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La lettera di dimissioni dell'autore con la denuncia della deriva populista e anticostituzionale incarnata dall'attuale sindaco napoletano. Corriere del Mezzogiorno, 27 aprile 2014 (m.p.g.)

Quasi un anno fa (il 28 giugno 2013) descrissi su questo giornale le ragioni che mi avevano indotto ad accettare di far parte dell'Osservatorio cittadino permanente sui Beni Comuni istituito dal sindaco Luigi De Magistris. Oggi mi trovo ad esporre quelle che mi inducono a rassegnare le dimissioni.In questo mesi l'Osservatorio ha lavorato alacremente, sotto la direzione di Alberto Lucarelli e con il contributo di tutti i suoi membri. Da tutta Italia si guarda con speranza a questa esperienza, che cerca di tradurre in concreti atti di governo, sia pur locale, alcuni dei principi e delle istanze emerse in anni di riflessione giuridica e culturale sui beni comuni. E l'Osservatorio napoletano è arrivato a preparare alcune delibere che, ove fossero davvero adottate dalla giunta, segnerebbero un indiscutibile punto di svolta nella restituzione alla collettività di alcuni grandi spazi pubblici e privati ormai socialmente improduttivi, e anzi abbandonati da anni.

Ciò che, al contrario, non ha funzionato è stato il rapporto con il sindaco stesso, che non ha mai dato alcun segno concreto di interesse per il nostro lavoro. Al punto che è lecito chiedersi se mai quelle delibere saranno varate. Concludevo quell'articolo del giugno scorso assicurando che «se gli orecchi del sindaco non saranno aperti, sarò io a chiamarmi fuori: perché certo l'ultima cosa di cui ha bisogno il governo di Napoli sarebbe un'inutile foglia di fico accademica». Ecco, quel momento è arrivato.Perché questo visibile disinteresse si è accompagnato a segnali sempre più negativi, specialmente nelle politiche per la cultura. Il licenziamento degli assessori Antonella Di Nocera e Luigi De Falco era già stato un pessimo segnale. A cui vanno aggiunti l'abbandono del patrimonio monumentale comunale, il cronico disinteresse per la martoriata Villa Comunale e per le sorti della biblioteca di Marotta e soprattutto l'ambiguo silenzio sulle sorti di Bagnoli. De Magistris non ha mai ritenuto di rispondere alla lettera aperta indirizzatagli da Lucarelli e da chi scrive su queste pagine a proposito della ricostruzione della Città della Scienza: che a nostro giudizio non può rinascere dov'era e com'era, ma solo nel rispetto del vincolo paesaggistico e della legge.

A tutto questo si aggiunge ora un segnale politico gravissimo. De Magistris ha deciso di concedere Piazza Plebiscito alla Nutella, trasformando uno spazio pubblico simbolicamente cruciale in una specie di grande centro commerciale. Una scelta a mio giudizio sbagliata, ma ovviamente legittima. Quella che non è legittima, e che con le mie dimissioni intendo denunciare di fronte alla città, è invece la dichiarazione con la quale il sindaco ha attaccato la Soprintendenza architettonica, rea di star valutando attentamente se l'evento arrecherà danni alla cortina monumentale della piazza. Dopo aver cercato una sponda politica nel ministro per i Beni culturali Dario Franceschini, De Magistris ha testualmente dichiarato che «Le piazze sono del popolo e dobbiamo renderle fruibili liberandole da orpelli ed imposizioni burocratiche».

Lasciamo perdere l'impostura di identificare il popolo con un marchio commerciale e i cittadini con dei consumatori: in questo De Magistris si adegua al vento neoliberista interpretato al massimo livello istituzionale da Matteo Renzi. Anche se dovrebbe ricordare che gli italiani, purtroppo, perdonano, e anzi approvano con entusiasmo, simili impuntature narcisistiche e demagogiche solo quando si manifestano in politici 'vincenti'.

Ma soprattutto una simile dichiarazione rivela un grado di analfabetismo istituzionale francamente impressionante in un ex magistrato. Le soprintendenze sono una delle poche garanzie che il popolo italiano veda rispettati i propri diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione. Chiunque le irrida e le attacchi come burocrazia sorda e grigia svela un tratto autoritario preoccupante: specie se le oppone al presunto interesse del popolo.Nessun serio discorso politico sui beni comuni può essere fatto contro le soprintendenze: delle quali si possono e si debbono criticare singoli atti, ma che non si possono violentemente delegittimare in nome di un presunto bene del popolo.

Da parte mia, infine, non intendo legittimare in alcun modo questa deriva, ed è per questo che mi dimetto irrevocabilmente dall'Osservatorio sui beni comuni. E invito le associazioni, i comitati e i cittadini napoletani che hanno a cuore il bene comune ad aprire bene gli occhi, e a giudicare chi ora, a Napoli, sta difendendo davvero i principi costituzionali.

Sull'argomento vedi anche, su eddyburg, "Mercificando, mercificando, che male ti fo?"

Una politica di spazi condivisi della mobilità e degli ambiti pubblici in rete, alla base delle politiche urbane, privilegiando il ruolo del sistema dei flussi rispetto a volumi e funzioni. La Repubblica Milano, 27 aprile 2014, (f.b.)

Piazzale Loreto cambierà volto. Da slargo informe e invaso dal traffico diventerà una vera piazza più legata alla città. Con attraversamenti pedonali, senza togliere troppo spazio alle auto. E il mezzanino del metrò che potrebbe diventare open air. È il futuro che il Comune sta immaginando per ricucire lo storico rondò e luogo simbolico al resto della città. In particolare a viale Monza e a via Padova. Un piano che si sta studiando ora, che prenderà forma dopo l’Expo, per riequilibrare i flussi in un piazzale che oggi, al 56 per cento, è occupato dal traffico automobilistico e per un quarto è considerata terra di nessuno. Per l’urbanista del Politecnico Gabriele Pasqui «piazzale Loreto da linea Maginot deve tornare a essere uno spazio pubblico».

È l’ultimo tassello di un piano con cui si stanno rimodellando molte piazze cittadine all’insegna della vivibilità. La giunta punta a riscoprire le piazze, è il mantra. E così piazza XXV Aprile, con la nuova Gae Aulenti, entrambe pedonali, sono già entrate nelle abitudini dei milanesi. Piazza Castello, di fatto, è già stata liberata dai motori. In piazza XXIV Maggio, poi, sono in corso i lavori per renderla semipedonale, in vista di Expo. Trasformazioni urbanistiche in centro, ma anche fuori: in piazza Leonardo da Vinci da un anno non transitano più motori davanti alla storica sede del Politecnico. E la prossima missione dell’amministrazione, tra un anno, sarà ripensare piazzale Maciachini, oggi solo snodo viabilistico e poco luogo di socialità.

Da slargo informe e caotico a piazza urbana viva e vissuta dalla città. Con più spazi e attraversamenti pedonali, senza togliere troppo spazio alle auto visto lo snodo, strategico, nello scacchiere degli spostamenti cittadini. E un mezzanino del metrò che potrebbe diventare a cielo aperto. È il futuro che il Comune sta immaginando per piazzale Loreto. Obiettivo: ricucire lo storico rondò al resto della città. Uno dei progetti del più ampio “piano piazze” che l’amministrazione sta realizzando. Il progetto è di rendere piazzale Loreto meno “autocentrico”, sganciandolo dalle necessità del traffico secondo l’impostazione classica degli anni Sessanta: auto sopra, metropolitana sotto, pedoni attorno, livelli tutti sganciati. Si cambia filosofia. Questo è il sogno di Palazzo Marino per uno degli incroci più affollati, che è stato tribunale partigiano, luogo simbolo nella storia di Milano.

Ci stanno lavorando gli esperti dell’Amat (Agenzia mobilità ambiente territorio, società del Comune) assieme a un team di consulenti di Mobility in chain. Oggi il 56 per cento del piazzale è occupato dal traffico automobilistico, il 25 per cento è considerato terra di nessuno e il 19 per cento, di fatto i marciapiedi intorno al rondò, ha una vocazione pedonale. La missione è garantire più o meno gli stessi flussi di traffico (49 per cento), assicurano i tecnici, ridisegnandoli. Ma raddoppiare gli spazi pedonali e abbattere al 5 per cento la porzione di piazza inutilizzata. Già due anni fa, d’estate, si era tentato un esperimento. Sul modello della newyorkese Columbus Circle: una rotatoria «obbligata», con l’interruzione della linea continua che unisce corso Buenos Aires a viale Monza attraversando la piazza.

Il nuovo progetto, ancora in divenire e da realizzare dopo l’Expo — anche perché servono almeno dieci milioni, tutti da trovare — , potrebbe mantenere questa impostazione. Oppure, è ancora da decidere, contemplare ancora l’attraversamento delle auto da un capo all’altro ma creando spicchi pedonali tra via Padova e via Costa e da viale Monza a viale Brianza. «Il progetto nasce per ridare centralità alla mobilità pedonale — spiega Federico Parolotto di Mobility in chain — oggi lo spazio centrale non è attraversabile, non è fruibile: il pedone passa o sotto usando il metrò oppure deve circumnavigare la piazza. Per questo l’idea è di rendere pubblici e senz’auto alcuni spazi a ridosso degli edifici per garantirne una migliore fruibilità».

Nel piano, c’è anche l’idea di aprire il mezzanino del metrò, magari con delle vetrate, per dare respiro al piazzale. Un progetto che ha anche una valenza sociale, secondo l’amministrazione: ricomporre la frattura con le vie intorno, specie via Padova e viale Monza. «Un’iniziativa su cui inizieremo a lavorare seriamente dopo l’Expo — spiega l’assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran — per recuperare una delle piazze che abbiamo lasciato diventare uno svincolo: il nostro non è solo un progetto di mobilità ma un lavoro urbanistico, e anche sociologico».

Più spazio alle persone, quindi. Per riappropriarsi di pezzi di città. Loreto sarà solo l’ultimo passo del processo che la giunta arancione ha avviato in città. L’esempio che secondo molti osservatori è più riuscito, in questo senso, è quello già terminato in piazza XXV Aprile, dove si è creato un asse naturale con piazza Gae Aulenti, a Porta Nuova, ormai entrato nelle abitudini di passeggio e passaggio dei milanesi. Dopo anni di ritardo nella consegna di un par- cheggio sotterraneo che ha fatto dannare il quartiere, oggi quella piazza è tornata viva. Una rivoluzione sta trasformando anche piazza Castello, già di fatto pedonale nelle strade intorno alla fortezza, anche se l’ufficialità si avrà con l’inaugurazione nel weekend del 10-11 maggio. Un esperimento, anche questo, per rianimare l’area con eventi e all’insegna della mobilità sostenibile, del basso impatto ambientale, della vivibilità. Accadrà, parzialmente, qualcosa di simile anche in piazza XXIV Maggio: è qui che, nel più ampio progetto di riqualificazione della Darsena in chiave Expo, si sta lavorando per rendere semipedonale la piazza sotto l’arco neoclassico del Cagnola. Zero auto al centro, solo mezzi pubblici e taxi, e uno spicchio d’acqua del Ticinello che verrà riscoperto per abbellire la piazza.

Riconcepire gli snodi cruciali della città. In centro anche piazza Sant’Ambrogio sta per riaprire al pubblico, senz’auto e con una nuova pavimentazione, dopo quasi dieci anni di palizzate per il contestato progetto di box sotto la basilica. E il Comune, in piazza Missori, vorrebbe creare un’ampia aiuola verde al centro, anche se non tutti i residenti sono d’accordo.

Fuori dal centro si è intrapresa una strada simile, l’anno scorso, anche in piazza Leonardo da Vinci, davanti al Politecnico. Stop ai motori davanti all’ingresso della sede storica dell’università, con il Comune pronto a condividere il progetto di un «campus sostenibile» di Politecnico e Statale, che punta ad alleggerire il quartiere dal traffico: aree pedonali, zone 30 e mobilità dolce nell’area intorno all’università, tra le vie Celoria, Ponzio e Bonardi. Una grande isola ambientale che nei prossimi mesi dovrebbe vedere la luce. Infine, dopo Loreto, la prossima sfida fuori dal centro sarà dare una nuova forma ai flussi di traffico di piazzale Maciachini. Altro snodo percepito quasi “ostile” e staccato, da ricollegare, anche socialmente, al resto della città

“È una linea Maginot che si può trasformare in cerniera urbana” (intervista a Gabriele Pasqui)
«OGGI piazzale Loreto funziona come snodo viabilistico ma non come spazio pubblico». Per Gabriele Pasqui, direttore del dipartimento di Architettura e Studi urbani al Politecnico, il progetto del Comune di «metterci mano è un’idea molto interessante ».

Pasqui, che ruolo devono svolgere le piazze oggi?«La piazza deve smettere di essere solo un luogo di passaggio e deve tornare a essere un luogo di socialità. Un’agorà. Più un punto di incontro, come in passato. Certo, senza esagerare».

Quali sono i rischi?«Nel caso di piazzale Loreto, non si possono sconvolgere troppo i flussi di traffico, altrimenti si rischia di bloccare tutto. Ma abbattere questa sorta di linea Maginot che si è creata negli anni è un’ottima idea».

Come si deve fare?«Deve diventare un luogo di cucitura urbana. Vanno creati ambiti che siano fruibili non solo alle auto. Quindi un recupero della pedonalità, verso la quale negli anni, a ogni progetto, ci sono state alzate di scudi, come in via Dante, ma poi se n’è apprezzato il valore».

Sono trasformazioni che hanno impatti sui cittadini?«Non ho mai pensato che un progetto per quanto bello determini i comportamenti, ma credo che ripensare gli spazi possa permettere alle persone di reinventarne usi diversi».

Cambiamenti così possono anche avere una sorta di valenza sociale, come nel caso di piazzale Loreto verso via Padova e viale Monza?«Una maggiore permeabilità tra corso Buenos Aires e le grandi vie che partono verso l’esterno non credo che di per sé garantisca integrazione sociale, ma è un modo per interconnettere spazi oggi separati. O percepiti tali».

Ma più spazi pedonali è l’unico modo per ridare dignità a una piazza?«Sedute, panchine, la possibilità di un incontro a un ritmo più lento, ripresa di urbanità. E il ridisegno dello spazio pubblico che già esiste, magari su giardini poco usati perché ostili».

Ci sono altri progetti in questo senso che ricorda in città?«In corso di realizzazione o appena realizzati sì. Come molti punti lungo la circonvallazione delle mura, da piazza XXIV Maggio a piazza XXV Aprile, snodi che sono diventati già anche potenziali luoghi di socialità».

Ci sono altri snodi viabilistici “ostili” in città?«Piazzale Maciachini, ma anche piazzale Lotto. Ambiti già socializzanti in sé, snodi di trasporto pubblico e privato. Ma dove come uso dello spazio si potrebbe lavorare molto per renderli meno slarghi e più piazze».

Venezia docet, e dopo Firenze, anche a Napoli cartelloni della pubblicità rendono osceni i monumenti più insigni. La cronaca di Silvia Truzzi e il commento di Tomaso Montanari a proposito del Palazzo Reale a Piazza Plebiscito. Il Fatto quotidiano, 25 aprile 2014

CHE NAPOLI È
SENZA NUTELLA?
di Silvia Truzzi,

Una gigantesca pubblicità su palazzo reale. Eppure in Piazza del Plebiscito sono vietati “eventi commerciali”
Può la Nutella far venire mal di pancia, anche senza mangiarne cinque chili? Assolutamente sì, e succede precisamente a Napoli. Protagonisti: la famosa crema di nocciole in odore di un importante genetliaco (50 anni) e un sovrintendente assai puntiglioso (ma non sempre). Location: la famosa piazza del Plebiscito nella sopracitata Napoli. Breve riassunto: qualche mese fa – informa il Mattino – un cartellone pubblicitario di notevoli dimensioni campeggiava, a copertura dei lavori di restauro, sulla facciata di Palazzo Reale con tanto di faccione di Gerry Scotti e Linus. A pochi metri da lì c’è l’ufficio del Sovrintendente Giorgio Cozzolino, che l’estate scorsa ha firmato un perentorio decreto per vietare in Piazza del Plebiscito “eventi a carattere commerciale”. Proprio lì c’era appena stato il concerto di Bruce Springsteen, attorno al quale si erano scatenate mille e una polemica. Che c’entra oggi tutto questo?

La Ferrero ha deciso di festeggiare i cinquant’anni della Nutella non ad Alba, bensì nella più assolata Napoli con un concerto gratuito, previsto per il 18 maggio, della popstar Mika.

In cambio l’azienda piemontese, oltre a pagare 50 mila euro per l’occupazione del suolo pubblico, s’impegna a restaurare le due statue equestri della piazza e ha offerto “disponibilità per altri eventuali aiuti”. Ma sarà considerato evento commerciale, e dunque incapperà nella scure del decreto di Cozzolino? Napoli fibrilla perché il concerto sta già richiamando moltissimi fan del cantautore libanese. Dal Comune obiettano che non si tratta di evento commerciale perché gratuito (per tutta la giornata: al mattino sono previste attività per i bambini, primi consumatori della Nutella). Luigi De Magistris, che da quando è sindaco ha litigato praticamente con chiunque, ha dichiarato che “la piazza simbolo della città deve vivere anche attraverso i grandi eventi internazionali, che rilanciano l’immagine di Napoli e producono ricadute positive sull’indotto economico e commerciale”. Gli eventi internazionali sono la sua passione (le prove dell’America’s Cup, la Coppa Davis, un improbabile invito ad Al Pacino), però (nonostante strascichi poco edificanti di alcune vicende) tocca dargli ragione. Anche se in città i detrattori degli eventi al Plebiscito ricordano i danni alla pavimentazione che arrecano i Tir quando montano i palchi o i ricordini sotto forma di graffiti che regolarmente lasciano gli spettatori . Dirimente sarà la decisione del Sovrintendente Cozzolino, oggetto di una polemica piuttosto vivace sulle pagine de il Mattino dove ieri si criticava un’intransigenza intermittente. Ha bocciato le luci d’artista in piazza Plebiscito (quest’anno erano di rara bruttezza), la scogliera finta costruita per la Coppa America, i concerti di Pino Daniele e Mark Knopfler sempre in Piazza del Plebiscito, l’Arena del mare, ma a vedere le partite di Coppa Davis c’è andato. E poi c’è anche la questione delle piattaforme sul lungo mare: sull’unica installata, al circolo Canottieri, è intervenuta la Polizia municipale. Dov’era il Sovrintendente? A prendere il sole, proprio lì.

Prende le sue difese Gregorio Angelini, direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Campania: “Un linciaggio mediatico che mi ha ricordato la storia del magistrato con i calzini celesti”. A parte il riferimento poco pertinente al giudice Mesiano, dell’affaire Nutella al Plebiscito, dice: “C’è un vincolo su quella piazza.

Dopo l'impugnazione del decreto, il Tar aveva concesso una sospensiva, annullata dal Consiglio di Stato che però deve ancora esprimersi sul merito. È vero che la Nutella rappresenta il Made in Italy, ma ci sono norme a tutela della monumentalità della piazza. Lunedì il dottor Cozzolino e io incontreremo l’assessore all’Urbanistica, per verificare la proposta del Comune. Nessuno mette in discussione che la piazza debba essere un luogo vitale e vissuto della città, tuttavia c’è un’area di rispetto che restringe un poco la ricettività: esiste un problema di attività compatibili. Ma lo spirito è quello di collaborare per trovare una soluzione”. In tarda serata un comunicato del ministro Franceschini sembra mettere la parola fine alla querelle: “Io credo che la salvaguardia dei monumenti e delle piazze non debba necessariamente tradursi in un impedimento a manifestazioni pubbliche, soprattutto quando possono essere, come un bel concerto, un’occasione di utilizzo e valorizzazione del patrimonio pubblico mettendolo a disposizione di tutti i cittadini”. Che Napoli sarebbe, senza Nutella?

COME PER PONTE VECCHIO
IL PROBLEMA È POLITICO, NON DI TUTELA

di Tomaso Montanari

Concedere a un grande marchio commerciale Piazza del Plebiscito a Napoli non è un problema di tutela dei monumenti. Non so cosa deciderà il soprintendente architettonico Giorgio Cozzolino – specie dopo la nota del suo ministro Dario Franceschini, che sembra volerne impropriamente condizionare il verdetto –, ma in ogni caso il problema è politico, non certo tecnico.

Esattamente come nel caso del Ponte Vecchio noleggiato da Matteo Renzi alla Ferrari per una cena di lusso, del Teatro Greco di Siracusa concesso a un raduno di auto da corsa, della sala di lettura della Biblioteca Nazionale di Firenze usata come location per il lancio di una collezione di moda di Alessandro Dell'Acqua. In tutte queste occasioni in gioco non c'era la salvaguardia materiale dei luoghi, ma quella dei valori immateriali connessi a quegli spazi pubblici. Per secoli la forma dello Stato e la forma dell’etica pubblica si sono definite nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. E la funzione delle loro piazze era permettere ai cittadini di incontrarsi come liberi e come pari. Se trasformiamo questi luoghi in un centro commerciale più o meno occulto, essi non produrranno più cittadini, ma clienti, consumatori, sudditi del mercato. Il sociologo americano Cristopher Lasch ha scritto che “quando il mercato esercita il diritto di prelazione su qualsiasi spazio pubblico, la gente corre il rischio di perdere la capacità di autogovernarsi”. Un enorme cartellone pubblicitario issato pochi anni fa sui monumenti di Piazza San Marco a Venezia gridava a caratteri colossali lo slogan: “Non rispettare le regole, dettale”. Che è esattamente il messaggio che mandiamo sottoponendo al mercato i grandi spazi pubblici del Paese.

Non ho nulla contro la Nutella (anzi...), ma dobbiamo chiederci se sia giusto che tutto abbia un prezzo: è questo il nostro progetto di città, e dunque di società? Il fatto che le soprintendenze (quando funzionano) siano rimaste (sole) a difendere lo statuto non commerciale dello spazio pubblico italiano appare sempre più intollerabile, ed è per questo che da destra a sinistra si propone di abolirle.

In queste ore un sito web campano pubblica un ‘editoriale’ dal titolo “Mika, la Nutella e piazza Plebiscito: abolire le Sovrintendenze”, che si apre con un plauso alla notissima avversione di Matteo Renzi per gli organi di tutela. Ma se non stupisce che il liberista Renzi detesti ogni limite sociale imposto alla creazione di reddito privato, ci si chiede per quale terrificante confusione culturale uno come Luigi De Magistris riveli, alla prova dei fatti, un'identica scala di valori. Certo, il bilancio comunale è in dissesto: ma se l’unica strada per fare qualche soldo è questa triste prostituzione dello spazio pubblico, il sindaco di Napoli dovrebbe almeno rinunciare alla sua retorica dei beni comuni. Che a questo punto rischia di suonare falsa come le innumerevoli imitazioni di una celebre cioccolata da spalmare.
Riferimenti
Per Venezia, città che contende a Firenze il primato della mercificazione, vedi su equesto sito: Venezia, una città come merce, e il powerpont allegato in calce all'articolo

Intervista di Milena Farina all'assessore comunale alla Trasformazione urbana Giovanni Caudo: una persona scomoda per i partigiani della città della rendita. Il Giornale dell'architettura online, 25 aprile 2014

ROMA. Continua il braccio di ferro, soprattutto intorno alle destinazioni d'uso, alle nuove volumetrie e alle modalità di realizzazione della centralità Romanina prevista dal PRG, tra l'assessore alla Trasformazione urbana Giovanni Caudo e i cosiddetti poteri forti rappresentati dagli immobiliaristi della capitale (cfr.www.abitarearoma.net). Cogliamo l'occasione per pubblicare la versione integrale dell'intervista comparsa sul numero 117 (primavera 2014) dell'edizione cartacea del nostro Giornale, attualmente in distribuzione, al neoassessore della giunta Marino dopo oltre 8 mesi dal suo varo. L'intervista, insieme ad altri due articoli, intende inoltre fare il punto sullo stato d'avanzamento delle grandi opere incompiute, sulle politiche avviate in tema di mobilità e sulle varie scelte urbanistiche. Architetto e professore associato di Urbanistica presso l’Università di «Roma Tre», Caudo (Fiumefreddo di Sicilia, 1964) si è interessato in particolare alle questioni abitative nella città contemporanea.

Assessore Caudo, la decisione di cambiare nome all’assessorato è stato uno dei primi segnali del nuovo corso dell’amministrazione. Perché il termine urbanistica vi è sembrato inadeguato?
Il nuovo nome deriva dalla constatazione che siamo passati dall’urbanistica dell’espansione tipica del ‘900 a un nuovo ciclo in cui si ritorna alle origini della disciplina, che alla fine dell’800 si occupava del risanamento della città esistente. La scelta ha quindi un duplice significato, culturale e operativo.

Quali sono le azioni più significative in tal senso, dopo la revoca della Delibera della giunta Alemanno sui nuovi ambiti di riserva nell’agro romano?
La delibera, oltre a evitare un’ulteriore urbanizzazione su 2.365 ettari di agro romano (161 nuove aree edificabili), è il primo segnale della volontà di riportare l’azione all’interno delle previsioni del PRG e in particolare in quelle aree individuate come parte della città da riqualificare, pari a 9.500 ettari: abbiamo avviato 5 PRINT che sono tra gli strumenti previsti dal PRG per intervenire in queste aree; poi c’è l’attenzione alla trasformazione delle aree dismesse o dismettibili, come il patrimonio del demanio e in particolare le caserme del Ministero della Difesa.

Il primo intervento di trasformazione urbana annunciato è la Città della Scienza in via Guido Reni, di fronte al MAXXI. Sarà l’occasione per sperimentare una nuova modalità di gestione delle trasformazioni complesse?
La trasformazione dello stabilimento militare materiali elettrici di precisione è l’operazione più importante avviata sul patrimonio demaniale, che interessa un vero e proprio pezzo di città. Qui abbiamo cercato di determinare una linea di azione per gli interventi di rigenerazione articolata in tre strategie: si rende accessibile l’area, attraverso la costruzione di un’armatura di spazio pubblico che permetta di reinserirla nel tessuto urbano, in continuità con la piazza del MAXXI; s’inseriscono funzioni pubbliche, delle quali la Città della Scienza è l’elemento principale; si favorisce la messa a valore dell’area in modo da produrre le risorse necessarie per sostenere l’intervento pubblico (residenze e funzioni commerciali). Abbiamo appena predisposto la variante urbanistica, che fissa i nuovi parametri e le invarianti dell’intervento pubblico; ora sta partendo la fase di consultazione con la formazione di un’assemblea partecipata degli abitanti, dalla quale usciranno gli elementi che saranno posti a base di un Documento di progettazione preliminare; poi organizzeremo un concorso internazionale per il masterplan di tutta l’area, con 5-6 gruppi selezionati su curricula che parteciperanno a una serie di incontri intermedi per la discussione di temi specifici (spazio pubblico, risparmio energetico, tipologie insediative). Per la città della Scienza si organizzerà anche un concorso di progettazione, una volta messo a punto il progetto scientifico che, oltre alla parte espositiva, prevede laboratori di ricerca e aree per l’innovazione scientifica e culturale.

La strategia della trasformazione sembra molto più complessa da gestire rispetto a quella dell’espansione, poiché ci si scontra con interessi consolidati. Quale sarà il ruolo della partecipazione, visto il dissenso che ormai sembra accompagnare ogni proposta di cambiamento?
Il dialogo con la città si è interrotto negli anni passati e insieme è cresciuta la sfiducia nei confronti dell’amministrazione comunale. Per ricostruire questo rapporto è necessario parlare con trasparenza e costruire momenti di partecipazione, a partire da situazioni concrete. Nel caso di via Guido Reni, stiamo avviando la partecipazione sulla base di una variante urbanistica già approvata, nella quale sono state individuate le quantità necessarie a garantire la sostenibilità economica dell’intervento per i soggetti coinvolti: il demanio dello Stato che vende l’area, l’operatore privato che realizza la valorizzazione immobiliare (Cassa Depositi e Prestiti Investimenti SGR), l’Amministrazione che acquisisce metà dell’area (27.000 mq di SUL) per funzioni pubbliche e il contributo straordinario. Sarà aperto un tavolo con le associazioni, il Municipio e un gruppo tecnico dell’assessorato che potrà esprimere indicazioni sulle funzioni pubbliche più adatte e sulla collocazione delle funzioni private.

Il vostro programma s’inserisce nel PRG, quindi viene confermata l’idea di città policentrica? Intendete rilanciare il tema delle centralità, visto che uno dei limiti del piano è la loro scarsa caratterizzazione funzionale nonché debole capacità aggregativa?
La struttura policentrica del piano è stata in gran parte realizzata già negli anni precedenti, anche se non è percepita dalla città: il 70% delle centralità erano già attuate quando è stato approvato il piano e altre sono state realizzate nel frattempo. Ora stiamo lavorando sulle loro connessioni con il sistema di trasporto pubblico: a dicembre abbiamo approvato in giunta la delibera per la realizzazione della stazione ferroviaria a Ponte di Nona, una delle centralità più discusse per l’assenza di collegamenti con la rete su ferro oltre che per la pessima qualità dell’intervento; tra le centralità da realizzare, a Romanina abbiamo previsto il prolungamento di 2 fermate della metro A e a Massimina si realizzerà una nuova stazione sulla linea FR1. Lavoreremo inoltre in variante al piano per collocare nuove concentrazioni di funzioni intorno alle stazioni delle linee ferroviarie già esistenti all’interno del GRA (Ponte Mammolo, Grotta Rossa, Ipogeo degli Ottavi, Anagnina), che potrebbero avere un effetto di riequilibrio del sistema dei flussi spostando i pesi nella zona intermedia tra la città consolidata e l’esterno. Non si rinuncia a un’ulteriore cura del ferro, ma in attesa delle nuove linee Metropolitane portiamo le funzioni dove il ferro c’è già o è sottoutilizzato.

Quale sarà l’impatto delle compensazioni previste dal PRG? È possibile individuare strumenti per disinnescare questo meccanismo che già ha fatto «atterrare» grosse cubature su Roma?
Per buona parte delle compensazioni erano già state individuate 84 aree di «atterraggio», con un meccanismo, quello dell’equivalenza di valore, che ha trasformato i 4 milioni di mc in 6,4 milioni di mc per via della loro collocazione più periferica. L’Assemblea capitolina ha già approvato negli anni scorsi le delibere relative a 61 aree, che sono dunque già operative, mentre noi stiamo lavorando sulle altre 23. Gli anni non sono passati invano, come si vede. Anche se promuovessimo una moratoria urbanistica, questi atti andrebbero comunque avanti. Stiamo lavorando affinché le nuove collocazioni siano coerenti con il piano ma anche con il nostro programma, ovvero rilocalizzando la cubatura in aree già urbanizzate; seguiremo la stessa logica nella localizzazione degli ulteriori 3,5 milioni di mc che restano da compensare, portandoli in aree più centrali in modo da ridurli. Dunque la nostra azione prevede la chiusura delle compensazioni ancora in itinere e, come obiettivo di fine mandato, la cancellazione dell’articolo del piano che le prevede perché è un principio sbagliato e di difficile gestione.

A proposito di strumenti difficili da gestire, che impatto avrà nei prossimi anni l’attuazione del Piano Casa? Cosa può fare l’amministrazione per evitare che tali interventi sconvolgano gli equilibri di tanti quartieri e rendano superflue le previsioni del PRG?
Dal punto di vista dei principi il Piano Casa non è sbagliato. È sbagliata la Legge Regionale che ha esteso le maglie della normativa oltre l’intervento edilizio arrivando alla dimensione urbanistica. In questo modo invece di semplificare si complica, perché gli interventi che hanno un impatto urbanistico devono passare al vaglio dell’Assemblea capitolina, quindi hanno un iter più complesso. Intanto abbiamo concordato con la Regione di modificare la legge, in particolare il comma 3 dell’articolo 3-ter che è il più devastante in termini di pesi insediativi in quanto prevede nelle aree non edificate una premialità del 10% calcolato sull’intera cubatura prevista da un piano attuativo. Nella nuova proposta di legge regionale questa possibilità viene ridotta. Si poteva fare di più, l’accordo Stato Regioni su cui si fonda il cosiddetto Piano Casa, infatti, non prevede l’applicazione a volumi non esistenti. Così di fatto il Piano Casa si applica anche alla nuova edificazione e non solo all’esistente, è l’unica Regione che consente questa fattispecie.

Attraverso quali strumenti l’amministrazione si sta facendo carico della questione abitativa?
Vista la carenza di risorse pubbliche, ci stiamo muovendo su due binari: limitando il nostro intervento alle situazioni di estrema emergenza ovvero trovando una soluzione abitativa per le famiglie – circa 3.000 – che sono in graduatoria per la casa popolare con il massimo di punteggio; proponendo ai costruttori che oggi hanno il problema dell’invenduto di mettere sul mercato alloggi a prezzi convenzionati, in cambio della riduzione degli oneri. Stiamo infine concludendo le procedure del 2° PEEP che prevede 14 nuovi interventi di edilizia agevolata, per circa 3.000 alloggi.

Che idea avete del centro storico? Il progetto di pedonalizzazione del tridente non rischia di trasformare ulteriormente questa parte di città in una sorta di parco turistico, dal quale i romani si sentono esclusi?
Nel tridente stiamo completando la ripavimentazione delle strade: è una predisposizione alla pedonalizzazione che sarà attuata dopo aver individuato un sistema di parcheggi per attutire i disagi ai residenti e lasciare l’auto fuori dal centro storico. Per contrastare la progressiva commercializzazione, abbiamo messo in campo due interventi strategici: la sistemazione intorno al Mausoleo di Augusto, dove si costruirà una nuova piazza laddove ora c’è uno slargo; il piano di recupero di via Crispi con l’ampliamento della Galleria d’arte moderna. Stiamo inoltre individuando gli immobili sottoutilizzati e dismessi per introdurre nuovi usi pubblici, con destinazioni solitamente escluse dal mercato.

Quali sono le difficoltà nel governare dinamiche metropolitane che vanno oltre i confini della stessa provincia con strumenti limitati alla dimensione territoriale comunale? Che caratteristiche dovrebbe avere l’architettura istituzionale di Roma Capitale?
È necessario aprire un dibattito su questo tema. I finanziamenti per Roma Capitale dovrebbero essere stabiliti con una Legge Speciale in relazione a obiettivi legati al suo ruolo, visto che in ogni caso lo Stato si trova periodicamente a ripianarne i debiti. Noi come assessorato la dimensione metropolitana l’abbiamo già assunta: nella macrostruttura abbiamo costituito un’apposita unità operativa che dialoga su un doppio livello, con i Municipi e con i Comuni contermini, anticipando lagovernance che sarà tipica della città metropolitana.

Come si immagina Roma alla fine del mandato?
La città si sta preparando anche con le scelte urbanistiche a due importanti appuntamenti: il 150° anniversario di Roma Capitale nel 2020 e il Giubileo nel 2025. Traguardando l’orizzonte di medio periodo, m’immagino una città più ordinata che si è riappropriata delle regole come strumento per costruirsi il proprio futuro; una città che guarda alla sua dimensione metropolitana in cui le periferie sono luoghi che si riposizionano rispetto a un nuovo concetto di centralità; una città che ha ricostruito un appeal internazionale oggi completamente perso. Una città in cui le scelte urbanistiche devono essere a sostegno dei percorsi di sviluppo sociale ed economico e non essere fine a se stesse.

(di Milena Farina, edizione online, 15 aprile 2014)

Una piccola rassegna di progetti di riqualificazione urbana partecipativi dal basso, tutt'altra cosa rispetto a quelli variamente gestiti da animatori professionisti. Corriere della Sera Milano, 20 aprile 2014 (f.b.)

Nella Grande Milano non trova posto la distinzione tra centro e periferia e ogni zona ha «opportunità pari alle altre» ha dichiarato l’assessore alla Cultura, Filippo del Corno. Tuttavia, l’impressione è diversa: man mano che ci si allontana dal Duomo sono sempre di più le aree dove regnano disagio, miseria, marginalità. Eppure è proprio qui — tra muri imbrattati, sporcizia nei parchi e nelle strade, scarso rispetto per le regole e apatia da parte di molti — che le periferie stanno trovando una loro identità allegra e forte. Perché più che altrove si è fatto largo qualcosa di nuovo: una «magia» collettiva che rigenera il territorio e dà vita ad una Milano diversa.

«Davanti al degrado — spiega l’esperto di politiche urbane Paolo Cottino — la riqualificazione degli edifici da sola non basta a migliorare la vivibilità: gli abitanti devono fortemente volere le trasformazioni, attivarle e poi partecipare al rinnovamento, altrimenti non accade nulla». In diverse aree, come Giambellino e Ponte Lambro, l’impulso iniziale è arrivato dei Laboratori di quartiere. Altre volte sono stati comitati, scuole, associazioni a muoversi per primi. Gente che ha imparato a riunirsi in rete. Per fare e per chiedere. Ed è così che cambia la cultura: a colpi di solidarietà e voglia di agire.

Quasi un miracolo, per esempio, la rinascita del parco all’ex-sieroterapico, grande area dismessa tra i due Navigli: «Sta diventando un’enorme oasi naturalistica in città — spiega Stefano Guadagni del Comitato Segantini — con orti condivisi, nuove piante, animali da proteggere». Un entusiasmo che ha contagiato Italia Nostra, Lipu, Verdisegni e Naba. E ora il progetto è portato avanti con il Comune di Milano.

Allievi del Politecnico insieme con Tempo riuso e Baia del re onlus hanno riprogettato il mercato coperto al quartiere Stadera rilanciandolo come auspicabile luogo d’integrazione tra culture, in un contesto difficile. Gli allievi della media Rinascita sono arrivati in centro armati di vernici e rulli e con l’Associazione antigraffiti hanno ripulito i muri alle Officine Ansaldo. E gli inquilini della via Rilke, pieno degrado, hanno inaugurato nella portineria del civico 6 uno sportello d’ascolto che sta già dando frutti. Perché le idee di chi inventa nuovi usi per spazi abbandonati sono importanti.

Ancora: al Giambellino, piazza Odazio è risorta insieme con la sua Casetta verde con iniziative culturali legate alla tradizione e decine di associazioni capitanate da Dynamoscopio. Lo stesso è accaduto alla piazzetta del Murunasc, a Baggio, dove Share radio, che registra in uno scantinato, dà voce alle periferie e il microfono a giovani volontari che si rimboccano le maniche impegnati in palinsesti, interviste e dirette anche video. «La conoscenza del territorio alimenta il senso civico che insegna a dare valore alla città, dunque a rispettarla» spiega Filippo Gavazzeni ideatore di Milanofuoriclasse.it che ha radunato 30 studenti, l’Amsa e le Gev - Guardie ecologiche volontarie e in una mattina di passione ha tirato a lucido largo dei Gelsomini, al Lorenteggio.

Gente, questa, che forse senza rendersene conto neppure, o comunque senza chiedere nulla in cambio, abbatte nel bilancio di Milano il costo enorme di chi, apatico, si rassegna o, peggio, distrugge, offrendo la ricchezza di chi invece ripara e progetta intorno alle potenzialità del territorio che vive.

Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2014
Trasformata nella Reggia del Pianeta Naboo in Guerre Stellari, umiliata a set della serie Elisa di Rivombrosa, candidata a location per le nozze di Naomi Campbell, promossa a finto Vaticano nella fiction della Rai sul papa polacco ma anche film Angeli e demoni, da Dan Brown: la Versailles casertana di Carlo di Borbone ha sbarcato il lunario nei modi più impensati. Ma l’associazione cinematografica più azzeccata è certo quella con Mission Impossible (il terzo episodio, in cui mima ancora il Vaticano): perché la Reggia di Caserta è davvero la “mission impossible” del patrimonio culturale italiano.

Esattamente un anno fa il Daily Telegraph descrisse con impietosa lucidità un sito monumentale abbandonato a se stesso: con i ladri che rubano il rame dal tetto, i ragazzi che fanno il bagno nelle mitiche fontane del giardino più importante d’Italia, le garitte dei custodi distrutte dalla ruggine e gli occupanti abusivi che vivono nelle foresterie. Per il giornale inglese, la Reggia è il “più clamoroso esempio dell’incapacità dell’Italia di governare il proprio straordinario patrimonio culturale, tra tagli al bilancio e recessione profonda”.

L’aveva scritto sul Corriere della Sera Alessandra Arachi, l’aveva mostrato a Rai Tre Stefania Battistini: ma le critiche estere fanno sempre più colpo, e così Maurizio Crozza si rivolse ai francesi, più serio che faceto: “Francesi, prendete in gestione la Reggia vanvitelliana, fatela diventare il sito più visitato in Europa come avete fatto con il Louvre, salvatela dal degrado”. Poi, a dicembre, il sindaco di Caserta pensò bene di piantare un corno rosso alto 13 metri (e dal modico prezzo di 70 mila euro) di fronte alla Reggia, a mo' di addobbo natalizio. E mentre Gian Antonio Stella osservava sarcastico che “non è detto che porti buono”, Dagospia coniò la più prosaica definizione di “sco-reggia di Caserta”.

Questa litania di cialtronerie impallidisce quando si apprende che il prefetto di Caserta ha “affettuosamente” (come ha scritto sulla busta) consegnato le chiavi della Reggia a Nicola Cosentino. E qui capisci che il degrado materiale è la conseguenza di quello morale. Il fatto che il patrimonio culturale che la Costituzione ha restituito ai cittadini sovrani non sia più una cosa pubblica, ma “cosa loro” è il segno dello slittamento del suo valore simbolico: da segno della presenza dello Stato-comunità a trofeo dell’antistato. Siamo solo a un passo da ciò che accadeva fino a pochi mesi fa in un’altra, vicina, reggia borbonica: Carditello. Sono stati sbarbati e rubati i cancelli, le acquasantiere della cappella, i gradini di marmo delle scale e perfino l’intero impianto elettrico. Quel che non si poteva asportare è stato distrutto, e nelle ali fatiscenti che un tempo ospitavano le attività agricole della tenuta è possibile rinvenire di tutto: da cumuli inquietanti di schede elettorali, a mappe e rilievi dell’area, gettati alla rinfusa sotto tetti sfondati. Il pavimento di cotto della terrazza sommitale è stato strappato e rubato, mattonella per mattonella, e così i balaustrini di marmo che reggevano i parapetti. La reggia si è, insomma, trasformata in una gigantesca cava di materiali pregiati, che non è difficile immaginare indirizzati verso le oscene ville dei ras della camorra.

Qualche mese fa, Massimo Bray è riuscito a ricomprare Carditello (da Banca Intesa), e ora si aspetta un piano per la sua salvezza: che potrebbe passare attraverso l’affidamento a Libera di don Ciotti, capace di rimettere in piedi la tenuta agricola che circonda il palazzo. Qualcosa di altrettanto radicale deve avvenire alla Reggia di Caserta, che non può rimanere uno scatolone vuoto, ma deve diventare un centro vivo di conoscenza. Potrebbe essere un centro nazionale di studio e tutela dei giardini storici, oppure ospitare la biblioteca senza casa dell’Istituto di studi filosofici di Napoli o un museo nazionale della migrazione. Qualunque cosa: purché le sue chiavi siano restituite – affettuosamente – ai cittadini, e negate, per sempre, ai signori dell’antistato.

Il manifesto, 17 aprile 2014

Fino a giu­gno, il Museo Nazio­nale Romano di Palazzo Mas­simo alle Terme ospi­terà una fan­ta­sma­go­rica ras­se­gna dedi­cata ai mostri e alle crea­ture fan­ta­sti­che nella mito­lo­gia antica. Tutti pre­senti gli incubi dell’uomo clas­sico: dal mino­tauro alle arpie, pas­sando per la chi­mera. In cata­logo, manca ovvia­mente il biblico levia­tano, sim­bolo di quello Stato onni­pre­sente, lento e oppri­mente, denun­ciato da Tho­mas Hob­bes. Lo scorso mese, un arti­colo di Gio­vanni Valen­tini su Repub­blica è parso evo­carlo, quel mon­strum, a pro­po­sito dell’amministrazione pub­blica della cul­tura: sarebbe soprat­tutto la buro­cra­zia delle soprin­ten­denze ciò che «imbri­glia il recu­pero e la valo­riz­za­zione del nostro patri­mo­nio cul­tu­rale, con­tri­buendo così a con­ge­lare la modernizzazione».

Imme­diata l’alzata di capo degli archeo­logi, che hanno rea­gito lan­ciando un appello attra­verso il sito Patri­mo­nio sos. Tra le tante firme, tro­viamo quella di Rita Paris, con­si­gliere comu­nale eletta nella Lista Civica Marino Sin­daco e respon­sa­bile dell’area archeo­lo­gica del Parco dell’Appia Antica. La incon­triamo nel suo uffi­cio di Palazzo Mas­simo, sede museale che dirige dal 2005.

Qual­cosa non va nelle soprintendenze?

La strut­tura per la quale lavo­riamo deve essere miglio­rata: noi stessi ne par­liamo ormai da anni. Non è tut­ta­via giu­sto descri­vere le soprin­ten­denze come car­roz­zoni otto­cen­te­schi. Innan­zi­tutto, sono pas­sate con suc­cesso a gestire finan­zia­menti, anche con­si­stenti, appli­cando la nor­ma­tiva sui lavori pub­blici, estre­ma­mente com­plessa per stu­diosi costretti a con­fron­tarsi con scavi e restauri alla stre­gua di opere edili quali via­dotti e auto­strade. Ci hanno quindi chie­sto di infor­ma­tiz­zare il nostro patri­mo­nio cono­sci­tivo: l’abbiamo fatto. Allo stesso modo ottem­pe­riamo alla legge 241 sulla tra­spa­renza degli atti: rispet­tiamo in pieno i tempi, rispon­dendo sem­pre all’attenzione pubblica.

Che le soprin­ten­denze siano anti­che, que­sto è un altro discorso. In effetti sono nate ancora prima del mini­stero, quando erano com­prese all’interno della Dire­zione gene­rale per le anti­chità e belle arti, dipen­dente dalla Pub­blica istru­zione. Da allora, sono le soprin­ten­denze di set­tore — archeo­lo­gi­che, storico-artistiche, archi­tet­to­ni­che e pae­sag­gi­sti­che — gli uffici peri­fe­rici pre­senti sul ter­ri­to­rio, che pre­si­diano e con­trol­lano seguendo le forme di pia­ni­fi­ca­zione ela­bo­rate dagli enti locali, dai piani rego­la­tori ai piani ter­ri­to­riali pae­si­stici. Fran­ca­mente, non rie­sco a imma­gi­nare da quale strut­tura pos­sano essere sostituite.

Una grande rivo­lu­zione fu, nel 1993, la legge Ron­chey sui ser­vizi aggiun­tivi: prima custode e bigliet­taio erano la stessa per­sona; adesso bigliet­te­ria, book­shop, e punti di ristoro sono gestiti a parte. Le soprin­ten­denze hanno defi­ni­ti­va­mente rivolto la loro atten­zione agli aspetti gestio­nali e di valo­riz­za­zione della fun­zione pub­blica, con­cen­tran­dosi sulle nuove esi­genze didat­ti­che e comu­ni­ca­tive. I luo­ghi della cul­tura si sono aperti a un mondo diverso, non solo specialistico.

Un luogo comune, tut­ta­via, insi­ste nel riba­dire che siete troppo auto­re­fe­ren­ziali e dovre­ste aprirvi ancora di più all’esterno.

Per quanto riguarda la ricerca di spon­so­riz­za­zioni, non è vero che siamo sol­tanto con­ser­va­tori. Anzi, manca poco che fac­ciamo i butta-dentro: quelli che pur di ren­dere attraenti i nostri musei, pur di avere mag­giori visi­ta­tori si mostrano dispo­ni­bili a orga­niz­zare tipi di eventi che non hanno molto a che vedere con l’archeologia. Non è il caso di Musei in musica, Una notte al museo, la Set­ti­mana della cul­tura, ini­zia­tive che pos­sono attrarre un pub­blico diverso che altri­menti non si sarebbe mai acco­stato all’arte antica. I Rol­ling Sto­nes, però, sono ecces­sivi, anche per­ché il Circo Mas­simo non ha biso­gno di visibilità.

Quali sono, quindi, i limiti e le cri­ti­cità prin­ci­pali delle soprintendenze?

Abbiamo una serie di figure pro­fes­sio­nali entrate con una qua­li­fica direttivo-apicale; se non fai un con­corso, lì ti fermi. La nostra è una strut­tura pira­mi­dale con un diri­gente e diversi diret­tori che hanno degli inca­ri­chi spe­ci­fici presso monu­menti, pezzi di ter­ri­to­rio, musei. Una strut­tura del genere, con tali respon­sa­bi­lità, meri­te­rebbe un rico­no­sci­mento diverso. Lo sti­pen­dio di un diret­tore di museo, invece — Uffizi com­presi — arriva al mas­simo a 1800 euro. È un inca­rico che, come ti viene dato, così ti viene tolto: oggi sei il diret­tore della Gal­le­ria Bor­ghese, domani puoi lavo­rare altrove. Non hai un’indennità di fun­zione a fronte della mole di impe­gni e respon­sa­bi­lità richie­ste, delle com­pe­tenze neces­sa­rie per gestire rap­porti con le isti­tu­zioni nazio­nali e internazionali.

Così non si può con­ti­nuare a lavo­rare: se ancora resi­stiamo, è per­ché abbiamo intro­dotto nel lavoro qual­cosa che va oltre l’idea di con­tratto. È pro­prio la pas­sione, il tra­sporto, l’enorme senso di respon­sa­bi­lità che ha fatto dimen­ti­care a chi ci governa quanto la nostra con­si­de­ra­zione sia ina­de­guata al ruolo svolto. Tutti lavo­riamo nor­mal­mente dodici ore al giorno, distri­can­doci tra aspetti gestio­nali e ammi­ni­stra­tivi, senza dimen­ti­care la ricerca scien­ti­fica: non pos­siamo smet­tere di stu­diare per restare al passo con l’impegno scien­ti­fico che gli acca­de­mici pos­sono affron­tare. Se non studi, non puoi orga­niz­zare una mostra né gestire un museo: non hai la pos­si­bi­lità di redigere un cata­logo, scri­vere le dida­sca­lie, orga­niz­zare atti­vità didattiche.

Sem­brano le stesse richie­ste degli inse­gnanti. E se le soprin­ten­denze le abolissero?

L’età media delle sovrin­ten­denze è di 57 anni. In alcune regioni sono state immesse forze gio­vani; a Roma e nel Lazio no. Da anni ormai non entra un fun­zio­na­rio nuovo al quale tra­smet­tere la nostra espe­rienza, giu­sto per pas­sare la staf­fetta. Nello Stato non c’è car­riera: ci sono degli interni di livelli infe­riori che non cre­scono, altri pro­prio non entrano. Le dichia­ra­zioni del mini­stro, finora, da un lato par­lano del ricorso a pri­vati, dall’altro di una spen­ding review che sicu­ra­mente va ope­rata, ma non certo qui, dove sarebbe quanto meno rischiosa e con­tro­pro­du­cente. Se si tol­gono risorse alle soprin­ten­denze, si impo­ve­ri­sce irri­me­dia­bil­mente il rap­porto dello Stato con i luo­ghi della cul­tura sul territorio.

Una delle obie­zioni più fre­quenti sostiene che lo Stato non possa far­cela a gestire da solo il nostro patri­mo­nio cul­tu­rale. Biso­gne­rebbe con­cede mag­giore spa­zio ai privati?

Dav­vero non si capi­sce cosa si intende oggi per pri­vati, per­ché ci sono sem­pre stati. Già nel ’94 avevo imma­gi­nato una mostra — Dono Hart­wig, ori­gi­nali ricon­giunti e copie tra Roma e Ann Arbor in Michi­gan — che riu­niva fram­menti scul­to­rei del Tem­plum Gen­tis Fla­viae finiti all’inizio del ’900 sul mer­cato anti­qua­rio. L’operazione fu por­tata avanti gra­zie al con­tri­buto di uno spon­sor pri­vato: l’Eni. È fon­da­men­tale, tut­ta­via, sot­to­li­neare quello che sem­bra ovvio: deve essere lo Stato a soprin­ten­dere. Ulti­ma­mente abbiamo avuto con­tri­buti di pri­vati a titolo diverso: nel caso della Pira­mide Cestia e della Fon­da­zione Pac­kard a Erco­lano, si è trat­tato di ero­ga­zioni libe­rali e di atti di mece­na­ti­smo che non hanno chie­sto nulla in cam­bio se non il pub­blico rico­no­sci­mento e rin­gra­zia­mento; nel caso del Colos­seo, si è andati un po’ oltre. Quello che conta, tut­ta­via, è il pro­ce­di­mento: i pri­vati ver­sano i soldi nelle casse dello Stato e, quindi, delle soprin­ten­denze; que­ste, infine, pro­ce­dono a rea­liz­zare i pro­getti atte­nen­dosi rigo­ro­sa­mente alle pro­ce­dure di legge. Nes­sun pri­vato può dire diret­ta­mente: «io voglio occu­parmi dei restauri al Colosseo».

Non pensa che l’opinione pub­blica possa fati­care a com­pren­dere le vostre ragioni?

Al con­tra­rio, penso che a volte i cit­ta­dini siano per­fino più esi­genti di noi, fino a pre­ten­dere di più di quello che si possa effet­ti­va­mente dare. Per esem­pio, anni fa, un limi­tato scavo pre­ven­tivo in occa­sione della costru­zione di un edi­fi­cio in via Padre Seme­ria, all’Eur, aveva resti­tuito alcune testi­mo­nianze anti­che. In seguito, il palazzo non si fece più e lo scavo rimase a lungo in stato di abban­dono, fin­ché noi non chie­demmo il rin­terro per garan­tirne la pro­te­zione: la migliore forma di conservazione.

I cit­ta­dini quasi insor­sero. Insomma, da un lato si accu­sano le soprin­ten­denze di essere da osta­colo al pro­gresso, dall’altro ogni ritro­va­mento archeo­lo­gico fini­sce per sca­te­nare una sorta di orgo­glio locale. Se l’Italia asse­gna all’intero patri­mo­nio cul­tu­rale della nazione uno 0,19%, è ovvio che il governo e gli ammi­ni­stra­tori con­ti­nuino a chie­dere con mag­giore forza il con­tri­buto dei pri­vati. La que­stione sta tutta qui.

Un articolo sul nodo di Sant'Elia e un'intervista al sindaco Massimo Zedda completano l'inchiesta su Cagliari oggi. Il manifesto, 17 aprile 2014
IL COMUNE SI GIOCA LA PARTITA
di Costantino Cossu
Sant’Elia. Qui all’inizio c’erano sol­tanto paludi, sull’orlo del mare, di fronte all’enorme spa­zio azzurro d’acqua e di cielo del Golfo degli Angeli. Era la zona più a sud della città, poche case, un intrico di viuzze attorno al cam­pa­nile della chiesa. Un borgo abi­tato da pesca­tori. Da loro lavoro veniva il pesce che finiva nel vec­chio mer­cato di San Bene­detto. Prima ancora del borgo, nel Sei­cento che a Cagliari fu spa­gnolo, qui ave­vano messo, per decreto vice regio, il Laz­za­retto, il luogo per la cura dei leb­brosi, degli intoc­ca­bili. Restò tutto più o meno così (a parte il Lazzaretto,da fine Otto­cento abban­do­nato e cadente) sino ai primi anni Set­tanta del secolo scorso.

Dopo la ferita dei bom­bar­da­menti del 1943, che ave­vano raso al suolo buona parte del cento sto­rico, Cagliari negli anni del boom eco­no­mico (i Cin­quanta e poi per tutti i Ses­santa), era cre­sciuta. Sede dell’amministrazione regio­nale, cen­tro poli­tico ma anche eco­no­mico dell’isola. Un’imprenditoria quasi tutta legata ai traf­fici com­mer­ciali con la peni­sola, com­prare e riven­dere, riven­dere e com­prare. Poca indu­stria vera, sino all’arrivo dei Moratti con la loro raf­fi­ne­ria a Sar­roch, sul finire degli anni Ses­santa. Ma anche, in una città in tumul­tuoso svi­luppo urbanistico,speculatori edi­lizi e palaz­zi­nari. Nei primi anni Set­tanta a Sant’Elia accad­dero due cose che cam­bia­rono per sem­pre il volto del quar­tiere: la deci­sione di tra­sfor­mare la ex zona palu­dosa boni­fi­cata in un’area di edi­li­zia popo­lare e quella di costruire al limite est il nuovo sta­dio del Cagliari Calcio.

Deci­sioni prese da un’amministrazione comu­nale di segno mode­rato, domi­nata dalle cor­renti demo­cri­stiane più con­ser­va­trici. Alle quali, però, nes­suno si oppose. Cagliari cre­sceva in popo­la­zione a ritmi espo­nen­ziali, la fame di case era grande. E poi la squa­dra di foot­ball era quella dello scu­detto, la squa­dra di Gigi Riva “Rombo di tuono”: si poteva negare all’undici gui­dato da Man­lio Sco­pi­gno, che aveva rega­lato a una città mezzo nobile d’antico lignag­gio ibe­rico e mezzo strac­ciona un sogno che sem­brava impos­si­bile? No. E così, sotto la pic­cola col­lina dove con­ti­nua­vano a stare i pesca­tori, nell’avvallamento dove prima era sol­tanto acqua sta­gnante e saline, sor­sero enormi orrendi palaz­zoni dove met­tere quelli che cer­ca­vano casa e non pote­vano per­met­tersi i prezzi di mer­cato. E insieme ai caser­moni, lo sta­dio nuovo. Due sim­boli del benes­sere con­qui­stato, una carta di cre­dito per l’ingresso nel pal­co­sce­nico sul quale si costruiva una mise­re­vole iden­tità nazionale

«RESTAURO E RIUTILIZZO
PER FERMARE IL SACCHEGGIO»
intervista di Costantino Cossu al sindaco Massimo Zedda

Che cosa signi­fica, per uno che sta a sini­stra, diven­tare sin­daco di una città gover­nata per decenni, dal secondo dopo­guerra in poi, da forze poli­ti­che espres­sione di un blocco sociale con­ser­va­tore che ha dato al tes­suto urba­ni­stico la forma cor­ri­spon­dente a ben pre­cisi inte­ressi eco­no­mici? Mas­simo Zedda, prima Pd e poi Sel, è diven­tato sin­daco di Cagliari il 30 mag­gio del 2011, alla testa di uno schie­ra­mento di cen­tro­si­ni­stra. Una svolta, in larga parte inat­tesa. Un’occasione storica.

La sua ele­zioni a sin­daco, quasi tre anni fa, rap­pre­sentò una rot­tura e accese le spe­ranze di un cam­bia­mento radi­cale. Che bilan­cio si può fare oggi?
Abbiamo dato uno stop netto al sac­cheg­gio urba­ni­stico della città. Ci siamo mossi da subito lungo una linea di ade­gua­mento del piano urba­ni­stico comu­nale alle diret­tive di tutela san­cite dal piano pae­sag­gi­stico appro­vato nel 2006 dalla giunta Soru. Abbiamo appro­vato il piano par­ti­co­la­reg­giato del cen­tro sto­rico, il piano della mobi­lità, il piano di uti­lizzo dei lito­rali. Tutto secondo un’ottica di restauro e di riu­ti­lizzo del patri­mo­nio edi­li­zio già esi­stente, in par­ti­co­lare di quello di pro­prietà pub­blica: del comune, della Regione Sar­de­gna, del dema­nio. Basta con l’aumento delle volu­me­trie e con il dis­sen­nato con­sumo del ter­ri­to­rio. Rispetto al pas­sato è una svolta radicale.

Qual­che vostra deci­sione in dettaglio?
Intanto la pedo­na­liz­za­zione di vaste aree del cen­tro sto­rico, in pas­sato inta­sate e sna­tu­rate da un traf­fico cao­tico, senza regole. Meno auto pri­vate e un poten­zia­mento del tra­sporto pub­blico e la defi­ni­zione di un sistema di par­cheggi intorno al cen­tro, con l’obiettivo di for­nire un ser­vi­zio a chi usa le auto per arri­vare dalle peri­fe­rie senza che que­sto signi­fi­chi, come nel pas­sato, l’invasione delle strade e delle piazze da parte del traf­fico pri­vato. Tenendo conto anche che il cen­tro sto­rico di Cagliari è molto ampio. I quat­tro quar­tieri anti­chi di Marina, Stam­pace, Vil­la­nova e Castello insieme coprono un’area molto più vasta, ad esem­pio, di quella della parte sto­rica di una città come Praga.

Per la spiag­gia del Poetto che cosa avete fatto?
Come si sa quel lito­rale nel pas­sato recente è stato deva­stato da un ripa­sci­mento disa­stroso. Al pro­blema dell’erosione della spiag­gia si è rispo­sto aggiun­gendo sab­bia pre­le­vata dai fon­dali al largo del Golfo di Cagliari. Con esiti che hanno modi­fi­cato le carat­te­ri­sti­che ambien­tali di un sito che per la città ha una rile­vanza anche urba­ni­stica cen­trale. Noi abbiamo pun­tato invece su inter­venti strut­tu­rali, che hanno come obiet­tivo quello di una riqua­li­fi­ca­zione urba­ni­stica dell’intero lito­rale, che si estende per otto chi­lo­me­tri dalla Sella del dia­volo sino alla città di Quartu. Abbiamo tro­vato i fondi per un pro­getto che è già in fase ese­cu­tiva e che modi­fi­cherà in maniera sostan­ziale il volto e la fun­zione urba­ni­stica di tutta la zona. Isti­tui­remo, ad esem­pio, un’area pedo­nale che sarà una spe­cie di cor­done tra la spiag­gia e la strada che corre paral­lela all’arenile.

Il tes­suto urba­ni­stico di Cagliari è ricco di aree dema­niali in uso a strut­ture mili­tari. Cosa avete fatto per recu­pe­rarle alla città?

Come ammi­ni­stra­zione comu­nale abbiamo cer­cato di costruire un fronte uni­ta­rio con la Regione Sar­de­gna per aprire un con­fronto con il mini­stero della Difesa che con­sen­tisse una “libe­ra­zione” se non totale almeno par­ziale di quelle aree, che sono dav­vero molto vaste e tutte di grande pre­gio urba­ni­stico e ambien­tale, dai vin­coli mili­tari. Non abbiamo tro­vato grande sen­si­bi­lità nella giunta di cen­tro­de­stra pre­sie­duta da Ugo Cap­pel­lacci. Con­tiamo di ripren­dere il discorso con il nuovo ese­cu­tivo, gui­dato da Fran­ce­sco Pigliaru dopo la vit­to­ria del cen­tro­si­ni­stra alle ele­zioni regio­nali dello scorso febbraio.

E per le peri­fe­rie? In par­ti­co­lare per Sant’Elia?
Sant’Elia in realtà non è una peri­fe­ria. È un quar­tiere ormai pie­na­mente inse­rito nel cuore del tes­suto urba­ni­stico. Lì esi­ste un enorme pro­blema di disa­gio sociale e di emar­gi­na­zione che stiamo affron­tando attra­verso la crea­zione di strut­ture per­ma­nenti di inte­gra­zione sociale. Le scelte che sono state fatte in pas­sato hanno tra­sfor­mato Sant’Elia in un corpo sepa­rato. Cor­reg­gere quelle stor­ture è uno dei com­piti che ci siamo asse­gnati. Vedere la que­stione sol­tanto in ter­mini di ordine pub­blico è sba­gliato. Biso­gna pun­tare invece ad inse­rire pie­na­mente il quar­tiere nella vita della città. Ed è esat­ta­mente que­sto che stiamo cer­cando di fare, con non pochi risul­tati incoraggianti

«La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama "sviluppo"». .Il manifesto, 17 aprile 2014

I nura­gici erme­tici. Poi i Fenici trac­ciano le rotte. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. Poi i Van­dali. Poi Bisan­zio e i due evi medi. L’epoca dei Giu­di­cati, le inva­sioni more­sche, i Pisani e i Geno­vesi. Eleo­nora d’Arborea e il suo nuovo ordi­na­mento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spa­gnoli e la deca­denza. Il Set­te­cento, i Savoia, il Regno di Sar­de­gna la rivo­lu­zione poi e la moder­niz­za­zione otto­cen­te­sca. Gli echi del Risorgimento.

Poi il XX secolo. Anto­nio Gram­sci fa il suo liceo a Cagliari. La car­ne­fi­cina della Grande Guerra. Pastori e con­ta­dini, riu­niti nella Bri­gata Sas­sari man­dati a morire sul Carso e Emi­lio Lussu. Poi il fasci­smo, la seconda guerra, l’occupazione tede­sca senza san­gue, i bom­bar­da­menti anglo-americani del ‘43. La città ini­zia la sua rico­stru­zione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe diri­gente insieme ai nuovi brutti quar­tieri, anni 50 e 60, che la raf­fi­gu­rano. L’edilizia cac­cia via l’architettura. Impre­sari e com­mer­cianti dise­gnano la città sulla pro­pria imma­gine e pro­du­cono una gene­ra­zione poli­tica con­for­mata, come un calco di gesso, alla loro visione mate­riale delle cose. I cosid­detti intel­let­tuali si rifu­giano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lon­tano dalle azioni.

Ma qual­cosa cam­bia negli ultimi decenni. Si smette di masti­care i fiori di loto e la memo­ria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si rico­no­sce. Si risve­glia un’anima cri­tica che comu­nica, osserva ed è inte­res­sata alle pro­prie ori­gini. E ricava ener­gia dal pas­sato senza essere pas­sa­ti­sta. Guarda indie­tro per essere moderna per­ché quando uno sa da dove viene non ha biso­gno di altro. E si oppone alla fre­ne­sia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mer­can­tile, resta forte.

La città è cre­sciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filo­so­fia del costruire. Amne­sia del pas­sato. Ha rico­perto di asfalto e cemento il suo con­tado agri­colo e lo chiama hin­ter­land. Detur­pato la sua spiag­gia abba­gliante. Vio­lato con bitume, palazzi e fab­bri­che gli sta­gni scon­fi­nati a est e a ovest. E tutto que­sto lo chiama «svi­luppo» men­tre dimo­stra che quando la poli­tica si con­fonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.

Cagliari è un’incubatrice di que­sta malat­tia. Però la sto­ria è incan­cel­la­bile. I luo­ghi resi­stono e met­tono in movi­mento gli avve­ni­menti. I morti della necro­poli di Tuvi­xeddu pos­sie­dono la forza dell’assoluto e ancora deter­mi­nano con­se­guenze. La rocca medie­vale resi­ste ai ten­ta­tivi di ren­derla «pro­gre­dita» con scale mobili e fer­ra­glia. Il pro­mon­to­rio sacro della Sella del Dia­volo resterà intatto anche se la città fame­lica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resi­sterà ai nuovi asse­dianti che oggi vogliono un vol­gare garage den­tro le sue mura.

Nel 1956 avevo cin­que anni. Il brac­cio quasi lus­sato quando pas­seg­giavo a traino delle mani inac­ces­si­bili di mio padre, il lun­go­mare, il mer­cato al cen­tro della città, le bar­che che tor­na­vano tanto cari­che che i pesca­tori sta­vano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sem­bra­vano pio­vre, le anguille scap­pa­vano dalle cesti nelle cor­sie del mer­cato, i pesci boc­cheg­gia­vano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.

Ma i fat­ti si muo­ve­vano per neces­sità che non com­pren­devo. E non obbe­di­vano a nessuno. Ero troppo pic­colo per capire cosa acca­deva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, sem­pli­ce­mente, non guar­davo per­ché, appeso alla mano di mio padre, osser­vavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico oriz­zonte per me.

So che i monti che vedevo a meri­dione erano il pro­filo dei monti del golfo, ma allora cre­devo che fosse l’Africa per­ché sen­tivo ripe­tere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delu­sione. Però con­ti­nuai a crederci.

Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova mera­vi­glia che il mae­stro, ammi­rato dal pro­gresso ben­ché con­ser­vasse la sua casa come un salotto di Nonna Spe­ranza, ci aveva già annun­ciato a scuola. Il grat­ta­cielo.

Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo pre­sente e tutti vole­vano solo pre­sente e futuro. Mai visto dal vero un palazzo così alto.Non fu stu­pore quello che pro­vai vedendo quel lungo paral­le­le­pi­pedo gri­gio con decine e decine di fine­stre fune­ra­rie. Ancora oggi ricordo la sen­sa­zione di per­dita che pro­vai e ricordo che non com­presi, ero troppo bam­bino, quel sentimento.

Quella costru­zione infan­til­mente chia­mata grat­ta­cielo, che ancora esi­ste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, tal­mente brutto che diventò proverbiale.

Però il brutto è epi­de­mico e quando ini­zia si mol­ti­plica con enig­ma­tica testar­dag­gine. Non lo fermi più. Deve, si vede, neces­sa­ria­mente tra­scor­rere e con­clu­dersi un’epoca.

Eppure tutti vedevano. Fu un’amnesia di massa che non è mai ces­sata da allora. E chissà se riac­qui­ste­remo mai la memoria. Ma, l’ho detto, tutti vole­vano abban­do­nare il pas­sato, anche quello buono.

Mia nonna, men­tre pas­seg­giavo e gio­cavo in un ter­ra­pieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che comin­ciava a esserci troppo cemento e che tutti que­sti nuovi arri­vati dal con­tado — così chia­mava gli inur­bati che arri­va­vano da ogni parte dell’isola — sta­vano ren­dendo deforme la città. Che lei era comu­ni­sta, ma que­sto non le impe­diva di capire che c’erano per­sone rese feroci pro­prio dall’arrivo in città e che ave­vano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un igno­rante non sa mai di essere ignorante.

Appena tirano su un muro si fanno chia­mare cava­lieri e com­men­da­tori, ripeteva. D’altronde il cemento aveva reso facile e pos­si­bile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribol­liva di cemento, ma io non lo sapevo. E nep­pure nonna. Però osser­vava la sua città.

Lei vedeva la brut­tezza del cemento, capiva che non si può met­tere insieme cemento e pie­tra per­ché invec­chiano in modo diverso, che la pie­tra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.

Il cemento è un mate­riale che non sa invec­chiare. La pie­tra, invece, è già vec­chia, esi­ste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a dise­gnare forme squallide.

Era squal­lido anche il bar aperto al piano terra nel «grat­ta­cielo», cat­tive le brio­che, il caffè puz­zava di bru­ciato e un moscone gia­ceva a pan­cia all’insù, mum­mi­fi­cato per sem­pre in un angolo della vetrina pretenziosa. Den­tro quel palaz­zone c’erano però alcuni segnali impor­tanti del pre­sente che sedu­ceva la comu­nità e la con­vin­ceva che il pas­sato era vergognoso.

Però è vero che nella mia città una luce che non finiva nep­pure la notte e un sole felice anche d’inverno mi face­vano sen­tire for­tu­nato e lon­tano da ogni pericolo.

Tra­slo­cammo nel 1962 in una nuova casa. E tutto mutò.

La nostal­gia è un sen­ti­mento indi­spen­sa­bile, ma deve essere orga­niz­zato. Sennò si sof­fre. Oltre­tutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.Tra­slo­cammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa lumi­nosa, moderna, con due bagni, con davan­zali, una por­ti­ne­ria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.

Quel quar­tiere era il con­fine della città sto­rica, però mi sem­brava un salto nel futuro. E ogni volta che pas­sa­vamo vicino alla vec­chia casa tra­sci­navo la mano che mi con­du­ceva per entrare den­tro il por­tone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.

Il tra­sloco cam­biò i giorni e le ore della fami­glia, cam­biò per­fino l’espressione dei geni­tori, il lin­guag­gio, i vestiti, le abi­tu­dini a tavola, la puli­zia dome­stica e per­fino l’igiene del corpo, gli odori e la memo­ria degli odori .Il tra­sloco è l’allegoria del cam­bia­mento ine­vi­ta­bile, ma non necessario.

Con il camion carico di mobili apparve la dif­fe­renza tra pre­sente e pas­sato, tra una fine e un inizio.
Babbo aveva bat­tuto a mac­china il suo nome su un foglio, rita­gliato la stri­scia di carta e l’aveva infi­lato nella fes­sura del nuovo cam­pa­nello. Poi aveva letto a voce alta il pro­prio nome e schiac­ciato il pul­sante. Quel trillo era il segnale della città nuova.

Riferimenti
Le precedenti puntate della serie di inchieste sulle città italiane dopo 30 anni di neoliberalismo sono state dedicate a Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio), Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20 marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile), Reggio Calabria e Messina (10 aprile).

La Repubblica, 15 aprile 2014

Braccio di ferro in Costa Smeralda. Il Qatar impedisce l’accesso alle spiagge più à la page bloccando i posteggi pubblici delle auto. E il Comune di Arzachena, nel cui territorio ricade gran parte del Consorzio turistico creato dall’Aga Khan, reagisce con forza: da oggi saranno avviate le procedure di esproprio delle aree, riservate d’estate ai parcheggi di chi va in macchina sino alle splendide spiagge di Liscia Ruia, del Pevero e di Romazzino. Per raggiungerle, oggi bisognerebbe percorrere a piedi oltre 10 km: impossibile lasciare moto, scooter o auto lungo le stradine sterrate che portano fin lì. E tutto questo perché la Land Holding, una delle società madri che fa capo all’emirato, qualche giorno fa ha fatto collocare una fila di massi per impedire l’accesso nei posteggi usati dai villeggianti.

Ma c’è di più. A fianco ai macigni sono apparsi cartelli con la scritta «Proprietà privata». Una palese violazione di prassi e consuetudini, secondo il Comune. «Perché sarà pur vero che i terreni appartengono al Qatar, ma il principe Karim prima e il suo successore Tom Barrack poi li avevano sempre lasciati a disposizione della collettività» spiegano ad Arzachena. Senza contare che i parcheggi devono rimanere pubblici per assicurare l’efficienza del servizio antincendi lungo una costa più volte minacciate dai roghi.

La querelle, sorta alla vigilia del primo ponte che dovrebbe portare nell’isola decine di migliaia di turisti, non pare destinata a risolversi subito. A meno che la società dell’emirato di stanza in Sardegna non decida di fare un passo indietro. Così, se tutti cercano di dare il minor clamore possibile alla vicenda, per non ledere l’immagine internazionale della Costa Smeralda, un fatto resta evidente: per la prima volta in mezzo secolo non è stata osservata la tradizione della cessione gratuita delle aree. Aree che l’apparato per i servizi tecnici del Comune affida a una coop e dota delle attrezzature necessarie per la sosta. Non si tratta, chiaramente, di pochi stalli. In tutto, i posti auto in ballo sono 600-700: è in gioco l’ospitalità quotidiana per almeno duemila persone. Oggi la giunta di Arzachena darà corso alle operazioni di esproprio, segno che qualsiasi tentativo di mediazione con il Consorzio sinora è fallito. Non si sa quanto tempo richiederanno le procedure. Ma il sindaco e i suoi assessori sono fiduciosi sulla possibilità di trovare soluzioni prima dell’inizio dell’estate. In ogni caso rifiutano di credere, come molti invece ritengono, che dietro la mossa della multinazionale possa celarsi un sotterraneo ultimatum per ottenere il via libera ai lavori di ampliamento di una perla della zona, l’hotel Cala di Volpe. Ovvia, quindi, anche la protesta dei balneari: «Per noi piazzare sedie e sdraio in queste condizioni sarà impossibile — dicono — E tutto ciò equivarrebbe a un calo delle presenze, ingiustificato in un paradiso come questo ».

Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2014
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha visitato la Pompei antica, pagando il biglietto. Non ci sarebbe la notizia: almeno non in un paese civile. Diventa, invece, una notizia proprio il fatto che, in Italia, questo piccolo accadimento abbia avuto una straordinaria risonanza mediatica. Per noi un capo del governo che si comporta come un cittadino è un evento letteralmente eccezionale.

E qui sta il primo punto: lo scollamento tra classe politica e cittadinanza. Un abisso antropologico che certo non viene colmato da un Matteo Renzi, figlio d’arte e professionista della politica fin dall’età della ragione.

Eppure, nonostante l’effimero compiacimento verso il gesto graziosamente accondiscendente del potente di turno, il dato su cui interrogarsi è che millenni di potere, imperiale e poi papale, hanno abituato gli italiani a piegare le ginocchia di fronte alla scenografia del sovrano di turno. Il dato tragico è che, in fondo, non prenderemmo sul serio un potente che si comportasse da cittadino.

Nello specifico, tuttavia, l’aspetto su cui riflettere è il rapporto tra il potere e il patrimonio culturale. Come dimostra il recentissimo scivolone della sottosegretaria Vicari, che ha chiesto i quadri dei musei di Roma per arredarsi l’ufficio al ministero dello Sviluppo economico, il nostro patrimonio storico e artistico viene percepito come una specie di grande attrezzeria di scena al servizio del potere. Quadri delicatissimi vengono spediti come commessi viaggiatori in mezzo mondo, gruppi scultorei antichi sono dislocati nei palazzi della politica, un luogo unico come Villa Madama (progettata da Raffaello) viene usato come sfondo di lusso per i vertici internazionali dei nostri capi del governo.

Quel che manca è un qualsiasi indizio di un rapporto personale tra i “potenti” e quello stesso patrimonio. La vera notizia, per l’Italia, non è che Angela Merkel abbia pagato il biglietto, ma che abbia impiegato tre ore e mezzo del suo tempo privato e personale per vedere Pompei, con una cartina in mano e in compagnia di un archeologo tedesco. E che abbia trovato poi il tempo di vedere anche il Rione Terra di Pozzuoli, con le sue vestigia romane e il suo Duomo appena restaurato. Ora, quale politico italiano lo farebbe, se non per dovere di Stato, e a favore di telecamera? E questo è il punto: in Italia non c’è mai stata una vera politica per la cultura, perché almeno dagli anni Sessanta, la nostra classe politica – salvo rare eccezioni – non è stata composta da persone che avessero un vivo rapporto personale con la cultura. È dura parlare di politica internazionale con uno che non sa nemmeno cos’è la geografia, o di economia con uno che non ricorda manco le tabelline: eppure, la stragrande maggioranza dei nostri ministri per i Beni culturali e dei nostri presidenti del Consiglio non ha la più pallida idea di cosa sia un museo, per non dire uno scavo archeologico. Commentando un libro di Renzi, Paolo Nori ha scritto “Ecco: a me è sembrato stranissimo che in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sono riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta”. Ed è per questo che ci colpisce così tanto vedere la Merkel felice di passare tre ore e mezza tra scavi da cui i suoi omologhi italiani scapperebbero a gambe levate.

Infine, il biglietto. Salvo rarissime eccezioni, nessuna istituzione culturale del mondo campa con i biglietti: ed è per questo che si potrebbe addirittura pensare di sopprimerli, sottolineando così – come avviene, per esempio, in molti musei pubblici inglesi – la gratuità del patrimonio e la sua dimensione inclusiva. Piuttosto, sarebbe stato bello far notare a Frau Merkel che se Pompei versa nello stato penoso in cui l’ha trovata, è in massima parte a causa dei dissennati tagli al bilancio pubblico imposti proprio dall’Europa a trazione tedesca. Non esiste una politica europea della cultura, né una chiara idea della sua funzione civile: e forse il punto da cui partire potrebbe esser proprio il senso della Merkel per Pompei. Senza battere i pugni sul tavolo, ma riallacciando i fili di un’antica conversazione tra Italia e Germania.

Prosegue l'analisi del manifesto sulle cittàitaliane. Dopo Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio),Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile) due città di frontiera che vogliono diventareuna: la più grande del Mezzogiorno. Prossimamente Torino e Cagliari, 10 aprile 2014

Tra la punta dello sti­vale e la Sici­lia c’è un tratto di mare, di poco più di tre chi­lo­me­tri che alcune volte diventa un lago salato, facile da attra­ver­sare con una pic­cola barca a remi, ma anche a nuoto come avviene ogni anno il 15 ago­sto e a Capo­danno per un antica tra­di­zione. Altre volte que­sto mare si agita, ha le con­vul­sioni, solo le grandi navi por­ta­con­tai­ner rie­scono a pas­sare men­tre le due rive si allon­ta­nano, l’Aspromonte scom­pare dalla vista dei mes­si­nesi e un’ombra scura sulla costa sici­liana impe­di­sce ai reg­gini di vedere Zan­kle, Mes­sene, Messina.

Reg­gio e Mes­sina, città sorelle e, a volte, acer­rime nemi­che, hanno vis­suto nel corso della sto­ria le stesse cata­strofi natu­rali (più di venti terremoti/maremoti cata­stro­fici di cui i più recenti sono stati il 1783 e il 1908) che ne hanno segnato la memo­ria e l’identità, ma hanno anche intrec­ciato e mesco­lato le popo­la­zioni delle due sponde, le cul­ture e i riti reli­giosi, la gastro­no­mia e il dia­letto. Reg­gio è la meno cala­brese delle città della Cala­bria così come Mes­sina è la meno sici­liana: sono città di fron­tiera, rispetto a Palermo e Catan­zaro, i capo­luo­ghi regio­nali. Appar­ten­gono allo Stretto, a que­sto pae­sag­gio unico al mondo, carico di miti anti­chi quanto la nostra civiltà, di feno­meni natu­rali straor­di­nari (come la fata Mor­gana), di uno sky­line armo­nioso e sug­ge­stivo che solo la fol­lia dello svi­lup­pi­smo delle grandi opere voleva detur­pare e distrug­gere con la costru­zione del farao­nico Ponte. Un’opera voluta anche dai sici­liani e cala­bresi che vivono lon­tano dallo Stretto e vedono que­sto tratto di mare come un osta­colo, una per­dita di tempo, per­ché non sanno godere di que­sto spet­ta­colo perenne che uni­sce le due città, come la vite che s’intreccia all’ulivo.

Rico­struite dopo il ter­ri­bile ter­re­moto del 1908, il più deva­stante al mondo per numero di morti (oltre 100.000) durante il secolo scorso, le due città hanno seguito tra­iet­to­rie diverse sul piano socio-economico. Durante il fasci­smo che rea­lizzò velo­ce­mente la rico­stru­zione, Mes­sina ebbe un ambi­zioso piano urba­ni­stico (piano Borzì) e cospi­cui finan­zia­menti da parte del governo fasci­sta per via degli stretti rap­porti del suo arci­ve­scovo con il duce. La città fu ridi­se­gnata con grandi viali, ampie piazze, e grandi edi­fici pub­blici in stile fasci­sta, non­ché palazzi e ville nobi­liari in stile liberty. Fino alla seconda guerra mon­diale il porto di Mes­sina aveva un ruolo impor­tante nell’esportazione di vino e agrumi sici­liani (in par­ti­co­lare i limoni, il 90% dell’export nazio­nale di que­sto agrume), del legname dell’Aspromonte, della seta pro­dotta a Villa San Gio­vanni e delle essenze di ber­ga­motto pro­dotte a Reg­gio. Aveva inol­tre delle fab­bri­che di essenze agru­ma­rie e tes­sili e altre indu­strie create da impren­di­tori stra­nieri e locali. Divisa tra due forti mas­so­ne­rie, una laica-mazziniana e l’altra cat­to­lica, la città espri­meva un livello cul­tu­rale molto più alto della media delle altre città del Mez­zo­giorno anche gra­zie alla pre­sti­giosa Uni­ver­sità nata nel XV secolo, una delle più anti­che del nostro Sud.

Di con­tro, Reg­gio era una pic­cola città-fortezza, dise­gnata intorno al castello ara­go­nese del XV secolo. Fu rico­struita sulla stessa strut­tura urba­ni­stica pre-terremoto, solo più in alto per­ché era stato il mare­moto a fare il mag­gior numero di vit­time. La sua ric­chezza non veniva dal mare, ma dall’entroterra e il potere era in mano a una deca­dente nobiltà e a una pic­cola bor­ghe­sia com­mer­ciale. Ma, aveva una grande fonte di ric­chezza e di lavoro: la lavo­ra­zione del ber­ga­motto, le cui essenze hanno costi­tuito la base dell’industria cosme­tica fino a quando, nel 1954, non è stato tro­vato un sosti­tuto chimico.

Dagli anni ’50 del secolo scorso le due città subi­rono un pro­gres­sivo pro­cesso di dein­du­stria­liz­za­zione, di per­dita del rap­porto pro­dut­tivo con le pro­prie risorse, di cre­scente peso della pub­blica ammi­ni­stra­zione e della spesa assi­sten­ziale. Un feno­meno che è stato comune alla gran parte delle regioni meri­dio­nali, dove solo dal 1951 al 1971 l’industria mani­fat­tu­riera ha fatto regi­strare un saldo nega­tivo di 17.525 unità a fronte di un aumento di 144.130 unità che si regi­stra nel Centro-Nord . È un pro­cesso di dein­du­stria­liz­za­zione che col­pi­sce la Pmi meri­dio­nale e porta ad una dele­git­ti­ma­zione del mer­cato capi­ta­li­stico. Il ven­ten­nio dello svi­luppo eco­no­mico ita­liano è stato il ven­ten­nio della deser­ti­fi­ca­zione pro­dut­tiva nel Mez­zo­giorno, che non ha retto alla pro­gres­siva glo­ba­liz­za­zione dei mer­cati, e ha pro­dotto un vuoto socio-economico e poli­tico che altri sog­getti hanno riempito.

A Mes­sina, la crisi pro­dut­tiva e occu­pa­zio­nale è stata in parte sosti­tuita dalla spesa pub­blica e la cre­scita abnorme delle pub­bli­che isti­tu­zioni: Comune, Pro­vin­cia, Ospe­dale, Poli­cli­nico, Uni­ver­sità. Alla bor­ghe­sia pro­dut­tiva e libe­rale (a Mes­sina nel 1948 il Par­tito libe­rale prese il 14%, un record in Ita­lia) si è andata sosti­tuendo la bor­ghe­sia sta­tale, i buro­crati e i poli­tici che inter­cet­ta­vano i flussi cre­scenti di spesa pub­blica. La crisi pro­fonda della città ini­zia negli anni ’70 del secolo scorso e segue la para­bola della spesa pub­blica. Il suo declino è inar­re­sta­bile, ma lento, sor­dido, non suscita rea­zioni, tanto da con­fer­mare l’ingiuria per i mes­si­nesi di essere dei bud­daci, cioè pesci che stanno a bocca aperta, par­lano tanto, ma non com­bi­nano niente. La cor­ru­zione, l’incapacità, la man­canza di una cit­ta­di­nanza attiva, fanno sì che la città con­ti­nui a spe­gnersi len­ta­mente, con brevi ritorni di fiamma come accadde nel periodo 1994-‘98 durante la giunta Pro­vi­denti. Un’eccezione in oltre quarant’anni di decadenza.

Dall’altra parte dello Stretto il crollo nelle ven­dite delle essenze di ber­ga­motto e delle arance (per via della con­cor­renza spa­gnola), fonti pri­ma­rie di ric­chezza della città, venne solo in parte com­pen­sato dalla cre­scita della spesa pub­blica. Il crollo della nobiltà lati­fon­di­sta, della bor­ghe­sia com­mer­ciale, non trovò un sog­getto sociale capace di ege­mo­nia fin­ché non scop­piò la guerra per il Capo­luogo nel 1970. Durò quasi un anno e fu l’ultima rivolta popo­lare di massa del Mez­zo­giorno, su cui si inse­ri­rono inte­ressi esterni legati alla stra­te­gia della ten­sione, e si sal­da­rono i rap­porti tra Mas­so­ne­ria, ser­vizi segreti e ‘ndran­gheta. Ma, la gente che era scesa in piazza e che morì o fu ferita e arre­stata aveva, oltre l’orgoglio di appar­te­nenza, l’obiettivo di com­bat­tere per gli unici posti di lavoro cre­di­bili: quelli della pub­blica ammi­ni­stra­zione. Men­tre la sini­stra, Pci in testa, par­lava di fab­bri­che e indu­stria­liz­za­zione, la popo­la­zione cre­deva solo al Capo­luogo come fonte d’occupazione e di red­dito. Que­sta rivolta segnò una cesura sto­rica netta: la vio­lenza della repres­sione gover­na­tiva, l’azzeramento della classe poli­tica demo­cri­stiana, portò a un vuoto totale di potere e di lega­lità che durò molti anni. Crebbe allora l’abusivismo edi­li­zio, fino a quel momento mar­gi­nale, fino a dar vita nei decenni suc­ces­sivi, alla costru­zione del 90 per cento di case abu­sive. Intorno al cen­tro sto­rico la città è cre­sciuta come uno ster­mi­nato e informe agglo­me­rato di case man­gian­dosi la cam­pa­gna un tempo lus­su­reg­giante. Ma, soprat­tutto, emerse con forza il ruolo ege­mone della bor­ghe­sia mafiosa com­po­sta da pro­fes­sio­ni­sti, impren­di­tori, poli­tici e il brac­cio armato di quella orga­niz­za­zione che si chiama ‘ndran­gheta, diven­tata la più potente delle mafie. Senza Stato, né Mer­cato, Reg­gio divenne un labo­ra­to­rio per la via cri­mi­nale all’accumulazione capi­ta­li­stica che si è dif­fuso in tutto il mondo.

Nel nuovo secolo lo sce­na­rio socio-politico dell’area dello Stretto appa­ren­te­mente non cam­biò. Mes­sina con­ti­nuò nel suo declino e passò da un Com­mis­sa­ria­mento del Comune all’altro, per cor­ru­zione, dis­se­sto finan­zia­rio o sem­plice caduta della giunta comu­nale. Reg­gio, che aveva vis­suto un pic­colo momento di rina­scita (la cosid­detta «Pri­ma­vera reg­gina» del com­pianto sin­daco Italo Fal­co­matà), ricadde nello scon­forto e finì nelle mani di un abile poli­tico, già lea­der del Fronte della Gio­ventù, che si inventò il modello Reg­gio: spesa pub­blica a go-go per spet­ta­coli e diver­ti­menti, clien­te­li­smo sfre­nato e bilan­cio comu­nale truc­cato e fuori controllo.

Negli ultimi anni la sto­ria delle due città ha subito un’accelerazione e una svolta impre­ve­di­bile. Il bello della vita è que­sto: quando non ti aspetti più niente, quando sem­bra che non ci siano più spe­ranze, quando sei rat­tri­stato da una gior­nata carica di nuvole, piog­gia e vento, improv­vi­sa­mente un rag­gio di luce appare sullo Stretto e cam­bia la tua visione, la tua per­ce­zione del futuro.

A Reg­gio il modello Sco­pel­liti è finito nelle mani della magi­stra­tura, men­tre la città lan­gue sotto il peso di un lungo Com­mis­sa­ria­mento inca­pace di risol­vere il dis­se­sto finan­zia­rio dovuto alle pas­sate ammi­ni­stra­zioni. È una città in fuga, dove par­tono non solo i lau­reati ma tutti quelli che pos­sono, e la stessa bor­ghe­sia mafiosa ha smesso di inve­stire da anni, spo­stando i capi­tali verso il Nord Ita­lia e le aree più ric­che del mondo. Quasi ogni notte una bomba sve­glia gli abi­tanti (l’ultima pro­prio al lato della pre­fet­tura) e sono ripresi gli omi­cidi mafiosi, dopo una lunga pax seguita al «Trat­tato» del 1992 in cui i capi­clan posero fine alla guerra di ‘ndran­gheta che costò set­te­cento omi­cidi in sette anni.

A Mes­sina, nes­suno se lo aspet­tava o ci avrebbe scom­messo un euro, nelle ele­zioni comu­nali del giu­gno scorso ha vinto la lista civica di Renato Acco­rinti, mili­tante paci­fi­sta, eco­lo­gi­sta e lea­der del movi­mento No Ponte. Una figura di sin­daco che ha stu­pito l’Italia interna e non solo, e che è il frutto di una improv­visa rivolta della città al malaf­fare e alla bor­ghe­sia paras­si­ta­ria che l’ha gover­nata per decenni. La giunta Acco­rinti, com­po­sta da tec­nici social­mente impe­gnati, ha un pro­gramma ambi­zioso di riscatto della città e in pochi mesi ha già segnato un visi­bile cam­bia­mento (Renato Acco­rinti è il sin­daco più amato dagli ita­liani secondo l’ultimo son­dag­gio Ipsos). Ma, il fatto isti­tu­zio­nal­mente più rile­vante è la volontà di que­sta giunta di costruire la città metro­po­li­tana dello Stretto, unendo Reg­gio e Mes­sina e i Comuni limi­trofi. Diver­rebbe la terza città del Mez­zo­giorno per popo­la­zione e, soprat­tutto, un labo­ra­to­rio di soste­ni­bi­lità sociale e ambien­tale, a par­tire dai tra­sporti neces­sari per dare la con­ti­nuità ter­ri­to­riale alle due sponde. La sfida della giunta Acco­rinti ha con­ta­giato la sponda reg­gina e l’idea di una città dello Stretto che venga fon­data sui valori dell’ambiente, dell’economia soli­dale e della pace, sta comin­ciando a navi­gare da una sponda all’altra. Se il tiranno Anas­sila era riu­scito a uni­fi­care le due città con la forza, oggi que­sta unione avviene sotto il segno di una demo­cra­zia che cre­sce dal basso.

Corriere della Sera Lombardia, 6 aprile 2014

MILANO — I contrari, i paladini delle vette, Cai in testa, hanno raccolto online oltre 23 mila firme in 7 giorni. I favorevoli, gli appassionati delle moto, rispondono con più di 3.700 sottoscrizioni. È sfida sui sentieri di montagna della Lombardia a colpi di petizioni in rete fra pro e contro la nuova legge regionale che, se approvata, cancellerà gli attuali divieti, per permettere alle moto da cross, enduro e trial di sfrecciare in libertà nelle oasi verdi d’alta quota e nei boschi di collina e pianura. Infatti al Pirellone, martedì, sarà discusso e votato il progetto di legge 124, con il quale la maggioranza di centrodestra vorrebbe cambiare la normativa regionale del 2008 sul «traffico motorizzato nelle aree agro-silvo-pastorali», come spiegano Dario Bianchi (Lega Nord) e Alessandro Fermi (Forza Italia).

Nel dettaglio, l’obiettivo è di eliminare i commi 3 e 4 dell’articolo 59 dell’attuale legge 31, che vietano «il transito dei mezzi motorizzati su strade, mulattiere e sentieri, nonché in tutti i boschi e nei pascoli ad eccezione di quelli di servizio». Con la proposta di modifica, spiega il Cai nella sua raccolta firme online per dire «No», si mira a «introdurre una deroga per consentire ai singoli comuni di autorizzare il transito temporaneo delle moto in base a un regolamento regionale da definire». Risultato? «Se passasse la nuova legge, l’effetto risulterebbe devastante per l’ambiente e ci sarebbe un’impennata dei livelli di smog e rumore», osserva Paolo Micheli, consigliere regionale di Patto Civico che, come tutta l’opposizione, boccia la nuova proposta. «In poche ore si possono creare danni che solo la natura potrebbe riparare impiegando però anni e ai quali l’uomo non può porre rimedio», tuonano in coro Fai, Federparchi, Legambiente, Wwf e Coldiretti.

Inoltre il Cai sottolinea «l’incompatibilità fra escursionismo e motociclismo sugli stessi sentieri». e ribadisce che le due ruote sono «contrarie allo sviluppo di un turismo dolce ed ecosostenibile». Sull’altro fronte della barricata, invece, ci sono la Fmi (Federazione motociclistica italiana) e i motoclub di tutta la Lombardia. Un esercito di piloti (professionisti e dilettanti) che si battono per il «Sì». Invocano un «motocross libero» e vanno in pressing sulla giunta Maroni chiedendo meno vincoli e burocrazia. Perché «quest’attività sportiva non arreca danni irreparabili né ai sentieri, né alle mulattiere».

(qui qualche commento in più e il link alla petizione)

Il manifesto, 6 aprile 2014

La Gal­lura come Eldo­rado degli eva­sori fiscali. Sul para­diso turi­stico sardo si abbatte una tem­pe­sta giu­di­zia­ria che pro­mette di avere svi­luppi cla­mo­rosi. La noti­zia è stata data ieri in esclu­siva dal quo­ti­diano la Nuova Sar­de­gna. «In Gal­lura 2500 ville, con tanto di giar­dini, depen­dance e ampie ter­razze con vista sul mare — scrive la testata sarda — sono risul­tate appar­te­nenti, come pro­prietà immo­bi­liari, a società estere regi­strate in para­disi fiscali, men­tre a sfrut­tarne il loro altis­simo poten­ziale eco­no­mico o uti­liz­zarle per le vacanze a cin­que stelle, sono in gran parte sco­no­sciuti cit­ta­dini ita­liani con denunce dei red­diti da ope­rai metal­mec­ca­nici. Per sta­nare il fol­tis­simo gruppo di per­sone iscritte alla «Ano­nima Pro­prie­tari Ltd» dalle loro dimore di lusso è stata alle­stita, ed è entrata in piena atti­vità già da alcuni mesi, una impo­nente e iper­tec­no­lo­gica task force coor­di­nata dal pro­cu­ra­tore capo della Repub­blica di Tem­pio, Dome­nico Fior­da­lisi. Il quale ha aperto un fasci­colo che rac­chiude l’inchiesta avviata alla fine dello scorso dicem­bre per accer­tare se siano riscon­tra­bili reati di carat­tere penale oltre a vio­la­zioni in ambito fiscale o ammi­ni­stra­tivo». Le zone fiscali «free» nelle quali le società coin­volte nell’inchiesta hanno regi­strato le ville sono sparse un po’ in tutto il mondo: Repub­blica di San Marino e prin­ci­pato di Monaco, Lus­sem­burgo e Lie­ch­ten­stein, Andorra e Gibil­terra, Cipro e Barein, Antille e Poli­ne­sia fran­cese. L’indagine è con­dotta dalla poli­zia tri­bu­ta­ria e dal Gico di Roma. Ma sono coin­volti anche gli uffici del dema­nio sardi, le agen­zie delle entrate di Sas­sari, Tem­pio e Olbia, la guar­dia di finanza di Olbia e Sas­sari. Un mega team che ha por­tato alla luce una realtà per molti versi sconcertante.

Tutto è comin­ciato circa un anno fa, quando gli ispet­tori dell’Agenzia delle entrate di Tem­pio esa­mi­nando le denunce dei red­diti di alcuni per­so­naggi che fre­quen­tano la Costa e i movi­menti dei ban­co­mat e delle carte di cre­dito, si sono resi conto che il loro tenore di vita non era com­pa­ti­bile con le loro dichia­ra­zioni fiscali. «Un cam­pa­nello d’allarme — scrive la Nuova Sar­de­gna — che ha fatto scat­tare i suc­ces­sivi accer­ta­menti patri­mo­niali che hanno messo in rilievo che ben 2500 tra ville e dimore da fiaba dis­se­mi­nate sulla Costa gal­lu­rese — dalle alture di Monti di Mola (Porto Cervo) alle asso­late spiagge dal mare cri­stal­lino di Porto Rotondo e Palau — risul­tano inte­state, come pro­prietà immo­bi­liari, a società estere. Appro­fon­dendo ulte­rior­mente que­sto sin­go­lare aspetto si è venuti a sco­prire che gran parte degli immo­bili sono uti­liz­zati nel periodo estivo da cit­ta­dini ita­liani, oppure ceduti in loca­zione, attra­verso una fitta ragna­tela di agen­zie immo­bi­liari sarde, ita­liane ed euro­pee, a ita­liani che, stando alla loro denun­cia dei red­diti, potreb­bero per­met­tersi al mas­simo di affit­tare, e per poche ore sol­tanto, una cabina sulla spiag­gia di Ric­cione, Rimini o Cattolica».

«L’inchiesta — dice il pro­cu­ra­tore Fior­da­lisi — è appena avviata e nes­sun reato o vio­la­zione sono stati finora ipo­tiz­zati o con­te­stati». Quindi è impos­si­bile cono­scere i nomi delle per­sone coin­volte e delle società pro­prie­ta­rie delle ville «appog­giate» ai para­disi fiscali. In pro­cura però non fanno mistero del fatto che i dati rac­colti in più di un anno di inda­gini for­ni­scono un qua­dro molto det­ta­gliato, soste­nuto da riscon­tri dif­fi­cil­mente con­te­sta­bili. E viste le dimen­sioni dell’inchiesta e i per­so­naggi coin­volti, i pros­simi giorni potreb­bero riser­vare rive­la­zioni clamorose.

Fior­da­lisi nelle scorse set­ti­mane è stato impe­gnato su un altro fronte caldo, quello dell’inchiesta avviata dagli uffici giu­di­ziari di Tem­pio sulle ville abu­sive costruite sull’isola della Mad­da­lena. Prima sono arri­vate le ordi­nanze di sgom­bero e poi, lunedì scorso, le ruspe. Sono tren­ta­cin­que gli edi­fici total­mente o par­zial­mente abu­sivi, tutti costruiti in un’area sot­to­po­sta a tutela ambien­tale inte­grale. Una decina sono abi­tati sta­bil­mente da anni. Mar­tedì scorso alcuni pro­prie­tari delle case da abbat­tere hanno cer­cato invano di fer­mare le ruspe e si sono vis­suti momenti di forte ten­sione, con un paio di feriti lievi, quando un nutri­tis­simo schie­ra­mento di poli­zia ha cari­cato per rom­pere il blocco intorno alle ville. Fior­da­lisi, però, non sem­bra inten­zio­nato a fer­marsi e la pros­sima set­ti­mana le ruspe rien­tre­ranno in azione.

Con il pro­cu­ra­tore di Tem­pio si schiera Legam­biente. «Costruire case abu­sive — dice Laura Biffi dell’Osservatorio nazio­nale ambiente e lega­lità — è un reato, demo­lirle è un obbligo di legge. Scene come quelle che si sono viste alla Mad­da­lena, con il sin­daco, i con­si­glieri comu­nali e per­sino il par­roco schie­rati accanto ai mani­fe­stanti per bloc­care le ruspe pur­troppo non sono nuove. Le abbiamo già viste tante volte in Cam­pa­nia, in Sici­lia e nella stessa Sar­de­gna. L’abusivismo di neces­sità è una falsa giu­sti­fi­ca­zione. Di fronte a situa­zioni di reale disa­gio abi­ta­tivo, la poli­tica dovrebbe dare rispo­ste con gli stru­menti pre­vi­sti dalla legge, prov­ve­dendo ad assi­cu­rare un allog­gio sociale, non una casa abusiva»

In una specie di promozione immobiliare travestita da articolo di giornale, si sdogana esplicitamente in Italia il modello della gated community, segregazionista sottilmente razzista e completamente antiurbana. Corriere della Sera Milano, 5 aprile 2014, postilla (f.b.)

Ha una sola lancetta, quella che scandisce le ore, l’orologio del XII secolo che ancora oggi segna il tempo sul campanile di Borgo Vione, a Basiglio. «È un gioiello alto-medievale con un meccanismo infallibile – spiega Nicola Vedani -. I monaci cistercensi che costruirono cascina Vione non avevano certo bisogno di misurare i minuti. Ecco, è questa visione diversa del tempo e della vita che vogliamo offrire ai nuovi abitanti». Vedani, 43 anni, imprenditore, fa parte dell’omonima famiglia a capo del gruppo siderurgico Intals-Somet che dal 2010 sta portando avanti il recupero di questa ex grangia dei monaci cistercensi di Chiaravalle trasformata nella prima gated community italiana.

E davvero, quando si supera il lungo muro di cinta sorvegliato 24 ore su 24 dagli occhi di 35 videocamere e dai sensori antintrusione e si varca il cancello della «nuova» Vione, si ha come l’impressione che il tempo prenda un’altra direzione. Qui è tutto pulito, ordinato: il caos di Milano sembra lontanissimo, ma è a soli 20 minuti. Non circolano automobili, anche se in realtà ci sono, nascoste in un parcheggio sotterraneo multicolore. Si sente persino la musica di un pianoforte che, tutte le mattine, si diffonde ovunque tra le ville e gli appartamenti. Proviene dalla chiesetta di San Bernardo e non c’è il pianista. Come in film, la tastiera si anima e il piano suona da solo.

Borgo Vione, uno degli ingressi alla corte centrale - foto F. Bottini

A maggio partiranno i lavori per la realizzazione del secondo lotto che prevede il recupero conservativo di altri tre edifici storici . Per ora, abitano nell’ex borgo medievale circondato dal verde 35 famiglie. Australiani, inglesi, portoghesi: sono soprattutto stranieri, manager e professionisti che vogliono vedere crescere i loro figli in un ambiente protetto e sicuro. È la garanzia di tutte le gated community : si entra solo se invitati. I bambini sono liberi di giocare ovunque: qui si conoscono tutti. «Non a caso i nuovi arrivati dicono di sentirsi in un resort.

L’atmosfera è quella», spiega il direttore del complesso Luca Baffoni. E anche gli ingredienti: ludoteca comune con wi fi e pc, barbecue in un’area dedicata, giardino d’inverno dove a breve, accanto alla vasca all’aperto in cui i bimbi vanno a giocare, spunterà un’area relax con idromassaggio. La lingua «franca», parlata persino dai bambini, è ovviamente l’inglese. Complessivamente il piano di recupero prevede 130 tra loft, ville e appartamenti su una superficie di 100.000 mq. Il costo al metro quadrato va dai 3.300 euro in su.

postillaPer fortuna a suo tempo avevamo già stigmatizzato questa operazione immobiliare esplicitamente reazionaria, dove si invitavano in buona sostanza i bianchi ariani stufi di mescolarsi al resto del mondo nella metropoli multiculturale, a rifugiarsi in una specie di medioevo da cartolina dietro un fossato d'epoca restaurato ad hoc con acqua calda e fredda corrente. Il rinvio, per non ripetere ancora le medesime cose, è quindi a Immersi nel verde e nella paranoia. Del resto lo sdoganamento di concetti praticamente tabù non è cosa nuova, quando riguarda interessi economici sul territorio, l'abbiamo visto con lo sprawl autostradale transustanziato in Città Infinita, o con la Gentrification usata oggi spesso, spudoratamente, come sinonimo di riqualificazione urbana (f.b.)

Uno scenario . La città come motore di sviluppo della Toscana, crocevia e nodo propulsore di un progetto di riequilibrio e valorizzazione regionale. Una integrazione dell'analisi di Ilaria Agostini. Il manifesto, 3 aprile 2014
Il futuro di Firenze dipende, come nei pre­ce­denti illu­stri della città rina­sci­men­tale e lore­nese, da quale ruolo stra­te­gico intende attri­buirsi rispetto alla «sua» città metro­po­li­tana e alla regione toscana.

In par­ti­co­lare nel periodo lore­nese Firenze ebbe un ruolo di cen­tro motore di un grande pro­getto di infra­strut­tu­ra­zione del ter­ri­to­rio regio­nale (boni­fi­che, strade, porti, popo­la­mento, valo­riz­za­zione delle comu­nità locali…) imple­men­tan­done il carat­tere for­te­mente poli­cen­trico, senza ampliare il sistema urbano cen­trale. È l’economista Gia­como Becat­tini a ricor­darci che oggi «un passo avanti nell’impostazione cor­retta dell’intervento pub­blico sul ter­ri­to­rio può esser rap­pre­sen­tato da un ripen­sa­mento siste­ma­tico delle “Rela­zioni sul governo della Toscana” di più di due secoli fa» (La lezione di Pie­tro Leo­poldo, www .socie ta dei ter ri to ria li sti .it). Quale può essere dun­que il pro­getto stra­te­gico di Firenze oggi?

Riprendo uno sce­na­rio che veda Firenze svi­lup­pare i suoi ruoli di ser­vi­zio, coor­di­na­mento, pro­mo­zione di un modello regio­nale di svi­luppo poli­cen­trico, fon­dato innan­zi­tutto sulla riqua­li­fi­ca­zione in chiave bio­re­gio­nale del sistema metro­po­li­tano Firenze-Prato-Pistoia, (piana, valli appen­ni­ni­che e col­line che ne con­no­tano l’identità di lunga durata: una col­lana di «perle» urbane affac­ciate sull’antico lago plei­sto­ce­nico, testate di sistemi val­livi pro­fondi). È una visione di città metro­po­li­tana come fede­ra­zione soli­dale di città, riaf­fac­ciate sull’Arno e sui suoi affluenti e sul grande parco agri­colo multifunzionale.

Que­sta fede­ra­zione urbana fio­ren­tina lan­cia «umil­mente» a Pisa, Lucca, Massa, Livorno, Siena, Arezzo e Gros­seto e via via alle città d’arte minori una pro­po­sta di rete soli­dale che tra­sformi Firenze in cro­ce­via e nodo pro­pul­sore di un pro­getto di rie­qui­li­brio e valo­riz­za­zione regio­nale che veda:
- la valo­riz­za­zione delle iden­tità dei sistemi ter­ri­to­riali e pae­sag­gi­stici locali entro un con­te­sto rela­zio­nale for­te­mente mul­ti­po­lare, fon­dato sugli equi­li­bri ambien­tali, sociali, pro­dut­tivi e cul­tu­rali di cia­scun sistema locale e sulle reti poli­cen­tri­che (mate­riali e imma­te­riali) di pic­cole e medie città: il sistema a rete dei poli uni­ver­si­tari «ter­ri­to­ria­liz­zati» fa da bat­ti­strada all’elevamento del rango gerar­chico delle città stesse;
- l’investimento nelle aree interne per pro­getti di ripo­po­la­mento rurale dell’alta col­lina, della mon­ta­gna degli entro­terra costieri, base sociale e pre­si­dio di nuovi equi­li­bri socio-produttivi, idrau­lici, eco­lo­gici, ener­ge­tici, nel con­te­sto di una con­ver­sione eco­lo­gica dell’economia a supe­ra­mento del modello inse­dia­tivo che ha pro­dotto, con il domi­nio del cen­tro regio­nale, aree peri­fe­ri­che e marginali;
- il blocco del con­sumo di suolo agri­colo che, entro un nuovo patto fra città e cam­pa­gna, può con­sen­tire stra­te­gie di rie­qui­li­brio idro­geo­mor­fo­lo­gico, eco­lo­gico, inse­dia­tivo; nuove fron­tiere dell’agricoltura nella pro­du­zione di cibo per le città e di ser­vizi eco­si­ste­mici; la chiu­sura locale dei cicli dei rifiuti, dell’alimentazione, dell’acqua e dell’energia.

Firenze capi­tale, sede della Regione, può gui­dare que­sto pro­getto dando l’esempio:
- riat­ti­vando la città sto­rica con fun­zioni e atti­vità di ter­zia­rio avan­zato con­nesse alla con­ver­sione pro­dut­tiva del sistema regio­nale e alla qua­lità dell’abitare, fer­mando gli effetti distrut­tivi della iden­tità urbana da parte della disney­land turistico-finanziaria-immobiliare;
- ridi­se­gnando i con­fini della città metro­po­li­tana e dei suoi cen­tri urbani attra­verso la valo­riz­za­zione mul­ti­fun­zio­nale del suo parco agri­colo in riva destra dell’Arno (Firenze-Prato) e svi­lup­pando quello in costru­zione in riva sini­stra (Firenze-Lastra a Signa); e avviando pro­getti di riqua­li­fi­ca­zione, riuso e rici­clo delle peri­fe­rie e dei loro mar­gini, verso una città di vil­laggi urbani ad alta qua­lità abi­ta­tiva, eco­lo­gica e energetica;
- atti­vando la riqua­li­fi­ca­zione del sistema dell’Arno e dei suoi affluenti nelle loro fun­zioni frui­tive, eco­lo­gi­che, pro­dut­tive, agri­cole, turi­sti­che, in stretta con­nes­sione con i par­chi agri­coli rivieraschi;
- valo­riz­zando il sistema mul­ti­po­lare di città affac­ciate sulla piana, di valli pro­fonde, di nodi oro­gra­fici, in grado di supe­rare il degrado del modello centro-periferico dell’urbanizzazione recente;
- pro­du­cendo un sistema di tra­sporti al ser­vi­zio della mobi­lità della città metro­po­li­tana poli­cen­trica con­nesso al pro­getto di mobi­lità dolce della piana (ivi com­presa la navi­ga­bi­lità «leg­gera» dell’Arno fra Firenze e Pisa); e con la rivi­ta­liz­za­zione del sistema fer­ro­via­rio metro­po­li­tano e delle fer­ro­vie regio­nali minori, inve­sten­dovi i capi­tali rispar­miati con una solu­zione di super­fi­cie dell’alta velocità;
- poten­ziando gli accessi da Firenze ai sistemi aereo­por­tuali di Pisa e di Bolo­gna, con­te­nendo il ruolo del city air­port fiorentino;
- sot­to­po­nendo infine a dibat­tito pub­blico e a pro­cessi par­te­ci­pa­tivi capil­lari e per­ma­nenti la pro­pria tran­si­zione urba­ni­stica e socioe­co­no­mica a una visione di bio­re­gione urbana.

La città metro­po­li­tana così con­ce­pita, riqua­li­fi­cando in senso demo­cra­tico e fede­ra­tivo la pro­pria magni­fi­cenza civile (con­tro i gio­chi in atto che vedono Firenze alla con­qui­sta gerar­chica del ter­ri­to­rio metro­po­li­tano), può aspi­rare a dive­nire motore di svi­luppo del futuro della Toscana, pro­muo­vendo modelli inse­dia­tivi vir­tuosi nelle aree ex peri­fe­ri­che e mar­gi­nali della regione; modelli dei quali essa stessa si pro­pone come esem­pli­fi­ca­zione di eccellenza

Prosegue l'analisi del manifesto sulle cittàitaliane. Dopo Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20febbraio), Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo),Parma (20 marzo 2014) eccoci a Firenze, trent’anni dopo la telefonata diOcchetto che tentò di bloccare la speculazione contrattata sull’areaFiat-Fondiaria. 3 aprile 2014

Due avve­ni­menti segnano il capo e la coda di un quin­di­cen­nio di tran­quilla urba­ni­stica fio­ren­tina: la tele­fo­nata del segre­ta­rio di un Pci in fase di auto­de­mo­li­zione - Achille Occhetto - che bloc­cava la grande, tut­tora irri­solta, espan­sione occi­den­tale di Castello (1989); e il rece­pi­mento, negli anni 2000, del trac­ciato urbano dei 7 km sot­ter­ra­nei dell’alta velo­cità fer­ro­via­ria. Nella seconda giunta Dome­nici (2004–2009) la pia­ni­fi­ca­zione entra nella fase di risve­glio, per assu­mere poi spe­ci­fici con­no­tati, dal valore di prova in vitro per l’urbanistica penin­su­lare avvenire.

Ripor­tando in auge il vec­chio piano attua­tivo, Leo­nardo Dome­nici (Ds poi Pd), di con­certo con l’assessore Gianni Biagi, imba­sti­sce nel 2005 l’affaire Castello, patto tra gen­ti­luo­mini stretto e cele­brato con Sal­va­tore Ligre­sti. Un milione e 400mila metri cubi di cemento nella piana a nord-ovest della città, a ridosso dell’aeroporto, in ter­reni acqui­tri­nosi poco appe­ti­bili e per­ciò da desti­nare a ser­vizi pub­blici: oltre alla ciclo­pica caserma dei Cara­bi­nieri e alla sven­tata Cit­ta­della dello Sport (ora alla Mer­ca­fir), spicca nel pro­getto un polo didat­tico voluto dalla Pro­vin­cia, allora gover­nata da un pro­met­tente Mat­teo Renzi. Il sin­daco Dome­nici, lavo­rato ai fian­chi dalla lista di cit­ta­di­nanza per U­nal­tra­città e indi­cato presso il grande pub­blico da Repub­blica, in segno di pro­te­sta si inca­te­nerà sotto la sede romana dell’Espresso.

La caduta verso la gene­rale dere­go­la­zione acce­lera: in Regione Toscana l’urbanistica è nelle mani dell’assessore Ric­cardo Conti, pas­sato alla cro­naca (anche) per le cari­che con­tem­po­ra­nea­mente rive­stite di respon­sa­bile infra­strut­ture del Pd e di con­si­gliere di ammi­ni­stra­zione della F2I, il fondo spe­cia­liz­zato in inve­sti­menti in infra­strut­ture gui­dato da Vito Gam­be­rale. L’ordine degli archi­tetti si alli­nea: il pre­si­dente è a capo della pluri-indagata società Qua­dra Pro­getti, com­po­sta da archi­tetti e costrut­tori, con un con­si­gliere Pd in qua­lità di socio occulto, secondo l’accusa. Nel 2009, come ultimo atto con­si­liare viene ten­tata l’approvazione del Piano Strut­tu­rale (ovvero della parte stra­te­gica del Prg). Il piano Dome­nici non è un lavoro di qua­lità; la con­te­sta­zione cit­ta­dina ai piedi di Palazzo Vec­chio ne accom­pa­gna la déba­cle: man­cano i numeri della mag­gio­ranza e il Piano Strut­tu­rale è ritirato.

Tra 2009 e 2010 il governo del ter­ri­to­rio passa di mano. È eletto sin­daco Mat­teo Renzi (Mar­ghe­rita poi Pd); nomi­nata asses­sore regio­nale al ter­ri­to­rio Anna Mar­son, accolta con favore dai comi­tati; nel frat­tempo, a colpi di peti­zioni degli iscritti, l’ordine degli archi­tetti si rinnova.

Renzi, a dispetto dell’ammirazione pro­cla­mata urbi et orbi per La Pira (che, detto per inciso, aveva affi­dato la ste­sura del Prg a Edoardo Detti, urba­ni­sta di rico­no­sciute qua­lità), trat­tiene ad inte­rim l’assessorato all’urbanistica, e riparte da zero. Il nuovo Piano Strut­tu­rale, appro­vato nel 2011, allude ai temi disci­pli­nari che pun­tual­mente elude, e si pone in una dimen­sione extra­pia­ni­fi­ca­to­ria. Vediamo come.

L’abilità comu­ni­ca­tiva del primo cit­ta­dino adotta e con­so­lida tele­vi­si­va­mente lo slo­gan dei «volumi zero», smen­tito dai grandi volumi fatti par­tire in variante al Prg, non­ché dal milione e passa di metri cubi di Castello (ora pro­prietà Uni­pol) dati per già edi­fi­cati e non ricon­trat­tati. E dalla grande cemen­ti­fi­ca­zione che dà l’assalto al sot­to­suolo: sta­zione e tun­nel Tav, dieci par­cheggi inter­rati nelle piazze sto­ri­che, tram sot­ter­ra­neo sotto il cen­tro città, «pas­sante urbano» nelle col­line costi­tui­scono il ban­chetto per impren­di­tori pri­vati a cui di fatto viene deman­data la tra­sfor­ma­zione urbana.

Il piano è ridu­ci­bile a un coa­cervo di slo­gan, privo di un’idea di città, povero di inda­gine cono­sci­tiva, cor­re­dato da eventi di pseudo-partecipazione; deli­neato nell’indifferenza di quanto si sta pre­di­spo­nendo in Regione, sia sul fronte del Parco della Piana e del Piano pae­sag­gi­stico, sia su quello nor­ma­tivo che vede la legge urba­ni­stica in piena, auspi­cata riforma. La pia­ni­fi­ca­zione fio­ren­tina pro­cede, così, in soli­ta­rio e per fram­menti, frutto di deci­sioni auto­cra­ti­che di forte riso­nanza media­tica a cui fanno seguito altre innu­me­re­voli affer­ma­zioni, con­tra­stanti e irrea­liz­za­bili, al di fuori di una pro­gram­ma­zione e di una con­di­vi­sione delle scelte. Esem­pio lumi­noso del «pia­ni­fi­car twit­tando» è la pedo­na­liz­za­zione di piazza Duomo, attuata d’autorità, senza dibat­tito in con­si­glio e senza un piano per il rias­setto del tra­sporto pub­blico arran­giato con logica di can­tiere che aumenta il disa­gio dei frui­tori, men­tre la piazza viene pri­va­tiz­zata dai «dehors» di bar e risto­ranti. In un cen­tro sto­rico esan­gue, deser­ti­fi­cato e mer­ci­fi­cato, ormai preda della spe­cu­la­zione turi­stica, l’affitto del Ponte Vec­chio alla Fer­rari passa per un atto di nor­male amministrazione.

Stante la rimar­che­vole sen­si­bi­lità del governo cit­ta­dino verso pro­prietà pri­vata, il Piano Strut­tu­rale rinun­cia alla tito­la­rità pub­blica del pro­getto sulla città chia­mando a rac­colta, con un bando di pub­blico avviso, i medio-grandi pro­prie­tari di aree in tra­sfor­ma­zione. I loro 217 pro­getti «pre­de­ter­mi­ne­ranno» il Rego­la­mento Urba­ni­stico zelan­te­mente redatto dall’ufficio tec­nico comu­nale in linea coi det­tami del prin­cipe ammic­canti alla stru­men­ta­zione finan­zia­ria (cre­diti edi­lizi in pri­mis) e adot­tato nei giorni scorsi.

In città per­si­ste tut­ta­via una tra­di­zione di labo­ra­tori cri­tici che dagli anni ‘90 vede attivo il LaPei (Labo­ra­to­rio di Pro­get­ta­zione eco­lo­gica degli inse­dia­menti) con il pro­getto par­te­ci­pato delle «4 pic­cole città sull’Arno» all’Isolotto e, ai tempi della Pan­tera, con l’ipotesi di «boni­fica ter­ri­to­riale» per l’area metro­po­li­tana impo­stata sul pro­getto eco­lo­gico social­mente pro­dotto di con­certo coi comi­tati locali. Nell’orbita del LaPei, è il recente pro­getto alter­na­tivo di sopra attra­ver­sa­mento Tav. La Comu­nità delle Piagge oppone resi­stenza in un quar­tiere povero di ser­vizi, affron­tando il dise­gno degli spazi pub­blici e il tema dell’autocostruzione per fini sociali. Rac­co­glie il testi­mone di que­ste espe­rienze il "Gruppo urba­ni­stica perU­nal­tra­città" che si ado­pera per una con­trof­fen­siva radi­cale fon­data sulla riap­pro­pria­zione degli stru­menti analitico-critici, sulle pra­ti­che urba­ni­sti­che con­di­vise e sulle rela­zioni sociali, costruita con incon­tri pub­blici, ela­bo­ra­zione di pro­getti e di testi spe­ci­fici. Il gruppo, che fa rete con le espres­sioni dell’autogestione, dell’autorecupero e della cit­ta­di­nanza attiva (San Salvi chi può, NoTun­nel­Tav, Oltrar­no­fu­turo etc.) e intesse rela­zioni con espe­rienze nazio­nali (ReTe dei comi­tati per la difesa del ter­ri­to­rio, GrIG, etc.), porta avanti una rifles­sione col­let­tiva sulla forma della città, sul destino dei con­te­ni­tori dismessi, sui luo­ghi della socia­lità, sul ridi­se­gno delle rela­zioni ecologiche.

Espe­rienze di con­di­vi­sione del sapere e di col­let­ti­viz­za­zione del pen­siero cri­tico, scuole disci­pli­nari e luo­ghi di spe­ri­men­ta­zione poli­tica con­vi­viali, liberi e liber­tari, que­sti labo­ra­tori arric­chi­scono il fronte di resi­stenza penin­su­lare a con­tra­sto di un’urbanistica distrut­tiva e neo­li­be­ri­sta che da Firenze viene dispie­gan­dosi nelle sue forme più «nuove».

Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2014
Agli argomenti di chi indica il carattere autoritario della sua riforma costituzionale, Matteo Renzi non oppone altri argomenti, ma una delegittimazione radicale dei “professoroni, o presunti tali”. Non risponde a chi dice che un governo non può essere costituente (Piero Calamandrei chiese che durante la discussione dell’articolato della Costituzione i banchi del governo fossero addirittura vuoti). Non risponde a chi spiega perché un Senato degli enti locali potrebbe portare a una rottura dell’unità nazionale. Non risponde a chi – come Walter Tocci, senatore pd che ha annunciato il suo voto contrario – scrive che “l’Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi”.

Al sapere Renzi oppone il plebiscito: i professori avranno studiato, ma lui ha il consenso. Poco importa se il consenso è quello delle primarie (consultazioni private a cui ha partecipato una quota minuscola di elettori), se è al governo senza essere stato eletto, se questo Parlamento è legalmente eletto, ma forse non proprio legittimato a cambiare la Costituzione. E poco importa se si sta facendo di tutto per far passare la riforma con i due terzi delle Camere, e dunque per evitare di consultare, con un referendum, il popolo sovrano del quale ci si riempie la bocca.
Invece di discutere, Renzi preferisce scagliarsi contro Rodotà e Zagrebelsky con un tono che ricorda queste parole del primo discorso alla Camera di Mussolini capo del governo (16 novembre 1922): “Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente”.
Non è una novità. Renzi sta replicando, su una scala ben più larga, ciò che fece a Firenze durante la caccia alla Battaglia di Anghiari di Leonardo. L’allora sindaco non si abbassò a discutere le prove dell’assoluta infondatezza di quella purissima operazione di marketing esibite dalla comunità scientifica internazionale degli storici dell’arte. Invece, si scagliò contro i “presunti scienziati”, accusati di non essere “stupiti dal mistero” a causa di un “pregiudizio ideologico”. Arrivò a scrivere: “Penso agli studenti di questi professoroni. Mi domando con quale fiducia ascolteranno adesso le loro lezioni”. La violenza denigratoria contro i “professionisti della cultura che pretendono di fare a pugni con la realtà e con l’innovazione” echeggiò il “culturame” di Scelba. E certo Renzi non si scusò quando le operazioni si conclusero senza trovare alcunché.
Ma perché il capo del governo teme così tanto i portatori del sapere critico? Perché sa che la loro funzione, in una democrazia evoluta, è – come ha scritto Tony Judt – “tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità. La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo”. Ecco, questo Renzi non se lo può permettere: sa benissimo di essere un prodotto che vende solo in regime di monopolio, e con un marketing senza smagliature. La prima funzione del pensiero critico, al contrario, è quella di mostrare che c’è sempre un’alternativa: sempre. Un filologo, un giurista, uno storico, un fisico sanno partecipare al discorso pubblico demistificando la retorica dell’ultima spiaggia e dell’uomo della provvidenza. Perché lo fanno usando argomenti comprensibili e razionali, dimostrabili e verificabili. Tutte cose pericolose per chi basa l’acquisizione del consenso non sul cervello, ma sulla pancia degli ascoltatori-elettori. La cui digestione non dev’essere turbata da dubbi. Quel famoso discorso di Mussolini si chiudeva così: “Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi”.
Al tempo del Leonardo inesistente Renzi esaltava le emozioni (che sarebbero state 'popolari') e demonizzava la conoscenza (secondo lui elitaria e inutile). Ora Renzi fa leva sulla disperazione diffusa, sul viscerale rigetto per il criminale immobilismo di chi lo ha preceduto, sul riflesso condizionato prodotto dalla promessa degli ottanta euro.
Chi si oppone è «un sacerdote del no», come ha prontamente scritto Ernesto Galli della Loggia evocando addirittura il terrorismo: ecco la parola d'ordine da far passare a tutti costi, prima che qualcuno possa spiegare a cosa si oppone quel no. È il momento di «fare»: ma guai a chi si chiede cosa si stia davvero facendo. Guai a chi sa dimostrare che il re è nudo.

Una lettera aperta al sindaco di Napoli, affinchè Bagnoli non continui a essere il buco nero dell'urbanistica napoletana, in contrasto con il vigente piano regolatore, Corriere del Mezzogiorno, 30 marzo 2014 (m.p.g.)

Caro Sindaco De Magistris, tra i troppi beni comuni che sono stati negati ai cittadini di Napoli ci sono, e da troppo tempo, anche la salute e il mare. In nessun luogo come a Bagnoli è drammaticamente tangibile l'intreccio tra queste due privazioni.
Oggi la criminale distruzione della Città della Scienza mette le amministrazioni napoletane – il Comune, ma anche la Regione e gli organi di tutela – di fronte all'ennesimo bivio di questa lunga storia: e per l'ennesima volta si rischia di imboccare la direzione sbagliata. Fu un errore fatale collocare un insediamento industriale così enorme in uno dei luoghi simbolo del paesaggio e del patrimonio culturale europei, fu un errore farlo ripartire dopo la Grande Guerra, fu un errore ricostruirlo dopo la Secondo Guerra mondiale, fu un errore piegare la pianificazione urbanistica ai diktat industriali e permettere la realizzazione della colmata a mare.

Oggi sarebbe un errore imperdonabile rinunciare a rimuovere la colmata, a condurre fino in fondo la bonifica, a ripristinare la linea di costa, a restituire ai napoletani una vera spiaggia urbana. Oltre ad essere un errore, sarebbe una gravissima violazione della legge. Lo storico vincolo apposto dal Ministero per i Beni culturali nell'agosto del 1999 (basato sull'esemplare relazione di Antonio Iannello) e la legge 582 del 1996 impongono infatti di abbattere gli edifici che impediscono il ripristino della morfologia originale della costa. Coerentemente, l'attuale Consiglio Comunale ha deliberato, nella seduta del 25 settembre 2013, di destinare a spiaggia pubblica l’arenile da Nisida a Coroglio, accogliendo così la petizione popolare del comitato “Una spiaggia per tutti”, sottoscritta da oltre 13.000 napoletani.

Il primo passo, importantissimo in sé e importantissimo come pegno concreto della volontà di perseguire effettivamente questo processo di affermazione dei valori costituzionali, è rappresentato dalla decisione di ricostruire la Città della Scienza non dov'era, ma bensì al di là della strada di Coroglio.
Come membri dell'Osservatorio per i Beni Comuni rivolgiamo un accorato appello a Lei, alla Giunta e al Consiglio Comunale perché questo passo venga compiuto senza esitazioni e ambiguità.
E ricordiamo che ove si imboccasse, invece, la strada contraria, il nostro stesso lavoro sui beni comuni non avrebbe più senso, perché sarebbe smentito alla radice.

Alberto Lucarelli è Presidente dell'Osservatorio sui Beni Comuni del Comune di Napoli, Tomaso Montanari ne è membro

“Un soprintendente è tenuto a compiere sopralluoghi, controllare perizie, dirigere i lavori, pubblicare studi, redigere piani paesistici, ma soprattutto resistere ai privati che vorrebbero distruggere tutto per rifarlo in vetrocemento, quasi sempre con l’assenso e l’appoggio delle autorità”.

“Resistere ai privati”: chi lo sostiene oggi è un talebano, statalista, comunista. A scriverlo, invece, era il liberalissimo Indro Montanelli, in un memorabile articolo comparso sul Corriere della Sera il12 marzo 1966. Oggi, invece, un giornale come Repubblica scrive che “troppo spesso le soprintendenze diventano fattori di conservazione e di protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo, e dell’economia”, sul Corriere si invoca un giorno sì e l’altro pure l’intervento salvifico di quegli stessi privati, Matteo Renzi ripete a macchinetta che “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba”.

L’entusiasmo e la fantasia di chi – tra il 1966 e oggi – ha sepolto questo Paese sotto una colata di cemento. L’attualità dell’articolo è devastante, perché tutto è rimasto come allora: il bilancio miserabile del patrimonio, gli stipendi da fame e la solitudine dei soprintendenti, “pochi eroi, sopraffatti dal lavoro e senza mezzi per svolgerlo”. Montanelli vedeva che il vero problema era – ed è tuttora – la disparità dei mezzi tra i difensori del bene comune e quelli degli interessi privati: “I loro uffici sono letteralmente assediati da orde di impresari, ingegneri, architetti, geometri e altri guastatori. Nel periodo del ‘ boom’ edilizio il soprintendente ai monumenti della Liguria, Mazzino, esaminò in un anno 10 mila progetti con l’aiuto di un solo architetto. Il suo collega di Sassari, Carità, deve difendere da solo circa mille chilometri di costa che, a lasciar fare agli speculatori e ai progettisti a quest’ora sarebbero già un’immensa Ostia. E mentre gli speculatori hanno a disposizione i migliori giuristi per redigerlo, il Soprintendente deve farlo con l’aiuto del bidello e della custode”.

Montanelli vedeva lucidamente nel clero un pericolo per il patrimonio: “E qui bisogna parlarci chiaro, soprattutto coi preti. Il 70 per cento dei monumenti italiani è in loro custodia (…) Non per malizia o cupidigia, ma per ignoranza e spregio di ciò che essi chiamano ‘valori mondani’, i parroci demoliscono vecchie chiese gotiche e barocche per costruire orrende scatole in vetrocemento (quelle che i fiorentini chiamano con pertinente empietà i ‘cristogrill’) con pareti intonacate a ducotone, tapparelle, luci al neon e cromi”.

Oggi le cose stanno forse perfino peggio: ma quasi nessuno osa scriverlo. Con la scusa dell’adeguamento liturgico, zelanti vescovi rifanno da capo a piedi (e orribilmente) le loro cattedrali (da Reggio Emilia ad Arezzo) senza che nessun soprintendente riesca a contrastarli, e laricostruzione delle chiese emiliane dopo il terremoto rischia di risolversi in una mattanza del tessuto storico in nome delle mani libere. Oggi è di moda parlar male delle soprintendenze: dovremmo piuttosto chiederci se il ministero per i Beni culturali (nato nel 1974) sia riuscito a farle funzionare meglio di quando scriveva Montanelli, ed esse rispondevano alla Pubblica Istruzione. La risposta è evidentemente negativa, e questo dovrebbe indurre a ripensamenti radicali: il problema non è la rete territoriale della tutela, ma semmai la burocrazia e la sudditanza alla politica del quartiere generale romano.

Ciò che più colpisce, tuttavia, è la regressione generale del Paese, e del suo discorso pubblico. C’è davvero un abisso tra il profondo senso dello Stato e del pubblico interesse del liberale Montanelli, e il liberismo all’amatriciana del pensiero unico di oggi, insofferente ad ogni regola che non sia l’arbitrio assoluto degli interessi privati. E, soprattutto, c’era in Montanelli la profonda convinzione che ilpatrimonio culturale non fosse misurabile, come scrive, “sul metro del denaro”. Perché è proprio il nostro straordinario patrimonio ciò “che ci qualifica a un rango, del tutto immeritato, di Nazione civile”. È proprio questo il punto centrale: il punto che sfugge a tutti coloro che si riempiono incessantemente la bocca della retorica del “petrolio d’Italia”. A essere venuta meno, in questi cinquant’anni, non è solo la tutela del patrimonio, è l’idea stessa di Stato, un qualunque progetto di civiltà.

Vivo apprezzamento per la decisionedella giunta regionale di accantonare la proposta del PPS perche’ avrebbe compromesso fortemente il paesaggio della Sardegna

E’ sicuramente un atto di grande significatopolitico e programmatico che il primo atto della giunta regionale presieduta daFrancesco Pigliaru riguardi la salvaguardia del paesaggio della Sardegna, conla decisione di mettere da parte gli ultimi provvedimenti sul PPR della passataAmministrazione Regionale. E’ molto positivo che da subito sia stato approvatoun provvedimento di cancellazione dell’ultima delibera del 14 febbraio edassunto l’impegno ad esaminare a breve la revoca anche della delibera del 25ottobre, a seguito degli opportuni accertamenti procedurali.

Manifestiamo da subitola disponibilità al confronto, con l’augurio che al più presto si giunga all’annullamentodella delibera del PPS del 25/10, come abbiamo ripetutamente richiesto, peraprire una nuova fase che passa per il miglioramento del PPR del 2006, con lacorrezione di tutti gli errori materiali senza stravolgimenti, per darecentralità alla pianificazione innovativa dei Piani Urbanistici Comunali. Voltare pagina rispetto alle disposizioniderogatorie e di stravolgimento della tutela contenute nella proposta del PPS èmolto importante per affermare nei fatti che la salvaguardia dei paesaggi dellecoste e delle zone interne deve costituire la risorsa strategica per promuoverelo sviluppo sostenibile della Sardegna. Negli ultimi anni la Sardegna si ècaratterizzata nel panorama nazionale e internazionale per l’azioneresponsabile nella tutela del paesaggio e nel governo del territorio. Infattil’adozione nel 2006, da parte della Regione Sardegna, del Piano PaesaggisticoRegionale ha rappresentato un evento di rilievo nazionale. È stata infatti laprima volta che una Regione italiana ha approvato un Piano ai sensi del Codicedei Beni Culturali e del Paesaggio (DLgs 42/04), che fa proprie le indicazionidella Convenzione Europea citata.

Il Piano PaesaggisticoRegionale, divenuto esecutivo nel settembre 2006, ha definito il paesaggio comela principale risorsa territoriale della Sardegna e rappresenta oggi ilriferimento principe per il governo pubblico del territorio. Il Piano sipropone di tutelare il paesaggio con la duplice finalità, da un lato diconservarne gli elementi di qualità e di testimonianza e dall’altro dipromuovere il suo miglioramento attraverso restauri, ricostruzioni,riorganizzazioni, ristrutturazioni anche profonde, dove risulta degradato ecompromesso. Il Piano ribadisce che la costa è un bene comune e non una merce.Sancire con la delibera odierna che il PPR del 2006 è ancora in vigore permettealla Sardegna di presentarsi sulla scena internazionale con un capitale moltorilevante: il suo paesaggio eccezionale, il suo ambiente caratteristico. Questesono le nostre possibilità per misurarci col mondo, far diventare questo patrimoniouna molla per innescare un nuovo sviluppo. Dobbiamo respingere chi pensa ditornare indietro a politiche speculative. Sulla pianificazione delle areerurali esiste un forte allarme. La normativa di deregolazione per permetterel’edificazione nelle zone interne e in tutte le aree rurali ed agricole,riducendo la portata del lotto minimo e permettendo qualsiasi tipologia slegatadall’attività agricola, suscita un vivo allarme per la compromissione delpaesaggio rurale identitario. La diffusione e dispersione edificatoria nellecampagne, oltre ad essere estranea alla storia, può produrre effetti disastrosidal punto di vista ambientale. La qualità territoriale verso cui puntare rendenecessaria una vera e imponente opera di manutenzione e restauro della fasciacostiera, che può creare migliaia di posti di lavoro nuovi. Per fare questo èindispensabile passare dalla giusta azione di tutela a quella di gestione delbene paesaggistico.

Postilla

Un primo passo nella direzione giusta. Ma stupisce (e preoccupa un po') che si sia proceduto solo alla cancellazione della delibera del 14 febbraio, palesemente priva di qualsiasi leggittimità, e non si sia proceduto anche alla revoca della delibera del 25 ottobre (approvazione del Piano paesaggistico dei sardi, di Cappellacci), rinviando per questo agli «opportuni accertamenti procedurali» Non vorremmo che il rinvio nascondesse una trattativa per un'approvazione bipartisan di un ammorbidimento del Piano paesaggisico della giunta Soru, tuttora vigente.


la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 28 marzo 2014 (f.b.)

La Repubblica

Appalti e cantieri fantasma il cerchio magico dell’Expo
di Alberto Statera

UNA landa popolata di fantasmi umani e di mostri meccanici. Il campo di un milione e cento metri quadrati, lungo due chilometri e largo da 350 a 750 metri, che tra quattrocento giorni coperto di cinquecentomila alberi e tra idilliache scenografie dovrebbe portare dal mondo 20 milioni di visitatori e certificare la fine della decadenza della Nazione, sembra sulle mappe il profilo di un pesce spiaggiato. Come l’Italia. A guardarlo viene persino voglia di dare ragione, per una volta, al disfattismo di Beppe Grillo, che qualche giorno fa è stato qui e ha commentato: «Non c’è niente, c’è un campo e quattro pezzi di cemento. Ma chi ci vienea Rho?» Eppure, per fare le cose per bene l’Italia aveva a disposizione 2.585 giorni da quel 31 marzo 2008, il giorno in cui tra epici festeggiamenti ottenne dal Bureau International des Exposition l’organizzazione dell’evento mondiale del secondo decennio del secolo, vincendo la sfida con Smirne. “Grosse Koalition” all’ombra della Madonnina scrisse il “Financial Times”, commentando la collaborazione tra il governo Prodi, ormai al lumicino, e la destra che governava Milano e la Lombardia con Letizia Moratti e Roberto Formigoni.

Tutti insieme si spesero, anzi spesero in regali ai paesi votanti: scuolabus nei Caraibi, borse di studio nello Yemen e in Belize, una metrotramvia in Costa d’Avorio, una centrale del latte in Nigeria, bus a Cuba, e così via. Oltre a un numero imprecisato di orologi di pregio e altri presenti a ministri di mezzo mondo. Poi per quasi duemila tragici giorni andò in scena il bieco spettacolo di spartizione tra politici, partiti, correnti, faccendieri, signori degli appalti e anche coppole storte, per la caccia alle poltrone e per assicurarsi fette della torta di potere e denaro. Interessi che la Direzione Nazionale Antimafia definì subito “maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina”, che Berlusconi, tornato a palazzo Chigi, aveva rimesso in cima al delirio sulle Grandi Opere. Ma non una pietra fu mossa in quella striscia di terra tra i comuni di Milano, Rho e Pero, che il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi, qui in visita tra qualche giorno, dovrà necessariamente presentare come l’evento del grande riscatto del paese di cui si dichiara il protagonista.

Ora il Decumano e il Cardo, come aulicamente vengono chiamate le vie, che nelle città romane si intersecavano da est a ovest e da nord a sud, cominciano a intuirsi nel fango. Il fango del cantiere e quello dell’inchiesta della procura milanese che ha già portato all’arresto otto persone e promette sviluppi conturbanti. Sviluppi che — Dio non voglia — potrebbero fulminare la corsa contro il tempo per evitare all’Italia la figuraccia mondiale che rischia il primo maggio dell’anno prossimo, quando l’Expo dovrebbe partire. Molti avevano previsto che il sogno sarebbe diventato un incubo. Di fronte alla sanguinosa lotta per le nomine, il controllo dei finanziamenti e degli appalti, si fece portavoce del “partito della rinuncia” l’architetto Vittorio Gregotti, il quale ricordò il saggio precedente di Francois Mitterrand che all’ultimo momento nel 1989 cancellò i faraonici progetti per la celebrazione del bicentenario della rivoluzione francese. Ma a Parigi non c’era la simoniaca cupola politico-affaristica lombarda, che per diciotto anni sotto le insegne del casto Roberto Formigoni, capitano di una legione di sedicenti lottatori per la fede ma incapace di sottrarsi al peccato,non ha perso occasione per accumulare potere e denaro con mezzi illeciti, in nome del “ciellenismo realizzato” attraverso la Compagnia delle Opere: un blocco di potere con 34 mila aziende associate e almeno 70 miliardi di fatturato, che ha svuotato lo Stato dall’interno con l’alibi della sussidiarietà.

Negli scandali che si sono susseguiti negli anni, il cerchio magico del Celeste c’è sempre tutto. Organizzato quasi militarmente per specialità di business: la sanità, gli ospedali, l’ambiente, l’urbanistica, l’edilizia, le opere pubbliche. Delle ruberie sui 17 e passa miliardi annuali della sanità pubblica ormai, con le inchieste e i processi in corso, si sa molto. Come molto si sa da anni sulla mangiatoia delle opere pubbliche.

Alcuni dei nomi che ricorrono nell’inchiesta sull’Expo sono gli stessi che figurano in quella sul “Formigone”. Così è stato ribattezzato il palazzo che l’ex zar della regione ha fatto erigere in via Melchiorre Gioia a perenne celebrazione della sua potenza. Con i suoi 167 metri di altezza — più alto della Madonnina, come l’ex governatore sostiene volesse Papa Paolo VI — il mausoleo formigoniano è l’emblema dell’appaltopoli meneghina nello skyline dell’ex capitale morale dell’ormai obliata borghesia produttiva. La procura non trascura un’inchiesta partita sulla base di un rapporto del colonnello Sergio De Caprio, il “Capitano Ultimo” che arrestò il boss mafioso Totò Riina. Ricorrono i nomi di Rocco Ferrara, già arrestato per le estrazioni petrolifere in Basilicata, e di Antonio Rognoni, l’ex direttore di Infrastrutture Lombarde, quello appena arrestato per gli appalti dell’Expo.

Per la cronaca, il “Formigone”, che doveva costare 185 milioni di euro, ne ha ingoiati oltre 500. Capite allora cosa intende la procura quando analizza la vittoria dell’appalto per la “Piastra” dell’Expo da parte della Mantovani, al posto dell’Impregilo, che doveva vincere con il solito accordo di cartello scambiando appalti sulla Pedemontana Lombardo- Veneta, con un ribasso d’asta di oltre il 40 per cento, pari a 100 e più milioni? Che con gli inevitabili aggiornamenti prezzi c’è “ciccia” per tutti, soprattutto in un’operazione che coinvolge la dignità nazionale in corsa disperata contro il tempo. Un classico nella corruttela nazionale, i cui esempi si sprecano, a cominciare dagli appalti per il G8 della Maddalena gestiti direttamente a palazzo Chigi da Guido Bertolaso, regnante Berlusconi.

Quando l’appalto per la “Piastra” (oltre 160 milioni) andò alla Mantovani, società dicui era diventata pars magna la segretaria dell’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan, Claudia Minutillo, con Erasmo Cinque e la Ventura di Barcellona Pozzo di Gotto (poi esclusa per sospetti di mafia), Formigoni fece un comunicato di fuoco per l’eccessivo ribasso d’asta. E il responsabile delle gare Pierpaolo Perez protestò con un interlocutore al telefono: «Ma cosa si è fumato? Io non lo voto più questo qui, deve essere internato». «È il politico più stupido che io conosco», disse del resto una volta Ciriaco De Mita di Formigoni. O il più furbo di tutti negli affari? Non capì niente in castità perfetta e povertà evangelica, come si richiede ai Memores Domini, o sapeva tutto? Personalità da psicoanalisi il Celeste, lo stesso uomo che balla sulle note di Hot Chili Peppers su uno yacht da milioni e che poi va a confessarsi dal padre salesianodi via Copernico. Piove sul fango di piazza Italia, 4.350 metri quadrati che non si sa se saranno mai pronti per il primo maggio 2015; piove sul Children Park e sull’Anfiteatro, già realizzato — così dicono — al 20 per cento; l’Orto Planetario è stato cassato, come buona parte delle autostrade; non piove sulle Vie d’acqua, cancellate dai progetti, che dovevano collegare Rho al vecchio porto della darsena, né sulla linea ferroviaria Rho Gallarate, che resterà un pezzo di carta inumidita.

Dicono che a 400 giorni dal giorno fatidico per il prestigio internazionale di questa nostra Italia siamo al 40 per cento dell’opera. Soltanto un rifiuto risoluto del disfattismo nazionale ci permette di crederci. Se il miracolo si compirà — e ce lo auguriamo — si aprirà la fase delle Red Arrings, le aringhe rosse, bocconi olezzanti che i cacciatori britannici disponevano sul terreno di caccia per distrarre i cani dei cacciatori avversari. L’Expo come aringa per attirare una speculazione immobiliare da 3 o 400 milioni di euro, quando il peccato originale dell’esposizione universale sarà un angoscioso ricordo. Si è già fatta sotto personalmente Barbara Berlusconi, leader politica in pectore, manifestando interesse per costruire su 12 ettari del pescione Expo uno stadio da 60 mila per il Milan. E magari qualche nuova “caricatura” di città nella città, come le chiama l’architetto Mario Botta. Secondo le tradizioni di famiglia.

Corriere della Sera Milano
L'immobiliare Sanità
di Giangiacomo Schiavi

L’inchiesta che coinvolge Infrastrutture lombarde incrocia la sanità milanese e un opaco sistema di appalti da rivedere per come sono pilotati e per le insidie corruttive che vengono a galla. Prima che sia (un’altra volta) troppo tardi è doveroso mettere il naso su un’operazione da centinaia di milioni che riguarda il trasloco di Istituto dei tumori e Neurologico Besta nell’ex area Falck di Sesto San Giovanni, in quella che è stata chiamata Citta della Salute: serve un supplemento di istruttoria e una garanzia di trasparenza sui conti e sul ruolo svolto da Infrastrutture lombarde e dall’ingegner Rognoni, attualmente agli arresti. Alla luce di quel che è successo per i cantieri del San Gerardo di Monza e di Niguarda, finiti nel mirino della Procura, è doveroso mettere al riparo un progetto di integrazione sanitaria, sia pur discusso e contestato, dal sospetto di illeciti e illegalità.

Ogni ragionevole dubbio dovrebbe essere confutato dal governatore, dal sindaco, dall’opposizione, dai sindacati, dai dirigenti, dai medici, dagli imprenditori, per garantire un percorso trasparente ed evitare sorprese in corso d’opera. Quel che si scopre ogni volta che la Procura si muove e scoperchia il pentolone degli appalti è un’imbarazzante commistione affaristica tra politica e imprese: le ragioni dell’utenza, in questo caso i malati e il personale della sanità, sembrano non contar niente. Invece dovrebbero essere prevalenti, per non ripetere i soliti errori e doverne pagare, più tardi, anche il prezzo.

Nel caso della Città della salute c’è alle spalle il poco edificante spreco di denaro pubblico per la falsa partenza nell’area dell’ospedale Sacco: quasi un paio di milioni di euro buttati tra studio di fattibilità, consulenze e avviamento della macchina organizzativa. Il polo pubblico della sanità d’eccellenza poteva essere una grande intuizione e non è mai stato del tutto chiaro il perché della rinuncia: se la lievitazione dei prezzi o le liti tra cordate sui futuri appalti.Il passaggio da una parte all’altra di Milano, da Vialba a Sesto, è sembrato lo schizofrenico segnale di una giunta al capolinea che ha salvato l’investimento ragionando come un’immobiliare: portando i due ospedali verso un Comune alle prese con il fallimento dei progetti di trasformare una gigantesca area dismessa, sulla quale doveva sorgere prima una banca e poi un centro televisivo.

È comprensibile l’impegno del sindaco di Sesto nel difendere la Città della salute: porterà valore e darà un senso alla futura area metropolitana. Ma oggi tocca alla Regione spazzare via tutte le ombre, e dare un senso vero al progetto sanitario. Anche attraverso la trasparenza del cantiere, dalle bonifiche agli appalti. Per non recriminare domani su quel che si doveva fare e non è stato fatto. E non far pagare ai cittadini altri inutili costi della politica.

«Dalla modernità post-bellica, che includeva le nuove periferie, alla neoliberista «stagione dei sindaci» (Veltroni e Rutelli), fino all'oggi dei tessuti disgregati in una miscela esplosiva». L'ottava puntata dell'inchiesta sulle città italiane. Il manifesto, 27 marzo 2014

Su Roma, a par­tire dal secondo dopo­guerra, sono state svolte diverse e impor­tanti nar­ra­zioni. La prima, tra il 1943 e il 1955, è quella dei film neo­rea­li­sti di Visconti, Germi, De Sica, De San­tis. Una Roma post-bellica, una città pro­vin­ciale che coin­ci­deva con la sua parte sto­rica ancora non colo­niz­zata dai turi­sti. Qual­che anno dopo, tra il 1950 e il 1960, il genio pro­fe­tico di Paso­lini è riu­scito a rap­pre­sen­tare la grande tra­sfor­ma­zione di que­gli anni: la fine di un mondo con­ta­dino e il dramma del sot­to­pro­le­ta­riato urbano, entrambi in via di can­cel­la­zione dalla sto­ria con l’avvento delle prime mani­fe­sta­zioni di moder­nità. La let­te­ra­tura socio­lo­gica e antro­po­lo­gica poneva intanto la sua atten­zione su quello straor­di­na­rio mondo di immi­grati dal sud e con­ta­dini inur­bati che si accam­pava a ridosso delle mura e che dava vita a ine­dite tipo­lo­gie urba­ni­sti­che: bor­gate, bor­ghetti, barac­ca­menti. Sono da ricor­dare le ana­lisi di Fer­ra­rotti e Macioti, le foto di Pinna, le testi­mo­nianze di vita come quella di don Sar­delli all’Acquedotto Felice, le descri­zioni dei grandi scrit­tori romani «d’origine» come Mora­via o Elsa Morante, quella degli scrit­tori d’adozione come Caproni, Gadda, Gatto, Penna, Bertolucci.

La città, per la prima volta, si esten­deva oltre le sue sto­ri­che mura, inva­deva l’agro, la cam­pa­gna romana; nasce­vano le nuove peri­fe­rie che acco­glie­vano il nuovo ceto impie­ga­ti­zio, soprat­tutto coloro che, in città, lavo­ra­vano nelle aziende muni­ci­pa­liz­zate o nelle fer­ro­vie. Da allora nar­ra­zioni impor­tanti come quelle sopra citate non ce ne sono più state. Quelle peri­fe­rie, allora lon­tane, quasi sco­no­sciute, una volta evo­cate sono entrate a far parte della sto­ria moderna di Roma, le si sono — potremmo dire — «appic­ci­cate addosso» come una pelle: non c’è una Roma antica e una Roma moderna — diceva Paso­lini — ma solo una, antica e moderna con­tem­po­ra­nea­mente. Nelle peri­fe­rie sto­ri­che l’emarginazione, il senso di dise­gua­glianza veniva ela­bo­rato — ricorda Wal­ter Tocci — tra­mite un altrove tem­po­rale, un’utopia di buona società, da rag­giun­gere attra­verso l’emancipazione. In sostanza, le peri­fe­rie sto­ri­che non erano luo­ghi di dispe­ra­zione, di soli­tu­dine, di disin­canto; piut­to­sto luo­ghi cari­chi di spe­ranza, dell’attesa di un riscatto. In esse tro­vava con­senso e faceva pro­se­liti il «vec­chio» Par­tito Comu­ni­sta che tra i suoi obiet­tivi poli­tici com­pren­deva il pro­getto del riscatto di que­sto popolo con­tro il potere e il domi­nio delle grandi fami­glie di pro­prie­tari di ter­reni e immo­bi­liari poi.

La seconda grande trasformazione

Nel 1993 diventa sin­daco Fran­ce­sco Rutelli e dopo di lui, nel 2001 Wal­ter Vel­troni. In que­gli anni, in Ita­lia, si assi­ste al feno­meno chia­mato «rina­sci­mento urbano». Da Roma a Napoli, da Salerno a Cata­nia, si inau­gura la sta­gione dei sin­daci che, eletti diret­ta­mente dai cit­ta­dini, danno vita a ini­zia­tive urbane che fanno nascere la spe­ranza che cam­bia­menti signi­fi­ca­tivi nella vita quo­ti­diana sono pos­si­bili. Roma si appre­sta a pro­get­tare il nuovo piano rego­la­tore che sosti­tuirà quello pre­ce­dente del 1961.

Il quin­di­cen­nio rosso, dal ’93 al 2008, verrà ricor­dato per il ten­ta­tivo di (pre­sunta) moder­niz­za­zione di una città con­si­de­rata in ritardo rispetto ai pro­cessi di rin­no­va­mento avve­nuti in altre città euro­pee ed extraeu­ro­pee (Lon­dra, Bar­cel­lona, Bil­bao, e per­fino Dubai). Ma cos’era real­mente que­sta moder­niz­za­zione così tanto invo­cata e cosa sot­ten­deva que­sta cate­go­ria (ideo­lo­gica) del ritardo? Que­sta idea — la moder­niz­za­zione — si rivela ben pre­sto un com­plice potente dell’ideologia libe­ri­sta poi­ché essa viene ali­men­tata dal dogma della con­cor­renza inter­na­zio­nale, dall’esaltazione della velo­cità, dal mito della deci­sione effi­cace, dal fetic­cio dello svi­luppo, dall’eliminazione di ogni con­flitto rite­nuto un sabo­tag­gio della sta­bi­lità poli­tica. La com­pe­ti­zione eco­no­mica tra le città spinge inol­tre que­ste ultime a «rifarsi il trucco» per ade­guarsi alle regole dell’economia finanziaria.

La cele­bra­zione di Grandi Eventi serve a imbel­let­tare la città come fosse una vetrina, men­tre prende piede e si afferma un modello cul­tu­rale basato sull’individualismo pro­prie­ta­rio, il suc­cesso per­so­nale, la com­pe­ti­zione che fa per­dere valore alla coe­sione sociale e alla respon­sa­bi­lità comu­ni­ta­ria. Tutto quello che non serve alla santa cre­scita (per­sone, cul­ture, tra­di­zioni, virtù) viene but­tato via, diventa spaz­za­tura, ritardo, appunto, per­ché le nuove regole sta­bi­li­scono che gli inve­sti­menti andranno solo dove la tec­no­lo­gia sosti­tui­sce le forme tra­di­zio­nali di vita e la velo­cità annulla le rela­zioni sociali e rende inu­tili i luo­ghi pub­blici. Per altri versi non viene fre­nato il sac­cheg­gio del ter­ri­to­rio ini­ziato molti anni prima e che ora agi­sce attra­verso una mol­ti­pli­ca­zione della ric­chezza immo­bi­liare in una città la cui cre­scita demo­gra­fica si è arre­stata sin dagli anni Set­tanta con due milioni e set­te­cen­to­mila abi­tanti. Le nuove regole libe­ri­ste impon­gono che per moder­niz­zare la città occorre sta­bi­lire accordi con i pri­vati quasi sem­pre con van­tag­gio tutto a favore di que­sti ultimi. La sen­sa­zione è che a que­sta cre­scita di ric­chezza immo­bi­liare fa da con­tro­canto un sem­pre più impo­ve­ri­mento urbano in ter­mini di mar­gi­na­lità, soli­tu­dine, coe­sione sociale, servizi

Nel 2008, anno della scon­fitta cla­mo­rosa del can­di­dato sin­daco Rutelli, esce il libro di Wal­ter Siti, Il con­ta­gio. Un libro che svela, più di qual­siasi ana­lisi poli­tica, il «risen­ti­mento» degli abi­tanti delle peri­fe­rie che da tempo, ave­vano vol­tato le spalle alla sini­stra. Le peri­fe­rie con­si­de­rate un tempo lo zoc­colo duro del par­tito comu­ni­sta, ora si sono tra­sfor­mate in ghetti dove nes­suno si salva. Ma la por­tata della tra­sfor­ma­zione antro­po­lo­gica è ben più vasta di quella che appare. Abban­do­nata ogni ideo­lo­gia, le bor­gate romane si sono ade­guate ai valori bor­ghesi del con­sumo e del pos­sesso dell’ultimo gad­get a ogni costo, ai sogni del suc­cesso, alla dif­fi­denza reci­proca tra per­sone, men­tre la bor­ghe­sia del cen­tro tende sem­pre più a imi­tare que­sti modelli, peri­fe­riz­zan­dosi. L’ipotesi rifor­mi­sta alla base del modello vel­tro­niano — il famoso Modello Roma — non trova alcuna acco­glienza, anzi suscita indif­fe­renza e osti­lità («mai visto un bor­ga­taro rifor­mi­sta» è la bat­tuta che si legge nel libro si Siti).

Una città diseguale

Un dato pre­oc­cu­pante che emerge dalla cro­naca di ogni giorno è la cre­scita della dise­gua­glianza e della povertà. Esse for­mano una miscela esplo­siva insieme alla sot­toi­stru­zione, micro­cri­mi­na­lità, dif­fu­sione di droga, disoc­cu­pa­zione intel­let­tuale, com­merci ille­citi. Sem­pre più la città appare la disca­rica della glo­ba­liz­za­zione che fran­tuma i rap­porti sociali, crea gruppi anta­go­ni­sti, spinge verso l’individualismo pre­da­to­rio. Sono que­sti gli obiet­tivi che la nuova giunta gui­data da Igna­zio Marino dovrebbe met­tere ai primi posti: la lotta con­tro la povertà, le dise­gua­glianze, l’esclusione, l’isolamento per favo­rire la rina­scita di un senso civico, la coe­sione sociale, l’appartenenza, la respon­sa­bi­lità sociale. Credo che que­sto possa essere fatto a par­tire dalla gene­ra­zione dei gio­vani offrendo loro pro­getti e oppor­tu­nità di lavoro per venire incon­tro ai loro biso­gni eco­no­mici ma anche ai loro desi­deri di con­vi­via­lità, di frui­zione cul­tu­rale, di scam­bio di espe­rienze e per arric­chire il capi­tale sociale e cul­tu­rale della nostra città (si veda il pro­getto delle «Case Zanardi» per Bolo­gna). Se non dalla città da dove dovrebbe nascere il rin­no­va­mento auspi­cato? Non sono le città i labo­ra­tori sociali dove si può ela­bo­rare un diverso con­cetto di dif­fe­renze, di cul­tura del limite, di spi­rito civico e di par­te­ci­pa­zione all’uso del tempo e dello spa­zio quo­ti­diano? In una parola, forse è pro­prio a par­tire dalla città che potrebbe essere resti­tuita la spe­ranza di un cam­bia­mento della poli­tica che si pro­pa­ghi all’intero ter­ri­to­rio, all’intero paese.

La Repubblica Milano, 27 marzo 2014, postilla (f.b.)

Il cemento avanza, sfonda la seconda cintura dell’hinterland e ormai invade persino la terza. È come se i confini fossero quasi scomparsi e Milano e i Comuni limitrofi quasi un tutt’uno. E l’area metropolitana satura di asfalto e cemento. Il capoluogo lombardo — con solo Napoli che di un soffio riesce a far peggio — primeggia nella gara tra le città che consumano più suolo. Una sfida senza medaglie. E con la Lombardia che è una grande macchia nera che in questo primato, tutto negativo, sbaraglia tutte le altre regioni.

Ci pensa l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, a fotografare l’andamento dal 1956 al 2012 del consumo di suolo. Sotto la Madonnina, la scomparsa di suolo libero è un fenomeno in crescita dagli anni Settanta: dal 42,8 per cento di terre mangiate nel ‘73, si passa al 58,3 per cento nel 1997 fino al 61,2 nel 2007. Per arrivare al 61,7 a fine 2012, ultimo dato ufficiale disponibile. E tra i peggiori, con la Lombardia che ha il 10 per cento di territorio irreversibilmente occupato da strade, capannoni, case. Che, contando montagne, laghi e dove non si può cementificare, non è poco, 261 i metri quadri di suolo consumato da ciascun abitante. Macome si è arrivati qui, a Milano? «La percentuale, inquietante, deriva da un’espansione urbana mal regolata o deregolata che avanza — spiega il ricercatore Ispra e responsabile del Rapporto, Michele Munafò — oltre che da una mancanza di programmazione strategica che non ha dato importanza alle funzioni del suolo anche per l’ecosistema.

E dietro, c’è la crisi di Milano città con la gente che tende a uscire, verso l’hinterland, e porta con sé l’infrastrutturazione del territorio». Per l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris è vero che Milano è stata cementificata nei decenni «ma nel Pgt abbiamo ridotto le volumetrie in un’ottica di conservazione». L’80 per cento dei Comuni lombardi ha in pancia 41mila ettari,oggi aree agricole, da urbanizzare. Una cifra enorme, se si pensa che in Lombardia negli ultimi dieci anni si sono mangiati 10mila ettari. Il primo colpevole è meno scontato del previsto: divorano più suolo le strade rispetto alle case. «Pedemontana, BreBeMi e Tem hanno provveduto a dare una botta, peraltro quando fai le strade è il prodromo di nuove urbanizzazioni — osserva il docente di Programmazione ambientale al Politecnico, Paolo Pileri — .

La crisi si pensa abbia messo in ginocchio l’edilizia ma in realtà questo non ha voluto dire un calo del consumo di suolo. Questo perché i Comuni continuano a mettere nei loro piani nuove aree da urbanizzare, Milano compresa: da Moratti a Pisapia il Piano di governo del territorio è stato asciugato, ma non ci sono dispositivi di legge e nemmeno la volontà che obblighino i sindaci a riutilizzare prima le aree dismesse ». Per invertire la tendenza, difatti, le ricette ci sarebbero. Senza toccare i livelli della Gran Bretagna, dove non si costruisce su nuovi terreni fintanto che i due terzi di aree abbandonate non vengano rimessi sul mercato, le chiavi sono diverse. Anche perché l’Europa impone di azzerare il consumo di suolo entro il 2050.

«Anzitutto il riuso di aree dismesse — dice Munafò — prima di costruire sul nuovo, si riqualifichi il vecchio che non si usa più. E poi il regolamento edilizio, nelle mani del Comune che ha il pallino della tutela del territorio. E, se proprio si deve cementificare, non si tocchino le aree agricole». Da tempo gli ambientalisti denunciano che la Lombardia sia «la cattedrale del cemento». E oggi esortano la Regione: «Siamo in emergenza — denuncia il presidente lombardo di Legambiente, Damiano Di Simine — il consiglio regionale ha in mano una proposta di legge di iniziativa della giunta che non è così male, va nella direzione giusta. La approvino presto».

postilla

A quanto pare, amministrazioni locali escluse (ed è qui il guaio), tutti concordano nel ritenere allarmante la continua e allegra espansione dell'urbanizzato metropolitano e regionale, anche in un'area ormai ampiamente satura come quella padana centrale. La vera questione però, indipendentemente dall'approvare o meno in tempi rapidi una legge che magari adotti virtuosamente il principio dell'approccio sequenziale di matrice britannica, è di definire qualche modello di sviluppo alternativo all'attuale. Non solo per le costruzioni, ma per l'idea di città società e attività economica oggi ancora legate mani e piedi al modello sviluppato dalle amministrazioni, di centrodestra e non, ad ogni livello. In altre aree sviluppate (ad esempio la spesso citata Silicon Valley) si è deciso di puntare sull'innovazione vera, quella di ricerca tecnologica e produttiva, lanciando politiche di polarizzazione urbana che si sostituiscano, anche nel modello industriale, allo sprawl novecentesco. Nella padania felix invece procede, come qualcuno osservava casualmente nell'articolo, il modello autostradale e disperso, salvo inventarsi proprio su quelle stesse nuove e micidiali autostrade le stazioni di rifornimento per auto elettriche. La sostenibilità retorica per gonzi insomma, e sotto il business as usual, con l'innovazione altrettanto ideologica della nuova trovata, che si chiama "Smart Land". Proprio così, lo slogan della smart city, già scivoloso di sé, traslato sui territori della dispersione, e guarda caso promosso dai medesimi interessi, a ben vedere dalle medesime persone, che si sono inventate la mitica città infinita. Andiamo proprio bene, con questa versione italiana del destrorso "new suburbanism" d'oltre oceano, e discutere di un ettaro in più o meno di prati di periferia destinati a trasformazioni urbane, ottime intenzioni a parte, scusate ma sembra l'ennesima presa in giro (f.b.)

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