La Repubblica Milano, 8 settembre 2014, postilla (f.b.)
Qualche giorno fa, nel corso di una mesta cerimonia dominata dalla faccia da funerale del presidente uscente della Provincia Guido Podestà, la Regione ha ricevuto in dote da Palazzo Isimbardi la holding Asam, ovvero la scatola societaria che contiene le partecipazioni nel settore delle infrastrutture delle Province di Milano e Monza. Sono per gran parte quote di società autostradali, fra le quali la celebre Serravalle, fonte di infiniti guai politico giudiziari per gli ex presidenti provinciali Colli e Penati nonché di colossali grane per gli ultimi tre sindaci di Milano Albertini, Moratti e Pisapia. La Regione gestirà l’Asam - gravata da 130 milioni di debiti - fino a dicembre 2016 e poi dovrà riconsegnarla alla, nel frattempo, neonata città metropolitana di Milano.
A dispetto dell’imponente debito, l’arrivo del pacco Asam in Regione è stato accolto con sorprendente buonumore dal presidente leghista Maroni, che si è immediatamente lanciato nell’annuncio che in Lombardia si dovranno realizzare, al più presto s’intende, altri 200 chilometri di nuove autostrade o strade a scorrimento veloce. Quasi in contemporanea, sono stati resi pubblici i dati sul primo mese di esercizio della Brebemi, ovvero l’ultimo gioiello autostradale lombardo inaugurato il 22 luglio. Una media giornaliera di soli 18mila transiti, contro i 120mila nel tratto Milano Brescia della A4, l’arteria della quale la Brebemi rappresenterebbe l’alternativa più comoda e veloce.
Un flop indiscutibile, in parte spiegabile con la segnaletica insufficiente, forse con la mancanza di informazioni chiare all’utenza, o forse ancora per il fatto che usciti, in direzione Milano, ci si trova imbottigliati nella terribile Cassanese o nella tortuosissima e quasi impercorribile Rivoltana. Un flop che tuttavia trova la sua spiegazione più semplice nel costo: 10,50 euro per 62 chilometri. L’autostrada più cara d’Italia, quasi il doppio del ticket per lo stesso tratto percorso sulla A4. Dunque al governatore leghista che promette asfalto per altri 200 chilometri di highway in Lombardia risponde sinistramente il primo rendiconto di un’opera annunciata diciotto anni fa, cantierizzata nel 2009 e per cui si prevedeva una spesa — in project financing — di 800 milioni lievitati, nel frattempo, a 2,4 miliardi. Una «grande opera » in teoria interamente finanziata da privati ma che oggi, per reggersi, chiede al governo defiscalizzazioni e contributi per circa 500 milioni e il prolungamento della concessione da 20 a 30 anni. E poi impone tariffe che consegnano la nuova autostrada alla marginalità, se non alla totale inutilità nel sistema della mobilità lombarda.
Maroni non dice dove vorrebbe stendere i nuovi 200 chilometri di autostrade in Lombardia. Non lo dice perché, da consumato attore della politica, sa perfettamente che qualsiasi annuncio darebbe un vantaggio agli oppositori. Però chiama alla collaborazione i privati, riproponendo quel project financing di cui stiamo ammirando gli effetti sulla Brebemi. Probabilmente verranno ripescati gli assurdi progetti autostradali per la bassa, come la Broni-Mortara e la Cremona — Mantova. Sbucheranno bretelle e rami di collegamento con la Pedemontana, la Tem e con la stessa Brebemi. Tornerà dall’oblio la Rho-Monza e chissà quanto ancora saprà partorire la creatività asfaltatrice del governatore. Il tutto in una regione che sta attraversando la crisi profonda di un sistema produttivo che andrebbe ripensato insieme a una nuova mobilità. A infrastrutture e servizi che agevolino e incoraggino il passaggio a un modello rispettoso dell’ambiente, dei territori e persino della logica economica. Costruire autostrade verso il nulla non può essere il futuro della Lombardia.
postilla
Pare che finalmente, davanti a fatti incontestabili, si stia facendo strada anche nell'informazione l'idea di uno “sviluppo del territorio” dove le opere siano funzionali a qualche genere di idea, e non viceversa. Mentre invece la politica, Maroni in testa ma ne siamo certi anche la maggioranza dei suoi formali oppositori, resta saldamente legata al modello classico secondo cui prima si decidono le trasformazioni, sulla base di alcuni interessi economico-speculativi, e poi a colpi di studi parziali, convegni, disinformazione, cooptazione, se ne stabilisce una utilità qualsivoglia. Speriamo che la coscienza del disastro, attraverso una stampa che pare vagamente emersa dalle nebbie padane dello sviluppismo coatto, inizi a sfiorare anche i nostri decisori (f.b.)
p.s. Le citate surreali Autostrada della Lomellina, e Cremona-Mantova fanno parte della medesima storia, ovviamente
Chissà se c’è - almeno in Italia, almeno tra Fuorigrotta e Bagnoli - un nesso tra il disprezzo della legalità che c’è in alto e quello che c’è in basso. La Repubblica, 6 settembre 2014
Un inseguimento che finisce in tragedia. Non esistono più né guardie, né ladri. Né bene né male. Tutto è assai complesso, difficile non solo da comprendere ma anche e soprattutto da raccontare. Quando accadono tragedie come questa, si tende a focalizzarsi sulla dinamica. Anche il sindaco De Magistris, nel primo messaggio di cordoglio per la morte di Davide Bifolco, ha assicurato che in breve tempo si sarebbe fatta chiarezza. Ecco, questa è Napoli (e questa è l’Italia), un luogo in cui l’etichetta è rispettata, in cui tutto verrà fatto (almeno così assicurano) secondo le procedure, ma poi nulla viene realmente chiarito.
Tre persone su uno scooter, (a Napoli è la prassi) di cui una latitante e una con precedenti (questo ovviamente è stato appurato poi), che non si fermano all’alt della pattuglia dei carabinieri. C’è chi giurerà che non potevano le forze dell’ordine lasciar correre quell’infrazione. Che bisogno c’era però di sparare? Nessuno, e infatti il carabiniere ha dichiarato che il colpo gli è partito per sbaglio. Per sbaglio? È dagli anni ‘70 che si usa l’espressione “colpo accidentale”, comunicazione che non fa altro che generare diffidenza verso chi la pronuncia. Non bisogna aver maneggiato la Beretta Mod 92 semiautomatica e conoscerne il peso di quasi un chilo con proiettili 9 millimetri, per capire che un colpo accidentale può partire (cosa che accade raramente) se l’arma cade o se impugnandola senza sicura e con il colpo in canna il dito nello sforzo della corsa fa scattare il grilletto: ma in quel caso è difficile che il proiettile vada a segno. Nulla di tutto questo, a quanto sembra. E quindi bisognerebbe smettere di usare l’espressione accidentale e iniziare a chiedere solo silenzio e attesa delle indagini.
Ma questi discorsi, che occupano pagine e pagine di carta e del web e che coinvolgeranno molti italiani indignati per l’ennesimo morto bambino, questi discorsi “belli, tondi e ragionevoli”, non restituiscono affatto la realtà di Napoli. Questi discorsi restano in superficie. E nascondono un tema molto più importante, un tema che non è più possibile ignorare eppure viene costantemente, quotidianamente ignorato: Napoli è una città in guerra. Ad agosto del 2013 il conducente di una Smart inseguì e investì, uccidendoli, due presunti rapinatori (presunti perché non c’è alcuna evidenza che la rapina sia realmente avvenuta), oggi è una pattuglia dei carabinieri a ingaggiare un inseguimento per bloccare uno scooter “sospetto”, come è stato definito il motorino che guidava Davide.
Potremo scoprire (forse) le dinamiche di questa ennesima tragedia annunciata, ma i cittadini continueranno ad avere paura, le forze dell’ordine a essere tesissime e il territorio a essere attraversato da un’assenza totale di regole. Qualcuno dovrebbe domandarsi: cosa significa essere un cittadino al Rione Traiano? Cosa significa essere un carabiniere al Rione Traiano? Chiedetelo pure a loro. Rione Traiano, anello fondamentale per il traffico di coca. Rione dove manca quasi completamente ogni genere di servizi, dove la fermata della Cumana fa paura anche a mezzogiorno.
Era il regno di Nunzio Perrella, capo di una delle famiglie di narcotrafficanti più note, il clan Puccinelli. Ora è entrato in crisi, lasciando però a comandare sul territorio i propri eredi, ma il territorio è un budello conteso tra le famiglie di Soccavo, i Grimaldi, e quelle di Miano ossia i mille rivoli dei Lo Russo e i dissidenti dei Zaza di Fuorigrotta e tutti i gruppi che sanno che basta una partita di coca da appena 1 chilo (guadagno circa 210milaeuro) per assicurarsi decine e decine di stipendi di disperati e ambiziosi ragazzini da affiliare. Un coacervo incredibile di interessi che ha reso questo quartiere sempre difficilissimo da vivere. Rione Traiano è terra di faide da sempre: nel 2012 fu gambizzata Maria Ivone, figlia di un boss e fu ferita anche una donna incensurata. Nel luglio scorso, in pieno pomeriggio, due ragazzini di 17 e 18 anni sono stati feriti alla mano e alla spalla. Stiamo parlando di un luogo che aveva
creato un polo criminale rivale all’Alleanza di Secondigliano, la cosiddetta “Nuova Mafia Flegrea” che si è dissolta in faide interne e arresti, generando guerre su guerre: ce n’è stata persino una tra i Rioni Traiano “di sopra” e “di sotto”.
Immaginate la tensione che si vive in un territorio come questo? Qui ogni leggerezza ti condanna a morte, un’amicizia sbagliata ti segna per sempre, persino camminare a fianco a chi in quel momento è nel mirino può essere fatale. Davide Bifolco è morto a 17 anni per aver commesso una serie di leggerezze, era alla guida di un motorino su cui viaggiavano in tre, non si è fermato all’alt per paura perché non aveva assicurazione e patentino, era insieme a due ragazzi non incensurati, ma a Davide non è stata data una seconda possibilità. Questo accade dove c’è guerra perenne, non ti va bene mai, non esistono seconde possibilità. Un errore ti marchia a vita o ti uccide.
Sono tantissimi gli adolescenti che vivono di illegalità, sono tantissimi gli adolescenti che prima di diventare maggiorenni hanno già la vita rovinata. “Je so’ nato e so’ cresciuto ind’a nu quartiere addò o arruobbi o spacci o te faje na pera” (sono nato in un quartiere dove o rubi o spacci o ti fai una pera di eroina) cantava Raiz negli anni ‘90 oggi ad esser cambiato è nulla o quasi. Quando le loro storie arrivano nei salotti buoni della città ci si commuove, ci si indigna, ma alla fine è lo sdegno di un momento, solo apparenza. La città non reagisce. Tutto sembra essere sempre in balia di polizie e giudici, nulla di quello che avviene sembra sfuggire al tanfo della corruzione e dello scambio. Questa era ed è oggi, ancora di più, Napoli. Questo è il clima in cui si vive, questo è un territorio dove tutto diventa impossibile. E dove il diritto non esiste, vince il più forte e dove vince il più forte, c’è guerra. Quando viene esploso un proiettile, che sia esecuzione, che sia errore o che sia necessità militare (e in questo caso non ve n’era alcuna), è importante ricostruire le dinamiche e accertare le colpe. Ma concentrare tutte le discussioni, le dichiarazioni e le energie solo su questo, non è altro che lo strenuo tentativo di chiudere gli occhi di fronte a una realtà che fa paura e che non si vuole vedere.
Adesso anche l’Italia ha la sua Ferguson, anzi peggio, perché in questo caso non c’era
stata nemmeno una ipotesi di rapina. Questa è Napoli, terra di guerra. Questo è il Sud. E rende ancora più grave ciò che è accaduto solo qualche settimana fa quando il primo ministro Renzi è stato in Campania e non ha posto alcun accento sulla centralità del contrasto alla camorra, e quando è stato in Calabria alla ‘ndrangheta, in una sorta di timore che parlare di questi problemi spenga la voglia di rinascita. Ma di quale rinascita parliamo se l’economia più significativa nel nostro Paese è quella criminale e gli imprenditori che non si piegano sono abbandonati?
Sta affondando l’Italia, a stento respira. E affonda come sempre da Sud. Il pianto della famiglia di Davide ci parla di un male antico, di un male terribile. Non solo il dolore, quello reale, per la perdita di un figlio, di un fratello, di un amico, ma la necessità di doverlo mettere in scena come unico strumento rimasto per attirare attenzione e quindi per chiedere giustizia. Le sedie in strada, tutta la famiglia che fa dichiarazioni: il dolore nella mia terra non è mai privato. È pubblico e rumoroso, vuole invadere, celebrarsi, teme di essere sottovalutato, ignorato, isolato. È un dolore costretto alla teatralità per provare ad essere accolto.
E senta il governo intero, il peso delle parole di una ragazzina: «La camorra non avrebbe mai ucciso un ragazzo di 16 anni lo Stato sì». Frase ingenua, falsa, ma difficile da sopportare. Questo dice la cugina stravolta di Davide. Lei non sa che la camorra ha ucciso e uccide non solo sedicenni, ma ragazzi e bambini ancora più piccoli. Questa sua ingenuità mostra la necessità di parlare della camorra e che anzi è proprio il silenzio che porta a fraintendimenti di questo genere. I clan ne sono felici. «La camorra ci protegge lo Stato no» ripetono a Rione Traiano. «Le mafie fanno il loro lavoro, mentre voi istituzioni, voi pubbliche persone mentite, rubate, oltraggiate. Voi, i veri criminali, camorra, mafia, ‘ndrangheta, infondo, sono palesi nel loro essere fuori legge, sono oneste in questo». Ecco cosa drammaticamente leggo in decine di blog, in migliaia di commenti. La tragedia è accorgersene solo quando muore un ragazzino ucciso da un carabiniere. È sempre stato così: c’è bisogno di sangue per ricordare che dall’inferno a Napoli non si è mai usciti.
Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2014
Ma cosa stabilisce il decreto? L'articolo 1 prevede che l'amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, nominato commissario per la realizzazione degli assi ferroviari Napoli-Bari e Palermo-Messina-Catania, possa condividere con le altre amministrazioni coinvolte non una bozza, ma un progetto finale. Nel caso che esse non siano favorevoli, egli potrà decidere se i pareri avversi siano “regolari”, e quindi se tenerne conto o meno. Un potere privo di qualsiasi freno e controllo: se occorrerà bucare una montagna piena di amianto o spianare una città antica, ebbene si potrà fare. E il principio è letale: una soprintendenza non potrà più respingere un progetto perché incompatibile con la tutela del territorio, e dovrà invece comunque accettarlo. L'articolo 5 stabilisce che si possano posare pali per reti a banda ultra larga senza autorizzazione preventiva: anche in aree vincolate paesaggisticamente. L'articolo 10 dimezza i tempi con cui valutare la pericolosità degli inceneritori. L'articolo 12 sancisce la fine della cosiddetta archeologia preventiva: d'ora in poi in caso di ritrovamenti (anche importantissimi) le soprintendenze non potranno più indicare come tutelare e valorizzare le scoperte, ma saranno costrette ad accettare le soluzioni proposte dalle ditte. Che è come chiedere alla volpe come desideri proteggere il pollaio.
L'articolo 13 stabilisce che se in due mesi una soprintendenza non riesce a esaminare una autorizzazione paesaggistica, il silenzio viene interpretato come un assenso: e si procede d'ufficio. Un provvedimento criminale: perché pretende efficienza da un corpo dello Stato che si è dolosamente depotenziato inibendo il turn over e azzerando i fondi; e perché l'inefficienza dell'amministrazione viene fatta scontare ai cittadini, che si vedono distrutto l'ambiente in cui vivono.
L'articolo 14 liberalizza in modo selvaggio gli impianti fotovoltaici e a biomasse, e le torri eoliche: per i quali non sarà necessaria più nessuna autorizzazione paesaggistica. Il che ribalta la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, e una recente pronuncia del Consiglio di Stato per cui “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato”. Insomma, un enorme regalo a imprese in alcuni casi perfino legate alla criminalità organizzata: nonché la fine di quel che resta del paesaggio italiano.
L'articolo 28 bis prevede che chi vuole costruire possa autocertificare che ha fatto tutto secondo le regole, pagare una tassa e aspettare il disco verde: quella che è un’attività di controllo a tutela del territorio, diviene così una compravendita. E, si sa, il cliente ha sempre ragione. Ci si chiede con quale faccia chi approverà una simile porcheria andrà poi ai funerali delle prossime vittime delle frane e delle alluvioni causate dallo stupro edilizio del territorio.
Ma non è finita. L'articolo 45 prevede di usare lo strumento del project financing per eliminare ciò che resta del demanio: i privati potranno presentare progetti di valorizzazione di un bene demaniale, che in parte sarà dato loro in concessione per attività for profit, in parte sarà ceduto agli enti locali. E, per finire in bellezza, si dà carta bianca alle costruzioni nei campeggi, dicendo che “non rappresentano nuovi volumi o nuove superfici”. Il che consente di realizzare, senza titolo edilizio, edifici per finalità residenziali, produttive e di deposito, ma destinati alla sosta e al soggiorno dei turisti. Ma che “turisti” sono quelli che abitano e lavorano, o hanno depositi, in aree qualificate come “campeggi”?
Se ci avesse provato Silvio Berlusconi, il Pd avrebbe portato in piazza mezza Italia: e invece ora lo fa un berlusconiano doc come Maurizio Lupi, dentro un governo guidato dal segretario del Pd. “Padroni in casa propria” è il motto delle Larghe Intese al tempo di Matteo Renzi: solo che la casa, e cioè il territorio del popolo italiano, questa volta rischia di uscirne distrutta. Per sempre.
La farsa di Bagnoli e della Città della Scienza a Napoli sottolinea spietatamente la nullità della classe politica nazionale e locale. E' ora di cominciare a compilare la lista dei "dormienti" in tutte le città d'Italia, :non li vorremmo rivedere nelle liste. La Repubblica, ed. Napoli, 5 settembre 2014
Per discolparsi di pasticci compiuti i bambini dicono: Io non c’ero, se c’ero dormivo e se dormivo sognavo di non esserci… . Il detto ormai caratterizza il modo di partecipare alle decisioni più nefaste di una classe dirigente che si dice “di sinistra”.
L’Accordo per Città della scienza. Renzi firma il testo così come scritto in prima battuta, mai emendato di una virgola dai componenti il tavolo interistituzionale. Tra loro (forse dormiva…) il vice sindaco Sodano, mandato dal sindaco (che non c’era e pure lui dormiva sognando di non esserci…). Entrambi noncuranti che nemmeno tanto prima –ottobre 2011- la (prima) giunta de Magistris aveva votato e fatto votare al Consiglio comunale un netto “no” a stravolgimenti dell’urbanistica, e poi ancora nel 2012, sollecitata da 14 mila firme, per la spiaggia a Bagnoli libera, di tutti, senza intasamenti né occupazioni privilegiate a favore di una pseudocultura prevaricante sulle istanze del paesaggio e della gente.
Non c’era, dormiva e sogna ancora di non esserci, pure l’assessore all’Urbanistica, partecipazione e beni comuni (siamo in tanti ormai a sognarli…) che agli incontri delle associazioni arriva a sostenere, con fanciullesco candore, che Città della scienza si sposta dalla spiaggia. E Renzi infine lascerà dormire sindaco, vice e assessore affidando al Commissario Bagnoli tutta e facendo risvegliare invece quelli che, in buona pace, Bassolino e De Lucia avevano messo a dormire.
Non c’era, dormiva e certamente sognava di non esserci anche la sinistra del Consiglio regionale. Ha finto di opporsi al Collegato alla finanziaria della Campania che riapre i condoni edilizi e per l’occupazione abusiva degli immobili pubblici, cassa vincoli di tutela e le salvaguardie impresse dai piani paesaggistici anticipandone la soppressione in vista dell’approvazione del fantomatico “Piano Paesaggistico Regionale” che con i promessi condoni e gli ostacoli frapposti con legge alle demolizioni, promuoveranno altri aspiranti a scranni politici nazionali, regionali e metropolitani. Quella sinistra dormiva pure ai tavoli delle commissioni che hanno predisposto il testo anticostituzionale della norma, accorgendosi dei “pasticci” del centrodestra solo al voto.
Certamente non c’era al tavolo per l’Accordo di Città della scienza nè a quello per l’approvazione del Collegato regionale, il Ministero per i beni culturali, che però c’era (dormiva?) al Consiglio dei ministri d’agosto. Ci si augura che non finga di non esserci davanti ai contenuti dell’Accordo Idis contra leges (decreto di vincolo dello stesso Ministero, legge per la bonifica, piano regolatore), a quelli della pianificazione urbanistica, ai poteri del Commissario e davanti a una legge regionale in contrasto col Codice per i beni culturali, ricordando invece che il Codice ha esautorato la Regione, inadempiente ormai da cinque anni, dai suoi compiti sulla pianificazione dei siti tutelati.
Non ci conforta che nemmeno il Ministero adempia a sostituire l’inerzia della Regione, e piuttosto, oltre che compartecipare alla distruzione del paesaggio per decreto legge, continui inerte a guardare il proliferare di iniziative legislative di un’istituzione che imperterrita calpesta il dettato costituzionale dell’art. 9 che sancisce il primato del paesaggio, sovraordinato a qualsiasi interesse di parte, sistematicamente soddisfatto invece da chi c’era.
E pure da chi sognava di non esserci… .
Roma, Via Giulia. Riemerge una proposta che minaccia di «vanificare una scoperta archeologica, negare il verde pubblico, calpestare la volontà popolare in nome di un maxi-parcheggio (non del tutto) sotterraneo» E la giunta Marino l'approva. Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2014
Nel cuore di Roma, prove tecniche di Sblocca Italia: ovvero come vanificare una scoperta archeologica, negare il verde pubblico, calpestare la volontà popolare in nome di un maxi-parcheggio (non del tutto) sotterraneo. Firmato: giunta Marino e ministero per i Beni culturali. È questa, in estrema sintesi, la prospettiva che si sta concretizzando per un pezzo di una delle vie più famose, belle e importanti del mondo. Qui l'aborto di uno sventramento fascista (1931) aveva lasciato in eredità un vuoto, che la fantasia degli amministratori romani non ha saputo riempire se non progettando di murarci un gran cubo porta-macchine.
I saggi di archeologia preventiva della soprintendenza statale hanno portato, però, a scoperte (di edifici di età augustea: un quartiere termale e soprattutto una rarissima stalla dei cavalli che correvano al circo) che “consentono un sostanziale avanzamento della conoscenza della topografia antica del Campo Marzio e potranno costituire d’ora in avanti un sicuro riferimento per la storia dello sviluppo urbano antico” (così la relazione finale degli scavi).
In un paese normale che si farebbe? Si accoglierebbe finalmente la richiesta dei residenti, che vorrebbero un giardino, e si troverebbe il modo di tenere insieme il verde e l'archeologia. Invece a Roma no: nonostante le severe prescrizioni dell'altra soprintendenza (quella comunale) e del Dipartimento urbanistica del Comune stesso, il 3 luglio scorso la Giunta approva la variante del parcheggio interrato (che poi interrato non sarà). Con la conseguenza che la rampa di accesso dal lungotevere costituirà una profonda trincea, invalicabile dai pedoni, e verrà compromessa la continuità dell’asse tra i rioni Trastevere eRegola. Né sarà più possibile vedere i reperti, che in parte sarannoriseppelliti, in parte trasferiti altrove (!). Non c'è da stupirsi se il 9agosto scorso due associazioni (Coordinamento Residenti Città Storica eCittadinanzattiva Lazio) hanno formalmente diffidato il sindaco “a nonrilasciare il permesso a costruire del parcheggio interrato”. Anche il buonsenso lo diffiderebbe.
Riferimenti
Vedi, su eddyburg, l'articolo di Paolo Grassi del 27 dicembre 2004, quello di Anna Rita Cillis del 17 febbraio 2013 e quello di Tomaso Montanari del 9 marzo 2013, ripresi dalla stampa nazionale nonchè, su carteinregola, la documentata nota di Paolo Gelsomino, del 18 agosto 2014
Come cittadino, mi sento sempre più disadattato. La comunicazione politica mi irrita a causa del suo tenore mistificato e farlocco e nessuno si ribella. Guardate questa. «Bologna. Il 13 settembre si inaugura la Tangenziale della bicicletta .
Sorta di autostrada ancora cinquant’anni fa; oggi collo di bottiglia, specialmente in certe ore e all’altezza di certe porte. Sotto il marciapiede vivono, vivacchiano, sopravvivono o addirittura muoiono le radici di alti ippocastani che spuntano dalle aiuole e svettano verso un cielo raramente limpido. Farebbero un bel vedere in generale e anche ombra durante l’estate se non fossero ridotti alle condizioni di malati al Lazzaretto. Quando erano più in salute, lungo questo marciapiede capitava di passeggiare e di fermarsi a bere qualcosa o mangiare angurie e gelati presso uno dei tanti chioschi aperti nella bella stagione. Vi ricorda qualcosa il nome di Oliviero? Uno di quei chioschi ebbe un momento di notorietà nazionale quando negli anni ’80 Michele Serra dirigeva Cuore. Nella rubrica "Botteghe oscure", dedicata ad esercizi commerciali stravaganti anche solo nel nome, fu segnalata la Cocomerhouse, dove talvolta anche chi scrive, in una torrida e afosa notte felsinea, andò a rinfrescarsi materia e spirito.
Già molto ma molto tempo prima che l’aggettivo «verde» si applicasse alle teorie e alle pratiche ecologiche, quei viali erano percorsi da filobus elettrici frequenti, silenziosi e confortevoli; gioia per noi che non avevamo tante macchine e per gli ippocastani che si avvelenavano molto meno di oggi, ricambiando la loro gratitudine sul piano estetico.
Quel che successe in città dopo gli anni ’70 sul piano politico, amministrativo e sociale voglio soltanto accennarlo. Sarà stata la fine dell’«Età dell’oro del capitalismo», come la chiama J.Hobsbawm, sarà stato il ’77, saranno state la massoneria, le banche, le coop e la curia, sta di fatto che Bologna, da allegra e attraente che era, si è sempre più avvicinata alla definizione che ne diede anni fa il suo vescovo, quella di città «sazia e disperata». Dal sindaco Zangheri al sindaco Vitali l’aderenza delle amministrazioni ai movimenti sociali innovativi, nonché la loro credibilità politica, hanno raggiunto un livello disperante di credibilità. E se ciò che era stato promesso e impostato negli anni ’70 – Cervellati sull’urbanistica, Loperfido, Rebecchi e Ancona sul piano sociosanitario, ecc – non fu poi realizzato se non in parte, ciò fu dovuto alla sconfitta più generale della strategia delle riforme in Italia. Al contrario, quel che avvenne a partire dagli anni ’80 furono annunci roboanti, sul proscenio della politica parlata, e trattative e accordi dietro le quinte fra i poteri forti. Proviamo ad evocare.
1. Referendum nel 1984 sulla pedonalizzazione del centro storico. Favorevoli: 70%; applicazione: non pervenuta.
2. Annuncio della costruzione della metropolitana nel 1987. Oggi si fa ancora fatica a mandare avanti il progetto di sistema ferroviario metropolitano, con tutti i binari che corrono sul territorio comunale.
3. Alla fine del 1987 il rettore di Unibo Fabio Roversi Monaco annuncia la celebrazione del nono centenario dell’ateneo che si articolerà durante tutto l’anno successivo. Fu l’occasione che sancì la fine del centro storico come quartiere residenziale e il suo avvio a divenire «cittadella» degli studi, del divertimento, ecc. E oggi persino gli uffici comunali sono stati spostati in sede periferica.
E i nostri viali di circonvallazione? Qualcuno mi dovrebbe spiegare come mai, dinanzi alla previsione dell’ovvio, ossia l’aumento esponenziale del traffico automobilistico, mai seriamente contrastato da una politica incentivatrice del mezzo pubblico, nessuno abbia mai fatto nulla, salvo tagliare ogni tanto qualche albero ammalato. Non so cosa abbiano fatto gli studiosi, ma certo i politici non se ne sono dati pena. Nella nuova situazione di intasamento e inquinamento, chi ha potuto (chioschi e prostitute) si è spostato altrove; chi non ha potuto (gli alberi) attende sconsolatamente la sua fine.
La così proclamata «Tangenziale della bicicletta» corre proprio sul letto di morte di questi alberi. Il che è triste di per sé. Ma ancor più triste è rendersi conto della follia che deve aver colto qualche nostro amministratore. Al quale vorrei ricordare quanto avveniva nelle vecchie miniere di carbone. Si teneva un animale, cane o uccellino in gabbia. E quando lo si vedeva stramazzare, questo era il segno che ci si doveva rapidamente togliere da lì. Mancava l’ossigeno. Ora, non ci dice niente la sofferenza degli ippocastani? E che altro dovrebbe dirci se non il fatto che lungo i nostri viali di circonvallazione manca l’ossigeno? Ebbene, proprio lungo un percorso caratterizzato da deficit di ossigeno e dalla sovrabbondanza di gas derivati dalla combustione dei motori, lungo un percorso così si chiede a degli esseri umani di produrre lo sforzo supplementare del pedalare respirando quell’aria.
Magari fra dieci anni, a fronte di un aumento delle affezioni polmonari, benigne e persino maligne, qualcuno produrrà risultati statistici e qualcun altro farà la scena di tirarsi una secchiata d’acqua facendo finta di essere molto sensibile ai temi della ricerca. A questo qualcun altro la secchiata dovremmo tirarla noi e subito. Ma non di acqua...
P.S. – Mi dite perché chiamare tangenziale una cosa che tangenziale non è? Non sarà per via delle tangenti? Ma no, cosa vai a pensare!
Ma i politici (gli eletti) avrebbero dovuto avere due requisiti, che oggi sono del tutto assenti: la capacità di una visione di lungo periodo, centrata sull’obiettivo del benessere degli abitanti, a partire dai più deboli, e quella di scegliere gli strumenti adatti. Due di questi, particolarmente utili, sono oggi addirittura in via di liquidazione: una buona “burocrazia “, cioè un apparato tecnico-amministrativo motivato, capace, autorevole, e il ricorso sistematico al metodo della pianificazione, cioè dell’unico metodo di rispondere in modo efficace e trasparente a un insieme di problemi le cui soluzioni sono interconnesse.
La Repubblica, 31 agosto 2014. Postilla
«I privati nella gestione dei musei? Non certo in quelli grandi, ma laddove lo Stato non riesce a garantire l’apertura, la possibilità di visita e la custodia». Quindi nessuno dei venti siti d’arte, come gli Uffizi, Brera o Capodimonte, che avranno una spiccata autonomia e direttori scelti con concorso? «Nessuno di quelli. Fra i modelli possibili ci sono anche le fondazioni, come l’Egizio di Torino, dove pubblico e privato collaborano. Ma anche il Porto di Traiano, vicino a Fiumicino». Dario Franceschini prova ad attenuare la portata dell’ingresso di privati nella conduzione dei musei. E alla richiesta esplicita di fare un esempio di un luogo da affidare a un soggetto non pubblico si tira indietro.
Gestione di musei non più affidata alle soprintendenze. Abolizione delle soprintendenze storico-artistiche. Porte aperte ai privati (ma tutto da vedere dove e come). Sono i punti cardine della riforma. E anche quelli sui quali si concentrano le critiche. Le sintetizza Vezio De Lucia, presidente dell’associazione Bianchi Bandinelli: «Il ministro doveva potenziare le strutture periferiche che fanno la tutela sul campo e alleggerire la burocrazia centrale. È successo l’opposto: nascono nuove direzioni generali. Siamo poi contrari a sopprimere le soprintendenze storico-artistiche: è un appiattimento di competenze grave. Come grave è la rottura del legame fra soprintendenze e musei, un punto di forza del nostro patrimonio, che rimanda al rapporto fra storia e paesaggio. In fondo si rende la struttura del ministero sempre meno rispondente alle sue finalità scientifiche e più influenzabile dal potere politico».
Alla riforma del ministero De Lucia affianca alcuni aspetti del decreto Sblocca Italia. Anche in questo caso non c’è un testo definitivo, ma alcuni passaggi preoccupano: «Per le Grandi Opere sono nettamente abbassati i poteri di controllo e di tutela paesaggistica: si stabilisce che un soprintendente ha tempo 30 giorni, in un caso addirittura 15, per dare il suo parere. Se non ce la fa, vale l’assenso. Con le soprintendenze ridotte come sono ridotte, questo è mostruoso: il ministro Lupi realizza la filosofia berlusconiana».
Un progetto che resta fortemente osteggiato da un fronte decisamente eterogeneo, che spazia dai competitors Caltagirone e Bonifaci, che dalle colonne dei quotidiani di proprietà sparano a zero sulla proposta della A.S Roma e della Eurnova di Parnasi, ai politici soprattutto di centrosinistra, alle associazioni ambientaliste. E se noi continuiamo a non essere affatto convinti dell’operazione, dobbiamo dire che non ci convincono neanche le tante “conversioni” alla causa, a partire da quella dell’editore del Messaggero. E, come al solito, continuiamo a ragionare sui fatti e sui dati, sgombrando il dalle strumentalizzazioni, e soprattutto ponendo le domande indispensabili per capire come stanno davvero le cose.
Ma fin da ora rivolgiamo un nuovo appello al Sindaco affinchè “fermi la macchina” e sospenda la decisione sul pubblico interesse della proposta, avviando immediatamente un confronto con tutte le istituzioni – compresi i Municipi – e soprattutto con la città, intesa come cittadini e realtà dei territori. In ballo non c’è la messa in sicurezza di un impianto sportivo di provincia, ma un’operazione urbanistica e immobiliare di grande portata, che interessa una consistente fetta di territorio della Capitale d’Italia. E che è anche il primo “banco di prova” di una iniziativa legislativa del Governo Letta assolutamente inaccettabile, che consiste in due commi ambigui e generici, che sono già stati interpretati in maniera opposta da diversi esponenti della stessa maggioranza.
Un appello perché:
Chiediamo a Ignazio Marino di utilizzare tutta la sua autorevolezza di Sindaco di Roma Capitale per chiedere al Presidente Matteo Renzi di garantire l’interesse della nostra città: per regolare un progetto complesso come quello della costruzione e della sostenibilità economica di uno stadio è necessaria una legge dedicata, esaustiva e soprattutto univoca. Sul fronte dell’urbanistica, Roma ha già pagato altissimi prezzi, con focolai di insostenibilità sparsi in ogni municipio, a cui l’assessore Caudo lavora instancabilmente da più di un anno, per rilanciare un’altra idea di città. Continuiamo su questo percorso. Cambiamo tutto, insieme ai cittadini.
Pare un trafiletto di locale, forse lo è, ma di sicuro indica un possibile ribaltamento storico di tendenza: la progressiva colmata della greenbelt metropolitana non è più un dogma urbanistico. La Repubblica Milano, 27 agosto 2014, con postilla (f.b.)
È stata una piccola festa con tanto di brindisi quella che ha celebrato la fine di un contenzioso lungo 32 anni con la proprietà Ligresti e, soprattutto, l’inizio di un nuova storia che vuole scrivere Palazzo Marino. Perché, dopo tre decenni di timori che su questo pezzo di Parco Sud calasse il cemento, da ieri la cascina Campazzo è passata al Comune. Che, adesso, punta alla riqualificazione dell’edificio e alla «creazione del parco agricolo Ticinello di oltre 90 ettari».
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| Il cuneo verde di cui si parla è quello più a sinistra |
A scrivere la parola fine è stata la decisione del Tar della Lombardia che ha respinto le richieste di sospensiva avanzate dalla proprietà dell’immobile contro due provvedimenti dell’amministrazione comunale: il decreto di esproprio dell’11 dicembre 2013 e l’avviso di esecuzione del decreto del 20 maggio 2014. «È una vittoria della città e degli agricoltori — ha dichiarato il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — resa possibile grazie alla modifica del Piano di governo del territorio: non abbiamo mai accettato di barattare questo simbolo dell’agricoltura milanese con i tentativi di speculazione sul parco, e abbiamo difeso l’attività agricola che è parte fondamentale dell’identità della nostra città».
Il Comune è già intervenuto per mettere in sicurezza la cascina, in attesa che partano i lavori di ristrutturazione. Il recupero della cascina Campazzo, dove da sessant’anni vive e lavora la famiglia di Andrea Falappi, il presidente del Distretto agricolo milanese, si affianca alla realizzazione del parco Ticinello. «Finalmente giunge a conclusione una vicenda nata nel 1982. Si è fatta giustizia », ha detto il presidente di Zona 5, Aldo Ugliano.
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| Il terreno appena a sud della cascina. Foto F. Bottini |
postilla
Se 90 ettari vi sembrano pochi, ma resterebbe una questione comunque puntuale, non fosse per il nome di Salvatore Ligresti, e il suo marchio su tante altre cose che a quei 90 ettari stanno attorno, ovvero la grande greenbelt agricola metropolitana che proprio questa superficie relativamente piccola articola in un cuneo, dall'anticamera della zona delle prime risaie a ridosso della zona urbana densa, ovvero la circonvallazione esterna distante un tiro di sasso dall'edificio della cascina. Ligresti è uno di quei tizi che dicono “a che serve il piano regolatore, noi sappiamo regolarci benissimo da soli”, e quel regolarsi da soli si è chiamato per un certo periodo urbanistica contrattata, per un altro periodo urbanistica tout court, quella del non-piano che cambiava per legge allo spuntare di un nuovo progettone degli amici degli amici che avevano la grossa idea, più o meno sempre la stessa. Il famigerato Centro Ricerche Biomediche di Umberto Veronesi starebbe sulla medesima linea di attacco alla greenbelt (60 ettari) poco più a est. Giusto in fregio ai terreni appena salvati dalla decisione del Tribunale, si profilano i palazzoni di uno di quei progetti storici che hanno fatto da modello ai successivi Piani Integrati di Maurizio Lupi, l'asse di via dei Missaglia, triste caricatura di un altro quartiere, stavolta incolpevolmente razionalista anni '50, il Gratosoglio, giusto lì di fronte, quando la fame di case era vera. Dopo la sentenza del Tar, verrebbe voglia di tirar fuori il solito Cuneo Rosso di El Lisitskij, ma qui non siamo nell'ambiente facilone di Facebook, e si auspica invece che anche gli altri progetti strampalati dell'ex deus ex machina della trasformazione urbana a vanvera non facciano troppi danni. Mentre la questione greenbelt ahimè con le ultime opere Expo si allarga a territori più vasti, ma questa è un'altra storia (f.b.)
Chi riuscirà a diventare più ricco e potente sfruttando gli errori compiuti da amministratori pubblici incapaci e impunibili? Non c’è che da aspettare e vedere. Il Fatto quotidiano, 21 agosto 2014
Non ci sarà, prevedibilmente, una folla di pretendenti né una corsa per arrivare primi. Perché le condizioni sono buone per il bene comune, ma praticamente improponibili per un privato. Secondo il bando, avrà l’area l’operatore (o il gruppo di operatori) che ci metterà almeno 315,4 milioni di euro, non un centesimo di meno, gradita qualche cosa in più. Poi però non potrà farci quello che vuole: dovrà lasciare a parco metà dell’area (440 mila metri quadrati); quanto al resto (480 mila metri quadrati, comunque sufficienti a costruirci l’ennesimo quartiere), dovrà edificare il meno possibile, mischiando residenza, uffici, spazi produttivi e negozi (ma non un grande centro commerciale: al massimo 2500 metri quadrati). Preferite opere di uso pubblico, tipo il nuovo stadio del Milan, la cittadella dello sport, un nuovo centro di produzione della Rai e attività che abbiano a che fare con il tema Expo, cioè il cibo, l’agricoltura, l’ambiente.
Non solo: dovrà pure aspettare che, nel 2016 o nel 2017, siano i Consigli comunali di Milano e Rho ad approvare – se e come vorranno – i piani urbanistici. Più che un operatore, si cerca un santo. Disposto a lavare a sue spese il peccato originale di Expo: quello di essere stato localizzato (dall’ex sindaco Letizia Moratti e dall’ex presidente Roberto Formigoni) su un’area privata. Pagata a caro prezzo da Comune e Regione, con la necessità, a cose fatte, di far rientrare i soldi (nostri). Si poteva fare su un terreno pubblico? Sì: sull’area Porto di Mare, o alla Bovisa. Invece Formigoni ha imposto quell’area sbilenca a nord-ovest di Milano chiusa tra due autostrade, il carcere di Bollate e il cimitero di Musocco. Perché? Perché era in gran parte della Fondazione Fiera (ai tempi della scelta controllata dai ciellini formigoniani) che aveva i conti in rosso: con l’operazione Expo li ha sistemati.
A questo proposito, bisogna dire che alla conferenza stampa di presentazione del bando si è distinto proprio il rappresentante della Fiera, Corrado Peraboni (ieri leghista, oggi forse ex leghista, sempre certamente peraboniano). Mentre il vicesindaco di Milano, Ada Lucia De Cesaris, si è laicamente appellata all’ottimismo della volontà (abbiamo ereditato questa situazione, dobbiamo cercare di uscirne vivi) e il presidente della Regione Roberto Maroni ha fatto trapelare un certo distacco (stiamo a vedere che cosa succederà), Peraboni è venuto a farci la morale, sostenendo che deve prevalere l’interesse pubblico: proprio lui che rappresenta la Fondazione che è all’origine di questo pasticcio e che, in pieno conflitto d’interessi, ha venduto a se stessa (in quanto socio di Arexpo) le sue aree per rimettere in sesto i conti disastrati. È come se Diabolik facesse uno spot contro i furti di diamanti. O se Schettino fosse chiamato, che so, a far lezione all’università.
La Repubblica, 18 agosto 2014
Scambiati per costosi soprammobili, i Bronzi di Riace sono periodicamente invitati al trasloco in occasione di incontri internazionali, esposizioni commerciali e altri “grandi eventi”, dove — vuole la leggenda — innalzerebbero di botto il prestigio nazionale. facendo così dimenticare a politici e banchieri assai sospettosi dell’Italia il debito pubblico, la recessione, la disoccupazione, la devastazione dei paesaggi, l’evasione fiscale, il declino della scuola, dell’università, della ricerca.
L’idea di un’opera iconica che riassuma le meraviglie d’Italia scatenando vuote vanterie si estende ad altre celebrità, per esempio il Davide di Donatello, trascinato qualche anno fa alla Fiera di Milano. E non è poi tanto lontana l’insistenza di Berlusconi che, deportando i Bronzi alla Maddalena per il G8, sperava di recuperare qualche grammo di credibilità. Queste ostensioni fuori contesto hanno un vantaggio: evitano sia a chi le fa sia ai visitatori la tentazione di pensare. Davanti alle icone, infatti, non si pensa, si venera, esaltando la bellezza, magari come l’equivalente di un giacimento di petrolio, con conseguenti introiti.
In restauro per anni, i Bronzi di Riace sono stati visibili poco o niente, e solo da qualche mese sono di nuovo in vista: ragione sufficiente per non smuoverli dai loro piedistalli antisismici, nonché per rinnovare strategie espositive e attrattive. Di fronte alle proposte di spedirli a Milano per l’Expo, Franceschini parla di una commissione ad hoc: ma il suo ministero ha un organo tecnico, l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, che è in grado di fornirgli domattina tutta la documentazione necessaria (e che già si oppose ad altre peregrinazioni dei Bronzi). Ma quel che l’Istituto (o qualsivoglia commissione di esperti) dirà è scontato: sono tanto preziosi e vulnerabili che meno si muovono meglio è.
Eppure non è tutto qui. Davanti a una sgangherata industria delle mostre, chiediamoci: dato che ogni movimento comporta rischi, quando vale la pena di muovere un’opera d’arte per una mostra? Farsi questa domanda ha uno svantaggio: obbliga a pensare. Anche se ci hanno già pensato in molti, per esempio Quatremère de Quincy, con la sua folgorante osservazione (1796) che perfino un quadro di Raffaello, se fuori contesto, non dice nulla, perché non è una reliquia, come un frammento della Croce, che possa «comunicare le virtù legate all’insieme ». Le mostre servono solo se creano trame di relazioni accostando opere normalmente lontane. Servono se nascono da un progetto, da una ricerca; se comportano acquisti di conoscenza sia per gli esperti che per il pubblico.
Questa regola non vale solo per i capolavori supremi (come i Bronzi), ma per qualsiasi opera d’arte. Perché il nostro patrimonio culturale non è una collezione di icone ma un deposito di memoria culturale. È ingranaggio essenziale di un diritto alla cultura oggi mortificato in ogni suo aspetto, dalla scuola al teatro. Inutile, anzi controproducente usare i Bronzi come paravento per nascondere l’indifferenza dei governi ai temi della cultura. Se davvero vogliamo avere qualcosa di cui vantarci all’Expo, meno icone e più fatti. A Franceschini auguriamo che riesca davvero, come ha dichiarato a Repubblica , a raddoppiare i finanziamenti al suo ministero nella prossima legge di stabilità. Non si farebbe che tornare ai livelli del 2008, quando Tremonti li dimezzò, fra grandi proteste della sinistra, che però finora non vi ha posto alcun rimedio. Proprio perché vetrina d’Italia, l’Expo può essere l’occasione di investire sul nostro patrimonio, e non di sbandierare icone.
Il fatto quotidiano, dai blog, 16 agosto 2014
“Il colmo è che si bloccano i lavori perché si trovano dei reperti archeologici. Questo è un paradosso. In tutto il mondo le risultanze degli scavi archeologici permettono ai passeggeri delle metropolitane di godere di cose delle quale altrimenti non avrebbero potuto vedere. Torino, Roma con l’operazione della linea C, e Palermo sono realtà che accederanno al finanziamento delle linee metropolitane”. Renzi lo ha dichiarato a Napoli nel bel mezzo del suo tour al Sud. L’ormai famoso Decreto sblocca-Italia passa anche da questo. E’ ormai chiaro. Le Soprintendenze dovranno dare l’autorizzazione paesaggistica in tempi certi o scatteranno procedure sostitutive. Non solo. Per la conferenza di servizi si sta mettendo a punto una norma che superi il dissenso e la definizione in termini di validità per la raccolta degli atti. Con questo capitolo l’Italia delle opere ferme al palo scatterà in avanti. Si sistemerà quanto già iniziato. Soprattutto, si creeranno le condizioni perché i tempi previsti per i cantieri non siano solo un auspicio destinato ad essere deluso.
Il programma di Renzi non ammette intoppi. Le lungaggini vanno superate con un decisionismo improntato al “tutto e subito”. Vanno spezzate catene che hanno impedito per troppo tempo di avanzare nel cambiamento. Di produrre futuro. Troppi cantieri dal Veneto alla Sicilia hanno subito le politiche imposte dalle Soprintendenze. Con il risultato che indagini archeologiche, nelle intenzioni preliminari, hanno finito per diventare scavi interminabili. Che hanno comportato non solo la sospensione dell’opera di turno da realizzare, ma anche una lievitazione senza misura dei costi. Renzi ritiene che queste siano le procedure che in tanti casi hanno decretato il “non finito” che si vede in ogni angolo d’Italia. Questo il dato certo. A differenza di quel che riguarda gli elementi che debbono avergli suggerito questa posizione, per così dire, critica.
Perché è vero che si possono richiamare esempi di situazioni nelle quali le Soprintendenze, a partire da quelle archeologiche, hanno assunto un atteggiamento oltremodo intransigente. Verrebbe da dire, zelante oltre misura. Ma è pur vero che quei casi estremi costituiscono un numero ben esiguo rispetto a quelli nei quali si è solamente tentato di non far cancellare, impunemente, testimonianze di estremo rilievo. Senza contare le circostanze, tutt’altro che episodiche, nelle quali l’archeologia, a dispetto di quanto identificato, è stata trattata senza alcun riguardo. Necropoli e singole tombe, strade basolate e semplici tracciati “battuti”, edifici termali e impianti produttivi, villae e luoghi di culto, vaste opere di bonifica idraulica e più modesti sistemi di smaltimento e/o irregimentazione delle acque. Non esiste città italiana o parte di territorio che non abbia sacrificato frammenti della sua Storia alla costruzione di nuovi quartieri e infrastrutture viarie.
A Roma, la realizzazione di Tor Bella Monaca ha cancellato quasi completamente il popolamento antico del centro di Collatia, noto attraverso le ricerche di Lorenzo Quilici e più recentemente la stessa sorte è toccata a la Bufalotta, costruita su una parte di territorio dell’antica Fidenae. Che dire poi dei Colli Albani, zona residenziale a breve distanza da Roma, nella quale il fenomeno soprattutto delle seconde case, ha fatto quasi tabula rasa del sistema di insediamenti sviluppatosi in età romana? Per decenni i ritrovamenti occasionali, hanno costituito un trascurabile “spauracchio”.
Poi con l’archeologia preventiva le cose sono un po’ cambiate. Ma il suo potere, generalmente, ha continuato ad essere oltremodo marginale. Come detto, a parte pochi, circoscritti, casi. Semmai è vero che in non poche occasioni l’archeologia è diventata una sorta di pretesto. Il parafulmine sul quale scaricare ogni colpa. Il sistema italiano ha prodotto l’infinità di cantieri avviati e mai terminati. Non certo il potere dell’archeologia. Se non fosse così la lista di strade e ponti, palazzetti dello sport, teatri, parcheggi e ospedali e molto altro sarebbe risultata meno lunga. Se non fosse così nel capitolo “Territorio e reti” del Rapporto 2013 del Censis, una parte importante non sarebbe stata dedicata “ai ritardi ed alle incompiutezze ed al lungo travaglio dei grandi progetti urbani all’epoca della crisi”.
Il rapporto descrive ventidue casi esemplari, dimenticandone altri importanti come quello romano di Acilia, in cui i lavori non sono mai partiti o si sono interrotti o i progetti sono rimasti sulla carta. In quei casi nessun ritrovamento archeologico è intervenuto a sovvertire cronoprogrammi o a mandare fuori controllo le risorse stanziate. Così appare fuorviante ritenere che la linea C della metro romana viaggi tra ritardi ed incertezze a causa delle indagini archeologiche. Che, a parte il caso di piazza Venezia dove si sono scoperti i resti del cosiddetto auditorium di Adriano, non risulta abbiano costretto a sostanziali modifiche del progetto iniziale. Nonostante in alcune circostanze i rinvenimenti siano stati tutt’altro che trascurabili. Come accaduto per esempio nel cantiere di via La Spezia.
Renzi ha ragione a sostenere che solo grazie agli scavi per la Metro quei documenti del passato sono riapparsi. Ma non si può negare che ogni scavo è a tutti gli effetti un’operazione distruttiva. Proprio per questo motivo sembra improprio voler intervenire sulle modalità e i tempi delle indagini. Senza contare che tutto questo sembra essere in contraddizione con una delle norme che dovrebbero entrare nello sblocca-Italia. La disciplina per agevolare la valorizzazione dei beni archeologici che vengono ritrovati durante gli scavi o i lavori di opere pubbliche. Il timore che la valorizzazione non preveda che una tutela parziale di quanto ritrovato, è forte. Una tutela peraltro nella quale il discrimine tra bene da conservare e quello da consegnare alle ruspe appare indefinito. La sensazione è che, aldilà delle nuove regole, a difettare sia la cultura del Paese. La capacità di decidere con uniforme serietà.
Alcuni giorni fa, in un’intervista al Financial Times, l’ex sindaco di Firenze, ha dichiarato, “Il Paese non l’ho distrutto io, non faccio parte del sistema”. In questi decenni nei quali il Paese si è arricchito di ponti sospesi nel nulla, di ospedali completati ma mai entrati in funzione, di dighe interrotte a metà, della Salerno-Reggio Calabria un cantiere mai finito, il “sistema”, secondo la definizione del segretario del Pd, si è quasi uniformemente schierato contro l’archeologia. Additando nelle ricerche scaturite dai rinvenimenti, il motivo di ritardi e interruzioni. Per essere davvero “un uomo solo”, come si definisce Renzi, il suo un atteggiamento, almeno in questo settore, appare abbastanza allineato.
La Repubblica, 15 agosto 2014 (m.p.r.)
Riferimenti: si veda su eddyburg di Tomaso Montanari Franceschini alla Cultura sulle orme di De Michelis e Dario Franceschini. La cultura non cambia verso, Riforma dei Beni culturali: Renzi contro Franceschini. La posta in gioco e la rassegna Rendere ogni luogo uguale a ogni altro: così qualcuno diventa più ricco con gli articoli di Davide Vecchi e Montanari. Col cerca numerosi altri scritti nella cartella Beni culturali
Il manifesto, 14 agosto 2014 (m.p.g.)
«La Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze presenta Giardini del Granduca. Una nuova eau de toilette». Con un po' di autoironia, il profumo avrebbero potuto chiamarlo Pecunia olet: il Polo museale fiorentino è da tempo l'avamposto della mercificazione del patrimonio culturale. Cristina Acidini, la soprintendente che lo guida, ha dichiarato che «attraverso questo profumo, composto sapientemente con note ispirate alla coltivata natura dei giardini storici di Firenze e Toscana, si entra in contatto diretto con la memoria della dinastia dei Medici».
Il marketing è la specialità della casa: il Polo Museale Fiorentino è noto per il tariffario con cui noleggia ai ricchi il proprio inestimabile patrimonio, dalla sfilata di moda agli Uffizi (per celebrare il neocolonialismo!) alle cene sotto il David di Michelangelo, a infiniti altri eventi letteralmente esclusivi. E gli Uffizi sono perennemente invasi da una folla due o tre volte superiore ai limiti di sicurezza: un irresponsabile azzardo che dipende anche dal fatto che la bigliettazione del museo è stata data in appalto al gruppo Civita Cultura, il cui presidente è Luigi Abete (quello della sovraordinata Associazione Civita è Gianni Letta). E anche il portavoce della Acidini è un dipendente di Civita: un giornalista già del «Giornale» nell'edizione della Toscana (proprietà di Denis Verdini).Il creatore di questo opaco ipermercato del patrimonio culturale è Antonio Paolucci, predecessore e mentore di Cristina Acidini. Il quale, dopo aver rivendicato la creazione del sistema delle mostre blockbuster (autodefinendosi il «movimentatore massimo» di opere d'arte), dirige oggi – commercialissimamente – i Musei Vaticani. Da ministro per i Beni culturali del governo Dini, fu proprio Paolucci (col decreto legge 41/1995) ad allargare a dismisura i servizi aggiuntivi che la Legge Ronchey aveva da poco permesso di dare in concessione ai privati, includendovi l'editoria e l'organizzazione di mostre. Iniziò così la vera privatizzazione della storia dell'arte: e oggi Paolucci presiede il comitato scientifico del primo concessionario italiano (sempre Civita), nella migliore tradizione lobbista dello scambio di ruoli.
A molti piace così: pochi giorni fa perfino il presidente di Italia Nostra ha invitato Dario Franceschini a tener giù le mani dall'«attuale assetto del Polo Museale Fiorentino ... esempio mirabile di tutela, valorizzazione e di gestione alla luce degli importanti risultati - 20 milioni di euro di incassi all'anno». La riorganizzazione del Mibact si propone, infatti, di smontare i lucrosi luna park dei poli museali, e di restituire ai musei la capacità di fare da soli tutto ciò che Paolucci affidò ai privati. Non a caso il primo nome sotto l'appello che cerca di fermare il ministro è proprio quello di Paolucci.Ma la difesa dello stato delle cose ha preso una via anche più cinica. I giornali fiorentini hanno scritto che Acidini avrebbe fatto notare a Matteo Renzi che la riforma non taglia affatto le unghie alle soprintendenze territoriali (e dunque non sblocca affatto l'Italia, nel senso cementizio e maniliberista caro al premier), ma rischia invece di uccidere la gallina fiorentina dalle uova d'oro. E se Renzi dice che «gli Uffizi sono un macchina da soldi», è perché è questo che egli ha imparato dal modello fiorentino: i conflitti che da sindaco l'hanno opposto ai vertici del Polo furono dovuti ad una competizione per la gestione della slot machine, non certo ad una divergenza ideologica.
E infatti il premier ha appena rinviato, per l'ennesima volta, l'arrivo della riforma in consiglio dei ministri, di fatto rimandando a settembre un umiliatissimo Franceschini: colpito dal fuoco opposto e incrociato del suo presidente del Consiglio e degli storici dell'arte, archeologi e architetti che (in circa trecento) hanno seguito Paolucci.Contro la riorganizzazone si sono pronunciati anche l'Associazione Bianchi Bandinelli, Vittorio Emiliani, Pier Giovanni Guzzo e, su queste pagine, Alberto Asor Rosa: l'accusa principale è quella di «smantellare le soprintendenze». Ma, a leggere il testo, di un simile smantellamento non si trova alcuna traccia: ed è proprio per questo che Renzi (che ha scritto: «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario italiano») non si decide ad approvarla.
Carlo Ginzburg (che ha firmato l'appello subito dopo Paolucci) ha scritto su «Repubblica» che «il presidente del consiglio, insiste — così ci viene detto — perché nel decreto legge venga inclusa una clausola che gli sta particolarmente a cuore. Essa dovrebbe consentire ai Comuni di aggirare l’eventuale divieto di costruzione formulato dalle soprintendenze appellandosi a una commissione generale che dovrà decidere in termini brevissimi. Il silenzio di queste commissioni, che è facile immaginare sommerse da una marea di richieste e di ricorsi, verrà interpretato come assenso». Ora, tutte le bozze circolate dicono esattamente il contrario. Le varie amministrazioni locali potranno, sì, chiedere la revisione dei provvedimenti delle singole soprintendenze: ma acommissioni regionali formate dagli stessi soprintendenti della regione, compreso colui che ha emanato l'atto contestato. E se non lo chiedono entro dieci giorni, il provvedimento è confermato. Si tratta, cioè, di una collegializzazione del potere monocratico dei soprintendenti: si potrà non essere d'accordo, ma non c'è nulla di ciò che scrive Ginzburg.
Un altro punto contestatissimo è l'unificazione delle soprintendenze architettoniche con quelle storico-artistiche. È un passo impegnativo, ma la direzione è giusta, perché mira ad evitare quello scollamento amministrativo che fa sì che – per dire – si restaurino gli affreschi di una cupola prima di rifarne la copertura esterna (è accaduto, per esempio, a Sant'Andrea della Valle a Roma). I miei colleghi storici dell'arte si oppongono per ragioni corporative: temono che le soprintendenze uniche saranno guidate solo da architetti. Ciò non deve succedere, ma non ci si può opporre ad un provvedimento giusto perché si teme che venga gestito male.
Personalmente ho, dunque, un giudizio moderatamente positivo della riorganizzazione: ma non sono un giudice neutrale, perché ho fatto parte della commissione che preparò la riforma voluta da Massimo Bray, la quale è stata in buona misura ripresa e sviluppata da quella di Franceschini. Quest'ultima ha il grandissimo limite di essere a costo zero, e non mancano punti discutibili (per esempio l'ipertrofia del quartiere generale romano): ma ha anche aspetti felicemente innovativi (lo svuotamento delle direzioni regionali, l'autonomia di alcuni grandi musei, l'unificazione delle soprintendenze architettoniche e storico-artistiche), e perfino tratti sorprendentemente di sinistra (la creazione di una direzione per l'educazione al patrimonio, e di una per le periferie urbane).
Comunque la si pensi, infine, trovo singolare che chi dovrebbe aver interiorizzato gli strumenti della filologia scriva di un testo senza averlo letto, o senza comprenderlo. Il risultato è questa imbarazzante alleanza tra gli amici delle soprintendenze e il loro massimo nemico, Matteo Renzi. Un'alleanza che ha un sapore strano: anzi, che ha il profumo dei Giardini del Granduca.
Mentre il Comune spazza strade e nasconde rifiuti per apparire pulito al passaggio mediatico del Principe (ai più vecchi torna alla mente il percorso di trionfante cartapesta che allietò il passaggio di Hitler e Mussolini nel 1938), qualcuno ricorda una storia di usurpazione di bene pubblico per il quale il popolo si batte dai giorni del Rinascimento napoletano. Il Mattino, 14 agosto 2014
È stato occupato ieri il cantiere di Corporea a Città della Scienza: un gruppo di manifestanti del Comitato “Una spiaggia per tutti” ha protestato contro la firma dell’accordo per la ricostruzione di Città della Scienza e la bonifica di Bagnoli, prevista per questa mattina in occasione della visita a Napoli del premier Matteo Renzi. Sulle impalcature sono stati affissi degli striscioni con le scritte: “Renzi and Co 'Stateve a Casa” e “Stop Speculazioni e privatizzazioni a Bagnoli”. Mentre un gruppo di manifestanti si è arrampicato sulle impalcature, altre persone hanno effettuato un volantinaggio per spiegare le ragioni della protesta. “Non si può ricostruire sull’area destinata a spiaggia pubblica - dicono Massimo Di Dato dell’Assise per Bagnoli e Domenico di Bancarotta, centro sociale poco distante dal cantiere Corporea - Città della Scienza va trasferita come prescrivono le leggi, i piani urbanistici e la delibera firmata da 13mila napoletani e approvata due anni fa dal consiglio comunale”. Tra i motivi della protesta anche le modalità della firma, che avviene alla vigilia Ferragosto cosa che, a loro avviso, avviene “senza una discussione in Consiglio, che la Giunta ci ha rifiutato”.
se arrivassero soldi pubblici meglio adeguare l'Aurelia". Il manifesto, 14 agosto 2014
Nella interminabile partita a scacchi sull’autostrada tirrenica, le associazioni ambientaliste battono il ferro finché è caldo. A Festambiente presentano un nuovo documento, teso a dimostrare l’insostenibilità, anche economica, della grande opera. In direzione ostinata e contraria rispetto a un governo che in parlamento, per bocca del ministro Lupi, ha confermato l’impegno a trovare risorse pubbliche nello “Sblocca Italia” per dare gambe al maxi progetto. In ballo ci sono ben 270 milioni di euro chiesti dalla concessionaria Sat (Società autostrade toscane), che lamenta crescenti difficoltà, e però non ancora trovati dall’esecutivo guidato da Matteo Renzi. “A questo punto – lancia l’idea il patròn di Festambiente, Angelo Gentili — se finanziamento pubblico deve essere, questo serva per mettere in sicurezza e adeguare l’Aurelia da Ansedonia a Grosseto sud”.
Sul tema dell’autotirrenica l’associazionismo ambientalista è da sempre compatto. Con Legambiente, rappresentata anche da Edoardo Zanchini, ci sono Stefano Lenzi del Wwf, Valentino Podestà della Rete dei comitati a difesa del territorio, Anna Donati di Green Italia, e ancora il Fai, l’associazione Bianchi Bandinelli e il maremmano “Comitato per la bellezza”. Forte di un consenso popolare mai scemato negli anni, e con l’appoggio delle forze politiche di sinistra, da Sel a Rifondazione, il fronte anti-autostrada ha dalla sua anche la forza dei numeri: “I dati di traffico reali sul percorso, diminuiti rispetto al 2010 a causa della crisi economica e tornati circa ai livelli del 2000, non giustificano in alcun modo la realizzazione di una autostrada, anche con la prospettiva di una ripresa economica che invece ancora non c’è”. A seguire la cifre: “Nel 2010 il progetto presentato dalla Sat partiva da un traffico giornaliero medio esistente di 19.900 veicoli al giorno. Ma dai bilanci della concessionaria scopriamo che nel 2011 il ‘Tgm’ è stato di 18.298 veicoli al giorno, che nel 2012 è calato in modo notevole a 16.974, e che è ancora calato nel 2013 a 16.816”.
Di qui la richiesta di fondi pubblici da parte della concessionaria. Una Sat che invece si era impegnata a realizzare la grande opera con soli fondi privati (due miliardi di euro), a patto di poter espropriare alla collettività l’attuale variante Aurelia a quattro corsie da Cecina a Grosseto sud, e poter incassare i pedaggi fino al 2043, ipotizzando un traffico in costante aumento (fino a 28.300 veicoli giornalieri nel 2036). Stime miseramente naufragate, di fronte alle quali gli ambientalisti hanno buon gioco a osservare: “L’odierna richiesta di fondi pubblici, e immaginiamo quelle future se l’opera venisse realizzata integralmente, e quindi l’ammissione che i conti non tornano, deve indurre a un serio ripensamento sull’utilità dell’opera. Viste anche le scarsissime risorse disponibili, e i drammatici problemi della finanza pubblica”.
Le critiche delle associazioni sono confermate anche dalla lentezza con cui procedono i lavori. In tre anni Sat ha speso 55 milioni sul lotto di soli quattro chilometri fra Rosignano e San Pietro in Palazzi, il solo già in esercizio, e ha impegnato 155 milioni per il tratto, in cantiere, da Civitavecchia a Tarquinia. “Non può che preoccupare il fatto che, pur in assenza di un nuovo piano economico e finanziario e con tratte ancora da approvare, già si richieda un robusto contributo pubblico. E’ come una premessa a quello che accadrà costantemente negli anni a venire, se l’opera venisse realizzata”.
Le conclusioni degli ambientalisti sono nette: “Appare senza senso la decisione del governo di stanziare un così rilevante numero di risorse pubbliche per un’opera che doveva essere finanziata da privati. Occorre rivedere il progetto con un confronto adeguato, pubblico e trasparente”. Una posizione cui si allinea il democrat Ermete Realacci: “Ho sempre pensato che la soluzione migliore sia quella dell’adeguamento dell’Aurelia. Con la crisi, è chiaro che il progetto autostradale di Sat risulta antieconomico e non giustificabile rispetto agli attuali flussi di traffico”.
WWF-Italia notizie, 5 agosto 2014, con postilla
Quella ‘Grande Bellezza’ che confina col mare in 25 anni cancellata in più parti dal cemento: pur mantenendo angoli suggestivi e intatti, la visione di insieme fornita dall’ultimo Dossier del WWF “Cemento coast-to coast: 25 anni di natura cancellata dalle più pregiate coste italiane” restituisce, con schede sintetiche e foto da satellitari a confronto, l’immagine di un profilo fragile e bellissimo martoriato da tante ferite. Il dossier analizza con schede sintetiche l’evoluzione della situazione delle regioni costiere, mettendo a confronto i dati di oggi con quelli di 25 anni fa, con il supporto di immagini tratte da Google Earth e il quadro d’insieme è una vera e propria trasformazione metropolitana delle coste italiane.
Il WWF segnala 312 macro attività umane che hanno sottratto suolo naturale lungo le nostre ‘amate sponde’ per far spuntare dal 1988 a oggi villaggi, residence, centri commerciali, porti, autostrade, dighe e barriere che hanno alterato il profilo e il paesaggio del nostro paese facendo perdere biodiversità e patrimonio naturale. Un pezzo strutturale della nostra economia è stato così mangiato dal cemento, a scapito di un’offerta turistica balneare (soprattutto in aree di qualità) che coinvolge migliaia di aziende. Dalla cava del 2003 della Baia di Sistiana in Friuli occupata poi da un mega villaggio turistico alla Darsena di Castellamare di Stabia in Campania, dall’urbanizzazione della foce del Simeto in Abruzzo al porto turistico ampliato e villaggio turistico sulla foce del Basento in Basilicata sono alcune delle ‘case history’ illustrate in una simbolica foto gallery regione per regione. Le più ‘colpite’ Sicilia, Sardegna e soprattutto la costa adriatica che rappresenta il 17% delle coste italiane ma dove meno del 30% del waterfront è libero da urbanizzazioni. Persino le aree costiere cosiddette protette non sono state risparmiate: su 78 SIC o ZPS difesi dalla Rete Natura 2000 europea il WWF ha censito 120 interventi “antropici” tra cui darsene, villaggi, etc. Dei circa 8.000 chilometri di coste italiane quasi il 10 % sono artificiali e alterate dalla presenza di infrastrutture pesanti come porti, strutture edilizie, commerciali ed industriali che rispecchiano l’intensa urbanizzazione di questi territori in continuo aumento e dove si concentra il 30% della popolazione. Finora le aree protette costiere si sono rivelate ottimi strumenti per contenere questa pressione e per valorizzare correttamente i territori, ma si tratta di ambiti limitati in un sistema disordinato e non gestito.
E a peggiorare le cose, il fatto che di tanta meraviglia non esista un ‘custode’ unico visto che ad oggi nessuno sa chi realmente governi le nostre coste: la gestione è ‘condivisa’ a livelli molto diversi (Stato, Regioni, Enti locali) con una frammentazione di competenze che ha portato spesso a sovrapposizioni, inefficienze, illegalità, e complicazioni gestionali e di controllo. Dalla legge sulla "Protezione delle bellezze naturali’ del 1939, all’articolo 9 della Costituzione che tutela il paesaggio, passando per la Convenzione Ramsar sulle zone umide del 1971, senza dimenticare la Convenzione di Barcellona per la protezione del Mediterraneo e la Convenzione sulla diversità biologica di Rio del 1992, non mancano certo le leggi a tutela delle coste ma nonostante questo non si sa chi le governi.
“Si pensa che lo scempio delle coste sia legato al passato, agli anni del boom delle seconde case e della grande speculazione edilizia o del raddoppio delle concessioni demaniali del 2000: purtroppo non è così perché l’invasione del cemento non si è mai fermata - ha dichiarato Gaetano Benedetto, direttore politiche ambientali del WWF Italia - Il WWF chiede di invertire la tendenza alla cementificazione attraverso due semplici cose: estendere i vincoli paesaggistici di tutela dai 300 metri ai 1000 metri di battigia e applicare una moratoria di tutte le edificazioni lungo la fascia costiera fino all’applicazione dei nuovi piani paesaggistici, che tra l’altro, dovrebbero essere già vigenti. Non si tratta di un problema solo ambientale: salvare le coste dal cemento vuol dire salvare un pezzo strutturale della nostra economia”.
SINTESI DEL DOSSIER
Il WWF per le coste
Nel corso degli anni il WWF ha testimoniato l’aggressione progressiva alle coste italiane con vari Dossier: dal censimento puntuale degli anni ’90 con il progetto ‘Oloferne’ sulle coste ancora ‘libere’ dal cemento all’attenzione ai piani paesaggistici come quello della Sardegna, fin alla riconversione e a bonifica delle aree industriali, da Taranto a Porto Torres, da Marghera a Milazzo, da Bagnoli a Falconara, fino all’istituzione e gestione delle aree protette. Il WWF ha poi segnalato e denunciato i problemi della portualità e dei transiti navali fino a tutti quelli interventi che accentuano e favoriscono l’erosione o la trasformazione costiera. Il dossier “Cemento-coast to coast” fa’ il punto generale richiamando con forza tutti i soggetti coinvolti ad una responsabilità di tutela, mettendo a confronto dati e immagini che analizzano un’evoluzione in 25 anni.
Un quarto di secolo di cemento costiero: il primato a Adriatico, Sicilia e Sardegna
Secondo il Dossier dal nord al sud nessuna regione costiera è esclusa, ma le ferite peggiori riguardano Sardegna e Sicilia, con 95 e 91 casi rispettivamente di nuove aree costiere invaso da cemento. In Sardegna , dopo un Piano paesistico che prometteva di correre ai ripari dalla cementificazione selvaggia delle coste, nel 2009 sono stati annullati i vincoli aprendo a nuove edificazioni all’interno dei 300 metri dal mare e ampliamenti di cubatura, per la maggiorparte documentati dal WWF. Il ‘caso studio’ quello di Cardedu, con due villaggi turistici e un’urbanizzazione a schiera costruiti in barba al vincolo paesaggistico. In Sicilia le poche aree che si salvano sono quelle ‘protette’, il resto è stato messo a dura prova: l’elenco degli insediamenti spuntati in questi 25 anni e segnalati nel Dossier è lungo, con il ‘caso studio’ di Campofelice di Roccella dove sorge una vasta area edificata in area vincolata.
La costa adriatica è la più urbanizzata dell’intero bacino del Mediterraneo. Dal Friuli Venezia Giulia alla Puglia i quasi 1.500 km di costa adriatici rappresentano il 17% delle coste italiane ma meno del 30% del waterfront è libero da urbanizzazioni. Negli anni ’50 quasi 1000 km sui totali 1472 (64%) del fronte adriatico erano privi di costruzioni ed altre strutture accessorie, configurando un paesaggio costiero oggi inimmaginabile. Se si escludono le Marche (con solamente il 21% di costa libera), il Friuli era quasi alla metà, mentre Veneto, Emilia e Abruzzo sfioravano il 70%. Per Molise e Puglia la costa era per oltre l’80% totalmente libera da urbanizzazione.
Tra gli anni ’50 e il 2001 la popolazione dei comuni costieri (CM) è aumentata di quasi 770.000 abitanti (poco meno del 28%), mentre, nello stesso periodo, l’aumento di popolazione in Italia è stato del 20%. In particolare in Abruzzo, Molise e Puglia le coperture urbanizzate aumentano da 8 a 10 volte, contro le 5 volte dell’Emilia o le tre volte del Veneto (sempre tenendo conto della presenza di lagune costiere in quest’ultimo caso). Gli interventi di urbanizzazione effettuati sulla costa adriatica italiana negli ultimi 50 anni denunciano una evidente carenza di programmazione e delineano un quadro piuttosto pessimistico in termini di inversione o controllo del fenomeno. I dati più rilevanti che emergono dalla ricerca sono quelli relativi alle dinamiche di crescita di circa il 400% della densità di urbanizzazione nei comuni costieri, ma in particolare del 300% nella fascia costiera dove negli anni ’50 circa i due terzi dei 1472 km della linea di costa fossero liberi da costruzioni e altre strutture, mentre questo valore si riduce drasticamente a meno di un terzo dopo il 2000 (466 km), con una velocità media di avanzamento delle urbanizzazioni stupefacente, pari a circa 10 chilometri l’anno (poco meno di 30 m al giorno).
Ieri paradisi naturali, oggi darsene e villaggi turistici
La ricetta “salvacoste” del WWF
La ‘ricetta’ per sfruttare in maniera intelligente e non devastante il potenziale patrimonio naturale costiero deve essere una sua gestione integrata e sostenibile. La vera sfida è invertire la tendenza alla ulteriore cementificazione della nostra fascia costiera anche attraverso una moratoria che l’Associazione chiede a Governo, Regioni e Comuni; inoltre garantire il rispetto delle normative e adottare politiche fiscali incentivanti sui comuni per la conservazione di ciò che resta ancora ‘libero’ da cemento lungo le coste, come già accade in qualche Paese europeo.
Un potenziale per le economie locali e il lavoro è anche quello che potrebbe derivare dal ripristino di vecchie cave (spesso occupate da costruzioni) o delle foci di fiumi distrutti e dune cancellate, un lavoro di ‘rammendo’ delle nostre coste, speculare quello invocato dall’architetto Piano per le aree periferiche delle grandi città. (vedi Scheda allegata – “La Ricetta Salvacoste” del WWF)
«Sprofondo Veneto, con l’acqua alla gola e le Grandi Opere impantanate nel fango di affari & politica. È l’immagine dell’incubo Polesine proiettata nel Duemila. Ma anche l’"effetto Mose" che straccia la mitologica propaganda e fa ripiombare il Nord Est nel guano delle tangenti formato impresa».Il manifesto, 6 agosto 2014
Qui piove sempre sul bagnato: le quattro vittime dello tsunami del torrente Lierza sabato sera a Refrontolo (Treviso) squadernano la vera insicurezza del Veneto. Alluvioni e frane come esito naturale delle colate di asfalto e cemento programmate senza soluzione di continuità politica.
Dal 4 al 6 febbraio scorso un’altra emergenza ha schienato mezza regione (compresa la Marca trevigiana) dai piedi d’argilla. Proprio come nell’autunno 2010. Ponte degli Angeli, cuore di Vicenza, misura il termometro della paura: il Bacchiglione sale fino a lambire l’asfalto con il rischio di replicare l’esondazione nel 20% della città che poi si espande verso il mare.
Di nuovo, un bollettino di guerra: a Bovolenta, nella Bassa padovana, 600 sfollati attendono i soccorsi; la rete viaria della regione paralizzata da smottamenti, crolli, infiltrazioni.
Lo scenario
Quattro anni fa un’identica apocalisse aveva messo in ginocchio il Veneto centrale: da Verona a Padova 150 chilometri quadrati sommersi non solo dall’acqua. Eppure era una “catastrofe annunciata”, perché al di là delle precipitazioni straordinarie, dal 1966 le opere di salvaguardia del territorio rimangono incompiute. Luigi D’Alpaos, ordinario di Idraulica dell’Università di Padova, ripete inutilmente: «Il grande disastro è stato che nessuno si è mai interessato alla questione idraulica che, anzi, è stata completamente ignorata. Si sono fatte così strade, autostrade e altre opere che magari vanno anche sotto acqua alla prima pioggia. I sindaci di questi ultimi 50 anni hanno una bella responsabilità per come e quanto hanno urbanizzato ed occupato il territorio senza seguire criteri guida. I sindaci devono smetterla di permettere insediamenti dove è pericoloso».
Il “partito del mattone” è sempre il più forte. Anche nell’epoca della crisi infinita l’immobiliarismo detta legge nei Comuni grandi e piccoli. Dalle cave che dragano argini e fiumi al giro d’affari non sempre limpido del “movimento-terra”, fino ai cementifici (tre impianti solo all’interno del Parco regionale dei Colli Euganei) e ai soliti professionisti del ramo.
È la vera industria del Nord Est, l’unica finanziata dalle banche. La messa a reddito delle aree edificabili muove un piccolo esercito di affaristi con interessi votati al profitto, pronti a scaricare gli effetti collaterali sulla collettività. Sistema articolato, capillare, trasversale che macina relazioni economiche e rapporti politici.
Verona è l’ultima frontiera delle Grandi Opere: 6 miliardi di project financingcominciano con i 13 chilometri di tangenziale nord in galleria. Racconta Gianni Belloni dell’Osservatorio ambiente e legalità di Venezia: «Dal casello autostradale, in 3,5 chilometri, la giunta del leghista Flavio Tosi ha previsto la costruzione di ben 11 centri commerciali per un totale di 380 mila metri quadri. Nella sola area di Verona Sud previsti 4 milioni di mc di cemento: uno per edifici residenziali, altri 3 in direzionale, commerciale e alberghiero».
E la vocazione d’oro di Vicenza brilla per sintonia amministrativa: se il berlusconiano Enrico Hullwek ha lasciato in eredità speculazioni come minimo azzardate, il renziano Achille Variati regolamenta nuove colate di cemento armato.
Una ventina di chilometri più in là si fanno i conti con il ventennio di Flavio Zanonato descritto eloquentemente da Francesco Fiore (consigiliere comunale di Padova 2020): «Nel 2013 risultavano invendute oltre 10 mila abitazioni; che raddoppiano nei 18 municipi della comunità metropolitana. Eppure gli attuali piani urbanistici prevedono espansioni: alla volumetria residua del Prg vigente, il nuovo Pat aggiunge altri 2 milioni di metri cubi. Così si immagina l’insediamento di 24.185 abitanti in un decennio, Dato assolutamente irrealistico: negli anni Duemila la popolazione è aumentata di 730 abitanti».
Betoniere e struzzi
Affari & politica in versione edile. Funziona così, dall’epoca del “modello veneto” con una zona industriale sotto ogni campanile. Nel Duemila sono resusiscitati tutti, compresi quelli apparentemente morti con Tangentopoli. A Venezia c’è la mega-concessione del Mose, la più mastodontica opera pubblica concepita in Italia: la salvaguardia della laguna affidata nelle mani dell’impresa Mantovani di Piergiorgio Baita (costretto a patteggiare con la Procura) e Giovanni Mazzacurati che a 82 anni deve rispondere della gestione del Consorzio Venezia Nuova.
Comunque, per i soci del Cvn (comprese le coop “rosse”) l’affare era fatto: proprio all’inizio di febbraio la Banca europea degli investimenti aveva sbloccato il maxi-prestito (200 milioni di euro). L’accordo firmato a Roma seguiva mesi di raccolta informazioni sulle indagini giudiziarie da parte degli esperti della Banca, che hanno ricevuto in garanzia… gli stanziamenti del governo al Mose. Alchimia più che necessaria, per intercettare l’ultima tranche del pacchetto di 1,5 miliardi (soldi erogati tra il 2011 e il 2013). Poi sono scattati arresti, perquisizioni, verifiche della Guardia di finanza e rogatorie internazionali…
A Vicenza, “regna” il gruppo Maltauro (1.700 dipendenti, 465 milioni di euro il valore della produzione nel 2012) che ha in cantiere anche l’appalto da 40 milioni della nuova metro di Roma Termini. Naviga anche nei fiumi di denaro dell’Expo 2015 di Milano: 42,5 milioni per il progetto “Via d’acqua Sud” a cavallo del Naviglio. Negli anni Novanta il nome dell’impresa ricorreva nei faldoni della magistratura che indagava sulle mazzette per la “bretella” autostradale con l’aeroporto di Tessera. Ora l’imprenditore edile vicentino è finito nell’occhio del ciclone nell’inchiesta della Procura di Milano, mentre Pavia indaga sull’illecito smaltimento di rifiuti. Di certo, Maltauro ha garantito la materia prima per il bunker di Muhammar Gheddafi a Tripoli, mentre lavorava e progettava infrastrutture del regime.
Cemento sussidiario
Al Tribunale di Padova è stata invece depositata l’istanza di pre-concordato da parte di Consta. E’ il consorzio che incarna il business della Compagnia delle Opere: dal 10 settembre 2012 il CdA è presieduto da Graziano Debellini (carismatico leader della fraternità ciellina) affiancato da Ezechiele Citton (suo braccio destro nell’architettura della holding dal Lussemburgo alla Nuova Zelanda) e Luigi Patané nel ruolo di amministratore delegato e direttore generale. I problemi, finanziari e non, nascono in Etiopia con la ferrovia per Gibuti e i cantieri degli acquedotti. In via Crimea va fanno i conti anche con il “rinculo” delle energie alternative, con lo sparring-partner Carlo De Benedetti.
La sintesi del sistema dei calce-struzzi veneto è ben riassunta nell’e-book La politica urbanistica dell’assessore Vito Giacino di Giorgio Massignan, presidente di Italia Nostra a Verona. Sotto i riflettori, l’ex braccio destro di Tosi arrestato il 17 febbraio per corruzione: «Gli strumenti urbanistici si sono trasformati in piattaforme tecniche che giustificano e notificano la speculazione edilizia».
E anche così si ritorna al “lato B” delle cicliche alluvioni a Nord Est. Con l’inchiesta formato docu-film Giace immobile scritta e diretta da Riccardo Maggiolo: da Caldogno (il paese di Roberto Baggio) sott’acqua si arriva fino all’immobiliarismo. Una produzione indipendente che viene proiettata sempre più spesso. In alternativa, c’è il sito www.giaceimmobile.com da cui si può scaricare il film di 89 minuti in full HD a 4,99 euro.
«Negli ultimi cinque anni il numero di compravendite immobiliari è crollato. Nonostante ciò, i prezzi hanno subìto solo una lieve flessione. Il mercato è in forte disequilibrio, oltre ad essere gravato da un’enorme mole di invenduto e di edifici abbandonati, incompleti, decadenti. Un’implosione del settore è un’ipotesi tutt’altro che remota» spiega la presentazione dell’inchiesta. Fra gli intervistati, Tiziano Tempesta dell’Università di Padova e Luca Dondi direttore dell’Osservatorio Nomisma. È una spietata analisi della rendita virtuale costruita sul valore del mattone. Affiora il Veneto della speculazione edilizia, che produce anche “catastrofi naturali”.
Appia, regina di storia e di abusi le repliche della Prefettura di Roma e dell'autore. Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2014
DIRITTO DI REPLICA
di Tomaso Montanari
Prendo atto che sull’Appia si protegge tutto tranne l’Appia stessa. Non è una novità: mentre la Reggia di Carditello era abbandonata ai vandali e ai ladri, un presidio dell’esercito vegliava sulla contigua discarica. Tornando all’Appia, mi piacerebbe sapere se questi sensibilissimi obiettivi diplomatici si trovino in ville abusive, magari fornite di diplomatiche piscine. E se la normativa vigente impedisce che funzionari della soprintendenza e cittadini possano visitare beni archeologici di proprietà pubblica inglobati nel fortilizio privato difeso a spese pubbliche. Chissà.
In un trafiletto di poche parole e neppure firmato, una chiave essenziale nella costruzione della Città Metropolitana dei cittadini. La Repubblica Milano, 1 agosto 2014, postilla (f.b.)
Manovre di avvicinamento ad Expo sul fronte trasporto pubblico. Atm e Palazzo Marino hanno messo a punto tre nuovi tipologie di ticket di viaggio per viaggiare sui mezzi cittadini, sulle linee ferroviarie Trenord e sul Passante. L’obiettivo è quello di favorire il più possibile gli spostamenti senza le auto private non soltanto verso il sito espositivo di Rho-Pero, ma anche in città, per quei turisti che arriveranno nei sei mesi di evento.
Il primo tipo di nuovo biglietto sarà valido per l’andata e il ritorno da Milano alla fiera di Rho e potrà essere utilizzato anche sul Passante. Costo: 5 euro. Seconda novità: il biglietto “giornaliero Expo” da 8 euro, valido sia da e per il sito espositivo sia per girare in tutta Milano sui mezzi Atm urbani e sul Passante. Ultimo nuovo tipo di biglietto deciso ieri dalla giunta è il ticket “giornaliero Area grande Expo”: costerà 10 euro e potrà essere utilizzato nell’area metropolitana. Sarà un confronto tra Trenord e Comune a stabilire quanto estesa potrà essere l’area in cui sarà valido il biglietto, studiando le direttrici ferroviarie che arrivano a Milano da nord e sud.
Per questi ultimi due tipi di biglietto si prevede che già a dicembre saranno messi in circolazione in via sperimentale per tutti quelli che vorranno raggiungere Rho per le manifestazioni in programma, dall’Artigiano in Fiera ai vari saloni di esposizione in calendario. Le stazioni di Rho-Fiera e di Pero, sulla linea 1 del metrò, sono state riaperte due settimane fa dopo la chiusura per i lavori necessari proprio in vista di Expo, durati poco più di un mese: è stata realizzata una deviazione dei binari per consentire più flessibilità nella gestione del capolinea, e quindi per andare incontro ai momenti di maggior afflusso dei passeggeri che visiteranno l’Esposizione.
postillaCome raccontava ai primordi dell'automobilismo di massa il sociologo urbano Roderick McKenzie, della seminale Scuola di Chicago, l'idea di area metropolitana in quanto dimensione urbana contemporanea passa soprattutto attraverso la percezione popolare delle relazioni che intercorrono fra i suoi diversi luoghi. Ovvero, prima delle pur indispensabili architetture istituzionali di governo e rappresentanza, sta l'accoppiamento di spazi e identità, l'idea di appartenere a un luogo a cui appartengono anche altri soggetti e ambiti. Se uno dei passaggi chiave dalla dimensione metropolitana novecentesca è quello della mobilità sostenibile, del rapporto sempre più stretto, consapevole e governato, fra spazi e flussi, allora il tema dell'integrazione tariffaria nel trasporto collettivo (e magari più avanti, come indicano alcuni studi internazionali recenti, anche a coinvolgere le varie forme di condivisione) diventa centrale. Ed è un peccato che chi prende le decisioni non appaia altrettanto propenso a promuovere questo aspetto: magari l'occasione dell'Expo potrebbe essere anche una spinta in questo senso (f.b.)
Se il Valle non è diventato un centro commerciale o un teatro privato è merito di chi ha occupato: alla faccia di chi per tre anni ha linciato mediaticamente gli occupanti e i loro sostenitori. Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2014
La Repubblica, 30 luglio 2014
Sterminate folle premono sui musei, sulle città d’arte. Miliardi di cinesi, indiani, giapponesi, russi che paiono dietro l’angolo disegnano nuove frontiere non della cultura ma della cupidigia di nuovi introiti. Il turismo mordi-e-fuggi genera l’arte usa-e-getta (il 75% dei turisti che vanno a Venezia si fermano meno di un giorno lasciandovi chili di detriti). La neomania dei selfie, sdoganati come performance individualista, inonda il web di fotoricordo che certificano non la curiosità culturale ma la presenza rituale del turista. Non archiviano il ricordo, sostituiscono lo sguardo: perciò la loro quantità è più importante della qualità. La visita a un museo somiglia più a una simulazione che all’esperienza di un tempo, l’incontro di una persona (il visitatore di oggi) con un’altra (Giotto, Caravaggio, Rembrandt). Perciò in un libro recente (2010) Steven Conn si domanda sin dal titolo se i musei hanno ancora bisogno di oggetti ( Do Museums still need Objects?). Secondo lui, via via che diminuisce la fiducia nel potere degli oggetti di trasmettere conoscenza diminuiscono di numero gli oggetti esposti nei musei, crescono gli apparati tecnologici e le appropriazioni fotografiche. Il nuovo rituale turistico sostituisce la tecnologia alla storia, la rappresentazione virtuale alla realtà.
Le immagini su un cellulare acquistano un grado di verità e un’intensità di esperienza che non si accontentano di essere equivalenti al contatto con «la cosa vera», vogliono essere superiori ad esso. Consentono manipolazioni (ingrandire un dettaglio), archiviazione di impressioni momentanee, scambi di opinioni via Facebook. L’oggetto d’arte diventa il mero innesco di un processo sensoriale che si svolge prevalentemente altrove. Davanti alla Gioconda, il 20% dell’esperienza (diciamo) è quella del quadro nell’affollatissima sala del Louvre; ma l’80% ha luogo nello smartphone, nell’i-Pad, in un labirinto di modalità interattive che consentono inedite forme di appropriazione. Secondo Conn, la storia (la “cosa vera”) sta diventando noiosa, la tecnologia la rivitalizza; la realtà virtuale è superiore alla realtà tangibile, l’illusione prende il posto del- la riflessione, la duplicazione spodesta l’unicità dell’originale. L’irriducibile diversità del passato si diluisce e si annienta in un gratuito bricolage. Viene in mente Baudrillard: «Il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità; la verità èil simulacro, e nasconde che non c’è alcuna verità. Solo il simulacro è vero».
Le folle che si accalcano davanti alla Gioconda e ignorano i Leonardo della sala lì accanto e l’accanimento fotografico che sostituisce lo sguardo sono fratelli: due declinazioni della fretta, di una concezione del museo come esperienza di consumo, di una stessa rinuncia alla riflessione. Vi sono rimedi? Il Louvre ci sta provando a Lens, città mineraria in gran decadenza, dove un “secondo Louvre” è stato aperto con gran successo un anno fa, e ha già avuto più di un milione di visitatori, rianimando un’area di scarsa attrattività. Scegliendo oggetti della collezione e disponendoli in ordine cronologico (ma mescolando le opere d’arte dei vari dipartimenti), sia lo staff del museo che i visitatori sono invitati a riflettere sulla consistenza e sulla storia delle colle- zioni; collocando a Lens una bellissima mostra sui Disastri della guerra che ricorda l’anniversario 1914-2014, una parte cospicua di visitatori è attratta altrove, e moltiplica le potenzialità di quel grande museo. Se arrestare la valanga di selfie pare difficile, sarà possibile diffondere una cultura della lentezza che nell’osservazione dell’opera d’arte veda un’occasione di riflessione e di crescita civile? È immaginabile mettere in rete i tour operator e indirizzare i flussi turistici non solo su poche destinazioni iconiche, ma sulla trama minuta dei monumenti, delle città, dei musei?
A queste domande nessuno si aspetta più risposte dirimenti dall’Italia, che pure è il Paese con la più nobile tradizione museografica, con le più antiche norme di tutela, prescritta dalla Costituzione nell’art. 9, sempre celebrato e mai pienamente attuato. Volgari approssimazioni vedono nell’arte delle nostre città e dei nostri musei un’occasione di business e non un’esperienza di vita; circola nei palazzi del potere la stolta ipotesi che un manager vale per principio più di uno storico dell’arte; si ipotizza di chiudere musei e siti archeologici con pochi visitatori, si ironizza sul fatto che gli Uffizi abbiano meno visitatori del Louvre (che è 30 volte più grande). E intanto è in fase di cottura una riforma del ministero dei Beni culturali innescata non (come sarebbe giusto) dalla voglia di investire sulla cultura, di assumere nuovo personale, di mettere l’Italia in prima fila in un discorso, quello sul rapporto fra arte e cittadinanza, che sarà fra i più importanti del nostro secolo; ma da una pretestuosa spending review , e cioè da ulteriori tagli che vanno ad aggiungersi a quelli perpetrati dal 2008 in poi da governi d’ogni colore. Ma la colpevole insistenza sul turismo come ragione ultima delle cure dovute al nostro patrimonio culturale trascura il solo punto essenziale: quel patrimonio non è dei turisti, ma dei cittadini; è “nostro” a titolo di sovranità (questo dice la Costituzione), è consustanziale al diritto di cittadinanza, serbatoio di energie morali per costruire il futuro. L’Italia ha su questo fronte un diritto di primogenitura, ma pare decisa a rinunciarvi.
Per ora è forse utile chiedersi perché Renzi ha deciso di fermare le macchine, pur sapendo che avrebbe pagato un (per lui intollerabile) pegno mediatico. La risposta è che la riforma di Franceschini non è contro le soprintendenze(nonostante qualche grave errore): cioè non mira a limitarne il potere, ma a organizzarle in modo diverso». Il fatto quotidiano, 28 luglio 2014
Nel mio ultimo post ho provato a spiegare perché la riforma dei Beni culturali presentata da Dario Franceschini non sia (o non fosse, se è già morta) una riforma renziana. Alcuni osservatori hanno provato a dimostrare il contrario, ma è stato lo stesso Matteo Renzi a chiarire come stessero le cose, stoppando clamorosamente la riforma e umiliando pubblicamente Franceschini. Qualche spirito bizzarro ha sussurrato che sia stata proprio quella mia analisi a catalizzare i sospetti del califfo (lo ha riferito Gian Antonio Stella, nell’editoriale di sabato de il Corriere della Sera). In ogni caso, l’incidente è stato serio: proprio sul patrimonio culturale si è registrato il primo turbamento della vita di corte del governo, nonché il primo arresto non dico delle cosiddette ‘riforme’ (che si arrestano benissimo da sole), ma della magica catena di annunci in cui si è finora risolta l’azione di governo del sedicente Harry Potter di Rignano sull’Arno.
Come andrà a finire, ora? Renzi costringerà Franceschini a rimangiarsi la riforma? La congelerà in attesa di cucinarla in salsa diversa? La istraderà su un binario morto? Lo vedremo presto.
Per ora è forse utile chiedersi perché Renzi ha deciso di fermare le macchine, pur sapendo che avrebbe pagato un (per lui intollerabile) pegno mediatico. La risposta è che la riforma di Franceschini non è contro le soprintendenze(nonostante qualche grave errore): cioè non mira a limitarne il potere, ma a organizzarle in modo diverso. In altre parole: non sradica il presidio della tutela territoriale, non dà carta bianca ai sindaci, non libera le mani dei cementificatori. Ed è questo che non piace al premier: che, se potesse, farebbe carne di porco dell’articolo 9 come la sta facendo della seconda parte della Costituzione. E quando ha capito che la riforma Franceschini non era un tritacarne, Renzi ha staccato la spina. Si è scritto che glielo avrebbe fatto notare una potente soprintendente a lui ben nota: una signora ormai così remota da ogni idea di tutela del patrimonio diffuso e del paesaggio, e così determinata a mantenere il controllo delle sue slot-machine museali, da buttare disinvoltamente a mare la missione più preziosa dei suoi colleghi.
La confusione, dunque, è grande. E so che il mio giudizio non drasticamente negativo sulla riforma Franceschini ha creato sconcerto. Ma il dovere di chi fa ricerca e scrive sui giornali è quello di rimanere lontano da ogni ortodossia: senza paura di apparire eretici. Anzi, in fondo, sperandolo.
E se sono rimasti spiazzati i sicofanti renziani, che avevano previsto tuoni e fulmini da parte di quelli che chiamano le vestali del patrimonio o i talebani della tutela, è stato sconcerto anche dal mio lato del campo di battaglia: tra coloro che servono eroicamente lo Stato nelle trincee delle soprintendenze. Non parlo dei direttori generali romani (la cui espulsione di massa sarebbe il viatico di ogni seria riforma), né per delle direttrici regionali che, pur entrando ed uscendo da processi contabili e penali trovano il tempo di propalare che Montanari sdogana la riforma Franceschini perché il ministro gli avrebbe promesso la Direzione per l’educazione, la direzione degli Uffizi, il titolo di Pappataci o un Caravaggio da appendersi sul letto. Voci che non varrebbe nemmeno la pena di commentare, se non avessero addirittura lambito le pagine de il Corriere della Sera.
La miglior risposta è che io non ho mai cambiato linea: ho apprezzato nella riforma Franceschini il molto che è in continuità con ciò che io ed altri abbiamo provato a proporre nella commissione voluta da Massimo Bray. Già in A cosa serve Michelangelo? (Einaudi 2011), scrivevo: Gli storici dell’arte dipendenti dal Ministero dei Beni culturali sono oggi divisi in due tipologie, tra loro assai diverse. La grande maggioranza, una sorta di ‘chiesa bassa’, opera in modo fedele al dettato costituzionale, cercando (in generale con preparazione e abnegazione) di tener testa ai poteri locali in nome della conservazione e della dignità culturale delle opere e del territorio che sono loro affidati.
La riforma Franceschini è piena di difetti: oltre a quelli che ho elencato nell’ultimo post e all’irredimibile peccato originale di essere ‘a costo zero‘, il più grave è forse la mancanza di risposte all’orrenda piaga del precariato del patrimonio. Ma dobbiamo rammentare che il mondo che quella riforma provava a cambiare non è il migliore dei mondi possibili. Le direzioni regionali sono state un fallimento, i musei italiani non riescono a diventare centri di ricerca, l’educazione al patrimonio non è mai esistita, il territorio è non di rado abbandonato, la sinergia tra architetti e storici dell’arte è una chimera, il nesso tra musei e territorio (salvo qualche eccezione virtuosa) è purtroppo morto e sepolto.
D’altra parte, l’unione tra le soprintendenze architettoniche e quelle storico-artistiche è piena di rischi (come ho scritto), ma è un’alternativa migliore alla altrimenti necessaria soppressione di alcune sedi: e la chiusura a riccio dei miei colleghi storici dell’arte è un errore in sé (perché è motivata dal timore che a guidarle siano solo architetti: ma non possiamo rinunciare a fare una cosa giusta per paura che ci venga male, bisogna invece essere determinati a farla venir bene), ed è un errore che antepone l’interesse della corporazione all’interesse del patrimonio. Proprio come noi professori siamo i principali colpevoli dell’estremo degrado dell’università italiana, anche i funzionari delle soprintendenze hanno qualche responsabilità nella crisi della tutela: troppo silenzio, troppo conformismo e troppo conservatorismo hanno coperto i tradimenti della chiesa alta dei Beni culturali.
Chissà se ora (e ancor di più quando arriverà la vera riforma-fine-del-patrimonio) qualcuno capisce o capirà perché ho scritto che la riforma Franceschini, pur gremita di errori e gravida di rischi, non era pessima. Per esser chiari: se potessi decidere io, questa non sarebbe la mia riforma. Ma dati i tempi e la situazione, a me pareva francamente un miracolo che da quella macelleria che è il governo Renzi non fosse uscito un macello. E infatti…
Se per caso Franceschini dovesse comunque spuntarla non saranno certo rose e fiori. Ogni passaggio andrà seguito con estrema attenzione, dalla scrittura dei regolamenti, a quella dei bandi per le posizioni apicali dei musei, dal funzionamento dei segretariati regionali a quello del coordinamento regionale dei musei. Sarà, come sempre, una battaglia di trincea, da combattere con ogni mezzo. Anche distinguendo Franceschini da Renzi, se serve.