La lettera di dimissioni dell'autore con la denuncia della deriva populista e anticostituzionale incarnata dall'attuale sindaco napoletano. Corriere del Mezzogiorno, 27 aprile 2014 (m.p.g.)
Quasi un anno fa (il 28 giugno 2013) descrissi su questo giornale le ragioni che mi avevano indotto ad accettare di far parte dell'Osservatorio cittadino permanente sui Beni Comuni istituito dal sindaco Luigi De Magistris. Oggi mi trovo ad esporre quelle che mi inducono a rassegnare le dimissioni.In questo mesi l'Osservatorio ha lavorato alacremente, sotto la direzione di Alberto Lucarelli e con il contributo di tutti i suoi membri. Da tutta Italia si guarda con speranza a questa esperienza, che cerca di tradurre in concreti atti di governo, sia pur locale, alcuni dei principi e delle istanze emerse in anni di riflessione giuridica e culturale sui beni comuni. E l'Osservatorio napoletano è arrivato a preparare alcune delibere che, ove fossero davvero adottate dalla giunta, segnerebbero un indiscutibile punto di svolta nella restituzione alla collettività di alcuni grandi spazi pubblici e privati ormai socialmente improduttivi, e anzi abbandonati da anni.
Ciò che, al contrario, non ha funzionato è stato il rapporto con il sindaco stesso, che non ha mai dato alcun segno concreto di interesse per il nostro lavoro. Al punto che è lecito chiedersi se mai quelle delibere saranno varate. Concludevo quell'articolo del giugno scorso assicurando che «se gli orecchi del sindaco non saranno aperti, sarò io a chiamarmi fuori: perché certo l'ultima cosa di cui ha bisogno il governo di Napoli sarebbe un'inutile foglia di fico accademica». Ecco, quel momento è arrivato.Perché questo visibile disinteresse si è accompagnato a segnali sempre più negativi, specialmente nelle politiche per la cultura. Il licenziamento degli assessori Antonella Di Nocera e Luigi De Falco era già stato un pessimo segnale. A cui vanno aggiunti l'abbandono del patrimonio monumentale comunale, il cronico disinteresse per la martoriata Villa Comunale e per le sorti della biblioteca di Marotta e soprattutto l'ambiguo silenzio sulle sorti di Bagnoli. De Magistris non ha mai ritenuto di rispondere alla lettera aperta indirizzatagli da Lucarelli e da chi scrive su queste pagine a proposito della ricostruzione della Città della Scienza: che a nostro giudizio non può rinascere dov'era e com'era, ma solo nel rispetto del vincolo paesaggistico e della legge.
A tutto questo si aggiunge ora un segnale politico gravissimo. De Magistris ha deciso di concedere Piazza Plebiscito alla Nutella, trasformando uno spazio pubblico simbolicamente cruciale in una specie di grande centro commerciale. Una scelta a mio giudizio sbagliata, ma ovviamente legittima. Quella che non è legittima, e che con le mie dimissioni intendo denunciare di fronte alla città, è invece la dichiarazione con la quale il sindaco ha attaccato la Soprintendenza architettonica, rea di star valutando attentamente se l'evento arrecherà danni alla cortina monumentale della piazza. Dopo aver cercato una sponda politica nel ministro per i Beni culturali Dario Franceschini, De Magistris ha testualmente dichiarato che «Le piazze sono del popolo e dobbiamo renderle fruibili liberandole da orpelli ed imposizioni burocratiche».
Lasciamo perdere l'impostura di identificare il popolo con un marchio commerciale e i cittadini con dei consumatori: in questo De Magistris si adegua al vento neoliberista interpretato al massimo livello istituzionale da Matteo Renzi. Anche se dovrebbe ricordare che gli italiani, purtroppo, perdonano, e anzi approvano con entusiasmo, simili impuntature narcisistiche e demagogiche solo quando si manifestano in politici 'vincenti'.
Ma soprattutto una simile dichiarazione rivela un grado di analfabetismo istituzionale francamente impressionante in un ex magistrato. Le soprintendenze sono una delle poche garanzie che il popolo italiano veda rispettati i propri diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione. Chiunque le irrida e le attacchi come burocrazia sorda e grigia svela un tratto autoritario preoccupante: specie se le oppone al presunto interesse del popolo.Nessun serio discorso politico sui beni comuni può essere fatto contro le soprintendenze: delle quali si possono e si debbono criticare singoli atti, ma che non si possono violentemente delegittimare in nome di un presunto bene del popolo.
Da parte mia, infine, non intendo legittimare in alcun modo questa deriva, ed è per questo che mi dimetto irrevocabilmente dall'Osservatorio sui beni comuni. E invito le associazioni, i comitati e i cittadini napoletani che hanno a cuore il bene comune ad aprire bene gli occhi, e a giudicare chi ora, a Napoli, sta difendendo davvero i principi costituzionali.
Sull'argomento vedi anche, su eddyburg, "Mercificando, mercificando, che male ti fo?"
Una politica di spazi condivisi della mobilità e degli ambiti pubblici in rete, alla base delle politiche urbane, privilegiando il ruolo del sistema dei flussi rispetto a volumi e funzioni. La Repubblica Milano, 27 aprile 2014, (f.b.)
Piazzale Loreto cambierà volto. Da slargo informe e invaso dal traffico diventerà una vera piazza più legata alla città. Con attraversamenti pedonali, senza togliere troppo spazio alle auto. E il mezzanino del metrò che potrebbe diventare open air. È il futuro che il Comune sta immaginando per ricucire lo storico rondò e luogo simbolico al resto della città. In particolare a viale Monza e a via Padova. Un piano che si sta studiando ora, che prenderà forma dopo l’Expo, per riequilibrare i flussi in un piazzale che oggi, al 56 per cento, è occupato dal traffico automobilistico e per un quarto è considerata terra di nessuno. Per l’urbanista del Politecnico Gabriele Pasqui «piazzale Loreto da linea Maginot deve tornare a essere uno spazio pubblico».
Da slargo informe e caotico a piazza urbana viva e vissuta dalla città. Con più spazi e attraversamenti pedonali, senza togliere troppo spazio alle auto visto lo snodo, strategico, nello scacchiere degli spostamenti cittadini. E un mezzanino del metrò che potrebbe diventare a cielo aperto. È il futuro che il Comune sta immaginando per piazzale Loreto. Obiettivo: ricucire lo storico rondò al resto della città. Uno dei progetti del più ampio “piano piazze” che l’amministrazione sta realizzando. Il progetto è di rendere piazzale Loreto meno “autocentrico”, sganciandolo dalle necessità del traffico secondo l’impostazione classica degli anni Sessanta: auto sopra, metropolitana sotto, pedoni attorno, livelli tutti sganciati. Si cambia filosofia. Questo è il sogno di Palazzo Marino per uno degli incroci più affollati, che è stato tribunale partigiano, luogo simbolo nella storia di Milano.
Ci stanno lavorando gli esperti dell’Amat (Agenzia mobilità ambiente territorio, società del Comune) assieme a un team di consulenti di Mobility in chain. Oggi il 56 per cento del piazzale è occupato dal traffico automobilistico, il 25 per cento è considerato terra di nessuno e il 19 per cento, di fatto i marciapiedi intorno al rondò, ha una vocazione pedonale. La missione è garantire più o meno gli stessi flussi di traffico (49 per cento), assicurano i tecnici, ridisegnandoli. Ma raddoppiare gli spazi pedonali e abbattere al 5 per cento la porzione di piazza inutilizzata. Già due anni fa, d’estate, si era tentato un esperimento. Sul modello della newyorkese Columbus Circle: una rotatoria «obbligata», con l’interruzione della linea continua che unisce corso Buenos Aires a viale Monza attraversando la piazza.
Nel piano, c’è anche l’idea di aprire il mezzanino del metrò, magari con delle vetrate, per dare respiro al piazzale. Un progetto che ha anche una valenza sociale, secondo l’amministrazione: ricomporre la frattura con le vie intorno, specie via Padova e viale Monza. «Un’iniziativa su cui inizieremo a lavorare seriamente dopo l’Expo — spiega l’assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran — per recuperare una delle piazze che abbiamo lasciato diventare uno svincolo: il nostro non è solo un progetto di mobilità ma un lavoro urbanistico, e anche sociologico».
Più spazio alle persone, quindi. Per riappropriarsi di pezzi di città. Loreto sarà solo l’ultimo passo del processo che la giunta arancione ha avviato in città. L’esempio che secondo molti osservatori è più riuscito, in questo senso, è quello già terminato in piazza XXV Aprile, dove si è creato un asse naturale con piazza Gae Aulenti, a Porta Nuova, ormai entrato nelle abitudini di passeggio e passaggio dei milanesi. Dopo anni di ritardo nella consegna di un par- cheggio sotterraneo che ha fatto dannare il quartiere, oggi quella piazza è tornata viva. Una rivoluzione sta trasformando anche piazza Castello, già di fatto pedonale nelle strade intorno alla fortezza, anche se l’ufficialità si avrà con l’inaugurazione nel weekend del 10-11 maggio. Un esperimento, anche questo, per rianimare l’area con eventi e all’insegna della mobilità sostenibile, del basso impatto ambientale, della vivibilità. Accadrà, parzialmente, qualcosa di simile anche in piazza XXIV Maggio: è qui che, nel più ampio progetto di riqualificazione della Darsena in chiave Expo, si sta lavorando per rendere semipedonale la piazza sotto l’arco neoclassico del Cagnola. Zero auto al centro, solo mezzi pubblici e taxi, e uno spicchio d’acqua del Ticinello che verrà riscoperto per abbellire la piazza.
Riconcepire gli snodi cruciali della città. In centro anche piazza Sant’Ambrogio sta per riaprire al pubblico, senz’auto e con una nuova pavimentazione, dopo quasi dieci anni di palizzate per il contestato progetto di box sotto la basilica. E il Comune, in piazza Missori, vorrebbe creare un’ampia aiuola verde al centro, anche se non tutti i residenti sono d’accordo.
Fuori dal centro si è intrapresa una strada simile, l’anno scorso, anche in piazza Leonardo da Vinci, davanti al Politecnico. Stop ai motori davanti all’ingresso della sede storica dell’università, con il Comune pronto a condividere il progetto di un «campus sostenibile» di Politecnico e Statale, che punta ad alleggerire il quartiere dal traffico: aree pedonali, zone 30 e mobilità dolce nell’area intorno all’università, tra le vie Celoria, Ponzio e Bonardi. Una grande isola ambientale che nei prossimi mesi dovrebbe vedere la luce. Infine, dopo Loreto, la prossima sfida fuori dal centro sarà dare una nuova forma ai flussi di traffico di piazzale Maciachini. Altro snodo percepito quasi “ostile” e staccato, da ricollegare, anche socialmente, al resto della città
“È una linea Maginot che si può trasformare in cerniera urbana” (intervista a Gabriele Pasqui)
«OGGI piazzale Loreto funziona come snodo viabilistico ma non come spazio pubblico». Per Gabriele Pasqui, direttore del dipartimento di Architettura e Studi urbani al Politecnico, il progetto del Comune di «metterci mano è un’idea molto interessante ».
Pasqui, che ruolo devono svolgere le piazze oggi?«La piazza deve smettere di essere solo un luogo di passaggio e deve tornare a essere un luogo di socialità. Un’agorà. Più un punto di incontro, come in passato. Certo, senza esagerare».
Quali sono i rischi?«Nel caso di piazzale Loreto, non si possono sconvolgere troppo i flussi di traffico, altrimenti si rischia di bloccare tutto. Ma abbattere questa sorta di linea Maginot che si è creata negli anni è un’ottima idea».
Come si deve fare?«Deve diventare un luogo di cucitura urbana. Vanno creati ambiti che siano fruibili non solo alle auto. Quindi un recupero della pedonalità, verso la quale negli anni, a ogni progetto, ci sono state alzate di scudi, come in via Dante, ma poi se n’è apprezzato il valore».
Sono trasformazioni che hanno impatti sui cittadini?«Non ho mai pensato che un progetto per quanto bello determini i comportamenti, ma credo che ripensare gli spazi possa permettere alle persone di reinventarne usi diversi».
Cambiamenti così possono anche avere una sorta di valenza sociale, come nel caso di piazzale Loreto verso via Padova e viale Monza?«Una maggiore permeabilità tra corso Buenos Aires e le grandi vie che partono verso l’esterno non credo che di per sé garantisca integrazione sociale, ma è un modo per interconnettere spazi oggi separati. O percepiti tali».
Ma più spazi pedonali è l’unico modo per ridare dignità a una piazza?«Sedute, panchine, la possibilità di un incontro a un ritmo più lento, ripresa di urbanità. E il ridisegno dello spazio pubblico che già esiste, magari su giardini poco usati perché ostili».
Ci sono altri progetti in questo senso che ricorda in città?«In corso di realizzazione o appena realizzati sì. Come molti punti lungo la circonvallazione delle mura, da piazza XXIV Maggio a piazza XXV Aprile, snodi che sono diventati già anche potenziali luoghi di socialità».
Ci sono altri snodi viabilistici “ostili” in città?«Piazzale Maciachini, ma anche piazzale Lotto. Ambiti già socializzanti in sé, snodi di trasporto pubblico e privato. Ma dove come uso dello spazio si potrebbe lavorare molto per renderli meno slarghi e più piazze».
Venezia docet, e dopo Firenze, anche a Napoli cartelloni della pubblicità rendono osceni i monumenti più insigni. La cronaca di Silvia Truzzi e il commento di Tomaso Montanari a proposito del Palazzo Reale a Piazza Plebiscito. Il Fatto quotidiano, 25 aprile 2014
Una gigantesca pubblicità su palazzo reale. Eppure in Piazza del Plebiscito sono vietati “eventi commerciali”
Può la Nutella far venire mal di pancia, anche senza mangiarne cinque chili? Assolutamente sì, e succede precisamente a Napoli. Protagonisti: la famosa crema di nocciole in odore di un importante genetliaco (50 anni) e un sovrintendente assai puntiglioso (ma non sempre). Location: la famosa piazza del Plebiscito nella sopracitata Napoli. Breve riassunto: qualche mese fa – informa il Mattino – un cartellone pubblicitario di notevoli dimensioni campeggiava, a copertura dei lavori di restauro, sulla facciata di Palazzo Reale con tanto di faccione di Gerry Scotti e Linus. A pochi metri da lì c’è l’ufficio del Sovrintendente Giorgio Cozzolino, che l’estate scorsa ha firmato un perentorio decreto per vietare in Piazza del Plebiscito “eventi a carattere commerciale”. Proprio lì c’era appena stato il concerto di Bruce Springsteen, attorno al quale si erano scatenate mille e una polemica. Che c’entra oggi tutto questo?
La Ferrero ha deciso di festeggiare i cinquant’anni della Nutella non ad Alba, bensì nella più assolata Napoli con un concerto gratuito, previsto per il 18 maggio, della popstar Mika.
In cambio l’azienda piemontese, oltre a pagare 50 mila euro per l’occupazione del suolo pubblico, s’impegna a restaurare le due statue equestri della piazza e ha offerto “disponibilità per altri eventuali aiuti”. Ma sarà considerato evento commerciale, e dunque incapperà nella scure del decreto di Cozzolino? Napoli fibrilla perché il concerto sta già richiamando moltissimi fan del cantautore libanese. Dal Comune obiettano che non si tratta di evento commerciale perché gratuito (per tutta la giornata: al mattino sono previste attività per i bambini, primi consumatori della Nutella). Luigi De Magistris, che da quando è sindaco ha litigato praticamente con chiunque, ha dichiarato che “la piazza simbolo della città deve vivere anche attraverso i grandi eventi internazionali, che rilanciano l’immagine di Napoli e producono ricadute positive sull’indotto economico e commerciale”. Gli eventi internazionali sono la sua passione (le prove dell’America’s Cup, la Coppa Davis, un improbabile invito ad Al Pacino), però (nonostante strascichi poco edificanti di alcune vicende) tocca dargli ragione. Anche se in città i detrattori degli eventi al Plebiscito ricordano i danni alla pavimentazione che arrecano i Tir quando montano i palchi o i ricordini sotto forma di graffiti che regolarmente lasciano gli spettatori . Dirimente sarà la decisione del Sovrintendente Cozzolino, oggetto di una polemica piuttosto vivace sulle pagine de il Mattino dove ieri si criticava un’intransigenza intermittente. Ha bocciato le luci d’artista in piazza Plebiscito (quest’anno erano di rara bruttezza), la scogliera finta costruita per la Coppa America, i concerti di Pino Daniele e Mark Knopfler sempre in Piazza del Plebiscito, l’Arena del mare, ma a vedere le partite di Coppa Davis c’è andato. E poi c’è anche la questione delle piattaforme sul lungo mare: sull’unica installata, al circolo Canottieri, è intervenuta la Polizia municipale. Dov’era il Sovrintendente? A prendere il sole, proprio lì.
Prende le sue difese Gregorio Angelini, direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Campania: “Un linciaggio mediatico che mi ha ricordato la storia del magistrato con i calzini celesti”. A parte il riferimento poco pertinente al giudice Mesiano, dell’affaire Nutella al Plebiscito, dice: “C’è un vincolo su quella piazza.
Dopo l'impugnazione del decreto, il Tar aveva concesso una sospensiva, annullata dal Consiglio di Stato che però deve ancora esprimersi sul merito. È vero che la Nutella rappresenta il Made in Italy, ma ci sono norme a tutela della monumentalità della piazza. Lunedì il dottor Cozzolino e io incontreremo l’assessore all’Urbanistica, per verificare la proposta del Comune. Nessuno mette in discussione che la piazza debba essere un luogo vitale e vissuto della città, tuttavia c’è un’area di rispetto che restringe un poco la ricettività: esiste un problema di attività compatibili. Ma lo spirito è quello di collaborare per trovare una soluzione”. In tarda serata un comunicato del ministro Franceschini sembra mettere la parola fine alla querelle: “Io credo che la salvaguardia dei monumenti e delle piazze non debba necessariamente tradursi in un impedimento a manifestazioni pubbliche, soprattutto quando possono essere, come un bel concerto, un’occasione di utilizzo e valorizzazione del patrimonio pubblico mettendolo a disposizione di tutti i cittadini”. Che Napoli sarebbe, senza Nutella?
COME PER PONTE VECCHIO
IL PROBLEMA È POLITICO, NON DI TUTELA
di Tomaso Montanari
Concedere a un grande marchio commerciale Piazza del Plebiscito a Napoli non è un problema di tutela dei monumenti. Non so cosa deciderà il soprintendente architettonico Giorgio Cozzolino – specie dopo la nota del suo ministro Dario Franceschini, che sembra volerne impropriamente condizionare il verdetto –, ma in ogni caso il problema è politico, non certo tecnico.
Esattamente come nel caso del Ponte Vecchio noleggiato da Matteo Renzi alla Ferrari per una cena di lusso, del Teatro Greco di Siracusa concesso a un raduno di auto da corsa, della sala di lettura della Biblioteca Nazionale di Firenze usata come location per il lancio di una collezione di moda di Alessandro Dell'Acqua. In tutte queste occasioni in gioco non c'era la salvaguardia materiale dei luoghi, ma quella dei valori immateriali connessi a quegli spazi pubblici. Per secoli la forma dello Stato e la forma dell’etica pubblica si sono definite nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. E la funzione delle loro piazze era permettere ai cittadini di incontrarsi come liberi e come pari. Se trasformiamo questi luoghi in un centro commerciale più o meno occulto, essi non produrranno più cittadini, ma clienti, consumatori, sudditi del mercato. Il sociologo americano Cristopher Lasch ha scritto che “quando il mercato esercita il diritto di prelazione su qualsiasi spazio pubblico, la gente corre il rischio di perdere la capacità di autogovernarsi”. Un enorme cartellone pubblicitario issato pochi anni fa sui monumenti di Piazza San Marco a Venezia gridava a caratteri colossali lo slogan: “Non rispettare le regole, dettale”. Che è esattamente il messaggio che mandiamo sottoponendo al mercato i grandi spazi pubblici del Paese.
Non ho nulla contro la Nutella (anzi...), ma dobbiamo chiederci se sia giusto che tutto abbia un prezzo: è questo il nostro progetto di città, e dunque di società? Il fatto che le soprintendenze (quando funzionano) siano rimaste (sole) a difendere lo statuto non commerciale dello spazio pubblico italiano appare sempre più intollerabile, ed è per questo che da destra a sinistra si propone di abolirle.
Intervista di Milena Farina all'assessore comunale alla Trasformazione urbana Giovanni Caudo: una persona scomoda per i partigiani della città della rendita. Il Giornale dell'architettura online, 25 aprile 2014
ROMA. Continua il braccio di ferro, soprattutto intorno alle destinazioni d'uso, alle nuove volumetrie e alle modalità di realizzazione della centralità Romanina prevista dal PRG, tra l'assessore alla Trasformazione urbana Giovanni Caudo e i cosiddetti poteri forti rappresentati dagli immobiliaristi della capitale (cfr.www.abitarearoma.net). Cogliamo l'occasione per pubblicare la versione integrale dell'intervista comparsa sul numero 117 (primavera 2014) dell'edizione cartacea del nostro Giornale, attualmente in distribuzione, al neoassessore della giunta Marino dopo oltre 8 mesi dal suo varo. L'intervista, insieme ad altri due articoli, intende inoltre fare il punto sullo stato d'avanzamento delle grandi opere incompiute, sulle politiche avviate in tema di mobilità e sulle varie scelte urbanistiche. Architetto e professore associato di Urbanistica presso l’Università di «Roma Tre», Caudo (Fiumefreddo di Sicilia, 1964) si è interessato in particolare alle questioni abitative nella città contemporanea.
Assessore Caudo, la decisione di cambiare nome all’assessorato è stato uno dei primi segnali del nuovo corso dell’amministrazione. Perché il termine urbanistica vi è sembrato inadeguato?
Il nuovo nome deriva dalla constatazione che siamo passati dall’urbanistica dell’espansione tipica del ‘900 a un nuovo ciclo in cui si ritorna alle origini della disciplina, che alla fine dell’800 si occupava del risanamento della città esistente. La scelta ha quindi un duplice significato, culturale e operativo.
Quali sono le azioni più significative in tal senso, dopo la revoca della Delibera della giunta Alemanno sui nuovi ambiti di riserva nell’agro romano?
La delibera, oltre a evitare un’ulteriore urbanizzazione su 2.365 ettari di agro romano (161 nuove aree edificabili), è il primo segnale della volontà di riportare l’azione all’interno delle previsioni del PRG e in particolare in quelle aree individuate come parte della città da riqualificare, pari a 9.500 ettari: abbiamo avviato 5 PRINT che sono tra gli strumenti previsti dal PRG per intervenire in queste aree; poi c’è l’attenzione alla trasformazione delle aree dismesse o dismettibili, come il patrimonio del demanio e in particolare le caserme del Ministero della Difesa.
Il primo intervento di trasformazione urbana annunciato è la Città della Scienza in via Guido Reni, di fronte al MAXXI. Sarà l’occasione per sperimentare una nuova modalità di gestione delle trasformazioni complesse?
La trasformazione dello stabilimento militare materiali elettrici di precisione è l’operazione più importante avviata sul patrimonio demaniale, che interessa un vero e proprio pezzo di città. Qui abbiamo cercato di determinare una linea di azione per gli interventi di rigenerazione articolata in tre strategie: si rende accessibile l’area, attraverso la costruzione di un’armatura di spazio pubblico che permetta di reinserirla nel tessuto urbano, in continuità con la piazza del MAXXI; s’inseriscono funzioni pubbliche, delle quali la Città della Scienza è l’elemento principale; si favorisce la messa a valore dell’area in modo da produrre le risorse necessarie per sostenere l’intervento pubblico (residenze e funzioni commerciali). Abbiamo appena predisposto la variante urbanistica, che fissa i nuovi parametri e le invarianti dell’intervento pubblico; ora sta partendo la fase di consultazione con la formazione di un’assemblea partecipata degli abitanti, dalla quale usciranno gli elementi che saranno posti a base di un Documento di progettazione preliminare; poi organizzeremo un concorso internazionale per il masterplan di tutta l’area, con 5-6 gruppi selezionati su curricula che parteciperanno a una serie di incontri intermedi per la discussione di temi specifici (spazio pubblico, risparmio energetico, tipologie insediative). Per la città della Scienza si organizzerà anche un concorso di progettazione, una volta messo a punto il progetto scientifico che, oltre alla parte espositiva, prevede laboratori di ricerca e aree per l’innovazione scientifica e culturale.
La strategia della trasformazione sembra molto più complessa da gestire rispetto a quella dell’espansione, poiché ci si scontra con interessi consolidati. Quale sarà il ruolo della partecipazione, visto il dissenso che ormai sembra accompagnare ogni proposta di cambiamento?
Il dialogo con la città si è interrotto negli anni passati e insieme è cresciuta la sfiducia nei confronti dell’amministrazione comunale. Per ricostruire questo rapporto è necessario parlare con trasparenza e costruire momenti di partecipazione, a partire da situazioni concrete. Nel caso di via Guido Reni, stiamo avviando la partecipazione sulla base di una variante urbanistica già approvata, nella quale sono state individuate le quantità necessarie a garantire la sostenibilità economica dell’intervento per i soggetti coinvolti: il demanio dello Stato che vende l’area, l’operatore privato che realizza la valorizzazione immobiliare (Cassa Depositi e Prestiti Investimenti SGR), l’Amministrazione che acquisisce metà dell’area (27.000 mq di SUL) per funzioni pubbliche e il contributo straordinario. Sarà aperto un tavolo con le associazioni, il Municipio e un gruppo tecnico dell’assessorato che potrà esprimere indicazioni sulle funzioni pubbliche più adatte e sulla collocazione delle funzioni private.
Il vostro programma s’inserisce nel PRG, quindi viene confermata l’idea di città policentrica? Intendete rilanciare il tema delle centralità, visto che uno dei limiti del piano è la loro scarsa caratterizzazione funzionale nonché debole capacità aggregativa?
La struttura policentrica del piano è stata in gran parte realizzata già negli anni precedenti, anche se non è percepita dalla città: il 70% delle centralità erano già attuate quando è stato approvato il piano e altre sono state realizzate nel frattempo. Ora stiamo lavorando sulle loro connessioni con il sistema di trasporto pubblico: a dicembre abbiamo approvato in giunta la delibera per la realizzazione della stazione ferroviaria a Ponte di Nona, una delle centralità più discusse per l’assenza di collegamenti con la rete su ferro oltre che per la pessima qualità dell’intervento; tra le centralità da realizzare, a Romanina abbiamo previsto il prolungamento di 2 fermate della metro A e a Massimina si realizzerà una nuova stazione sulla linea FR1. Lavoreremo inoltre in variante al piano per collocare nuove concentrazioni di funzioni intorno alle stazioni delle linee ferroviarie già esistenti all’interno del GRA (Ponte Mammolo, Grotta Rossa, Ipogeo degli Ottavi, Anagnina), che potrebbero avere un effetto di riequilibrio del sistema dei flussi spostando i pesi nella zona intermedia tra la città consolidata e l’esterno. Non si rinuncia a un’ulteriore cura del ferro, ma in attesa delle nuove linee Metropolitane portiamo le funzioni dove il ferro c’è già o è sottoutilizzato.
Quale sarà l’impatto delle compensazioni previste dal PRG? È possibile individuare strumenti per disinnescare questo meccanismo che già ha fatto «atterrare» grosse cubature su Roma?
Per buona parte delle compensazioni erano già state individuate 84 aree di «atterraggio», con un meccanismo, quello dell’equivalenza di valore, che ha trasformato i 4 milioni di mc in 6,4 milioni di mc per via della loro collocazione più periferica. L’Assemblea capitolina ha già approvato negli anni scorsi le delibere relative a 61 aree, che sono dunque già operative, mentre noi stiamo lavorando sulle altre 23. Gli anni non sono passati invano, come si vede. Anche se promuovessimo una moratoria urbanistica, questi atti andrebbero comunque avanti. Stiamo lavorando affinché le nuove collocazioni siano coerenti con il piano ma anche con il nostro programma, ovvero rilocalizzando la cubatura in aree già urbanizzate; seguiremo la stessa logica nella localizzazione degli ulteriori 3,5 milioni di mc che restano da compensare, portandoli in aree più centrali in modo da ridurli. Dunque la nostra azione prevede la chiusura delle compensazioni ancora in itinere e, come obiettivo di fine mandato, la cancellazione dell’articolo del piano che le prevede perché è un principio sbagliato e di difficile gestione.
A proposito di strumenti difficili da gestire, che impatto avrà nei prossimi anni l’attuazione del Piano Casa? Cosa può fare l’amministrazione per evitare che tali interventi sconvolgano gli equilibri di tanti quartieri e rendano superflue le previsioni del PRG?
Dal punto di vista dei principi il Piano Casa non è sbagliato. È sbagliata la Legge Regionale che ha esteso le maglie della normativa oltre l’intervento edilizio arrivando alla dimensione urbanistica. In questo modo invece di semplificare si complica, perché gli interventi che hanno un impatto urbanistico devono passare al vaglio dell’Assemblea capitolina, quindi hanno un iter più complesso. Intanto abbiamo concordato con la Regione di modificare la legge, in particolare il comma 3 dell’articolo 3-ter che è il più devastante in termini di pesi insediativi in quanto prevede nelle aree non edificate una premialità del 10% calcolato sull’intera cubatura prevista da un piano attuativo. Nella nuova proposta di legge regionale questa possibilità viene ridotta. Si poteva fare di più, l’accordo Stato Regioni su cui si fonda il cosiddetto Piano Casa, infatti, non prevede l’applicazione a volumi non esistenti. Così di fatto il Piano Casa si applica anche alla nuova edificazione e non solo all’esistente, è l’unica Regione che consente questa fattispecie.
Attraverso quali strumenti l’amministrazione si sta facendo carico della questione abitativa?
Vista la carenza di risorse pubbliche, ci stiamo muovendo su due binari: limitando il nostro intervento alle situazioni di estrema emergenza ovvero trovando una soluzione abitativa per le famiglie – circa 3.000 – che sono in graduatoria per la casa popolare con il massimo di punteggio; proponendo ai costruttori che oggi hanno il problema dell’invenduto di mettere sul mercato alloggi a prezzi convenzionati, in cambio della riduzione degli oneri. Stiamo infine concludendo le procedure del 2° PEEP che prevede 14 nuovi interventi di edilizia agevolata, per circa 3.000 alloggi.
Che idea avete del centro storico? Il progetto di pedonalizzazione del tridente non rischia di trasformare ulteriormente questa parte di città in una sorta di parco turistico, dal quale i romani si sentono esclusi?
Nel tridente stiamo completando la ripavimentazione delle strade: è una predisposizione alla pedonalizzazione che sarà attuata dopo aver individuato un sistema di parcheggi per attutire i disagi ai residenti e lasciare l’auto fuori dal centro storico. Per contrastare la progressiva commercializzazione, abbiamo messo in campo due interventi strategici: la sistemazione intorno al Mausoleo di Augusto, dove si costruirà una nuova piazza laddove ora c’è uno slargo; il piano di recupero di via Crispi con l’ampliamento della Galleria d’arte moderna. Stiamo inoltre individuando gli immobili sottoutilizzati e dismessi per introdurre nuovi usi pubblici, con destinazioni solitamente escluse dal mercato.
Quali sono le difficoltà nel governare dinamiche metropolitane che vanno oltre i confini della stessa provincia con strumenti limitati alla dimensione territoriale comunale? Che caratteristiche dovrebbe avere l’architettura istituzionale di Roma Capitale?
È necessario aprire un dibattito su questo tema. I finanziamenti per Roma Capitale dovrebbero essere stabiliti con una Legge Speciale in relazione a obiettivi legati al suo ruolo, visto che in ogni caso lo Stato si trova periodicamente a ripianarne i debiti. Noi come assessorato la dimensione metropolitana l’abbiamo già assunta: nella macrostruttura abbiamo costituito un’apposita unità operativa che dialoga su un doppio livello, con i Municipi e con i Comuni contermini, anticipando lagovernance che sarà tipica della città metropolitana.
Come si immagina Roma alla fine del mandato?
La città si sta preparando anche con le scelte urbanistiche a due importanti appuntamenti: il 150° anniversario di Roma Capitale nel 2020 e il Giubileo nel 2025. Traguardando l’orizzonte di medio periodo, m’immagino una città più ordinata che si è riappropriata delle regole come strumento per costruirsi il proprio futuro; una città che guarda alla sua dimensione metropolitana in cui le periferie sono luoghi che si riposizionano rispetto a un nuovo concetto di centralità; una città che ha ricostruito un appeal internazionale oggi completamente perso. Una città in cui le scelte urbanistiche devono essere a sostegno dei percorsi di sviluppo sociale ed economico e non essere fine a se stesse.
Una piccola rassegna di progetti di riqualificazione urbana partecipativi dal basso, tutt'altra cosa rispetto a quelli variamente gestiti da animatori professionisti. Corriere della Sera Milano, 20 aprile 2014 (f.b.)
Nella Grande Milano non trova posto la distinzione tra centro e periferia e ogni zona ha «opportunità pari alle altre» ha dichiarato l’assessore alla Cultura, Filippo del Corno. Tuttavia, l’impressione è diversa: man mano che ci si allontana dal Duomo sono sempre di più le aree dove regnano disagio, miseria, marginalità. Eppure è proprio qui — tra muri imbrattati, sporcizia nei parchi e nelle strade, scarso rispetto per le regole e apatia da parte di molti — che le periferie stanno trovando una loro identità allegra e forte. Perché più che altrove si è fatto largo qualcosa di nuovo: una «magia» collettiva che rigenera il territorio e dà vita ad una Milano diversa.
«Davanti al degrado — spiega l’esperto di politiche urbane Paolo Cottino — la riqualificazione degli edifici da sola non basta a migliorare la vivibilità: gli abitanti devono fortemente volere le trasformazioni, attivarle e poi partecipare al rinnovamento, altrimenti non accade nulla». In diverse aree, come Giambellino e Ponte Lambro, l’impulso iniziale è arrivato dei Laboratori di quartiere. Altre volte sono stati comitati, scuole, associazioni a muoversi per primi. Gente che ha imparato a riunirsi in rete. Per fare e per chiedere. Ed è così che cambia la cultura: a colpi di solidarietà e voglia di agire.
Quasi un miracolo, per esempio, la rinascita del parco all’ex-sieroterapico, grande area dismessa tra i due Navigli: «Sta diventando un’enorme oasi naturalistica in città — spiega Stefano Guadagni del Comitato Segantini — con orti condivisi, nuove piante, animali da proteggere». Un entusiasmo che ha contagiato Italia Nostra, Lipu, Verdisegni e Naba. E ora il progetto è portato avanti con il Comune di Milano.
Allievi del Politecnico insieme con Tempo riuso e Baia del re onlus hanno riprogettato il mercato coperto al quartiere Stadera rilanciandolo come auspicabile luogo d’integrazione tra culture, in un contesto difficile. Gli allievi della media Rinascita sono arrivati in centro armati di vernici e rulli e con l’Associazione antigraffiti hanno ripulito i muri alle Officine Ansaldo. E gli inquilini della via Rilke, pieno degrado, hanno inaugurato nella portineria del civico 6 uno sportello d’ascolto che sta già dando frutti. Perché le idee di chi inventa nuovi usi per spazi abbandonati sono importanti.
Ancora: al Giambellino, piazza Odazio è risorta insieme con la sua Casetta verde con iniziative culturali legate alla tradizione e decine di associazioni capitanate da Dynamoscopio. Lo stesso è accaduto alla piazzetta del Murunasc, a Baggio, dove Share radio, che registra in uno scantinato, dà voce alle periferie e il microfono a giovani volontari che si rimboccano le maniche impegnati in palinsesti, interviste e dirette anche video. «La conoscenza del territorio alimenta il senso civico che insegna a dare valore alla città, dunque a rispettarla» spiega Filippo Gavazzeni ideatore di Milanofuoriclasse.it che ha radunato 30 studenti, l’Amsa e le Gev - Guardie ecologiche volontarie e in una mattina di passione ha tirato a lucido largo dei Gelsomini, al Lorenteggio.
Gente, questa, che forse senza rendersene conto neppure, o comunque senza chiedere nulla in cambio, abbatte nel bilancio di Milano il costo enorme di chi, apatico, si rassegna o, peggio, distrugge, offrendo la ricchezza di chi invece ripara e progetta intorno alle potenzialità del territorio che vive.
Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2014
Trasformata nella Reggia del Pianeta Naboo in Guerre Stellari, umiliata a set della serie Elisa di Rivombrosa, candidata a location per le nozze di Naomi Campbell, promossa a finto Vaticano nella fiction della Rai sul papa polacco ma anche film Angeli e demoni, da Dan Brown: la Versailles casertana di Carlo di Borbone ha sbarcato il lunario nei modi più impensati. Ma l’associazione cinematografica più azzeccata è certo quella con Mission Impossible (il terzo episodio, in cui mima ancora il Vaticano): perché la Reggia di Caserta è davvero la “mission impossible” del patrimonio culturale italiano.
Esattamente un anno fa il Daily Telegraph descrisse con impietosa lucidità un sito monumentale abbandonato a se stesso: con i ladri che rubano il rame dal tetto, i ragazzi che fanno il bagno nelle mitiche fontane del giardino più importante d’Italia, le garitte dei custodi distrutte dalla ruggine e gli occupanti abusivi che vivono nelle foresterie. Per il giornale inglese, la Reggia è il “più clamoroso esempio dell’incapacità dell’Italia di governare il proprio straordinario patrimonio culturale, tra tagli al bilancio e recessione profonda”.
L’aveva scritto sul Corriere della Sera Alessandra Arachi, l’aveva mostrato a Rai Tre Stefania Battistini: ma le critiche estere fanno sempre più colpo, e così Maurizio Crozza si rivolse ai francesi, più serio che faceto: “Francesi, prendete in gestione la Reggia vanvitelliana, fatela diventare il sito più visitato in Europa come avete fatto con il Louvre, salvatela dal degrado”. Poi, a dicembre, il sindaco di Caserta pensò bene di piantare un corno rosso alto 13 metri (e dal modico prezzo di 70 mila euro) di fronte alla Reggia, a mo' di addobbo natalizio. E mentre Gian Antonio Stella osservava sarcastico che “non è detto che porti buono”, Dagospia coniò la più prosaica definizione di “sco-reggia di Caserta”.
Questa litania di cialtronerie impallidisce quando si apprende che il prefetto di Caserta ha “affettuosamente” (come ha scritto sulla busta) consegnato le chiavi della Reggia a Nicola Cosentino. E qui capisci che il degrado materiale è la conseguenza di quello morale. Il fatto che il patrimonio culturale che la Costituzione ha restituito ai cittadini sovrani non sia più una cosa pubblica, ma “cosa loro” è il segno dello slittamento del suo valore simbolico: da segno della presenza dello Stato-comunità a trofeo dell’antistato. Siamo solo a un passo da ciò che accadeva fino a pochi mesi fa in un’altra, vicina, reggia borbonica: Carditello. Sono stati sbarbati e rubati i cancelli, le acquasantiere della cappella, i gradini di marmo delle scale e perfino l’intero impianto elettrico. Quel che non si poteva asportare è stato distrutto, e nelle ali fatiscenti che un tempo ospitavano le attività agricole della tenuta è possibile rinvenire di tutto: da cumuli inquietanti di schede elettorali, a mappe e rilievi dell’area, gettati alla rinfusa sotto tetti sfondati. Il pavimento di cotto della terrazza sommitale è stato strappato e rubato, mattonella per mattonella, e così i balaustrini di marmo che reggevano i parapetti. La reggia si è, insomma, trasformata in una gigantesca cava di materiali pregiati, che non è difficile immaginare indirizzati verso le oscene ville dei ras della camorra.
Qualche mese fa, Massimo Bray è riuscito a ricomprare Carditello (da Banca Intesa), e ora si aspetta un piano per la sua salvezza: che potrebbe passare attraverso l’affidamento a Libera di don Ciotti, capace di rimettere in piedi la tenuta agricola che circonda il palazzo. Qualcosa di altrettanto radicale deve avvenire alla Reggia di Caserta, che non può rimanere uno scatolone vuoto, ma deve diventare un centro vivo di conoscenza. Potrebbe essere un centro nazionale di studio e tutela dei giardini storici, oppure ospitare la biblioteca senza casa dell’Istituto di studi filosofici di Napoli o un museo nazionale della migrazione. Qualunque cosa: purché le sue chiavi siano restituite – affettuosamente – ai cittadini, e negate, per sempre, ai signori dell’antistato.
Il manifesto, 17 aprile 2014
Fino a giugno, il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme ospiterà una fantasmagorica rassegna dedicata ai mostri e alle creature fantastiche nella mitologia antica. Tutti presenti gli incubi dell’uomo classico: dal minotauro alle arpie, passando per la chimera. In catalogo, manca ovviamente il biblico leviatano, simbolo di quello Stato onnipresente, lento e opprimente, denunciato da Thomas Hobbes. Lo scorso mese, un articolo di Giovanni Valentini su Repubblica è parso evocarlo, quel monstrum, a proposito dell’amministrazione pubblica della cultura: sarebbe soprattutto la burocrazia delle soprintendenze ciò che «imbriglia il recupero e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, contribuendo così a congelare la modernizzazione».
Immediata l’alzata di capo degli archeologi, che hanno reagito lanciando un appello attraverso il sito Patrimonio sos. Tra le tante firme, troviamo quella di Rita Paris, consigliere comunale eletta nella Lista Civica Marino Sindaco e responsabile dell’area archeologica del Parco dell’Appia Antica. La incontriamo nel suo ufficio di Palazzo Massimo, sede museale che dirige dal 2005.
Qualcosa non va nelle soprintendenze?
La struttura per la quale lavoriamo deve essere migliorata: noi stessi ne parliamo ormai da anni. Non è tuttavia giusto descrivere le soprintendenze come carrozzoni ottocenteschi. Innanzitutto, sono passate con successo a gestire finanziamenti, anche consistenti, applicando la normativa sui lavori pubblici, estremamente complessa per studiosi costretti a confrontarsi con scavi e restauri alla stregua di opere edili quali viadotti e autostrade. Ci hanno quindi chiesto di informatizzare il nostro patrimonio conoscitivo: l’abbiamo fatto. Allo stesso modo ottemperiamo alla legge 241 sulla trasparenza degli atti: rispettiamo in pieno i tempi, rispondendo sempre all’attenzione pubblica.
Che le soprintendenze siano antiche, questo è un altro discorso. In effetti sono nate ancora prima del ministero, quando erano comprese all’interno della Direzione generale per le antichità e belle arti, dipendente dalla Pubblica istruzione. Da allora, sono le soprintendenze di settore — archeologiche, storico-artistiche, architettoniche e paesaggistiche — gli uffici periferici presenti sul territorio, che presidiano e controllano seguendo le forme di pianificazione elaborate dagli enti locali, dai piani regolatori ai piani territoriali paesistici. Francamente, non riesco a immaginare da quale struttura possano essere sostituite.
Una grande rivoluzione fu, nel 1993, la legge Ronchey sui servizi aggiuntivi: prima custode e bigliettaio erano la stessa persona; adesso biglietteria, bookshop, e punti di ristoro sono gestiti a parte. Le soprintendenze hanno definitivamente rivolto la loro attenzione agli aspetti gestionali e di valorizzazione della funzione pubblica, concentrandosi sulle nuove esigenze didattiche e comunicative. I luoghi della cultura si sono aperti a un mondo diverso, non solo specialistico.
Un luogo comune, tuttavia, insiste nel ribadire che siete troppo autoreferenziali e dovreste aprirvi ancora di più all’esterno.
Per quanto riguarda la ricerca di sponsorizzazioni, non è vero che siamo soltanto conservatori. Anzi, manca poco che facciamo i butta-dentro: quelli che pur di rendere attraenti i nostri musei, pur di avere maggiori visitatori si mostrano disponibili a organizzare tipi di eventi che non hanno molto a che vedere con l’archeologia. Non è il caso di Musei in musica, Una notte al museo, la Settimana della cultura, iniziative che possono attrarre un pubblico diverso che altrimenti non si sarebbe mai accostato all’arte antica. I Rolling Stones, però, sono eccessivi, anche perché il Circo Massimo non ha bisogno di visibilità.
Quali sono, quindi, i limiti e le criticità principali delle soprintendenze?
Abbiamo una serie di figure professionali entrate con una qualifica direttivo-apicale; se non fai un concorso, lì ti fermi. La nostra è una struttura piramidale con un dirigente e diversi direttori che hanno degli incarichi specifici presso monumenti, pezzi di territorio, musei. Una struttura del genere, con tali responsabilità, meriterebbe un riconoscimento diverso. Lo stipendio di un direttore di museo, invece — Uffizi compresi — arriva al massimo a 1800 euro. È un incarico che, come ti viene dato, così ti viene tolto: oggi sei il direttore della Galleria Borghese, domani puoi lavorare altrove. Non hai un’indennità di funzione a fronte della mole di impegni e responsabilità richieste, delle competenze necessarie per gestire rapporti con le istituzioni nazionali e internazionali.
Così non si può continuare a lavorare: se ancora resistiamo, è perché abbiamo introdotto nel lavoro qualcosa che va oltre l’idea di contratto. È proprio la passione, il trasporto, l’enorme senso di responsabilità che ha fatto dimenticare a chi ci governa quanto la nostra considerazione sia inadeguata al ruolo svolto. Tutti lavoriamo normalmente dodici ore al giorno, districandoci tra aspetti gestionali e amministrativi, senza dimenticare la ricerca scientifica: non possiamo smettere di studiare per restare al passo con l’impegno scientifico che gli accademici possono affrontare. Se non studi, non puoi organizzare una mostra né gestire un museo: non hai la possibilità di redigere un catalogo, scrivere le didascalie, organizzare attività didattiche.
Sembrano le stesse richieste degli insegnanti. E se le soprintendenze le abolissero?
L’età media delle sovrintendenze è di 57 anni. In alcune regioni sono state immesse forze giovani; a Roma e nel Lazio no. Da anni ormai non entra un funzionario nuovo al quale trasmettere la nostra esperienza, giusto per passare la staffetta. Nello Stato non c’è carriera: ci sono degli interni di livelli inferiori che non crescono, altri proprio non entrano. Le dichiarazioni del ministro, finora, da un lato parlano del ricorso a privati, dall’altro di una spending review che sicuramente va operata, ma non certo qui, dove sarebbe quanto meno rischiosa e controproducente. Se si tolgono risorse alle soprintendenze, si impoverisce irrimediabilmente il rapporto dello Stato con i luoghi della cultura sul territorio.
Una delle obiezioni più frequenti sostiene che lo Stato non possa farcela a gestire da solo il nostro patrimonio culturale. Bisognerebbe concede maggiore spazio ai privati?
Davvero non si capisce cosa si intende oggi per privati, perché ci sono sempre stati. Già nel ’94 avevo immaginato una mostra — Dono Hartwig, originali ricongiunti e copie tra Roma e Ann Arbor in Michigan — che riuniva frammenti scultorei del Templum Gentis Flaviae finiti all’inizio del ’900 sul mercato antiquario. L’operazione fu portata avanti grazie al contributo di uno sponsor privato: l’Eni. È fondamentale, tuttavia, sottolineare quello che sembra ovvio: deve essere lo Stato a soprintendere. Ultimamente abbiamo avuto contributi di privati a titolo diverso: nel caso della Piramide Cestia e della Fondazione Packard a Ercolano, si è trattato di erogazioni liberali e di atti di mecenatismo che non hanno chiesto nulla in cambio se non il pubblico riconoscimento e ringraziamento; nel caso del Colosseo, si è andati un po’ oltre. Quello che conta, tuttavia, è il procedimento: i privati versano i soldi nelle casse dello Stato e, quindi, delle soprintendenze; queste, infine, procedono a realizzare i progetti attenendosi rigorosamente alle procedure di legge. Nessun privato può dire direttamente: «io voglio occuparmi dei restauri al Colosseo».
Non pensa che l’opinione pubblica possa faticare a comprendere le vostre ragioni?
Al contrario, penso che a volte i cittadini siano perfino più esigenti di noi, fino a pretendere di più di quello che si possa effettivamente dare. Per esempio, anni fa, un limitato scavo preventivo in occasione della costruzione di un edificio in via Padre Semeria, all’Eur, aveva restituito alcune testimonianze antiche. In seguito, il palazzo non si fece più e lo scavo rimase a lungo in stato di abbandono, finché noi non chiedemmo il rinterro per garantirne la protezione: la migliore forma di conservazione.
I cittadini quasi insorsero. Insomma, da un lato si accusano le soprintendenze di essere da ostacolo al progresso, dall’altro ogni ritrovamento archeologico finisce per scatenare una sorta di orgoglio locale. Se l’Italia assegna all’intero patrimonio culturale della nazione uno 0,19%, è ovvio che il governo e gli amministratori continuino a chiedere con maggiore forza il contributo dei privati. La questione sta tutta qui.
Dopo la ferita dei bombardamenti del 1943, che avevano raso al suolo buona parte del cento storico, Cagliari negli anni del boom economico (i Cinquanta e poi per tutti i Sessanta), era cresciuta. Sede dell’amministrazione regionale, centro politico ma anche economico dell’isola. Un’imprenditoria quasi tutta legata ai traffici commerciali con la penisola, comprare e rivendere, rivendere e comprare. Poca industria vera, sino all’arrivo dei Moratti con la loro raffineria a Sarroch, sul finire degli anni Sessanta. Ma anche, in una città in tumultuoso sviluppo urbanistico,speculatori edilizi e palazzinari. Nei primi anni Settanta a Sant’Elia accaddero due cose che cambiarono per sempre il volto del quartiere: la decisione di trasformare la ex zona paludosa bonificata in un’area di edilizia popolare e quella di costruire al limite est il nuovo stadio del Cagliari Calcio.
Decisioni prese da un’amministrazione comunale di segno moderato, dominata dalle correnti democristiane più conservatrici. Alle quali, però, nessuno si oppose. Cagliari cresceva in popolazione a ritmi esponenziali, la fame di case era grande. E poi la squadra di football era quella dello scudetto, la squadra di Gigi Riva “Rombo di tuono”: si poteva negare all’undici guidato da Manlio Scopigno, che aveva regalato a una città mezzo nobile d’antico lignaggio iberico e mezzo stracciona un sogno che sembrava impossibile? No. E così, sotto la piccola collina dove continuavano a stare i pescatori, nell’avvallamento dove prima era soltanto acqua stagnante e saline, sorsero enormi orrendi palazzoni dove mettere quelli che cercavano casa e non potevano permettersi i prezzi di mercato. E insieme ai casermoni, lo stadio nuovo. Due simboli del benessere conquistato, una carta di credito per l’ingresso nel palcoscenico sul quale si costruiva una miserevole identità nazionale
Che cosa significa, per uno che sta a sinistra, diventare sindaco di una città governata per decenni, dal secondo dopoguerra in poi, da forze politiche espressione di un blocco sociale conservatore che ha dato al tessuto urbanistico la forma corrispondente a ben precisi interessi economici? Massimo Zedda, prima Pd e poi Sel, è diventato sindaco di Cagliari il 30 maggio del 2011, alla testa di uno schieramento di centrosinistra. Una svolta, in larga parte inattesa. Un’occasione storica.
La sua elezioni a sindaco, quasi tre anni fa, rappresentò una rottura e accese le speranze di un cambiamento radicale. Che bilancio si può fare oggi?
Abbiamo dato uno stop netto al saccheggio urbanistico della città. Ci siamo mossi da subito lungo una linea di adeguamento del piano urbanistico comunale alle direttive di tutela sancite dal piano paesaggistico approvato nel 2006 dalla giunta Soru. Abbiamo approvato il piano particolareggiato del centro storico, il piano della mobilità, il piano di utilizzo dei litorali. Tutto secondo un’ottica di restauro e di riutilizzo del patrimonio edilizio già esistente, in particolare di quello di proprietà pubblica: del comune, della Regione Sardegna, del demanio. Basta con l’aumento delle volumetrie e con il dissennato consumo del territorio. Rispetto al passato è una svolta radicale.
Qualche vostra decisione in dettaglio?
Intanto la pedonalizzazione di vaste aree del centro storico, in passato intasate e snaturate da un traffico caotico, senza regole. Meno auto private e un potenziamento del trasporto pubblico e la definizione di un sistema di parcheggi intorno al centro, con l’obiettivo di fornire un servizio a chi usa le auto per arrivare dalle periferie senza che questo significhi, come nel passato, l’invasione delle strade e delle piazze da parte del traffico privato. Tenendo conto anche che il centro storico di Cagliari è molto ampio. I quattro quartieri antichi di Marina, Stampace, Villanova e Castello insieme coprono un’area molto più vasta, ad esempio, di quella della parte storica di una città come Praga.
Per la spiaggia del Poetto che cosa avete fatto?
Come si sa quel litorale nel passato recente è stato devastato da un ripascimento disastroso. Al problema dell’erosione della spiaggia si è risposto aggiungendo sabbia prelevata dai fondali al largo del Golfo di Cagliari. Con esiti che hanno modificato le caratteristiche ambientali di un sito che per la città ha una rilevanza anche urbanistica centrale. Noi abbiamo puntato invece su interventi strutturali, che hanno come obiettivo quello di una riqualificazione urbanistica dell’intero litorale, che si estende per otto chilometri dalla Sella del diavolo sino alla città di Quartu. Abbiamo trovato i fondi per un progetto che è già in fase esecutiva e che modificherà in maniera sostanziale il volto e la funzione urbanistica di tutta la zona. Istituiremo, ad esempio, un’area pedonale che sarà una specie di cordone tra la spiaggia e la strada che corre parallela all’arenile.
Il tessuto urbanistico di Cagliari è ricco di aree demaniali in uso a strutture militari. Cosa avete fatto per recuperarle alla città?
Come amministrazione comunale abbiamo cercato di costruire un fronte unitario con la Regione Sardegna per aprire un confronto con il ministero della Difesa che consentisse una “liberazione” se non totale almeno parziale di quelle aree, che sono davvero molto vaste e tutte di grande pregio urbanistico e ambientale, dai vincoli militari. Non abbiamo trovato grande sensibilità nella giunta di centrodestra presieduta da Ugo Cappellacci. Contiamo di riprendere il discorso con il nuovo esecutivo, guidato da Francesco Pigliaru dopo la vittoria del centrosinistra alle elezioni regionali dello scorso febbraio.
E per le periferie? In particolare per Sant’Elia?
Sant’Elia in realtà non è una periferia. È un quartiere ormai pienamente inserito nel cuore del tessuto urbanistico. Lì esiste un enorme problema di disagio sociale e di emarginazione che stiamo affrontando attraverso la creazione di strutture permanenti di integrazione sociale. Le scelte che sono state fatte in passato hanno trasformato Sant’Elia in un corpo separato. Correggere quelle storture è uno dei compiti che ci siamo assegnati. Vedere la questione soltanto in termini di ordine pubblico è sbagliato. Bisogna puntare invece ad inserire pienamente il quartiere nella vita della città. Ed è esattamente questo che stiamo cercando di fare, con non pochi risultati incoraggianti
«La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama "sviluppo"». .Il manifesto, 17 aprile 2014
Poi il XX secolo. Antonio Gramsci fa il suo liceo a Cagliari. La carneficina della Grande Guerra. Pastori e contadini, riuniti nella Brigata Sassari mandati a morire sul Carso e Emilio Lussu. Poi il fascismo, la seconda guerra, l’occupazione tedesca senza sangue, i bombardamenti anglo-americani del ‘43. La città inizia la sua ricostruzione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe dirigente insieme ai nuovi brutti quartieri, anni 50 e 60, che la raffigurano. L’edilizia caccia via l’architettura. Impresari e commercianti disegnano la città sulla propria immagine e producono una generazione politica conformata, come un calco di gesso, alla loro visione materiale delle cose. I cosiddetti intellettuali si rifugiano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lontano dalle azioni.
Ma qualcosa cambia negli ultimi decenni. Si smette di masticare i fiori di loto e la memoria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si riconosce. Si risveglia un’anima critica che comunica, osserva ed è interessata alle proprie origini. E ricava energia dal passato senza essere passatista. Guarda indietro per essere moderna perché quando uno sa da dove viene non ha bisogno di altro. E si oppone alla frenesia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mercantile, resta forte.
La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama «sviluppo» mentre dimostra che quando la politica si confonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.
Cagliari è un’incubatrice di questa malattia. Però la storia è incancellabile. I luoghi resistono e mettono in movimento gli avvenimenti. I morti della necropoli di Tuvixeddu possiedono la forza dell’assoluto e ancora determinano conseguenze. La rocca medievale resiste ai tentativi di renderla «progredita» con scale mobili e ferraglia. Il promontorio sacro della Sella del Diavolo resterà intatto anche se la città famelica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resisterà ai nuovi assedianti che oggi vogliono un volgare garage dentro le sue mura.
Nel 1956 avevo cinque anni. Il braccio quasi lussato quando passeggiavo a traino delle mani inaccessibili di mio padre, il lungomare, il mercato al centro della città, le barche che tornavano tanto cariche che i pescatori stavano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sembravano piovre, le anguille scappavano dalle cesti nelle corsie del mercato, i pesci boccheggiavano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.
Ma i fatti si muovevano per necessità che non comprendevo. E non obbedivano a nessuno. Ero troppo piccolo per capire cosa accadeva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, semplicemente, non guardavo perché, appeso alla mano di mio padre, osservavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico orizzonte per me.
So che i monti che vedevo a meridione erano il profilo dei monti del golfo, ma allora credevo che fosse l’Africa perché sentivo ripetere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delusione. Però continuai a crederci.
Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova meraviglia che il maestro, ammirato dal progresso benché conservasse la sua casa come un salotto di Nonna Speranza, ci aveva già annunciato a scuola. Il grattacielo.
Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo presente e tutti volevano solo presente e futuro. Mai visto dal vero un palazzo così alto.Non fu stupore quello che provai vedendo quel lungo parallelepipedo grigio con decine e decine di finestre funerarie. Ancora oggi ricordo la sensazione di perdita che provai e ricordo che non compresi, ero troppo bambino, quel sentimento.
Quella costruzione infantilmente chiamata grattacielo, che ancora esiste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, talmente brutto che diventò proverbiale.
Però il brutto è epidemico e quando inizia si moltiplica con enigmatica testardaggine. Non lo fermi più. Deve, si vede, necessariamente trascorrere e concludersi un’epoca.
Eppure tutti vedevano. Fu un’amnesia di massa che non è mai cessata da allora. E chissà se riacquisteremo mai la memoria. Ma, l’ho detto, tutti volevano abbandonare il passato, anche quello buono.
Mia nonna, mentre passeggiavo e giocavo in un terrapieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che cominciava a esserci troppo cemento e che tutti questi nuovi arrivati dal contado — così chiamava gli inurbati che arrivavano da ogni parte dell’isola — stavano rendendo deforme la città. Che lei era comunista, ma questo non le impediva di capire che c’erano persone rese feroci proprio dall’arrivo in città e che avevano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un ignorante non sa mai di essere ignorante.
Appena tirano su un muro si fanno chiamare cavalieri e commendatori, ripeteva. D’altronde il cemento aveva reso facile e possibile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribolliva di cemento, ma io non lo sapevo. E neppure nonna. Però osservava la sua città.
Lei vedeva la bruttezza del cemento, capiva che non si può mettere insieme cemento e pietra perché invecchiano in modo diverso, che la pietra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.
Il cemento è un materiale che non sa invecchiare. La pietra, invece, è già vecchia, esiste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a disegnare forme squallide.
Era squallido anche il bar aperto al piano terra nel «grattacielo», cattive le brioche, il caffè puzzava di bruciato e un moscone giaceva a pancia all’insù, mummificato per sempre in un angolo della vetrina pretenziosa. Dentro quel palazzone c’erano però alcuni segnali importanti del presente che seduceva la comunità e la convinceva che il passato era vergognoso.
Però è vero che nella mia città una luce che non finiva neppure la notte e un sole felice anche d’inverno mi facevano sentire fortunato e lontano da ogni pericolo.
Traslocammo nel 1962 in una nuova casa. E tutto mutò.
La nostalgia è un sentimento indispensabile, ma deve essere organizzato. Sennò si soffre. Oltretutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.Traslocammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa luminosa, moderna, con due bagni, con davanzali, una portineria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.
Quel quartiere era il confine della città storica, però mi sembrava un salto nel futuro. E ogni volta che passavamo vicino alla vecchia casa trascinavo la mano che mi conduceva per entrare dentro il portone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.
Con il camion carico di mobili apparve la differenza tra presente e passato, tra una fine e un inizio.
Babbo aveva battuto a macchina il suo nome su un foglio, ritagliato la striscia di carta e l’aveva infilato nella fessura del nuovo campanello. Poi aveva letto a voce alta il proprio nome e schiacciato il pulsante. Quel trillo era il segnale della città nuova.
La Repubblica, 15 aprile 2014
Braccio di ferro in Costa Smeralda. Il Qatar impedisce l’accesso alle spiagge più à la page bloccando i posteggi pubblici delle auto. E il Comune di Arzachena, nel cui territorio ricade gran parte del Consorzio turistico creato dall’Aga Khan, reagisce con forza: da oggi saranno avviate le procedure di esproprio delle aree, riservate d’estate ai parcheggi di chi va in macchina sino alle splendide spiagge di Liscia Ruia, del Pevero e di Romazzino. Per raggiungerle, oggi bisognerebbe percorrere a piedi oltre 10 km: impossibile lasciare moto, scooter o auto lungo le stradine sterrate che portano fin lì. E tutto questo perché la Land Holding, una delle società madri che fa capo all’emirato, qualche giorno fa ha fatto collocare una fila di massi per impedire l’accesso nei posteggi usati dai villeggianti.
Ma c’è di più. A fianco ai macigni sono apparsi cartelli con la scritta «Proprietà privata». Una palese violazione di prassi e consuetudini, secondo il Comune. «Perché sarà pur vero che i terreni appartengono al Qatar, ma il principe Karim prima e il suo successore Tom Barrack poi li avevano sempre lasciati a disposizione della collettività» spiegano ad Arzachena. Senza contare che i parcheggi devono rimanere pubblici per assicurare l’efficienza del servizio antincendi lungo una costa più volte minacciate dai roghi.
La querelle, sorta alla vigilia del primo ponte che dovrebbe portare nell’isola decine di migliaia di turisti, non pare destinata a risolversi subito. A meno che la società dell’emirato di stanza in Sardegna non decida di fare un passo indietro. Così, se tutti cercano di dare il minor clamore possibile alla vicenda, per non ledere l’immagine internazionale della Costa Smeralda, un fatto resta evidente: per la prima volta in mezzo secolo non è stata osservata la tradizione della cessione gratuita delle aree. Aree che l’apparato per i servizi tecnici del Comune affida a una coop e dota delle attrezzature necessarie per la sosta. Non si tratta, chiaramente, di pochi stalli. In tutto, i posti auto in ballo sono 600-700: è in gioco l’ospitalità quotidiana per almeno duemila persone. Oggi la giunta di Arzachena darà corso alle operazioni di esproprio, segno che qualsiasi tentativo di mediazione con il Consorzio sinora è fallito. Non si sa quanto tempo richiederanno le procedure. Ma il sindaco e i suoi assessori sono fiduciosi sulla possibilità di trovare soluzioni prima dell’inizio dell’estate. In ogni caso rifiutano di credere, come molti invece ritengono, che dietro la mossa della multinazionale possa celarsi un sotterraneo ultimatum per ottenere il via libera ai lavori di ampliamento di una perla della zona, l’hotel Cala di Volpe. Ovvia, quindi, anche la protesta dei balneari: «Per noi piazzare sedie e sdraio in queste condizioni sarà impossibile — dicono — E tutto ciò equivarrebbe a un calo delle presenze, ingiustificato in un paradiso come questo ».
Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2014
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha visitato la Pompei antica, pagando il biglietto. Non ci sarebbe la notizia: almeno non in un paese civile. Diventa, invece, una notizia proprio il fatto che, in Italia, questo piccolo accadimento abbia avuto una straordinaria risonanza mediatica. Per noi un capo del governo che si comporta come un cittadino è un evento letteralmente eccezionale.
E qui sta il primo punto: lo scollamento tra classe politica e cittadinanza. Un abisso antropologico che certo non viene colmato da un Matteo Renzi, figlio d’arte e professionista della politica fin dall’età della ragione.
Eppure, nonostante l’effimero compiacimento verso il gesto graziosamente accondiscendente del potente di turno, il dato su cui interrogarsi è che millenni di potere, imperiale e poi papale, hanno abituato gli italiani a piegare le ginocchia di fronte alla scenografia del sovrano di turno. Il dato tragico è che, in fondo, non prenderemmo sul serio un potente che si comportasse da cittadino.
Nello specifico, tuttavia, l’aspetto su cui riflettere è il rapporto tra il potere e il patrimonio culturale. Come dimostra il recentissimo scivolone della sottosegretaria Vicari, che ha chiesto i quadri dei musei di Roma per arredarsi l’ufficio al ministero dello Sviluppo economico, il nostro patrimonio storico e artistico viene percepito come una specie di grande attrezzeria di scena al servizio del potere. Quadri delicatissimi vengono spediti come commessi viaggiatori in mezzo mondo, gruppi scultorei antichi sono dislocati nei palazzi della politica, un luogo unico come Villa Madama (progettata da Raffaello) viene usato come sfondo di lusso per i vertici internazionali dei nostri capi del governo.
Quel che manca è un qualsiasi indizio di un rapporto personale tra i “potenti” e quello stesso patrimonio. La vera notizia, per l’Italia, non è che Angela Merkel abbia pagato il biglietto, ma che abbia impiegato tre ore e mezzo del suo tempo privato e personale per vedere Pompei, con una cartina in mano e in compagnia di un archeologo tedesco. E che abbia trovato poi il tempo di vedere anche il Rione Terra di Pozzuoli, con le sue vestigia romane e il suo Duomo appena restaurato. Ora, quale politico italiano lo farebbe, se non per dovere di Stato, e a favore di telecamera? E questo è il punto: in Italia non c’è mai stata una vera politica per la cultura, perché almeno dagli anni Sessanta, la nostra classe politica – salvo rare eccezioni – non è stata composta da persone che avessero un vivo rapporto personale con la cultura. È dura parlare di politica internazionale con uno che non sa nemmeno cos’è la geografia, o di economia con uno che non ricorda manco le tabelline: eppure, la stragrande maggioranza dei nostri ministri per i Beni culturali e dei nostri presidenti del Consiglio non ha la più pallida idea di cosa sia un museo, per non dire uno scavo archeologico. Commentando un libro di Renzi, Paolo Nori ha scritto “Ecco: a me è sembrato stranissimo che in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sono riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta”. Ed è per questo che ci colpisce così tanto vedere la Merkel felice di passare tre ore e mezza tra scavi da cui i suoi omologhi italiani scapperebbero a gambe levate.
Infine, il biglietto. Salvo rarissime eccezioni, nessuna istituzione culturale del mondo campa con i biglietti: ed è per questo che si potrebbe addirittura pensare di sopprimerli, sottolineando così – come avviene, per esempio, in molti musei pubblici inglesi – la gratuità del patrimonio e la sua dimensione inclusiva. Piuttosto, sarebbe stato bello far notare a Frau Merkel che se Pompei versa nello stato penoso in cui l’ha trovata, è in massima parte a causa dei dissennati tagli al bilancio pubblico imposti proprio dall’Europa a trazione tedesca. Non esiste una politica europea della cultura, né una chiara idea della sua funzione civile: e forse il punto da cui partire potrebbe esser proprio il senso della Merkel per Pompei. Senza battere i pugni sul tavolo, ma riallacciando i fili di un’antica conversazione tra Italia e Germania.
Prosegue l'analisi del manifesto sulle cittàitaliane. Dopo Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio),Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile) due città di frontiera che vogliono diventareuna: la più grande del Mezzogiorno. Prossimamente Torino e Cagliari, 10 aprile 2014
Reggio e Messina, città sorelle e, a volte, acerrime nemiche, hanno vissuto nel corso della storia le stesse catastrofi naturali (più di venti terremoti/maremoti catastrofici di cui i più recenti sono stati il 1783 e il 1908) che ne hanno segnato la memoria e l’identità, ma hanno anche intrecciato e mescolato le popolazioni delle due sponde, le culture e i riti religiosi, la gastronomia e il dialetto. Reggio è la meno calabrese delle città della Calabria così come Messina è la meno siciliana: sono città di frontiera, rispetto a Palermo e Catanzaro, i capoluoghi regionali. Appartengono allo Stretto, a questo paesaggio unico al mondo, carico di miti antichi quanto la nostra civiltà, di fenomeni naturali straordinari (come la fata Morgana), di uno skyline armonioso e suggestivo che solo la follia dello sviluppismo delle grandi opere voleva deturpare e distruggere con la costruzione del faraonico Ponte. Un’opera voluta anche dai siciliani e calabresi che vivono lontano dallo Stretto e vedono questo tratto di mare come un ostacolo, una perdita di tempo, perché non sanno godere di questo spettacolo perenne che unisce le due città, come la vite che s’intreccia all’ulivo.
Ricostruite dopo il terribile terremoto del 1908, il più devastante al mondo per numero di morti (oltre 100.000) durante il secolo scorso, le due città hanno seguito traiettorie diverse sul piano socio-economico. Durante il fascismo che realizzò velocemente la ricostruzione, Messina ebbe un ambizioso piano urbanistico (piano Borzì) e cospicui finanziamenti da parte del governo fascista per via degli stretti rapporti del suo arcivescovo con il duce. La città fu ridisegnata con grandi viali, ampie piazze, e grandi edifici pubblici in stile fascista, nonché palazzi e ville nobiliari in stile liberty. Fino alla seconda guerra mondiale il porto di Messina aveva un ruolo importante nell’esportazione di vino e agrumi siciliani (in particolare i limoni, il 90% dell’export nazionale di questo agrume), del legname dell’Aspromonte, della seta prodotta a Villa San Giovanni e delle essenze di bergamotto prodotte a Reggio. Aveva inoltre delle fabbriche di essenze agrumarie e tessili e altre industrie create da imprenditori stranieri e locali. Divisa tra due forti massonerie, una laica-mazziniana e l’altra cattolica, la città esprimeva un livello culturale molto più alto della media delle altre città del Mezzogiorno anche grazie alla prestigiosa Università nata nel XV secolo, una delle più antiche del nostro Sud.
Di contro, Reggio era una piccola città-fortezza, disegnata intorno al castello aragonese del XV secolo. Fu ricostruita sulla stessa struttura urbanistica pre-terremoto, solo più in alto perché era stato il maremoto a fare il maggior numero di vittime. La sua ricchezza non veniva dal mare, ma dall’entroterra e il potere era in mano a una decadente nobiltà e a una piccola borghesia commerciale. Ma, aveva una grande fonte di ricchezza e di lavoro: la lavorazione del bergamotto, le cui essenze hanno costituito la base dell’industria cosmetica fino a quando, nel 1954, non è stato trovato un sostituto chimico.
Dagli anni ’50 del secolo scorso le due città subirono un progressivo processo di deindustrializzazione, di perdita del rapporto produttivo con le proprie risorse, di crescente peso della pubblica amministrazione e della spesa assistenziale. Un fenomeno che è stato comune alla gran parte delle regioni meridionali, dove solo dal 1951 al 1971 l’industria manifatturiera ha fatto registrare un saldo negativo di 17.525 unità a fronte di un aumento di 144.130 unità che si registra nel Centro-Nord . È un processo di deindustrializzazione che colpisce la Pmi meridionale e porta ad una delegittimazione del mercato capitalistico. Il ventennio dello sviluppo economico italiano è stato il ventennio della desertificazione produttiva nel Mezzogiorno, che non ha retto alla progressiva globalizzazione dei mercati, e ha prodotto un vuoto socio-economico e politico che altri soggetti hanno riempito.
A Messina, la crisi produttiva e occupazionale è stata in parte sostituita dalla spesa pubblica e la crescita abnorme delle pubbliche istituzioni: Comune, Provincia, Ospedale, Policlinico, Università. Alla borghesia produttiva e liberale (a Messina nel 1948 il Partito liberale prese il 14%, un record in Italia) si è andata sostituendo la borghesia statale, i burocrati e i politici che intercettavano i flussi crescenti di spesa pubblica. La crisi profonda della città inizia negli anni ’70 del secolo scorso e segue la parabola della spesa pubblica. Il suo declino è inarrestabile, ma lento, sordido, non suscita reazioni, tanto da confermare l’ingiuria per i messinesi di essere dei buddaci, cioè pesci che stanno a bocca aperta, parlano tanto, ma non combinano niente. La corruzione, l’incapacità, la mancanza di una cittadinanza attiva, fanno sì che la città continui a spegnersi lentamente, con brevi ritorni di fiamma come accadde nel periodo 1994-‘98 durante la giunta Providenti. Un’eccezione in oltre quarant’anni di decadenza.
Dall’altra parte dello Stretto il crollo nelle vendite delle essenze di bergamotto e delle arance (per via della concorrenza spagnola), fonti primarie di ricchezza della città, venne solo in parte compensato dalla crescita della spesa pubblica. Il crollo della nobiltà latifondista, della borghesia commerciale, non trovò un soggetto sociale capace di egemonia finché non scoppiò la guerra per il Capoluogo nel 1970. Durò quasi un anno e fu l’ultima rivolta popolare di massa del Mezzogiorno, su cui si inserirono interessi esterni legati alla strategia della tensione, e si saldarono i rapporti tra Massoneria, servizi segreti e ‘ndrangheta. Ma, la gente che era scesa in piazza e che morì o fu ferita e arrestata aveva, oltre l’orgoglio di appartenenza, l’obiettivo di combattere per gli unici posti di lavoro credibili: quelli della pubblica amministrazione. Mentre la sinistra, Pci in testa, parlava di fabbriche e industrializzazione, la popolazione credeva solo al Capoluogo come fonte d’occupazione e di reddito. Questa rivolta segnò una cesura storica netta: la violenza della repressione governativa, l’azzeramento della classe politica democristiana, portò a un vuoto totale di potere e di legalità che durò molti anni. Crebbe allora l’abusivismo edilizio, fino a quel momento marginale, fino a dar vita nei decenni successivi, alla costruzione del 90 per cento di case abusive. Intorno al centro storico la città è cresciuta come uno sterminato e informe agglomerato di case mangiandosi la campagna un tempo lussureggiante. Ma, soprattutto, emerse con forza il ruolo egemone della borghesia mafiosa composta da professionisti, imprenditori, politici e il braccio armato di quella organizzazione che si chiama ‘ndrangheta, diventata la più potente delle mafie. Senza Stato, né Mercato, Reggio divenne un laboratorio per la via criminale all’accumulazione capitalistica che si è diffuso in tutto il mondo.
Nel nuovo secolo lo scenario socio-politico dell’area dello Stretto apparentemente non cambiò. Messina continuò nel suo declino e passò da un Commissariamento del Comune all’altro, per corruzione, dissesto finanziario o semplice caduta della giunta comunale. Reggio, che aveva vissuto un piccolo momento di rinascita (la cosiddetta «Primavera reggina» del compianto sindaco Italo Falcomatà), ricadde nello sconforto e finì nelle mani di un abile politico, già leader del Fronte della Gioventù, che si inventò il modello Reggio: spesa pubblica a go-go per spettacoli e divertimenti, clientelismo sfrenato e bilancio comunale truccato e fuori controllo.
Negli ultimi anni la storia delle due città ha subito un’accelerazione e una svolta imprevedibile. Il bello della vita è questo: quando non ti aspetti più niente, quando sembra che non ci siano più speranze, quando sei rattristato da una giornata carica di nuvole, pioggia e vento, improvvisamente un raggio di luce appare sullo Stretto e cambia la tua visione, la tua percezione del futuro.
A Reggio il modello Scopelliti è finito nelle mani della magistratura, mentre la città langue sotto il peso di un lungo Commissariamento incapace di risolvere il dissesto finanziario dovuto alle passate amministrazioni. È una città in fuga, dove partono non solo i laureati ma tutti quelli che possono, e la stessa borghesia mafiosa ha smesso di investire da anni, spostando i capitali verso il Nord Italia e le aree più ricche del mondo. Quasi ogni notte una bomba sveglia gli abitanti (l’ultima proprio al lato della prefettura) e sono ripresi gli omicidi mafiosi, dopo una lunga pax seguita al «Trattato» del 1992 in cui i capiclan posero fine alla guerra di ‘ndrangheta che costò settecento omicidi in sette anni.
A Messina, nessuno se lo aspettava o ci avrebbe scommesso un euro, nelle elezioni comunali del giugno scorso ha vinto la lista civica di Renato Accorinti, militante pacifista, ecologista e leader del movimento No Ponte. Una figura di sindaco che ha stupito l’Italia interna e non solo, e che è il frutto di una improvvisa rivolta della città al malaffare e alla borghesia parassitaria che l’ha governata per decenni. La giunta Accorinti, composta da tecnici socialmente impegnati, ha un programma ambizioso di riscatto della città e in pochi mesi ha già segnato un visibile cambiamento (Renato Accorinti è il sindaco più amato dagli italiani secondo l’ultimo sondaggio Ipsos). Ma, il fatto istituzionalmente più rilevante è la volontà di questa giunta di costruire la città metropolitana dello Stretto, unendo Reggio e Messina e i Comuni limitrofi. Diverrebbe la terza città del Mezzogiorno per popolazione e, soprattutto, un laboratorio di sostenibilità sociale e ambientale, a partire dai trasporti necessari per dare la continuità territoriale alle due sponde. La sfida della giunta Accorinti ha contagiato la sponda reggina e l’idea di una città dello Stretto che venga fondata sui valori dell’ambiente, dell’economia solidale e della pace, sta cominciando a navigare da una sponda all’altra. Se il tiranno Anassila era riuscito a unificare le due città con la forza, oggi questa unione avviene sotto il segno di una democrazia che cresce dal basso.
Corriere della Sera Lombardia, 6 aprile 2014
MILANO — I contrari, i paladini delle vette, Cai in testa, hanno raccolto online oltre 23 mila firme in 7 giorni. I favorevoli, gli appassionati delle moto, rispondono con più di 3.700 sottoscrizioni. È sfida sui sentieri di montagna della Lombardia a colpi di petizioni in rete fra pro e contro la nuova legge regionale che, se approvata, cancellerà gli attuali divieti, per permettere alle moto da cross, enduro e trial di sfrecciare in libertà nelle oasi verdi d’alta quota e nei boschi di collina e pianura. Infatti al Pirellone, martedì, sarà discusso e votato il progetto di legge 124, con il quale la maggioranza di centrodestra vorrebbe cambiare la normativa regionale del 2008 sul «traffico motorizzato nelle aree agro-silvo-pastorali», come spiegano Dario Bianchi (Lega Nord) e Alessandro Fermi (Forza Italia).
Nel dettaglio, l’obiettivo è di eliminare i commi 3 e 4 dell’articolo 59 dell’attuale legge 31, che vietano «il transito dei mezzi motorizzati su strade, mulattiere e sentieri, nonché in tutti i boschi e nei pascoli ad eccezione di quelli di servizio». Con la proposta di modifica, spiega il Cai nella sua raccolta firme online per dire «No», si mira a «introdurre una deroga per consentire ai singoli comuni di autorizzare il transito temporaneo delle moto in base a un regolamento regionale da definire». Risultato? «Se passasse la nuova legge, l’effetto risulterebbe devastante per l’ambiente e ci sarebbe un’impennata dei livelli di smog e rumore», osserva Paolo Micheli, consigliere regionale di Patto Civico che, come tutta l’opposizione, boccia la nuova proposta. «In poche ore si possono creare danni che solo la natura potrebbe riparare impiegando però anni e ai quali l’uomo non può porre rimedio», tuonano in coro Fai, Federparchi, Legambiente, Wwf e Coldiretti.
Inoltre il Cai sottolinea «l’incompatibilità fra escursionismo e motociclismo sugli stessi sentieri». e ribadisce che le due ruote sono «contrarie allo sviluppo di un turismo dolce ed ecosostenibile». Sull’altro fronte della barricata, invece, ci sono la Fmi (Federazione motociclistica italiana) e i motoclub di tutta la Lombardia. Un esercito di piloti (professionisti e dilettanti) che si battono per il «Sì». Invocano un «motocross libero» e vanno in pressing sulla giunta Maroni chiedendo meno vincoli e burocrazia. Perché «quest’attività sportiva non arreca danni irreparabili né ai sentieri, né alle mulattiere».
(qui qualche commento in più e il link alla petizione)
Il manifesto, 6 aprile 2014
La Gallura come Eldorado degli evasori fiscali. Sul paradiso turistico sardo si abbatte una tempesta giudiziaria che promette di avere sviluppi clamorosi. La notizia è stata data ieri in esclusiva dal quotidiano la Nuova Sardegna. «In Gallura 2500 ville, con tanto di giardini, dependance e ampie terrazze con vista sul mare — scrive la testata sarda — sono risultate appartenenti, come proprietà immobiliari, a società estere registrate in paradisi fiscali, mentre a sfruttarne il loro altissimo potenziale economico o utilizzarle per le vacanze a cinque stelle, sono in gran parte sconosciuti cittadini italiani con denunce dei redditi da operai metalmeccanici. Per stanare il foltissimo gruppo di persone iscritte alla «Anonima Proprietari Ltd» dalle loro dimore di lusso è stata allestita, ed è entrata in piena attività già da alcuni mesi, una imponente e ipertecnologica task force coordinata dal procuratore capo della Repubblica di Tempio, Domenico Fiordalisi. Il quale ha aperto un fascicolo che racchiude l’inchiesta avviata alla fine dello scorso dicembre per accertare se siano riscontrabili reati di carattere penale oltre a violazioni in ambito fiscale o amministrativo». Le zone fiscali «free» nelle quali le società coinvolte nell’inchiesta hanno registrato le ville sono sparse un po’ in tutto il mondo: Repubblica di San Marino e principato di Monaco, Lussemburgo e Liechtenstein, Andorra e Gibilterra, Cipro e Barein, Antille e Polinesia francese. L’indagine è condotta dalla polizia tributaria e dal Gico di Roma. Ma sono coinvolti anche gli uffici del demanio sardi, le agenzie delle entrate di Sassari, Tempio e Olbia, la guardia di finanza di Olbia e Sassari. Un mega team che ha portato alla luce una realtà per molti versi sconcertante.
Tutto è cominciato circa un anno fa, quando gli ispettori dell’Agenzia delle entrate di Tempio esaminando le denunce dei redditi di alcuni personaggi che frequentano la Costa e i movimenti dei bancomat e delle carte di credito, si sono resi conto che il loro tenore di vita non era compatibile con le loro dichiarazioni fiscali. «Un campanello d’allarme — scrive la Nuova Sardegna — che ha fatto scattare i successivi accertamenti patrimoniali che hanno messo in rilievo che ben 2500 tra ville e dimore da fiaba disseminate sulla Costa gallurese — dalle alture di Monti di Mola (Porto Cervo) alle assolate spiagge dal mare cristallino di Porto Rotondo e Palau — risultano intestate, come proprietà immobiliari, a società estere. Approfondendo ulteriormente questo singolare aspetto si è venuti a scoprire che gran parte degli immobili sono utilizzati nel periodo estivo da cittadini italiani, oppure ceduti in locazione, attraverso una fitta ragnatela di agenzie immobiliari sarde, italiane ed europee, a italiani che, stando alla loro denuncia dei redditi, potrebbero permettersi al massimo di affittare, e per poche ore soltanto, una cabina sulla spiaggia di Riccione, Rimini o Cattolica».
«L’inchiesta — dice il procuratore Fiordalisi — è appena avviata e nessun reato o violazione sono stati finora ipotizzati o contestati». Quindi è impossibile conoscere i nomi delle persone coinvolte e delle società proprietarie delle ville «appoggiate» ai paradisi fiscali. In procura però non fanno mistero del fatto che i dati raccolti in più di un anno di indagini forniscono un quadro molto dettagliato, sostenuto da riscontri difficilmente contestabili. E viste le dimensioni dell’inchiesta e i personaggi coinvolti, i prossimi giorni potrebbero riservare rivelazioni clamorose.
Fiordalisi nelle scorse settimane è stato impegnato su un altro fronte caldo, quello dell’inchiesta avviata dagli uffici giudiziari di Tempio sulle ville abusive costruite sull’isola della Maddalena. Prima sono arrivate le ordinanze di sgombero e poi, lunedì scorso, le ruspe. Sono trentacinque gli edifici totalmente o parzialmente abusivi, tutti costruiti in un’area sottoposta a tutela ambientale integrale. Una decina sono abitati stabilmente da anni. Martedì scorso alcuni proprietari delle case da abbattere hanno cercato invano di fermare le ruspe e si sono vissuti momenti di forte tensione, con un paio di feriti lievi, quando un nutritissimo schieramento di polizia ha caricato per rompere il blocco intorno alle ville. Fiordalisi, però, non sembra intenzionato a fermarsi e la prossima settimana le ruspe rientreranno in azione.
Con il procuratore di Tempio si schiera Legambiente. «Costruire case abusive — dice Laura Biffi dell’Osservatorio nazionale ambiente e legalità — è un reato, demolirle è un obbligo di legge. Scene come quelle che si sono viste alla Maddalena, con il sindaco, i consiglieri comunali e persino il parroco schierati accanto ai manifestanti per bloccare le ruspe purtroppo non sono nuove. Le abbiamo già viste tante volte in Campania, in Sicilia e nella stessa Sardegna. L’abusivismo di necessità è una falsa giustificazione. Di fronte a situazioni di reale disagio abitativo, la politica dovrebbe dare risposte con gli strumenti previsti dalla legge, provvedendo ad assicurare un alloggio sociale, non una casa abusiva»
In una specie di promozione immobiliare travestita da articolo di giornale, si sdogana esplicitamente in Italia il modello della gated community, segregazionista sottilmente razzista e completamente antiurbana. Corriere della Sera Milano, 5 aprile 2014, postilla (f.b.)
Ha una sola lancetta, quella che scandisce le ore, l’orologio del XII secolo che ancora oggi segna il tempo sul campanile di Borgo Vione, a Basiglio. «È un gioiello alto-medievale con un meccanismo infallibile – spiega Nicola Vedani -. I monaci cistercensi che costruirono cascina Vione non avevano certo bisogno di misurare i minuti. Ecco, è questa visione diversa del tempo e della vita che vogliamo offrire ai nuovi abitanti». Vedani, 43 anni, imprenditore, fa parte dell’omonima famiglia a capo del gruppo siderurgico Intals-Somet che dal 2010 sta portando avanti il recupero di questa ex grangia dei monaci cistercensi di Chiaravalle trasformata nella prima gated community italiana.
E davvero, quando si supera il lungo muro di cinta sorvegliato 24 ore su 24 dagli occhi di 35 videocamere e dai sensori antintrusione e si varca il cancello della «nuova» Vione, si ha come l’impressione che il tempo prenda un’altra direzione. Qui è tutto pulito, ordinato: il caos di Milano sembra lontanissimo, ma è a soli 20 minuti. Non circolano automobili, anche se in realtà ci sono, nascoste in un parcheggio sotterraneo multicolore. Si sente persino la musica di un pianoforte che, tutte le mattine, si diffonde ovunque tra le ville e gli appartamenti. Proviene dalla chiesetta di San Bernardo e non c’è il pianista. Come in film, la tastiera si anima e il piano suona da solo.
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| Borgo Vione, uno degli ingressi alla corte centrale - foto F. Bottini |
A maggio partiranno i lavori per la realizzazione del secondo lotto che prevede il recupero conservativo di altri tre edifici storici . Per ora, abitano nell’ex borgo medievale circondato dal verde 35 famiglie. Australiani, inglesi, portoghesi: sono soprattutto stranieri, manager e professionisti che vogliono vedere crescere i loro figli in un ambiente protetto e sicuro. È la garanzia di tutte le gated community : si entra solo se invitati. I bambini sono liberi di giocare ovunque: qui si conoscono tutti. «Non a caso i nuovi arrivati dicono di sentirsi in un resort.
L’atmosfera è quella», spiega il direttore del complesso Luca Baffoni. E anche gli ingredienti: ludoteca comune con wi fi e pc, barbecue in un’area dedicata, giardino d’inverno dove a breve, accanto alla vasca all’aperto in cui i bimbi vanno a giocare, spunterà un’area relax con idromassaggio. La lingua «franca», parlata persino dai bambini, è ovviamente l’inglese. Complessivamente il piano di recupero prevede 130 tra loft, ville e appartamenti su una superficie di 100.000 mq. Il costo al metro quadrato va dai 3.300 euro in su.
postillaPer fortuna a suo tempo avevamo già stigmatizzato questa operazione immobiliare esplicitamente reazionaria, dove si invitavano in buona sostanza i bianchi ariani stufi di mescolarsi al resto del mondo nella metropoli multiculturale, a rifugiarsi in una specie di medioevo da cartolina dietro un fossato d'epoca restaurato ad hoc con acqua calda e fredda corrente. Il rinvio, per non ripetere ancora le medesime cose, è quindi a Immersi nel verde e nella paranoia. Del resto lo sdoganamento di concetti praticamente tabù non è cosa nuova, quando riguarda interessi economici sul territorio, l'abbiamo visto con lo sprawl autostradale transustanziato in Città Infinita, o con la Gentrification usata oggi spesso, spudoratamente, come sinonimo di riqualificazione urbana (f.b.)
Uno scenario . La città come motore di sviluppo della Toscana, crocevia e nodo propulsore di un progetto di riequilibrio e valorizzazione regionale. Una integrazione dell'analisi di Ilaria Agostini. Il manifesto, 3 aprile 2014
Il futuro di Firenze dipende, come nei precedenti illustri della città rinascimentale e lorenese, da quale ruolo strategico intende attribuirsi rispetto alla «sua» città metropolitana e alla regione toscana.
In particolare nel periodo lorenese Firenze ebbe un ruolo di centro motore di un grande progetto di infrastrutturazione del territorio regionale (bonifiche, strade, porti, popolamento, valorizzazione delle comunità locali…) implementandone il carattere fortemente policentrico, senza ampliare il sistema urbano centrale. È l’economista Giacomo Becattini a ricordarci che oggi «un passo avanti nell’impostazione corretta dell’intervento pubblico sul territorio può esser rappresentato da un ripensamento sistematico delle “Relazioni sul governo della Toscana” di più di due secoli fa» (La lezione di Pietro Leopoldo, www .socie ta dei ter ri to ria li sti .it). Quale può essere dunque il progetto strategico di Firenze oggi?
Riprendo uno scenario che veda Firenze sviluppare i suoi ruoli di servizio, coordinamento, promozione di un modello regionale di sviluppo policentrico, fondato innanzitutto sulla riqualificazione in chiave bioregionale del sistema metropolitano Firenze-Prato-Pistoia, (piana, valli appenniniche e colline che ne connotano l’identità di lunga durata: una collana di «perle» urbane affacciate sull’antico lago pleistocenico, testate di sistemi vallivi profondi). È una visione di città metropolitana come federazione solidale di città, riaffacciate sull’Arno e sui suoi affluenti e sul grande parco agricolo multifunzionale.
Questa federazione urbana fiorentina lancia «umilmente» a Pisa, Lucca, Massa, Livorno, Siena, Arezzo e Grosseto e via via alle città d’arte minori una proposta di rete solidale che trasformi Firenze in crocevia e nodo propulsore di un progetto di riequilibrio e valorizzazione regionale che veda:
- la valorizzazione delle identità dei sistemi territoriali e paesaggistici locali entro un contesto relazionale fortemente multipolare, fondato sugli equilibri ambientali, sociali, produttivi e culturali di ciascun sistema locale e sulle reti policentriche (materiali e immateriali) di piccole e medie città: il sistema a rete dei poli universitari «territorializzati» fa da battistrada all’elevamento del rango gerarchico delle città stesse;
- l’investimento nelle aree interne per progetti di ripopolamento rurale dell’alta collina, della montagna degli entroterra costieri, base sociale e presidio di nuovi equilibri socio-produttivi, idraulici, ecologici, energetici, nel contesto di una conversione ecologica dell’economia a superamento del modello insediativo che ha prodotto, con il dominio del centro regionale, aree periferiche e marginali;
- il blocco del consumo di suolo agricolo che, entro un nuovo patto fra città e campagna, può consentire strategie di riequilibrio idrogeomorfologico, ecologico, insediativo; nuove frontiere dell’agricoltura nella produzione di cibo per le città e di servizi ecosistemici; la chiusura locale dei cicli dei rifiuti, dell’alimentazione, dell’acqua e dell’energia.
Firenze capitale, sede della Regione, può guidare questo progetto dando l’esempio:
- riattivando la città storica con funzioni e attività di terziario avanzato connesse alla conversione produttiva del sistema regionale e alla qualità dell’abitare, fermando gli effetti distruttivi della identità urbana da parte della disneyland turistico-finanziaria-immobiliare;
- ridisegnando i confini della città metropolitana e dei suoi centri urbani attraverso la valorizzazione multifunzionale del suo parco agricolo in riva destra dell’Arno (Firenze-Prato) e sviluppando quello in costruzione in riva sinistra (Firenze-Lastra a Signa); e avviando progetti di riqualificazione, riuso e riciclo delle periferie e dei loro margini, verso una città di villaggi urbani ad alta qualità abitativa, ecologica e energetica;
- attivando la riqualificazione del sistema dell’Arno e dei suoi affluenti nelle loro funzioni fruitive, ecologiche, produttive, agricole, turistiche, in stretta connessione con i parchi agricoli rivieraschi;
- valorizzando il sistema multipolare di città affacciate sulla piana, di valli profonde, di nodi orografici, in grado di superare il degrado del modello centro-periferico dell’urbanizzazione recente;
- producendo un sistema di trasporti al servizio della mobilità della città metropolitana policentrica connesso al progetto di mobilità dolce della piana (ivi compresa la navigabilità «leggera» dell’Arno fra Firenze e Pisa); e con la rivitalizzazione del sistema ferroviario metropolitano e delle ferrovie regionali minori, investendovi i capitali risparmiati con una soluzione di superficie dell’alta velocità;
- potenziando gli accessi da Firenze ai sistemi aereoportuali di Pisa e di Bologna, contenendo il ruolo del city airport fiorentino;
- sottoponendo infine a dibattito pubblico e a processi partecipativi capillari e permanenti la propria transizione urbanistica e socioeconomica a una visione di bioregione urbana.
La città metropolitana così concepita, riqualificando in senso democratico e federativo la propria magnificenza civile (contro i giochi in atto che vedono Firenze alla conquista gerarchica del territorio metropolitano), può aspirare a divenire motore di sviluppo del futuro della Toscana, promuovendo modelli insediativi virtuosi nelle aree ex periferiche e marginali della regione; modelli dei quali essa stessa si propone come esemplificazione di eccellenza
Due avvenimenti segnano il capo e la coda di un quindicennio di tranquilla urbanistica fiorentina: la telefonata del segretario di un Pci in fase di autodemolizione - Achille Occhetto - che bloccava la grande, tuttora irrisolta, espansione occidentale di Castello (1989); e il recepimento, negli anni 2000, del tracciato urbano dei 7 km sotterranei dell’alta velocità ferroviaria. Nella seconda giunta Domenici (2004–2009) la pianificazione entra nella fase di risveglio, per assumere poi specifici connotati, dal valore di prova in vitro per l’urbanistica peninsulare avvenire.
Riportando in auge il vecchio piano attuativo, Leonardo Domenici (Ds poi Pd), di concerto con l’assessore Gianni Biagi, imbastisce nel 2005 l’affaire Castello, patto tra gentiluomini stretto e celebrato con Salvatore Ligresti. Un milione e 400mila metri cubi di cemento nella piana a nord-ovest della città, a ridosso dell’aeroporto, in terreni acquitrinosi poco appetibili e perciò da destinare a servizi pubblici: oltre alla ciclopica caserma dei Carabinieri e alla sventata Cittadella dello Sport (ora alla Mercafir), spicca nel progetto un polo didattico voluto dalla Provincia, allora governata da un promettente Matteo Renzi. Il sindaco Domenici, lavorato ai fianchi dalla lista di cittadinanza per Unaltracittà e indicato presso il grande pubblico da Repubblica, in segno di protesta si incatenerà sotto la sede romana dell’Espresso.
Tra 2009 e 2010 il governo del territorio passa di mano. È eletto sindaco Matteo Renzi (Margherita poi Pd); nominata assessore regionale al territorio Anna Marson, accolta con favore dai comitati; nel frattempo, a colpi di petizioni degli iscritti, l’ordine degli architetti si rinnova.
Renzi, a dispetto dell’ammirazione proclamata urbi et orbi per La Pira (che, detto per inciso, aveva affidato la stesura del Prg a Edoardo Detti, urbanista di riconosciute qualità), trattiene ad interim l’assessorato all’urbanistica, e riparte da zero. Il nuovo Piano Strutturale, approvato nel 2011, allude ai temi disciplinari che puntualmente elude, e si pone in una dimensione extrapianificatoria. Vediamo come.
L’abilità comunicativa del primo cittadino adotta e consolida televisivamente lo slogan dei «volumi zero», smentito dai grandi volumi fatti partire in variante al Prg, nonché dal milione e passa di metri cubi di Castello (ora proprietà Unipol) dati per già edificati e non ricontrattati. E dalla grande cementificazione che dà l’assalto al sottosuolo: stazione e tunnel Tav, dieci parcheggi interrati nelle piazze storiche, tram sotterraneo sotto il centro città, «passante urbano» nelle colline costituiscono il banchetto per imprenditori privati a cui di fatto viene demandata la trasformazione urbana.
Stante la rimarchevole sensibilità del governo cittadino verso proprietà privata, il Piano Strutturale rinuncia alla titolarità pubblica del progetto sulla città chiamando a raccolta, con un bando di pubblico avviso, i medio-grandi proprietari di aree in trasformazione. I loro 217 progetti «predetermineranno» il Regolamento Urbanistico zelantemente redatto dall’ufficio tecnico comunale in linea coi dettami del principe ammiccanti alla strumentazione finanziaria (crediti edilizi in primis) e adottato nei giorni scorsi.
In città persiste tuttavia una tradizione di laboratori critici che dagli anni ‘90 vede attivo il LaPei (Laboratorio di Progettazione ecologica degli insediamenti) con il progetto partecipato delle «4 piccole città sull’Arno» all’Isolotto e, ai tempi della Pantera, con l’ipotesi di «bonifica territoriale» per l’area metropolitana impostata sul progetto ecologico socialmente prodotto di concerto coi comitati locali. Nell’orbita del LaPei, è il recente progetto alternativo di sopra attraversamento Tav. La Comunità delle Piagge oppone resistenza in un quartiere povero di servizi, affrontando il disegno degli spazi pubblici e il tema dell’autocostruzione per fini sociali. Raccoglie il testimone di queste esperienze il "Gruppo urbanistica perUnaltracittà" che si adopera per una controffensiva radicale fondata sulla riappropriazione degli strumenti analitico-critici, sulle pratiche urbanistiche condivise e sulle relazioni sociali, costruita con incontri pubblici, elaborazione di progetti e di testi specifici. Il gruppo, che fa rete con le espressioni dell’autogestione, dell’autorecupero e della cittadinanza attiva (San Salvi chi può, NoTunnelTav, Oltrarnofuturo etc.) e intesse relazioni con esperienze nazionali (ReTe dei comitati per la difesa del territorio, GrIG, etc.), porta avanti una riflessione collettiva sulla forma della città, sul destino dei contenitori dismessi, sui luoghi della socialità, sul ridisegno delle relazioni ecologiche.
Esperienze di condivisione del sapere e di collettivizzazione del pensiero critico, scuole disciplinari e luoghi di sperimentazione politica conviviali, liberi e libertari, questi laboratori arricchiscono il fronte di resistenza peninsulare a contrasto di un’urbanistica distruttiva e neoliberista che da Firenze viene dispiegandosi nelle sue forme più «nuove».
Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2014
Agli argomenti di chi indica il carattere autoritario della sua riforma costituzionale, Matteo Renzi non oppone altri argomenti, ma una delegittimazione radicale dei “professoroni, o presunti tali”. Non risponde a chi dice che un governo non può essere costituente (Piero Calamandrei chiese che durante la discussione dell’articolato della Costituzione i banchi del governo fossero addirittura vuoti). Non risponde a chi spiega perché un Senato degli enti locali potrebbe portare a una rottura dell’unità nazionale. Non risponde a chi – come Walter Tocci, senatore pd che ha annunciato il suo voto contrario – scrive che “l’Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi”.
Una lettera aperta al sindaco di Napoli, affinchè Bagnoli non continui a essere il buco nero dell'urbanistica napoletana, in contrasto con il vigente piano regolatore, Corriere del Mezzogiorno, 30 marzo 2014 (m.p.g.)
Caro Sindaco De Magistris, tra i troppi beni comuni che sono stati negati ai cittadini di Napoli ci sono, e da troppo tempo, anche la salute e il mare. In nessun luogo come a Bagnoli è drammaticamente tangibile l'intreccio tra queste due privazioni.
Oggi la criminale distruzione della Città della Scienza mette le amministrazioni napoletane – il Comune, ma anche la Regione e gli organi di tutela – di fronte all'ennesimo bivio di questa lunga storia: e per l'ennesima volta si rischia di imboccare la direzione sbagliata. Fu un errore fatale collocare un insediamento industriale così enorme in uno dei luoghi simbolo del paesaggio e del patrimonio culturale europei, fu un errore farlo ripartire dopo la Grande Guerra, fu un errore ricostruirlo dopo la Secondo Guerra mondiale, fu un errore piegare la pianificazione urbanistica ai diktat industriali e permettere la realizzazione della colmata a mare.
Oggi sarebbe un errore imperdonabile rinunciare a rimuovere la colmata, a condurre fino in fondo la bonifica, a ripristinare la linea di costa, a restituire ai napoletani una vera spiaggia urbana. Oltre ad essere un errore, sarebbe una gravissima violazione della legge. Lo storico vincolo apposto dal Ministero per i Beni culturali nell'agosto del 1999 (basato sull'esemplare relazione di Antonio Iannello) e la legge 582 del 1996 impongono infatti di abbattere gli edifici che impediscono il ripristino della morfologia originale della costa. Coerentemente, l'attuale Consiglio Comunale ha deliberato, nella seduta del 25 settembre 2013, di destinare a spiaggia pubblica l’arenile da Nisida a Coroglio, accogliendo così la petizione popolare del comitato “Una spiaggia per tutti”, sottoscritta da oltre 13.000 napoletani.
Il primo passo, importantissimo in sé e importantissimo come pegno concreto della volontà di perseguire effettivamente questo processo di affermazione dei valori costituzionali, è rappresentato dalla decisione di ricostruire la Città della Scienza non dov'era, ma bensì al di là della strada di Coroglio.
Come membri dell'Osservatorio per i Beni Comuni rivolgiamo un accorato appello a Lei, alla Giunta e al Consiglio Comunale perché questo passo venga compiuto senza esitazioni e ambiguità.
E ricordiamo che ove si imboccasse, invece, la strada contraria, il nostro stesso lavoro sui beni comuni non avrebbe più senso, perché sarebbe smentito alla radice.
Alberto Lucarelli è Presidente dell'Osservatorio sui Beni Comuni del Comune di Napoli, Tomaso Montanari ne è membro
“Un soprintendente è tenuto a compiere sopralluoghi, controllare perizie, dirigere i lavori, pubblicare studi, redigere piani paesistici, ma soprattutto resistere ai privati che vorrebbero distruggere tutto per rifarlo in vetrocemento, quasi sempre con l’assenso e l’appoggio delle autorità”.
“Resistere ai privati”: chi lo sostiene oggi è un talebano, statalista, comunista. A scriverlo, invece, era il liberalissimo Indro Montanelli, in un memorabile articolo comparso sul Corriere della Sera il12 marzo 1966. Oggi, invece, un giornale come Repubblica scrive che “troppo spesso le soprintendenze diventano fattori di conservazione e di protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo, e dell’economia”, sul Corriere si invoca un giorno sì e l’altro pure l’intervento salvifico di quegli stessi privati, Matteo Renzi ripete a macchinetta che “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba”.
L’entusiasmo e la fantasia di chi – tra il 1966 e oggi – ha sepolto questo Paese sotto una colata di cemento. L’attualità dell’articolo è devastante, perché tutto è rimasto come allora: il bilancio miserabile del patrimonio, gli stipendi da fame e la solitudine dei soprintendenti, “pochi eroi, sopraffatti dal lavoro e senza mezzi per svolgerlo”. Montanelli vedeva che il vero problema era – ed è tuttora – la disparità dei mezzi tra i difensori del bene comune e quelli degli interessi privati: “I loro uffici sono letteralmente assediati da orde di impresari, ingegneri, architetti, geometri e altri guastatori. Nel periodo del ‘ boom’ edilizio il soprintendente ai monumenti della Liguria, Mazzino, esaminò in un anno 10 mila progetti con l’aiuto di un solo architetto. Il suo collega di Sassari, Carità, deve difendere da solo circa mille chilometri di costa che, a lasciar fare agli speculatori e ai progettisti a quest’ora sarebbero già un’immensa Ostia. E mentre gli speculatori hanno a disposizione i migliori giuristi per redigerlo, il Soprintendente deve farlo con l’aiuto del bidello e della custode”.
Montanelli vedeva lucidamente nel clero un pericolo per il patrimonio: “E qui bisogna parlarci chiaro, soprattutto coi preti. Il 70 per cento dei monumenti italiani è in loro custodia (…) Non per malizia o cupidigia, ma per ignoranza e spregio di ciò che essi chiamano ‘valori mondani’, i parroci demoliscono vecchie chiese gotiche e barocche per costruire orrende scatole in vetrocemento (quelle che i fiorentini chiamano con pertinente empietà i ‘cristogrill’) con pareti intonacate a ducotone, tapparelle, luci al neon e cromi”.
Oggi le cose stanno forse perfino peggio: ma quasi nessuno osa scriverlo. Con la scusa dell’adeguamento liturgico, zelanti vescovi rifanno da capo a piedi (e orribilmente) le loro cattedrali (da Reggio Emilia ad Arezzo) senza che nessun soprintendente riesca a contrastarli, e laricostruzione delle chiese emiliane dopo il terremoto rischia di risolversi in una mattanza del tessuto storico in nome delle mani libere. Oggi è di moda parlar male delle soprintendenze: dovremmo piuttosto chiederci se il ministero per i Beni culturali (nato nel 1974) sia riuscito a farle funzionare meglio di quando scriveva Montanelli, ed esse rispondevano alla Pubblica Istruzione. La risposta è evidentemente negativa, e questo dovrebbe indurre a ripensamenti radicali: il problema non è la rete territoriale della tutela, ma semmai la burocrazia e la sudditanza alla politica del quartiere generale romano.
Ciò che più colpisce, tuttavia, è la regressione generale del Paese, e del suo discorso pubblico. C’è davvero un abisso tra il profondo senso dello Stato e del pubblico interesse del liberale Montanelli, e il liberismo all’amatriciana del pensiero unico di oggi, insofferente ad ogni regola che non sia l’arbitrio assoluto degli interessi privati. E, soprattutto, c’era in Montanelli la profonda convinzione che ilpatrimonio culturale non fosse misurabile, come scrive, “sul metro del denaro”. Perché è proprio il nostro straordinario patrimonio ciò “che ci qualifica a un rango, del tutto immeritato, di Nazione civile”. È proprio questo il punto centrale: il punto che sfugge a tutti coloro che si riempiono incessantemente la bocca della retorica del “petrolio d’Italia”. A essere venuta meno, in questi cinquant’anni, non è solo la tutela del patrimonio, è l’idea stessa di Stato, un qualunque progetto di civiltà.
la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 28 marzo 2014 (f.b.)
La Repubblica
UNA landa popolata di fantasmi umani e di mostri meccanici. Il campo di un milione e cento metri quadrati, lungo due chilometri e largo da 350 a 750 metri, che tra quattrocento giorni coperto di cinquecentomila alberi e tra idilliache scenografie dovrebbe portare dal mondo 20 milioni di visitatori e certificare la fine della decadenza della Nazione, sembra sulle mappe il profilo di un pesce spiaggiato. Come l’Italia. A guardarlo viene persino voglia di dare ragione, per una volta, al disfattismo di Beppe Grillo, che qualche giorno fa è stato qui e ha commentato: «Non c’è niente, c’è un campo e quattro pezzi di cemento. Ma chi ci vienea Rho?» Eppure, per fare le cose per bene l’Italia aveva a disposizione 2.585 giorni da quel 31 marzo 2008, il giorno in cui tra epici festeggiamenti ottenne dal Bureau International des Exposition l’organizzazione dell’evento mondiale del secondo decennio del secolo, vincendo la sfida con Smirne. “Grosse Koalition” all’ombra della Madonnina scrisse il “Financial Times”, commentando la collaborazione tra il governo Prodi, ormai al lumicino, e la destra che governava Milano e la Lombardia con Letizia Moratti e Roberto Formigoni.
Tutti insieme si spesero, anzi spesero in regali ai paesi votanti: scuolabus nei Caraibi, borse di studio nello Yemen e in Belize, una metrotramvia in Costa d’Avorio, una centrale del latte in Nigeria, bus a Cuba, e così via. Oltre a un numero imprecisato di orologi di pregio e altri presenti a ministri di mezzo mondo. Poi per quasi duemila tragici giorni andò in scena il bieco spettacolo di spartizione tra politici, partiti, correnti, faccendieri, signori degli appalti e anche coppole storte, per la caccia alle poltrone e per assicurarsi fette della torta di potere e denaro. Interessi che la Direzione Nazionale Antimafia definì subito “maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina”, che Berlusconi, tornato a palazzo Chigi, aveva rimesso in cima al delirio sulle Grandi Opere. Ma non una pietra fu mossa in quella striscia di terra tra i comuni di Milano, Rho e Pero, che il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi, qui in visita tra qualche giorno, dovrà necessariamente presentare come l’evento del grande riscatto del paese di cui si dichiara il protagonista.
Ora il Decumano e il Cardo, come aulicamente vengono chiamate le vie, che nelle città romane si intersecavano da est a ovest e da nord a sud, cominciano a intuirsi nel fango. Il fango del cantiere e quello dell’inchiesta della procura milanese che ha già portato all’arresto otto persone e promette sviluppi conturbanti. Sviluppi che — Dio non voglia — potrebbero fulminare la corsa contro il tempo per evitare all’Italia la figuraccia mondiale che rischia il primo maggio dell’anno prossimo, quando l’Expo dovrebbe partire. Molti avevano previsto che il sogno sarebbe diventato un incubo. Di fronte alla sanguinosa lotta per le nomine, il controllo dei finanziamenti e degli appalti, si fece portavoce del “partito della rinuncia” l’architetto Vittorio Gregotti, il quale ricordò il saggio precedente di Francois Mitterrand che all’ultimo momento nel 1989 cancellò i faraonici progetti per la celebrazione del bicentenario della rivoluzione francese. Ma a Parigi non c’era la simoniaca cupola politico-affaristica lombarda, che per diciotto anni sotto le insegne del casto Roberto Formigoni, capitano di una legione di sedicenti lottatori per la fede ma incapace di sottrarsi al peccato,non ha perso occasione per accumulare potere e denaro con mezzi illeciti, in nome del “ciellenismo realizzato” attraverso la Compagnia delle Opere: un blocco di potere con 34 mila aziende associate e almeno 70 miliardi di fatturato, che ha svuotato lo Stato dall’interno con l’alibi della sussidiarietà.
Negli scandali che si sono susseguiti negli anni, il cerchio magico del Celeste c’è sempre tutto. Organizzato quasi militarmente per specialità di business: la sanità, gli ospedali, l’ambiente, l’urbanistica, l’edilizia, le opere pubbliche. Delle ruberie sui 17 e passa miliardi annuali della sanità pubblica ormai, con le inchieste e i processi in corso, si sa molto. Come molto si sa da anni sulla mangiatoia delle opere pubbliche.
Alcuni dei nomi che ricorrono nell’inchiesta sull’Expo sono gli stessi che figurano in quella sul “Formigone”. Così è stato ribattezzato il palazzo che l’ex zar della regione ha fatto erigere in via Melchiorre Gioia a perenne celebrazione della sua potenza. Con i suoi 167 metri di altezza — più alto della Madonnina, come l’ex governatore sostiene volesse Papa Paolo VI — il mausoleo formigoniano è l’emblema dell’appaltopoli meneghina nello skyline dell’ex capitale morale dell’ormai obliata borghesia produttiva. La procura non trascura un’inchiesta partita sulla base di un rapporto del colonnello Sergio De Caprio, il “Capitano Ultimo” che arrestò il boss mafioso Totò Riina. Ricorrono i nomi di Rocco Ferrara, già arrestato per le estrazioni petrolifere in Basilicata, e di Antonio Rognoni, l’ex direttore di Infrastrutture Lombarde, quello appena arrestato per gli appalti dell’Expo.
Per la cronaca, il “Formigone”, che doveva costare 185 milioni di euro, ne ha ingoiati oltre 500. Capite allora cosa intende la procura quando analizza la vittoria dell’appalto per la “Piastra” dell’Expo da parte della Mantovani, al posto dell’Impregilo, che doveva vincere con il solito accordo di cartello scambiando appalti sulla Pedemontana Lombardo- Veneta, con un ribasso d’asta di oltre il 40 per cento, pari a 100 e più milioni? Che con gli inevitabili aggiornamenti prezzi c’è “ciccia” per tutti, soprattutto in un’operazione che coinvolge la dignità nazionale in corsa disperata contro il tempo. Un classico nella corruttela nazionale, i cui esempi si sprecano, a cominciare dagli appalti per il G8 della Maddalena gestiti direttamente a palazzo Chigi da Guido Bertolaso, regnante Berlusconi.
Quando l’appalto per la “Piastra” (oltre 160 milioni) andò alla Mantovani, società dicui era diventata pars magna la segretaria dell’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan, Claudia Minutillo, con Erasmo Cinque e la Ventura di Barcellona Pozzo di Gotto (poi esclusa per sospetti di mafia), Formigoni fece un comunicato di fuoco per l’eccessivo ribasso d’asta. E il responsabile delle gare Pierpaolo Perez protestò con un interlocutore al telefono: «Ma cosa si è fumato? Io non lo voto più questo qui, deve essere internato». «È il politico più stupido che io conosco», disse del resto una volta Ciriaco De Mita di Formigoni. O il più furbo di tutti negli affari? Non capì niente in castità perfetta e povertà evangelica, come si richiede ai Memores Domini, o sapeva tutto? Personalità da psicoanalisi il Celeste, lo stesso uomo che balla sulle note di Hot Chili Peppers su uno yacht da milioni e che poi va a confessarsi dal padre salesianodi via Copernico. Piove sul fango di piazza Italia, 4.350 metri quadrati che non si sa se saranno mai pronti per il primo maggio 2015; piove sul Children Park e sull’Anfiteatro, già realizzato — così dicono — al 20 per cento; l’Orto Planetario è stato cassato, come buona parte delle autostrade; non piove sulle Vie d’acqua, cancellate dai progetti, che dovevano collegare Rho al vecchio porto della darsena, né sulla linea ferroviaria Rho Gallarate, che resterà un pezzo di carta inumidita.
Dicono che a 400 giorni dal giorno fatidico per il prestigio internazionale di questa nostra Italia siamo al 40 per cento dell’opera. Soltanto un rifiuto risoluto del disfattismo nazionale ci permette di crederci. Se il miracolo si compirà — e ce lo auguriamo — si aprirà la fase delle Red Arrings, le aringhe rosse, bocconi olezzanti che i cacciatori britannici disponevano sul terreno di caccia per distrarre i cani dei cacciatori avversari. L’Expo come aringa per attirare una speculazione immobiliare da 3 o 400 milioni di euro, quando il peccato originale dell’esposizione universale sarà un angoscioso ricordo. Si è già fatta sotto personalmente Barbara Berlusconi, leader politica in pectore, manifestando interesse per costruire su 12 ettari del pescione Expo uno stadio da 60 mila per il Milan. E magari qualche nuova “caricatura” di città nella città, come le chiama l’architetto Mario Botta. Secondo le tradizioni di famiglia.
Corriere della Sera Milano
L'immobiliare Sanità
di Giangiacomo Schiavi
L’inchiesta che coinvolge Infrastrutture lombarde incrocia la sanità milanese e un opaco sistema di appalti da rivedere per come sono pilotati e per le insidie corruttive che vengono a galla. Prima che sia (un’altra volta) troppo tardi è doveroso mettere il naso su un’operazione da centinaia di milioni che riguarda il trasloco di Istituto dei tumori e Neurologico Besta nell’ex area Falck di Sesto San Giovanni, in quella che è stata chiamata Citta della Salute: serve un supplemento di istruttoria e una garanzia di trasparenza sui conti e sul ruolo svolto da Infrastrutture lombarde e dall’ingegner Rognoni, attualmente agli arresti. Alla luce di quel che è successo per i cantieri del San Gerardo di Monza e di Niguarda, finiti nel mirino della Procura, è doveroso mettere al riparo un progetto di integrazione sanitaria, sia pur discusso e contestato, dal sospetto di illeciti e illegalità.
Nel caso della Città della salute c’è alle spalle il poco edificante spreco di denaro pubblico per la falsa partenza nell’area dell’ospedale Sacco: quasi un paio di milioni di euro buttati tra studio di fattibilità, consulenze e avviamento della macchina organizzativa. Il polo pubblico della sanità d’eccellenza poteva essere una grande intuizione e non è mai stato del tutto chiaro il perché della rinuncia: se la lievitazione dei prezzi o le liti tra cordate sui futuri appalti.Il passaggio da una parte all’altra di Milano, da Vialba a Sesto, è sembrato lo schizofrenico segnale di una giunta al capolinea che ha salvato l’investimento ragionando come un’immobiliare: portando i due ospedali verso un Comune alle prese con il fallimento dei progetti di trasformare una gigantesca area dismessa, sulla quale doveva sorgere prima una banca e poi un centro televisivo.
È comprensibile l’impegno del sindaco di Sesto nel difendere la Città della salute: porterà valore e darà un senso alla futura area metropolitana. Ma oggi tocca alla Regione spazzare via tutte le ombre, e dare un senso vero al progetto sanitario. Anche attraverso la trasparenza del cantiere, dalle bonifiche agli appalti. Per non recriminare domani su quel che si doveva fare e non è stato fatto. E non far pagare ai cittadini altri inutili costi della politica.
«Dalla modernità post-bellica, che includeva le nuove periferie, alla neoliberista «stagione dei sindaci» (Veltroni e Rutelli), fino all'oggi dei tessuti disgregati in una miscela esplosiva». L'ottava puntata dell'inchiesta sulle città italiane. Il manifesto, 27 marzo 2014
La città, per la prima volta, si estendeva oltre le sue storiche mura, invadeva l’agro, la campagna romana; nascevano le nuove periferie che accoglievano il nuovo ceto impiegatizio, soprattutto coloro che, in città, lavoravano nelle aziende municipalizzate o nelle ferrovie. Da allora narrazioni importanti come quelle sopra citate non ce ne sono più state. Quelle periferie, allora lontane, quasi sconosciute, una volta evocate sono entrate a far parte della storia moderna di Roma, le si sono — potremmo dire — «appiccicate addosso» come una pelle: non c’è una Roma antica e una Roma moderna — diceva Pasolini — ma solo una, antica e moderna contemporaneamente. Nelle periferie storiche l’emarginazione, il senso di diseguaglianza veniva elaborato — ricorda Walter Tocci — tramite un altrove temporale, un’utopia di buona società, da raggiungere attraverso l’emancipazione. In sostanza, le periferie storiche non erano luoghi di disperazione, di solitudine, di disincanto; piuttosto luoghi carichi di speranza, dell’attesa di un riscatto. In esse trovava consenso e faceva proseliti il «vecchio» Partito Comunista che tra i suoi obiettivi politici comprendeva il progetto del riscatto di questo popolo contro il potere e il dominio delle grandi famiglie di proprietari di terreni e immobiliari poi.
La seconda grande trasformazione
Nel 1993 diventa sindaco Francesco Rutelli e dopo di lui, nel 2001 Walter Veltroni. In quegli anni, in Italia, si assiste al fenomeno chiamato «rinascimento urbano». Da Roma a Napoli, da Salerno a Catania, si inaugura la stagione dei sindaci che, eletti direttamente dai cittadini, danno vita a iniziative urbane che fanno nascere la speranza che cambiamenti significativi nella vita quotidiana sono possibili. Roma si appresta a progettare il nuovo piano regolatore che sostituirà quello precedente del 1961.
Il quindicennio rosso, dal ’93 al 2008, verrà ricordato per il tentativo di (presunta) modernizzazione di una città considerata in ritardo rispetto ai processi di rinnovamento avvenuti in altre città europee ed extraeuropee (Londra, Barcellona, Bilbao, e perfino Dubai). Ma cos’era realmente questa modernizzazione così tanto invocata e cosa sottendeva questa categoria (ideologica) del ritardo? Questa idea — la modernizzazione — si rivela ben presto un complice potente dell’ideologia liberista poiché essa viene alimentata dal dogma della concorrenza internazionale, dall’esaltazione della velocità, dal mito della decisione efficace, dal feticcio dello sviluppo, dall’eliminazione di ogni conflitto ritenuto un sabotaggio della stabilità politica. La competizione economica tra le città spinge inoltre queste ultime a «rifarsi il trucco» per adeguarsi alle regole dell’economia finanziaria.
La celebrazione di Grandi Eventi serve a imbellettare la città come fosse una vetrina, mentre prende piede e si afferma un modello culturale basato sull’individualismo proprietario, il successo personale, la competizione che fa perdere valore alla coesione sociale e alla responsabilità comunitaria. Tutto quello che non serve alla santa crescita (persone, culture, tradizioni, virtù) viene buttato via, diventa spazzatura, ritardo, appunto, perché le nuove regole stabiliscono che gli investimenti andranno solo dove la tecnologia sostituisce le forme tradizionali di vita e la velocità annulla le relazioni sociali e rende inutili i luoghi pubblici. Per altri versi non viene frenato il saccheggio del territorio iniziato molti anni prima e che ora agisce attraverso una moltiplicazione della ricchezza immobiliare in una città la cui crescita demografica si è arrestata sin dagli anni Settanta con due milioni e settecentomila abitanti. Le nuove regole liberiste impongono che per modernizzare la città occorre stabilire accordi con i privati quasi sempre con vantaggio tutto a favore di questi ultimi. La sensazione è che a questa crescita di ricchezza immobiliare fa da controcanto un sempre più impoverimento urbano in termini di marginalità, solitudine, coesione sociale, servizi
Nel 2008, anno della sconfitta clamorosa del candidato sindaco Rutelli, esce il libro di Walter Siti, Il contagio. Un libro che svela, più di qualsiasi analisi politica, il «risentimento» degli abitanti delle periferie che da tempo, avevano voltato le spalle alla sinistra. Le periferie considerate un tempo lo zoccolo duro del partito comunista, ora si sono trasformate in ghetti dove nessuno si salva. Ma la portata della trasformazione antropologica è ben più vasta di quella che appare. Abbandonata ogni ideologia, le borgate romane si sono adeguate ai valori borghesi del consumo e del possesso dell’ultimo gadget a ogni costo, ai sogni del successo, alla diffidenza reciproca tra persone, mentre la borghesia del centro tende sempre più a imitare questi modelli, periferizzandosi. L’ipotesi riformista alla base del modello veltroniano — il famoso Modello Roma — non trova alcuna accoglienza, anzi suscita indifferenza e ostilità («mai visto un borgataro riformista» è la battuta che si legge nel libro si Siti).
Una città diseguale
Un dato preoccupante che emerge dalla cronaca di ogni giorno è la crescita della diseguaglianza e della povertà. Esse formano una miscela esplosiva insieme alla sottoistruzione, microcriminalità, diffusione di droga, disoccupazione intellettuale, commerci illeciti. Sempre più la città appare la discarica della globalizzazione che frantuma i rapporti sociali, crea gruppi antagonisti, spinge verso l’individualismo predatorio. Sono questi gli obiettivi che la nuova giunta guidata da Ignazio Marino dovrebbe mettere ai primi posti: la lotta contro la povertà, le diseguaglianze, l’esclusione, l’isolamento per favorire la rinascita di un senso civico, la coesione sociale, l’appartenenza, la responsabilità sociale. Credo che questo possa essere fatto a partire dalla generazione dei giovani offrendo loro progetti e opportunità di lavoro per venire incontro ai loro bisogni economici ma anche ai loro desideri di convivialità, di fruizione culturale, di scambio di esperienze e per arricchire il capitale sociale e culturale della nostra città (si veda il progetto delle «Case Zanardi» per Bologna). Se non dalla città da dove dovrebbe nascere il rinnovamento auspicato? Non sono le città i laboratori sociali dove si può elaborare un diverso concetto di differenze, di cultura del limite, di spirito civico e di partecipazione all’uso del tempo e dello spazio quotidiano? In una parola, forse è proprio a partire dalla città che potrebbe essere restituita la speranza di un cambiamento della politica che si propaghi all’intero territorio, all’intero paese.
La Repubblica Milano, 27 marzo 2014, postilla (f.b.)
Il cemento avanza, sfonda la seconda cintura dell’hinterland e ormai invade persino la terza. È come se i confini fossero quasi scomparsi e Milano e i Comuni limitrofi quasi un tutt’uno. E l’area metropolitana satura di asfalto e cemento. Il capoluogo lombardo — con solo Napoli che di un soffio riesce a far peggio — primeggia nella gara tra le città che consumano più suolo. Una sfida senza medaglie. E con la Lombardia che è una grande macchia nera che in questo primato, tutto negativo, sbaraglia tutte le altre regioni.
Ci pensa l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, a fotografare l’andamento dal 1956 al 2012 del consumo di suolo. Sotto la Madonnina, la scomparsa di suolo libero è un fenomeno in crescita dagli anni Settanta: dal 42,8 per cento di terre mangiate nel ‘73, si passa al 58,3 per cento nel 1997 fino al 61,2 nel 2007. Per arrivare al 61,7 a fine 2012, ultimo dato ufficiale disponibile. E tra i peggiori, con la Lombardia che ha il 10 per cento di territorio irreversibilmente occupato da strade, capannoni, case. Che, contando montagne, laghi e dove non si può cementificare, non è poco, 261 i metri quadri di suolo consumato da ciascun abitante. Macome si è arrivati qui, a Milano? «La percentuale, inquietante, deriva da un’espansione urbana mal regolata o deregolata che avanza — spiega il ricercatore Ispra e responsabile del Rapporto, Michele Munafò — oltre che da una mancanza di programmazione strategica che non ha dato importanza alle funzioni del suolo anche per l’ecosistema.
E dietro, c’è la crisi di Milano città con la gente che tende a uscire, verso l’hinterland, e porta con sé l’infrastrutturazione del territorio». Per l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris è vero che Milano è stata cementificata nei decenni «ma nel Pgt abbiamo ridotto le volumetrie in un’ottica di conservazione». L’80 per cento dei Comuni lombardi ha in pancia 41mila ettari,oggi aree agricole, da urbanizzare. Una cifra enorme, se si pensa che in Lombardia negli ultimi dieci anni si sono mangiati 10mila ettari. Il primo colpevole è meno scontato del previsto: divorano più suolo le strade rispetto alle case. «Pedemontana, BreBeMi e Tem hanno provveduto a dare una botta, peraltro quando fai le strade è il prodromo di nuove urbanizzazioni — osserva il docente di Programmazione ambientale al Politecnico, Paolo Pileri — .
La crisi si pensa abbia messo in ginocchio l’edilizia ma in realtà questo non ha voluto dire un calo del consumo di suolo. Questo perché i Comuni continuano a mettere nei loro piani nuove aree da urbanizzare, Milano compresa: da Moratti a Pisapia il Piano di governo del territorio è stato asciugato, ma non ci sono dispositivi di legge e nemmeno la volontà che obblighino i sindaci a riutilizzare prima le aree dismesse ». Per invertire la tendenza, difatti, le ricette ci sarebbero. Senza toccare i livelli della Gran Bretagna, dove non si costruisce su nuovi terreni fintanto che i due terzi di aree abbandonate non vengano rimessi sul mercato, le chiavi sono diverse. Anche perché l’Europa impone di azzerare il consumo di suolo entro il 2050.
«Anzitutto il riuso di aree dismesse — dice Munafò — prima di costruire sul nuovo, si riqualifichi il vecchio che non si usa più. E poi il regolamento edilizio, nelle mani del Comune che ha il pallino della tutela del territorio. E, se proprio si deve cementificare, non si tocchino le aree agricole». Da tempo gli ambientalisti denunciano che la Lombardia sia «la cattedrale del cemento». E oggi esortano la Regione: «Siamo in emergenza — denuncia il presidente lombardo di Legambiente, Damiano Di Simine — il consiglio regionale ha in mano una proposta di legge di iniziativa della giunta che non è così male, va nella direzione giusta. La approvino presto».
postilla
A quanto pare, amministrazioni locali escluse (ed è qui il guaio), tutti concordano nel ritenere allarmante la continua e allegra espansione dell'urbanizzato metropolitano e regionale, anche in un'area ormai ampiamente satura come quella padana centrale. La vera questione però, indipendentemente dall'approvare o meno in tempi rapidi una legge che magari adotti virtuosamente il principio dell'approccio sequenziale di matrice britannica, è di definire qualche modello di sviluppo alternativo all'attuale. Non solo per le costruzioni, ma per l'idea di città società e attività economica oggi ancora legate mani e piedi al modello sviluppato dalle amministrazioni, di centrodestra e non, ad ogni livello. In altre aree sviluppate (ad esempio la spesso citata Silicon Valley) si è deciso di puntare sull'innovazione vera, quella di ricerca tecnologica e produttiva, lanciando politiche di polarizzazione urbana che si sostituiscano, anche nel modello industriale, allo sprawl novecentesco. Nella padania felix invece procede, come qualcuno osservava casualmente nell'articolo, il modello autostradale e disperso, salvo inventarsi proprio su quelle stesse nuove e micidiali autostrade le stazioni di rifornimento per auto elettriche. La sostenibilità retorica per gonzi insomma, e sotto il business as usual, con l'innovazione altrettanto ideologica della nuova trovata, che si chiama "Smart Land". Proprio così, lo slogan della smart city, già scivoloso di sé, traslato sui territori della dispersione, e guarda caso promosso dai medesimi interessi, a ben vedere dalle medesime persone, che si sono inventate la mitica città infinita. Andiamo proprio bene, con questa versione italiana del destrorso "new suburbanism" d'oltre oceano, e discutere di un ettaro in più o meno di prati di periferia destinati a trasformazioni urbane, ottime intenzioni a parte, scusate ma sembra l'ennesima presa in giro (f.b.)