i blocchi edilizi curvi alla base del grattacielo riservano alla nobile palazzina che chiude il «Quartiere Lamaro» raccontato con maestria filmica da Gianluca Brezza ne La casa verde. Una storia politica, un documentario da proiettare nelle scuole e nelle piazze per comprendere appieno la brutale operazione immobiliare che sta dietro l'edificazione di un'architettura magniloquente collocata nel posto più inadatto.
Ben altro da ciò che Dorfles ha dichiarato soddisfatto: «Finalmente abbiamo una città rivolta non solo al centro, ma anche alla periferia». A inquietare, della pur breve storia dell'edificio, non è tanto la surreale manipolazione subita dall'architettura dello studio Pei Cobb Freed & Partners Architects tra ideazione e realizzazione (ad esempio l'aggiunta di una piattaforma per elicotteri vicinissima agli edifici confinanti e fuori norma rispetto i limiti acustici o l'insano disegno delle aree a verde a terra e sui terrazzi), quanto l'afasia della cultura milanese davanti alla crescita neoliberista dell'area Garibaldi-Repubblica.
Eppure nessuna altra parte della città è stata così meditata, a cominciare dal Piano AR dei razionalisti milanesi redatto all'indomani della fine della guerra, fino al Concorso di idee bandito nel '92 e vinto da Pierluigi Nicolin, senza contare il numero di tesi di laurea del Politecnico, le iniziative di riviste (gli otto progetti pubblicati da «Casabella» nel '79), le esposizioni della Triennale e le diverse varianti, piani d'area e altri strumenti urbanistici redatti dall'amministrazione comunale.
Ci si chiede come sia stato possibile che una così intensa attività urbanistica e architettonica abbia dato forma allo scombinato Piano Integrato di Intervento del 2004 in cui si inserisce la nuova sede della Regione. Dove si è smarrita la riflessione sul ruolo strategico che i «grandi vuoti urbani come spazi di relazione» (Monestiroli) avrebbero avuto per la nuova forma urbis di Milano? Sono trascorsi quasi venti anni da quando si ragionava sulla necessità di far «affacciare» l'architettura delle istituzioni civili in un'area «destinata alla natura» sulla scia della lezione di Le Corbusier e Hilberseimer. Così non è stato e il «Centro Direzionale» è diventato la «turrita cittadella» già immaginata da Guido Canella: un luogo di «contenitori di una generica (e ormai anacronistica) burocrazia», ma soprattutto di grattacieli «rattrappiti e caricaturali rispetto ai modelli d'ispirazione», proprio come si è verificato senza che ciò fosse considerato uno scandalo, non meno grave di quelli che la cronaca ci racconta sul malaffare della politica.
Non bastano la seicentesca Arpa Barberini o il primo esemplare di pianoforte, un Cristofori del 1722, a evitare che il Museo nazionale degli strumenti musicali in cui sono esposti sia un vertiginoso buco nero della tutela in Italia, il simbolo dello stato comatoso in cui versa il patrimonio storico artistico. Dal 9 giugno il Museo, che ha sedea Roma in una palazzina dietro la chiesa di santa Croce in Gerusalemme,è chiuso. Si dice che lo si debba ristrutturare, ma non c' è alcun cantiere aperto. Solo sei custodi divisi su tre turni vigilano su quasi novecento oggetti che hanno pochi eguali al mondo per valore e bellezza e che, senza climatizzazione perché l' hanno staccata, sono rosicchiati dai tarli. Nei tre magazzini al piano terra si accatastano sotto la polvere pianoforti, cembali e violoncelli. Negli scaffali brandelli di violini, tastiere fatte a pezzi. Dovunque lo struggente senso di un tesoro in abbandono. E sul futuro solo voci. Lo scenografo Pier Luigi Pizzi starebbe lavorando a un progetto di allestimento, ma intanto alcune parti sono state inglobate e altre lo sarebbero dalla vicina Direzione generale del cinema e da quella dello spettacolo dal vivo che, come il Museo, appartengono allo stesso ministero dei Beni culturali. Ma c' è chi sostiene che il secondo piano, dove altri strumenti sono ammassati, potrebbe far gola a società private che organizzerebbero mostre, anche con la consulenza di ex dirigenti del ministero in pensione. Sulla vicenda è scattata una denuncia della Cgil che ha diramato un comunicato e che, insieme al Comitato per la Bellezza, ha lanciato un appello per salvare il museo dalla distruzione. Così deperisce un prezioso ma debole presidio che ha un solo difetto agli occhi di chi misura tutto in termini contabili: non attira molti visitatori, circa 13 mila l' anno, anche se fra questi figurano studiosi del mondo intero e storici della musica che vengono a Roma per vedere uno dei tre esemplari esistenti del Cristofori del 1722, campanelli d' età ellenistica, sistri in bronzo del VII secolo a.C., tamburelli cinesi, cembali del Seicento con delicate pitture, ghironde, chitarre settecentesche, arpe, organi intarsiati e poi il ciacciac futurista di Giacomo Balla. Un repertorio accumulato in gran parte da un solo collezionista, Evangelista Gorga, un tenore che nel 1896 fu Rodolfo nella prima esecuzione della Bohème di Puccini e che si dedicò a raccogliere strumenti di tutte le epoche e di tutto il mondo. Dal 1964 la collezione è nel museo, unico in Europa per quantità e valore del materiale. Ma sempre bistrattato, vilipeso, senza che nessuno si impegnasse in politiche di valorizzazione, come attestano le denunce di Antonio Latanza, che lo ha diretto per vent' anni. Ora l' abbandono è completo. La chiusura del Museo è stata decisa dalla direttrice ad interim Rossella Vodret, che nel giugno scorso era Soprintendente al Polo museale romano (di cui il Museo degli strumenti fa parte) e che da lunedì scorso è in pensione. La Vodret aveva destituito la precedente direttrice, Luigina Di Mattia. Nell' ultimo anno dal museo sono state staccate alcune sale, che tuttora sono inutilizzate. Fra queste anche la cosiddetta "sala dell' azoto" dove pianoforti e spinette venivano ricoverate per uccidere i tarli. Un' operazione che ora non si fa più se non mandando gli strumenti in laboratori privati. È stato anche smantellato l' auditorium che ospitava concerti e conferenze. Ora vi stazionano le scrivanie di tre funzionari amministrativi sfrattati dai loro uffici passati ai colleghi di Spettacolo e Cinema. Senza manutenzione, senza una temperatura costante di 19-20 gradi gli strumenti musicali rischiano danni irreparabili. Il legno è materiale vivo, l' umidità lo gonfia. In agosto, denunciano alla Cgil, si superavano di molto i 40 gradi. Gli studiosi ancora ricordano il signor Pietro Patacchiola, restauratore capo, che con la direttrice Luisa Cervelli passava in rassegna gli strumenti anche due, tre volte la settimana, uno per volta. E qualcuno lo rammenta seduto a suonarli, quando c' era bisogno che anche solo per un attimo riprendessero vita. Ora pianoforti, organi e cembali giacciono muti, in attesa che il ministero ne fissi la sorte.
«Ho scelto come nuovo presidente del Maxxi l’ex ministro per i Beni culturali che ha avuto il merito di avviarne il progetto ed intuirne le potenzialità», ha dichiarato Lorenzo Ornaghi, sommerso da un diluvio bipartisan di censure per l’inconsulta nomina di Giovanna Melandri alla guida del maggior museo di arte contemporanea italiano.
Non fa una piega. Come se un ex ministro della Sanità laureato in economia (proprio come la Melandri, del resto) venisse nominato direttore di un ospedale da lui a suo tempo inaugurato, o un ex ministro dei Trasporti laureato in filosofia fosse chiamato a dirigere un aeroporto di cui tagliò il nastro.
Filippo Ceccarelli su Repubblica ed Ernesto Galli della Loggia sul Corriere hanno già spiegato perché questa nomina sia un clamoroso errore. Lo hanno fatto con garbo cavalleresco, perché soffermarsi sullo spessore culturale della Melandri sarebbe come sganciare un’atomica sulla Croce Rossa.
Ma c’è un lato della questione che non hanno considerato. Ed è che la prima, indispensabile condizione per salvare il patrimonio storico e artistico della Nazione (cosa che tutti, a parole, vorrebbero) non sono i fondi, né le leggi: ma è la competenza a prova di bomba che dovrebbero avere tutti coloro che lo maneggiano. In Italia, gli studi di storia dell’arte dovrebbero essere più seri e severi di quelli in ingegneria spaziale (e non lo sono: per colpa della mia corporazione); i concorsi per le soprintendenze e i musei dovrebbero essere durissimi (e invece sono penosi colabrodo); il governo del patrimonio dovrebbe essere lontano anni luce dalle invadenze politiche (e invece è soffocato, colonizzato dalla classe politica più vorace, ma anche più incolta, del globo).
E Ornaghi, in tutto questo, si è trovato come un topo nel formaggio. Unico ministro incompetente in un governo tecnico, ha moltiplicato intorno a sé l’incompetenza come fosse pani e pesci: ha nominato un suo affezionato creato nel Consiglio d’amministrazione della fondazione della Scala; ha affidato ad un ignaro filosofo del diritto la guida del Consiglio superiore dei Beni culturali, che poi ha popolato di psicologi, scienziati della politica e rettori milanesi (senz’altro ottime persone, ma del tutto incompetenti in materia): e giù per tutti i rami delle nomine, fino a fare soprintendente di Roma la musealizzatrice dei lucchetti di Moccia.
Ma il più incompetente tra coloro che Ornaghi ha nominato, e poi difeso fino alla soglia del carcere, è quel Marino Massimo De Caro che lo consigliava per 40.000 euro l’anno, e dirigeva la Biblioteca dei Girolamini col placet del Mibac: non era nemmeno laureato, ma in compenso era uno stretto collaboratore di Dell’Utri. Ha rubato solo 4000 dei libri che custodiva. Quasi quasi dobbiamo ringraziare Ornaghi: avesse scelto un ladro competente, oggi non ci sarebbe più nulla.
Naturalmente Giovanna Melandri è un’altra cosa. Ma il presupposto è esattamente lo stesso: se si parla di quel vago divertimento per ricche signore svampite che è l’arte, la competenza non esiste. E siccome finché i musei sono direttamente sotto il Mibac bisogna pur valutare dei titoli, la scorciatoia è quella di trasformarli in fondazioni: Alain Elkann a presiedere la Fondazione del Museo Egizio è forse meglio della Melandri che presiede il Maxxi? Ci pensino, i sostenitori della Fondazione Brera: e tremino, pensando a chissà quale ferrovecchio del sottobosco politico lombardo il pio Ornaghi immancabilmente infognerà alla testa del massimo museo lombardo.
L’orda dei politici rottamati in cerca di sinecure calerà sul patrimonio artistico come uno sciame di cavallette: c’è da scommetterci, siamo solo all’inizio.
… E op-là (“un op-là da rimanerci incinta”), come da una vecchia canzone di un vecchio cantautore (Vecchioni): Così Salerno dopo 5 anni di piano regolatore ha fatto op-là !
Questa volta l’ha studiata bene, forse ancora meglio dell’agosto del 2005 quando, dopo 11 anni di gestazione, fu pubblicato il nuovo PRG del Comune di Salerno… All’inizio dell’anno 2012 si rende necessario ripresentare una variante al PRG vigente (che tante storie porta con sé- vedi QUI) . Questa variante serve all’inizio a reiterare dei vincoli espropriativi per le aree interessate a infrastrutture stradali e aree per attrezzature di interesse generale in scadenza dopo cinque anni.
Ma delibera dopo delibera diventa quasi un nuovo piano regolatore. Tanto grande che viene quasi subito sdoppiata in due. La prima, per i vincoli in scadenza, approvata subito nei tempi di legge per prevenire possibili ricorsi di privati. La seconda, per riorganizzare una decina di comparti e molto altro, riceve indirizzi dalla giunta comunale fino al mese di luglio. Normalmente a Salerno il mese di agosto è il mese preferito per far uscire importanti decisione urbanistiche e quindi anche la delibera di adozione della variante “parziale” viene pubblicata dal 2 al 17 agosto 2012. Le varie organizzazioni della società civile che per legge dovrebbero partecipare ad istruire la variante sono ascoltate nel mese di marzo su non si sa che cosa visto che i provvedimenti di giunta arrivano fino a quello di luglio che decide di “valorizzare” (vendere a privati) 6 aree pubbliche 3 delle quali tra le più centrali della città.
La variante, definita “parziale”, è anche l’occasione per riordinare tante situazioni di “criticità”, come si dice in relazione. E’considerata quasi un riordino del PRG (PUC in Campania) in vigore dal gennaio 2007, spiegando che passati 5 anni è naturale rivedere le premesse ed i contenuti di un piano e quindi riordinare vari comparti edilizi che non hanno trovato attuazione e “sanare” certe situazioni verificatesi in questi anni trascorsi. Tutto questo, però, ignorando la variazione più importante di questi anni : Il drastico abbassamento demografico della città.
Dalla relazione di piano del 2005 si asseriva (con dati forniti dal Comune di Salerno) che la popolazione residente anagraficamente a Salerno era di 149.000 abitanti nel 1999 e 144.000 nel 2005 a cui si sarebbe dovuta aggiungere una stima di 7000 abitanti in più perché non registrati anagraficamente, per un totale di 156.000 abitanti scesi poi col decremento, già intervenuto nel 2005, a 151.000 abitanti. A giugno 2009 l’ISTAT comunicava che gli abitanti di Salerno erano 139.585 e a giugno 2012 erano 133.204. L’attuale Piano Regolatore Generale di Salerno è dimensionato, dalla data di entrata in vigore (gennaio 2007), per una popolazione (voluta) di circa 180.000 abitanti. Questo numero di abitanti “voluti” è confermato anche dalla variante in questione pubblicata ad agosto del 2012.
Così con questo Piano e questa Variante abbiamo quasi 50.000 abitanti in più, con conseguenti vani in costruzione, non supportati da nessun valido studio o valida previsione ma solo da una volontà puramente cementificatrice .Anche la linea dell’Amministrazione Comunale, nel sostenere che costruendo più case i prezzi delle stesse siano destinati a scendere, è sconfessata dalla constatazione a livello nazionale e mondiale che il prezzo delle case, anche con maggiore offerta, rimane costante o scende di pochissimo ed invece, di contro, è fortissimo il rischio di “bolle immobiliari” come nella vicina Spagna con conseguenze catastrofiche per il credito finanziario locale. È proprio l’impianto generale del PUC a non essere valido come detto invano nelle osservazioni del 2005 e come ribadito a maggior ragione adesso nel 2012.
Con il ragionamento a base di questo PUC non si vede perché lo stesso piano non poteva essere dimensionato per 200.000 o per 250.000 abitanti… sono certamente numeri presi a caso o degni di altri calcoli. Ed anche il calcolo e la localizzazione degli standard per abitanti lascia molto perplessi ed, in certi casi, quasi in odor di truffa. La fascia di mare (49.223 mq) antistante il Lungomare Trieste è ancora calcolata a verde pubblico. Stessa cosa per l’area della Caserma d Avossa (83.003 mq). Le aree da “valorizzare” (vendita a privati) prese in considerazione da questa variante erano in precedenza quasi tutte considerate aree a standard e adesso dopo la “valorizzazione” abbiamo, in aree densamente popolate, altri uffici, 1226 abitanti in più con verde pubblico e standard in meno.
Non si capisce come sia possibile, in zone sature, levare aree assoggettate a standard di parcheggio e di verde pubblico (piazza Concordia Mazzini/via Vinciprova) e ricoprirle di uffici e residenze con altri 1226 abitanti e che il tutto sia lecito e giudicato compatibile con il dimensionamento del piano. A questo punto potremmo sicuramente dire che se passasse questa linea gli abitanti del centro città che volessero un po’ di verde pubblico lo dovrebbero cercare a chilometri di distanza, ai confini del territorio comunale, a dispetto della raggirata legislazione nazionale che indica una congrua distanza dal dove posizionare gli standards relativi di ogni zona omogenea.
Infatti, dal riordino di 10 comparti , quasi tutti localizzati in periferia, si son avuti 1226 abitanti in più che abilmente son stati riposizionati nelle poche aree pubbliche del centro rimaste ancora libere (altri 203 in periferia su una zona fronte mare destinata in precedenza a verde)
“Abilmente riposizionati” significa che, anche dopo la travagliatissima esperienza del Crescent (l’ecomostro sul mare che ha fatto parlare l’intera stampa nazionale – vedi QUI e QUI), l’Amministrazione Comunale di Salerno, con in testa il suo “famoso” sindaco Vincenzo De Luca, ha preso gusto a vendere le aree pubbliche di pregio per farci costruire sopra nuove residenze, uffici ed alberghi destinati - per posizione e costi - ad una clientela extra lusso. Cosi nella centralissima Piazza Mazzini si venderà a privati un suolo che porta in dote 18.000mq di solaio per alberghi o uffici, o nella baricentrica via Vinciprova terreni per farci case per 613 abitanti, così come altri 613 abitanti nell’ambitissima area pubblica sul mare accanto al Grand Hotel (anch’esso costruito su area già pubblica).
Oltre alle fondamentali questioni del dimensionamento del piano regolatore attuale e riproposto, la “vendita dell’ultima argenteria di casa“, la variante “parziale“ fa suoi vari interventi di notevolissima importanza (ma mai discussi con la cittadinanza) come per esempio arditi collegamenti viari e la continua devastazione del litorale cittadino. Infatti nella variante ci ritroviamo il collegamento viario di allacciamento del nodo autostradale all’angusto (per posizione) porto commerciale di Salerno (il progetto viario non era ancora inserito nel PUC presentato nel 2005). E’ un opera questa chiamata “Porta Ovest” di una grande complessità, da enormi costi e tempi lunghissimi. E’stato velocemente appaltato il primo lotto (indipendente dal resto) che comprende lavori intorno al vallone Cernicchiara ma la parte più consistente e cioè lo sventramento in galleria dell’intera montagna che sovrasta tutto il porto commerciale è ancora da venire. La cosa più logica sarebbe quella di fare una pausa di riflessione sulla vera utilità di quest’immane opera che una volta completata non si discosterà più di tanto dalla situazione attuale (non è previsto nemmeno il collegamento ferroviario – collegamento vitale per un porto commerciale!) con il rischio che dopo tanti anni, tanti investimenti di pubblico denaro, rischi di crolli, intralcio alla circolazione veicolare, le esigenze dell’attuale porto commerciale siano nel frattempo cambiate o addirittura che sia stato delocalizzato.
Anche la sagoma del progetto del cosiddetto Porto turistico di Pastena (o “polo nautico”) compare nei grafici di questa variante. Sarebbe, oltre il già menzionato porto commerciale, il quarto o quinto progetto di porto turistico insistente sui 9 km di litorale ricadente nel comune di Salerno. A vedere il progetto assomiglia più ad una lottizzazione a mare che ad un ennesimo porto turistico sulla nostra costa. Il tutto poi progettato su una zona soggetta a specifico vincolo ambientale (D.M. 17/5/1957 riportato anche nella carta dei vincoli allegato al PUC) il quale vieta espressamente qualunque costruzione o altro che in quella zona possa ostacolare la visione dalla strada dell’intero golfo di Salerno.
Sospeso invece il discorso per l’altro porto turistico, il centralissimo “Masuccio Salernitano”, dove sui grafici è stato tratteggiato un semplice semicerchio con una bella sigla (FP3) sulla sagoma del porticciolo esistente. Come per dire – ci stiamo ancora lavorando – ma, dalla (inquietante) presentazione del plastico a fine 2009 con grattacielo stile Abu Dhabi che svetta dal raddoppiato porto, sapete a cosa stiamo lavorando.
Nel centro storico alto troviamo anche la ratifica dell’alienazione di Palazzo San Massimo dal patrimonio comunale e quindi dalla possibile fruizione pubblica. Era stato, con la sua storia e con i suoi volumi, uno degli edifici protagonisti, nell’ormai lontano 1998, di quel sbandieratissimo Concorso Internazionale d’Architettura chiamato “Edifici Mondo”, miseramente e tristemente fallito. Altre zone gialle (“C” di espansione residenziale) in ex zone verdi compaiono in queste tavole della variante che riepiloga quello che già si è fatto, avendo messo a posto le carte, in poco più di 5 anni. Basta alzare gli occhi sulle colline intorno la città per vedere interi crinali devastati da palazzine della ”nuova” classe cementificatrice.
Queste sono solo alcune chicche urbanistiche che hanno portato ad una rapida cementificazione, ancora non del tutto conclusa, del territorio comunale di Salerno. Comune che, con la sua innegabile dinamicità, riesce a far contrabbandare false metodologie addirittura per “modelli”. Che arriva perfino ad organizzare con enfasi, per l’anno prossimo, il convegno nazionale dell’ INU (istituto nazionale di urbanistica). Che arriva a ricevere il plauso da tutti quelli che cercano un posto al sole senza fare tante domande al manovratore.
Se questa è urbanistica …
Autore : arch. Paolo Ferraiolo (
paoloferra@tin.it)
Dello stesso autore sulla vicenda Crescent di Salerno
da www.eddyburg.it :
Salerno Nuovi incubi urbani. 30.01.2009 http://eddyburg.it/article/articleview/12557/1/127
Piazza e pazzie a Salerno11.06.2009 http://eddyburg.it/article/articleview/13331/1/376
Salerno: Il sindaco con “il film in testa”02.02.2010 http://eddyburg.it/article/articleview/14612/1/127
Info : PRG di SALERNO ( a cura di Italia Nostra Sez. di Salerno)
Storia del Piano della Salerno del Duemila - prima parte -1/2 - Dicembre 2009
http://www.youtube.com/watch?v=KxM_pwFjRRY
Storia del Piano della Salerno del Duemila - seconda parte - 2/2 - Dicembre 2009 http://www.youtube.com/watch?v=lDZp5aO8jyA&feature=relmfu
Quando parlo con i miei colleghi universitari francesi o americani dei ‘tagli alla cultura’ italiani, la domanda più ricorrente è: «cosa hanno chiuso?». E qui la faccenda si fa particolarmente penosa, perché si tratta di spiegare loro che l’ipocrisia italica non permette quasi mai di sopprimere davvero qualcosa – sarebbe quasi meglio, paradossalmente –, ma costringe tutti a vivere largamente al di sotto della soglia minima di dignità.
Non si chiudono i musei: no, ma nei bagni non c’è la carta igienica, dai soffitti piove sui quadri, le sale sono aperte a rotazione. E il direttore degli Uffizi guadagna 1800 euro al mese (contro gli 8100 dello stipendio base di Franco Fiorito).
Non si sopprimono le soprintendenze: ma i pochi storici dell’arte e gli archeologi rimasti in servizio in organici ridotti all’osso, non possono usare la macchina di servizio (né farsi rimborsare la benzina o le spese del telefono) nemmeno per fare i sopralluoghi sui monumenti colpiti dal terremoto. E i carabinieri del Nucleo di tutela non possono pagarsi i viaggi per le rogatorie internazionali che consentono di recuperare le opere o i libri rubati.
Non si chiudono gli archivi o le biblioteche: ma se si guastano (succede ogni giorno) i montacarichi che servono a distribuire il pesante materiale cartaceo, non è possibile consegnare i pezzi agli studiosi. E d’inverno non si può accendere il riscaldamento, né d’estate l’aria condizionata: d’altra parte, lo studio non deve forse essere matto e disperatissimo?
Non si eliminano gli enti culturali: ma la prestigiosissima Scuola Archeologica Italiana di Atene è decimata nel personale, ed è costretta da anni ad una indecorosa economia di guerra; l’Accademia della Crusca si aggira ogni anni col cappello in mano; la Società di Storia Patria di Napoli (che possiede la più importante biblioteca sul Meridione) è sull’orlo del fallimento.
Non si chiudono le scuole, ma non ci possiamo permettere gli insegnanti di sostegno, la carta (di qualunque tipo) si porta da casa, e gli autobus per portare i bambini a conoscere le loro città non esistono quasi più.
Non si ha il coraggio di dire che l’università italiana non deve più fare ricerca (per trasformarsi anche ufficialmente in un esamificio e in un concorsificio truccato), ma l’ultimo finanziamento per la ricerca che la mia università mi ha erogato ammonta a 600 euro annui. E l’ho ceduto, come altri colleghi, al dipartimento: in una sorta di colletta che potesse portare ad avere qualche assegno di ricerca per non far scappare all’estero proprio tutti i giovani studiosi più meritevoli.
A questo punto del discorso, qualcuno tira invariabilmente fuori un argomento in apparenza definitivo: «Non ci sono soldi». Ma il mantra del «non ci sono soldi» era già difficile da sostenere prima, visto che nel Paese con l’evasione fiscale più grande dell’Occidente è un po’ dura pensare davvero che ‘non ci siano soldi’: il problema, semmai, è il fatto che preferiamo lasciare quei soldi nella disponibilità dei privati. Gli stessi privati a cui, poi, chiediamo l’elemosina della beneficenza. Una beneficenza che non è a costo zero, visto che – per quanto riguarda, per esempio il patrimonio culturale – si traduce in iniziative contrarie alla funzione costituzionale del patrimonio stesso, che è quella di produrre conoscenza e cultura, e attraverso di esse, eguaglianza e cittadinanza. Questi ‘rimedi’ alla mancanza di denaro pubblico sono infatti tutti all’insegna del mercato, e producono non cittadini, ma clienti: grandi mostre di cassetta (anzi Grandi Eventi), prestiti forsennati di opere delicatissime, iperrestauri a rotta di collo, cessioni di sovranità pubblica a sponsor privati che ‘marchiano’ i monumenti e molto altro ancora. Del resto, l’opzione alternativa è spesso ancora peggiore: non ci sono soldi, dunque che il patrimonio vada pure in rovina.
Ma ora – dopo le feste in costume romano della Regione Lazio, dopo la notizia che il Ponte sullo Stretto ci è costato 300 milioni di euro solo per non esistere, o che il Palazzo della Regione Lombardia ce n’è costato 400, dopo che si apprende che agli incliti consiglieri regionali campani viene distribuito un milione l’anno –, beh, ora è un po’ difficile pensare che il problema sia davvero che i soldi non ci siano. Semmai, il punto è cosa vogliamo farne, di questi benedetti soldi pubblici.
Ma niente paura: quando avremo definitivamente perduto Pompei, potremo sempre nascondere la nostra vergogna sotto una maschera. Naturalmente, una maschera da maiale.
1. Ministero per i Beni e le attività culturali. Nel luglio del 2008 Sandro Bondi subisce passivamente un taglio da 1 miliardo e 300 milioni di euro. Il Mibac non si riprenderà più: per l’anno prossimo Ornaghi annuncia sereno altri 50 milioni di tagli. Morale: la Pinacoteca di Varallo questo inverno non riaprirà; a Brera fino a ieri non c’erano i soldi per riparare i lucernari; a Capodimonte piove sui quadri; a Pompei non si assumono manutentori: e le case romane, si sfarinano.
Ora il governo Monti, con la spending review, per risparmiare 10.000 euro l’anno taglia i comitati tecnico-scientifici, gettando il patrimonio tra le braccia della burocrazia ministeriale. Ma anche le famose Regioni tagliano: nel 2013 la colta Toscana sottrarrà 1 milione e 750 mila euro all’istruzione, due milioni alla cultura.
2. I tagli al Mibac non riguardano ‘solo’ i musei e i siti monumentali, ma anche gli archivi e le biblioteche. A Firenze l’Archivio di Stato non può più climatizzare i depositi: con 36 gradi e un’umidità fuori controllo la memoria storica del paese è a rischio. A Napoli i 300.000 volumi dell’Istituto di studi filosofici non trovano una sede: basterebbe metà di quel che Fiorito è accusato di aver intascato.
3. A Siena chiude il Santa Maria della Scala, fiore all’occhiello del sistema museale cittadino. La crisi del Comune (commissariato) sembra mettere fine ad una delle esperienze culturali più promettenti d’Italia.
4. L’Istituto Centrale per i beni sonori e audovisivi di Roma (la cosiddetta Discoteca di Stato), cioè la memoria sonora del Paese, spacciata dalla Spending review a luglio, è stata salvata in corner dall’insurrezione dei cittadini. Sul sito, un avviso tuttora ringrazia «quanti hanno testimoniato la loro solidarietà e partecipazione». Ve lo immaginate sul sito di un ente pubblico francese, o tedesco?
5. Il mondo dell’arte contemporanea è in ginocchio: i tagli sono del 33%. Il Madre di Napoli è in smontaggio, il Maxxi è commissariato, il Castello di Rivoli si trascina grazie a bilanci provvisori bimestrali, e la Quadriennale di Roma non si terrà per la prima volta dal 1927.
6. Il terremoto in Emilia, Lombardia e Veneto: non ci sono soldi per i monumenti danneggiati. Un esempio? Per il Palazzo Ducale di Mantova ci vogliono 5 milioni di euro, e ne sono arrivati 300.000 mila. Alla faccia di Mantegna. Il centro dell’Aquila, d’altra parte, aspetta da oltre tre anni, ed è ridotto ad una quinta da Cinecittà.
E’ un grande piacere ospitare qui oggi questa conferenza stampa in uno dei luoghi della cultura che come gli altri ha un po’ della nostra anima. E’ segno di una scelta del FAI e di questo siamo molto soddisfatti.
Da anni sono impegnata come direttore archeologo della SSBAR in particolare per il museo nazionale romano e per l’Appia.
Ho avuto la fortuna di vivere un grande periodo per le antichità di Roma, quello della legge speciale del 1981 che, con Adriano La Regina, ha rivolto l’attenzione alla conservazione del patrimonio archeologico della città. Da quel momento si è avviato il progetto che ha coinvolto i monumenti dell’area centrale e del territorio e si è dato vita a un sistema museale (quello del MNR di cui Palazzo Massimo è una sede) che ha permesso di presentare e valorizzare le raccolte in un rapporto coerente con i complessi archeologici di Roma e del suburbio.
Quando si è lavorato per accrescere il patrimonio culturale e migliorarne la fruizione, senza risparmiare l’impegno, se pur tra tante difficoltà, con l’unico obiettivo della tutela e della divulgazione dei risultati, risulta inconcepibile non poter guardare avanti e continuare nell’impresa, dovendo anzi ragionare in termini di “ridimensionamento”.
L’accrescimento del patrimonio culturale e il suo mantenimento hanno dei costi e nella maggior parte dei casi il profitto è assolutamente insufficiente a far fronte alle esigenze. La soluzione evidentemente non è nei maldestri tentativi di trarre guadagno dai beni culturali direttamente, anche se ciclicamente si sono presentati, sotto vesti diverse, esperimenti di sfruttamento, dai giacimenti culturali alle forme di quella cd valorizzazione indirizzata verso “attività” per lo più estranee alla politica culturale. Senza alcun pregiudizio verso le attività che possano avvicinare il pubblico, non possiamo perdere di vista il compito prioritario che i luoghi della cultura devono svolgere: rappresentare l’identità culturale e formare per una fruizione che deve entrare a far parte delle consuetudini della collettività.
Questo compito complesso viene sostenuto, ove più ove meno, dalle competenze specialistiche delle Soprintendenze alle quali è affidata la gestione del patrimonio culturale. Le Soprintendenze, istituite già all’inizio del ‘900, molto prima della creazione del Ministero, oggi, mentre intorno tutto è stato modificato, sono in uno stato di grave sofferenza che potrà solo peggiorare: stanno diminuendo sempre più i tecnici e con loro l’esperienza sul campo, la cura quotidiana verso i monumenti e i problemi della conservazione, l’attenzione per la tutela. Chi resta deve lavorare senza le risorse anche per il solo funzionamento, per poter raggiungere i luoghi e i monumenti, per sostenere la spesa delle bollette dei musei. La macchina centrale, d’altro canto, si è ingigantita rispetto alla situazione originaria e ha costi elevati, in una moltiplicazione di competenze che spesso appare incongrua, rispetto alle necessità di chi opera sul campo, in un rapporto quotidiano con il territorio e con i luoghi della cultura.
Continuare a lavorare in queste condizioni è davvero arduo.
E’ stato scritto e detto esaurientemente al riguardo, i giornali sono densi di articoli ma vorrei, molto semplicemente, esprimere in questa occasione qualche riflessione che scaturisce dall’esperienza sull’Appia, con la preoccupazione che affligge quotidianamente per la sorte di questo patrimonio. E’ un esempio valido perché si tratta di un patrimonio molto esteso, per il quale le amministrazioni hanno trascurato il rispetto delle regole.
In questi anni, con un piccolissimo ufficio, abbiamo cercato piuttosto disperatamente di portare avanti una tutela complessiva, non indirizzata al singolo monumento ma anche al quadro generale di riferimento, in uno stato di carenza di norme certe al riguardo. L’impegno maggiore, accompagnato da un senso di debolezza, è stato ed è proprio nel tentare di motivare la necessità della salvaguardia dell’intero ambito, secondo le linee della legge 431 del 1985 (derivata dal decreto Galasso), che avrebbero dovuto trovare una applicazione più efficace in termini di tutela e gestione, con il presupposto che i BC insistono sul territorio e hanno in questo il loro modo di esistere, di essere conosciuti, tutelati e valorizzati. L’Appia Antica ha una sua specificità che consiste nella relazione inscindibile tra la strada, le testimonianze monumentali e la campagna in cui sono comprese. L’indirizzo della tutela deve essere sostenuto da uno stretto rapporto tra elementi di conoscenza e norme, in una forma di coerenza che non è stata e non è affatto scontata.
Tra le competenze delegate e subdelegate, si tratta, non poche volte, di dover rincorrere il semplice rispetto dell’applicazione delle procedure che, in qualche caso, da sole, sarebbero state sufficienti ad evitare autorizzazioni vergognose e sanatorie.
Si sono concessi condoni dove non era possibile. Si è lasciato che si distruggesse l’integrità di una strada antica, da trattare come un complesso monumentale unitario, con il suo basolato e il ritmo ininterrotto di monumenti, per consentire l’accesso a edifici residenziali, i cui diritti ad esistere, nel modo più utile all’uso privato, sono stati l’unica regola.
La nostra politica di tutela per l’Appia è stata affiancata da azioni per la valorizzazione che hanno portato anche all’acquisto di beni privati - come Capo di Bove e S. Maria Nova - per ricerche, restauri e la fruizione pubblica, con un progetto culturale che tenta di compensare alla mancata attuazione di progetti complessivi, se non per qualche eccezione, creando un modello di gestione coerente di tutela, conservazione e valorizzazione.
Non si può non ricordare l’impegno di Antonio Cederna, di Italia Nostra e di altri che a partire dal 1953 hanno richiamato l’attenzione sull’Appia e sulla necessità di una normativa speciale. Denunce e proposte inascoltate insieme a quelle di Italo Insolera che abbiamo salutato solo poco più di un mese fa in questa sala e che ha voluto aggiungere alla riedizione del 2011 del suo libro Roma moderna, un ultimo capitolo sull’Appia definendola la colonna vertebrale di una nuova struttura in grado di costruire aldilà degli errori e delle speculazioni di Roma moderna…la vera Roma futura.
Fino a un po’ di tempo fa abbiamo creduto che si potesse riuscire a invertire il corso delle cose, riscattando parti di patrimonio pubblico che rappresentassero oltre che una crescita della conoscenza anche una risorsa per la collettività, per dare un contributo alla costituzione di un parco, o come altro lo si voglia definire, autentico e non costruito a tema per soli fini turistici. Non siamo ottimisti oggi nel senso di esser in grado anche solo di mantenere quello che si è realizzato, per non parlare di crescita.
I motivi sono la mancanza di fondi, come si diceva e il grave stato delle Soprintendenze e del personale del ruolo tecnico.
In questo quadro si vuole far credere che il ricorso ai finanziamenti dei privati e a forme di gestione di tipo privato possa rappresentare una risorsa imperdibile e una soluzione. Anche su questo è stato scritto molto e la lettera della collega Anna Coliva sul Corriere della Sera del 21 settembre chiarisce la differenza fra modelli di mecenatismo e di tipo imprenditoriale.
Francamente non mi sembra che il coinvolgimento dei privati sia stato ancora affrontato secondo regole di una corretta partecipazione e di esplicitazione dei diversi ruoli. Perché il ricorso a finanziamenti privati scaturisce dalla debolezza mostrata nel governo dei BC e dalla lagnanza sulla mancanza di mezzi. Si è generato così un equivoco di base che va chiarito senza indugio: il patrimonio culturale non è disponibile al miglior offerente e non può essere oggetto di scambio; in virtù di questo non sono ammissibili forme di sfruttamento che allontanano dalla gestione istituzionale che non può essere messa in discussione e che va sostenuta perché torni a esistere in una condizione dignitosa.
A Vicenza torna in questi giorni visibile, dopo un lungo e felice restauro, la Basilica di Palladio: cioè il simbolo stesso della tensione del Rinascimento verso la dimensione civile dell’architettura, verso la bellezza al servizio di un progetto politico, verso l’arte come specchio di una comunità. Bene: e nella Vicenza del 2012, cosa ne facciamo di un luogo come quello?
Pierluigi Sacco (una delle poche voci serie nel circo equestre della cosiddetta ‘economia della cultura’) ha redatto uno studio in cui, tra l’altro, si legge che la Basilica «può così ospitare una programmazione di qualità, ma non centrata sul tema delle grandi mostre, dai costi elevati e bisognose di attrarre flussi molto rilevanti di visitatori per poter raggiungere condizioni di sostenibilità. Non ha alcun senso affollare la Basilica con masse di visitatori distratti, attirati da eventi-spettacolo che lasciano una impronta del tutto effimera sul tessuto culturale ed economico della città – l’idea è invece quella di mettere a punto un programma dai costi contenuti ma dall’elevata qualità di ricerca che funga da ‘laboratorio’ per la città: per i programmi delle scuole, con i quali si possono realizzare forme di stretta cooperazione e di integrazione dei programmi didattici, per gli uffici stile e le aree ricerca e sviluppo delle aziende del territorio, per l’associazionismo culturale, e così via».
E, invece, la Basilica appena inaugurata è stata ridotta a teatro del più effimero evento-spettacolo che la stagione delle mostre trash ricordi: Raffaello verso Picasso. Storie di sguardi, volti, figure (prodotta da Marco Goldin). Quattro milioni di euro per una specie di caricatura di un manuale di storia dell’arte, senza lo straccio di un’idea o di progetto culturale, che non sia l’apoteosi del marketing del capolavoro. Da gennaio la stessa accozzaglia di opere sublimi si sposterà a Verona, ma con un altro imperdibile titolo: Da Botticelli a Matisse.
Fin qui niente di particolare: è notorio che Goldin (indimenticato produttore de Gli Impressionisti e la neve, la mostra che ‘impreziosì’ i Giochi olimpici invernali di Torino) interpreta nel modo più efficiente l’abuso a ciclo continuo della storia dell’arte che è praticato anche in molti altri luoghi (dalle Scuderie del Quirinale al Palazzo Reale di Milano). Quel che invece è davvero notevole è la risposta che Goldin ha dato a coloro che gli hanno mosso queste stesse critiche: «Credo nelle emozioni, non nella conoscenza per pochi sapienti». E ancora: «Ho la convinzione che le opere d’arte non debbano essere relegate alla sola fruizione elitaria riservata ai sapienti».
Ecco l’ultima frontiera del tradimento della storia dell’arte, ridotta a strumento per opporre le emozioni alla conoscenza, e il popolo all’élite. È la stessa retorica che usa Matteo Renzi quando difende dalle critiche degli storici dell’arte la bufala auto-propagandistica della ricerca della Battaglia di Anghiari dietro Vasari, o Silvano Vinceti quando dice di aver trovato le ossa di Caravaggio o di Monna Lisa. Questa retorica prevede che alle obiezioni scientifiche non si risponda con argomenti razionali e verificabili, ma con l’appello ad ineffabili e incontrollabili emozioni. Ed è una retorica tre volte menzognera: mente una volta perché tenta di ammantare di un anelito democratico il marketing della propria carriera politica o dei propri affari; mente una seconda volta, perché illude di far godere dell’arte senza nessuno sforzo di conoscenza; mente una terza volta perché toglie ai cittadini l’unico mezzo per costruire davvero la democrazia: e cioè la conoscenza, che si dipinge falsamente come inconciliabile con l’emozione.
La storia dell’arte è una disciplina umanistica, cioè utile a costruire quella che i latini chiamavano humanitas: la vocazione di noi tutti a non vivere come bruti, ma a seguire la conoscenza. Ma il Dio Mercato ha invece bisogno di clienti, emozionati e ignoranti. Questo insanabile contrasto oppone, per qualche mese, il senso ultimo della Basilica di Palladio a quello del suo effimero contenuto.
In ogni discussione sulla sorte del patrimonio storico e artistico della Nazione, e specie di quello meridionale, arriva sempre il momento in cui uno degli interlocutori tira fuori un argomento in apparenza definitivo: «Non ci sono soldi».
Da questa premessa si fanno discendere una serie di conseguenze, tra loro assai diverse ma unite da una caratteristica precisa: sono tutte contrarie alla funzione costituzionale del patrimonio stesso, che è quella di produrre conoscenza e cultura, e attraverso di esse, eguaglianza e cittadinanza.
Questi ‘rimedi’ alla mancanza di denaro pubblico sono: grandi mostre di cassetta (anzi Grandi Eventi), prestiti forsennati di opere delicatissime, iperrestauri a rotta di collo, cessioni di sovranità pubblica a sponsor privati che ‘marchiano’ i monumenti e molto altro ancora. L’opzione alternativa è spesso quella peggiore: non ci sono soldi, dunque che il patrimonio vada pure in rovina.
Il mantra del «non ci sono soldi» era già difficile da sostenere prima, visto che nel Paese con l’evasione fiscale più grande dell’Occidente è un po’ dura pensare davvero che ‘non ci siano soldi’: il problema, semmai, è il fatto che preferiamo lasciare quei soldi nella disponibilità dei privati. Gli stessi privati a cui, poi, chiediamo l’elemosina della beneficenza al patrimonio.
Ma ora – dopo le feste in costume romano della Regione Lazio, dopo la notizia che il Ponte sullo Stretto ci è costato 300 milioni di euro solo per non esistere, dopo che si apprende che agli incliti consiglieri regionali campani viene distribuito un milione l’anno –, beh, ora è un po difficile pensare che il problema sia davvero che i soldi non ci siano. Semmai, il punto è cosa vogliamo farne, di questi benedetti soldi pubblici.
Ma niente paura: quando avremo definitivamente perduto Pompei, potremo sempre nascondere la nostra vergogna calzando una maschera. Naturalmente, una maschera da maiale.
Ti abbiamo dato la bicicletta e adesso pedala. Peccato che chi anche potesse e volesse proprio pedalare con tutto il cuore, scopra abbastanza in fretta che quella bicicletta è legata a una catena invisibile che ne impedisce i movimenti. Lo sapevano benissimo coloro che un paio di giorni fa si sono trovati travolti dall’ecatombe dei trasporti milanesi, di cui le cronache continuano a riferirci particolari sotterranei profondi. Non ci riferiscono invece delle ripercussioni superficiali dell’ecatombe sotterranea, come quell’elegante servizio di bike-sharing rimasto lì a fare il suo mestiere di gioiellino per i quattro gatti abbonati dell’area centrale. Eppure, in un caso di emergenza assoluta come il tracollo dei mezzi pubblici e la gridlock dei veicoli privati, la bici pareva la scialuppa ideale almeno in tantissimi casi. E invece (magari qualche indagine sociologica campionaria ce lo racconterà più avanti in cifre e tabelle, chissà) i naufraghi hanno preferito telefonare a casa come E.T. chiamando i parenti in auto a recuperarli, con relativo contributo ulteriore al grande ingorgo.
Perché era perfettamente funzionante quella catenella invisibile ma infrangibile che lega le bici alla circoscrizione municipale. Se provate a prendere quel tratto di metropolitana che va extra moenia più o meno parallelo al naviglio Martesana, tra quartieri sempre più verdi fino a sbucare in una discreta imitazione di parco agricolo, vedrete vicino a qualche stazione parcheggiate delle biciclette bike-sharing. Ma basta provare a inforcarle per capire subito che qui ahimè il vostro abbonamento milanese non funziona. C’è una comodissima pista ciclabile quasi tutta immersa tra parchi e piacevolezze, costruita col denaro del contribuente e dal contribuente assai apprezzata. Quel percorso specifico parte giusto ai piedi dei nuovi grattacieli fallici di downtown Porta Nuova e attraverso il multietnico settore di via Padova e dintorni si inoltra sotto la tangenziale e verso quella “milandia” in cui - come ci spiegano da decenni tutti i possibili studi - abitano e si identificano alcuni milioni di persone. Ma se provate ad attraversarla, questa milandia, le frontiere saltano subito all’occhio: dalla bici che non va più in là di tanto, all’autobus che fa un giro stravagante, agli incredibili salti mortali delle destinazioni urbanistiche di zona, o alle barriere incomprensibili e insuperabili.
Questo lo riconoscono anche le istituzioni, che da quasi cent’anni in qualche modo raccomandano nei loro piani e programmi di riconoscere un contesto unitario, in cui non ci sono barriere ma eventualmente solo delle specie di fluide soluzioni di continuità. Ma le stesse istituzioni, quando invece si tratta degli uomini che ci stanno seduti dentro, paiono ascoltare invece sirene incantatrici piuttosto diverse, magari con l’idea mal posta di socialismo in un solo pianerottolo, o simili. Ad esempio dopo anni e anni di giusta e sacrosanta opposizione a un’idea localista e strapaesana di circoscrizioni amministrative e rappresentanza, anche le forze di centrosinistra (dopo la caduta del Muro evidentemente c’è stata anche quella meno fragorosa del Buon Senso) si sono lanciate nel sostegno intemerato della Provincia della Brianza. La quale provincia, dietro le montagne di chiacchiere e pure benintenzionati contributi storico-scientifici-democratici, nasconde malamente un fatto ineludibile: sia il capoluogo che una bella fetta del territorio afferiscono dal punto di vista insediativo e socioeconomico all’area milanese. Come del resto capisce anche un idiota guardando GoogleEarth o facendosi un giretto attorno (con mezzi propri, quelli pubblici risentono del dibattito diciamo politico). E verificando ad esempio che anche passeggiare sul marciapiede dal Duomo di Milano al Duomo di Monza è sicuramente una bella scarpinata da affrontare con calzature adatte, ma si tratta di impresa alla portata di moltissimi, che richiede una mattinata o un pomeriggio, e soprattutto si svolge in ambiente strettamente e continuamente urbano.
Adesso col riordino contabile delle circoscrizioni provinciali qualcuno vuol far diventare Monza capitale neoimperiale di un territorio strampalato, arrampicato all’infinito sulle colline ex verdi e oggi in parte svillettate e capannonizzate, territorio che interessi misteriosi a parte ha assai poco da spartire col central core metropolitano, a cui invece Monza afferisce per i motivi terra terra di cui sopra. E si scopre anche uno dei perché: le norme vigenti sulla creazione delle Città Metropolitane non prevedono cambiamenti di confini. Se in passato certa politica localistica e miope ha combinato delle sciocchezze, i tecnici contabili bocconiani non hanno proprio pensato di rimediarvi, limitandosi a dire tagliamo le spese, col solito stile liberal-marziano che abbiamo cominciato a conoscere. Ora, qualche formigoniano o Formigoni stesso, chissà, se ne esce con l’idea giusta. Dal letame nascono i fior, diceva quel mio famoso omonimo. Ma perché non cambiamo la legge sulle Città Metropolitane nel pezzettino che impedisce di aggregare e disgregare territori, così da rendere più razionale la circoscrizione? Ecco: fatelo! Anche le altre Città Metropolitane del paese ve ne saranno grate. Anche i giornalisti dei supplementi domenicali che ci raccontano di quanto sia bella fricchettona ecologica e vivibile l’americana Portland, Oregon, ma si dimenticano di dirci che uno dei principali motivi per cui ci si sta tanto bene è che lì – caso unico o quasi negli Usa - esiste Metro Portland, ente elettivo di area vasta.
Se non vogliamo proprio diventare improvvisamente intelligenti, imitiamo almeno simpaticamente Alberto Sordi, e facciamo per una santa volta gli americani, cambiando il codicillo. Tanto per poter andare, che so, dal Ponte delle Gabelle all’ex Casa del fascio di Lissone senza mostrare il passaporto, e magari fermarsi in piazza a chiacchierare su quel Mayor Metropolitano che aveva promesso di rifare la pista ciclabile, ma ha preso in giro tutti, dalla Barona a San Fruttuoso e oltre, e la prossima volta se li scorda i nostri voti.
MILANO — Rinnovabili e pulite. Di fonti di energia alternativa se ne parla da decenni, in Italia, ma forse non è ancora arrivato il loro tempo. Perché nel Paese non sì è mai fermata la ricerca e l'estrazione del petrolio. E, in Lombardia, la caccia all'oro nero addirittura si sta intensificando: nella Pianura Padana, dove è ancora attiva una delle raffinerie Eni più efficienti d'Europa, quella di Sannazzaro de' Burgondi (Pavia), l'attività è intensa, mentre compagnie italiane e straniere si stanno mettendo in fila per chiedere le autorizzazioni al ministero dello Sviluppo economico.
Ultime tra queste la Exploenergy, che a marzo scorso ha chiesto il via libera all'operazione Lograto per esplorare un'area di 290 chilometri quadrati tra Bergamo, Brescia e Cremona; la Compagnia generale idrocarburi, con il progetto Momperone, e il colosso nazionale Enel Longanesi con Rocca Susella, che si stanno contendendo 360 chilometri tra Varzi e Voghera, nel Pavese, e Tortona, nell'Alessandrino, tutta terra di vigneti doc, per cercare idrocarburi, soprattutto gas; ma c'è anche l'americana Mac Oil, sede in Oklahoma e uffici italiani a Roma, che ha già avuto il via libera dal Pirellone per il progetto San Grato e ora sta aspettando quello del ministero per avviare un'indagine sismica non soggetta a verifica di impatto ambientale per individuare eventuali giacimenti e poi perforare qualche pozzo esplorativo tra Cremona, Lodi, Milano e Pavia.
A conferma dei nuovi piani di sviluppo e ricerca ci sono i numeri della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche, che fa capo al ministero dello Sviluppo economico. A oggi in Lombardia sono 17 le concessioni vigenti di coltivazione idrocarburi e 7 quelle di stoccaggio gas. Ma altrettante sono le nuove richieste: 14 i permessi di ricerca già concessi, mentre 11 in oltre 40 comuni sono quelli in fase di valutazione, quasi una richiesta per provincia lombarda, tutte coinvolte tranne Lecco e Sondrio. I petrolieri stessi, tramite Assomineraria, hanno già fatto sapere di essere pronti a estrarre tutto il nostro oro nero, investendo nell'arco dei prossimi quattro anni 12 miliardi di euro per nuovi impianti produttivi in tutta Italia. «Da un impegno finanziario così rilevante — sostiene Assomineraria — potrebbero derivare almeno 70 mila nuovi posti di lavoro, oltre 40 miliardi di euro di nuove entrate per lo Stato in 20 anni e un risparmio sulla bolletta energetica di 120 miliardi di euro nello stesso periodo».
Il motivo di questa nuova stagione «texana»? Per Assomineraria l'attività petrolifera deve ripartire, anche in Lombardia, a causa dei prezzi alti dei barili stranieri e delle frequenti difficoltà di approvvigionamento. Tanto più che, nel nostro Paese — l'ha rivelato Pietro Dommarco nel suo saggio «Trivelle d'Italia. Perché il nostro Paese è un paradiso per i petrolieri», appena uscito per Altreconomia —, è sempre stato conveniente produrre petrolio: le royalties, cioè il corrispettivo che le compagnie petrolifere versano a Stato ed enti locali come compensazione per lo sfruttamento del territorio, sono bassissime, il 10% per le estrazioni in terraferma contro, per esempio, l'80% della Russia e il 60% dell'Alaska. Con esenzioni dal pagamento delle royalties sulle prime 20 mila tonnellate di greggio e sui primi 25 milioni di metri cubi di gas estratti in terraferma.
Ma i nuovi permessi di ricerca richiesti in Lombardia arriveranno? Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, ha già tracciato la linea: obiettivo del governo è raddoppiare nel giro di pochi anni la produzione italiana di idrocarburi, cercando di raggiungere per via interna il 20% dei consumi contro il 10% attuale. E allora, anche vicino al Po, aspettiamoci nuove trivelle.
L’INFRASTRUTTURA più cara a Silvio Berlusconi, che ne fece oggetto della sua campagna elettorale nel 2008, e che il governo Monti si affrettò a definanziare, poche settimane dopo l’insediamento, torna alla ribalta. A dispetto delle critiche che piovono da un decennio sul ponte sullo Stretto, il meccanismo amministrativo si è rimesso pericolosamente in moto. Meccanismo che potrebbe portare alla posa della prima pietra nel giro di pochi mesi. «Non c’è una scelta definitiva, io non lo considero tra le infrastrutture prioritare», disse il ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera nel giugno scorso. Dichiarazioni che arrivavano dopo due mosse cruciali volte a bloccare la mastodontica opera destinata ad unire Calabria e Sicilia: alla fine di ottobre del 2011 il piano di investimenti della Commissione europea, che indica i trenta progetti prioritari fino al 2020, ignorò smaccatamente il mega-ponte. Il governo Monti non perse tempo: la riunione del Cipe del 20 gennaio di quest’anno dispose il definanziamento per 1,6 miliardi del Ponte motivando la scelta proprio per l’assenza, dopo tanti anni, di un progetto definitivo. Sembrava che il sogno berlusconiano, coi suoi costi stratosferici (si parla di 8,5 miliardi) e le sue ambizioni da «meraviglia della terra», fosse destinato ad essere immolato sull’altare della nuova sobrietà montiana. Tanto più che il Def, il documento economico e finanziario dell’aprile di quest’anno, nell’allegato infrastrutture, ignora completamente l’opera.
Invece il Ponte torna alla ribalta. Fin dall’estate scorsa Pietro Ciucci, amministratore dell’Anas (società del Tesoro) e della Società Stretto di Messina, fondata negli anni Ottanta con il compito di progettare e realizzare l’opera, ha mosso all’attacco e ha annunciato un ricorso straordinario al Capo dello Stato (inviato nei giorni scorsi) in cui considera di fatto illegittimo il definanziamento del progetto operato dal Cipe nel gennaio scorso: sostanzialmente perché la società rimasta senza soldi non può rispettare la convenzione originaria firmata con Stato e che nessuno ha ancora abrogato.
Aperta la falla, l’iter del Ponte è ricominciato. Il ministero dell’Ambiente ha riattivato, il6 luglio scorso, la commissione per fornire il Ponte della Via, la cruciale valutazione di impatto ambientale. Inoltre, senza attendere il semaforoverde della Via (come avviene normalmente), nei giorni scorsi, il 27 settembre, il ministero per le Infrastrutture e Trasporti (retto da Corrado Passera) ha aperto la conferenza dei servizi, cioè l’organismo in grado di dare tutte le autorizzazioni necessarie sul progetto definitivo e far partire l’opera. Una circostanza che ha messo in allarme le associazioni ambientaliste — Fai, Italia Nostra, Legambiente, Man e Wwf — che annunciano clamorose proteste.
Se i due ministri Clini (Ambiente) e Passera (Sviluppo) hanno accettato di dar seguito all’esame di impatto ambientale e alla conferenza dei servizi, non altrettanto favorevole era sembrato in passato il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca che in più occasioni aveva pubblicamente osservato che il limitato orizzonte temporale del governo non sembrava sufficiente ad esaurire le complesse procedure amministrative dell’opera.
Ma nonostante ciò la macchina del Ponte sullo Stretto rischia di rimettersi in moto.
TORNANO a volare gli elicotteri a Palazzo Lombardia. Nonostante una sentenza del Tar, datata 27 luglio, che ha revocato alla piattaforma del nuovo Pirellone l’autorizzazione come elisuperficie rilasciata dall’Enac, i residenti della zona negli ultimi due giorni hanno avvistato almeno tre elicotteri atterrare e poi ripartire: due giovedì (uno alle 12.40, l’altro alle 19.30) e uno ieri mattina, intorno alle 9.40. Il tutto corredato dai vari disagi che gli abitanti della zona denunciano ormai da anni: finestre che vibrano, rumore insopportabile, odore di carburante che entra nelle case. Ma com’è possibile che gli elicotteri siano tornati nonostante la sentenza del Tribunale amministrativo? Il Pirellone si appoggia a un cavillo, rivendicando il fatto che — sebbene l’autorizzazione come elisuperficie sia stata revocata — la piattaforma ha ottenuto anche un’altra autorizzazione, quella di eliporto.
Equindi, secondo la Regione, i voli possono continuare. «La sentenza nei fatti non produce uno stop — è la posizione dell’assessore regionale ai trasporti Raffaele Cattaneo — dal 1° giugno Enac ha rilasciato alla piazzola di Palazzo Lombardia anche la ben più complessa e restrittiva certificazione di eliporto che consente agli elicotteri di atterrare edecollare indipendentemente dall’autorizzazione come elisuperficie ». Una differenza tecnica e terminologica (l’eliporto ha delle strutture di supporto alla piazzola di atterraggio, l’elisuperficie no), che però ha poco a che fare con il merito della sentenza, che aveva bocciato i voli in mezzo alle case perché il rumore era eccessivo.
«Vogliamo capirecome mai il Pirellone continui a far finta di niente — dice Anna Fabris del comitato quartiere modello che raccoglie i residenti della zona — . Chi è dalla parte del torto? Sbaglia il tribunale oppure è la Regione a fregarsene di una sentenza?».La seconda certificazione, comunque, è probabilmente destinata ad avere vita breve. Gliavvocati dei residenti infatti hanno già annunciato di voler proseguire la battaglia legale: «Non è cambiato niente, se non in peggio — spiega l’avvocato Stefano Soncini — per legge l’eliporto dovrebbe fare come minimo sei voli al giorno. Si tratta quindi di qualcosa di ancora più impattante rispetto all’elisuperficie. Per questo motivo noi abbiamo notificato giovedì un altro ricorso contro la nuova autorizzazione».
Con i residenti c’è anche il Pd in consiglio regionale. «L’eliporto non solo è più impattante, ma anche più preoccupante — spiega Franco Mirabelli, consigliere regionale del Partito Democratico — perché significa che si prevede di utilizzare quello spazio anche come ricovero dei mezzi. Il che vorrebbe dire fare della piattaforma il centro del progetto di linee elicotteristiche che Cattaneo ha in mente. Adesso è importante che il Comune, nel piano di zonizzazione acustica, stabilisca dei parametri per quell’area che non consentano l’uso di elicotteri, se non per le emergenze».