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Dal vicesindaco di Torino riceviamo quest'ampia illustrazione dei tentativi del Comune (con vittorie e sconfitte) di tutelare e riutilizzare la Cavallerizza reale, in replica ad alcune affermazioni contenute in un articolo scritto per eddyburg da Elisabetta Forni ed Emanuele Negro.

Il futuro di uno straordinario complesso architettonico urbanistico, patrimonio mondiale dell’Unesco, come la Cavallerizza reale di Torino, merita senz’altro una riflessione ampia e approfondita, sia per le sue valenze storico artistiche, sia come possibile esempio innovativo di riuso e di riappropriazione pubblica di un bene culturale parzialmente in abbandono e destinato alla speculazione finanziaria.

Purtroppo non sembra essere questo l’obiettivo dell’intervento di Elisabetta Forni e Emanuele Negro (eddyburg, 25 agosto 2017), ottimi esordienti di quello sport nazionale che vede giornalisti e commentatori addossare ai Cinque Stelle ogni nefandezza passata e futura, in termini di visione strategica, di pratica politica e di gestione amministrativa. In premessa del loro articolo, infatti, essi dichiarano di voler dimostrare con questo caso di studio che l’amministrazione della sindaca Chiara Appendino è espressione di una “post ideologia pentastellata”, ovvero di “neo liberismo mimetizzato”, estrapolando alcune considerazioni da un articolo ricco di spunti problematici, in parte anche condivisibili, di Maurizo Pagliassotti (il manifesto, 7 marzo 2017).

Forni e Negro descrivono in modo corretto e dettagliato i processi che hanno portato prima all’abbandono e poi alla cartolarizzazione della Cavallerizza da parte delle amministrazioni di “centro sinistra”, che si sono succedute ininterrottamente alla guida di Torino da almeno un ventennio. Dopo di che denunciano una sostanziale continuità della Giunta Appendino con queste politiche e profetizzano per la Cavallerizza un futuro di privatizzazione, di spezzettamento e di caduta nella mani di “developers, forse locali o forse cinesi o del Quatar”.

Naturalmente chiunque è padrone di fare le analisi politiche e le previsioni che vuole, però io vorrei riportare la questione ai dati reali e consegnare al dibattito quanto si sta facendo da parte dell’Amministrazione per rispettare il programma di mandato che recita: “Interruzione del processo di vendita della Cavallerizza Reale. Pianificazione del processo di riacquisizione dell’immobile al fine della trasformazione dello stesso, attraverso un processo partecipativo che coinvolga i cittadini, in polo culturale sotto il controllo pubblico”.

La Cavallerizza è un complesso urbanistico architettonico consolidatosi tra fine XVII secolo e inizio XIX secolo, come sede di attività terziarie e di servizio per la zona di comando della citta, posto nel cuore di Torino, fra la centralissima piazza Castello, i Giardini reali, la sede storica dell’Università e la mole Antonelliana. Copre una superficie territoriale di circa 23.000 metri quadri ed è organizzata su una serie di maniche che delimitano quattro corti, ampi spazi aperti e la straordinaria sala del maneggio con copertura a volta di circa 24 metri di luce e 15 di altezza.

Dopo un lungo periodo di abbandono, a fronte dei processi di privatizzazione avviati dalla Giunta di Piero Fassino, nel 2014 un gruppo di cittadini che poi si costituirà in associazione “Assemblea Cavallerizza 14:45”, occupa una parte del bene proponendo una serie di iniziative che sollecitano l’attenzione sull’importanza storica del complesso, sulla necessità della sua conservazione, evitando processi di frazionamento e di vendita ai privati, proponendo una gestione pubblica partecipata. A riscontro del grande interesse che tale iniziativa solleva nella cittadinanza torinese, una raccolta firme per sostenere la tutela e la decartolarizzazione del bene, raccoglie oltre 10.000 adesioni nel giro di pochi giorni. Sono organizzati momenti di dibattito pubblico, mostre d’arte, seminari con docenti del Politecnico e dell’Università, si moltiplicano le prese di posizione di intellettuali di chiara fama. L’impegno della restituzione alla fruizione pubblica del bene diventa programma della campagna elettorale dell’Appendino.

Al momento dell’insediamento della nuova Giunta la disponibilità del bene in capo alla Città, su un totale di circa 43.000 metri quadri di superficie coperta, è limitata al Maneggio alfieriano (circa 1.200 mq) e al Maneggio chiablese, ristrutturato come sala conferenze e assegnato in comodato d’uso all’Università. Il regime proprietario delle altre parti del bene è il seguente: la Corte dell’Accademia, la manica di via Verdi Ovest, il padiglione di scherma (circa 16.000 mq) sono di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare (CDPI); la restante parte del complesso (manica del Mosca, “pagliere”, ex Zecca, salone della guardie, circa 25.000 mq) è inserita nel fondo di Cartolarizzazione Città di Torino (CCT).

A fronte del pesante disallineamento del bilancio lasciato dalla precedente amministrazione, la Giunta non è in grado di stanziare le risorse necessarie alla decartolarizzazione del bene (circa 9 milioni per la riacquisizione e altri circa 50 per i lavori di restauro e messa in sicurezza), tuttavia ha promosso un processo partecipato per decidere il futuro del complesso come risorsa pubblica. Nel febbraio 2017 la Città convoca un’assemblea aperta a tutti i cittadini con circa 150 partecipanti e più di 40 interventi. A seguire sono istituiti una serie di tavoli di lavoro che coinvolgono a più riprese i principali soggetti portatori di interesse (Teatro Stabile di Torino, Musei Reali, Archivio Storico, CDPI, Soprintendenza, Ente Regionale per il Diritto allo Studio Universitario del Piemonte, EDISU, Università degli Studi, Politecnico, CCT, Accademia delle Belle Arti, Museo del Cinema di Torino, Circoscrizione 1, Italia Nostra, ProNatura, Assemblea Cavallerizza 14:45). Nel corso di questi incontri si delinea via via un progetto di massima della destinazione dell’intero complesso, che prevede la creazione di un centro culturale di ricerca, sperimentazione, espressione delle arti performative, con prevalente destinazione ai giovani. Il progetto deve prevedere la permeabilità dell’intero complesso al tessuto circostante, anche in relazione ai contigui Giardini reali alti, l’accessibilità pubblica dei piani terreni e delle corti, attività ricettive e terziarie.

Nel contempo, l’Amministrazione provvede ad una serie di piccoli, ma significativi interventi di manutenzione e di progressiva messa in sicurezza del bene, dalla sistemazione dei pluviali, alla verifica degli intonaci e alla rimozione di elementi potenzialmente pericolosi sulle facciate dei cortili, aperti al pubblico. In accordo con

i Musei Reali, e attraverso l’utilizzo di fondi ministeriali, si avviano i lavori di restauro e di rifunzionalizzazione di importanti parti afferenti al bene, ossia i Giardini reali alti, il bastione fortificato (circa 1,3 km di lunghezza) ed i due corpi di guardia (i cosiddetti garittoni) che ne caratterizzano la struttura. Per definire le funzioni da inserire nei garittoni sono in corso interlocuzioni con la Soprintendenza, i Musei Reali e i cittadini che attualmente presidiano il bene, al fine di individuare una fruibilità pubblica utile alla gestione complessiva dell’area. Attività, queste, che sono state oggetto di una relazione inviata alla rappresentante in Italia dell’Unesco, nonché illustrate e dibattute nelle Commissioni del Consiglio Comunale e della Circoscrizione.

La Città sta anche concordando con CDPI un progetto, per la parte di sua proprietà, integrato con il disegno complessivo che si sta consolidando, per un ostello della gioventù, che potrebbe costituire un importante attrattore di giovani nell’area, con collocazioni di attività pubbliche ai piani terreni, e la cessione alla Città della manica di collegamento nella prospettiva di realizzare uno spazio mostre e un accesso ai Giardini reali, di concerto con i Musei Reali.

Per il Maneggio alfieriano, unica parte effettivamente nella disponibilità della Città, è in corso di elaborazione un progetto di destinazione e gestione per le arti performative, prodotto in modo partecipato da Assemblea 14:45 e dai cittadini che vorranno mettere a disposizione competenze e proposte, come da mozione d’indirizzo votata in Consiglio Comunale (25 settembre 2017), in attuazione delle norme sui “Beni Comuni”. Si tratta di un tentativo, sicuramente ambizioso e innovativo, di elaborare un progetto di riqualificazione e gestione orientato con forza nella direzione del coinvolgimento della cittadinanza attiva, come descritto nella mozione e come ampiamente dibattuto in sede giuridica da più di un decennio in Italia e in altre nazioni.

Per le altre parti del complesso le possibilità del riuso discendono da alcune prime indicazioni di massima elaborate da parte della Città. Per le “pagliere” è ipotizzata una funzione prevalentemente ricettiva e terziaria, destinata a residenze d’artista e laboratori. Per la “zecca”, attualmente nella disponibilità delle Forze di polizia, è allo studio una destinazione a residenza universitaria, in dialogo con l’EDISU che utilizza gli spazi contigui di via Verdi.

In conclusione l’Amministrazione Appendino sta definendo un percorso partecipato di riqualificazione e di gestione della Cavallerizza, finalizzato alla fruibilità pubblica, in grado di farne un luogo culturalmente vivo, aperto alla sperimentazione, ai giovani, a tutti i cittadini. Si tratta di una visione di insieme nella quale trovano collocazione una serie di progetti coordinati che avranno tempi di realizzazione diversi, in relazione agli approfondimenti necessari ed alle risorse disponibili. Il futuro di Cavallerizza si inscrive dunque in un percorso non facile e neppure rapido, ma che è già in corso e che l’Amministrazione ha intrapreso con la collaborazione e l’aiuto delle forze e dei saperi provenienti dai cittadini, nella convinzione di poter smentire il paradigma della privatizzazione come unica soluzione alle difficoltà di gestione pubblica del patrimonio.

lacittàinvisibile, 4 ottobre 2017 «La proposta è di una nuova concezione territoriale: la città/paesaggio, che potrebbe trovare in Firenze e nella Piana fiorentina un occasione reale di sperimentazione». (c.m.c.)

La lista di cittadinanza perUnaltracittà ha sviluppato un’organica attività di opposizione politica, operativa e teorica, e contemporaneamente ha attivato un processo complementare di riflessione, ricerca, proposta e sperimentazione, sui temi dell’urbanistica fiorentina, con la prospettiva di pervenire alla costruzione collettiva di un’urbanistica alternativa di immediata operabilità.

Presentiamo qui alcune ipotesi di lunga durata che abbiamo elaborato collettivamente nella fase di contrasto al Piano strutturale e poi al Regolamento urbanistico, per dire sì a una nuova visione della città di Firenze e alla nuova Città metropolitana.

Infatti, nonostante la devastante politica territoriale dello Stato e della Città metropolitana stia consumando giorno per giorno tutti i margini di libertà ambientale e democratica, l’ipotesi “altra” rimane valida, proprio nella stretta finale del destino di questa bellissima, sfortunata e pur inerte città.

Crediamo infatti che sia ancora necessario costruire una speranza concreta e praticabile di una città “altra”, e di aprire un processo di rianimazione e rivitalizzazione dei luoghi, verso ambienti di vita significativi[1].
La proposta che avanziamo è allora quella di una nuova concezione territoriale: la città/paesaggio, che potrebbe trovare in Firenze e nella Piana fiorentina un occasione reale di sperimentazione, con un modello utile anche per molti altri luoghi d’Italia. Infatti, le grandi potenzialità sopite di Firenze possono riemergere rapidamente ancora una volta, solo che se ne abbia la volontà e che si metta la città in grado di essere di nuovo se stessa.

La città/paesaggio, che vogliamo quindi assumere come nuovo modello di luogo vivente, si caratterizza come un contesto territoriale dove le città storiche e l’urbano contemporaneo, i residui assetti paesistici di valore, i luoghi abbandonati e le ruralità sopravvissute, le porzioni di naturalità e le strutture ecologiche dissestate riescono a riorganizzarsi e a produrre un inedito organismo molteplice.

Dunque una struttura composta di due entità – la città e l’ambiente/paesaggio – che convivono intrecciate e interattive tramite nuove relazioni inedite, coinvolgendo fiumi rigenerati e campagne produttive, città di pregio e brani dell’urbano contemporaneo, boschi, colline ed aree industriali attive, fino a formare il nuovo organico eco/sistema, il contesto urbano territoriale[2].

La città/paesaggio di Firenze riscopre l’Arno e i suoi affluenti, le colline, il verde storico, il verde residuale e quello rurale, gli spazi per un riuso ecologico della città, fino a ricostruire un organismo complessivo, vivente e abitabile, proprio col recupero di quegli spazi che si intendeva saturare, a cominciare dalle aree industriali dismesse, fino ai preziosi tasselli non edificati ancora presenti in varie parti della città, e che i Piani in atto intendono invece saturare… a dispetto dei proclamati “volumi zero”!

Questo programma richiede, come condizione indispensabile, la collaborazione e il coinvolgimento attivo e creativo della popolazione – la “partecipazione” –, sia nella fase propositiva che nella verifica delle scelte compiute.

La città/paesaggio dunque non è solo un “disegno” o uno “scenario”, ma un processo che si deve attivare sia a livello del pensiero e della ricerca quanto dell’azione, che potrebbe fare di Firenze, sulla scia dei felici esempi recenti di Berlino e di Stoccolma, una delle città/ambiente più avanzate d’Europa.

Allo scopo si propone di favorire la riappropriazione della città da parte dei suoi abitanti promuovendo nelle aree dismesse alcuni Laboratori di sperimentazione urbana in cui attrezzare spazi di relazione che potrebbero concretamente evolversi nel contesto urbano formando una costellazione di Oasi interconnesse tramite una rete di percorsi sia informatici che materiali, urbani e di sistema[3]. La città/paesaggio è così anche una nuova concezione del vivere urbano.

Una proposta per Firenze

Firenze è una città stressata, che per molti aspetti è andata ben oltre le soglie della sostenibilità.

Vari tipi di inquinamento, consumo di suolo, pessima vivibilità urbana, alterazione del centro storico, uso distorto del patrimonio e abuso urbanistico, sono tutti fenomeni inseriti in un modello economico comandato e subalterno alla città/immagine della merce turismo banale, oggi ulteriormente aggravato da una mobilità stressante e minacciato da progetti di grandi opere devastanti (tramvie sbagliate, tunnel Av, nuovo aeroporto).

Dalla nostra lunga attività di vertenza e di proposta svolta con i comitati, sulla base del contrasto e della controproposta per una diversa Alta Velocità e ancora, sulla base delle esperienze democratiche per pervenire ad “un’altra città” (Firenze Novella[4]) emerge la possibilità di aprire un processo urbanistico partecipato per fare di Firenze una città ecologica e sostenibile di livello europeo.

Questa operazione passa per tre indirizzi, da attivare contemporaneamente:

– la denuncia ed il contrasto rispetto ad ogni azione distruttiva e di aggravamento del già alterato sistema della città;

– la costruzione di un obiettivo alto per questa città di interesse mondiale: il lancio, appunto, dell’idea di una città/paesaggio, un nuovo luogo per un ambiente di vita, sia urbano che naturale, integrati tra loro e innovativi, verso un’ecologia della mente e della natura. Per attivare questa ipotesi si è incominciato con il riferirsi alle risorse storico naturali di questa città/territorio, per ricostruire la base, il “campo” sul quale ricomporre strutture e relazioni, sia umane che ambientali, vitali (la biocittà metropolitana, verso la bioregione);

– la promozione di “fuochi” ambientali/sociali/urbani per attivare le trasformazioni, radicate sul territorio, per andare a formare quelle che abbiamo chiamate le Oasi per la rinascita del tessuto sociale urbano ambientale della Città[5]. Questi sono dunque non delle categorie urbanistiche astratte tradizionali, bensì gli elementi teorici e concreti, dai quali partire per attivare il processo di rinnovamento della città che potrà svilupparsi, in divenire, secondo questi stessi indirizzi. Quella che presentiamo è un’idea di città di livello europeo, scaturita anche da tante vertenze e da tanta “progettualità dal basso”, che potrebbe essere attivata subito, partecipativamente e sperimentalmente in molte sue parti, in particolare quelle di interesse collettivo. In tal modo le grandi potenzialità di Firenze potrebbero riemergere rapidamente.

Questo progetto di città dovrà essere sperimentale, ma non improvvisato o estemporaneo, e dovrà pertanto fare riferimento ad alcuni criteri.

Questa idea si articola, oltre che su questa impostazione generale, anche su alcune altre scelte:

– l’ipotesi di una mobilità pubblica su ferro e comunque leggera, realizzabile usufruendo della infrastruttura ferroviaria esistente come di una preziosa preesistenza a rete e ad anello, è senz’altro di grande interesse infrastrutturale (metrotreno, verde di relazione etc.);

– la riscoperta del centro storico come “grembo” della rinascita della città è un passaggio obbligato ed urgente, cosi come il suo ripopolamento umano stabile;

– la formazione di “oasi” di riqualificazione partecipata e vivente in ogni quartiere, come motori di promozione del risanamento e della riqualificazione dei quartieri e delle comunità locali è l’ulteriore passaggio, di un processo che arrivi fino alla ricomposizione di quadro organico delle periferie fiorentine.

Per rendere concrete queste scelte il processo urbanistico partecipato può divenire il quadro di garanzia urbanistica delle trasformazioni della città. Sulla base delle strutture territoriali e delle scelte di indirizzo in quanto all’uso delle risorse, umane, ambientali, socio-produttive, si può pervenire alla riorganizzazione di un ambiente di vita dinamico e stimolante, verso un’economia del bene comune.

Ma come abbiamo detto, la condizione di Firenze, oggi per legge “Città metropolitana” (per quello che la confusa legislazione postprovinciale può significare) è una condizione opposta rispetto alla speranza “altra” che abbiamo fin qui delineato.

Sembra quasi che, con un notevole grado di perversione, si sia perseguito il completo ribaltamento di ogni nostra ipotesi relativa alla dimensione fisico-ambientale o a quella urbana, all’uso del suolo o all’uso sociale partecipato della città.

Così, per esempio, l’esito annunciato della costruzione dell’aeroporto est-ovest, se letto in maniera territoriale sistemica, porta ad una visione “mostruosa” che vede il cemento e l’asfalto metropolitano coprire senza interruzioni tutto il fondo valle dell’Arno da Rovezzano fino al centro commerciale I Gigli, dalle pendici di Monte Morello a quelle delle colline di Scandicci.

In questo quadro il nodo Novoli-aeroporto diviene il baricentro e il cuore della Città metropolitana cementata, mentre il centro storico rimane un’appendice mummificata, e allo stesso tempo il motore decentrato della produzione di una ricchezza falsificata, gestita dalle catene dei grandi alberghi a sei stelle, e dai musei mercantilizzati, in un abisso di svendita e di povertà culturale ed economica per gli abitanti e per i cittadini in genere, davvero umiliante.

Ma tutto questo meriterebbe un’analisi più approfondita da sviluppare in un’altra occasione[6]. In questa sede possiamo intanto riprendere le elaborazioni alternative del nostro gruppo per verificarne ancora una volta la puntualità dell’analisi ma in particolare anche le prospettive di lungo respiro, con l’ipotesi “altra” della città/paesaggio che ci dà la forza di sperare ancora.

Ma quali sono i margini per intervenire? Se si facessero delle valutazioni quantitative, specialmente in termini di risorse ambientali e urbane, dovremmo forse onestamente dire che non ci sono margini per uscire da questa situazione. Ma se invece ribaltiamo il ragionamento e partiamo dalla prospettiva che vorremmo costruire, la risposta forse potrebbe essere ancora aperta.

Ponendo la questione non più in termini di costruzione astratta predefinita ma, coerentemente con le valutazioni iniziali, tentiamo invece di mettere a punto quella che con una metafora potremmo chiamare la barca per navigare nel dopo-crisi fino ad arrivare a fondare la nuova città, potremmo scoprire che molte attrezzature sono già disponibili, che molte terre sono già state avvistate, che anche noi localmente abbiamo materiali da utilizzare sperimentalmente per le nostre costruzioni, e che abbiamo già molti possibili compagni di viaggio che non vogliono essere solo passeggeri, ma sono disposti a collaborare e a creare liberamente insieme a noi.

In particolare penso che, fuor di metafora, per la costruzione di un’economia e di una città del dopo-crisi possiamo contare sui seguenti ordini di attrezzature, mentali e materiali.

Quanto agli ambienti di vita:

– le risorse come beni comuni, il loro recupero personale e sociale, nel campo delle energie, del risparmio energetico, nell’uso delle acque, del suolo e dell’ambiente;

– la questione alimentare e la riscoperta dell’agricoltura urbana, la ruralità come struttura di relazioni umane;

– i diversi possibili modi di abitare, l’edilizia sostenibile. Le attività lavorative legate alla manutenzione/trasformazione sostenibili della città e del territorio. Con questi materiali, attraverso un loro uso integrato e in particolare attraverso un costante esercizio di partecipazione attiva e costruttiva, sarà possibile far rinascere significativi ambienti di vita, personali e di comunità.

Quanto alla fioritura delle relazioni e di un nuovo Genius Loci:

– la riscoperta condivisa e sperimentale del senso dei luoghi non tanto come identità ma come differenze relazionali persona-società-ambiente. La riscoperta del valore – oggi vilipeso – della città di Firenze e la sperimentazione di tutte le forme contemporanee di intercomunicazione e di espressività;

– la garanzia di tutte le forme di relazione, comprese quelle di una mobilità complessa ma sostenibile. Ma ancor più nel senso più ampio dell’evoluzione della mobilità leggera, quale struttura dinamica di supporto alla città/paesaggio;

– l’integrazione continua con il flusso di persone provenienti da tutto il mondo come straordinaria occasione di “interfaccia reale”, verso un nuovo turismo, quello dell’intercomunicazione, ma anche dell’accoglienza della complessità che proviene da ogni parte del mondo, in particolare dalle popolazioni più diseredate e derubate. Costruzione di reti internazionali, per confrontare esperienze, per far circolare risultati scientifici e sperimentali università/città, per verificare e crescere insieme. E Firenze in tal senso potrebbe essere città relazionale per vocazione!

Le precedenti strumentazioni necessitano di un contesto al quale riferirsi, un contesto a un tempo ambientale e urbano. In diverse parti d’Europa si stanno profilando modelli integrati di questi due aspetti, ritenuti invece spesso contrapposti. Una tale modalità richiede peraltro una riconsiderazione tanto della città (vivente) quanto del suo stesso contesto ambientale di vita. In tal senso, un riferimento potrebbe essere la Convenzione europea del paesaggio che, nella sua versione originaria, propone una visione del paesaggio come ambiente di vita delle popolazioni e quindi come fenomeno sociale direttamente collegato alla percezione e alle scelte di tutte le popolazioni interessate, in una visione dinamica, ecologica, evolutiva.

Ecco che allora la prospettiva della città/paesaggio può divenire di grande aiuto nella nostra attività, anche nel senso di orientare la nostra navigazione.

Infine, comunità urbana e vita corale

Riteniamo di grande utilità riorganizzare, in senso sociale e strutturale, gli ambiti urbani con nuove forme aggregative, da un lato per poter contare su un tessuto organico commisurato e relazionalmente coeso, dall’altro perché le Comunità urbane non sono solo spaziali ma anche temporali-informatiche, o comunque tematiche, variabili nel tempo e nello spazio, ma sempre interrelate.

Quanto finora proposto non avrà senso se non sarà condotto, insieme alla cittadinanza disponibile, oltrepassando le idee correnti di “partecipazione”(termine ormai consunto, come quello di “sostenibilità”, benché i concetti originari rimangano validi) e andando invece verso modalità e stili di vita e di comportamento reciproco che vorremmo definire come corali.

Buona musica allora, che seguirà l’improvvisazione di jam sessions partecipate e, perché no, dissonanti!

*Giorgio Pizziolo

[Il testo è apparso nel libro Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltracittà 2004-2014, a cura di Ilaria Agostini, Aión, Firenze, 2016, pp. 135-143; del libro, abbiamo già pubblicato i capitoli: Un’altra idea di città, della curatrice; Firenze 2004-2014. Un caso nazionale, di Paolo Berdini; Dal Palazzo al città, e ritorno, di Ornella de Zordo; L’urbanistica in consiglio comunale, di Maurizio Da Re; Comunicare il pensiero critico, di Cristiano Lucchi; Piani neoliberisti, di Ilaria Agostini; La città in svendita, di Maurizio de Zordo; La città storica, di Daniele Vannetiello; Il sottoattraversamento TAV nel modello insostenibile di mobilità fiorentina, di Alberto Ziparo; Castello e la piana, di Antonio Fiorentino; Il comitato No Tunnel TAV, di Tiziano Cardosi; La forma e il progetto della città, di Roberto Budini Gattai]

Note al testo

[1] Sull’opera nazionale di «risanamento territoriale» a scala nazionale, si veda Gruppo Urbanistica Puc-Lista di cittadinanza Firenze, Come salvare la grande opera Italia, “il manifesto”, 16 gennaio 2012 (l’articolo collettivo portava in calce le firme di Giorgio Pizziolo, Ilaria Agostini, Daniele Vannetiello, Antonio Fiorentino, Maurizio De Zordo, Tiziano Cardosi, Alma Raffi, Franca Gianoni, Francesco D’Angelo, Rita Micarelli, Giandomenico Savi).

[2] Cfr. anche Giorgio Pizziolo, La biocittà e la comunità urbana, “Quaderni di inchiesta urbana”, Unaltracittà/Unaltromondo, Firenze, 2009.

[3] Cfr. Giorgio Pizziolo, La città/paesaggio. Temi e proposte per Firenze, in Gruppo urbanistica Puc, Per una Carta Costituzionale del territorio fiorentino. Manuale d’uso per un Piano Strutturale partecipato, trasparente e a consumo di suolo zero, Firenze, 2010, pp. 11-14.

[4] Sul progetto di riuso del complesso del Romito per la nuova stazione Av di superficie – detto appunto Firenze Novella – si veda: Roberto Budini Gattai, Antonio Fiorentino, Giorgio Pizziolo, Firenze Novella, in Alberto Ziparo, Maurizio De Zordo, Giorgio Pizziolo (a cura di), Tav sotto Firenze. Impatti, problemi, disastri, affari e l’alternativa possibile, Alinea, Firenze, 2011.

[5] Cfr. Pizziolo, La città/paesaggio. Temi e proposte per Firenze cit., p. 11.

[6] Cfr. Giorgio Pizziolo, Aeroporto e inceneritore: quali conseguenze per il «sistema» della Piana?, “La Città invisibile”, n. 29, 4 novembre 2015.

il manifesto, 5 ottobre 2017. «Napoli. Il progetto di una piattaforma per collegare le lotte per la rigenerazione urbana, il lavoro, il diritto all’abitare, i servizi essenziali».(c.m.c.)

‘Napoli direzione opposta’ non è un partito e neppure un cartello di sigle ma è l’evoluzione di un percorso politico che è cominciato da collettività che hanno riaperto spazi abbandonati della città, che hanno quindi provato a tessere un programma dal basso utilizzando la piattaforma Massa critica e poi hanno sperimentato, attraverso Mutuo soccorso Napoli, una rete che mettesse in comune sportelli sociali, presidi medici solidali, lotte per il lavoro e l’abitare, contrasto alla povertà e sostegno ai migranti.

Il passo successivo è Ndo: a lanciare l’iniziativa sono il Comitato Soccavo, il collettivo Bancarotta 2.0 che anima il Lido Pola, Villa Medusa e il Laboratorio Politico Iskra di Bagnoli, Scacco Matto e Zero81 al centro storico, la proposta è formare un blocco sociale con una piattaforma politica. Il 2 dicembre si terrà un’assemblea per tirare le somme e valutare quanti, nell’area metropolitana e regionale, avranno aderito.

«Vogliamo sviluppare una piattaforma per collegare pratiche e lotte in una confederazione – spiega Michela Antonucci -. Il punto di partenza sono i territori, il lavoro con chi sui territori vive, i bisogni che vengono cancellati attraverso meccanismi come i vincoli di bilancio e il taglio delle risorse ai comuni. Basta utilizzare una di queste leve per cancellare il trasporto pubblico, tagliare gli ospedali o allontanare i ragazzi dalle scuole. Ma non ci sono solo i tagli, ci sono anche le politiche attive che spesso hanno avuto effetti distorsivi: a Bagnoli il governo ha provato a imporre un piano che metteva i suoli e il piano di rigenerazione in mano ai privati e solo la lotta dal basso ha bloccato il progetto; il turismo, incentivato dagli enti pubblici, da un lato riempie le tasche dei commercianti ma dall’altro innesca un meccanismo di gentrificazione che espelle gli abitanti storici, relegandoli nelle periferie».

Si tratta di costruire un percorso comune, articolato con chi abita la città, intorno a quattro punti: la rigenerazione urbana; il lavoro che significa anche contrasto alla povertà, al precariato diffuso e l’utilizzo delle risorse pubbliche in modo trasparente; diritto all’abitare (a Napoli nel 2016 il 90% degli sfratti sono stati per morosità incolpevole); i servizi essenziali. Un percorso che si rivolge a tutti gli attori, inclusi quelli istituzionali, perché «vogliamo che sia un percorso del tutto trasparente – spiega Eduardo Sorge -. Non ci interessano cartelli elettorali, ma sviluppare un programma per spostare l’orizzonte delle politiche nella direzione opposta a quella degli ultimi anni. Sta alle istituzioni decidere quale posizione prendere rispetto alle richieste delle comunità che amministrano, comunità che non vogliono più subire decisioni calate dall’alto».

A Napoli il comune con una delibera ha affidato sette spazi alle comunità che quegli spazi animano, la Corte dei conti ha aperto un’inchiesta perché i beni non sono stati messi a profitto, si tratta allora di stabilire dove sta l’interesse comune: nell’utilizzo collettivo oppure nella vendita o affitto al privato per un ricavo spesso inferiore al valore del bene.

Prima dell’assemblea del 2 dicembre ci saranno una serie di appuntamenti. Sabato e domenica prossimi si terrà a Napoli la prima Conferenza delle giuriste e dei giuristi del Mediterraneo, si ragionerà del loro ruolo nell’area del Mediterraneo, di «autodeterminazione, stato di diritto, tutela dei diritti umani e democrazia». Quindi il 19 e 20 ottobre si terrà ad Ischia il G7 dei ministri dell’Interno e, in contemporanea, ci sarà la mobilitazione «Stop G7 tutti a Ischia» contro, in particolare, le politiche del ministro Marco Minniti. Infine, dal 17 al 19 novembre ci sarà a Napoli Commons and cities: tre giorni dedicati a beni comuni, diritti e dignità aperti alle realtà internazionali.

arcipelagomilano, 4 ottobre 2017 «Tra negazionisti - Maroni e l'ex prefetto Lombardi - e i distratti». ( m.c.g.)

Chissà se questa volta si incrinerà qualcosa nella granitica certezza di chi fa economia a Milano e dintorni, o nella favolosa Brianza che allunga a nord. Dopo che a Seregno un intero sistema di potere è franato sotto l’accusa di mafia, con un sindaco descritto dai magistrati come “lo zerbino” ideale per i voleri della ’ndrangheta. Dopo che il consiglio comunale è stato costretto ad autosciogliersi per evitare l’ignominia del commissariamento per mafia a opera del governo. Oppure dopo che a Cantù è emersa una mafia tutt’altro che silente, ma capace di pestare e minacciare i negozianti sulla pubblica piazza.

Chissà se si farà largo il dubbio che questa continua rimozione, questa idea pervicace che “altre” siano le cose con cui deve confrontarsi la modernità, possa alla fine consegnare paesi e cittadine, e alla fine pezzi della regione Lombardia, alla egemonia (culturale anzitutto) dei clan calabresi.

Già, l’omertà. Ho raccontato nei giorni scorsi la paradigmatica storia della tesi di laurea di un mio studente, Simone. Titolo: La penetrazione della ’ndrangheta in Lombardia: il caso di Seregno. Anno accademico 2011/12. Cinque/sei anni fa un ragazzo di ventitré anni vedeva dunque quel che imprenditori e amministratori non vedevano, fino al punto di volerci fare la propria tesi di laurea. E di scrivere che “solo l’omertà” spiegava perché a Seregno non vi fosse un’idea “nemmeno approssimativa” del peso che la mano mafiosa stava esercitando sulla vita cittadina.

Omertà e rimozione si spalleggiano, procedono insieme, si danno la mano e infine si fondono in un unico grande silenzio fatto di parole trite. Lo dicono le interviste televisive condotte sul posto. Si tratti di Lonate Pozzolo, di Desio, di Seregno, di Pavia, di Corsico, di Sedriano, di Brescello, la Lombardia e l’Emilia non si riconoscono più. Sembra che si siano affidate a un ventriloquo, sempre lo stesso, impegnato a parlare per loro. Perché chi dovrebbe parlare non lo fa, si ripara nei ridotti della coscienza e dell’intelligenza. Illuso che la partita della modernità si giochi in altre, più eteree ed eleganti sfere. Che vi sia sempre un altrove in grado di nobilitare la resa.

Il bello è che basterebbe chiedere e sapersi battere per alcune cose molto pratiche per restringere l’acqua della palude. La prima è quella che la Commissione parlamentare antimafia sta proponendo da un paio d’anni. Introdurre cioè, oltre allo scioglimento dei consigli comunali, una misura meno traumatica ma forse perfino più efficace: quella dell’appaiamento al sindaco ritenuto pauroso o compiacente di un funzionario prefettizio che aiuti a vigilare sul rispetto della regolarità della vita amministrativa.

Una seconda è quella di associare alla firma del questore anche la firma del sindaco per autorizzare l’apertura di nuove sale giochi (singolarmente sono infatti in genere le questure a mostrare più generosità). Una terza è quella di intervenire sul codice degli appalti, in certi punti trasformato in colabrodo per gli interessi mafiosi. Una quarta, almeno in Lombardia, è quella di chiudere i varchi sistematici aperti nella sanità, rivedendo il sistema delle convenzioni. Una quinta è la penalizzazione della querela (ma anche della causa civile) temeraria, passaggio obbligato per restituire libertà di parola in una società omertosa.

Si sa insomma che cosa fare. Ma ogni passaggio appare un’impresa impossibile. Meglio: resa impossibile dal sonno della ragione. Si svegli quindi l’economia, si svegli la politica. O corruzione e mafia sommergeranno una grande storia civile, con le sue glorie culturali e scientifiche. Mentre tutt’intorno divamperanno i fuochi. Quelli della provincia di Pavia, o di Bruzzano, o di Cinisello Balsamo. I fuochi, segno della “loro” arroganza. E segno della nostra insipienza.

il manifesto, 30 settembre 2017 «Torino è il simbolo materiale di una sconfitta del lavoro che viene da lontano». (c.m.c.)

C’è una buona dose d’ironia, o di faccia tosta, nella scelta dei cosiddetti potenti della terra di tenere a Torino il loro «G7 del lavoro». Un appuntamento, potremmo dire, nel centro del cratere. Nella città che fu, un tempo, un punto alto, e densissimo, nella vicenda novecentesca del lavoro: capitale industriale e capitale operaia.

Dove produzione di massa e conflitto di massa s’intrecciarono e alimentarono a vicenda, e che oggi porta tutti i segni della spoliazione, dello svuotamento di potere e di vita, nelle sue statistiche negative, di company town dismessa, nei vuoti industriali che disseminano le sue periferie, nella rarefazione delle aree ristrutturate povere di storia e di socialità.

Non vedranno tutto questo i «Grandi» (o i loro vice in visita aziendale): siederanno nelle splendide sale della dimora sabauda di Venaria Reale, il luogo del loisir dei Grandi di ieri, della caccia e del corteggiamento ruffiano, simbolo di ogni Ancien Régime eternamente ritornante.

Parleranno di Scienza, certo. Anche d’Industria (meglio: di affari). Visiteranno qualche punto d’eccellenza nella frazione di città-vetrina che gli sarà offerta, ma se avessero il coraggio di sconfinare dagli itinerari ufficiali, e gettare l’occhio sul paesaggio urbano «vero», anche solo sull’ex quartiere-dormitorio delle Vallette, a pochi passi dalla Reggia di Venaria, o sul fantasma di quella che fu la Grandi Motori, nel cuore della Barriera di Milano, oggi terra di nessuno, potrebbero specchiarsi direttamente nel vuoto che essi stessi, con le loro politiche dissennate, i loro dogmi fallimentari, i loro luoghi comuni frusti hanno prodotto nel corpo un tempo coeso del lavoro.

Torino è il simbolo materiale di una sconfitta del lavoro che viene da lontano. Una sconfitta storica, visibile nei suoi numeri. Qui, ancora alla fine degli anni ’70, lavoravano 250.000 operai manifatturieri, in prevalenza metalmeccanici, con salari non opulenti ma decorosi, con solidi contratti di lavoro collettivo, nella stragrande maggioranza a tempo indeterminato, oppressi, certo, da un potere padronale avaro e duro ma tutelati da una rete di diritti conquistati con lunghe lotte.

Nella sola Fiat erano occupati in 130.000 (tutti dipendenti diretti). Oggi non superano i 10.000, spesso in cassa integrazione. Per gli altri un lavoro sempre meno «regolato», quasi mai contrattualizzato né tutelato da diritti erosi in forza del motto «arrendersi o perire».

Negli ultimi anni le nuove assunzioni a tempo determinato rispetto a quelle a tempo indeterminato sono state nell’ordine delle otto su dieci. Ed è, grosso modo la stessa media registrabile a livello nazionale: nel secondo trimestre del 2017, ci dice l’Istat, «tre quarti delle nuove assunzioni» sono state a termine, dunque in senso proprio precarie.

E l’Europa non è molto differente, neppure la tetragona Germania, dove i minijob sfiorano ormai dimensioni dell’ordine dei milioni (forse cinque, forse sette, a seconda dei criteri di calcolo), e riguardano donne e uomini, giovani in prevalenza ma non solo, che devono vivere con un salario massimo di 450 euro per 15 ore settimanali a un costo orario oscillante tra i 5 e i 7 euro.

Chissà se i ministri del lavoro europeo hanno letto le statistiche del lavoro che Eurostat fornisce: apprenderebbero allora che le persone “in-work” ma “at risk of poverty”, nel loro continente di competenza – donne e uomini che sono a rischio di povertà nonostante abbiano un lavoro full time – si avvicina pericolosamente al 10% della popolazione. Sintomo di un abbassamento brutale del potere contrattuale del lavoro nei confronti di una controparte padronale in pieno delirio di onnipotenza.

E chissà se quegli stessi ministri hanno dato una sbirciata alle statistiche sulla ripartizione del reddito tra salari e profitti (un indicatore che dovrebbe essere propedeutico a qualsiasi discussione sul destino del lavoro): apprenderebbero che in un quarto di secolo o giù di lì, nei paesi Ocse, quella ripartizione si è spostata a favore dei profitti e a danno dei salari di qualcosa come una decina di punti percentuali di Pil (l’equivalente di centinaia di miliardi di dollari all’anno), a significare che la bilancia sociale è precipitata da una sola parte. E ha eroso le basi di qualunque ragionevole patto.

Di questo dovrebbe ragionare un «vertice sul lavoro»: di come riportare in equilibrio quella bilancia. Di come risarcire il lavoro di quanto gli è stato sottratto negli anni del delirio neo-liberista. Senza questa premessa etico-politica nessuna «innovazione» potrà rivelarsi socialmente positiva, anzi, rischierà di peggiorare il «bilancio sociale». Né ci sarà legittimità, quali che siano le conclusioni che usciranno dalla Reggia.

la Repubblica, 29 settembre 2017definiscono patrioti, ma sono soltanto fascisti. Gli stessi che vivevano relegati ai margini della cronaca. Ora hanno fiutato il vento vincente dei populismi e si impossessano del malessere delle nostre periferie».
PERIFERIE da troppo tempo abbandonate a se stesse, dove tutti si sentono traditi dalle istituzioni. Ovunque, ma soprattutto nella Capitale. «In almeno cinque o sei quartieri di Roma, Forza Nuova è egemone. Famiglie e cittadini scendono in piazza ad appoggiare le nostre iniziative, facendo emergere una vera questione sociale», proclama Roberto Fiore, il leader più politico del neofascismo. A guidare ieri la resistenza contro lo sgombero di un alloggio popolare occupato abusivamente e destinato a una coppia italo-etiope c’era un suo vecchio sodale, Giuliano Castellino, più abituato a usare le mani che non le parole: una figura per decenni relegata nelle curve peggiori degli stadi e negli angoli oscuri degli intrecci malavitosi, che adesso si erge a “patriota”. Castellino e i suoi hanno lanciato pietre contro la polizia, ferendo tre agenti, ma sono riusciti nel loro scopo: imporsi come i Robin Hood della maggioranza rabbiosa di queste borgate.

Da mesi la fascia di palazzi desolati che circonda la Capitale si è trasformata nel laboratorio di un populismo apertamente neofascista. Squadracce che si impadroniscono con la violenza della piazza, che sfruttano ogni problema per sbandierare il manifesto della loro ideologia, semplificata in un unico slogan che legittima qualunque abuso: “Prima gli italiani”. Un manifesto di rapida presa in quartieri dominati dalla paura verso lo straniero, dove persino chi saccheggia abitualmente i supermercati — come è accaduto un mese fa al Tiburtino III — si muta in eroe della rivolta contro gli immigrati. Un copione che ormai si ripete dal 2014, dall’assedio nero al centro per profughi minorenni di Tor Sapienza.
Non importa chi abbia torto o ragione, ogni singolo episodio diventa un focolaio di intolleranza. Tre giorni fa l’aggressione di un malese, subito arrestato, contro due fidanzati che si baciavano nei pressi del centro islamico di via San Vito, a pochi metri da Santa Maria Maggiore, ha innescato la mobilitazione di tutte le destre, da Giorgia Meloni a Casa-Pound. Tutte pronte a invocare la chiusura dell’unico luogo di preghiera della comunità del Bangladesh che vive e lavora nella zona di Piazza Vittorio, senza mai avere creato problemi. E lunedì notte c’è stata la guerriglia di Guidonia, con la caccia all’uomo lanciata da cento persone dopo che un rom alla guida di un furgone aveva scatenato il panico facendo gimkane sui marciapiedi. «Noi qui già siamo considerati scarti, se qui ci mandano gli scarti di Roma ( ndr riferito ai nomadi) finisce che tra poveri, lasciati soli, vince er più prepotente. È normale, è la legge della strada», ha dichiarato uno degli “insorti” a Federica Angeli. Può uno Stato arrendersi alla legge della strada?
L’epicentro di questo malessere che issa sul podio i nuovi fascisti è la periferia romana, dove ogni concetto di convivenza si sta sgretolando nel crollo dei servizi elementari, come la pulizia urbana e i trasporti pubblici. Le stesse borgate che quindici mesi fa decisero il trionfo di Virginia Raggi adesso si mostrano deluse dai Cinquestelle, come da tutti gli altri partiti tradizionali. Ma l’abisso sociale in cui sprofondano questi territori è questione antica, che nessuno ha voluto affrontare. A ogni elezione si ripetono promesse che non vengono mantenute, si elaborano piani d’intervento mai attuati, c’è persino una commissione parlamentare d’inchiesta che da oltre un anno accumula audizioni e studi sul tema.
Il tempo per i discorsi è finito, a Roma e in tutta Italia. Non possiamo permetterci di ignorare oltre la situazione di questi quartieri dove l’insicurezza genera intolleranza e amplifica i messaggi del nuovo fascismo: in gioco c’è l’essenza della nostra democrazia, con il rischio di vedere rapidamente crescere il peso elettorale di formazioni contrarie ai valori della Costituzione. Serve fermezza nel reprimere chiunque faccia bandiera della violenza e della xenofobia. Ma servono soprattutto provvedimenti urgenti e concreti per testimoniare la presenza delle istituzioni. Non esistono più un noi e un loro: quello che accade lì, condizionerà anche il futuro politico del Paese.

Nei giorni scorsi due grossi calibri del Pd, il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, e l’ex ministro Walter Veltroni hanno affermato severamente che il loro partito ha “dimenticato l’ecologia”. In realtà il Pd guidato da Matteo Renzi ha dimenticato la tutela dei beni culturali e del paesaggio, la buona urbanistica, l’ambiente (vedi legge sui Parchi) divenendo anzi il nemico dichiarato di una tradizione democratica che riteneva prioritari questi temi e la lotta all’abusivismo. Lo dimostrano la legge Galasso sui piani paesaggistici, la legge Cutrera e altri sulla difesa del suolo, la legge Cederna-Ceruti sui Parchi, il Codice per il Paesaggio Rutelli/Settis del 2007 e altro.

Un vanto della cultura progressista erano certamente i piani paesaggistici che con coraggio la giunta di centrosinistra di Renato Soru aveva varato nel 2004. Operazione esemplare coordinata da Edoardo Salzano, che andava completata con l’interno dell’isola. Il centrodestra ha invano tentato di smontarla, perdendo anche un referendum popolare. Ma la giunta attuale del presidente Francesco Pigliaru ha ripreso l’offensiva con rinnovata forza. Di fronte all’opposizione argomentata di un tecnico di valore, il soprintendente Fausto Martino e a una critica severa di Ilaria Borletti Buitoni sottosegretaria ai Beni culturali, l’intero Pd sardo ha votato in Regione un ordine del giorno di inusitata durezza. “In entrambe le occasioni si è registrata una inopportuna espressione di opinioni lesive delle prerogative costituzionali conferite in capo all’organo legislativo e a quello esecutivo della Regione Sarda”.
Il reato? Per Borletti Buitoni essere “intervenuta nel merito di scelte operate dalla giunta e dal Consiglio regionale nel pieno esercizio delle funzioni attribuite loro dallo Statuto speciale della Sardegna”. Per l’architetto Martino aver “espresso pareri di merito su scelte politiche (…) che esorbitavano la sfera di sua competenza”. Essi “sono andati oltre ogni limite di competenza” con “posizioni censorie sul disegno di legge urbanistica”, ecc. ecc. Il presidente Pigliaru rappresenti dunque a Paolo Gentiloni “lo sdegno per l’inaccettabile atteggiamento assunto dagli uffici regionali del Mibact” con inevitabili conseguenze anche sui finanziamenti per la “protezione del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico dell’isola” (che le nuove norme del Pd in realtà devitalizzano).

Il piano paesaggistico regionale della Sardegna – denuncia il Pd – non procede per l’indisponibilità degli uffici ministeriali a… collaborare. Silenzio sui piani approvati dalla Regione ai tempi di Soru. Il raccolto decennale dei piani paesaggistici è ben magro, appena 3: Toscana, con l’assessore competente, l’urbanista Anna Marson, non riconfermata; Puglia; Piemonte (ne ha discusso il Consiglio in agosto). Molti piani in alto mare. In piena burrasca quello sardo.

Il Codice è la seconda legge nazionale che sollecita le Regioni a fare il loro dovere in materia di paesaggio. Nel 1985, fu approvata, quasi alla unanimità, la legge n.394 detta Galasso. Essa imponeva alle Regioni una dettagliata pianificazione ed era stata preceduta da una serie di decreti, chiamati “galassini”, coi quali si vincolavano territori decisamente preziosi. Marche, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna approvarono i loro piani entro il 1986. Altre in ritardo. Altre ancora mai, le più devastate da speculazione e abusivismo. Campania e Sicilia su tutte. Per la Campania ci fu un tentativo di piano redatto dalle Soprintendenze. Bocciato: lo Stato non può sostituirsi alle Regioni, neppure se inadempienti in modo conclamato. Come la Regione Sicilia – la più “abusata”, non a caso, d’Italia – la quale ha invocato e invoca la sua specialissima autonomia. Anche ora – come ha documentato Silvia Mazza per Emergenza Cultura – con un emendamento-grimaldello l’Assemblea regionale ha votato deroghe ai Piani paesaggistici “per le opere di pubblica utilità” (pubbliche, private, in concessione). Norma “retrospettiva” che salva opere già bocciate come la Catania-Siracusa. Bocciata, beninteso, da Soprintendenze nominate dalla Regione…

E nella Campania Infelix della marea di abusi e della “impermeabilizzazione” con cemento e asfalto di tanti suoli liberi? Per il Piano paesaggistico siamo ancora al lavoro delle commissioni, racconta il rappresentante dei 5 Stelle, Tommaso Malerba. Eppure Napoli è fra i grandi Comuni il più “impermeabilizzato” d’Italia con 64% del territorio, seguito da Milano col 54%. In provincia spicca Casavatore che, con l’89,3% di cemento+asfalto detiene il primato nazionale ed europeo in materia, seguito da vicino da Arzano e da Melito di Napoli. Qualche raro albero e un po’ di fili d’erba. Dove non sono passati gli incendiari. Ma sì, i piani possono attendere.

Corriere della sera online 23 settembre2017. Avevamo sostenuto che il rpesidente Pigliaru ptromuove scempi delle coste della sardegna che neppure il suo redecessore berlusconiano si sarebbe permesso di proporre. Chissè se la denuncia che proviene dalla grande stampa riuscirà a far ritornare Pigliaru sui suoi sciagurati passi?
Di chi è la Sardegna? «Nostra!», risponderanno i sardi. Giusto. Ma è «solo» dei sardi? Peggio ancora dei politici sardi di volta in volta al governo? Dura da sostenere. Eppure sul tema divampa una polemica rovente. Di qua la Regione che nega al soprintendente il diritto di metter becco nelle scelte urbanistiche della giunta, di là il funzionario che sventola l’art. 9 della Costituzione: la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Coste sarde comprese.

La proposta

Al centro di tutto c’è la proposta del governo regionale di Francesco Pigliaru sul futuro del magnifico paesaggio isolano e dei suoi 1.849 chilometri di coste «ingessati», sbuffano i costruttori, gran parte degli operatori turistici, ma soprattutto il Qatar, dai limiti al cemento imposti dal piano paesaggistico di Renato Soru. I qatarioti, dopo aver comprato la Costa Smeralda, la Meridiana, l’immenso ospedale San Raffaele di Olbia in costruzione da millenni e altro ancora, sono impazienti: gli affari? Mario Ferraro, a capo della Smeralda Holding, l’ha detto chiaro e tondo: «Non credo che qui si possa far crescere il turismo senza alcun intervento nella fascia dei 300 metri dal mare». Figuratevi gli ambientalisti.

Scontro frontale. Giura il governatore che no, per carità, ci mancherebbe, «non ci saranno colate di cemento». Vorrebbe solo che «le strutture ricettive già esistenti e mai riqualificate potessero adeguarsi agli standard internazionali, aiutandoci ad allungare una troppo breve stagione turistica». Come potrebbe aprire alla betoniere lui? «Appena insediati annullammo le modifiche al Piano paesaggistico regionale di chi ci ha preceduto e approvammo una legge che revocava la possibilità di lottizzazioni e ampliamenti di seconde case nei 300 metri dal mare», ha scritto al Corriere per rispondere alle critiche di Andrea Carandini. Lui e i suoi cercano solo «un equilibrio tra sviluppo e sostenibilità» per far fronte ai problemi di una regione in sofferenza.

Gli ambientalisti

Problemi veri. Reali. Innegabili. Ma la via d’uscita può essere, contestano gli ambientalisti, la legge che ha in mente di fare la Regione nella scia di quella “apripista” già impugnata dal governo Gentiloni? Stefano Deliperi, il leader del Gruppo d’Intervento Giuridico che da anni con le carte bollate si mette di traverso al cemento, recita poche righe del disegno di legge presto in discussione: «Possono usufruire degli incrementi volumetrici (...) anche le strutture turistico-ricettive che abbiano già usufruito degli incrementi previsti dall’articolo 10 bis della legge regionale 22 dicembre 1989, n. 45» e quelle «che abbiano già usufruito degli incrementi previsti dal capo I e dall’articolo 13, comma 1, lettera e) della legge regionale 23 ottobre 2009».

Risultato? Una struttura in origine di 30 mila metri cubi che era stata già ampliata grazie alla legge regionale del 1989 a 37.500 (+ 25%) potrebbe ora salire, grazie a un nuovo allargamento del 25% fino a 46.875. Per non dire delle deroghe alla norma ribadita dal Consiglio di Stato quattro anni fa sulla «inedificabilità dei territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia». O della «trasformazione delle residenze per le vacanze e il tempo libero, esistenti o da realizzare, in strutture ricettive alberghiere». Fermi tutti: che vuol dire «esistenti o da realizzare»? Una deroga proiettata nel futuro?

Sulle dune

cantiere sulle dune a Baia Badesi

Difficile non essere diffidenti. Tanto più in una regione dove, a dispetto delle regole (evidentemente non troppo rigide) si è insistito a costruire perfino sulle dune (le dune!) come a Badesi, dove una sfrontata pubblicità offriva «una casa davvero sulla spiaggia!» con villini a 116mila euro. Più a buon mercato, va detto, che a Djerba o ad Hammamet...
Fatto sta che, davanti alla scelta del governo di impugnare venti giorni fa la legge omnibus «di manutenzione» che avrebbe dovuto spalancar la strada alla nuova legge urbanistica, a molti democratici sono saltati i nervi. Al punto di presentare una mozione contro Ilaria Borletti Buitoni e, come dicevamo, contro il soprintendente per la Sardegna centromeridionale Fausto Martino chiedendo che il governatore rappresentasse a Roma «lo sdegno per l’inaccettabile atteggiamento» dei due verso «le prerogative della Regione autonoma».

L'autogol

Un autogol. Perché certo, la sottosegretaria ai Beni Culturali, «rea» d’avere accomunato i progetti urbanistici della giunta attuale a quelli della destra e difesa dopo le accuse da una corale alzata di scudi, potrebbe anche mettere in conto, nel suo ruolo, qualche (insensata) scazzottata politica. Ma il soprintendente? Che c’entra il soprintendente che già si era segnalato per aver fermato l’abbattimento (per fare pellets!) dell’inestimabile foresta di Marganai ed essersi opposto al raddoppio dello spropositato deposito di fanghi rossi a Portovesme del quale fu accanito nemico (prima di essere eletto) anche l’attuale governatore? Doveva rendere ossequio all’autonomia regionale? Risponde l’art. 98 della Costituzione: «I pubblici impiegati sono a servizio esclusivo della Nazione».
Non per altro sono saltati su il Fai con Andrea Carandini («L’attacco di una parte del Pd avvilisce qualunque cittadino italiano: non sono questi temi che possono esser di esclusiva competenza delle regioni») e la fondatrice Giulia Maria Crespi («Sono interdetta») e il presidente di Italia Nostra Oreste Rutigliano e un po’ tutte le associazioni ambientaliste. E uno dei padri della «legge Soru», Gianvalerio Sanna: « Lo sconcerto e la rabbia davanti alla folle decisione del Governo regionale sardo di portare comunque avanti una legge urbanistica insensata...».

Il Soprintendente
Torna in mente Indro Montanelli, che a differenza di Matteo Renzi («Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia») non disprezzava affatto quei funzionari. Anzi. Li vedeva, nel ‘66, come «pochi eroi sopraffatti dal lavoro e senza mezzi per svolgerlo. Un Soprintendente è tenuto a compiere sopralluoghi, controllare perizie, dirigere i lavori, pubblicare studi, redigere piani paesistici, ma soprattutto a resistere ai privati che vorrebbero distruggere tutto per rifarlo in vetrocemento, quasi sempre con l’assenso e l’appoggio delle autorità».

Non vale, ovvio, per tutte le autorità e men che meno tutti i soprintendenti. In Calabria, per dire, ce n’è uno come Mario Pagano che aveva fatto passare tutto, dal raddoppio dello stadio in area archeologica alle demolizioni nel cuore di Cosenza Vecchia o l’assalto a Punta Scifo, devastata dal cemento, finché non è intervenuta finalmente la magistratura. Che ha bloccato il cantiere e chiesto anche il suo rinvio a giudizio. Di lui, i cementieri, non si sono lagnati mai. Anzi, visto che nessuno lo ha ancora rimosso, ha lanciato lui una fatwa per non far più lavorare l’archeologa Margherita Corrado che ha salvato Capo Colonna e Punta Scifo. Il Tar, ai padroni di quel cantiere indecente, ha dato torto anche ieri... Ma che gli importa?

La città invisibile, 13 settembre 2017. «Nardella tenta di riscattarsi dopo il putiferio estivo seguìto all’abbattimento di centinaia di alberi in città”: di male in peggio». (m.c.g.)

Nardella tenta di riscattarsi dopo il putiferio estivo seguìto all’abbattimento di centinaia di alberi in città. Ammaliato dal messaggio green di Stefano Boeri, autore del grattacielo “verde” a Milano, il sindaco ha bandito un concorso per decorare con vegetazione arbustiva e magari con alberi i dispositivi di protezione antiterroristica del centro fiorentino. La “Chiamata alle arti” (ahi, così si intitola il bando) contribuirà a definire un arredo urbano di tutto decoro, e pure un po’ ecologico, che risolverebbe l’urgente questione di sicurezza globale. Put flowers in your gun è il messaggio di un Nardella versione “figlio dei fiori”.

Celare con elementi vegetali e rivestire con la magia del design la recinzione delle enclaves turistiche può solo lenire la crudezza della “città dei recinti”, della segregazione, della zonizzazione tra ricchi e poveri, tra consumatori del lusso e marginalità sociali. È la versione freak di un sindaco che plaudiva al decreto Minniti perchè finalmente il Daspo urbano gli offriva armi più efficaci per garantire borghese decoro e sicurezza proprietaria.

Il concorso per le verdi, “gotiche barriere” (avrebbe scritto Carlo Cattaneo) è bandito in una città il cui patrimonio arboreo è stato pesantemente impoverito. Nel solo mese di agosto: 59 ippocastani abbattuti in viale Corsica. 107 pini neri in viale Guidoni. 45 pini domestici in viale Belfiore. Platani secolari intorno alla Fortezza da Basso. 5 olmi in piazza san Marco. 20 pini in piazza Stazione. 282 piante in totale, molte delle quali non classificate come “pericolose o malate” nella VTA (Visual Tree Assessment) comunale.

Stessa sorte è prevista per altre centinaia di esemplari del centro storico oltrarno (piazza Tasso, viale Michelangelo, Bobolino etc.) e poi alle Cascine e a Novoli. I cantieri del tram e della nuova stazione TAV (e del relativo tunnel) che immobilizzano il traffico cittadino da mesi, già avevano reso necessario il sacrificio dei lecci secolari di via dello Statuto, dei platani della Fortezza-viale Milton, degli alberi ai Macelli, di viale Morgani e di molte altre piante lungo i tracciati infrastrutturali.

In viale Corsica, il taglio degli ippocastani (e il futuro reimpianto di peri cinesi, alberelli non disdicevoli che tuttavia non compenseranno l’assenza di alberi d’alto fusto) ha innescato l’ira dei cittadini, che si vedono depauperati di qualità urbane e ambientali. L’alberatura accresce infatti il benessere da tutti i punti di vista: olfattivo, auditivo, visivo, estetico, simbolico e persino affettivo. La massa vegetale svolge poi una non trascurabile funzione depurativa dell’aria, ha effetti mitiganti sulle temperature, ed è indispensabile perciò nell’attenuare le condizioni favorevoli al manifestarsi di eventi meteorologici estremi, verificatisi anche a Firenze negli anni scorsi. La tromba d’aria del settembre 2014 e l’uragano (downburst) del 1 agosto 2015 hanno travolto, trasformandole in “pericolo” per la cittadinanza, proprio le alberature trascurate, non potate e non adatte a costituire filari stradali.

Dunque, per attenuare gli effetti dei cambiamenti climatici, abbattere le alberature d’alto fusto, sane, e sostituirle con piante di piccola taglia, è la prima cosa da evitare. Eppure. Eppure la paura fa novanta.

Nel giugno 2014 un ramo di un albero malcurato uccide una bambina e una donna alle Cascine. Per di più, su anni di malagestione e sui relativi danni erariali indaga oggi la Procura: falso in atto pubblico e deturpamento di bellezze naturali (cfr. “la Repubblica”, 11 agosto 2017). Per decenni infatti a Firenze si sono trascurate le basilari regole di sostituzione graduale: gli esperti indicano nel 2-3% del patrimonio arboreo cittadino la quota di alberi da sostituire annualmente (quota che si è ampiamente superata nei tagli dell’agosto scorso). Si è trascurato il valore culturale del paesaggio vegetale che risale in buona parte al disegno urbano postunitario di Firenze capitale. I magistrati rilevano la mancata regolarità nella programmazione della manutenzione che ha provocato il decadimento delle condizioni di molti esemplari arborei, per i quali si è dovuto procedere all’abbattimento; ciò è avvenuto anche nelle zone della città sottoposte a vincolo paesaggistico.

In nome della santa sicurezza, l’amministrazione prevede nel bilancio del 2017 ben dieci milioni di euro (con un incremento del 3.600% rispetto al bilancio 2014, parola dell’assessore) dedicati al verde urbano, per abbattimenti, sostituzioni e reimpianti. In mancanza di una seria programmazione e progettazione del verde, i tagli sono avviati d’urgenza nei mesi estivi, poco indicati anche per via delle nidificazioni dell’avifauna selvatica, e procedono di gran carriera; con cantieri improvvisati, gli abbattimenti avvengono a tappeto nell’agosto più caldo degli ultimi cento anni.

Le procedure democratiche saltano. Il consiglio comunale non è avvertito dell’operazione che investe la città. I lavori sono avviati con determine del sindaco. Alla Commissione ambiente in cui il grande taglio è presentato ai consiglieri, l’assessore non si palesa. Ai cittadini, tenuti all’oscuro, non resta che constatare il fatto compiuto.

Ma comitati e associazioni ambientaliste promettono battaglia.

architetti.com, 11 settembre 2017. Da un idea dell'arch. Boeri, per "abbellire" le "zone ansiogene" e le barriere difensive. Come se per fermare il terrorismo bastasse un muro, e per rendere uno spazio vivibile bastasse un orpello. (i.b).

Il Comune di Firenze ha lanciato in questi giorni una gara internazionale di idee per trovare soluzioni innovative per i dispositivi di protezione degli obiettivi sensibili delle città, che siano anche elementi di arredo urbano di qualità, con l’obiettivo di “proteggersi dal terrorismo usando la bellezza e trasformando la necessità di maggiore sicurezza in un’occasione di abbellimento delle città”.

#FlorenceCalling – questo il nome che è stato dato alla chiamata alle artipromossa dal Comune di Firenze dopo l’idea lanciata dall’architetto Stefano Boeri– si rivolge a aziende, scuole, progettisti, creativi e studi professionali, che dovranno ideare dissuasori ed elementi di protezione e sicurezza in grado di non compromettere, e anzi, di migliorare la qualità estetica e urbana degli spazi pubblici del centro storico di Firenze e, per estensione, di altre città. Il tutto, ovviamente, garantendo il passaggio dei mezzi di soccorso e la massima fruibilità a cittadini e turisti.

Dopo aver già provveduto a mettere in sicurezza i propri spazi pubblici recependo le indicazioni del Comitato provinciale per l’Ordine e la sicurezza Pubblica, Firenze punta quindi all’abbellimento: “La nostra risposta allodio del terrorismo è nell’arte e nella bellezza. Non possiamo permettere ai terroristi di allontanarci dai luoghi pubblici, dai nostri spazi aperti e bellissimi, dalle nostre piazze storiche. Non vogliamo trasformare le nostre piazze in zone ansiogene e imbruttite da barriere e blocchi di cemento”, ha affermato Nardella durante la presentazione del bando. Secondo Boeri, #Florencecalling è “l’invito a trasformare la necessità di proteggerci da chi minaccia la morte, nell’opportunità di inventare nuove architetture generatrici di vita, per lo spazio pubblico delle nostre città”.

Ansa - Sardegna 19 settembre 2017. Il PD sardo (o parte di esso) non è d'accordo con il primato della tutela del paesaggio sullo sviluppo economico (nello specifico, l'incremento dei volumi edificabili). È ovviamente esplosa una polemica, di cui il testo dell'agenzia Ansa - Sardegna dà conto con equilibrio

Il PD sardo si è indignato, e ha diramato un duro comunicato, perché il rappresentante dello Stato in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio esprime severe e sacrosante critiche a una legge regionale che contraddice e cancella le regole della tutela nelle aree più delicate e tutelate dell’Isola. Le Stato, ovviamente reagisce, in attuazione delle sue responsabilità. Ecco una ricostruzione degli eventi

La protesta del PD sardo

Le prerogative della Regione Sardegna in materia di urbanistica non possono essere messe in discussione, né rallentate, se non nelle forme e nei modi previsti dalla Costituzione. E' il senso della mozione presentata dal gruppo del Pd in Consiglio regionale - anticipata dal capogruppo Pietro Cocco all'ANSA subito dopo il vertice di una settimana fa con Francesco Pigliaru - a seguito dell'impugnazione della legge omnibus su cui si fonda la nuova normativa per governare il territorio isolano.

L'atto impegna il Pigliaru a "rappresentare con urgenza al presidente del Consiglio dei ministri lo sdegno per l'inaccettabile atteggiamento, qui riportato puntualmente, assunto dagli uffici territoriali del Mibact nei confronti della Regione Sardegna", e a chiedere "quali siano le ragioni di tale atteggiamento", infine se "le dichiarazioni della sottosegretaria Borletti Dell'Acqua Buitoni, nel merito di provvedimenti sui quali si deve pronunciare la Corte costituzionale, corrispondano al parere del Cdm".

In riferimento alla legge di manutenzione impugnata, la sottosegretaria aveva parlato di "un impianto normativo tale da privare il Mibact del potere di valutare". Posizione che aveva alimentando aspre polemiche, nell'Isola come a Roma, e che vede la Giunta di Francesco Pigliaru contrapporsi al Governo, al ministero e al sovrintendente Fausto Martino.

L'ex assessore Sanna (Pd) replica: "farsa incommensurabile"

"Una farsa incommensurabile". Così l'ex assessore all'Urbanistica della Giunta Soru, Gianvalerio Sanna, a proposito della mozione del Pd contro il Mibact depositata in Consiglio regionale. "E' il segno evidente e clamoroso della sconfitta della politica regionale che si nasconde dietro una azione apparentemente muscolare che susciterà, oltre il Tirreno, una quantità notevole di risate - scrive Sanna sul sito Sardegna soprattutto - tuttavia alcuni punti è bene siano chiari: ognuno ha le proprie competenze, il Mibac sul paesaggio e sui beni culturali, la Regione sull'Urbanistica".

L'ex assessore manifesta "sconcerto e rabbia davanti alla folle decisione del Governo regionale sardo di portare comunque avanti una legge urbanistica insensata e priva di qualunque cognizione di coerenza e modernizzazione, rispetto alla fase che si era aperta in Sardegna con l'approvazione del Ppr".
"Se si cerca di aggirare e abbattere i vincoli sovraordinati con le norme urbanistiche - spiega - Pd e compagnia si mettano l'anima in pace, lo Stato ha il dovere di intervenire e tutelare il dettato Costituzionale". Quindi l'affondo: "Credo che la maggioranza di Governo in Sardegna farebbe bene a mostrarsi meno supponente e riflettere su gli effetti negativi e distorsivi di una cultura renziana che ha espropriato anche i nostri desideri di immaginarsi realizzabili".

Il Fai stronca la mozione

"L'attacco di una parte del Partito Democratico sardo al sottosegretario al Ministero dei Beni e Attività Culturali Ilaria Borletti Buitoni e al soprintendente Fausto Martino per un atto impugnato dal Governo avvilisce qualunque cittadino italiano; non sono infatti, questi, temi che possono essere considerati di esclusiva competenza delle regioni, come chiaramente ci ricorda la Costituzione". Così il presidente del Fai Andrea Carandini che interviene sulla mozione del gruppo consiliare del Pd contro i due esponenti del Mibact.

"La difesa dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico e artistico riguarda l'identità, la cultura e l'economia, non a breve termine, dell'intero Paese - argomenta - È un tema di interesse generale, sul quale tutti i partiti e i movimenti italiani dovrebbero impegnarsi senza personalismi, riserve e rivendicazioni". Secondo il numero uno del Fai, questa disputa "deprime e non fa ben sperare". "Osservo un forte contrasto fra il tono della lettera del presidente della Regione Sardegna Francesco Pigliaru, in risposta a una mia lettera aperta del 5 settembre, e quello di questo intervento di partito. Speriamo - conclude Carandini - che si risolva a vantaggio della salvezza della Sardegna".

Si allarga il fronte del no al ddl.

Si allarga il fronte del No al disegno di legge sull'urbanistica varato dalla Giunta guidata da Francesco Pigliaru e ora all'attenzione della commissione Governo del territorio del Consiglio regionale. All'appello della Consulta Ambiente e Territorio per chiedere al governatore di confermare il livello di tutela previsto dal Ppr, da estendere anche alle zone interne, sospendendo l'iter di approvazione del ddl, hanno risposto ambientalisti, intellettuali e politici, oltre che alcune associazioni che si affiancano ai primi sottoscrittori: Wwf, Grig, Italia Nostra e Federparchi.

Tra i firmatari della lettera che critica il disegno di legge ritenuto "incostituzionale" e foriero di una "destabilizzazione della tutela del territorio dell'Isola, con effetti devastanti specialmente nella fascia costiera", ci sono tra gli altri lo scrittore Luciano Marrocu, il senatore Luigi Manconi, il leader di Possibile Giuseppe Civati, il regista Enrico Pau, l'ex direttore dell'Unione Sarda Anthony Muroni, l'architetto Alan Batzella, il giornalista Giacomo Mameli, il regista documentarista Tullio Bernabei, gli ex direttore generale e presidente di Legambiente Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, le associazioni VAS, Articolo 9, Green Italia e Mareamico.

Nell'appello vengono definite "insostenibili" anche le critiche "mosse da esponenti della Giunta regionale al soprintendente Fausto Martino", al quale viene espressa solidarietà e apprezzamento "per la benemerita azione che svolge in difesa dei beni culturali dell'Isola"

arcipelagomilano.org 19 settembre 2017.Una sintesi critica degliattori (e degli interessi) che, con argomenti a dir poco controintuitivi, purdi garantire la valorizzazione delle aree postExpo, sono disposti a tutto:anche a svuotare dalle facoltà scientifiche Città Studi


Dopo lapresentazione del professor Balducci & C. il 18 luglio scorso a PalazzoMarino, avrei voluto intervenire criticamente a botta calda, ma sarei cascatonella completa disattenzione estiva. Ai fini del prosieguo del dibattito tra lacittadinanza attiva da un lato, e l’amministrazione comunale e i responsabilipolitici della maggioranza, dall’altro, è mancato un serio lavoro diconfronto-e-verifica intorno al tavolo con le rappresentanze della cittadinanzaattiva.

Le riunionipubbliche a Palazzo Marino sono state in pratica per poter dire che il metododi scelta è stato democratico. Inoltre si è cercato di dimostrare che èl’Università che chiede di andare a ex-Expo. Comunque, in uno generaleripensamento urbanistico di questa portata le università e gli enti di ricercapubblici possono esprimere le proprie esigenze e orientamenti, ma non in modounico ed esclusivo rispetto alle altre componenti della cittadinanza.

Il traslocodi Statale scientifica da Città degli Studi a Rho-ex-Expo è un fatto politico?Sì. Cercherò di dimostrarlo, analizzando alcune frasi autoconsistenti (incorsivo) espunte da quattro documenti che rappresentano la posizione dellagiunta Sala e delle forze politiche che la sostengono:
* la Comunicazione stampa del Comune di Milano, del 10 maggio2017;
* il documento “
Da Città Studi allo studio dellacittà” diSinistraXMilano, datato 13 maggio 2017;
* il volantino del PD del Municipio 3 intitolato “
Città Studi rinnovata”, diffuso in giugno 2017;
* lo studio del professor Alessandro Balducci, commissionato dal Comune,intitolato “
Città Studi 2.0”, presentato a Palazzo Marino il 18luglio 2017.
Per avereun’immagine urbanistica di questa infelice area ex-Expo basta guardare in Google Map la sua struttura: un triangolocontornato da strade-autostrade di grande comunicazione (A8 – E64 – A62),Milano-Fiera, ferrovia a sud-ovest, con alcuni ingressi, proprio come le portenelle mura dei ghetti di infausta memoria.

La Comunicazione stampa del Comune di Milano
Èintitolata: Città Studi. Comune, Regione, Università e Agenzia del Demanioconfermano la funzione universitaria anche dopo il 2022. Mi limiterò asegnalare alcuni punti intrinsecamente critici.
Mantenere [a Città Studi] la funzione universitaria del quartiere … eprevedere un nuovo polo dell’Amministrazione Pubblica che riunisca tutti gliuffici del Demanio a Milano.” Ma come, per mantenere la funzioneuniversitaria si svuotano 100.500 mq di organismi scientifici per sostituirlicon una cattedrale di uffici amministrativi?
“… si è fatto il punto sull’attuale situazione delle aree ad oggi occupatedagli studenti che andrebbero a liberarsi“– È uno strafalcione semantico.Le università, in particolare quelle scientifiche, in tutto il mondo, sono“occupate” strutturalmente dai ricercatori-docenti che lì sviluppano il propriocurriculum scientifico individuale e di gruppo, durante anni di ricerca, e inbase a esso sono in grado di insegnare agli studenti.
Nella lunga comunicazione stampa si tacciono le vere ragioni dell’operazione:l’errore di investire tanti soldi in Expo2015 ha lasciato grossi debiti dasanare.
Il documento di SinistraXMilano
Anche inquesto caso tralascio un’analisi puntuale, preferendo segnalare alcunequestioni salienti: a proposito della nuova area scientifica a ex-Expo dice: “…costruire strutture e infrastrutture moderne, che permettano agli universitaridi studiare meglio, ma anche di avere alloggi a prezzi compatibili e cibo diqualità … accedere a servizi, divertimento …” – Tutte cose che già esistonoa Città Studi dove, semmai, potrebbero essere potenziate. Oggi studenti e docentiuscendo a piedi dai dipartimenti sono in città. Da ex-Expo dovrebbero venire incittà.
Lestrutture delle facoltà scientifiche in Città Studi non sono adeguate …” –Non è vero, specialmente per il quadrilatero Ponzio – Celoria – Golgi –Venezian e piazza Aspari (Farmacologia). I dipartimenti di Fisica, Chimica,Bioscienze, Farmacologia, Virologia, Scienze Alimentari, Scienze della terrasono stati tutti costruiti a iniziare dal 1975-1980 e non sono ruderi che“cadono a pezzi”; l’edifico di Informatica è oggi in fase costruttivaterminale.
Un’altraaffermazione di SinistraXMilano è degna di particolare rilievo (in questo casopositivo!): “L’area ex-Expo, abbandonata o privatizzata, sarebbe unasconfitta… Potremmo discutere per anni sulle scelte sbagliate di RegioneLombardia e di Letizia Moratti“. – Meno male che SXMi ha il coraggio didire la verità! Bisognerebbe aggiungere a questa affermazione che il sindacoPisapia, all’inizio del mandato (i lavori per Expo non erano ancora iniziati),dopo una lunga pausa di riflessione, ha deciso di procedere (seconda sceltasbagliata). Oggi, proprio per evitare una terza scelta sbagliata, molto piùgrave delle precedenti, bisogna trovare soluzioni diverse per l’utilizzo diquell’area: ad esempio, un parco pubblico di 100 ettari. Appare piuttostomistificatorio cercare di dimostrare che la scelta di spostare Statalescientifica a ex-Expo, sia una scelta ottimale dal punto di vista tecnico: “…si tratta di una area fondamentale [?] altamente accessibile [?] e infrastrutturata,che può diventare un modello di sviluppo urbano [?] …” – Ma vogliamoscherzare?

Il volantino del PD del Municipio 3
Dopo varierichieste (inevase) dall’interno del PD per discutere il problema in modoesaustivo su un tavolo specializzato, è circolata una prima bozza, seguita daltesto definitivo distribuito nel quartiere il 26 giugno scorso. Innanzitutto vaesaminato il titolo Città Studi Rinnovata – Cosa vuol dire “rinnovata”? Ilvolantino lo spiega: “Si trasformerà in un polo inter-universitario dirilevanza europea” – Cioè, secondo gli estensori del volantino, finora èstato un polo di secondo ordine, con scarsa qualità scientifica? Questaformulazione suona come un insulto ai matematici, fisici, chimici, biologi,geologi che vi hanno lavorato finora con produzioni scientifiche di ottimolivello e rapporti internazionali.
Nuovefacoltà e una cittadella della Pubblica Amministrazione (Uffici del Demanio) nefaranno parte … Nella riunione del 10 maggio [vedi sopra] si è convenuto dimantenere intatta la vocazione universitaria del quartiere” – Non si riescea credere che la riduzione secca del 60% degli attuali spazi di ricerca edidattica, e la loro sostituzione con gli uffici del demanio (1600amministrativi) possa essere spacciata per un “rinnovo” di Città Studi. Nelrestante quadrilatero Colombo – Celoria – Ponzio – Botticelli (area nonvendibile perché demaniale e vincolata), dopo lo svuotamento di Agraria,Veterinaria, Scienze Alimentari, Medicina triennio, verrebbero collocatiscampoli e spezzoni di risulta di Statale-Umanistica, Poli-Architettura,Milano-Bicocca, più un museo dei diritti umani (che era stato previstoprecedentemente di insediare nel Cimitero di Musocco!). Il “rinnovamento”, dicui parla il volantino, si commenta da sé.

Lo studio Città Studi 2.0
Nell’intervistapubblicata dal Corriere il 27 marzo 2017 il professor AlessandroBalducci aveva affermato: “Tutti gli insediamenti della Statale, trannequalche eccezione, cadono a pezzi e sono in gran parte degradati. Unasituazione inadeguata per un’università che vuol competere nel mondo … “ –Ci aspettavamo che Balducci il 18 luglio presentasse una dettagliatadocumentazione tecnica sul degrado dei singoli edifici di Città Studi,attualmente occupati dai ricercatori-docenti, dalla quale emergesse la“inadeguatezza” di quegli edifici, quindi l’impossibilità di ristrutturarli.Invece non dice nulla!
Viceversa,l’indagine sintetica sul campo del professor Riccardo Ghidoni (presentata aPalazzo Marino il 19 maggio 2017) riporta per ciascuna delle 20 sedi dellaStatale a Città Studi: Dipartimento, Proprietà, Anno di costruzione, Grado dioccupazione, Condizioni strutturali e edilizia. Essa smentisce nettamente lavalutazione sommaria del professor Balducci, sopra citata, che vienesbandierata negli altri tre documenti come motivo della non idoneitàstrutturale della situazione attuale. In effetti la “inadeguatezza” è una falsamotivazione.

Tre domandeal Comune, alla Regione, al Governo
1. Come mainella relazione Balducci, commissionata dal Comune di Milano, non esiste alcunadettagliata e credibile analisi per dimostrare la “inidoneità” dell’areaCeloria – Golgi – Venezian – Ponzio alla permanenza di strutture di ricercaqualificate a livello internazionale?
2. Come maitra le tante aree dismesse-abbandonate di Milano, per trasferirvi la Statale-scientifica, è stata scelta la ex-Expo la più infelice da tutti i razionali puntidi vista?
3. È seriodefinire “rinnovamento” l’eliminazione dei dipartimenti scientifici e la lorosostituzione con gli uffici dell’Agenzia del Demanio?

Internazionale, 15 settembre 2017. A tutte le latitudini, la rigenerazione urbana sembra innescare sempre processi di gentrificazione, che costringono i meno abbienti a lasciare le zone rigenerate, con postilla (i.b.).

I corridoi del leggendario palazzo bianco di Phnom Penh, un tempo pieni di musica, odori di cucina, chiacchiere, risate e bambini stanno per essere demoliti con i bulldozer. Il complesso, uno degli ultimi esempi dello stile modernista incarnato dalla nuova scuola di architettura khmer degli anni sessanta, sta per lasciare il posto a un condominio di lusso di 21 piani che sovrasterà tutte le case e i negozi del centro della capitale cambogiana.

Il Palazzo Bianco oggi (fonte: Fabien Mouret)

Molti dei vecchi inquilini, come Chhey Sophoan, 62 anni, non volevano lasciare la struttura ormai pericolante. Sophoan è un insegnante in pensione ed è stato tra i primi a rientrare nell’edificio quando, nel 1979, i Khmer rossi – che durante i loro quasi quattro anni di governo avevano decimato la popolazione – furono sconfitti dalle forze guidate dai vietnamiti. Ed è stato uno degli ultimi a lasciarlo, per andare a dormire sul pavimento del minuscolo appartamento del nipote. Sua moglie, invece, si è trasferita nella nuova casa appena costruita alla periferia della città.

“È difficile descrivere quello che ho provato al momento di andarmene”, mi ha detto Chhey Sophoan quando a metà giugno ho parlato con lui sulle scale decrepite vicino al suo vecchio appartamento. “Sono triste, avevamo tanti amici qui”.

La demolizione del palazzo bianco – che in periodi diversi ha ospitato dipendenti pubblici, artisti, famiglie e tossicodipendenti – segna un passo importante nella progressiva gentrificazione del centro
di Phnom Penh. Il risanamento della zona, in parte ancora sporca e fatiscente, indubbiamente richiederà tempo, ma è già a buon punto.

Il Palazzo Bianco nel 1963 (fonte: National Archives of Cambodia)

Il palazzo bianco fu costruito all’apice dell’“epoca d’oro” della Cambogia moderna, un periodo di prosperità seguito all’indipendenza dalla Francia del 1953. Molti lo ricordano con nostalgia, perché la capitale fu segnata da un grande risveglio artistico e culturale.

Le autorità governative, e il “padre fondatore” della nazione, il re Norodom Sihanouk, si erano resi conto che la popolazione della capitale stava crescendo rapidamente perché molte persone si trasferivano dalle campagne in cerca di lavoro. Per ospitare il primo progetto di edilizia popolare della città fu scelta una zona non lontana dal fiume Bassac e, sotto la guida del famoso architetto cambogiano Vann Molyvann (a cui a volte è erroneamente attribuito il progetto del complesso), l’ingegnere francese di origini russe Vladimir Bodiansky e l’architetto cambogiano Lu Ban Hap ne seguirono la costruzione. Nel 1963 l’edificio (costituito da 468 appartamenti distribuiti in sei blocchi larghi e bassi, allineati per un tratto lungo 300 metri e uniti tra loro da scale esterne) era pronto per essere occupato dai suoi inquilini a basso reddito. “È stato ideato da architetti e urbanisti che volevano realizzare un complesso di appartamenti in cui l’aria potesse circolare. Perciò in origine era sopraelevato rispetto al terreno e con molte scale collegate tra loro”, dice lo storico dell’arte Darryl Collins, uno degli autori del libro del 2006 Building Cambodia. “New khmer architecture” 1953-1970. “Era un edificio molto funzionale”.

Promesse e ottimismo

Quelli che all’epoca erano chiamati appartamenti comunali facevano parte di un gruppo di strutture costruite nella zona nell’arco di tutti gli anni sessanta. Il lungo complesso sulle rive del Bassac ospitava anche il teatro nazionale Preah Suramarit, gravemente danneggiato da un incendio nel 1994 e poi demolito, un centro espositivo, che ormai non svolge più quella funzione,e il palazzo grigio di Vann Molyvann, che ora ospita degli uffici e una scuola. “L’idea era creare un’unica area pubblica, che avrebbe permesso ai cittadini di avvicinarsi al fiume e di accedere alle abitazioni, ai posti dove mangiare e a centri culturalmente rilevanti”, dice Collins.

L’atmosfera della città era carica di ottimismo e di promesse. Le immagini degli anni sessanta mostrano il palazzo bianco appena costruito circondato da alberi sullo sfondo di giardini ben tenuti. Ma nel 1970, quando il generale Lon Nol guidò un colpo di stato per detronizzare Sihanouk, scoppiò una guerra civile che scatenò combatti- menti anche fuori della capitale. Il 17 aprile 1975, dopo la caduta del governo di Lol Nol per mano delle truppe comuniste e la presa del potere da parte dei khmer rossi, gli uomini di Pol Pot costrinsero tutta la popolazione della città a trasferirsi nelle campagne per piantare riso e costruire dighe.

Per una ventina d’anni, compresa la successiva occupazione vietnamita durata fino al 1989, il popolo cambogiano ha sofferto molto e la manutenzione dei palazzi non fu certo una priorità. “Senza manutenzione gli edifici invecchiano”, dice Collins, e negli anni ottanta il palazzo bianco era già in rovina. “Quando nel 1979 e nei primi anni ottanta è tornata a vivere a Phnom Penh, la gente ha dovuto accontentarsi di quello che c’era, e molte persone hanno rioccupato l’edificio. Probabilmente in parecchi casi i proprietari originari non sono mai tornati. E a occupare gli appartamenti sono state quasi tutte famiglie a basso reddito e artisti”.

A più di cinquant’anni dalla sua realizzazione, il palazzo bianco mostrava gravi segni di abbandono: non era più bianco, era pieno di spazzatura e i muri erano coperti di crepe. Le autorità lo hanno condannato ufficialmente alla demolizione nel 2014, dicendo che non era più sicuro, anche se inizialmente avevano pensato a una ristrutturazione.

A ottobre del 2016 si è saputo che l’impresa edile giapponese Arakawa era pronta ad abbattere la struttura e a sostituirla con un grattacielo. Nel progetto originario si scopre che l’azienda aveva previsto di lasciare cinque piani per gli inquilini esistenti, offrendogli un aumento del 10 per cento dello spazio. Ma secondo Sia Phearum, che dirige l’organizzazione non governativa Task force per il diritto alla casa, la comunità era divisa. “Il proprietario dell’Arakawa avrebbe voluto che i poveri che già abitavano nel palazzo vivessero insieme ai ricchi che avrebbero comprato gli appartamenti dopo i quattro anni di lavori”, spiega Sia Phearum, che ha assistito gli inquilini durante le trattative. “Ma la gente ancora non si fida del governo cambogiano, a causa delle brutte esperienze delle comunità Borei Keila e Boeung Kak”, dice, riferendosi a due recenti dispute sull’esproprio di alcuni terreni che sono durate a lungo. Dopo circa nove mesi di trattative, quasi tutte le 493 famiglie che occupavano l’edificio (alcuni appartamenti erano stati divisi) hanno accettato l’offerta alternativa di risarcimento equivalente a 1.170 euro al metro quadrato. Ma non tutte erano soddisfatte: la cifra era inferiore a quella che avevano chiesto nelle varie fasi della discussione (tra i 1.500 e i 1.900 euro), e molte non volevano proprio andarsene. Tra loro c’era Dy Sophannara, un’ex funzionaria del ministero della cultura di 70 anni che viveva lì dal 1979 e che, quando la maggioranza degli inquilini ha accettato, non ha avuto scelta e ha dovuto abbandonare la sua casa. Ora vive in una stanza dove paga l’equivalente di 84 euro al mese di affitto. “Quando guardo il palazzo in cui abitavo, mi commuovo”, dice. “Mi si spezza il cuore al pensiero che sarà demolito”.
Sacrificio inevitabile

Secondo Collins la demolizione dell’edificio è una grande perdita per il patrimonio culturale, ma non tutta l’architettura di quel periodo, o di qualsiasi altra epoca storica, può essere salvata. “In una città che sta cambiando, a volte è molto difficile proteggere gli edifici, soprattutto se sono in mano a privati”, dice. “In questo caso è ancora più difficile perché i proprietari sono più di 400”.

Eppure Sia Phearum considera il risarcimento una grande vittoria per gli inquilini, soprattutto se si pensa ad alcuni sfratti drammatici avvenuti in città. Elogia anche il ministro per la gestione del territorio, l’urbanistica e l’edilizia, Chea Sophara, che ha partecipato alle trattative e sembra sia riuscito a ottenere un risarcimento più alto per gli inquilini degli appartamenti più piccoli per incoraggiarli ad andarsene. “Almeno è stata la gente a scegliere”, dice Sia Phearum. “È andata bene a tutti: a loro, alla società immobiliare e al governo.

Se anche altri potessero seguire questo modello, penso che sarebbe il modo migliore per garantire uno sviluppo pacifico”. Ci saranno sicuramente altri casi come questo. Phnom Penh sta crescendo a un ritmo frenetico. Il periodo successivo all’era dei Khmer rossi – quando a causa della guerra fredda la Cambogia era tagliata fuori da buona parte del commercio mondiale e poteva contare solo sull’aiuto del Vietnam e dell’Unione Sovietica è ormai un lontano ricordo. Il tasso di crescita economica che si è cominciato a registrare alla fine degli anni novanta è rimasto costante, e il prodotto interno lordo del paese garantisce una crescita annua media del 7,6 per cento da più di vent’anni.

Secondo la Banca mondiale, il settore edilizio è “uno dei principali motori della crescita”. Le cifre ufficiali del governo mostrano che nel 2016 il valore dei progetti edilizi approvati ha superato i sette miliardi di euro, rispetto ai 2,8 dell’anno precedente. Sono state autorizzate migliaia di nuove costruzioni – 2.636 nel 2016 e più di 1.500 nel 2017 – e il settore non dà segno di voler rallentare. Thida Ann, che dirige la società immobiliare Cbre Cambodia, dice che almeno dal 2007 Phnom Penh in particolare ha subìto un’enorme trasformazione. “Dieci anni fa in città non c’era nessun grattacielo di più di dodici piani”, dice. “C’erano solo pochi palazzi di uffici e nessun condominio residenziale”. A suo avviso la maggior parte dei cittadini è contenta di questo sviluppo, che “porta più investimenti stranieri diretti, più possibilità di specializzazione, maggiori opportunità di lavoro, accesso agli strumenti finanziari e un continuo miglioramento delle infrastrutture. Anche se la città incontra molte difficoltà, questi aspetti sono comunque considerati positivi da quasi tutti. In particolare, questo diventa evidente grazie all’emergere di una nuova classe media, che sarà fondamentale per la prosperità e lo sviluppo sociale del paese”.

Ma Thida Ann ammette anche che la città per la maggior parte della popolazione non si sta sviluppando in modo positivo: nonostante esista un piano regolatore, dietro ai progetti edili spesso sembra non ci sia nessuna programmazione. “I ministeri non applicano sempre le leggi e le norme e, anche se la situazione sta migliorando, bisogna fare di più per garantire che Phom Penh diventi uno spazio vivibile per tutti i suoi abitanti”.

Una città irriconoscibile

Altri temono invece che nei prossimi decenni la capitale diventerà irriconoscibile. È già profondamente cambiata dall’epoca in cui è stato concepito il palazzo bianco,quando dominavano gli edifici coloniali francesi dipinti di giallo e contro il cielo si stagliavano solo le guglie delle pagode. “Phnom Penh continuerà a cambiare”, dice Kavich Neang, un regista di trent’anni che è cresciuto nel palazzo bianco e sta lavorando a un film ambientato al suo interno. “È un bene che la Cambogia si stia sviluppando, ma dobbiamo pensare a quello che è giusto fare, riflettere sulle conseguenze”.

Una delle principali conseguenze della ristrutturazione del centro della città è che pochi, o forse nessuno, degli inquilini del palazzo bianco potranno permettersi di comprare una casa vicino a dove abitavano prima, anche se molti di loro hanno avuto risarcimenti per più di 34mila euro. Secondo
Thida Ann, negli ultimi dieci anni il prezzo degli immobili del centro è raddoppiato, e ormai ci sono poche case popolari a Phnom Penh.

Kavich Neang, la cui famiglia si è trasferita a Chak Angre Krom, 25 minuti di auto più a sud, dice che alcuni dei suoi vicini hanno preso i soldi dell’Arakawa e si sono spostati in campagna. “È difficile vivere al centro della città, ci siamo tutti allontanati”, dice. Sia Phearum l’ha sentito ripetere tante volte: “Al governo interessano solo i ricchi, costruisce solo condomini e case costose, i poveri non hanno nessuna possibilità di rimanere in centro”, dice. “Li mandano lontano o gli danno un risarcimento minimo, come nel caso di Boeung Kak (dove circa 17.500 persone sfrattate dal 2008 hanno ricevuto solo 8.500 dollari ognuna) anche se possedevano un grande appezzamento
di terreno. Se lo stato e le aziende collaborassero per costruire case popolari, anche i poveri potrebbero vivere in centro. Ma il governo non ha un progetto chiaro per il futuro e nel giro dei prossimi venti o cinquant’anni nessun povero potrà permettersi una casa in centro”.

A metà luglio del 2017 tutti gli inquilini del palazzo bianco avevano già fatto le valigie e hanno continuato ad andarsene alla spicciolata per settimane. I ricordi di Kavich Neang dell’unica casa che ha mai conosciuto sono molto intensi. “Sentivi il suono della musica e a volte la gente che guardava la boxe in tv. O il canale del karaoke. Quando c’era una festa in una casa, ascoltavo i vecchi cantare e qualche volta mi offrivano da mangiare. Quando qualcuno cucinava, il profumo si sentiva in tutto il
corridoio. Era questa, per me, la cosa unica di quel posto, il senso di comunità.

postilla


E’ circa dal 2004 che la capitale della Cambogia sta attraversando un’ esplosione immobiliare, soprattutto nel centro storico, grazie all’afflusso di investimenti diretti esteri nel paese, la crescita del turismo e l’esportazione di indumenti. Questo ha incoraggiato la costruzione di edifici residenziali e commerciali, che hanno cambiato lo skyline della città, e l'espansione urbana nelle aree periferiche. L‘industria delle costruzioni è diventato un settore importante e c’è una classe media in aumento. Ma la gran parte degli abitanti non trae beneficio da questo boom immobiliare. La città si sta espandendo a macchia d'olio senza un piano e il governo municipale non riesce a far fronte agli speculatori, mantenendo un atteggiamento ambiguo nei confronti della tutela dei poveri. Infatti, il progetto di riduzione della povertà urbana di Phnom Penh, lanciato nel 1996, ha avuto un limitato impatto sugli sgomberi forzati praticati dagli investitori nei distretti centrali. Alla maggior parte dei cambogiani, essendo di fatto esclusa dal mercato della casa, non rimane che il settore informale, che continua a crescere.

Con la demolizione del “Palazzo Bianco” verrà anche distrutta la comunità che vi abita. Il "palazzo Bianco" non è solo un edificio, ma una comunità vivace ed eterogenea, che ospita più di 2.500 abitanti, tra cui ballerini, musicisti, maestri, artigiani, operai, funzionari e venditori di strada. Oltre all’articolo suggerisco il sito del white building project, un archivio che cerca di raccogliere le testimonianze di questa comunità, dove troverete immagini e video: http://whitebuilding.org (i.b.).


la Repubblica, 13 settembre 2017. «Un partito di governo che proponga di mutilare i monumenti (per quanto nobile sia l’obiettivo finale) trasmette un messaggio di impotenza». (c.m.c.)


Il potere dei monumenti appare oggi inversamente proporzionale al potere della politica. Lo suggeriscono le dichiarazioni con cui vari esponenti del Partito democratico propongono di cancellare le iscrizioni dei monumenti fascisti. Ieri il deputato Emanuele Fiano ha espresso il suo consenso (poi derubricato a una meno impegnativa neutralità) rispetto alla proposta di Luciano Violante di abradere la scritta «Mussolini Dux» dall’obelisco del Foro Italico.

Il parallelo con quanto accade negli Stati Uniti non regge. Lì a chiedere, o ad attuare, l’abbattimento delle statue dei generali sudisti e dei politici schiavisti è una agguerrita opposizione civica che contesta un presidente che, in modo inaudito, simpatizza con quella terribile storia. È Trump, insomma, ad aver ridato forza e vita a quelle statue: e chi le abbatte cerca di abbattere Trump, almeno in effigie. Un fenomeno comprensibile, anche se pieno di contraddizioni e di pericoli, come ha ben spiegato Ian Buruma.
Ma da noi è, paradossalmente, il contrario: sono uomini del partito di governo a dichiarare di voler mettere le mani sui monumenti.

Ora, l’architetto Fiano e i suoi colleghi dovrebbero sapere che si tratta di monumenti tutelati dalla legge e dalla Costituzione repubblicana, e che dunque chi li manomettesse commetterebbe un reato. E, soprattutto, un partito di governo che proponga di mutilare i monumenti (per quanto nobile sia l’obiettivo finale) trasmette un messaggio di impotenza: di una politica ridotta a propaganda. Perché i governi democratici, a differenza di quelli autoritari, non praticano l’iconoclastia: essi hanno il dovere di utilizzare strumenti ben più potenti e appropriati.

Per esempio, si vorrebbe vedere rivolta contro i troppi gruppi dichiaratamente neofascisti o neonazisti anche solo una piccola parte della forza di polizia usata negli ultimi mesi contro i poveri, i marginali, i migranti. Prima ancora: il governo dispone di strumenti di intelligence, e credo che sarebbe ora di veder chiaro nelle sorprendenti ramificazioni e negli intrecci che legano non i monumenti di pietra, ma i neofascisti in carne ed ossa, ad ambienti insospettabili. Mi riferisco, per esempio, al pentolone scoperchiato dalla documentatissima inchiesta del collettivo di scrittori WuMing provocatoriamente (ma non gratuitamente) intitolata CasaP( oun)D. Rapporti con l’estrema destra nel ventre del partito renziano. Ed è ben noto che da inquinamenti di questo tipo non è esente il Movimento 5 stelle.

Dal governo di una Repubblica fondata anche sullo «sviluppo della cultura» e sulla «ricerca » ci si aspetta non la cancellazione delle scritte sui monumenti di ottant’anni fa, ma la costruzione di strumenti per leggere storicamente e moralmente quelle scritte. Il disinvestimento nella cultura e nella scuola, il sottofinanziamento dell’università e il loro orientamento sempre più professionalizzante rappresentano uno smantellamento della formazione alla cittadinanza, e dunque una distruzione dei veri anticorpi antifascisti.

Per rispondere al terribile fascismo fiorentino degli anni venti, Nello Rosselli progettava di fondare biblioteche per ragazzi in ogni quartiere della città, e mentre era chiuso in carcere Antonio Gramsci rifletteva sull’urgenza di dotare l’Italia di «servizi pubblici intellettuali: oltre la scuola, nei suoi vari gradi », quelli che « non possono essere lasciati all’iniziativa privata, ma che in una società moderna, devono essere assicurati dallo Stato e dagli enti locali (comuni e province): il teatro, le biblioteche, i musei di vario genere, le pinacoteche, i giardini zoologici, gli orti botanici». E non si pensa senza vergogna alla nostra attuale incapacità di costruire a Milano un vero Museo della Resistenza, cioè un grande centro di ricerca, capace di redistribuire conoscenza critica attraverso i canali più moderni.

Da un partito di governo dell’Italia democratica del 2017 non ci si aspetta, insomma, una propaganda iconoclasta, ma un progetto culturale che costruisca l’antifascismo attraverso la cultura: non la cancellazione delle contraddizioni storiche, ma la capacità di mettere tutti in grado di interpretarle. Non la finzione che il fascismo non sia stato: ma la forza culturale e morale per meditare «che questo è stato» (Primo Levi).

Italia nostra, 9 settembre 2017. Le ragioni per cui, come abbiamo scritto, l’attuale presidente della regione Sardegna è ancora peggiore (almeno per la tutela del paesaggio) del suo predecessore berlusconiano. A proposito di usi civici e paesaggio

Italia Nostra manifesta pieno sostegno all’on. Ilaria Borletti Buitoni, Sottosegretario ai Beni, Attività Culturali e Turismo, oggetto di un duro attacco da parte del Presidente della Giunta regionale della Sardegna, Francesco Pigliaru e il nostro appoggio incondizionato anche al Soprintendente all’Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e per le province di Oristano e Sud Sardegna, Fausto Martino, il quale ha coraggiosamente espresso le sue preoccupazioni mostrando di essere fino in fondo funzionario statale fedele al suo ruolo.

A conferma della correttezza della proposta impugnazione, con particolare riferimento agli articoli 37, 38 e 39, Italia Nostra osserva che il semplice richiamo alle norme sulla copianificazione non corrisponde a un reale rispetto delle stesse, in quanto le modalità e i termini rigidi posti dalla Regione all’operato della Soprintendenza per decidere la sclassificazione degli usi civici - l’accordo che riconosce l’assenza di valori paesaggistici deve essere siglato entro il termine di 90 giorni dalla delibera del Consiglio comunale -, rendono impossibile una corretta valutazione dei valori protetti.

Le aree interessate, infatti, comprendono oltre 400 mila ettari, il 20% circa dell’intero territorio dell’isola, mentre i funzionari ministeriali che dovrebbero valutare l’assenza dei requisiti per confermarne la sclassificazione, anche a seguito della contestata riforma del Mibact, sono un numero assolutamente esiguo.

La valutazione di tutte le componenti relative a tali beni paesaggistici, inoltre, comporta un’analisi estremamente complessa dal momento che secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale “i caratteri morfologici, le peculiari tipologie d’utilizzo dei beni d’uso civico ed il relativo regime giuridico sono meritevoli di tutela per la realizzazione di interessi generali, ulteriori e diversi rispetto a quelli che avevano favorito la conservazione integra e incontaminata di questi patrimoni collettivi”, Corte costituzionale, sentenza del 11 maggio 2017, n. 103.

La perdita della destinazione agraria, insomma, non comporta di per sé perdita di rilevanza ambientale, in quanto la qualità paesaggistica di un luogo non è immediatamente collegata allo specifico uso civico gravante sullo stesso.

A questo proposito non bisogna neanche dimenticare che, in applicazione dei consolidati principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale, civile e amministrativa, i beni compromessi necessitano di una tutela ancora più ampia.

Ebbene, il corretto svolgimento di queste valutazioni viene impedito dalle disposizioni citate, escludendo, di fatto, la realizzazione del “meccanismo concertativo” richiesto a pena di illegittimità dalla stessa Corte costituzionale, in aperta violazione dei principi e delle norme che impongono la tutela dell’ambiente e regolano le competenze stato-regione in tale materia.

L’attività in oggetto, infine - originata da esigenze opposte alle finalità di tutela del territorio - rischia di assorbire totalmente le esigue risorse delle soprintendenze, sottraendole agli ordinari compiti istituzionali.

E’ anche importante sottolineare che l’articolo 39, comma 3, della legge impugnata crea una sorta di condono mascherato, consentendo le sdemanializzazioni in tutte le ipotesi in cui l’utilizzo illecito dei beni gravati da uso civico abbia riguardato “finalità di pubblico interesse connesse alla realizzazione di opere pubbliche, all’attuazione di piani territoriali o comunali di sviluppo industriale e produttivo del territorio o all’attuazione di piani di edilizia economica e popolare”.

A questo proposito si segnala anche l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 17° ter, del c.d. decreto per il Sud, evidentemente sfuggita al vaglio della commissione competente. Secondo la norma citata, infatti “gli atti di disposizione [...] sui terreni gravati da uso civico, adottati in violazione delle disposizioni in materia di alienazione [...] sono da considerarsi validi ed efficaci ove siano stati destinati al perseguimento dell’interesse generale di sviluppo economico della Sardegna, con inclusione nei piani territoriali di sviluppo industriale approvati in attuazione del testo unico delle leggi sul Mezzogiorno [...]. Gli stessi terreni”, si conclude “sono sottratti dal regime dei terreni ad uso civico”. Tale emendamento - introdotto dal senatore Silvio Lai in sede di convalida del decreto legge successivamente alla sua approvazione - mostra l’evidente intento di eliminare gli usi civici dalle aree destinate all’ampliamento dello stabilimento dell’Eurallumina di Portovesme, violando i consolidati principi costituzionali sopra richiamati.

Per quanto riguarda le questioni più generali rimproverate dal Presidente regionale alla Sottosegretaria, la nostra associazione conferma anche la continuità tra le politiche in materia urbanistica della passata Giunta di centrodestra e la attuale.

Per averne una dimostrazione basta dare uno sguardo alle norme sul c.d. piano casa, che ha sostanzialmente recepito il precedente - in deroga al Piano paesaggistico regionale - rendendolo permanente e per certi aspetti addirittura più lesivo dei valori ambientali e paesaggistici, come nel caso dell’aumento dal 10% al 25% degli incrementi volumetrici consentiti all’interno dei 300 metri dalla linea di battigia. Disposizioni recepite anche dalla legge urbanistica di prossima approvazione, che presenta numerosi contrasti con il Piano paesaggistico regionale e palesi vizi di illegittimità costituzionale e della quale si chiede fin d’ora l’impugnazione da parte del governo nel caso venisse approvata.

Maria Paola Morittu, Vice Presidente di Italia Nostra

Il patrimonio arboreo storico della città, afflitto dai danni provocati dalla sua malagestione, viene sacrificato in nome della sicurezza e di cantieri. il Fatto Quotidiano online, 11 settembre 2017 (p.d.)

Nardella tenta di riscattarsi dopo il putiferio estivo seguito all’abbatimento di centinaia di alberi in città. Ammaliato dal messaggio green di Stefano Boeri, autore del grattacielo “verde” o “bosco verticale” a Milano, il sindaco ha bandito un concorso per decorare con vegetazione arbustiva e magari con alberi i dispositivi di protezione antiterroristica del centro fiorentino. La “Chiamata alle arti” (ahi, così si intitola il bando) contribuirà a definire un arredo urbano di tutto decoro, e pure un po’ ecologico, che risolverebbe l’urgente questione di sicurezza globale. Put flowers in your gun è il messaggio di un Nardella versione “figlio dei fiori”.

Celare con elementi vegetali e rivestire con la magia del design la recinzione delle enclaves turistiche può solo lenire la crudezza della “città dei recinti”, della segregazione, della zonizzazione tra ricchi e poveri, tra consumatori del lusso e marginalità sociali. È la versione freak di un sindaco che plaudiva al decreto Minniti sulla sicurezza urbana perché finalmente il Daspo urbano gli offriva armi più efficaci per garantire borghese decoro e sicurezza proprietaria. Il concorso per le verdi, “gotiche barriere” (avrebbe scritto Carlo Cattaneo) è bandito in una città il cui patrimonio arboreo è stato pesantemente impoverito. Nel solo mese di agosto: 59 ippocastani abbattuti in viale Corsica. 107 pini neri in viale Guidoni. 45 pini domestici in viale Belfiore. Platani secolari intorno alla Fortezza da Basso. 5 olmi in piazza san Marco. 20 pini in piazza Stazione. 282 piante in totale, molte delle quali non classificate come “pericolose o malate” nella Visual tree assessment (Vta) comunale.

Stessa sorte è prevista per altre centinaia di esemplari del centro storico oltrarno (piazza Tasso, viale Michelangelo, Bobolino etc.) e poi alle Cascine e a Novoli. I cantieri del tram e della nuova stazione Tav (e del relativo tunnel) che immobilizzano il traffico cittadino da mesi, già avevano reso necessario il sacrificio dei lecci secolari di via dello Statuto, dei platani della Fortezza-viale Milton, degli alberi ai Macelli, di viale Morgani e di molte altre piante lungo i tracciati infrastrutturali. In viale Corsica, il taglio degli ippocastani (e il futuro reimpianto di peri cinesi, alberelli non disdicevoli che tuttavia non compenseranno l’assenza di alberi d’alto fusto) ha innescato l’ira dei cittadini, che si vedono depauperati di qualità urbane e ambientali. L’alberatura accresce infatti il benessere da tutti i punti di vista: olfattivo, auditivo, visivo, estetico, simbolico e persino affettivo. La massa vegetale svolge poi una non trascurabile funzione depurativa dell’aria, ha effetti mitiganti sulle temperature, ed è indispensabile perciò nell’attenuare le condizioni favorevoli al manifestarsi di eventi meteorologici estremi, verificatisi anche a Firenze negli anni scorsi. La tromba d’aria del settembre 2014 e l’uragano (downburst) del 1 agosto 2015 hanno travolto, trasformandole in “pericolo” per la cittadinanza, proprio le alberature trascurate, non potate e non adatte a costituire filari stradali.

Dunque, per attenuare gli effetti dei cambiamenti climatici, abbattere le alberature d’alto fusto, sane, e sostituirle con piante di piccola taglia, è la prima cosa da evitare. Eppure. Eppure la paura fa novanta. Nel giugno 2014, un ramo di un albero malcurato uccide una bambina e una donna alle Cascine. Per di più, su anni di malagestione e sui relativi danni erariali indaga oggi la Procura: falso in atto pubblico e deturpamento di bellezze naturali (cfr. “la Repubblica”, 11 agosto 2017). Per decenni infatti a Firenze si sono trascurate le basilari regole di sostituzione graduale: gli esperti indicano nel 2-3% del patrimonio arboreo cittadino la quota di alberi da sostituire annualmente (quota che si è ampiamente superata nei tagli dell’agosto scorso). Si è trascurato il valore culturale del paesaggio vegetale che risale in buona parte al disegno urbano postunitario di Firenze capitale. I magistrati rilevano la mancata regolarità nella programmazione della manutenzione che ha provocato il decadimento delle condizioni di molti esemplari arborei, per i quali si è dovuto procedere all’abbattimento; ciò è avvenuto anche nelle zone della città sottoposte a vincolo paesaggistico.

In nome della santa sicurezza, l’amministrazione prevede nel bilancio del 2017 ben dieci milioni di euro (con un incremento del 3.600% rispetto al bilancio 2014, parola dell’assessore all’ambiente Alessia Bettini, intervistata da Radio radicale) dedicati al verde urbano, per abbattimenti, sostituzioni e reimpianti. In mancanza di una seria programmazione e progettazione del verde, i tagli sono avviati d’urgenza nei mesi estivi, poco indicati anche per via delle nidificazioni dell’avifauna selvatica, e procedono di gran carriera; con cantieri improvvisati, gli abbattimenti avvengono a tappeto nell’agosto più caldo degli ultimi cento anni. Le procedure democratiche saltano. Il consiglio comunale non è avvertito dell’operazione che investe la città. I lavori sono avviati con determine del sindaco. Alla commissione Ambiente in cui il grande taglio è presentato ai consiglieri, l’assessore non si palesa. Ai cittadini, tenuti all’oscuro, non resta che constatare il fatto compiuto.

Ma comitati e associazioni ambientaliste promettono battaglia.

La Repubblica, 11 settembre 2017
«La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». Dalla Costituente fino all’eterna battaglia esegetica intorno al dettato dell’articolo 9 della nostra Costituzione, il dibattito si è soprattutto concentrato sulla parola «Repubblica »: è lo Stato-persona (cioè lo Stato apparato centrale, in opposizione alle autonomie territoriali), o è invece lo Stato-ordinamento (cioè tutto il sistema istituzionale, ivi comprese le autonomie locali di ogni grado)?

In questi settant’anni (tra sentenze della Corte costituzionale, riforme del titolo V, statuti delle regioni) le risposte sono state diverse, e spesso contraddittorie. Si sarebbe potuto, dovuto, determinare un assetto giuridico che spingesse lo Stato e gli enti locali ad esercitare armonicamente il comune compito della tutela: costruendo insieme una maggiore, e non già una minore, tutela. Nei fatti è accaduto esattamente l’opposto, perché l’assedio giuridico e politico alla «Repubblica» dell’articolo 9 non è stato condotto in nome del diritto dei cittadini a una maggiore partecipazione nella difesa di questi loro beni comuni, ma, al contrario, in nome del consumo di quei beni da parte di amministratori infedeli: insomma, si è colpita la parola «Repubblica» per affondare la parola «tutela».
Ma l’elevazione costituzionale della tutela e della sua attribuzione a tutta la Repubblica ha anche un significato più profondo, quanto trascurato. Nel senso di vigilanza e impegno civile, dopo il primo gennaio 1948 essa spetta ad ogni articolazione della Repubblica: e cioè a ogni cittadino, alle istituzioni (come la scuola, o l’università), alle amministrazioni pubbliche di ogni grado o genere. E dobbiamo essere capaci di leggere in questa chiave i tanti conflitti che si innescano intorno al governo del territorio. È il caso dell’esemplare soprintendente della Sardegna meridionale Fausto Martino, che resiste al potere politico regionale fino ad essere accusato (senza alcun fondamento) di esorbitare dal proprio ruolo. Ed è il caso della archeologa precaria Margherita Corrado, che richiamando al proprio dovere una soprintendenza invece inadeguata esercita con coraggio la tutela nella difficile terra di Calabria, dove sono i clan malavitosi a guidare la devastazione di paesaggio e patrimonio. È il caso dei mille comitati italiani costituiti per salvare un pezzo del Paese a loro prossimo, e caro: a Rimini si presentano esposti in procura per difendere il Ponte di Tiberio, insidiato da assurdi lavori promossi dai poteri pubblici; in Veneto seicento cittadini sfilano in una fiaccolata per difendere il Castello del Catajo e il celebrato paesaggio dei Colli Euganei dalla colata di cemento dell’ennesimo ipermercato; a Cosenza un gruppo di intellettuali tenta disperatamente di far conoscere all’Italia il disfacimento infinito della superba città vecchia, culminato quest’estate in un incendio terribile per uomini e storia.
Si tratta di battaglie difficili, sia che si combattano contro forti interessi speculativi sia che abbiano il loro avversario nella inerzia delle amministrazioni. La loro sola possibilità di successo è incontrare l’interesse della stampa e dunque riuscire a colpire l’opinione pubblica. La politica dei professionisti ha sempre guardato con sufficienza a questo mondo, liquidato anche di recente con battute sprezzanti sui «comitatini » locali. È un grave errore, perché è anche — e ormai forse soprattutto — attraverso questa rete di cittadini che possiamo sperare di salvare la forma (naturale, artistica, culturale) dell’Italia. È attraverso questa spontanea e diffusa magistratura del territorio che la Repubblica, nonostante tutto, tutela.

«Ex Caserma Masini. Oltre 10mila in piazza dopo gli sgomberi del Làbas e di Crash, l’8 agosto. Il sindaco Merola corre ai ripari e promette un’altra sede». Ha compreso che il potere urbanistico non è della CDP. il manifesto, 10 settembre 2017

Almeno diecimila persone in corteo a Bologna per «riaprire Làbas» ieri hanno cambiato il segno dell’estate dei manganelli e degli sgomberi. Tra i portici e i viali ha sfilato una densa rappresentanza plurale, e non riconciliata, della sinistra politica, dei movimenti e dei sindacati che hanno risposto all’appello degli attivisti dell’ex Caserma Masini sgomberata l’8 agosto scorso insieme al laboratorio Crash. Altrove diviso, spesso invisibile, stretto dalla repressione, questo schieramento è stato il risultato di una campagna efficace e l’effetto della percezione di un pericolo estremo: il deserto politico chiamato «legalità» e «decoro».

Gli sgomberi di Crash e Làbas sono stati considerati la goccia che ha fatto traboccare il vaso tanto a Bologna, quanto nel resto del paese. L’apice di una stagione di eventi drammatici, come quello dei rifugiati eritrei da piazza Indipendenza a Roma, mentre la politica è ostaggio dai poteri di polizia e della magistratura. In questo vuoto democratico, dove prevalgono le istanze di una legalità astratta e un razzismo diffuso, ieri è stata data una risposta di segno opposto. «Ogni città prende forma dal deserto a cui si oppone» sostengono gli attivisti di Làbas.
Non è mancata l’ironia sui paradossi della situazione. «Il popolo di Bologna sa tenersi cari i suoi poeti e anche i suoi ribelli – ha detto all’inizio del corteo Lodo Guenzi, il cantante de «Lo Stato Sociale», citando beffardamente una prolusione del sindaco Merola su Freak Antoni degli Skiantos – Una persona che piange al suo funerale faccia in modo che i ribelli di oggi diano nuova vita alla loro città».

La manifestazione è stata preceduta da un risultato importante. In una lettera il sindaco di Bologna Virginio Merola ha assicurato che entro due mesi sarà data a Làbas una soluzione «ponte». L’opzione più accreditata è quella di vicolo Bolognetti, già sede del quartiere San Vitale dove per cinque anni ha operato l’occupazione. Le attività di Làbas dovrebbero trasferirsi in seguito nell’ex caserma Staveco, dove sono previsti anche i nuovi uffici giudiziari. «Pensate che bello, gli uffici della legalità accanto alla vita della società. Comune è quello che fate voi, questo è il comune» ha ironizzato Alessandro Bergonzoni a una piazza XX settembre gremita.

A metà agosto su questa assegnazione è scoppiato un conflitto tra il sindaco e i magistrati bolognesi, contrari a questa soluzione. Per gli attivisti di Làbas, invece, si tratta di «una straordinaria conquista per la città» perché «ci permette di dare continuità e non disperdere le attività» che hanno riscosso il consenso degli abitanti di San Vitale. Il senso di questa «conquista» è considerato anche rispetto alle altre realtà sgomberate (Crash, che terrà un concerto-protesta in piazza Verdi giovedì 14) o sotto sgombero (XM24).

Il ritorno alla politica potrebbe arrestare la catena di sgomberi e rimettere in discussione il «Piano Operativo Comunale» (Poc) con il quale la giunta Merola (Pd) intende ridisegnare il futuro urbanistico di Bologna. Làbas chiede un cambio del Poc e un uso socialmente utile degli spazi e delle case vuote. Il criterio è quello della rigenerazione urbana realizzata attraverso processi di partecipazione e auto-governo, necessari per affrontare l’emergenza abitativa e la richiesta diffusa di culture e relazioni. Su queste pratiche a Bologna si può avviare un «processo di convergenza» tra «migliaia di persone» sostiene Detjon Begaj, consigliere di Coalizione civica nel quartiere di Santo Stefano.

Questo processo dovrebbe essere «sostenuto da attività organizzate dal basso che mirano a costruire qualcosa con le persone e non per gli utenti» sostiene un documento che ha raccolto l’adesione dell’XM24, Consultoria, Usb Asia e altre realtà. Una dialettica «non riducibile alla forma associativa o al patto collaborativo» precisano. Si tratta di una critica alla sussidiarietà del welfare che trasforma l’auto-organizzazione in un erogatore di un servizio che lo Stato non intende più fornire, e non in un «laboratorio di sperimentazione politica dal basso». In questa tensione, tipica di una democrazia conflittuale, si è collocato il corteo a cui hanno partecipato anche Maurizio Acerbo (Rifondazione), Giorgio Cremaschi (Eurostop) e i sindacati di base (Adl Cobas, Usb).

«L’amministrazione deve cogliere la ricchezza del corpo più profondo – sostiene Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) – questi progetti non possono essere derubricati a semplice ordine pubblico». «La politica deve adattare gli strumenti amministrativi per rappresentare questa aspirazione e queste pratiche. Senza queste esperienze le città diventano più povere» commenta Federico Martelloni, già candidato sindaco e consigliere comunale per Coalizione Civica. «Il corteo ha avuto il grande merito di porre questione vere sul futuro di Bologna che vive la rivoluzione 4.0 nelle fabbriche e la trasformazione urbana – sostiene Michele Bulgarelli, segretario Fiom di Bologna – Si è creata una larga coalizione da Libera all’Anpi, all’associazionismo, realtà autogestite, partiti e sindacati a sostegno di un nuovo progetto».

a Repubblica, 9 settembre 2017, con postilla (m.c.g.)

Caro direttore, ho visto l’articolo dedicato da Repubblica al parcheggio che verrà realizzato a Bergamo in via Fara. Leggendolo si ha l’impressione che l’intervento sia frutto di una decisione avventata, in contrasto con il recente riconoscimento delle Mura venete come parte del patrimonio Unesco. Non è così. Il progetto del parcheggio risale al 2004 ed è accompagnato da un contratto impegnativo per il Comune. Uscirne, vista anche la colpevole inerzia dell’amministrazione precedente, avrebbe significato secondo la nostra avvocatura affrontare un contenzioso e, con ogni probabilità, dover risarcire la controparte per svariati milioni di euro.
Non si tratta affatto di un “ecomostro”, bensì di una struttura totalmente interrata, praticamente invisibile alla conclusione dei lavori, che l’Unesco - puntualmente informata sulla previsione - non ha giudicato in alcun modo in contraddizione col prestigioso riconoscimento che ha voluto attribuire alle nostre Mura. Anzi, siamo convinti che possa contribuire alla tutela e alla valorizzazione di Città Alta.
Il progetto che abbiamo varato - pur rispettando i vincoli del contratto iniziale - è infatti profondamente diverso dal punto di vista funzionale. Il parcheggio di via Fara, collocato alla base del colle di Città Alta, diventerà l’unico luogo dedicato alla sosta dei visitatori, ponendo fine all’assalto cui è sottoposto ogni angolo del borgo storico. Tutti i posti auto lungo le Mura saranno di conseguenza lasciati ai residenti e questo ci consentirà di liberare dalle macchine - esattamente come auspicava Le Corbusier - alcune meravigliose piazze del borgo storico, oggi tristemente adibite a parcheggio.
Questo è il progetto, correttamente raccontato. Lo abbiamo approvato in Consiglio comunale a larga maggioranza, senza mai sottrarci al confronto con le associazioni dei cittadini. Rispettiamo pertanto le seimila firme che ci sono state consegnate qualche giorno fa (pur sapendo che nessuna di queste è certificata e che oltre la metà dei firmatari non abita a Bergamo). Ma riteniamo che la nostra scelta sia quella giusta, per tutelare gli interessi dei cittadini (i soldi del Comune sono soldi loro) e per realizzare quella rivoluzione della mobilità che ci permetterà di proteggere e di valorizzare la bellezza di Bergamo Alta.

postilla
Stupisce la differenza di stile fra l’articolo di Paolo Berizzi pubblicato su la Repubblica e la risposta del sindaco: il primo aggressivo e partigiano, la seconda molto tecnica e garbata. Poiché non avevo seguito la vicenda, mi sono informata e ho trovato, sulla stampa locale, una lettera aperta molto dettagliata rivolta ai cittadini, firmata dal sindaco e dalla giunta, che spiega le ragioni della scelta, i cambiamenti apportati al progetto originario e i vantaggi che si otterranno nel governo della mobilità su gomma in Città Alta. Per inciso, nulla di simile si è mai verificato a Milano in merito ai progetti più controversi: in genere, si "mandano avanti" i consulenti prezzolati dell’accademia; in genere non si risponde nel merito ai cittadini organizzati in comitati; in genere, se si apportano modifiche, sono sempre a favore degli interessi immobiliari.

La voce dei comitati civici è indubbiamente rilevante (anche se nell’articolo sembra essere l’unica fonte utilizzata); ma anche il cambiamento di passo della attuale giunta e, in particolare, la natura intelligentemente riformista di alcuni recenti provvedimenti urbanistici meriterebbero l’attenzione di un grande quotidiano di diffusione nazionale che dovrebbe privilegiare il giornalismo d’inchiesta rispetto a quello dell’insulto. Invece la tecnica dell’insulto e dell’aggressione sembra aver fatto scuola, partendo dall’esempio "storico", davvero censurabile, delle celie indirizzate da Francesco Merlo all’allora sindaco Ignazio Marino, irriso per “le cene a sbafo, bottiglie di vino a scrocco, ma senza la simpatia del vero morto di fame, del Totò che dice: a proposito di politica… ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?”.

Nell’imminenza delle elezioni regionali, sarebbe sembrato più che opportuno che il giornalista di Repubblica autore dell’articolo riportasse anche il parere dell’amministrazione in carica, e in particolare del sindaco di Bergamo il quale, ad oggi, sembrerebbe essere il candidato più competitivo nei confronti della maggioranza che ormai da decenni governa, o meglio sgoverna, la Lombardia. Viene il sospetto che, come il quel caso, l’insulto sia strumentale all’avvio di una ennesima campagna elettorale condotta in modo irresponsabilmente divisivo. (m.c.g.)

il manifesto, 9 settembre 2017


«Sardegna bene paesaggistico d’Italia». Si intitola così l’appello che architetti, urbanisti, storici dell’arte, giuristi, archeologi e giornalisti hanno lanciato contro la legge urbanistica che la giunta regionale sarda sta per presentare in consiglio per l’approvazione. Tra i firmatari ci sono molti nomi di grane autorevolezza, da sempre impegnati sul fronte della difesa del paesaggio e dell’ambiente. Tra gli altri, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Vezio De Lucia, Vittorio Emiliani, Maria Pia Guermandi, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari, Edoardo Salzano e Salvatore Settis. Ai quali si aggiungono il vicepresidente della Federparchi Tore Sanna e i membri della Consulta delle associazioni ambientaliste dell’isola Maria Paola Morittu, Antonietta Mazzette, Sandro Roggio, Stefano Deliperi, Carmelo Spada e Alessio Satta.

«Il Piano paesaggistico della Sardegna (Ppr) approvato dalla giunta Soru nel 2006 – si legge nel testo – è obbligatorio secondo il Codice dei beni culturali e del paesaggio ed è strumento indispensabile per la difesa delle coste della Sardegna, nonché ottimo esempio per altre esperienze di pianificazione. In questi dieci anni ha resistito al referendum abrogativo contro la “Legge salvacoste” del 2004, suo presupposto, e a numerosissimi ricorsi presso i tribunali, oltre che al goffo tentativo di cancellarlo fatto (…) dal governo di centro destra di Ugo Cappellacci».

Dopo la difesa del Ppr, le obiezioni di merito: «L’attuale governo di centrosinistra alla guida della Sardegna – scrivono i firmatari dell’appello – nel marzo scorso ha approvato un disegno di legge che contiene gravi deroghe al Ppr in violazione dell’articolo 9 della Costituzione (…). La legge, se sarà approvata, sarà certamente dichiarata incostituzionale, ma nel frattempo produrrà la destabilizzazione della tutela del territorio della Sardegna, con effetti devastanti specialmente nella fascia costiera». «L’obiettivo del disegno di legge – continua l’appello – è soprattutto evidente in alcuni articoli che darebbero vita a un programma di deroghe alle norme di tutela paesaggistica durevole, con l’ampliamento di alberghi a pochi passi dal mare (articolo 31), favorendo grandi progetti pure in contrasto con il Ppr sui tratti di costa non ancora toccati dal cemento (articolo 43)».

«Allo stesso obiettivo di allontanamento dalla vigente disciplina di tutela – prosegue l’appello – vanno ascritte le inaccettabili critiche mosse da esponenti della giunta regionale al soprintendente Fausto Martino, al quale va la nostra solidarietà e il nostro apprezzamento per la benemerita azione che svolge in difesa dei beni culturali della Sardegna». Il riferimento è alla lettera che nei giorni scorsi l’assessore all’urbanistica della giunta regionale sarda, Cristiano Erriu, ha spedito al ministro dei beni culturali Dario Franceschini. Secondo Erriu, il soprintendente al paesaggio della Sardegna in alcune sue dichiarazioni sarebbe uscito dai limiti della sua carica istituzionale per esprimere giudizi di merito politico sull’operato della giunta. Secondo i firmatari dell’appello, invece, e secondo il fronte ambientalista (sardo e nazionale), Martino non ha fatto altro che compiere il suo dovere, richiamando la giunta al rispetto delle leggi, a cominciare dalla Costituzione. Anche il ministro Franceschini, che ieri ha incontrato il soprintendente, lo difende: «Le azioni di Fausto Martino sono in linea con la scelta del Governo di impugnare la legge sarda in materia urbanistica»», ha detto riferendosi alla legge sulle manutenzioni edilizie appena bocciata dal Consiglio dei ministri.

L’appello contro la nuova legge urbanistica si chiude con un invito al presidente della Regione, Francesco Pigliaru, «non solo a confermare il livello di tutela previsto dal Ppr, ma anche ad estenderlo alle zone interne dell’isola» e la richiesta «di sospendere l’iter di approvazione del disegno di legge, avviando un riesame del testo alla luce delle numerose e autorevoli critiche espresse in questi mesi». Le adesioni all’appello possono essere inviate alla Consulta delle associazioni ambientaliste della Sardegna: consulta.sardegna@tiscali.it

la Repubblica, 6 settembre 2017, con postilla

Ma andiamo per ordine: lo scorso 29 agosto, su proposta del premier Paolo Gentiloni, il Consiglio dei ministri ha impugnato la legge sarda sulle misure urgenti per l’edilizia e l’urbanistica approvata il 3 luglio perché considerata in contrasto con le norme statali in materia di paesaggio e per aver violato l’articolo 117 della Costituzione, quello che disciplina le potestà legislative dello Stato e delle regioni. Stessa sorte, all’inizio del mese di agosto, aveva subìto la norma varata dalla giunta De Luca in Campania per fermare la demolizione degli edifici abusivi. L’ultima è di qualche giorno fa, quando l’assessore sardo all’urbanistica Cristiano Erriu, ex Dc e Popolari approdato al partito di Renzi, ha inviato al ministro dei beni culturali Franceschini una nota dai toni risentiti per chiedere la testa del sovrintendente Martino, un atto senza precedenti nella storia dell’autonomia sarda.

L’accusa rivolta al dirigente statale è di essersi espresso pubblicamente contro la politica urbanistica dell’amministrazione Pigliaru e di aver difeso con zelo eccessivo il vincolo di inedificabilità dei trecento metri dal mare dalle richieste dei costruttori, in testa la Sardinia Resort del Qatar: «Ha pregiudizi – è scritto nella lunga nota – e con lui è difficile qualsiasi interlocuzione, d’ora in poi con Martino non parleremo più».

Effetto immediato, gli ispettori del Mibac pronti a calare negli uffici sardi, col sovrintendente che affida il proprio pensiero a poche parole: «Non sapevo che manifestare opinioni fosse un reato, comunque in questi anni non ho fatto altro che chiedere il rispetto delle norme, mi pagano per questo».

Originario di Salerno, Martino è un architetto che la sa lunga anche sugli aspetti giuridici della materia paesaggistico-ambientale. Nel suo passato un confronto piuttosto intenso con l’attuale governatore della Campania Vincenzo De Luca e in Sardegna, siamo ai tempi recenti, una serie di interventi che tra l’altro hanno fermato un generoso condono edilizio sollecitato dal parlamentare del centrodestra Pierpaolo Vargiu, il taglio indiscriminato della meravigliosa foresta del Marganai nel sud dell’isola, oltre ad aver contrastato l’applicazione di un piano casa della Regione sospettato di assomigliare troppo a quello della giunta Cappellacci, già bocciato dalla Consulta.

Uomo determinato, Martino sarebbe riuscito a bloccare anche il raddoppio della discarica dei fanghi rossi, un immenso spazio devastato dove da decenni l’Eurallumina di Portoscuso scarica i suoi veleni. Gravato da usi civici, quel sito sarebbe intoccabile, ma pur di superare lo scoglio normativo si è mosso il senatore sardo Silvio Lai (Pd): a luglio è riuscito a far inserire nel decreto del Sud (la legge 91 del 2017) un emendamento di poche righe col quale il vincolo degli usi civici viene cancellato.

Un pensiero rivolto dallo Stato alla Sardegna, dove la partita su cemento e paesaggio promette un autunno ancor più caldo dell’estate.

postilla

Siamo stati tra i primi a denunciare lo stravolgimento del piano paesaggistico regionale della Sardegna operato dall’attuale presidente della Regione, il piddino Francesco Pigliaru, che abbiamo giudicato essere ancora peggiore del suo predecessore berlusconiano Ugo Cappellacci. Abbiamo giudicato intollerabile, anche dal punto di vista dei rapporto tra le pubbliche istituzioni, il suo ukase contro il soprintendente Fausto Martino, denunciato per aver adempiuto correttamente al suo ruolo di vigile guardiano della tutela del paesaggio in nome degli interessi generali della nazione e dello stato, e ci siamo congratulati con lui per la correttezza e l’utilità sociale della sua azione. Non siamo stati i soli ad assumere questo atteggiamento nei confronti dell’attuale presidente della Sardegna e del suo ineffabile assessore all’urbanistico. Sull'argomento si vedano su eddyburg le interviste di Edoardo Salzano a la Nuova Sardegna e al manifesto, e gli articoli di Costantino Cossu, di Antonietta Mazzette e di Sandro Roggio.

la Repubblica, 7 settembre 2017 (c.m.c)


Una frana è più di un macigno. E una figura di palta può generare un dissesto più rognoso di qualsiasi penale. Se poi in nome dello sviluppo urbanistico sfregi con uno scavo di 70mila metri cubi di terra un patrimonio dell’umanità, forse rischi il destino di Tafazzi. È la morale di quanto sta succedendo da sei giorni, ruspe al lavoro, a Bergamo alta: sulle Mura venete, fiore all’occhiello della città. Mura insignite dall’Unesco del titolo più prestigioso per un sito.

La storia, venuta al pettine dopo 13 anni, è complessa. Ma essenziale nel suo scheletro. Protagonista è un mega parcheggio interrato: nove piani per 496 posti auto. Auto di turisti e visitatori. Un bestione così, di norma, trova posto ovunque tranne che nei centri storici. Figurarsi in un gioiellino che vanta vestigia medievali, botteghe di età romana, opere della Serenissima tra cui, appunto, i baluardi e le porte veneziane. Dunque a Bergamo dove sorgerà l’autosilo? Qui, all’interno della cinta muraria tutelata. Al di sotto dell’ex parco faunistico della Rocca, polmone verde geologicamente delicato.

Nel 2008 è venuta giù una frana mentre si stava iniziando a scavare. Adesso gli operai si sono rimessi all’opera nonostante le vibranti proteste dei residenti e, più in generale, dei bergamaschi a cui l’idea di vedere violentate le Mura dell’Unesco fa venire l’ulcera. «Fermate questa vergogna» — tuona Giovanni Ginoulhiac, tra i promotori del comitato NoParking Fara che da mesi chiede al sindaco Giorgio Gori di fare marcia indietro. L’altro giorno hanno consegnato al primo cittadino 6.383 firme “contro”. Prima ci sono state manifestazioni di protesta, appelli, richiesta di carte e di cifre (quelle mai comunicate a cui ammonterebbero le penali per il mancato rispetto della convenzione stipulata dall’amministrazione con Bergamo Parcheggi). Le hanno tentate tutte, per contrastare il cantiere. Zero. Il sindaco ha azionato gli escavatori. «È la migliore soluzione per un’eredità difficile», ha scritto Gori a fine giugno in una lettera ai cittadini.

Torniamo alla frana del 2008: in pericolo non finirono solo le abitazioni adiacenti il cantiere, ma anche l’ex convento di San Francesco, la Rocca, la porzione di Mura venete sottostanti. Da allora il progetto fu congelato (e la frana tamponata in emergenza con tonnellate di materiale al centro di un processo per discarica abusiva di rifiuti speciali tossici a carico dell’imprenditore Pierluca Locatelli). Una frana, evidentemente, non è bastata. Accadesse di nuovo? «Lo scandalo è doppio — attaccano i NoParKing — La messa a rischio di un patrimonio storico e il non senso di una scelta in controtendenza rispetto a quello che stanno facendo tutte le città europee: portare le auto fuori dai centri storici».

Con il nuovo parcheggio (costo 18 milioni: 70% privato e 30% pubblico), in Città alta le auto dei turisti entreranno 24h24. Alla faccia delle fasce Ztl introdotte proprio per decongestionarla. A ottobre 2016 la giunta ha approvato la nuova convenzione per il via all’autosilo. «Siamo obbligati, altrimenti pagheremmo penali stratosferiche», hanno ripetuto da Palazzo Frizzoni. Sull’eventuale salasso pecuniario, però, aleggia una nebulosa. Si rimanda al parere dell’avvocatura comunale. La quale tuttavia il 20 febbraio 2017 scrive: «Nessun parere è stato formulato dallo scrivente ufficio sull’opportunità di proseguire i lavori afferenti alla realizzazione del parcheggio».

«L’eredità scomoda», dunque. La patata bolle dal 2004. Tre giunte si scaricano la palla. Poi arriva Gori e decide di metterla in rete. «L’obiettivo è togliere le auto dalle piazze: per questo il parcheggio sarà riservato ai residenti e ai lavoratori del centro storico». Ma l’autosilo, sorpresa, sarà invece destinato ai turisti. I commercianti già sognano l’effetto Firenze o Venezia. Gioisce l’impresa assegnataria (Collini spa), coinvolta in un’indagine conclusasi nel 2010 con un patteggiamento per turbativa d’asta e corruzione.

E gli altri? Legambiente e Italia Nostra vedevano il parcheggio come il fumo negli occhi: la prima si è rassegnata, la seconda inabissata. E L’Unesco che dirà? Curiosità: Gori abita a 300 metri dal cantiere della discordia e è iscritto al circolo Pd di Città alta. Che resta assai contrario. «Abbiamo chiesto un dialogo, ma il sindaco non ha dato retta a nessuno», — dice il segretario dem Alessandro Tiraboschi. Qualcuno ricorda il commento di un ammirato Le Corbusier in visita a Bergamo nel 1949: «Le automobili dei visitatori devono essere lasciate fuori dalla città vecchia». Parole al vento.

«Gli alberi sono una delle componenti del paesaggio urbano e il paesaggio è un organismo complesso che richiede molti sguardi».il Fatto Quotidiano online, 1 settembre 2017 (c.m.c.)

Gli alberi non sono solo una faccenda per agronomi, proprio come gli esseri umani non sono solo una faccenda per medici. Senza alberi l’uomo non campa, invece gli alberi camperebbero meglio senza uomini. In questi giorni a Firenze, città perfetta, accade qualcosa di grave agli alberi e agli uomini.Dieci milioni di euro per il verde. Come racconta l’assessora all’ambiente di Firenze, Alessia Bettini, intervistata a Radio radicale (minuto 3.44 del podcast del 13 agosto delle ore 15.00) ha destinato ad alberi e piante dieci milioni per il 2017 contro i 285mila dell’amministrazione precedente (giunta Renzi). Bene, abbiamo pensato, chissà quanti alberi nuovi e quante cure per quelli vecchi. Ma i quattrini, si sa, non basta averli. E con quella cifra abnorme, in pochissimi giorni, stanno stravolgendo a colpi di motosega uno dei paesaggi urbani più conosciuti al mondo.

La scuola di Agraria di Firenze, con il professor Francesco Ferrini e l’ordine degli agronomi hanno collaborato con il Comune, dice l’assessora. Insomma, il risultato è che abbattono poco meno di 300 alberi e ne pianteranno 800 nuovi. Ma per ora si vedono dolorosi abbattimenti. Tanto terribili che hanno innescato una pioggia di critiche anche se la città è in apoplessia feriale. Critiche anche da parte di altri agronomi. Però dai loro profili – ormai siamo profili – i sostenitori dei tagli raccontano che bisogna lasciar fare agli esperti. Ohiohi, quante volte l’abbiamo sentita questa faccenda degli esperti.

Strada dopo strada, angolo dopo angolo stanno modificando – con una brutalità che inquieta – luoghi che eravamo abituati a vedere da mezzo secolo e più con le loro alberature. In altre parole cambiano in pochi giorni il paesaggio di Firenze. Cacciano via, con la motosega, l’anima di piazze e viali. Viale Corsica e i suoi 49 ippocastani (di cui 20 pericolanti) tutti segati per sostituirli con un orribile alberello che è diventato un simbolo di questo cambiamento pericoloso. Il pero cinese. Una pianta piccola, infestante, che farà mai ombra, mai fresco e meno ossigeno. E i pini della stazione? Anche quelli segati. Chi arriva a Firenze penserà d’essersi perso. E gli olmi mozzati in piazza San Marco? Un paesaggio scempiato.

Fermarsi, riflettere e migliorare il piano attuale? No, vanno avanti. Eppure gli argomenti per fermarsi e i dubbi sono tantissimi. Anche i bambini sanno che la città è una metafora del cambiamento e della vita stessa. Ma tutto, benessere e malessere, sta nelle modalità del cambiamento, nella sua entità e velocità. Ovvio pure che anche gli alberi hanno una vita e muoiono, ovvio che tra qualche anno i nuovi alberi ricresceranno.

Ma non si può – rudimenti di urbanistica – affidare il paesaggio di Firenze agli agronomi, per quanto bravi e appassionati. Loro vedono solo alberi. Non sono tenuti a vedere il contesto. Gli alberi sono importanti, vitali, ma sono una delle componenti del paesaggio urbano e il paesaggio è un organismo complesso che richiede molti sguardi, molte conoscenze, molti occhi e teste.

Firenze possiede dieci milioni e li usa per abbattere alberi e non per curarli? Erano tutti incurabili e pericolanti? E la scelta dei peri cinesi in viale Corsica? Sembra una bestemmia botanica. Chi arriverà e troverà peri cinesi si chiederà dove diavolo è finito. Firenze ha una sua anima che non rassomiglia a quella delle città dove piantano peri orientali. E quell’anima vincerà. Però nel frattempo dovrà rinunciare a un poco d’ombra, fresco e ossigeno. E sarà meno bella e felice.

E poi uno si fa domande. Come si spendono dieci milioni di euro in alberi? Quanto costa abbattere e quanto valgono gli alberi? Da dove arrivano i nuovi? Non è cultura del sospetto questa. E’ cultura della curiosità. I vivai tengono in vita famiglie e rappresentano un’economia importante e sostenibile, certo. Ed è certo pure che l’agronomia è una scienza nobile. Ma che lo scrigno del sapere sia conservato nelle università è da dimostrare. Dalle mie parti, per esempio, l’università governa e si occupa di paesaggio. Sono gli esperti e sono pure di “sinistra”, però le cose vanno male.

Governare è difficile, si sa. Ma siamo tutti, senza eccezione, un po’ Erostrati, vogliamo lasciare un segno. Così anche la giunta che governa Firenze le studia tutte per non essere dimenticata. Con gli alberi segati un segno lo lascia di certo. La città ha superato situazioni terribili. Ma non si era mai dedicata a disfare crudelmente e repentinamente un tessuto urbano e una memoria che sono costati tanto tempo e sofferenza.

«Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa.
Il secondo momento migliore è adesso».(Confucio)

Corriere della Sera, 5 settembre 2017 (p.d.)

Caro Presidente, all’indomani dell’impugnativa del Governo sulla cosiddetta legge sulle Manutenzioni la Sardegna è tornata al centro dell’attenzione dell’Italia intera, cittadini e istituzioni, spaventati da una politica che sembra non tutelare a sufficienza, e anzi mettere a rischio, il prezioso patrimonio ambientale e paesaggistico della sua Regione, che proprio per esso, in Italia e nel mondo, spicca. Come Presidente del Fai non posso ignorare tale preoccupazione, che in parte - le confesso - sento anche io.

Prima dell’estate abbiamo preso atto, con grande soddisfazione, dell’iniziativa della sua Amministrazione di riformulare il testo della legge urbanistica che tante polemiche ha sollevato. Fin da subito ne abbiamo denunciato le criticità, perché su punti sostanziali - demolizioni e ricostruzioni, incrementi volumetrici e progetti ecosostenibili di grande interesse sociale - la riforma mostrava di voler procedere in deroga al Piano Paesaggistico Regionale e soprattutto secondo logiche inattuali, contraddittorie e poco rigorose.
Il rigore, invece, deve accompagnarci nell’affermare la tutela dell’ambiente e del paesaggio. Non è più tempo per lasciare ambiguità e spazi di interpretazione nella gestione del territorio, ché tutto quel che perdiamo, lo perdiamo per sempre. È innegabile la necessità di trasformare alcuni ambiti di paesaggio, anche per rispondere alle evidenti necessità di sviluppo industriale e turistico della sua Regione. Il paesaggio immobile è un paradosso e nessuno, tantomeno il Fai, crede più che la soluzione sia trasformarlo in una riserva museale. La trasformazione è un’opportunità, non una minaccia, ma se è ispirata e guidata da giusti principi: favorire progetti sostenibili, contenere il consumo di suolo, valorizzare i paesaggi e le loro storiche vocazioni, salvaguardare integrità delle coste e identità dei territori rurali, promuovere il riuso, la riqualificazione del già costruito e di quanto è compromesso e degradato.
Questi stessi principi sono virtuosamente enunciati nella premessa alla riforma urbanistica sarda e sappiamo che sono da lei ampiamente condivisi, ma è giunto il momento di vederli finalmente concretizzare nelle disposizioni di legge della sua Giunta. La Sardegna può essere un esempio per l’Italia, come è stato il suo Piano Paesaggistico Regionale, precoce e virtuoso strumento per una buona politica del territorio. È nelle sue mani oggi un’opportunità imperdibile, per affermare chiarezza di intenti e lucidità di visione. Questo chiedono i cittadini, e questo le chiede anche il Fai.
Abbiamo molto apprezzato la disponibilità della sua Amministrazione ad accogliere i nostri suggerimenti, facendo propri alcuni emendamenti alla riforma urbanistica avanzati dal Fai, che speriamo di ritrovare al più presto nella nuova formulazione della legge. Questo atteggiamento ci ha rassicurati, almeno per il tempo delle vacanze estive, ma nulla è ancora risolto. A quando, dunque, il nuovo testo?
Nel frattempo sta suscitando molte polemiche la cosiddetta legge sulle Manutenzioni, che mette mano agli «usi civici», baluardo di territori delicati, la cui pianificazione deve restare all’interno del Piano Paesaggistico. Purtroppo nessuna polemica, invece, ha suscitato l’emendamento al Decreto per il Sud proposto l’11 luglio dal Sen. Silvio Lai in Commissione Bilancio e approvato dal Governo (L.123/2017), che già di fatto sottrae agli «usi civici» i terreni interessati da piani di sviluppo industriale, aprendo la strada a trasformazioni del territorio in deroga al Piano Paesaggistico, e quindi senza la dovuta concertazione con il Mibact. Va quindi comunque lodata, a nostro avviso, l’impugnativa tempestiva e coraggiosa del Governo. Siamo ben lieti, anzi, di constatare quanto sia sempre più alta l’attenzione alla tutela del paesaggio, in particolare da parte del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e delle sue Soprintendenze. Tuttavia siamo qui oggi a chiedere azioni e rassicurazioni direttamente a lei, che presiede il governo del territorio sardo, perché colga quest’occasione per affermare una netta differenza tra il passato recente, meno consapevole del valore della tutela, e il presente, che sul paesaggio integro, protetto e valorizzato pone le fondamenta dello sviluppo della Sardegna e dell’Italia.
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