Dopo nove anni di «tragicommedia» - così l’ha definita qualcuno l’altra sera a Pavia durante l’affollata assemblea dei comitati contrari - l’autostrada Broni-Mortara arriva al suo capitolo finale. Lo scempio che dovrebbe sconvolgere la Lomellina, creando un muro (la nuova arteria sarebbe tutta in rilevato alto mediamente 5 metri, con l’impiego mostruoso di 19 milioni di metri cubi di ghiaia) lungo 67 chilometri è stato bocciato dalla Commissione ministeriale di valutazione dell’impatto ambientale che, con una serie articolata di argomentazioni, l’ha definita in sostanza inutile e dannosa, basata su calcoli sbagliati, con un consumo altissimo di suolo in una zona dal delicatissimo equilibrio. E, soprattutto, la Commissione del ministero ha ribadito l’illegalità della procedura sin qui seguita, poiché non si tratta di un’autostrada regionale, dal momento che il tratto Castello d’Agogna-Stroppiana è in territorio piemontese.
Forse è presto per cantare vittoria, ma l’altra sera nella riunione cui hanno partecipato anche una ventina di sindaci, si percepiva un cauto ottimismo sull’esito finale dell’inter autorizzativo che dovrebbe concludersi a giugno. Infrastrutture Lombarde, l’ente proponente, ha intanto preparato una serie di integrazioni al progetto che saranno presentate in Regione la prossima settimana. Ma si tratta di modifiche che, a quanto pare, non incidono suoi rilievi più significativi emersi dal documento del ministero con cui è sancita l’incompatibilità ambientale dell’opera. In sostanza la Sabrom, società controllata da Impregilo-Salini che ha la concessione per la progettazione, la costruzione e la gestione dell’autostrada, avrebbe ridimensionato l’interconnessione con la A-7 a Gropello, spostato l’attraversamento del Terdoppio (avvicinandolo tra l’altro all’abitato di Alagna Lomellina) ed eliminato due svincoli, quello di Tromello e quello di Mortara.
Di fronte alla bocciatura del progetto, contro cui ormai si è creato un fronte compatto di sindaci e associazioni del territorio, la Regione mantiene un imbarazzato silenzio. Proseguire o no nel piano di costruzione di autostrade lombarde dopo il flop della Brebemi e della finanza di progetto, in tempo di scandali sulle grandi opere e di esborsi non previsti (come i 60 milioni messi dalla giunta Maroni per la Brebemi in aggiunta ai 300 dello Stato), mentre la viabilità ordinaria è al collasso? Il punto è che quei progetti erano stati strenuamente sostenuti da Formigoni e dalla giunta di cui faceva parte anche la Lega. Ora manca una exit strategy, per cui è inutile chiedere a Palazzo Lombardia che cosa intende fare. L’assessore alle Infrastrutture, Alessandro Sorte, fa sapere che non sa che cosa dire, l’entourage del presidente Maroni prende tempo, poi annuncia un comunicato che non arriva mentre i telefoni suonano ripetutamente a vuoto.
E’ evidente che continuare a sostenere i faraonici progetti dell’era del Celeste appare un po’ difficile. Ma anche abbandonare tutto implica problemi rilevanti. La Sabrom ha già fatto sapere che se la costruzione della Broni-Mortara dovesse saltare, Palazzo Lombardia dovrebbe pagare i costi di progettazione che ammontano a 70 milioni di euro. Gli errori rilevati dal ministero sul progetto sono tanti (da un’errata stima del traffico futuro al calcolo del Pm 10 prodotto, sino al riferimento a leggi ormai abrogate). E questo, dice qualcuno, potrebbe aprire una controversia tra Sabrom e Regione. Ma è anche vero che quel progetto fu interamente approvato e condiviso da Infrastrutture Lombarde. Un bel rebus.
Una testimonianza dal Mezzogiorno. I problemi urbanistici di Catanzaro e l’indicazione di soluzioni ragionevoli per una migliore condizione urbana, non solo in un'area di una parte dell'Italia troppo spesso dimenticata
Nota scritta in occasione di Convegno sul tema “Catanzaro tra passato e presente” organizzato dalla Fondazione Imes e Italia Nostra per discutere di PSC (piano strutturale comunale) che il Comune intende varare al più presto per ridisegnare il volto della città. La hanno tenuto un Convegno su “Catanzaro tra passato e presente” per discutere di PSC (piano strutturale comunale) che il Comune intende varare al più presto per ridisegnare il volto della città. Il convegno è stato un primo momento per mettere in campo proposte alternative a quelle delle forze che guidano l’amministrazione locale e che si muovono su una linea di continuità con gli interessi della speculazione edilizia e della rendita fondiaria.
Da decenni Catanzaro ha sconfinato dalle sue mura. Ha seguito, come molte città, un modello insediativo diffuso che è andato – per quanto la riguarda - nelle più svariate direzioni (Siano, S.Elia, Mater Domini, Gagliano, S.Maria, Cava, e poi, da Cz Lido a Sellia fino a Cropani e Botricello, da Cz Lido a Copanello fino a Montepaone e Soverato). Il continuum urbano di Cz, fatto di residenze, attività commerciali e di servizio, qualche piccola impresa, presenta un aspetto frantumato, sparpagliato, di disordine. Un territorio informe e pieno e di contraddizioni. E con un centro storico che sembra aver smarrito la sua identità dopo lo sventramento dei primi anni sessanta. L’insediamento dell’Università e della Regione a Germaneto hanno creato un nuovo polo urbano che, in assenza di politiche adeguate, rischia di dare un colpo definitivo alla città storica.
L’evoluzione urbana della città è stata, quindi, caratterizzata da un’occupazione a macchia d’olio del suolo. Naturalmente, i governi nazionali e locali hanno dato il loro contributo: con l’abbandono di fatto di qualsiasi idea di pianificazione del territorio, e poi con la politica dei condoni, con continue sanatorie, varianti, cambi di destinazione, opere infrastrutturali e quant’altro. I cambiamenti sono stati affidati a processi apparentemente spontanei, ma in realtà rispondenti a precisi interessi della speculazione e della rendita, e hanno prodotto costi sociali e ambientali molto alti. I confini geografici della città non corrispondono più ai suoi confini amministrativi e richiamano l’urgenza di pensare ai problemi della città con strumenti programmatici di area vasta. Come affrontare altrimenti questioni come la mobilità, i rifiuti e, ancora, la sanità e l’università?
Il mito dell'automobile
Pensiamo, per citare uno dei problemi, all’impatto della motorizzazione privata e al fenomeno del pendolarismo, esploso con lo spostamento massiccio di popolazione dal centro cittadino alle aree periurbane. Ai problemi del traffico si sono date risposte che hanno rappresentato rimedi peggiori del male. Invece di dotarsi di un trasporto pubblico locale degno di questo nome, efficiente e capace di riconnettere un territorio molto vasto, disarticolato e frammentato, si è pensato di costruire tangenziali, sopraelevate, tunnel, che hanno creato ancora più traffico e inquinamento. Le automobili si sono impadronite della città, hanno occupato strade, piazze, marciapiedi, sono causa di incidenti, di stress, di malattie. Hanno infine impoverito la vita di relazione e la vivibilità della città. Tutto ciò è avvenuto nella totale indifferenza dei cittadini, senza reazioni e senza avvertire particolari differenziazioni tra destra e sinistra. D’altra parte, non poteva essere altrimenti. Siamo cresciuti, infatti, nel mito dell’automobile, che fa il paio con un altro mito, quello della casa in proprietà (di cui parlerò più avanti).
L’automobile è considerata corum populi il principale strumento di mobilità, una scelta di libertà. Mito dell’automobile e mito della casa, dunque, sono la cifra caratterizzante dello sviluppo urbano e, direi, dello sviluppo in generale. Uno sviluppo che, da un lato, si basa sul ricambio sempre più veloce di beni e prodotti - l’economia del ricambio, appunto, o anche dell’”usa e getta” (si acquistano beni per rimpiazzare quelli in uso) - e dall’altro lato si basa sul grande spreco di suolo, di risorse, di energia. Si sono costruiti milioni di immobili e realizzate infrastrutture non sempre utili e senza alcun riguardo verso le nostre campagne, verso le montagne, verso le coste, i laghi e i fiumi. E verso il paesaggio. C’è un gran parlare di debito pubblico e di crisi finanziaria, ma si parla poco dell’enorme debito accumulato con la natura per una gestione urbanistica dissennata.
La vicenda di Catanzaro racconta, nella sua emblematicità, la storia urbanistica del Mezzogiorno e di gran parte del nostro paese e impone a tutti una riflessione sulla necessità di mettere in discussione un modello di sviluppo e, in particolare, un modello di espansione edilizia e urbana che ha fatto proliferare periferie degradate e ha distrutto le città per come le abbiamo conosciute anche noi, nati dopo il secondo dopoguerra. Ma l’espansione, come dicevo, è anche la principale responsabile delle ferite inferte al territorio. E’ tra le cause di tanti disastri ambientali (frane, alluvioni, fenomeni pericolosi e irreversibili di inquinamento delle falde acquifere). Le nostre case sono diventate più vulnerabili perché anche normali eventi naturali si abbattono su una situazione compromessa dal cattivo uso che l’uomo ha fatto e fa del suolo e delle risorse naturali. Infine l’espansione ha la principale responsabilità degli innumerevoli scempi a un paesaggio tanto straordinario da meritarci l’appellativo di “Bel Paese”. Nella logica espansiva, infatti, il paesaggio è res nullius, non un bene da salvaguardare, ma cosa di nessuno, da poter mortificare e persino annullare.
Se, dunque, negli anni settanta e ottanta, e in modo sempre più accelerato negli anni novanta, siamo passati dalla città compatta alla città estesa, che resta il modello urbano dominante, il tema ora è invertire la rotta. La sfida è passare dall’espansione alla manutenzione urbana. La stessa rigenerazione, come si dice, va inserita dentro un’azione paziente e più complessiva di manutenzione e di risanamento del territorio. Qualcosa di diverso - ma non per forza divergente - del rammendo o ricucitura urbana di cui parla Renzo Piano. Solo questo passaggio, tra l’altro, rende possibile avviare un’azione per il risanamento e la tutela del territorio e del paesaggio. Passare dall’espansione alla manutenzione presuppone leggi regionali, piani regolatori, piani casa, piani operativi coerenti con questo obiettivo. Il contrario di quanto avviene oggi. Infatti tutti concordano nel mettere uno stop o un freno al consumo di suolo, salvo poi mettere in atto comportamenti, a livello istituzionale, che sacrificano l’interesse generale sull’altare degli interessi di parte. Il fatto è che i cosiddetti “diritti edificatori” sono considerati intoccabili e persino gli abusi edilizi sono ancora tollerati da chi dovrebbe vigilare.
Nonostante le buone intenzioni e le belle parole è prevalente l’idea secondo cui tutto il territorio è urbanizzabile, negoziabile, edificabile. La rendita immobiliare e urbana si nutre di questa convinzione, che è l’esatto opposto di un’idea di programmazione. Così, grazie all’urbanistica “contrattata” tra amministrazioni locali e proprietari dei suoli (e costruttori) le aree urbane sono cresciute mediamente del 300%. Dal 2000 ad oggi sono stati cementificati circa tre milioni di ettari di terreno agricolo. Si sono realizzati milioni di nuovi alloggi, migliaia di super/ipermercati, decine di migliaia di nuovi km di strade. E’ stata l’apoteosi del cemento e dell’asfalto. Si è rinunciato a riconvertire spazi urbani inutilizzati o degradati, a intervenire prioritariamente sul patrimonio edilizio esistente, che dovrebbe essere recuperato e riqualificato – specialmente quello risalente a più di cinquant’anni, che rappresenta il 50% del totale -.
Il mito della casa
Contemporaneamente l’espansione urbana ha creato gravi distorsioni sul piano economico e sociale. Pensiamo al rapporto tra espansione e casa. L’espansione si è alimentata del mito della casa in proprietà, magari della villetta fuori le mura come indice di benessere, segno di un nuovo status raggiunto. E il mito della casa in proprietà è stato un grande incentivo all’espansione. Milioni di giovani coppie sono state indotte ad acquistare un appartamento impegnando, per 20-30 anni, metà del reddito familiare. Una scelta irrazionale, spesso avulsa da ogni serio ragionamento sul proprio futuro, specie in una situazione dominata da un percorso di vita e di lavoro molto accidentato. Molte giovani coppie hanno acquistato casa al di fuori di una obiettiva considerazione sul lavoro, che è sempre più mobile, e senza una valutazione sulle conseguenze che l’investimento sulla casa avrebbe avuto sugli altri consumi o, magari, sulla impossibilità di investire in direzioni più utili come, ad esempio, la pensione integrativa. Tutte cose sacrificate al mito della casa in proprietà.
Non voglio qui entrare nel merito della questione abitativa in Italia e dell’assenza di un mercato dell’affitto degno di questo nome. Voglio soltanto ricordare che l’espansione edilizia e urbana è stata funzionale a un’idea superata dell’abitare, non più adatta ai tempi moderni, ha finito sostanzialmente con l’ingrassare la rendita fondiaria e immobiliare. Non è un caso che il livello della rendita annua oggi in Italia si aggira intorno ai 400 miliardi di euro, cioè è quasi pari all’ammontare complessivo delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. E nel sistema bancario l’ammontare dei mutui da estinguere è di circa 350 miliardi, con gravi sofferenze per milioni di famiglie – soprattutto quelle che hanno comprato negli ultimi dieci/quindici anni - che si sono indebitate per inseguire il sogno della casa, ma ora spesso non ce la fanno a onorare le scadenze. Il tutto, com’è evidente, è stato un colossale trasferimento di denaro dal lavoro alla rendita. Soldi transitati dalle tasche dai redditi medi o medio-bassi ai redditi alti. Qui sta anche l’origine di tante e nuove diseguaglianze, ingiustizie, iniquità fiscali.
Abbiamo parlato dell’espansione e dei suoi effetti nefasti. Ma paradossalmente anche i processi di rigenerazione urbana possono diventare ulteriori regali alla rendita ed essere fonte di distorsioni se la progettazione degli interventi non è agganciata ad una corretta considerazione del contesto sociale e se prescinde dalle condizioni abitative o non tiene conto delle esigenze reali del territorio. E’ sempre presente infatti il rischio che la rigenerazione comporti la gentrification ovvero la sostituzione dei vecchi residenti con residenti più facoltosi. A parte alcuni esempi positivi, concentrati soprattutto nei quartieri pubblici (quelli delle case popolari), la rigenerazione produce effetti non sempre desiderabili in conseguenza della crescita dei prezzi immobiliari. A trarne vantaggio sono i ricchi, che così beneficiano anche degli investimenti pubblici, mentre gli altri, il più delle volte, devono abbandonare il campo.
Dal valore di scambioal valore d'uso
Quindi non basta soltanto un cambio di paradigma dall’espansione alla manutenzione. Il punto è spostare il baricentro dal “valore di scambio” al “valore d’uso”. Dalla mera ricerca del profitto, come si diceva una volta, a una maggiore attenzione verso gli interessi della collettività, a cominciare dai residenti e delle fasce sociali più deboli. La politica di manutenzione va sostenuta con forte determinazione, con provvedimenti urbanistici efficaci, con misure fiscali adeguate. Altrimenti è sempre la spinta del mercato a prevalere, in sostanza la spinta di chi ritiene più conveniente continuare a costruire ex novo. Il massimo che la lobby dei costruttori è disposta a cedere è la rottamazione/ricostruzione degli edifici più vecchi o fatiscenti – che in alcuni casi è pure necessaria – ma non è comprensiva né esaustiva delle politiche di manutenzione e rigenerazione urbana per come le intendiamo noi. Passare dal valore di scambio al valore d’uso negli interventi urbani significa, ad esempio, incorporare le nuove domande abitative nei processi di trasformazione; significa che i processi di rigenerazione non seguano solo la logica della “valorizzazione”; significa utilizzare e riqualificare gli spazi disponibili tenendo conto dei bisogni sociali effettivi. Significa migliorare i servizi. Tutto ciò è possibile solo con un prelievo sulla rendita urbana. Spostare il baricentro sul valore d’uso si può a condizione di restituire alla collettività, ai cittadini, una parte degli enormi guadagni di cui hanno beneficiato e ancora beneficiano i proprietari fondiari, i costruttori, le banche. Ci vuole una vera riforma fiscale, ma ancora non sappiamo se quella annunciata dell’attuale governo conterrà misure di equità, capaci di ridimensionare il peso e il ruolo della rendita finanziaria e immobiliare in Italia.
Un uso sapiente della leva fiscale potrebbe, invece, rimettere in sesto le dissestate finanze locali e consentire di trovare i finanziamenti per intervanti innovativi:
1. Con l’istituzione di un’imposta in grado di intercettare le plusvalenze immobiliari, il capital gain derivante dagli interventi di rigenerazione e, più in generale, dai programmi di riqualificazione urbana. Il Comune potrebbe così trovare le risorse da riutilizzare in un’opera continua di manutenzione, che non può essere una una tantum.
2. Ripristinando l’Imu sulla prima casa per le famiglie più facoltose, quelle che superano i sessanta – settanta mila euro.
3. Estendendo gli sgravi fiscali per le ristrutturazioni edilizie anche alla messa in sicurezza degli edifici contro il rischio sismico o altre calamità naturali.
Naturalmente occorre sapere utilizzare bene – e senza dispersioni – anche i fondi europei a disposizione.
Per concludere, i processi di trasformazione urbana - e quelli di riqualificazione in particolare – hanno una stretta correlazione con i processi economici e hanno un impatto diretto sull’assetto sociale, sui rapporti di forza, sui nuovi equilibri che si determinano sul territorio. In una parola possono essere un fattore di rafforzamento della rendita urbana o diventare un fattore si sviluppo sostenibile. Dipende dalla capacità delle forze in campo.
La Repubblica online, blog "Articolo 9", 22 marzo 2015
Sabato prossimo scadono, infatti, i termini entro i quali il Governo può impugnare davanti alla Corte Costituzionale il Programma Strategico Territoriale approvato dal Consiglio regionale dell'Umbria (legge regionale 1 del 2015). E ci sono ottimi motivi per il quale dovrebbe essere il Ministro per i Beni culturali Dario Franceschini a proporre al Consiglio dei ministri di rivolgersi alla Corte.
Questo Programma è infatti finalizzato esclusivamente allo sviluppo economico, ma pretende di essere sovraordinato al futuro Piano Paesaggistico. In altre parole, quello stravolgimento del Piano in senso di consumo del territorio che i consiglieri toscani del Pd e di Forza Italia hanno fatto nella fase finale del lavoro delle commissioni del Consiglio Regionale, in Umbria si fa – più comodamente – prima ancora di scrivere il Piano. Fissando, cioè, a quest'ultimo un recinto ben preciso: stabilendo prima le esigenze (vere? clientelari? indotte da interessi privati, o addirittura corruttivi?) dello 'sviluppo' e solo dopo permettendo la tutela di quel che rimane. Un'idea di 'mani sul territorio' che viene ipocritamente fatta passare per 'valorizzazione' del paesaggio.
E i comuni umbri saranno addirittura obbligati a seguire il Programma Strategico (sovraordinato) e a disattendere il Piano Paesaggistico (sottoordinato), quando (prevedibilmente molto spesso) saranno in contrasto: insomma, corrompere le leggi per poi corrompere legalmente l'ambiente. E le stesse soprintendenze non avranno, in pratica, più gli strumenti per far applicare i vincoli, che saranno ridotti a mere invocazioni. Il delitto perfetto.
Tutto questo è illegale (contrasta frontalmente con gli articoli 135 e 143 del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio), ma è soprattutto radicalmente incostituzionale. Perché rende carta straccia il secondo comma dell'articolo 9 della Costituzione («La Repubblica tutela il paesaggio ... della Nazione»), che essendo un principio fondamentale non può essere subordinato a nessun'altra esigenza. Non posso prima decidere cosa voglio cementificare e poi decidere cosa devo tutelare: devo fare esattamente il contrario, o sono fuori dalla Costituzione.
In pratica si vede già quale sarà il primo caso di applicazione di questo scempio giuridico: la solita Orte-Mestre, l'inutile autostrada di 400 km promossa dal politico del Nuovo Centro Destra Vito Bonsignore (indagato nell'inchiesta di Firenze), e finanziata con uno sgravio fiscale di 2 miliardi e mezzo di euro dallo Sblocca Italia Renzi-Lupi.
In Umbria – che ne sarà integralmente attraversata, da sud a nord - a gennaio 2014 (mentre si lavorava a questa legge) il Consiglio regionale si pronunciò a favore, bipartisan: FI e PD all'unisono. Ormai sta emergendo che – oltre al consumo di suolo e al devastante scempio paesaggistico del 'cuore verde' d'Italia – i cittadini e le imprese umbri ne sarebbero robustamente penalizzati a causa dei pedaggi per remunerare il concessionario. Va cadendo la favola che ne potrebbero essere esenti: il diritto europeo non tollera queste 'discriminazioni'. Ma la prevalenza del Piano Strategico Territoriale sul Piano Paesaggistico Regionale, aprirà un'autostrada giuridica alla autostrada di cemento di Bonsignore.
Come nel caso del Piano toscano, solo un forte movimento di opinione può costringere il Partito Democratico a ricordasi di non essere (ancora) del tutto identico a Forza Italia. Solo così possiamo sperare di salvare il futuro dell'Umbria.
a Repubblica, 20 marzo 2015
IL LIMITE di trecento metri dal mare non basterà. Gli ampliamenti degli alberghi lungo le coste non sarà consentito neppure a quella distanza, se oggi passerà a Roma la cosiddetta “linea Marson”, l’assessore toscano che ha firmato la prima versione del Piano del paesaggio che da martedì è in revisione al ministero dei Beni culturali. Per Enrico Rossi oggi sarà il quarto giorno consecutivo a Roma dedicato all’ultimo atto politico della legislatura.
Due i punti più controversi su cui Rossi è dovuto intervenire per cercare un compromesso onorevole tra l’impianto rigoroso della Marson e le modifiche dei Democratici, considerate ormai troppo “spinte” anche dallo stato maggiore del Pd toscano. Il primo riguarda le strutture ricettive vicine al mare: se sulle spiagge ogni tipo di allestimento non rimovibile era già vietato, adesso il ministero sembra orientato a bloccare anche eventuali aumenti di volume anche di hotel a trecento metri dalla riva, un limite che interessa in particolare gli operatori della Versilia. E l’altro capitolo in discussione, forse il più delicato, è quello delle cave di marmo sulle Apuane. Sopra i 1.200 metri non saranno permessi ampliamenti delle attività in funzione se non a certe condizioni e sembra difficile che possa passare la novità delle riaperture di miniere dismesse e abbandonate. Su questo le polemiche erano già state molto vivaci in consiglio e l’assessore Marson si era detta contraria alla modifica del Piano.
Rossi continua a inseguire una mediazione. Su twitter spiega che «nessuna cancellazione del lavoro fatto nella commissione » sarebbe stato fatto e parla di una «revisione degli elaborati, una risistemazione delle sue parti e un’ultima verifica di conformità al Codice dei beni culturali. Insomma nessuna smentita per nessuno ma un lavoro serio e collaborativo». Rossi posta anche una foto in cui si vede la stanza in cui il Piano viene letto ad alta voce.
Raccontano che Franceschini abbia fatto pure una battuta su tutta questa mobilitazione sul Piano, rivolgendosi a Marson: «Assessore, lei ha messo d’accordo Settis, Asor Rosa, Repubblica e Corriere della Sera. A questo punto cosa può fare un ministro?», ha detto sorridendo. «Ho le mani legate».
Un titolo a effetto, ma una realtà inquietante. «Il dossier-choc di Barca dopo il commissariamento: “Deformazioni clientelari, i circoli lavorano solo per gli eletti” “Molti militanti subiscono senza reagire le scorribande dei capibastone”. Orfini: purtroppo questa è la verità». Roma è piena di lupetti. La Repubblica, 19 marzo 2015
In fondo a tre mesi trascorsi a battere palmo a palmo le sezioni e a intervistare dirigenti e militanti, il gruppo di lavoro guidato dall’ex ministro ha raccontato la vita di una comunità spappolata che non chiede altro che di essere ricostruita. Secondo Barca, «nel Pd si vanno delineando, a un estremo, i tratti di un partito pericoloso e dannoso: dove non c'è trasparenza e neppure attività» e «dove traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di carne da cannone da tesseramento». Circoli che cioè lavorano solo «per gli eletti », per creare filiere e creare consenso per il singolo candidato. Da distinguere, tuttavia, «dal partito che subisce inane le scorribande dei capibastone, senza alcuna capacità di raggruppare e rappresentare la società del proprio quartiere». Un gruppo , quest’ultimo, che Dante avrebbe ben inserito fra gli ignavi.
All’estremo opposto si trovano, invece, «i segni di un partito davvero buono, che esprime progettualità, ha percezione della propria responsabilità territoriale, sa agire con e sulle istituzioni, è aperto e interessante per le realtà associative del territorio e sa essere esso stesso associazione, informando cittadini, iscritti e simpatizzanti». Nel mezzo, in una specie di limbo, giace infine «una sorta di partito dormiente dove si intravedono le potenzialità e le risorse per ben lavorare, e dove il peso di eletti e correnti è sfumato, ma che si è chiuso nell'autorefenzialità di una comunità a sé stante, poco aperta all'innovazione organizzativa, al ricambio, al resto del territorio». Impermeabile e sordo, attento soprattutto ai propri interessi. Una degenerazione da imputare, anche, a un «uso pletorico degli organi assembleari », spesso individuati come panacea di tutti i mali, unico luogo dove discutere e ottenere risposte. Chiaro il messaggio lanciato da Barca: la Ditta non va difesa a prescindere, ma solo se e laddove funziona. Senza tabù.
Uno sforzo di chiarezza che ha gettato nel panico molti eletti dem. Al quali Orfini non intende offrire alcuna sponda: «Barca dice la verità, se non fosse stato così il Pd Roma non sarebbe stato commissariato».
All'epoca tutti gli esponenenti dell'opposizione di sinistra dichiaravano guerra al “piano villetta”, “inutile”, “grande inganno”, “fuorviante”,“illegittimo”, ecc. Totale la condanna del fai-da-te innescato dalle deroghe, fonte di guai per l'isola. Evocavano i tanti casi di compromissione del patrimonio ambientale/paesaggistico, contro lo sviluppo durevole della Sardegna, da perseguire caso mai con strategie e norme lungimiranti. Magari con semplificazioni e accelerazioni delle procedure, spiegavano. Mai con le eccezioni alle regole.
Da un anno la sinistra è tornata al governo della Regione. E la sua azione sembra ora contraddire scelte del passato acquisite e difese fino a ieri. La crisi è continuamente evocata; e per dare risposte al disagio delle imprese edili si è pensato di guardare con più indulgenza ai pessimi programmi della destra. Obiettivo la riedizione meno indigesta del “piano casa” , tenendo nello sfondo quello di Cappellacci, che era stato pensato allora soprattutto per ridurre il livello esemplare di tutela deciso nel 2006 ( Cfr. E. Salzano, Lezioni di Piano, Corte del Fòntego editore, Venezia 2013). Le conseguenze sonotutte immaginabili, basta dare un'occhiata al testo approvato dalla commissione consiliare qualche giorno fa, ancorapiù permissivo di quello della Giunta. Il complesso delle previsioni consente incrementi percentuali di volumi in tutte le zone omogenee, dai centri storici alle zone costiere più prossime alla battigia, quindi a beni paesaggistici, in deroga alle norme vigenti e ai piani urbanistici comunali.
Il presidente della Regione Pigliaru (assessore nella giunta Soru) è quindi intervenuto per richiamare la coalizione ad una maggiore aderenza al programma di governo, sconfessando il testo licenziato dalla commissione (il ddl 130A ) molto lontano dalla modernità del Ppr.
I malumori si sono diffusi nella maggioranza, ovvero nel Partito Democratico, il cui segretario è oggi Renato Soru contrario allo stravolgimento del Ppr. Tant'è che sono annunciate correzioni al ddl, specie dopo il recente confronto nella direzione PD, per cui non vale la pena di soffermarsi sui dettagli del precario disegno di legge. Occorre però interrogarsi sui contenuti più intemperanti del provvedimento, alcuni molto preoccupanti, come la programmata resurrezione di sepolte lottizzazioni in aree costiere o gli incrementi smodati concessi agli alberghi pure nei 300 mt dal mare e quindi nelle rive. Milioni di metri cubi distribuiti a caso, sottratti al controllo della pianificazione locale e privi della valutazione dell'impatto ambientale conseguente. Fughe che fanno temere per le scelte future, se stessero nel solco dell'idea, ben espressa in “SbloccaItalia”. Secondo cui le norme per la tutela del paesaggio e dell'ambiente sono d'impedimento alla crescita del Pil.
Anche in Sardegna è evidente il disorientamento della sinistra su questi temi, specie quando governa. Si sconta – come altrove – la complicata convivenza di visioni molto distanti nel PD, un dato della sua evoluzione al tempo di Renzi: “una grande forza di centro che corteggia la destra” – è la definizione di un autorevole esponente dem.
È come se lo spirito del Patto del Nazareno sorvolasse l'Italia pronto a materializzarsi qua e là. Così non stupiscono importanti analogie tra il dibattito in Sardegna e quello in corso in Toscana, al centro le buone idee dell'assessore Anna Marson sulla tutela dei paesaggi di quella regione. Un dibattito, quasi tutto interno al PD, con singolari somiglianze nelle due Regioni, specie per le ostilità ai principi di salvaguardia dei beni comuni annidate in settori di quel partito, e quindi nelle aggressioni prefigurate a parti pregiate del territorio (altre volumetrie nei 300 mt nelle coste sarde, come i nuovi fronti di cava sulle Alpi Apuane sopra i 1200 mt).
Gli sviluppi non sono prevedibili in Sardegna. Si spera che il presidente Francesco Pigliaru, al quale spetta la sintesi della controversia, scelga di allearsi con Renato Soru. È il solo modo per tentare di ricondurre alla ragione le norme per l'edilizia in discussione: sarebbe meglio se ricomprese in un provvedimento meno estemporaneo, ad esempio nella nuova legge urbanistica più volte annunciata in questi mesi.
Agenzia ANSA. Firenze, 16 marzo 2015
Non si stravolga il il piano paesaggistico della Toscana che «deve prevedere norme cogenti per le rispettive amministrazioni comunali e deve essere condiviso con il ministero dei Beni Culturali. Le osservazioni tecnico-scientifiche devono rimanere vincolanti nei confronti delle amministrazioni locali, valorizzando ruolo e valore delle competenze specialistiche ed al coinvolgimento dell'intellettualità».
E' quanto chiede la Cgil Toscana che lancia un appello affinché vengano salvaguardate le cave, le coste e le aree di pregio ambientale della regione. «Come Cgil Toscana abbiamo espresso in tutte le sedi di confronto il nostro parere positivo e favorevole al piano con le integrazioni fatte dal presidente Rossi alcune settimane fa - spiega il sindacato in una nota -, punto avanzato di sintesi tra esigenze del lavoro, dell'ambiente e di un concetto alto di paesaggio e di beni culturali, frutto di un impegno di anni che ha coinvolto le migliori intelligenze e passioni sul tema. Siamo di fronte al fondato rischio che gli interessi corporativi rompano tale equilibrio, non a favore del lavoro a fronte dell'ambiente sia chiaro».
La Repubblica, 16 marzo 2015
Ora il Piano del Paesaggio della Regione Toscana è, anche formalmente, una questione nazionale. Nella sostanza lo era fin dall’inizio: perché esso decide il futuro di un pezzo importantissimo di quello che la Costituzione chiama il «paesaggio della Nazione». Ma anche perché aveva l’ambizione di indicare a tutto il Paese un futuro sostenibile, capace di tenere insieme sviluppo, ambiente e salute. Una via in cui la tutela dell’ambiente non fosse affidata ai vincoli delle soprintendenze (indispensabili, in mancanza di meglio), ma ad un progetto politico responsabile.
A tutto questo serviva il testo voluto dal presidente Enrico Rossi, scaturito dal lavoro di Anna Marson (assessore alla Pianificazione della Regione Toscana) e adottato dal Consiglio regionale nello scorso luglio. Ma dopo l’estate qualcosa è cambiato: il vento dello Sblocca Italia (la legge a favore del cemento scritta dal ministro Lupi, e approvata a novembre) ha cominciato a soffiare anche sulla Toscana, ridando forza e voce ai centri di interesse che Rossi era riuscito a contenere. Così, nelle ultime settimane, il Piano è stato smontato pezzo a pezzo in Commissione, grazie al sistematico voto congiunto di un Pd che ormai non risponde più a Rossi e di una Forza Italia scatenata: una specie di Patto del Nazareno contro il futuro del Paesaggio toscano. Se passasse così com’è stato ridotto, il Piano sarebbe un atroce boomerang. Facciamo solo qualche esempio: nuovi fronti di cava potrebbero essere aperti sulle Alpi Apuane anche sopra i 1200 metri (cambiando per sempre lo skyline della regione); le strutture su tutta la linea di costa potrebbero ampliarsi a piacimento, e si potrebbe costruire perfino nel Parco di San Rossore; case potrebbero sorgere anche negli alvei dei fiumi soggetti ad alluvioni, e lo sprawl urbano potrebbe mangiarsi quel che rimane dei meravigliosi spazi rurali della piana di Lucca.
Di fronte a questo concretissimo rischio (si vota domani), Rossi ha chiesto aiuto al governo: una scelta paradossale, che segnala il coma irreversibile del regionalismo. Ma è il ministero per i Beni culturali l’unico freno di emergenza che può evitare che il paesaggio toscano cappotti in parcheggio.
Il Piano dev’essere, infatti, approvato e condiviso dal ministero: che solo in presenza di forti garanzie può contenere i suoi vincoli. Per questo Rossi incontrerà Dario Franceschini, sperando paradossalmente in un “no”: quel “no” che può permettergli di tornare a Firenze ricacciando nell’angolo gli interessi delle lobby che parlano attraverso i ventriloqui dell’assemblea regionale.
Ma quel “no” arriverà? Come si è capito anche dalle forti dichiarazioni della sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni (che ha la delega al Paesaggio), la struttura tecnica del Mibact considera il Piano irricevibile. Ci auguriamo che i tecnici potranno fare il loro lavoro, e che non prevarrà invece la linea politica di un governo che sembra aver fatto del motto «padroni in casa propria» (parola d’ordine del ventennio berlusconiano) uno slogan positivo.
Dario Franceschini saprà dimostrare di essere diverso da Maurizio Lupi, santo patrono del consumo di suolo? E che ruolo giocherà il toscanissimo Matteo Renzi, che sembra fermo ad un’idea di sviluppo territoriale che era già vecchia negli anni Sessanta?
Da ciò che avverrà nelle prossime ore non capiremo solo se la Toscana dei nostri figli sarà resa simile alla Calabria di oggi: ma capiremo anche se “sviluppo” continuerà ad essere sinonimo di “cemento”. O se, finalmente, cambieremo verso.
La Commissione, presieduta dal Prof. Giuliano Volpe e composta di studiosi stranieri, il Prof. Michel Gras, l’architetta Jane Thompson, e italiani, la Prof. Laura Ricci, la Prof. Tiziana Ferrante, il Prof. Eugenio La Rocca, il Prof. Claudio Strinati e da me stesso, con la partecipazione del Prof. Claudio Parisi Presicce, della Dr. Federica Galloni, della Dr. Mariarosaria Barbera e dell’Arch. Agostino Burreca, è stata istituita il 1 agosto 2014 ed ha terminato i lavori il successivo 30 dicembre. La relazione finale della Commissione, resa pubblica, propone una serie di interventi intesi a migliorare le condizioni della zona monumentale antica; alcuni sono fattibili in tempi brevi e con poca spesa, altri sono di natura più complessa e collegati con la realizzazione di opere pubbliche, in particolare della linea C della metropolitana; tra questi il grande centro di servizio previsto fin dal 1988 sotto il livello stradale della via dei Fori imperiali tra il Colosseo e il Largo Corrado Ricci. L’attuazione dell’intero programma darebbe di certo un assetto più decoroso alla parte centrale della città, sollevandola dalle condizioni di decadimento e migliorando lo stato di molti monumenti. Tuttavia, nell’ampio panorama dei problemi esaminati la sistemazione dei Fori imperiali, obiettivo per il quale era scaturita la necessità di istituire la Commissione stessa, non ha ricevuto un’attenzione pari alla sua importanza. Non esiterei a definirne la trattazione del tutto deludente: non vi sono stati approfondimenti sugli aspetti già studiati né proposte innovative di alcun genere, ancorché dichiarate auspicabili. La posizione assunta, non del tutto unanimemente ma quasi, è stata quella di “non abbandonare la prospettiva di una soluzione innovativa che porti alla sostituzione dell’attuale via, mantenendone il tracciato e la funzione, e alla ricomposizione del contesto archeologico”. A questo, cioè alla ricomposizione del contesto archeologico, si potrebbe arrivare secondo la Commissione con un viadotto carrabile e pedonale che consentirebbe di riunificare le parti dei diversi Fori oggi frammentarie e rese incomprensibili dalla presenza della strada; al tempo stesso il viadotto consentirebbe “la conservazione del ‘segno’ costituito dall’asse della via dei fori imperiali”.
In questo modo non si è neanche tentato di aprire la strada a soluzioni nuove, non osando rinunciare né alla riunificazione dei complessi monumentali ora disarticolati, né al mantenimento della via dei Fori imperiali, concepita come un “segno” storico da perpetuare tramite un suo simulacro con la carreggiata sostenuta da esili pilastri. La scelta di conservare il “segno” della strada senza concrete motivazioni di ordine urbanistico appare legata a forme di malinteso storicismo. La proposta di un ponte, o viadotto, che possa scavalcare i Fori imperiali completamente scavati per mantenere il collegamento stradale tra piazza Venezia e il Colosseo era stata formulata da Pierluigi Romeo nel 1979, e fu ripresa con il progetto di Massimiliano Fuksas nel 2004, e poi nuovamente in forma più elaborata da Raffaele Panella nel 2013. Questa soluzione costituisce un indubbio progresso rispetto allo stato delle cose perché consente il completamento delle esplorazioni e la riunificazione delle aree scavate; la costruzione del viadotto sarebbe però del tutto inutile, come vedremo. Inoltre, si manterrebbe così la separazione tra il livello d’uso attuale, cittadino, e quello archeologico destinato al turismo. Esistono però anche altri modi più semplici e meno costosi per ottenere gli stessi risultati.
Dopo le demolizioni dell’intero quartiere che aveva occupato l’area dei Fori imperiali, avviate nel 1929 secondo i progetti di Corrado Ricci ad est della via Alessandrina ed estese tra il 1931 e il 1933 a tutti i restanti spazi, si giunse in pochi anni a una definitiva sistemazione con soluzioni provvisorie ma opportune, perché servirono a sventare programmi di edificazione in parte già avviati e per fortuna subito sospesi. Il vuoto creato tra le rovine suscitava aspirazioni edificatorie e vanità architettoniche: persino Le Corbusier si era proposto con il progetto di una costruzione tra la Basilica di Massenzio e il Colosseo. È evidente che vi fosse fin da allora, tra chi aveva promosso, attuato e seguito il programma di abbattimento degli edifici e di sfondamento della Velia, la previsione o almeno l’aspirazione di un ampliamento degli scavi nei vasti spazi rimasti liberi a ridosso della nuova via dell’Impero e sistemati con aiuole. Vi sono molti indizi di questa previsione; ne ricordo solo uno, evidentissimo: il muraglione di sostegno della via Alessandrina costruito dopo le demolizioni di Corrado Ricci è predisposto con una serie di arcate che dopo un successivo scavo del Foro di Traiano avrebbero consentito di collegare l’area della piazza con l’emiciclo orientale. L’intento fu tuttavia vanificato prima dal prevalere delle esigenze di rappresentazione retorica del regime, che imponevano una decorosa e immediata ricomposizione degli spazi liberati dalle costruzioni, e poi per il sopravvenire della guerra. Quello stato di cose, tra Piazza Venezia e il Colosseo, si mantenne quindi immutato e indiscusso per circa quarant’anni. Se però l’assetto di quell’area non aveva subito mutamenti, la città si era trasformata radicalmente: l’espansione edilizia nel suburbio, avvenuta nelle forme e governata nei modi descritti da Italo Insolera nella sua storia urbanistica di Roma moderna (1962), aveva modificato l’equilibrio tra il centro urbano e le periferie; la legge urbanistica del 1967 (la cosiddetta ‘legge ponte’), aveva tutelato i quartieri del centro storico ma, influendo sui valori immobiliari, ne aveva accentuato il distacco da quelli periferici; il traffico automobilistico, divenuto insostenibile, ostacolava l’agibilità degli spazi pubblici e la percezione degli aspetti storico-artistici del paesaggio urbano e, soprattutto, creava un inquinamento atmosferico assai nocivo per la conservazione dei monumenti antichi.
Credo che sia utile ricordare le ragioni che agli inizi degli anni Ottanta condussero alla proposta di un assetto diverso dei Fori imperiali. Se alcuni dei motivi che allora imponevano urgenti cambiamenti sono superati, altri persistono e nel frattempo ne sono sorti di nuovi ancora. Tutto scaturì da una pressante esigenza di conservazione del patrimonio esistente: infatti, la maggiore concentrazione di monumenti marmorei di Roma, nell’area archeologica centrale, era esposta al danneggiamento e al rapido decadimento derivanti dall’elevato grado di inquinamento atmosferico.. La previsione, sensata e in parte gradualmente attuata, di ridurre e poi di eliminare il transito dei veicoli a motore dalla via dei Fori imperiali, privandola così della sua primaria funzione urbana, metteva seriamente in dubbio la necessità di mantenere la sistemazione degli anni Trenta. Si apriva in tal modo per la prima volta la prospettiva concreta dell’esplorazione e del recupero quasi integrale delle grandi piazze antiche in un complesso unitario che dal Foro romano e dal Palatino si potesse estendere fino al Circo Massimo, al Colosseo e ai Mercati di Traiano. Il programma di uno scavo che avrebbe dovuto eliminare la via dei Fori imperiali fu presentato dalla Soprintendenza con una mostra tenuta nella Curia dei Senato al Foro romano nel 1981. Prese poi forma il progetto urbanistico predisposto su incarico della Soprintendenza da Leonardo Benevolo con Vittorio Gregotti, Augusto Cagnardi, Ferdinando Castagnoli, Ippolito Pizzetti, Claudio Podestà, Guglielmo Zambrini; il lavoro, che resta un’elaborazione concettuale fondamentale per la questione dei Fori imperiali, è stato pubblicato nel 1985: Roma. Studio per la sistemazione dell’area archeologica centrale (1985). Un secondo livello di progettazione, ancora a cura di Leonardo Benevolo e Francesco Scoppola con Vittorio Gregotti, Augusto Cagnardi, Antonio Cederna, Vezio De Lucia, Massimo De Vico Fallani, Sergio Giovanale, Carlo Pavolini, Claudio Podestà, Lucio Quaglia, Alessandro Quarra, comparve nel 1988: Roma. L’area archeologica centrale e la città moderna.
La discussione che scaturì da queste proposte fin dal 1981 fu però viziata da contrapposizioni politiche e ideali che spostarono il dibattito dagli aspetti programmatici di conservazione monumentale e di rinnovamento urbanistico alle valutazioni di ordine storico sulle trasformazioni subite da Roma durante il regime fascista. In realtà vi erano solo la necessità e, molto pragmaticamente, l’opportunità di far tesoro dei costi sociali già sostenuti. L’abbattimento di un intero comparto urbano densamente abitato e il trasferimento dei residenti, appartenenti ai ceti sociali meno abbienti, in quartieri di periferia apposta edificati comportarono costi elevatissimi. Oggi un intervento così radicale in una parte storica della città, come quello attuato durante il Fascismo, compiutamente descritto da Antonio Cederna nel suo Mussolini urbanista (1979), non sarebbe ammissibile sotto il profilo normativo, etico e culturale, e non sarebbe comunque sostenibile per l’impegno economico necessario; tuttavia la trasformazione è avvenuta e di là da ogni giudizio non vi è che da prenderne atto e considerare lo stato delle cose in previsione della migliore sistemazione dei monumenti antichi e dello sviluppo della città.
La questione del decadimento dei marmi romani aggrediti dall’inquinamento si pose nel 1978 quando, a seguito di alcuni distacchi di superfici scolpite dalla colonna di Marco Aurelio, la Soprintendenza eseguì accertamenti su tutti i monumenti marmorei della città. Presento qui alcune delle immagini che mostrai il 21 aprile del 1979 in una conferenza tenuta in Campidoglio su invito di Giulio Carlo Argan, allora sindaco di Roma. Con quelle ricognizioni si ebbe il modo di costatare, per la prima volta, la gravità dei danni arrecati alle superfici marmoree dalle emissioni degli autoveicoli, specialmente di quelli a combustione di gasolio, e dalle polveri prodotte dall’usura delle ruote di gomma. I monumenti non avevano ricevuto manutenzioni da molto tempo, e quindi recavano i segni di un lungo decadimento. I danni più insidiosi, però, perché attivamente progressivi erano dovuti alla grande accelerazione provocata dalle nuove forme d’inquinamento atmosferico comparse nel corso del Novecento. Per la Colonna Traiana abbiamo i preziosissimi calchi del Museo della Civiltà Romana, realizzati nel 1862 per volontà di Napoleone III, i quali documentano lo stato in cui si trovava il monumento a quell’epoca; l’esecuzione dei calchi aveva infatti comportato un’accurata ripulitura delle superfici. L’inquinamento dovuto alle emissioni degli autoveicoli induceva sulle superfici dei monumenti un processo chimico che trasformava il marmo in gesso e lo esponeva quindi all’erosione del vento e al dilavamento della pioggia. La penetrazione degli agenti inquinanti in profondità provocava inoltre la formazione di croste che si distaccavano facendo perdere ampie porzioni lapidee. La situazione era aggravata dalle emissioni degli impianti di riscaldamento, ancora in parte a carbone ma per lo più a gasolio; gli uni e gli altri influivano sull’inquinamento atmosferico generale della città in maniera massiccia per la diffusione su tutta la grande cintura intensamente edificata della periferia urbana. Fu quindi possibile appurare che l’inquinamento stava provocando danni non solo ai marmi con figurazioni scolpite, come le grandi colonne istoriate di Traiano e di Marco Aurelio, e gli archi di Tito, Settimio Severo, Costantino, ma anche alla ornamentazione architettonica e persino alle superfici non decorate dei monumenti. Di minore entità, ma non irrilevante, si presentavano le alterazioni subite dalle superfici di travertino in monumenti come il Colosseo e il teatro di Marcello. Il danno maggiore consisteva naturalmente nelle perdite irrimediabili arrecate a quei rilievi storici e a quei complessi scultorei che rappresentano le principali manifestazioni dell’arte ufficiale romana. Il decadimento era però del tutto generalizzato e si estendeva ad altri materiali lapidei come il tufo, e richiamo il caso del Tabularium, e metallici, e ricordo la statua equestre di Marco Aurelio. La questione della protezione di questo patrimonio fu sollevata nel Consiglio Nazionale dei Beni Culturali nel dicembre del 1978, e suscitò preoccupazione presso l’opinione pubblica internazionale. Per riferire su questo stato di cose fu nominata una Commissione ministeriale per le opere d’arte all’aperto, presieduta da Cesare Gnudi, illustre storico dell’arte e Soprintendente ai beni artistici di Bologna. La Commissione si espresse con una relazione finale nell’aprile del 1980, e gli atti furono pubblicati dal Ministero nel 1981. Nel confermare il grave stato dei monumenti romani, la Commissione sollecitò per la loro conservazione provvedimenti urgenti, straordinari, che in effetti furono adottati in sede legislativa nel 1981, ma raccomandò anche misure di pianificazione territoriale idonee a ridurre le fonti di inquinamento.
Per la riduzione dell’inquinamento dell’atmosfera urbana qualche beneficio si ebbe dopo molto tempo, soprattutto in conseguenza dello sviluppo tecnologico degli impianti di riscaldamento e a seguito della sostituzione del gasolio con il metano. Gli interventi di conservazione eseguiti negli anni Ottanta sono stati temporaneamente risolutivi nel frenare la progressione dei danni, ma non potevano essere di durata illimitata. Ne era stata prevista l’efficacia per almeno vent’anni, dopodiché si sarebbero dovute ripetere le operazioni di manutenzione: sono ora passati trent’anni e non si sono ancora compiute nuove ripuliture dei marmi, con il rischio che riprendano i fenomeni di disgregazione della materia. Infatti, se l’entità dei danni è ora più contenuta, essa non è per nulla eliminata. I monumenti dell’area archeologica centrale, liberati dall’aggressione diretta delle emissioni dei veicoli a motore, soffrono ancora per l’inquinamento generale dell’area urbana; inoltre, uno dei capisaldi per la conoscenza dell’arte romana di età antonina, la colonna di Marco Aurelio, è tuttora molto esposto agli agenti inquinanti. Il peggioramento del suo stato di conservazione è evidente per il progressivo annerimento delle superfici. Periodici controlli, seguiti da accurate manutenzioni, sarebbero comunque necessari anche sugli altri monumenti.
Il decadimento dei monumenti romani, architetture ricoperte di raffigurazioni scolpite nel marmo, costituisce ancora oggi il più grave problema conservativo per il patrimonio artistico italiano. Non esistono altri complessi di opere d’arte così importanti e di tali dimensioni esposti all’aperto e per loro natura non ricoverabili mediante ripari protettivi. La questione è stata però completamente rimossa e non se ne parla più. Le informazioni date dalla stampa lo scorso 3 marzo sulle ricerche compiute dall’Istituto superiore per la conservazione e il restauro sull’attuale incidenza dell’inquinamento a Roma sono troppo sintetiche e quindi fuorvianti. La perdita delle superfici misurata tra i 5,2 e i 5,9 micron riguarda la progressione annua del danno arrecato alla materia marmorea sana esposta all’aperto, e non a superfici scolpite già molto alterate, interessate per di più da profonde lesioni, com’è nel caso dei principali monumenti marmorei antichi di Roma. In tali condizioni gli effetti dell’inquinamento non sono lineari ma discontinui, e provocano estesi e profondi distacchi di particolari scultorei rilevanti, talvolta di intere figure. Questo stato di cose non trova particolare ascolto né suscita preoccupazione. L’attenzione è ora rivolta in maniera quasi esclusiva alla capacità dei beni culturali di rendere un utile economico, e gli interessi della produttività connessi con il turismo prevalgono regolarmente su quelli della cultura e della tutela del patrimonio storico e artistico della nazione, che sono invece compresi tra i principi fondamentali della costituzione italiana. I problemi della protezione e della conservazione di questo patrimonio interessano solo se vi è del clamore a seguito di guasti, anche secondari, com’è avvenuto nel caso dei crolli di murature (per lo più moderne) di Pompei. Il graduale e progressivo disfacimento delle più preziose testimonianze dell’arte romana sembra invece essere un destino ineluttabile non meritevole di attenzione; eppure le operazioni di conservazione non hanno costi esorbitanti, richiedono soprattutto la cura manuale di operatori competenti ed esperti.
Il primo intervento inteso alla riduzione delle fonti di inquinamento, rivelatosi efficace sulla dimensione locale, fu il divieto di transito automobilistico sulla strada che attraversava il Foro alle pendici del Campidoglio: la via del Foro romano, talvolta ricordata come via della Consolazione. La limitazione, avvenuta nel 1979, favorì il progetto di rimozione della strada per unificare le due parti dell’area monumentale e per restaurare il Clivo capitolino. I lavori iniziarono nel 1980 e si protrassero per alcuni anni con scavi e restauri, e ripristinarono il percorso antico tra il Campidoglio e la piazza del Colosseo. Fu allora possibile consentire il libero attraversamento del Foro, che era stato per molti anni, con il Palatino, un parco archeologico frequentato soprattutto da turisti. Da quel momento l’area del Foro divenne nuovamente una parte della città che si poteva semplicemente attraversare, o in cui si poteva passeggiare per osservare i monumenti o sostare in contemplazione del paesaggio. L’eliminazione della via del Foro romano fu la prima importante trasformazione dopo l’assetto degli anni Trenta, l’unica che si sia risolta nella ricomposizione di un grande contesto di interesse storico e nel ripristino di percorsi pedonali alternativi alle strade ingorgate di veicoli. Il progetto di riunificare l’area archeologica e di restaurare il Clivo capitolino, contrastato da più parti, era stato assecondato dal Sindaco di Roma Luigi Petroselli, il quale fece smantellare la strada rendendo così possibili le attività di scavo e di restauro. Petroselli aveva compreso che Roma poteva a stento competere con le più grandi capitali sul versante della produzione culturale, e che momenti di effimera vitalità nel cinema, nelle arti figurative, nell’architettura, avevano posto la città nella condizione di occupare talvolta una posizione elevata, ma mai di assumere un ruolo di primo piano a livello mondiale. Egli aveva ben visto che il vero primato di Roma, mai sufficientemente sostenuto con lungimiranza politica, era dovuto alle sue testimonianze storiche, che l’indiscussa e incomparabile grandezza di questa città consisteva nei suoi caratteri archeologici, da sempre oggetto d’interesse universale e fonte inesauribile di accrescimento e di rinnovamento urbano.
L’odierno affollamento del Foro non consente di ospitare un numero maggiore di visitatori senza modificare i criteri di ammissione e senza regolarne i flussi, ma queste modifiche sono possibili, e ancor più lo saranno con l’ampliamento degli spazi. L’abolizione del libero ingresso al Foro romano, decisa nel 2005, è stata un’umiliante sconfitta culturale che per di più non ha prodotto benefici economici. Con il biglietto unico per il Colosseo e il Palatino già si raccoglieva l’intera massa di turisti interessati alla visita dell’area archeologica. L’aumento degli incassi è dovuto solo all’incremento delle presenze turistiche a Roma: le variazioni sono infatti proporzionali a quelle dei flussi turistici nella città.
L’incremento del turismo ha indirizzato sull’area archeologica di Roma milioni di visitatori. Per il Colosseo e il Foro romano, ove si sono superati i limiti di sostenibilità, sono necessari maggiori spazi per ospitare il pubblico. Nel Colosseo il completamento della pavimentazione lignea è l’unico provvedimento che può consentire di fare fronte alle nuove esigenze di spazio per la visita e può inoltre permettere una migliore percezione dei caratteri monumentali. La riproduzione dei meccanismi predisposti in antico per il sollevamento di bestie e materiali e per l’allestimento degli spettacoli renderebbe d’altra parte comprensibile il funzionamento della struttura e attirerebbe la curiosità del pubblico. L’intervento sarebbe complesso e oneroso ma possibile, perché sono stati compiuti studi, sperimentazioni e parziali realizzazioni. Con una regolare apertura notturna si potrebbero inoltre restituire ai visitatori le sensazioni della spettrale monumentalità al chiarore lunare o nei lividi colori aurorali, così tanto ambite e provate quando il Colosseo era facilmente accessibile a qualunque ora del giorno e della notte. Occasionali e contenute manifestazioni culturali sarebbero compatibili, come già si è sperimentato più di una volta, ma il Colosseo non potrebbe ospitare spettacoli di massa: occorrerebbe infatti intervenire in maniera molto pesante sulla cavea. Il triste esempio di Pompei, ove il teatro maggiore è stato rovinato per essere adibito alla rappresentazione di spettacoli, dovrebbe mettere in guardia sui rischi di una ristrutturazione. Inoltre, il Colosseo ha già il suo grande pubblico del turismo internazionale.
Nel Foro romano i visitatori devono poter percorrere i luoghi aperti già in antico, ossia la piazza, le strade e, laddove esistono i requisiti di agibilità, anche gli interni degli edifici. Gli spazi sono tuttavia insufficienti e il grande affollamento rende ormai la visita faticosa, distoglie dalla contemplazione e lede l’aura del paesaggio di rovine. Il Palatino può accogliere altro pubblico per la visita del palazzo dei Cesari, e dei grandiosi edifici lungo le sue pendici, ma contiene anche monumenti delicati con pitture parietali che non possono sostenere una maggiore frequentazione: l’Aula Isiaca, la Casa dei Grifi, la Casa di Augusto e la Casa di Livia, e così anche le opere d’arte esposte nel Museo Palatino. Gli spazi naturalmente destinati alla visita del grande pubblico sono quelli pianeggianti, delimitati dalle alture, ove sono sorte le grandi piazze del Foro romano e dei cinque Fori imperiali. La sistemazione e l’apertura dei Fori imperiali ai visitatori che ora si affollano nel Foro romano offrirebbe un grande beneficio alla domanda turistica, e costituirebbe al tempo stesso un enorme arricchimento per l’immagine della città.
Come si riuscì ad aprire liberamente il Foro romano istituendo il biglietto d’ingresso al piano terra del Colosseo, fino allora gratuito, così è possibile fin d’ora una manovra del tutto analoga aumentando il prezzo di accesso al Colosseo-Palatino e consentendo la piena gratuità per il Foro romano e, in prospettiva, per i Fori imperiali. Il costo del biglietto per il Colosseo e Palatino è oggi molto basso rispetto agli standard internazionali, e può essere aumentato fino a 35 euro. Anche con una riduzione temporanea degli ingressi di circa il 20 per cento in ragione del prezzo più alto, si avrebbe un incremento degli introiti del 140 per cento. Si risolverebbero così i problemi dell’affollamento dilatando gli spazi aperti al pubblico, che devono peraltro riassumere la funzione di punto nodale per il transito pedonale nel rapporto con i quartieri cittadini gravitanti sull’area archeologica. La creazione di uno spazio unitario liberamente frequentabile e transitabile – si ricordi che il Foro di Nerva era detto anche forum transitorium o forum pervium – risolverebbe la questione, tutta erariale, della gestione di monumenti amministrati dallo Stato e dal Comune. D’altra parte è bene ricordare che se la tradizionale competenza amministrativa e scientifica del Comune di Roma contribuisce in maniera irrinunciabile alla cura del patrimonio storico e artistico della città, il complesso monumentale dei Fori imperiali appartiene in gran parte al Demanio dello Stato. L’unificazione funzionale (libera apertura al pubblico) e non di gestione (custodia e cura dei monumenti) dello spazio archeologico del Foro romano e dei Fori imperiali può esser attuata immediatamente senza alterare l’attuale ripartizione dei compiti rispettivamente esercitati dallo Stato e dal Comune di Roma. La pretestuosa rappresentazione di difficoltà della gestione ha il solo ed evidente fine di giustificare la creazione di strutture che sottraggano la cura del patrimonio monumentale alla competenza delle naturali sedi istituzionali. La sventurata, recente, esperienza dei commissariamenti di soprintendenze dovrebbe bastare ad allontanare lo spettro di operazioni concepite per finalità non coerenti con l’interesse pubblico. Queste comporterebbero peraltro la distruzione di consolidate strutture, statali e comunali, di elevata potenzialità scientifica, con ogni prevedibile ripercussione negativa sulla cura del patrimonio archeologico.
La ripresa degli scavi, nel 1997, negli spazi a ridosso della via dei Fori imperiali, adibiti a giardini e a parcheggi, ha riportato alla luce ampie porzioni del Foro di Traiano, del Foro di Cesare, del Foro Transitorio e del Foro della Pace, e in misura minore del Foro di Augusto. L’incremento delle conoscenze è stato enorme per gli aspetti topografici, storicoartistici e per la ricostruzione delle vicende edilizie della città in età tardoantica e altomedievale. L’intera area si trova in fase di trasformazione, ma senza un programma definito. Si è ottenuto così il risultato di aver generalizzato la frammentazione delle aree scavate e separate tra loro ai margini della strada. Ai bordi degli scavi, in molti casi palesemente intesi come definitivi, e nei restauri già eseguiti si è adottato il criterio di conservare poco selettivamente i resti che documentano le trasformazioni edilizie subite dall’area nel corso dei secoli. In tal modo non sono comprensibili né le singole fasi storiche né la successione delle trasformazioni urbane. Ne è risultata una sistemazione incongrua con porzioni di aree scavate pressoché inagibili e separate tra loro, incomprensibili e prive di particolare fascino per l’affollamento di muri che si compenetrano e si sovrappongono. È il fallimento di un grande programma.
Lo scoprimento dei livelli antichi dei Fori ha un senso se concepito come la prima fase, quella conoscitiva, di una trasformazione dell’area e non per una sua autonoma finalità. Deve poi subentrare la sistemazione, con la scelta e la ricomposizione degli elementi atti a rappresentare le trasformazioni che i luoghi hanno subito nel tempo e la rievocazione di significati storici. Il paesaggio che emerge dall’assetto di uno scavo è sempre un’astrazione simbolica, una cosa che non è mai stata ma che ha la capacità di rievocare quello di cui mediante lo scavo si è riconosciuta l’esistenza; un paesaggio la cui storicità si realizza nel presente. Il più bell’esempio di una tale sistemazione è il Foro romano, una creazione del Novecento, in gran parte dovuta a Giacomo Boni, il quale seppe sottrarre senza remore elementi non funzionali alla composizione del paesaggio e alla rappresentazione più efficace della sua dimensione temporale. Non è vero che furono eliminate le testimonianze di età medievale per preferire quelle di epoca classica. Boni documentò quello che la scienza del suo tempo considerava necessario ma asportò livelli e strutture di età antica e medievale per giungere all’assetto che nel Foro tuttora si mantiene. Una prospettiva analoga è da immaginare per i Fori imperiali, quando all’esplorazione dovranno subentrare le sistemazioni funzionali all’uso degli spazi e la composizione di un nuovo paesaggio urbano.
Gli scavi recenti dei Fori imperiali non sono andati oltre le aspirazioni e le speranze che si potevano avere già negli anni Trenta, dopo le grandi demolizioni; aspirazioni peraltro già concepite molto tempo prima e manifestate apertamente nel 1911 da Corrado Ricci quando progettava le prime demolizioni sul versante orientale della via Alessandrina:
"Non v’ha certo chi non vegga che l’impresa più bella e più completa per la liberazione dei Fori sarebbe quella, ripetutamente proposta, di scoprirli del tutto abbattendo interamente le case vecchie e recenti che sorgono tra la via del Foro Traiano, via Marforio, Tor de’Conti e via di Campo Carleo, ossia tutto l’enorme quartiere solcato da via delle Chiavi d’Oro, Cremona, Priorato, Alessandrina, in un senso; Carbonari, Marmorelle, Bonella e Croce Bianca nell’altro. Ma non v’ha pure chi non vegga e riconosca le enormi difficoltà finanziarie e di economia cittadina che si oppongono a tale magnifico progetto sino al punto da confinarlo, per ora e per molto ancora, nel mondo dei sogni."
È indubbio che alla base del nuovo assetto degli anni Trenta non vi sia stato solo l’intento di creare un asse viario tra Piazza Venezia e il Colosseo, che non avrebbe richiesto così vaste demolizioni; tra le tante sollecitazioni esercitate per attuare il programma nella forma più drastica, seppure con finalità contrastanti, dovettero essere assai influenti quelle che rappresentavano il sogno di Corrado Ricci.
Ho prima accennato alla posizione assunta dalla Commissione del 2014 in difesa della “conservazione del segno costituito dall’asse della via dei Fori imperiali” mediante un ponte da costruirsi per scavalcare l’area degli scavi, senza prendere in esame soluzioni che possano invece consentire la rimozione della strada. Una prima possibilità riguarda la creazione di percorsi carrabili oltre che pedonali, per limitate esigenze di collegamento, alle quote archeologiche tra Piazza Venezia e il Colosseo. Anche mediante accorti restauri i Fori dovrebbero svolgere nuovamente la funzione di spazi transitori, oltre che di visita e di sosta. L’altra soluzione, che può peraltro combinarsi con la prima, riguarda un percorso carrabile sulla via Alessandrina. Questo è l’unico tracciato storico che ancora sopravvive dopo l’abbattimento dell’intero quartiere. Ha un’ampiezza sufficiente per sostenere il passaggio di autoveicoli e mezzi di trasporto pubblico nelle due direzioni e nella misura ora consentita sulla via dei Fori. La via Alessandrina è già un viadotto, sostenuto sul versante dei Mercati di Traiano da una sequenza di archi ideati per il collegamento con il Foro di Traiano di cui si prevedeva lo scavo. L’apertura degli archi non sarebbe altro che il compimento di una sistemazione già predisposta.È veramente strano come nelle attuali previsioni vi sia in primo luogo la demolizione della via Alessandrina. Anche volendola rimuovere, questo dovrebbe avvenire al compimento delle sistemazioni dell’intera area, quali che siano, se non altro per ovvi motivi di agibilità durante i lavori e per la loro esecuzione. I fondi donati dall’Azerbaigian potrebbero essere impiegati per un importante restauro, più utilmente che per una demolizione: si potrebbero innalzare nuovamente colonne abbattute che contribuirebbero a creare il nuovo paesaggio archeologico.
A mio avviso non vi sono motivi che possano oggi concretamente impedire la rimozione della via dei Fori imperiali, non per compiere un atto demolitorio ma per attribuire nuove funzioni e una rinnovata immagine a quella parte di Roma.
In un modo o nell’altro le grandi vicende urbanistiche di Roma hanno dovuto fare i conti con le testimonianze dell’antichità, e questo è avvenuto mediante il riuso, la riscoperta, la distruzione. Ancora oggi, qualunque concezione si voglia avere di Roma nello stato presente e nelle sue prospettive di trasformazione, resta dominante il rapporto con la storia e con le sue vestigia. Come in tanti altri luoghi, il sostrato millenario ha influito sulla forma della città, ma a Roma anche gli aspetti salienti del paesaggio sono composti di edifici antichi, monumenti, rovine costruite solidamente ‘per l’eternità’. Ruderi che per secoli hanno dominato, imponenti e solitari, le vedute aperte della campagna, ora assediati da fabbricati anonimi, sono divenuti elementi d’identità storica e di originalità architettonica in nuovi quartieri di periferia. Il paesaggio di Roma è senza uguali al mondo per la dimensione e la quantità di testimonianze storiche. Fin dal Medio Evo i monumenti antichi vi hanno rappresentato un’epoca lontana, un mondo finito ma a noi nondimeno familiare in quei suoi aspetti formali che Umanesimo e Rinascimento hanno trasferito nella cultura moderna. I caratteri storici ancora latenti possono svolgere a Roma più che in ogni altro luogo un ruolo importante nell’innovazione della città, nel suo adeguamento alle esigenze dei tempi, nell’invenzione di nuove forme di paesaggio. Tutto questo può essere allora concepito solo nel disegno di una città che nel rinnovarsi sappia pur sempre mantenersi digna antiquitate.
Roma, 9 marzo 2015.
Corriere della Sera Milano, 16 marzo 2015, postilla (f.b.)
Prima che sia troppo tardi, qualcuno avverta il presidente Maroni e la giunta della Regione Lombardia che c’è un’altra Brebemi in arrivo dalle parti di Pavia, un’altra inutile autostrada sulla quale bruciare milioni di soldi pubblici che potrebbero essere meglio spesi, per esempio, a rappezzare buche o rafforzare ponti. Non si può restar zitti davanti a una bancarotta annunciata come la Broni-Mortara, un miliardo e 300 milioni di investimento per un nastro di cemento che mangia mille ettari di terreno, bocciata dal Ministero dell’Ambiente e da 45 sindaci della zona, che rischia di diventare un’autostrada nel deserto con poche auto e ancor meno introiti. Non si può lasciar correre nell’anno del rilancio dell’agricoltura e dello sviluppo sostenibile, come sostiene il ministro Martina, l’ennesima faraonica opera pubblica nata nel segno della grandeur di Roberto Formigoni e Infrastrutture Lombarde, l’agenzia regionale decapitata dall’inchiesta sugli appalti di Expo. Qualche risposta si deve ai territori, alle associazioni, agli agricoltori e ai cittadini che chiedono di riconsiderare un progetto nato vecchio, fuori tempo e fuori luogo.
È vero che Milano e la Lombardia soffrono di un deficit infrastrutturale e che le tangenziali scoppiano nelle ore di punta, ma non si può realizzare una mobilità a macchia di leopardo con autostrade qui e là, che a volte sono doppioni di quelle esistenti e altre volte diventano uno spreco di risorse. Serve un piano della viabilità regionale per alleggerire le arterie più intasate con una valutazione d’impatto ambientale, e anche tempi certi nelle realizzazioni. La Broni-Mortara — come la Brebemi, la nuova autostrada da Milano a Brescia che rischia il flop per mancanza di utenti, o la Pedemontana, sulla quale per ora viaggia soltanto un terzo delle auto previste — arriva a tempo scaduto: era una buona intuizione negli anni Settanta, quando l’onda lunga del boom spingeva il traffico privato e il consumo di suolo non aveva raggiunto le punte attuali; è poco strategica oggi, per i costi esorbitanti e la nuova mobilità che sta prendendo altri indirizzi. Quanto ai costi, è inutile sottolineare che la formula del project financing, nata per convogliare investimenti privati sui grandi progetti, non sempre si rivela un affare per i contribuenti: chi paga in caso di mancato raggiungimento dei ricavi previsti?
Comunque la si giri, la Regione non può stare alla finestra. E nemmeno il ministro alle Infrastrutture. I danni da pagare, per certi impegni presi, prima o poi presentano il conto.
postilla
Netta stroncatura della politica autostradale lombarda (e padana in genere) questa del Corriere della Sera, che arriva alla fine di una clamorosa debacle economica resa evidente a tutti dopo i dati sul traffico e i nuovi finanziamenti implorati al governo. Occorre però ribadire un'altra volta, ai critici ormai numerosi di questa demenza infrastrutturale, quanto su questo sito si diceva parecchi anni fa nelle sistematiche critiche al progetto di Autostrada della Lomellina: non si tratta di una infrastruttura per la mobilità, ma anche dichiaratamente di un alimentatore di "sviluppo" territoriale, fatto su misura per produrre riprodurre e disseminare sprawl insediativo. Che oltre ad essere micidiale per l'ambiente, l'agricoltura, il paesaggio, la qualità abitativa, la stessa efficienza, ha una caratteristica “positiva” che l'ha reso sinora vincente contro ogni evidenza: coincide con le strategie di sviluppo socioeconomico di varie generazioni politiche, e non solo in Lombardia, o in Italia. Quella che è stata definita la “banda di strada” è il coacervo di interessi che a partire dal ciclo dell'auto, attraverso quello edilizio-immobiliare, alimenta il sistema disperso poeticamente soprannominato Città Infinita, purtroppo costituita di risorse quanto mai finite. Prima si capisce questo legame, cioè prima lo capiscono anche i suoi oppositori, prima si potrà davvero affrontare la questione dell'iceberg, e non solo afferrarne la cima. Su La Città Conquistatrice riproposta la descrizione e analisi più puntuale del progetto dell'autostrada della Lomellina: Fabbrica dello Sprawl (f.b.)
.«Rischia lo stravolgimento il provvedimento dell’assessore Anna Marson che tutela le Alpi Apuane minacciate dalle cave e le coste La sottosegretaria Borletti: “Il Mibact potrebbe non approvarlo”». La Repubblica, 13 marzo 2015
E il paesaggio? Nel gran rumore di soprintendenti che cambiano sede e nell’attesa che arrivino i super direttori di venti musei, in molti s’interrogano: e il paesaggio? La riforma del ministero per i Beni culturali avvia i motori, ma il paesaggio non sembra al centro degli interessi. In Toscana — un paesaggio italiano esemplare — in questi giorni si scaricano pericolose tensioni. Qui è in approvazione il piano paesaggistico messo a punto nell’assessorato di Anna Marson, urbanista, docente a Venezia.
Ma il testo originale più procede verso il varo più viene stravolto da emendamenti provenienti dal partito di maggioranza, il Pd (e in particolare dalla componente renziana) che in commissione vota di concerto con Forza Italia. Il presidente Enrico Rossi ha tentato una mediazione, che non ha sortito grandi effetti. La battaglia politica è serrata. Condizionata anche dalla campagna per le elezioni regionali di maggio. Ogni votazione riserva sorprese. Volano le accuse di «voler ingessare il territorio » e di «bloccare lo sviluppo». Sono state modificate persino le cosiddette “schede d’ambito”, le descrizioni, cioè, delle caratteristiche salienti di alcuni territori, e si è messo in evidenza, per esempio, il “valore identitario delle cave di marmo”. Ma una disciplina rigorosa per le attività di cava, tale da non manipolare il paesaggio delle Alpi Apuane, è proprio uno dei punti cardine del piano. Contro la quale disciplina si sono mobilitati coloro che invece vorrebbero estrarre quanto più possibile, squarciando montagne anche in aree protette.
I punti controversi sono tanti. In pericolo le dune e altre zone costiere, denunciano gli ambientalisti. Dove si parla di “evitare” certi interventi, si preferisce “limitare”. E poi: quanto il piano deve essere prescrittivo, quanto cioè esso deve dettare regole e non solo indicazioni di massima? Senza contare la salvaguardia di una caratteristica tipica del paesaggio rurale toscano, in specie dei vigneti, fatto di tante tessere diverse e sempre più minacciato da grandi estensioni uniformi.
Il Codice per i beni culturali (approvato fra 2004 e 2008) stabilisce che i piani paesaggistici siano redatti insieme dalle Regioni e dal Mibact, cioè dalle soprintendenze. I piani sono uno strumento fondamentale per conoscere un territorio, per evidenziarne i valori, ma soprattutto per stabilire che cosa si può fare e che cosa no. Ad essi devono adattarsi tutti gli altri documenti urbanistici, compresi i piani comunali. La riforma del Mibact, però, mette a soqquadro le soprintendenze, che ora tengono insieme arte, architettura e, appun- to, paesaggio, e declassa le direzioni regionali, che prima erano protagoniste della copianificazione.
Il futuro appare incerto. Ma il presente non è migliore. Di piani paesaggistici approvati ce n’è uno solo, quello della Puglia, faticosamente redatto sotto la guida di Angela Barbanente, assessore e docente a Bari, e dell’urbanista Alberto Magnaghi. Sono stati individuati come beni paesaggistici meritevoli di tutela masserie, pascoli, lame, gravine. E ci si è dati regole per la rimettere in sesto le aree degradate.
«Siamo maledettamente indietro», ammette Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario del Mibact con delega al paesaggio. «Abbiamo uno strumento unico, ma è poco amato». Poco amato proprio mentre altri rischi incombono per le procedure accelerate e commissariate previste per le Grandi Opere dallo Sblocca Italia. Ma neanche il ministero ha sciolto i suoi nodi. Il Codice stabilisce che esso debba fissare «le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio». Ma queste linee non sono mai state elaborate.
Nel fuoco delle polemiche di questi giorni Marson insiste sui punti-chiave del suo piano, sul bisogno di «superare il concetto della sola tutela» e di passare a «codificare nuove regole ». Altro punto qualificante: il piano non deve occuparsi solo dei paesaggi eccellenti, di cui la Toscana può menar vanto, «ma anche dei paesaggi delle periferie, delle campagne urbanizzate, delle lottizzazioni, delle zone industriali degradate, dei bacini fluviali a rischio».
La Toscana è il suo paesaggio, insiste Marson. E un paesaggio non è solo attrattività turistica, «ma un valore aggiunto per diverse iniziative economiche». Alcuni esempi: le zone rurali ricche di casali di altissima fattura; diversi sistemi di città e di borghi che attirano imprenditoriali innovativi; e poi la rete di cantine, «un esempio di ritorno alla magnificenza civile degli insediamenti industriali del primo Novecento».
Cosa succederà? Il voto è previsto la prossima settimana. Cosa farà Anna Marson? «Dirò in aula quel che penso, e se vogliono, mi cacceranno ». «Valuteremo il piano che uscirà dal Consiglio regionale, sperando che non venga stravolto», interviene Ilaria Borletti, «il ministero lo approverà solo se sarà conforme al Codice ».
Il professore è furibondo. E preoccupato per il futuro della sua terra.
«Se sarà approvato questo Piano del paesaggio, stravolto dalla raffica di emendamenti deleteri, tra qualche decennio il panorama toscano sarà sfigurato e banalizzato — denuncia — e la deregulation liberista, che è il pensiero dominante del partito della pietra e del mattone, trionferà sovrana».
Francesco Pardi, toscano di Pisa, detto Pancho, già docente di Analisi del Territorio alla facoltà di architettura dell’Università di Firenze e senatore dell’Idv, è convinto che sia iniziata una deriva pericolosa e che la Toscana sia uno degli ultimi baluardi di quella filosofia «del Bello e del Razionale» che ne ha fatto un esempio.
«Con amarezza, voglio avvertire che si sta distruggendo una delle cose più sensate fatte in Italia: il piano paesaggistico firmato dall’assessore Anna Marson. In commissione il Pd ha iniziato a votare una raffica di emenda-menti di Forza Italia. Gli stessi che i dem avevano presentato ma che, dopo essere stati frenati dal presidente Enrico Rossi, con grande ipocrisia hanno accantonato avallando però quelli dell’opposizione».
Il risultato, dice Pardi, rischia di provocare un effetto Attila.
«Si cede sull’estrazione del marmo delle Apuane, si arretra sul divieto di gettare cemento lungo la fascia costiera, si soccombe sulla gestione delle discariche, si indietreggia su identità geomorfologiche di assoluto valore mondiale come le Balze del Valdarno, depositi lacustri di straordinaria bellezza. E al grido “rottamiamo tutto” si rischia un effetto Liguria dove negli anni si è fatto scempio del territorio. Purtroppo il Pd è in prima fila a guidare questo processo suicida di abbatti-mento delle regole. Mi appello a Rossi perché intervenga ».
ccuse irrazionali?
«Perché, è ragionevole distruggere uno dei gruppi montagnosi più significativi d’Italia, quello delle Alpi Apuane, per estrarre carbonato di calcio per fare dentifrici e sbiancanti per la carta? Se aveste bisogno di un dentifricio andreste a scalpellare il Davide di Michelangelo? Per non parlare dei danni per le spiagge di Elba e Versilia, al litorale apuano, ai crinali, ai parchi»
chi lo accusa di appartenere alla categoria di blocca-sviluppo incapaci di trovare alternative alla disoccupazione, Pardi replica con i centinaia di milioni spesi per i danni provocati dal dissesto idro-geologico.
«Se quei soldi fossero stati investiti per mantenere gli argini di fiumi, torrenti e fossi, per evitare frane, smottamenti e alluvioni, lo Stato avrebbe risparmiato denaro e dato lavoro a tanti giovani».
Privati del patrimonio siamo stati e continuiamo a essere tutti noi, cittadini italiani, vittime per lo più distratte ma spesso cieche e consenzienti di quello che Tomaso Montanari definisce il “romanzo criminale” dei depositi pubblici della cultura e dell’arte. Che però non è un romanzo: è la storia dell’Italia nell’epoca della Grande Trasformazione. Nell’Italia povera e devastata del dopoguerra si entrava gratis agli Uffizi e negli altri grandi luoghi d’arte. E il restauro era un’attività di alta qualificazione soggetta a rigorose norme pubbliche.
Quando Totò voleva far ridere inventava lo sketch della vendita della fontana di Trevi. Oggi non c’è più niente da ridere: l’idea di vendere il patrimonio pubblico per ripianare i debiti del paese è l’opinione “mainstream”. Intanto le opere d’arte viaggiano freneticamente, qualche volta periscono in viaggio (vedi gesso del Canova): fanno lo spogliarello in sfilate di moda. Si è costituito un jet set dell’arte che vede in prima classe i Bronzi di Riace, Leonardo, Michelangelo, Caravaggio e pochi altri. ’ignoranza trionfa. Montanari racconta di mandrie di visitatori migranti verso la mostra strombazzata ignorando il grande capolavoro nella vicina chiesa. E chi fa ballare i burattini sono enti privati, fondazioni sedicenti “no profit” a cui gli enti pubblici — regioni, comuni, ministeri — pagano rimborsi a piè di lista o affittano la riscossione dei biglietti. Si fanno mostre assurde, culturalmente ignobili. Si fanno cose chiamate “eventi”: e si pronunzia con unzione devota la detestabile parola. Gli studi e il restauro non esistono quasi più.
Perché accade questo? Ce lo spiega molto bene Tomaso Montanari in Privati del patrimonio, che meriterebbe di essere letto come un manuale di storia contemporanea nelle scuole italiane. Chi ha giurato fedeltà alla Costituzione ne ha tradito e deformato il linguaggio. Alla “tutela” ha sostituito la “valorizzazione”. Nel contesto del liberismo selvaggio trionfante senza resistenze nel paese del più grande partito comunista d’Occidente , valorizzare ha significato privatizzare. ’arte e il paesaggio sono stati abbandonati ai privati. Un tradimento della Costituzione.
Chi è stato? Il suo nome è legione. Basta vedere nell’elenco di Montanari quanti hanno rivenduto la micidiale metafora inventata da un mediocrissimo ministro piduista della cultura, quella del patrimonio artistico come “petrolio italiano”. Si fa prima a dire chi non lo ha fatto, per esempio il presidente Ciampi. Sul lato opposto è d’obbligo la presenza dei ministri della cultura (tutti quelli succeduti a Pedini, fino a oggi). Qualcuno ha ricamato intorno all’immagine: così ad esempio tale Giovanna Melandri passata direttamente dalla politica al governo del Maxxi, che immaginò l’Italia come una bella signora femminilmente seduta sul suo tesoro. Più efficace e diretta nella sua rozzezza la definizione che il grande comunicatore Matteo Renzi ebbe a dare degli Uffizi: una macchina da soldi. Ma, come dimostra in maniera inappuntabile Montanari, quella macchina funziona a rovescio: prende soldi pubblici e li trasferisce a privati. Se al Colosseo ancora non si fanno le battaglie di gladiatori auspicate dal giornale della Confindustria, basterà la gestione ordinaria a garantire al privato capitalista che se n’è assunto il restauro di lucrare per anni in pubblicità e soldi. E intanto la Società Autostrade ha messo le mani sull’Appia Antica.
Roma e Firenze unite nel disastro: a Firenze, capitale del Rinascimento antico e della nuova controriforma, tutto si merca: ponti storici, sale di musei, Cappellone degli Spagnoli, saloni di Palazzo Vecchio. Il “bel San Giovanni” di Dante forse non arriverà al centenario della morte di Dante in mano pubblica. Intanto si è visto impennacchiare da una ditta di moda come il cavallo di una scuderia privata. E da Firenze la rete dell’associazione “no profit” Civita, presieduta da Gianni Letta, con la sua “Civita cultura”, dove spicca il nome di Paolucci, si allunga come una piovra.a verità è amara, la libertà d’opinione è a mal partito. Montanari si prepari a pagare per le sue campagne.
Come quella che in questi giorni lo oppone a un Pd toscano che sta preparandosi a espellere dal governo della Regione l’assessore Anna Marson, colpevole di aver tentato di difendere le Apuane dallo sfruttamento selvaggio favorito dal partito del mattone e delle pietre. E delle privatizzazioni. Nello Stato privatizzato e servile del “jobs act”, tutti coloro che vivono di lavoro, intellettuale o manuale, stanno imparando sulla loro pelle che non è dello Stato che debbono avere paura: del resto, lo scriveva profeticamente Giuseppe Dossetti, un padre della Costituzione nel cui nome Montanari chiude il suo libro.
Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2015
Il Nazareno del cemento. Ora tocca alla Toscana affrontare l’assalto che Pd e Forza Italia stanno cercando di portare al paesaggio: dalla Lunigiana alla Garfagnana, da Lucca al Valdarno passando per la costa, le dune. Fino alle Apuane con le cave dove Michelangelo andava a cercare il marmo per i suoi capolavori.
Il braccio di ferro va avanti da settimane, sempre più duro mano a mano che ci si avvicina alle elezioni regionali. Al centro il Piano Paesaggistico della Regione Toscana voluto da Anna Marson, assessore all’Urbanistica. Un modello di tutela ambientale.
A un passo dall’approvazione ecco spuntare un mare di emendamenti. Da destra e, inaspettatamente, dal centrosinistra che sostiene Marson. Sono praticamente la fotocopia gli uni degli altri: si prevede che le “direttive” indicate nel piano siano trasformate in semplici “indirizzi”. Termini tecnici, in pratica così si lascerebbe ai comuni mano libera per fare i fatti propri. Ancora: le criticità indicate dal Piano sarebbero da considerare semplici valutazioni. Non tassative.
Insomma, il Piano diventerebbe un colabrodo. Cominciano polemiche, lotte di corridoio, perché qui ballano interessi di centinaia di milioni. Il governatore Enrico Rossi (nella foto), che non si sa esattamente cosa pensi in proposito, ha tentato una mediazione: “Lodo Rossi”, lo ha chiamato qualcuno. Dopo pochi giorni tutto da capo. Ricompaiono gli emendamenti che passeranno in commissione in queste ore. E che rischiano di mettere in pericolo paesaggi tra i più belli e delicati della Toscana. Quindi d’Italia.
Il meccanismo è affinato con il cesello, ma un occhio esperto lo “sgama”. Proprio com’è avvenuto quando i tecnici della Regione Toscana hanno letto i nuovi emendamenti. Dove era scritto che bisogna “evitare” ecco invece “contenere”. Lo stesso discorso vale per le piattaforme turistico-ricettive, gli enormi complessi in riva al mare che potreste trovare a Dubai. Insidiate anche le splendide corti lucchesi costruite nel tardo Medioevo.
Il Piano Marson mirava a evitare che fossero inglobate nella periferia che si espande. Ma gli emendamenti del Nazareno non ci stanno. In Valdarno l’obiettivo sono le balze e i calanchi. Poi le cave delle Apuane. Che devono avere molti sponsor. Gli emendamenti prevedono la loro riapertura praticamente senza limiti. Il testo degli emendamenti merita di essere letto, tocca punte di vera poesia mentre vuole dare il via libera alle ruspe: “Sono anche i macchinari che tagliano la pietra e che spuntano tra il verde delle montagne a ricordare al tempo stesso la potenza della natura e la capacità dell’uomo di inserirvisi”. Roba che nemmeno Carducci!
Fino al capolavoro finale: l’assalto alla via Francigena – l’antica via dei pellegrini – che attraversa tutta la campagna Toscana più intatta. “Il piano – raccontano negli uffici regionali – prevedeva il divieto di nuove lottizzazioni che alterassero la “lettura”, cioè “la visione dei centri storici lungo i crinali”. Divieto cancellato, almeno nelle intenzioni. Ma ora si annuncia battaglia durissima. E Rossi dovrà dire da che parte sta.
«Vogliamo costruire una politica per far incontrare chi ha un progetto culturale di frontiera e non ha gli spazi, con chi ha spazi ma non un progetto per far tornare a rendere economicamente questi edifici, almeno un po’». Il manifesto, 12 marzo 2015
A Roma da lungo tempo mancano politiche urbane di contrasto al capitalismo egoista che ha impoverito il ceto medio. Anche per questo sono proliferate forme di resistenza e di autoaffermazione dei diritti in risposta alle crescenti diseguaglianze. Ma si sono affermate, anche, collusioni tra istanze “di diritti” e scelte politiche basate su “scambi”. Non si può rimpiangere ciò che è stato, né i suoi frutti piuttosto amari e in molti casi indigesti.
Cultura come fonte di cambiamento è quella di un’amministrazione che costruisce percorsi trasparenti per favorire gli usi temporanei di spazi dismessi. Lo abbiamo sperimentato nel terzo Municipio, per favorire la diffusione degli usi temporanei e, in prospettiva, realizzare l’agenzia comunale che agevoli l’affidamento a realtà culturali che fermentano dentro lo spazio abitato. Sì, come avviene a Berlino ora avviene anche a Roma, possiamo aggiornare le analisi.
Esperienze culturali come cuore della rigenerazione urbana. Sappiamo di realtà culturali in cerca di spazi a basso costo e di spazi vuoti in cerca di utilizzazioni, anche a basso rendimento. Come nel caso dei 42 ex cinema chiusi, 28 da oltre dieci anni. Un periodo in cui, con lenta erosione, sono diventati negozi di casalinghi o sale bingo, senza un solo “tweet” di denuncia. Vogliamo costruire un disposi
tivo amministrativo, una politica, per far incontrare chi ha un progetto culturale di frontiera e non ha gli spazi, con chi ha gli spazi ma non ha un progetto creativo per far tornare a rendere economicamente questi edifici, almeno un po’. Un po’ più di niente, e alcuni sono anche immobili di particolare valore storico e architettonico. Far incontrare queste due domande con il Municipio, per sancire il legame tra proposta e territorio. Restituire vita a luoghi morti, quelli sì “obitori culturali” da decenni, che oggi l’amministrazione rimette al centro. Altro che sacco di Roma o chiusura degli spazi sociali!
Città è polis ma è anche polemos, conflitto. E la politica si radica nella città per risolverlo e farlo avanzare oltre. Public policies non è allocare favori ma piuttosto favorire l’azione privata e i processi di simbolizzazione della realtà. La politica non trova soluzioni a chi urla di più. La politica pubblica costruisce percorsi di riscatto a vantaggio di tutti.
Ecco lo sforzo di cambiamento che è in atto a Roma, ecco perché i conflitti sono veri e profondi. Anche questa è bellezza civile. La coalizione che serve alla città, adesso, è quella che ci spinge ad essere ancora più rigorosi, uscendo da una ipocrisia della mediazione e della collusione.
Una città normale ci aspetta già oggi, si sta già realizzando. Una città che fa del suo corpo già costruito il solo luogo della trasformazione. Non un chicco di cemento in 20 mesi è stato autorizzato o anche solo pensato fuori dal costruito o dal costruibile. Ma una città più densa e compatta è anche una città che pone una sfida ai comitati: passare dall’essere contro all’essere per la qualità degli interventi. Abbiamo raccolto dai privati e stiamo disegnando 160 interventi di trasformazione nei tessuti della città produttiva, dentro la città costruita. Scelte urbanistiche fatte solo a sostegno di progetti di sviluppo economico e non mere quantità edificatorie.
Sessanta incontri nei quindici municipi, oltre 200 associazioni e quasi 2000 persone hanno partecipato alla costruzione delle “Carte dei valori del municipio”. Ascolto dal basso da cui è emersa la centralità dello spazio di prossimità e la necessità di risolvere conflitti e contraddizioni tra disegno della città ed esigenze degli abitanti.
Una città normale e responsabile è in vista già oggi. Da costruire in prospettiva, realizzando in pieno la Municipalizzazione e forse il contemporaneo superamento di Roma Capitale e della Regione per far emergere la Roma Metropoli; il territorio abitato di Roma nel suo divenire (Roma2025). E, infine, una politica culturale che dia respiro agli enzimi nella Roma Grande Formato, come sta facendo Giovanna Marinelli. Forse non è ancora percepibile una visione d’insieme, ci sono, però, percorsi da accompagnare, anche in un rapporto dialettico, certamente da non disconoscere. Un’opportunità anche per la sinistra critica, o no?
Tornerà la Politica, una policy diffusa nella città, se saprà ricercare il cambiamento profondo, altrimenti la città resterà vittima di finti conflitti o di armonie apparenti: nulla di vero e quindi nulla di buono.
Intanto, serve realizzare le corsie preferenziali per gli autobus, erano nel programma di Marino: è ora di farle.
* assessore alla programmazione e all’attuazione urbanistica del Comune di Roma
«Non è un proconsole berlusconiano, ma un governatore renziano a riportare l’incubo del cemento sulle coste della Sardegna. Nuove cubature potranno sorgere anche nei primi 300 metri dal mare». Sembra invincibile la forza corruttrice del renzismo. Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2015
Quella per i litorali non è l’unica minaccia contenuta nel testo di legge: le betoniere potrebbero tornare a farsi largo nei centri storici, anche questi blindati da Soru – patron di Tiscali, attuale segretario regionale del Pd ed europarlamentare. La discussione su – come vuole la dicitura esatta – “Norme per il miglioramento del patrimonio edilizio e per la semplificazione e il riordino di disposizioni in materia urbanistica ed edilizia” verrà avviata oggi. La prima versione del testo era stata varata dalla giunta il 23 ottobre dell’anno scorso, su proposta dell’assessore regionale agli Enti locali, Cristiano Erriu del Pd.
Dopo il vaglio della commissione Urbanistica del consiglio regionale la norma è stata modificata, ma la sostanza non cambia e lascia molti scontenti. Se nelle dichiarazioni l’obiettivo era – come si legge nella relazione – una regolamentazione improntata alla certezza delle norme, il contenimento del consumo del territorio e la riqualificazione del patrimonio esistente, il risultato sembra diverso. Con la minoranza di centrodestra che mostra il pollice verso (voleva un maggiore impulso al settore) e parte del Pd che storce il naso per il rischio di tradimento al Ppr. Così gli emendamenti, anche amici, sono dietro l’angolo. E, come sempre in Sardegna quando si parla di urbanistica e cubature, gli animi sono già infuocati.
Mentre Pigliaru, professore di economia, cita l’edilizia tra i motori della sua ricetta keynesiana per far uscire l’economia dell’isola da una crisi nerissima, gli ambientalisti lo accusano: “Il consiglio regionale della Sardegna si appresta a esaminare una proposta di legge che fa da coperchio alla più retriva speculazione immobiliare. Un salto indietro di 30 anni”, è l’attacco di Stefano Deliperi, leader delle associazioni Gruppo di intervento giuridico e Amici della Terra. Il cavallo di Troia per il grande ritorno del cemento nella fascia ultra tutelata dei 300 metri si chiama turismo. In nome dello sviluppo di quella che dovrebbe essere la maggiore industria sarda saranno permessi ampliamenti del 25 per cento di volumetria per le attività esistenti, anche a ridosso del mare: il tabù dell’intangibilità della battigia potrebbe dunque cadere. Il perché lo spiega un esponente del Pd, Antonio Solinas, relatore di maggioranza: “Si è ritenuto meritevole prevedere incrementi volumetrici maggiori, a condizione che tali incrementi diversifichino e riqualifichino le dotazioni e i servizi delle strutture ricettive al fine di promuovere la destagionalizzazione dell’offerta turistica”. Mentre ci si interroga sull’esistenza del cemento destagionalizzante, sul punto sono arrivate anche le critiche di segno opposto del centrodestra che non condivide il divieto, previsto dalla legge, di creare nuovi posti letto. Si fa invece notare il silenzio dell’ala del Pd legata a Soru, che tace anche sulla violazione di un caposaldo del suo piano paesistico regionale , l’intangibilità dei centri storici, finora vincolati. La nuova normativa consentirebbe incrementi volumetrici fino al venti per cento, anche se subordinati a un apposito piano particolareggiato delegato al Comune.
Il punto che più agita gli animi e su cui le associazioni ambientaliste vanno giù dure è quello delle cementificazioni zombie: “Pare un testo che punta a resuscitare i progetti edilizi morti e sepolti dal Ppr, e a render permanente la disciplina permissiva che era provvisoria nel pessimo piano del 2009 di Cappellacci”. Le lottizzazioni finora paralizzate sarebbero rimesse in corsa da norme transitorie, che consentono il completamento degli interventi già autorizzati prima dell’intervento anti-cemento di Soru: Arzachena, Costa Smeralda e Villasimius sono le tre zone a maggior rischio.
La Repubblica, ed. Palermo ed ed. Firenze, 11 marzo 2015
A scatenare le polemiche lo snellimento delle procedure che la nuova legge prevedeva, sostituendo ai piani particolareggiati le “tipologie edilizie”, una classificazione degli immobili fatta sempre dai Consigli comunali ma senza il successivo passaggio al Consiglio regionale urbanistica insediato all’assessorato Territorio. Sarebbe stata la Soprintendenza l’unico organo a esprimersi. «Riducendo enormemente le tutele», denunciavano gli esperti. L’Anci, la settimana scorsa, attraverso alcuni deputati del Pd, dal capogruppo Baldo Gucciardi a Giuseppe Lupo, aveva presentato alcuni emendamenti che escludevano dal raggio di esecutività della legge i Comuni che avevano già approvato piani particolareggiati, ma che in Sicilia sono appena una decina, da Palermo a Siracusa e Ragusa. «Qui a Catania — dice il sindaco Enzo Bianco — la legge avrebbe avuto piena efficacia nonostante il Comune stia da tempo lavorando a una variante generale per il centro storico».
Dopo il rinvio — votato su proposta del capogruppo di Sicilia democratica, Salvatore Lentini — Bianco tira un sospiro di sollievo, maprecisa:«La ratio dellaleggeègiusta,però va salvaguardato il ruolo decisionale dei Comuni ». Critico nei confronti del disegno di legge è anche Ermete Realacci, presidente pd della commissione Ambiente alla Camera: «Fermarsi è stato saggio, la ricetta per salvare i centri storici è quella di dotarli di piani seguendo le procedure già indicate dal dipartimento regionale dell’Urbanistica dal 2000 e prevedere agevolazioni economiche e fiscali per chi realizza interventi di recupero». «Giusto lo stop — gli fa eco il leader dei Verdi, Angelo Bonelli — la sburocratizzazione non può diventare un alibi per autorizzare uno scempio ».
In aula il presidente della commissione Territorio e Ambiente, Giampiero Trizzino, del Movimento 5Stelle, aveva difeso il lavoro preparatorio: «Personalmente avrei preferito trattare la legge insieme con la riforma del governo del territorio, ma questo non significa che l’istruttoria non sia stata fatta con attenzione: in un anno abbiamo sentito tutti, dagli Ordini professionali alle Soprintendenze».
Dopo il rinvio, Trizzino annuncia l’impegno a riportare il testo in aula entro due o tre settimane: «Predisporrò subito un calendario di incontri con le associazioni e i docenti universitari che ci hanno chiesto di fermarci». Ma resta la rabbia dei deputati proponenti. A cominciare da Antony Barbagallo, sindaco di Pedara, piccolo comune nel Catanese, che definisce il rinvio «una volgare imboscata». Sul testo il Pd si è spaccato. Gli emendamenti Anci portavano la firma di Lupo e Gucciardi, della stessa corrente di Barbagallo, mentre in aula si è schierato per il rinvio Antonello Cracolici: «Non credo che questo testo sguinzagli gli Unni — ha detto in aula — ma le polemiche che si sono scatenate rischiano di danneggiare la legge stessa e il Parlamento. Su una materia come questa serve una larga condivisione».
Se il primo firmatario del ddl, l’ex sindaco di Ragusa Nello Dipasquale, aveva chiesto all’aula di bocciare la proposta «piuttosto che mortificare il lavoro della commissione», nel suo accalorato intervento l’ex sindaco di Trapani Girolamo Fazio, relatore del testo, è sbottato: «I siciliani sono costretti a fare abusi da norme troppo rigide. Ma ogni tentativo di cambiare le cose è impossibile».
Favorevole al rinvio, invece, Lino Leanza di Sicilia democratica: «Uno stop di qualche giorno per ascoltare la società civile non può rappresentare un problema». Contro il disegno di legge trentacinque associazioni avevano firmato un appello. Tra queste, Italia Nostra: «Alla fine è prevalso il buonsenso», dice il presidente regionale Leandro Janni.
di Massimo Vanni
Piano del paesaggio, i consiglieri dem rimettono le mani sul testo in vigore. E se l’assessore all’urbanistica Anna Marson giudica inaccettabili le modifiche apportate, di nuovo il fronte ambientalista se la prende con il ‘partito del cemento’ che ritorna alla ribalta. Lo storico dell’arte Tomaso Montanari parla di «lenta morte del Piano». Solo che stavolta non ci sarà Enrico Rossi a fare da mediatore: «Il 99% di coloro che parlano del Piano del paesaggio non ne hanno letto una riga», taglia corto il governatore. Facendo intendere di non voler intervenire questa volta sul lavoro dei consiglieri regionali.
In compenso, il Consiglio dice sì al preludio del Piano, la legge sulle cave. Grazie a cui, dice Rossi, «poniamo le basi per un cambiamento reale delle Apuane». Una legge con alcuni obiettivi precisi, spiega il governatore: «Non scavare sopra 1200 metri, tutelare i crinali e il piano del paesaggio sono aspetti importanti ma Piano anche che la molla economica sia fondamentale per avere sulla realtà locale una ricaduta più positiva». Sul Piano però ancora si litiga.
«Nessuno può impedirci di dire la nostra, il Piano non è più una proposta della giunta», rivendica per il Pd Ardelio Pellegrinotti, protagonista della prima riscrittura poi mediata da Rossi e anche della seconda, arrivata adesso. Ma cambiare ora il testo non significa cambiare il ‘lodo Rossi’? «No, quello riguardava gli articoli 19 e 20 del Piano, quelli delle Apuane. Ora si è intervenuti in modo minimale altrove, sulle 20 schede d’ambito in cui è stata suddivisa la Toscana», dice Pellegrinotti. Che ieri è tornato ad incontrarsi con Rossi.
Secondo Montanari, sono state «stravolte le parti del piano che parlano ai Comuni e ai loro strumenti di pianificazione attraverso descrizioni, comprensive di valori e criticità, indirizzi, obiettivi di qualità e direttive: la parte che Enrico Rossi aveva provato a salvare dal maxi-emendamento iniziale del Pd. Tutto questo è avvenuto col sistematico voto Forza Italia– Pd: un ‘patto del Nazareno’ contro il paesaggio toscano». E Legambiente Arcipelago: «Con la scusa di non ingessare la Toscana si trasforma un Piano all’avanguardia nella solita marmellata di norme incoerenti per consentire di costruire ovunque ». Rossano Pazzagli della Società dei Territorialisti accusa invece il Pd di «tornare all’attacco dei litorali riaprendo alla cementificazione con la scusa del turismo». Mentre a nome di Sel Marco Sabatini ironizza sulla «nascita in Toscana del partito unico del cemento».
Niente di tutto ciò, ribatte Pellegrinotti: «Con Forza Italia non c’è accordo di nessun tipo, abbiamo accettato alcune loro proposte ma il grosso dei loro emendamenti l’abbiamo respinto ». Quanto alla cancellazione di parole come «evitare» o «limitare» e la loro sostituzione con «contenere» e «armonizzare », che per Montanari consegnerà un Piano fatto dei soli vincoli del ministero dei beni culturali, Pellegrinotti è netto: «Non sarà certo il ministero a dettarci cosa si può fare e cosa invece no in Toscana». (m. v.) © RIPRODUZIONE RISERVATA
L’assessore Marson giudica inaccettabili i ritocchi apportati Ok alla legge sulle cave
Estremo appello ai componenti dell'Assemblea regionale della Sicilia perché non approvino la proposta di crimine del governo regionale delle "larghissime intese". Articoli di Sara Scarafia e Teresa CannarozzoLa Repubblica ed. Palermo, 10 marzo 2015
Nelle ultime ore decine di movimenti da tutta Italia hanno scritto al presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, per chiedergli di «stoppare il disegno di legge». Ma gli appelli non sono serviti: oggi il testo sarà in discussione. Cosa prevede? Di sostituire gli strumenti urbanistici finora utilizzati, cioè i piani particolareggiati, con le “tipologie edilizie”: la nuova legge classifica le costruzioni in “costruzioni di base”, “monumentali” e “moderne”, e per ogni tipologia individua gli interventi consentiti. Per restaurare immobili non vincolati basterà una comunicazione e sarà possibile, ottenuto il parere della Soprintendenza, pure abbattere intere palazzine non di pregio e ricostruirle. Le «tipologie edilizie» saranno individuate dai consigli comunali come i piani particolareggiati che, però, venivano valutati collegialmente da un comitato insediato all’assessorato al Territorio. «Mentre con la nuova legge basterà il parere monocratico della Soprintendenza e questo ridurrà le tutele», dicono gli urbanisti Teresa Cannarozzo e Giuseppe Trombino. «Facciamo appello alle persone di buon senso che speriamo si trovino ancora all’interno dell’Ars, affinché si fermino a riflettere prima di votare un ddl che potrebbe produrre effetti devastanti per la nostra memoria storica», dice il presidente di Legambiente Sicilia, Mimmo Fontana.
L’Anci Sicilia - attraverso il Pd – ha presentato un pacchetto di emendamenti che, se approvati, salvaguarderebbero i comuni che hanno già approvato i piani particolareggiati: ma in Sicilia sono appena una decina su 390 – tra i grandi ci sono Palermo, Siracusa, Ragusa – e resterebbero fuori, per esempio, i gioielli barocchi di Noto, Scicli e Modica, ma anche Catania. «Il disegno di legge va bloccato e ripensato», insistono le associazioni.
All’Ars il Pd è spaccato: se tra i deputati che hanno firmato la proposta di legge c’è Antony Barbagallo, sindaco del piccolo comune di Pedara nel Catanese, il capogruppo dei democratici Baldo Guicciardi ha firmato gli emendamenti dell’Anci. «La legge è uno scempio», attacca Manlio Mele, responsabile Beni culturali del Pd siciliano. In mezzo alla bagarre ci sono i 5stelle. Il presidente della commissione Territorio e Ambiente è Giampiero Trizzino, grillino: «Non condivido la proposta – dice – ma ci tengo a precisare che non vuole snaturare ma solo accelerare le procedure di recupero». In aula si annuncia battaglia.
Le regole immolate sull’altare della fretta
di Teresa Cannarozzo
Purtroppo, per incentivare gli interventi edilizi la proposta legislativa si fa portatrice di un’inquietante serie di “semplificazioni”, ricorrendo a regole generiche e sommarie, che consentiranno di omettere le analisi storiche e urbanistiche delle diverse realtà territoriali, dimenticando che i centri storici non sono la somma di case, di chiese e di palazzi, ma sono strutture urbane di antica formazione, che costituiscono la parte più pregiata della città contemporanea, il cuore e il palinsesto della memoria collettiva. Per essere più chiari questo significa che si dovrebbe conoscere quale è il ruolo che i centri storici svolgono oggi e di che cosa hanno bisogno per essere abitabili confortevolmente ed essere immersi nella contemporaneità. Quali funzioni devono essere inserite oltre quella residenziale? In che stato è l’accessibilità, la mobilità, i parcheggi, la rete idrica, le fognature, il consumo energetico, le reti immateriali? Questo significa che prima si deve fare un piano, anche quello semplificato, e poi si passa alla scala edilizia. Assumendo come prioritari la velocizzazione e la semplificazione, vero e proprio «mantra» di questi tempi fatui e mistificanti, si corre il rischio di evadere gli obiettivi della tutela sanciti dalla Costituzione, ma anche di mancare quelli di una valorizzazione «sostenibile».
In particolare il disegno di legge metterebbe il proprietario e il suo tecnico di fiducia nelle condizioni di trasformare un edificio a seguito di dichiarazione di inizio di attività, corredata semplicemente da una documentazione grafica e fotografica, in base alla quale attribuire motu proprio la tipologia di appartenenza all’edificio (?) ed i conseguenti tipi di intervento.
Si tratta di un gravissimo arretramento culturale e tecnico che non tiene conto dell’evoluzione della materia a partire dal 1960, anno in cui venne fondata a Gubbio l’Associazione Nazionale Centri Storici-Artistici (ANCSA) con la partecipazione del Comune di Erice, come socio fondatore, quando si sancì che i centri storici sono organismi da tutelare nell’insieme, quindi in termini «urbanistici » che integrano gli aspetti paesaggistici e i rapporti spaziali tra il costruito e le aree libere. La Corte Costituzionale, con sentenze 182/2006 e 367/2007, ha ribadito il principio costituzionale dell’interesse generale della tutela del passaggio, e dunque dei centri storici, affermando che essa è un «valore primario ed assoluto » che non può essere «subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici». Ma il ddl apporta anche una lesione alla partecipazione dei cittadini ai processi di trasformazione urbana, perché in assenza di un piano, manca la procedura di pubblicizzazione delle strategie progettuali.
La Repubblica online, blog "articolo ", 9 marzo 2015
Queste ore convulse vedono la lenta, ma apparentemente inesorabile, morte del Piano Paesaggistico della Toscana.
Oggi i voti della commissione consiliare hanno stravolto le schede d'ambito del Piano: le parti del piano che 'parlano' ai Comuni e ai loro strumenti di pianificazione attraverso descrizioni, comprensive di valori e criticità, indirizzi, obiettivi di qualità e direttive: la parte che Enrico Rossi aveva provato a salvare dal maxiemendamento iniziale del Pd. Tutto questo è avvenuto col sistematico voto Forza Italia - Pd: un Patto del Nazareno contro il paesaggio toscano.
L'esito complessivo degli emendamenti presentati sarà chiaro solo nei prossimi giorni (la commissione è stata riconvocata giovedì e venerdì, dunque il piano non andrà in aula dopodomani), ma alcuni punto sono già tragicamente chiari.
Le tre schede che riguardano le Alpi Apuane sono state stravolte fin dalla descrizione sintetica iniziale del profilo di ciascun ambito, reso omogeneo (Lunigiana eguale alla Versilia, e alla Garfagnana) con la ripetizione di un testo 'precotto' che sostituisce interamente i testi originali, esaltando l'attività di cava come unico tratto significativo del paesaggio di questi territori (da Zeri, a Pontremoli, da Forte dei Marmi a Viareggio, e così via). Ecco un esempio inquietante dei nuovi testi-tipo: «L'ambito apuano...è interessato da alcuni siti estrattivi... In tali siti, le attività di coltivazione sono svolte in base ad autorizzazioni che compendiano, da oltre 30 anni, valutazioni di compatibilità ambientale e paesaggistica, emesse dagli enti competenti...Prendere coscienza del valore identitario delle cave di marmo è un'operazione necessaria, volta a riconoscere l'importanza storica e artistica di questi luoghi dai quali i grandi artisti hanno tratto materia prima per le loro opere. D'altro canto il marmo è uno dei biglietti da visita della Toscana nel mondo».
E le modifiche non si sono limitate alle descrizioni, ma hanno interessato la descrizione delle criticità, nonché gli indirizzi, gli obiettivi e le direttive.
Sempre il PD ha fatto cancellare una serie di direttive finalizzate a salvaguardare ciò che resta della piana di Lucca, con particolare riferimento al sistema delle Corti lucchesi e alle relazioni tra queste, il centro storico e i beni architettonici presenti nel territorio.
Conseguentemente via libera a nuovi consumi di territorio agricolo: (dove il Piano si proponeva invece di evitarlo o limitarlo); via libera alle nuove espansioni che compromettono la leggibilità dei centri di crinale, via libera alle nuove espansioni lungo l'Arno, addirittura via libera alle discariche ed infrastrutturazioni edilizie nelle balze e nei calanchi del Valdarno.
E ovunque il Piano prevedesse di "evitare" o "limitare" i fenomeni di espansione dei centri, di frammentazione del territorio rurale, di saldatura delle urbanizzazioni, il testo è stato castrato sostituendo quei verbi con versioni inerti come "contenere" o "armonizzare".
Così i nuovi processi di artificializzazione della costa, delle dune, delle aree umide non vanno più evitate ma solo "contenute".
E via libera anche a nuove "piattaforme turistico-ricettive" sulla costa tra San Vincenzo e Follonica, nonché all'Elba: dove questi insediamenti erano invece segnalati come un modello da non ripetere.
Così sfigurata, la parte del Piano che si proponeva – senza prescrizioni ma soltanto con un quadro conoscitivo estremamente approfondito – con indirizzi e direttive, di 'qualificare' maggiormente la pianificazione locale perde gran parte della sua legittimità tecnico-scientifica, oltre alla sua efficacia normativa.
Paradossalmente il Piano che uscirà da questi emendamenti sarà un piano basato più sui vincoli del Ministero per i Beni culturali che sulla capacità della Toscana di darsi strumenti per un buon governo del territorio e del paesaggio.
È la vittoria della linea Renzi-Lupi-Pd toscano sul Piano Marson-Rossi? Sembra proprio di sì.
L'unico a poter ribaltare la situazione – in extremis, e ormai direttamente in Consiglio – sarebbe proprio Enrico Rossi.
Ma vorrà e potrà farlo?
Un caso esemplare di antropofagiaculturale: una cultura e una civiltà, che per ignoranza sordida, perservilismo verso le parole vincenti del renzusconismo, e soprattuttoper compiacere i Mazzaró, distrugge se stessa. La Repubblica,ed Palermo, 3 marzo 2015
DEMOLIRE e ricostruire. Oggi pomeriggio approda all’Assemblea regionale un disegno di legge sui centri storici che, se approvato così com’è, darà la possibilità di abbattere e ricostruire nel cuore delle città siciliane, da Ortigia a Palermo, da Ragusa Ibla a Catania. Il ddl “Norme per favorire il recupero del patrimonio edilizio di base dei centri storici” è una proposta approvata al- l’unanimità in commissione Territorio e Ambiente che snellisce in modo sostanziale le procedure prevedendo la possibilità di intervenire, nella maggior parte dei casi, senza ricorrere a strumenti urbanistici ma con una semplice comunicazione seppur corredata di nullaosta e pareri. Una legge che prevede la «ristrutturazione totale mediante demolizione» finora non con- sentita nei centri storici. Prima di arrivare in aula il disegno di legge dovrà superare l’ultimo ostacolo:l’Anci ha chiesto una audizione last minute e l’ha ottenuta per oggi alle 10. «Incontreremo il presidente Leoluca Orlando», dice il presidente della commissione Giampiero Trizzino, Movimento cinque stelle.
L’Anci attraverso alcuni emendamenti presentati dal democratico Giuseppe Lupo – il termine per la presentazione è scaduto ieri a mezzogiorno, una cinquantina le proposte presentate – punta a non far valere le nuove regole nei centri storici della grandi città, quelli dotati di piani particolareggiati. Ma Trizzino avverte: «Il «Il ddl è stato già abbondantemente discusso, siamo pronti ad accogliere qualche suggerimento ma non a stravolgere lo spirito della legge». Del resto lo stesso Lupo assume una posizione morbida:«Èimportante che l’Anci venga ascoltata». Anche perché tra i firmatari del disegno di legge c’è il deputato del Pd Antony Barbagallo che milita nella sua stessa corrente. E che spiega: «La ratio è quella di sburocratizzare gli interventi nei centri storici per agevolarne il recupero. Nel nostro percorso in commissione abbiamo sentito tutti, dalle Soprintendenze alle asso- ciazioni e abbiamo ottenuto un largo consenso».
Ma cosa prevede in dettaglio il testo che arriva in aula? Anzitutto una classificazione minuziosa delle tipologie edilizie – di base, monumentale, moderna – ma anche un elenco dettagliato degli interventi ammessi. Ed è proprio all’articolo 3 che si prevede la possibilità di demolire il patrimonio edilizio non vincolato «previa acquisizione del permesso di costruire e del- l’autorizzazione della Soprintendenza». Gli edifici ricostruiti dovranno ricalcare quelli demoliti e dovranno essere «coerenti con il contesto». La legge prevede anche la possibilità di «accorpamenti edilizi» e di «ristrutturazione urbanistica con ridefinizione dell’assetto viario». «Significa – dice Barbagallo – che nei centri storici delle città, da Ortigia a Palermo, si potrà intervenire seriamente sui contesti edilizi fatiscenti attraverso piani particolareggiati che modifichino pure l’assetto viario». Un’altra importante novità riguarda la possibilità di presentare programmi costruttivi di edilizia residenziale pubblica. «L’edilizia convenzionata in tempi di crisi è una risposte alle giovani coppie», continua Barbagallo che difende il provvedimento. «È una legge che finalmente interviene sul serio sui centri storici finora rimasti nel degrado, bloccati da una eccessiva burocrazia».
Ma le polemiche sono dietro l’angolo: diverse associazioni nelle scorse settimane hanno attaccato il ddl denunciando il rischio di «rottamazione» dei centri storici. «La legge – dice Trizzino – non abbassa assolutamente le tutele, ma velocizza il recupero. Abbiamo fatto nostri tutti i suggerimenti di Italia Nostra, a esempio. L’iter della legge è stato lungo e ci ha permesso di ascoltare tutti. Stupisce che l’Anci si sia mossa soltanto adesso».
Caro Presidente Enrico Rossi,
le scrivo perché, per quello che conosco di lei, sia direttamente, sia per sue dichiarazioni politiche, mi sembra impossibile che lei possa avallare la disciplina del Pit-Piano paesaggistico relativa alle Alpi Apuane così come emerge dagli ultimi emendamenti licenziati dalla sesta commissione. Non voglio qui dilungarmi sui molti aspetti negativi. Voglio solo richiamare la sua attenzione su uno che mi sembra peggiore di tutti e, addirittura, paradossale. Si tratta della facoltà concessa, nelle cave attive o riattivabili, di continuare l'escavazione con il 'limite' del 30% di quanto estratto storicamente, a partire, cioè, dalla prima autorizzazione: un vero e proprio regalo alle ditte di escavazione che vanifica il ruolo regolativo dei piani attuativi d'ambito. In sintesi il Piano paesaggistico che ha come compito istituzionale la tutela del territorio consentirebbe di scavare dalla montagna il 30% di quanto estratto nel passato senza alcuna valutazione preventiva, in modo automatico, come un diritto acquisito. Coloro che mirano a soddisfare le imprese di escavazione oltre ogni loro speranza se ne assumano la responsabilità politica, ma non si nascondano nel Piano paesaggistico. Mi auguro vivamente che lei non sia fra questi.
Paolo Baldeschi
«La Capitale è una città infelice, individualista, caotica, con i trasporti inefficienti e i suoi spazi pubblici soffocati dalle auto private. Per uscire da questo buco nero occorre che la mano pubblica si imponga agli interessi particolari e disordinati dei singoli». Il manifesto, 6 marzo 2015, con postilla
La lingua latina possiede due termini sinonimi per indicare la città: urbs, riferito alla struttura, agli edifici, le strade, le piazze, e civitas. Quest’ultimo sta a indicare la comunità dei cittadini. Ma non semplicemente il loro insieme demografico, anche la loro soggettività, il loro essere consapevoli di appartenere a uno spazio speciale, con le sue regole, i suoi agi rispetto alla campagna, la sua bellezza. Non per niente da quella stessa radice viene il termine civiltà.
Parola scomparsa dal lessico corrente, troppo altisonante per le nostre società, dove governanti e governati si accontentano con modestia di qualche punto di Pil. Eppure alcuni vecchi termini della nostra civiltà linguistica – manipolati oggi dal servilismo anglofilo dei media — dovremmo disseppellirli, farli risplendere di nuovi significati. Lo scorso anno lo ha fatto suggestivamente Giancarlo Consonni (La bellezza civile. Splendore e crisi delle città, Maggioli) di cui ha discorso su questo stesso giornale Adriano Prosperi (4.7.2014). La bellezza civile, espressione coniata da Giambattista Vico, dovrebbe tornare in uso a significare una aspirazione delle nostre comunità cittadine, che l’hanno a lungo perseguito e realizzato. Lo stare insieme entro ordini e spazi in cui la bellezza delle forme urbane dovrebbe tendere ad armonizzarsi con le virtù civiche, l’osservanza delle leggi intesa come rispetto degli altri, il sentirsi comunità cooperante al fine di conseguire scopi superiori di prosperità comune, di umanità e cultura.
Se osserviamo oggi Roma sotto il profilo della civitas comprendiamo alcuni fenomeni importanti. Lo stile di vita dei cittadini, la loro condizione, influisce direttamente sull’urbs, ne oscura le forme, deturpa la sua bellezza. Consideriamo solo un aspetto, ma rilevante, della vita dei romani: il modo in cui si spostano nello spazio della città. Il traffico privato su gomma, l’uso dell’automobile è cresciuto di anno in anno, emarginando costantemente il trasporto pubblico. Il numero dei veicoli in città tende a superare quello dei cittadini: 978 ogni mille abitanti, compresi vecchi e bambini, ricordava l’anno scorso Francesco Erbani in Roma Il tramonto della città pubblica (Laterza). I km delle linee di metropolitana sono inferiori perfino a quelli di Atene, di Bucarest, di Teheran. Nella città che negli ultimi decenni è stata costruita secondo gli interessi di pochi, senza linee ferrate, accade che ognuno si sposta da sé, con la propria auto, con danno e svantaggio di tutti. Con svantaggio, perché il traffico cittadino è ormai ridotto a un ingorgo permanente, ci si muove a fatica, sempre più lentamente. Con danno, per la crescita dello smog e del particolato nell’aria che tutti respiriamo, per l’usura dei monumenti, la diffusione dello sporco sugli edifici, la cancellazione visiva del paesaggio urbano.
Chi gira per Roma scorge sempre meno le sue forme sontuose e sempre più le sue piazze e le sue strade e occupate da una fitta fila di auto in sosta. Ci sono quartieri dove la densità di quelle scatole metalliche, che satura lo spazio di ogni piazza, strada, marciapiede fa pensare a un assedio permanente. Dà al cittadino che passa un senso di soffocamento. Roma è ormai un unico, immenso parcheggio, un dormitorio, un cimitero di macchine all’aperto. Tale condizione dell’urbs a sua volta svuota la civitas dei romani, abbrutiti dentro un paesaggio di latta che li deprime, li spinge a cercare soluzione personali, a farsi orientare ancora più perversamente dall’ideologia individualistica dominante, la grande nemica della città. Si arrangiano e cercano di sopravvivere nel caos coi propri mezzi. E il circolo vizioso trascina tutti verso il buco nero del disagio collettivo crescente, dello spreco di tempo, dell’inagibilità dello spazio, dell’infelicità urbana. Dove può andare una città infelice? Quali fini di civiltà può assegnarsi?
E allora, tremenda domanda: come spezzare il circolo che strangola la capitale? Non è facile trovare la «formula che ci salvi» dopo decenni di occupazione caotica del territorio, dopo aver riempito i dintorni di Roma di centri commerciali che richiamano traffico veicolare da ogni punto della città. Si può indicare qualche stretto sentiero d’avvio. Oltre a quelli noti e costosi: la rete della metropolitana. Una ventina di anni fa tante strade di Roma, anche in quartieri periferici, erano state contrassegnate come corsie preferenziali. Riservate agli autobus e ai taxi. Ben presto sono diventate parcheggi permanenti di auto in sosta. Il tempo poi ha finito col cancellarle.
Infine sono state in gran parte trasformate, anch’esse, in strisce blu per le auto dei residenti. Ecco, una iniziativa importante potrebbe essere quella di ritornare indietro: cominciare, un quartiere alla volta, a ridisegnare le corsie preferenziali, almeno nelle strade di grande scorrimento. Occorre aprire un varco di convenienza ai cittadini che usano i mezzi pubblici, rendere i loro spostamenti più veloci , più economici, più agevoli rispetto alle auto.
Per una tale iniziativa bisogna essere consapevoli che la mano pubblica, il governo cittadino deve imporsi sugli interessi particolari e disordinati dei singoli. Occorre dare man forte al sentimento della civitas, al sentirsi membri di una stessa comunità con comuni bisogni, obbligati a regole collettive. Si rende insomma necessario ricreare un nuovo disciplinamento civico. Perciò il potere pubblico deve scoraggiare l’uso privato della macchina . Questo avviene ormai da decenni in gran parte delle le città d’Europa, sicché, con ogni evidenza, la civiltà urbana coincide apertamente, da Berlino ad Amsterdam, da Oslo a Stoccolma, con l’assenza di automobili dai suoi spazi.
Scoraggiare i cittadini dall’uso dell’auto privata non solo incoraggia il ricorso a nuove forme di trasporto, come il car sharing, ma incide in maniera rilevante sul bilancio delle famiglie. Il possesso dell’automobile, talora anche due e tre per famiglia, è sempre più costoso e altera lo stile di vita, la scelta dei consumi. Quanto danaro si spende per l’acquisto di un auto, per l’assicurazione, la tassa di circolazione, la manutenzione, le riparazioni periodiche, le multe, l’acquisto di carburante?
E quanto tale spesa spinge a risparmiare sull’acquisto di libri e giornali, accesso ai musei e ai concerti, sulla qualità del cibo, che dovrebbe essere invece al primo posto nella gerarchia dei consumi di un cittadino italiano del nostro tempo?
Così il governo cittadino potrebbe incoraggiare una svolta culturale importante, ridare vigore a una nuova civitas, anche marcando politicamente la propria condotta con un gesto di giustizia sociale. I mezzi pubblici servono soprattutto ai tanti cittadini che la macchina non la possiedono o non possono guidarla perché anziani. La città un tempo apriva le braccia a tutti e ha inventato istituzioni per i più deboli ed emarginati.
Occorre smettere di offrire i suoi spazi agli appetiti disordinati dei più forti. Anche partendo delle città si può cominciare a colpire le disuguaglianze sociali, la peste che spazza e annichilisce le società del nostro tempo.
postilla
Per risolvere i problemi (o meglio, il problema) posti da Bevilacqua, cioè rendere l'urbs adegiata a un futuro civile per la civitas il latino non basta: occorre ricorrere al greco e completare la triade di significati, e contenuti, che l'habitat dell'uomo deve possedere: questo deve tornare a essere , insieme, urbs, civitas, polis. I primi due termini esistono, benché entrambi molto malconci, il terzo, ossia la politica, manca del tutto. A meno che non si voglia definire "politica" il malgoverno dei partiti d'oggi