Una lettera al ministro della Cultura Franceschini: «Gesto diresponsabilità sul Giardino dei Giusti».Corriere dellaSera, 24 luglio 2015. In calce il testo integrale della lettera e il link all'appello su eddyburg
Non si uccide così l'art. 9 della CostituzioneIl disegno di legge Madia sulla riorganizzazione dell'amministrazione statale prevede la confluenza delle Soprintendenze nelle Prefetture (ddl 1577/2015, art. 8 comma 1e). Si tratta del più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un Governo della Repubblica italiana.
Anzi, l’attacco finale e definitivo.
Chiediamo al Presidente della Repubblica di vigilare su questa e ogni altra violazione dell'art. 9 della Costituzione; ai Presidenti del Senato e della Camera di garantire un'adeguata discussione parlamentare; al ministro Dario Franceschini, attuale titolare del Mibact, di opporsi con ogni mezzo a tale disegno politico.
O questo governo sarà per sempre ricordato come il becchino di una delle più gloriose strutture di civiltà e democrazia della cultura europea.
Roma-Bologna, 23 luglio 2015
Alberto Asor Rosa
Paolo Baldeschi
Alessandro Bedini
Paolo Berdini
Irene Berlingò
Anna Maria Bianchi
Giovanna Borgese
Licia Borrelli Vlad
Massimo Bray
Francesco Caglioti
Mario Canti
Giuliana Cavalieri Manasse
Pier Luigi Cervellati
Giovannella Cresci
Nino Criscenti
Angelina De Laurenzi
Anna Donati
Dario Fo
Andrea Emiliani
Vittorio Emiliani
Fernando Ferrigno
Maria Teresa Filieri
Domenico Finiguerra
Fabio Isman
Donata Levi
Costanza Gialanella
Daniela Giampaola
Piero Gianfrotta
Carlo Ginzburg
Maria Pia Guermandi
Giovanni Losavio
Paolo Maddalena
Concetta Masseria
Maria Grazia Messina
Tomaso Montanari
Alessandro Nova
Rita Paris
Desideria Pasolini dall'Onda
Carlo Pavolini
Giovanni Pieraccini
Maria Luisa Polichetti
Luciana Prati
Adriano Prosperi
Valeria Sampaolo
Edoardo Salzano
Salvatore Settis
Sergio Staino
Corrado Stajano
Simonetta Stopponi
Roby Stuani
Mario Torelli
Bruno Toscano
Carlo Troilo
Sauro Turroni
Monique Veaute
Paola Ventura
Serena Vitri
Fausto Zevi
Sottoscrivono inoltre il Comitato per la Bellezza, l'Associazione Altreconomia e Laboratorio Carteinregola Roma
La Repubblica, 20 luglio 2015 (m.p.r.)
Il disegno di legge Madia sulla riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato contiene un pericolo per la tutela del «paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione » (art. 9 Cost.) anche più grave del già grave silenzio-assenso. La legge decide (all’articolo 7) la trasformazione delle prefetture in «uffici territoriali dello Stato, quale punto di contatto unico tra amministrazione periferica dello Stato e cittadini» sotto la direzione del prefetto.
La Repubblica, 19 luglio 2015
Che cosa ne direste se all’interno di Villa Borghese, a Roma; del Parco Sempione, a Milano; o di qualsiasi altra villa o parco di una qualsiasi altra città, fosse autorizzata l’apertura della caccia oppure la costruzione di un traforo o di un tunnel ferroviario? Non è poi un’ipotesi tanto peregrina. E anzi, secondo gli ambientalisti, riguarda proprio il Parco nazionale dello Stelvio e potrebbe coinvolgere anche gli altri quattro Parchi “storici”: quello del Gran Paradiso, quello del Circeo, fino a quelli della Sila e dell’Aspromonte.
Con una lettera urgente inviata in queste ore al ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, la presidente del Wwf Italia Donatella Bianchi e il presidente di Federparchi Giampiero Sammuri lanciano l’allarme sullo Stelvio, richiamando il governo a rispettare la Costituzione e la legislazione vigente in materia. La denuncia parte dalla lettura dell’Intesa siglata tra lo Stato, la Regione Lombardia e le Province autonome di Trento e Bolzano. A studiare bene quel testo, e comparandolo con la legge quadro sulle aree protette (6 dicembre 1991 - n. 394), i dirigenti del Wwf e della Federparchi si sono accorti ora che – in forza di un accordo tra forze politiche nazionali e locali – si prevede di fatto la “de-nazionalizzazione” del Parco dello Stelvio: cioè un “trasferimento tout court delle competenze statali prima alle Province autonome di Trento e Bolzano e poi alla Regione Lombardia”.
Si tratterebbe, insomma, della dismissione progressiva e automatica di quello che è dal 1935 il Parco nazionale dello Stelvio, arrivato proprio quest’anno a compiere 80 anni, uno dei più antichi d’Europa e dei più estesi di tutto l’arco alpino. Un un patrimonio collettivo, destinato finora a tutelare le specie animali e vegetali, a proteggere gli habitat, a difendere la biodiversità. Qui, su una superficie di oltre 130mila ettari, sopravvivono il camoscio, lo stambecco, l’aquila, l’orso bruno, il gipeto, il gallo cedrone, la pernice bianca.
È vero che spesso gli ambientalisti peccano di allarmismo, pagandone a volte le conseguenze in termini di credibilità e di efficacia. Ma in questo caso il Wwf e Federparchi documentano la loro denuncia con una serie di elementi tratti dal confronto testuale fra l’Intesa, il Regolamento dello Stelvio e la legge quadro sulle aree protette. E su questa base, appunto, contestano lo smembramento del Parco e la sua spartizione, quasi fosse un’Asl o un’azienda municipalizzata, fra tre enti distinti: la Regione Lombardia e le due Province autonome che dovrebbero essere coordinate da un fantomatico Comitato, secondo il principio “ciascuno padrone a casa propria” che rischia di risultare quantomai nefasto.
Scrivono al primo punto della loro lettera Donatella Bianchi e Giampiero Sammuri al ministro dell’Ambiente: “Non esiste di fatto una gestione autonoma, affidata a un ente, a un centro di imputazione giuridica soggettiva con personalità di diritto pubblico, né tantomeno una governance unitaria esercitata dal Comitato di coordinamento”. Secondo punto: “Nel Comitato di coordinamento c’è l’assoluta prevalenza degli interessi locali e regionali su quelli nazionali”. E infine: “Non c’è alcuna dipendenza funzionale dal ministero dell’Ambiente che non ha alcun potere di vigilanza sul Comitato”.
Non è, dunque, una questione puramente burocratica o di lana caprina. Tanto più che, secondo il Wwf e Federparchi, “l’accordo politico sullo Stelvio costituisce un gravissimo precedente per altri parchi nazionali storici, come quello del Gran Paradiso, il cui territorio insiste in larga parte in una Regione a statuto speciale”. Da qui, una conclusione che equivale a un ultimatum: “Riteniamo che il ministero dell’Ambiente si trovi di fronte a una scelta inequivocabile: o si torna all’assetto normativo precedente o in alcun modo, purtroppo, il Parco dello Stelvio potrà essere classificato come Parco nazionale”. Di conseguenza, cesserebbero i finanziamenti attuali (circa 4,5 milioni all’anno di trasferimenti dallo Stato). A quel punto, per fare cassa, si potrà anche riaprire la caccia che è vietata nei Parchi nazionali, come ipotizza già l’assessore regionale alto-atesino Richard Theiner. Oppure, realizzare un tunnel o un traforo per collegare l’Alto Adige e la Lombardia e far passare magari il “trenino dello Stelvio”, di cui parla la Comunità montana Alta Valtellina. Poi, via via, toccherà eventualmente agli altri 19 Parchi distribuiti sul territorio a salvaguardia della natura e dell’ambiente.
L’offensiva era già iniziata nel 2012. Ma tre anni fa - per nostra fortuna – l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non firmò il decreto che avrebbe sancito la spartizione dello Stelvio. C’è da augurarsi perciò che, anche questa volta, la storia si ripeta.
I sostenitori del nuovo aeroporto di Firenze chiedono che le contestazioni siano fatte su solide basi scientifiche. Perché no? Ma non si sono ...(continua a leggere)
I sostenitori del nuovo aeroporto di Firenze chiedono che le contestazioni siano fatte su solide basi scientifiche. Perché no? Ma non si sono accorti della mole di dati e osservazioni scientifiche che il mondo accademico ha già prodotto e messo a disposizione. Ricordiamoli allora questi dati, perché il nuovo aeroporto di Firenze non è un intervento qualsiasi: inciderà infatti fortemente sulla salute e la sicurezza degli abitanti e modificherà le condizioni di vita nella Piana e nei comuni limitrofi. Ecco alcune delle numerose osservazioni al progetto:
1) non è definitivo, come richiede la legge, ma solo un Master Plan;
2) la pista di 2400 è difforme rispetto ai 2000 metri previsti dalla pianificazione regionale, e perciò sono altrettanto difformi le modifiche al reticolo idraulico e alla viabilità;
3) il progetto non valuta adeguatamente l'efficienza del nuovo sistema di smaltimento delle acque alte e basse ed è da dimostrare il non aggravio delle attuali condizioni di rischio idraulico;
4) non sono stati valutati gli effetti cumulativi dell'inquinamento provocati dall'esercizio contemporaneo dell'aeroporto e del termovalorizzatore di Case Passerini, altra opera di cui si prevede tra breve la realizzazione.
Sono solo alcune delle segnalazioni di criticità e carenze del progetto che provengono non da 'comitatini' o da 'gufi', ma dal Nucleo di valutazione di impatto ambientale della Regione Toscana e dall'Università di Firenze. È bene riportare le conclusioni del documento dell’Ateneo fiorentino: "Si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di valutazione dell’impatto ambientale relativa al progetto siano rilevabili evidenti profili di illegittimità tali da giustificare un parere negativo da parte dell’Autorità competente". Evidenti profili di illegittimità: non si tratta di bazzecole, se dall'Università, quindi in sede scientifica, viene segnalata addirittura “la carenza degli elaborati rispetto al rischio di catastrofe aerea”.
In un paese normale, in cui leggi e procedure fossero rispettate, la Commissione VIA chiederebbe integrazioni al progetto, sospendendone l'iter autorizzativo fino a che non fossero superate le criticità evidenziate. Viceversa, sembra che la strategia sia di approvare il progetto così come è, rimandando le eventuali modifiche alla fase esecutiva dove i controlli sono praticamente impossibili. Così è stato fatto per la Tav nel Mugello, con le conseguenze che tutti conosciamo: sarebbe una vera iattura se altrettanto si facesse per il nuovo aeroporto di Firenze. È doveroso, perciò, che il progetto, in questa fase non definitiva, sia portato a conoscenza delle popolazioni interessate da un soggetto 'super partes' e sottoposto a dibattito pubblico o a una forma ampia ed effettiva di partecipazione: così si era impegnata la Regione Toscana che ora sembra dimenticare quanto prescritto nella variante al Pit che ha dato il via all'aeroporto (con pista – ricordiamolo - di 2000 metri). Un comportamento che non ispira fiducia nelle istituzioni rappresentative e cui, si spera, il Presidente Rossi vorrà ovviare mantenendo fede alle proprie determinazioni.
Infine, un'ultima considerazione: nella mole dei documenti, ancorché incompleti, presentati dal proponente ne manca uno fondamentale: uno studio serio e approfondito sui vantaggi e i costi del nuovo aeroporto. Finora sono stati prodotti dall'IRPET due documenti: uno contiene un algoritmo, mutuato dalla letteratura internazionale, che correla passeggeri con occupazione diretta e indotta per l’area interessata, come se tutte le situazioni, New York o Peretola, fossero uguali! L'altro si limita a dire che, col nuovo aeroporto vi sarà un risparmio di tempo per i viaggiatori diretti a Firenze (circa 20 minuti rispetto a Pisa). Veramente troppo poco! Ma cosa importa. Adf conosce benissimo i propri vantaggi e perciò, insieme alla maggior parte della stampa, a tutti i politici o quasi, ripete che il nuovo aeroporto porterà "lo sviluppo". Quale e per chi non viene detto. Ma noi lo sappiamo benissimo: soldi per il privato, magari con qualcosa che finirà in tasca ai politici. Sviluppo del rischio idraulico, dell'inquinamento, del rumore e dei sorvoli su Firenze. Ma cosa importa! Basta per mettere a tacere i gufi, l'Università e qualche Comune dissidente. E se poi il progetto incompleto e sbagliato costerà il doppio, cari contribuenti preparatevi a contribuire.
«Fondazione Fiera sceglie il progetto Arena Milan per il riuso del suo edificio al Portello: uno stadio che si candida sapendo già che non potrà avere le autorizzazioni di sicurezza ad insediarsi se non con deroghe "ad ipsum"»
La direttrice di nord-ovest dell'area milanese, alla cui estrema propaggine è sita l'area dove oggi è in corso l'edificazione delle attrezzature espositive di EXPO 2015, ha rappresentato lungamente un tema strategico irrisolto dell'assetto urbano e metropolitano milanese che ha provocato inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico sia da quello di un corretto assetto insediativo e di immagine progettuale e, quindi, è stato nel tempo al centro di molte riflessioni e proposte da parte della miglior intelligenza urbanistica milanese (Corso Sempione nell’800, progetti di Nuova Fiera e Milano Verde negli anni ’30 e progetti di riassetto dell'area della vecchia Fiera negli anni ’40-50 del Novecento), che ha costantemente indicato l'opportunità di un decentramento delle funzioni direzionali troppo fittamente addensate nel reticolo storico originario. Riflessioni e proposte per lo più rimaste allo stato di progetti inattuati, data la persistente indisponibilità di Fiera di Milano ad essere ricollocata altrove, sino a metà degli anni '90, quando la permanenza di Fiera di Milano sull'area dell'ex Piazza d'Armi, dove si era insediata nel 1922, venne infine giudicata non ulteriormente tollerabile sia per i disagi viabilistici sempre più gravi tanto per i visitatori quanto per gli abitanti del quartiere circostante sia per la necessità di rinnovo e ampliamento delle proprie strutture edilizie e si maturò la decisione di realizzare un nuovo polo extraurbano verso nord-ovest al confine tra i Comuni di Rho, Pero e Milano, lasciando come pesante eredità il lungo edificio di viale Scarampo e l'abnorme edificazione in densità ed altezza di Citylife.
Le spinte delle aspettative immobiliaristiche delle proprietà fondiarie (soprattutto Fondazione Fiera, che dopo aver realizzato un enorme surplus immobiliare con Citylife e averlo reinvestito nelle aree di Arexpo, preme oggi per un altrettanto lucroso guadagno con la trasformazione a stadio calcistico privato della parte più a nord dell'edifico di viale Scarampo e con la vendita ai privati delle aree del dopo Expo 2015) devono invece essere governate ed indirizzate da uno schema insediativo che preveda la destinazione ad usi non edificatori (verde, tempo libero, ) delle aree poste lungo la direttrice tra il vecchio recinto in dismissione e le nuove polarità metropolitano-regionali, concentrando là le funzioni di ricerca, direzionalità innovativa e spettacoli sportivi e musicali di massa, che usufruirebbero degli adeguamenti infrastrutturali posti in atto per i nuovi insediamenti esterni di Fiera e di Expo 2015.
La Presidente del Milan, Barbara Berlusconi, recentemente ha manifestato il proposito di realizzare un nuovo stadio privato con capienza per 40.000 persone, proprio accanto alla sede sociale della squadra, nel bel mezzo del quartiere ex Fiera, già tormentato dalla realizzazione del progetto Citylife, con un milione di metri cubi accatastati nelle tre mega torri (da 180 230 metri di altezza) di Isozaki, Hadid e Libeskind. Il sindaco Pisapia e la vice-sindaco e assessore all'urbanistica De Cesaris sembrano interessati a valutare la proposta, che vede coinvolti Fondazione Fiera, che metterebbe così a frutto l'area, demolendo parte dello "Steccone" di Mario Bellini improvvidamente realizzato a fine anni '80 e in disuso, Emirates Airlines che metterebbe i soldi come sponsorizzazione, e il Milan che metterebbe in scena le attrazioni calcistiche. Federico Oliva, ex presidente dell'INU, si è dichiarato favorevole alla realizzazione dello stadio del Milan, perché costituirebbe «un elemento di centralizzazione in senso moderno con una parte di negozi e spazi aperti al pubblico dove la gente può andare a trascorrere la giornata».
I comitati cittadini chiedono invece che il Comune si pronunci affinché il nuovo stadio venga realizzato sulle ampie aree del dopo Expo e che l'edificio di Fondazione Fiera in demolizione lasci spazio libero al quartiere per riequilibrare la sovrassaturazione causata da Citylife.
Senza uno strumento di indirizzo progettuale unitario oggi si rischia nuovamente di disperdere in una serie di localizzazioni a caso le potenzialità offerte dal nuovo polo fieristico, dal riuso dell'insediamento di Expo 2015 e dai connessi adeguamenti infrastrutturali in atto, che invece potrebbero concorrere alla costituzione di un vero e proprio nuovo Centro Direzionale metropolitano-regionale, a lungo invocato proprio lungo la direttrice di nord-ovest dai più consapevoli ragionamenti delle cultura urbanistica milanese (dal Piano AR del 1947 al Documento Direttore del PGT 2000 di Luigi Mazza).
Nella foto: in primo piano il nuovo stadio (progetto Arup) con a fianco la sede sociale del Milan (progetto Gino Valle), al centro la parte residua dello "Steccone " di Bellini, sullo sfondo la torre di Isozaki in costruzione, in attesa delle altre due.
«A Sesto Fiorentino, un comune di 50.000 abitanti alle porte di Firenze, sta andando in scena la crisi della post-democrazia italiana». La Repubblia, blog "Articolo 9", 10 luglio 2015
Nel maggio del 2014 è stata eletta sindaco Sara Biagiotti, già dimenticabile assessore al turismo del Comune di Firenze e componente del più stretto cerchio magico di Matteo Renzi. Ad un anno di distanza la maggioranza dei consiglieri comunali (compresi otto del suo partito, il Pd) ha presentato una mozione di sfiducia: salvo ripensamenti e abiure, il sindaco cadrà e si andrà al commissariamento e alle elezioni.
I giornali fiorentini hanno parlato di un Renzi furente, e in effetti il Pd toscano ha subito minacciato scomuniche ed espulsioni: «Anche perché la democrazia è fatta di regole e all’interno del nostro partito comportamenti come questi sono espressamente sanzionati». Si fa davvero fatica a comprendere: la procedura seguita dai consiglieri è perfettamente regolare, e la legittimazione democratica di un sindaco non è certo maggiore di quella dei consiglieri eletti con lui nelle stesse urne. E usare le sanzioni di partito per coartare la libertà degli eletti dal popolo è un riflesso condizionato che appartiene al peggio del nostro passato. Un passato che non passa: perché è sempre più evidente che si scrive Partito della Nazione ma si legge Nazione del Partito. E dunque il punto non è chi abbia ragione e chi abbia torto nel merito, cioè chi stia facendo davvero l'interesse di tutti: il punto è l'affermazione del principio di autorità e di quello di appartenenza.
Ma la cosa veramente interessante di questa storia della provincia italiana, nonché la ragione per cui occuparsene in un blog intitolato all'articolo 9 della Costituzione, è il motivo per cui i consiglieri sfiduciano la Biagiotti. Essi sostengono – a ragione – che la sindaco stia imponendo due infrastrutture di rilevo regionale, ma dalle ricadute pesantissime sull'ambiente e sulla salute dei cittadini di Sesto, e che lo stia facendo non perché convinta della loro bontà, ma semplicemente perché quella era la precisa missione con cui Renzi l'ha inviata a Sesto. Un punto di vista peraltro confermato anche da parte renziana, visto che il sindaco di Firenze Dario Nardella ha appena dichiarato: «Sara non è sola. Ha tutte le istituzioni dalla sua parte - ha sottolineato - vada avanti per un progetto di sviluppo per tutta l'area metropolitana che porta occupazione e finalmente ci consente di uscire da polemiche che vanno avanti da trent'anni e da trent'anni tengono congelato il territorio».
Ebbene, queste infrastrutture sono un inceneritore di rifiuti e l'ampliamento dell'aeroporto di Firenze. Nel primo caso, i Medici per l’Ambiente, sezione di Firenze, e Medicina Democratica di Firenze hanno chiesto di «sospendere sine die, l'iter per la costruzione dell'inceneritore di Case Passerini, nel Comune di Sesto Fiorentino perché siste una corposa letteratura scientifica prodotta in oltre 40 anni, ribadita dallo studio Moniter del 2007 e ripresa dalla Asl 10 Firenze, in relazione a microinquinanti indicati come più pericolosi tra quelli prodotti dalla combustione dei rifiuti, quali diossine, furani, idrocarburi policiclici aromatici (IPA), metalli pesanti (cadmio, arsenico, berillio, nickel) e polveri ultrafini. La popolazione che vive e/o lavora nei pressi degli inceneritori, anche se di ultima generazione, è esposta ad una maggior incidenza di tumori, ad alterazioni degli esiti riproduttivi umani (maggior incidenza di aborti spontanei, di nati pretermine e di basso peso), a contaminazione della catena alimentare. Dai camini vengono emesse sostanze cancerogene che sono comunque pericolose anche se a basse dosi, anche se entro i limiti di legge, anche per le future generazioni, perché epigenotossiche, cioè trasmissibili da una generazione all’altra. Gli inceneritori producono enormi quantità di scorie, ceneri e fanghi contenenti sostanze cancerogene. Questi rischi sono assolutamente ingiustificati in quanto esistono tecniche di gestione dei rifiuti alternative alla combustione, già ampiamente sperimentate e prive di effetti nocivi».
Il caso, annoso e complesso, dell'assurdo aeroporto di Firenze è invece perfettamente illustrato da questo articolo da Ilaria Agostini, un'urbanista dell'Università di Bologna, attiva nel laboratorio fiorentino di perUnaltracittà, un articolo riassunto nel cartello qui a fianco.
E l'inconsistenza della sguaiata risposta del regista dell'operazione aeroporto – Marco Carrai: l'alter ego di Renzi – dimostra in modo lampante la fondatezza degli argomenti della professoressa Agostini.
A me pare che se, dopo un anno, la maggioranza dei consiglieri comunali ritiene che la sindaco non sia in grado di garantire l'interesse pubblico e il bene comune di Sesto Fiorentino in due casi così sensibili e importanti, quella maggioranza non solo ha il diritto, ma soprattutto ha il dovere, morale e politico, di sfiduciarla.
Perché la democrazia non è la partitocrazia. O, almeno, non ancora del tutto.
1981: esce nelle sale cinematografiche Fuga da New York, vero e proprio manifesto ideologico della crisi urbana, montata progressivamente negli anni della fuga del ceto medio verso il suburbio, della segregazione e ulteriore impoverimento di chi restava, del crollo della fiscalità locale sino alla minaccia di definitiva bancarotta. Nel momento in cui i ragazzini di tutto il mondo iniziano a entusiasmarsi per l’avventura metropolitana di Snake Plissken dentro una Manhattan immaginaria trasformata in penitenziario a cielo aperto, però, quelle atmosfere cupe nella realtà stanno già iniziando a diradarsi, grazie soprattutto a una serie di iniziative locali di investimento nell’edilizia e riqualificazione, posti di lavoro, servizi e sicurezza. Tra i simboli più vistosi di questa ancora solo annunciata rinascita, l’imbonimento di una ampia striscia di terreni lungo la sponda dell’Hudson, per predisporre gli spazi della futura Battery Park City, i cui lavori di costruzione cominciano nello stesso 1981 in cui esce nelle sale il cupo Fuga da New York.
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| Quartiere Porta Nuova, 9 luglio 2015 - Foto F. Bottini |
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| Quartiere Porta Nuova, 9 luglio 2015 - Foto F. Bottini |
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| Quartiere Porta Nuova, 9 luglio 2015 - Foto F. Bottini |
Deve essere stata questa relativa convergenza di temi, dalla rinascita del ruolo delle città, alla rinascita locale di un quartiere di Milano, al ruolo alimentare ed ecologico dell’agricoltura, a spingere le fondazioni Catella e Trussardi, insieme a Confagricoltura, alla riproposizione paro paro, identica in ogni particolare, del Wheatfield originale newyorchese tanto tempo dopo e in un contesto tanto diverso. Contesto diverso che forse avrebbe dovuto essere meglio considerato, come osservava preventivamente Ermanno Olmi bocciando l’idea con quella frase di Mogol-Battisti: «Che ne sai tu di un campo di grano?» usata in modo ironico. Perché a Milano, inutile dirlo, i campi di grano evocano la simbologia mussoliniana ed epoche non troppo allegre, altro che rinascita. Ma ormai tra i grattacieli griffati erano spuntati i germogli verdi come la speranza, e c’era pure la speranza che qualcosa di buono potesse nascere in termini di temi da evocare e paesaggio da costruire.
Ma qualche settimana dopo le bionde messi apparivano tutt’altro che bionde, una piuttosto miserevole distesa di erbacce, del tipo che non si vede certo nei campi giusto in periferia a Milano, dove i cunei dei Parco Sud arrivano a lambire i quartieri. E tra le pareti a specchio e i boschi verticali di Porta Nuova, alle erbacce (per via dell’assenza virtuosa di diserbanti, spiegavano gli esperti) non si mescolavano però neppure papaveri e fiordalisi, con un risultato visivo a dir poco mesto. E arriviamo così alla grande giornata del raccolto: grande mica tanto, visto che si è trattato in buona sostanza di qualche macchina agricola, rotoballe che citavano la campagna padana inopinatamente intra moenia, e un pugno di presenzialisti e curiosi in buona fede affollati attorno a un chiosco che distribuiva i simbolici «semi da spargere». Se qualcosa si voleva simboleggiare, a occhio e croce si trattava di un simbolo parecchio vintage, ma non per via del richiamo all’iniziativa americana del 1982: il ricordo correva automaticamente ad altri anni ’80, quelli da bere, dalle cui ceneri in fondo è nato come araba fenice il quartiere Porta Nuova. Tra poco si svolgerà all’ombra dei medesimi volumi griffati la festa dei Democratici: sarà un tentativo di permeare di cultura diversa quegli spazi il cui senso appare ancora strascico del passato, oppure una entusiasta poco accorta dichiarazione di appartenenza?
Qui su eddyburg, le citate riflessioni sarcastiche di Ermanno Olmi, «Che ne sai tu di un campo di grano?»; su La Città Conquistatrice, a proposito del campo di Agnes Denes, qualche nota in più sul ruolo ecologico, alimentare, simbolico dell'agricoltura urbana, che ovviamente «non serve solo a mangiare»
La Repubblica ed. Palermo, 8 luglio 2015
COMUNICATO
Con 51 voti a favore e nessun voto contrario, lAssemblea Regionale Siciliana ha approvato ieri, martedì 7 luglio 2015, il nefasto disegno di legge sui centri storici. Il voto conferma la validità del lavoro portato avanti prima in commissione poi in Aula, commenta Anthony Barbagallo, deputato del Pd. E stato un lavoro di squadra che ha coinvolto ordini professionali, università e rappresentanti degli enti locali. Quella che abbiamo appena approvato conclude Barbagallo è una legge che restituisce vita ai centri storici aprendo la strada ad una fruizione intelligente e agevole, basti pensare alla prevista possibilità di prevedere allinterno del centro storici interventi di edilizia economica e popolare per le giovani coppie.
Cosa possiamo dire noi di Italia Nostra, dopo quello che abbiamo già detto, affermato nei giorni e nei mesi scorsi? La Regione Siciliana ha approvato un disegno di legge che favorisce la distruzione dei centri storici dell'Isola. Di questo ddl Pier Luigi Cervellati ha scritto: «Questa legge annienta le città storiche della Sicilia e ci farà apparire tutti come seguaci dellIsis». Insomma: come il crollo di Agrigento e il sacco di Palermo furono il nefasto esperimento di una politica urbanistica e territoriale che intaccò quasi subito le altre Regioni, così questa legge anticostituzionale, fuorilegge rispetto al decreto legislativo 42/2004 può pericolosamente diventare riferimento politico-amministrativo per altre regioni e città metropolitane del nostro Paese.
Di certo noi di Italia Nostra continueremo la nostra battaglia a difesa dei valori del territorio, del paesaggio, dei patrimonio storico-artistico. A difesa dei centri storici. Nell'interesse dei cittadini e dell'Isola più bella e importante del Mediterraneo.
Leandro Janni è Presidente regionale di Italia Nostra Sicilia
Un operatore economico delinea chiari scenari – del resto abbastanza evidenti e prevedibili - di mutamento sociale del turismo, con una figura di city user di massa a cui non corrispondono spazi e servizi. Corriere della Sera Milano, 8 luglio 2015, postilla (f.b.)
Magari un turista non spende quanto un uomo d’affari, se non altro perché non viaggia in nota spese. Ma il fatto che cerchi soluzioni più economiche non significa che egli sia un fantasma: «La verità è che Milano sta cambiando, da città (soprattutto) del business a meta turistica di massa. Era un fenomeno già iniziato, ma Expo ha contribuito a farlo esplodere e non finirà con Expo: gli operatori, dai ristoranti agli alberghi e dai negozi ai servizi, dovranno imparare a tenerne conto. È questa per loro la nuova sfida da raccogliere». Claudio Artusi, coordinatore di ExpoinCittà e dei circa 40 mila eventi che ne riempiono il palinsesto, ripete all’infinito di non voler polemizzare con le associazioni di ristoratori e alberghi secondo cui l’Expo avrebbe portato a Milano in termini di ricavi meno manna di quella annunciata.
«Però anche noi — dice — abbiamo i nostri numeri oltre che i nostri osservatori. E descrivono una città tutt’altro che vuota o spenta. Anzi». Artusi cita diversi segni che a suo avviso fanno prova e l’ultimo è di ieri: l’ingresso di Easyjet, il colosso dei voli low cost che solo negli ultimi anni ha portato a Milano 40 milioni di persone, tra i partner ufficiali di ExpoinCittà. «E il fatto che abbia deciso di entrarci a oltre due mesi dall’apertura di Expo — dice Artusi — significa che quella di Easyjet non è una scommessa al buio ma il frutto di una osservazione meditata». «È la naturale conseguenza — spiega il direttore generale della compagnia, Frances Ouseley — dell’importanza che Milano ha per noi e del fatto che Malpensa è la nostra più grande base dell’Europa continentale».
E aggiunge: «Nel periodo di ExpoinCittà il nostro investimento su Milano
crescerà in misura superiore alla media dell’industria, con l’obiettivo di trasportare oltre 4 milioni di persone». In particolare, tra maggio e la fine dell’esposizione universale, Easyjet ha aumentato il proprio investimento del 5 per cento mettendo sul piatto 4 milioni e mezzo di posti per volare a Milano da oltre 50 aeroporti. «Inoltre — prosegue il manager — promuoveremo gli eventi ExpoinCittà tra gli oltre 25 milioni di passeggeri che voleranno con noi da oggi a ottobre». Quanto alla diminuzione dei ricavi denunciata da alcune categorie, Artusi non si mette a negarla ma la considera un indicatore parziale: «Basta andare alla Darsena o al Mercato Metropolitano dietro Porta Genova non solo per avere la percezione di un successo ma anche per intuire le nuove strutture di accoglienza richieste da un turismo di massa o toccare con mano la sharing economy, un nuovo modo di condividere alcuni servizi a cominciare dalle case in affitto. Come tutti i cambiamenti anche questo può comportare entusiasmo da una parte e timori dall’altra. Ma è una grande opportunità e bisogna coglierla».
postilla
In una città dove tutto ancora (dal dibattito aperto sul nuovo stadio, alle grandi trasformazioni pregresse dei quartieri, alla polarizzazione di Expo) pare svilupparsi sostanzialmente nel segno degli spazi specializzati e delle «eccellenze», pare in effetti essere calato il sipario su ciò che in evidenza non striscia affatto ma avanza impetuoso, ovvero la domanda di mixed-use: quello vero, non quello via via teorizzato da chi mescola quel che gli pare per motivi del tutto propri di valorizzazione. Non ci dovrebbe essere alcuna sorpresa, se ogni tanto i piccoli invisibili soggetti, concentrandosi in un solo luogo in un solo momento (è accaduto e accade nella recuperata Darsena) fanno rischiare il tracollo al metabolismo metropolitano. Accade, solo, che all’azione pervasiva di questa frammentata domanda non corrisponde l’adeguamento della risposta: tanti piccoli soggetti esprimono bisogni di servizi, trasporti, accoglienza minima o integrata, e invece la città, con la parziale eccezione di alcuni aspetti della mobilità, continua a rispondere vuoi con mega-concentrazioni e specializzazioni, vuoi delegando al virtuoso fai-da-te privato. Che, come insegnano ad esempio certe città universitarie nazionali, sui tempi non troppo lunghi porta a rischiare un collasso di sistema. E viene sempre più il sospetto che gli entusiasti promotori dello scoperchiamento dei Navigli, che sognano abbastanza esplicitamente una specie di Venezia in centro a Milano, non abbiano mai letto una riga sullo spopolamento della città lagunare, sui guai del turismo mordi e fuggi, sul degrado urbano e i disagi. Prevenire è meglio che curare, se ci si accorge in tempo di un piccolo malessere invece di inseguire massimi sistemi (f.b.)
La Repubblica, 7 luglio 2015
Il casus belli sono 7 colonne dell’edificio eretto il 75 d.C. da Vespasiano. Torneranno in piedi sotto i tendoni del cantiere della Blasi srl su via dei Fori imperiali. E il 21 aprile, Natale di Roma, due “monoliti” sono stati già mostrati «in fase di premontaggio», precisa l’autore del progetto, l’ingegner Mario Bellini. Poi la sospensione dei lavori, per il palco del 2 giugno, che dovrebbero essere ultimati «entro la fine dell’estate».
Avverso all’erigenda macchina è però, tra gli altri, il pool di studiosi dell’associazione Bianchi Bandinelli che, spinta dall’architetto Sandro Maccallini, promotore della campagna contro questa ricostruzione («il pericolo — dichiara — è che questo tipo di anastilosi, di falso, diventi un modello su tutto il territorio nazionale»), ha visitato il cantiere delle polemiche. E, dopo il sopralluogo, spara contro le colonne a palle incatenate. «Per costruire le nuove basi in cemento hanno distrutto quelle antiche», attacca l’ingegner Salvatore d’Agostino, strutturista della Federico II di Napoli: «Stanno praticando un foro nei blocchi di granito per sostenere le strutture con pali di acciaio. Ma così si violano i principi di integrità e di autenticità: il colonnato diventa un fenomeno da baraccone». E l’ex soprintendente di Salerno, l’archeologa Giuliana Tocco, gli è accanto: «Sembra di essere tornati agli anni Sessanta, l’apoteosi del cemento che poi abbiamo capito quanti danni abbia invece prodotto. E poi si nega il principio di reversibilità, fondamentale in ogni restauro». Stesso tono di Pietro Guzzo, per anni a capo della soprintendenza di Pompei: «Le basi in cemento armato che devono sostenere le colonne ricostruite? Impossibile rimuoverle. Né mi riconosco in questa smania per la cosiddetta valorizzazione: davanti a tanti resti che hanno bisogno di cure, spendiamo fondi in operazioni di pura immagine».
Il ri-innalzamento delle 7 colonne della discordia viene difeso invece a spada tratta da Francesco Prosperetti, soprintendente all’archeologica di Roma. «Le basi in cemento e i perni in acciaio sono necessari perché rispondono alle nuove leggi in materia di sicurezza antisismica, altrimenti l’anastilosi non si può fare», rimarca l’architetto.
Ma lo studioso che ha messo per primo il sigillo sul progetto è il responsabile dei Beni culturali comunali, Claudio Parisi Presicce. «Le polemiche sono sollevate da una parte della comunità scientifica che vuole lasciare l’antichità allo stato di rovina, di rudere» taglia corto l’archeologo. Che poi entra nel merito: «È vero che è stato praticato un foro centrale del diametro di 8 centimetri, ma le statue antiche non si perforano forse allo stesso modo per inserire i perni che le sostengano? ». Né importa se pochi sono i pezzi originali superstiti: «Per l’anastilosi è sufficiente che siano i due quinti».
E il cemento che viene impiegato nelle colonne non viola il principio della reversibilità? «Per le integrazioni — spiega stavolta l’ingegner Bellini — usiamo una malta di riscostruzione, una pietra artificale che si intonerà con i colori originari del granito, del marmo lunense e del travertino. Uno strato di calce fa sì che essi non entrino in contatto con il cemento: la reversibilità è assicurata».
Infine, alla domanda perché mai spendere 665.900 euro quando i resti delle colonne potevano restare a terra e la ricostruzione affidarla alla tecnologia virtuale e luminosa di un Piero Angela, Parisi Presicce dichiara sorprendentemente: «La condizione migliore per conservare quei blocchi di granito è riportarli nella posizione originaria, che è verticale. Ricevono più danni a restare sdraiati a terra ». Dopo le prime sette, una selva di colonne potrebbe riconquistare la posizione eretta nel cuore di Roma.
Caltanissetta, 4 luglio 2015
Italia Nostra Sicilia: No al nefasto ddl sui centri storici siciliani
Nel corso della seduta di mercoledì 1 luglio 2015, l'Assemblea Regionale Siciliana ha approvato l'intero articolato del disegno di legge n. 602 denominato "Norme per favorire il recupero del patrimonio edilizio di base dei centri storici", con gli ultimi, irrilevanti emendamenti. Manca soltanto il voto finale al disegno di legge, che sarà dato martedì prossimo, 7 luglio 2015. Nei primi giorni di marzo 2015, l'iter del ddl, a causa delle aspre critiche delle associazioni culturali e ambientaliste e del mondo universitario, fu sospeso, tornando in IV Commissione Ambiente e Territorio, dove siamo stati riascoltati. Tutto ciò non è servito a nulla. Alla luce di quanto letto nel testo finale dellarticolato di legge, non possiamo che confermare le nostre critiche e osservazioni in ordine al nefasto provvedimento legislativo.
Esso, infatti, appare conforme alla logica rozza e sbrigativa dello Sblocca Italia. In ossequio ai dettami contemporanei del fare, proponendosi di rilanciare lasfittico comparto edilizio e invogliando i cittadini a effettuare interventi di ristrutturazione negli antichi fabbricati, il disegno di legge intenderebbe superare le note difficoltà di elaborazione e approvazione dei piani particolareggiati, consentendo interventi diretti e immediati sulle singole unità edilizie, bypassando dunque i tradizionali, imprescindibili strumenti urbanistici e pianificatori. Per raggiungere tali obiettivi, la proposta legislativa si fa portatrice di una preoccupante e sconcertante serie di semplificazioni, ricorrendo a regole generiche e sommarie, uguali per tutti i comuni dell'isola da Siracusa a Ragusa Ibla, da Catania a Palermo, da Trapani a Caltanissetta. E evidente che in tal modo si considera secondario, assolutamente marginale, l'obiettivo basilare della tutela e della conservazione del patrimonio storico e artistico, indicato chiaramente dall'art. 9 della Costituzione, dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e persino dalla legge urbanistica regionale del 27 dicembre 1978, n. 71 (vedi Titolo V, art. 55).
Per Italia Nostra tutto questo è inaccettabile. Noi, semmai, riteniamo che le cosiddette Norme per favorire il recupero del patrimonio edilizio di base dei centri storici possano rappresentare lo strumento funzionale per aggirare piani e regole fondamentali, per rimuovere quelle analisi storiche e urbanistiche imprescindibili per comprendere le diverse, specifiche realtà territoriali. Pertanto, manifestiamo la nostra più decisa opposizione, richiamando i principi della carta di Gubbio, a cominciare dalla pianificazione preventiva. Chiediamo quindi, ancora una volta, che si respinga in Aula tale provvedimento legislativo che, di fatto, costituisce un grave pericolo per la sopravvivenza dei centri storici siciliani. Un attacco speculativo senza precedenti, nel momento in cui la Sicilia riceve il settimo riconoscimento Unesco per il suo speciale patrimonio arabo-normanno.
Bologna, 5 luglio 2015
La Regione Sicilia si appresta ad approvare un disegno di legge, più o meno identico a quello del marzo scorso, che favorisce la distruzione dei centri storici della sciagurata Regione, alfiere del tracollo dell'urbanistica italiana. Come il crollo di Agrigento e il sacco di Palermo furono il nefasto esperimento di una politica urbanistica e territoriale che intaccò quasi subito le altre Regioni, così questa legge anticostituzionale, fuorilegge rispetto al decreto legislativo 42/2004 costituirà il riferimento per altre regioni e città metropolitane del nostro paese. Da vecchio socio di Italia Nostra, faccio appello al presidente di Italia Nostra Sicilia, Leandro Janni, affinché coinvolga i presidenti delle altre regioni, al fine di promuovere con estrema urgenza una conferenza (magari presso la stampa estera) con la Presidenza nazionale attualmente in carica per denunciare uno scandalo che può avere conseguenze drammatiche per tutto il Paese.
Una riflessione ampiamente argomentata sulla situazione di degrado strisciante di uno dei centri storici più importanti al mondo: biglietto da visita di una città al tracollo. (m.p.g.)
Lo sterminatopatrimonio storico-artistico di Roma rimane largamente sconosciuto airomani stessi e ai milioni di turisti convogliati, questi ultimi, daitour operator e dalla mitizzazione di taluni totem unicamente su dueo tre musei o siti durante soggiorni più brevi del passato (neppure2 giorni e mezzo di media):Colosseo e Fori sonoormai oltre i 6 milioni e mezzo di visitatori, con introiti che, dasoli, costituiscono un terzo dell’incasso totale dei musei stataliitaliani, nonostante una quota di esenzioni abbastanza elevata.I Musei Vaticanirisultano al 4° posto in Europa con oltre 5 milioni e mezzo divisitatori e con incassi molto considerevoli (oltre 91 milioni dieuro nel 2011) dal momento che gli esenti non superano il 5 %.Piuttostofrequentato anche Castel Sant’Angelo (statale) con oltre 1 milionedi visitatori nel 2014.
Due articoli indipendenti sottolineano alcuni aspetti, contraddittori soprattutto rispetto alla percezione di come si evolve un quartiere nel tempo, fra sostituzione sociale e laborioso mantenimento di una certa complessità urbana, del tipo che piace poco agli immobiliaristi. Corriere della Sera Milano, 2 luglio 2015, postilla (f.b.)
L’ECONOMIA DELLA CONVIVENZA
di Nicola Saldutti
Ci sono delle trasformazioni e dei fenomeni che dicono molto di più di una città. Della sua vitalità. Della sua capacità di cambiare. È quello che, in qualche modo, sta accadendo nella cosiddetta Chinatown. Perché è pur vero che i milanesi rappresentano ancora l’80 per cento degli abitanti del quartiere. Un perimetro racchiuso tra le strade che vanno da via Canonica a Via Sarpi, a via Procaccini. Che in questi anni è cambiato più di quanto la stessa città si sia accorta. Se si dovesse raffigurare con un’immagine-simbolo, per definirla, si dovrebbe pensare ai cartoni che racchiudono l’enorme quantità di merci in transito e in vendita. Eppure anche qui le cose stanno cambiando. Come raccontava ieri l’inchiesta di Alessandra Coppola e Marco Del Corona, il mercato all’ingrosso è sceso di quasi un quinto. E c’è un altro dato che dimostra il cambiamento: se per i negozi con vetrine sono i cinesi ad avere la maggioranza (512 su 790), gli italiani sono saliti da 188 a 278 esercizi commerciali. Come dire: la trasformazione e la coabitazione (talvolta complicata) sta mettendo in moto nuovi equilibri, nuovi imprenditori. Perché la zona, diventata a traffico limitato nel 2008 e poi pedonale nel 2011, sta cominciando a cogliere anche i frutti della grande trasformazione urbana legata alla Torre Unicredit e alla zona Garibaldi e a Porta Volta. In attesa della libreria Feltrinelli di piazzale Baiamonti.
Come dire: i carrellini che trasportano merci continuano ad attraversare le strade, ma le vetrine cominciano, in qualche caso, ad assomigliare a negozi più accoglienti. Un sintomo viene anche dalle quotazioni del mercato immobiliare: la discesa qui è stata meno forte proprio perché la presenza di studi di architettura, di centri di produzione televisivi, di società di servizi continua ad essere un pezzo rilevante del quartiere. Potremmo definirla un’economia sempre più mista, insomma. Certo, le tensioni non mancano ma la curiosità del resto della città per questo quartiere (non solo per l’acquisto delle cover dei telefonini a buon mercato) dice di una zona che probabilmente si giocherà soprattutto con le seconde generazioni. E la scuola di via Giusti è in un certo senso la palestra di questo cambiamento permanente. Che comincia nelle classi.
Ps. Nel giorno del Capodanno cinese alla presenza del sindaco, Giuliano Pisapia, piazza Gramsci era piena. La prova che la convivenza è necessaria e possibile.
I CINESI ABBANDONANO IL PROGETTO DEI PORTALI: «COSÌ SONO INUTILI»
di Alessandra Coppola e Marco del Corona
L’idea dei «paifang» si smonta prima ancora che i portali siano costruiti alle estremità di via Sarpi. Li aveva proposti la comunità cinese, alcune associazioni di residenti avevano opposto una raccolta di firme e un progetto alternativo di archi verdi. Al consiglio di Zona 1, infine, il 1° aprile si era ipotizzato un compromesso: sì alle strutture tradizionali d’accesso a Chinatown, purché siano provvisorie.
Vale la pena investire 100 mila euro (almeno) per una costruzione che dopo Expo, quindi già a novembre, andrà demolita? I commercianti del quartiere, la vecchia generazione assieme ai ragazzi cresciuti qui che avevano lanciato la proposta, hanno valutato troppo alto il rischio. «Saremmo stati noi, con gli altri, a finanziare il progetto — spiega Francesco Wu, presidente dell’Unione imprenditori Italia-Cina — ma per così poco tempo è un costo consistente. Ci spiace che il Comune non abbia avuto il coraggio di portare avanti l’iniziativa, indipendentemente da Expo, sul modello di grandi città come Londra o Amsterdam. Non sarebbe stato un ghetto. Il paifang è una porta di benvenuto: aperta, non chiusa. Ma questo aspetto non è stato colto. Abbiamo desistito».
Soddisfatto Pier Franco Lionetto, presidente dell’Associazione ViviSarpi che s’era schierata contro l’iniziativa cinese: «Bene un quartiere multietnico — spiega — ma perché limitarlo con la definizione di Chinatown? Sarebbe stato sì ghettizzante». La preoccupazione di ViviSarpi continua a essere «il degrado del quartiere». Lionetto ha letto con attenzione l’inchiesta pubblicata ieri sul Corriere sul vistoso calo dei grossisti nella zona: «Dato interessante, che posso confermare con l’osservazione. Faccio però sinceramente fatica a contare su via Bramante 18 negozi italiani, però è vero che alcuni grossisti hanno chiuso». Restano aperti, aggiunge, «molti magazzini e depositi», che con il carico e scarico creano i maggiori problemi ai residenti: «Forse punti di appoggio dopo la chiusura. Strano, però, che resistano con questi affitti...».
Lavorare a Chinatown, infatti, è diventato per i commercianti cinesi (già alle prese con un euro troppo debole nei confronti del renminbi, la valuta di Pechino), una sfida contabile quotidiana. Il costo e gli affitti dei negozi sono ai limiti della sostenibilità: 90 metri quadri a uso commerciale valgono ormai sul milione di euro, prendere in locazione 45 metri costa 5 mila euro al mese. Questo significa che molti si accontentano di margini di guadagno risicati. Matteo ha in via Bramante un negozio di abiti per bambini, la tipologia «che rende meglio», sorride. È lui a spiegare i calcoli suoi e dei colleghi: «L’85% del prezzo di vendita di un prodotto all’ingrosso made in China se ne va in costi, il ricarico è del 15%. Alla fine ci si accontenta di un profitto netto del 10% o anche di meno, mentre un italiano non scenderebbe sotto il 20% o massimo 15%». Non è stato sempre così. «Gli anni d’oro sono stati il 2005-2006». Un’altra era.
postilla
Probabilmente, chi ha anche solo di sfuggita seguito qualche processo di gentrification (o diformazione di quartiere etnico nel percorso opposto di sostituzione sociale) hagià riconosciuto la contraddizione dei due articoli indipendenti pubblicati sudue pagine diverse della medesima cronaca locale. Il primo in sostanza inneggiaal classico processo di pesante trasformazione urbanistica con interventiedilizi importanti, dal famoso quartiere di Porta Nuova delle archistar ai suoicerchi concentrici verso le zone confinanti. Il secondo cita una semplice scheggiadi quello che avrebbe voluto essere il coronamento di una specie diauto-ghettizzazione, non priva di identici per quanto particolari effetti dirivalutazione immobiliare, e relativa espulsione. Quindi da un lato la gentrificationclassica, quella che allarga gli effetti fino a determinare sprawl nell’areametropolitana (inclusi i progetti di «decentramento» pilotato delle attivitàcommerciali all’ingrosso), dall’altro la mancata «cinesizzazione», simbolica omeno, del distretto, che mantiene invece una corposa diversificazione, e dovepare impossibile applicare il folkloristico «brand». Tutto sommato, ne esce unaimmagine di vitalità, per quanto contraddittoria, che meriterebbe forse ilsostegno di più consapevoli e durature politiche urbane, in parte già in atto,e magari estese oltre quel perimetro angusto della sola Chinatown, che pare oggipiù una scivolosa trappola mentale che un vero e proprio definito quartiere (f.b.)
La Repubblica, 27 giugno 2015, con postilla
IL GOVERNO del patrimonio culturale italiano versa oggi in uno stato confusionale. Come in molti avevano previsto, l’applicazione della riforma Franceschini (pur non priva di moventi condivisibili) rischia di dare il colpo di grazia al corpo, già provatissimo, delle soprintendenze e dei musei italiani.
Il punto più critico riguarda la rigida e meccanica «separazione della funzione di tutela da quella di fruizione/valorizzazione» (così l’ultima circolare della Direzione Mibact per l’Organizzazione): che è come la separazione tra la circolazione sanguigna e i muscoli di un corpo. Gli effetti più gravi di questo ideologico smembramento riguardano il destino dei musei confluiti nei Poli regionali: cioè di tutti tranne che dei venti supermusei, i quali peraltro aspettano ancora i superdirettori che avrebbero dovuto essere nominati entro maggio.
La ratio della riforma, come fu pensata dalla commissione Bray (della quale faceva parte anche chi scrive), era quella di consentire una vera autonomia, in primo luogo culturale e dunque anche ammi-nistrativa, ad alcuni grandi musei: per farli diventare veri istituti di ricerca e di redistribuzione della conoscenza. Ma la creazione parallela dei Poli museali regionali ha invece generato il caos. Questi contenitori omnibus tengono insieme musei di rilevanza mondiale (si pensi alla Pinacoteca Nazionale di Siena) con piccolissimi siti (come il Castello di Lerici), e mescolano musei storico-artistici a musei di antichità, staccando questi ultimi dalle soprintendenze archeologiche. L’unico criterio seguito è quello, brutalmente burocratico, della bigliettazione: se si paga è «valorizzazione», e dunque si va nel calderone dei Poli, se non si paga è tutela, e dunque si rimane nelle soprintendenze. Prendiamo il caso cruciale dell’archeologia: a chi devono essere assegnate, per esempio, le cassette colme di materiali di scavo non ancora studiati e inventariati? Devono rimanere alle soprintendenze, come vorrebbe il buon senso, o confluire in piccolissimi siti museali spesso senza personale archeologico?
Ma anche i supermusei si troveranno alle prese con l’assurdo divorzio tra tutela e valorizzazione. Il futuro direttore degli Uffizi — pur essendo uno storico dell’arte (sempre che alla fine non sia scelto tra i “manager” collegati alla politica: ipotesi che per ora va ricacciata nel novero degli incubi) — non potrà decidere né il restauro né il prestito di un suo dipinto senza il benestare della Soprintendente di Firenze: che è una architetto. Né potrà usare come meglio crede il personale del proprio museo, farcito di custodi col dottorato di ricerca, cui però è proibito alzarsi dalla obsoleta sedia di sorveglianza. E dunque, nonostante tutto, non sarà ancora un vero direttore.
Si aggiunga il fatto che passano di mano «gli immobili e i mobili», ma non li segue il personale: le risorse umane vengono assegnate ai Poli museali in via transitoria e provvisoria. E per le fondamentali strutture (come i laboratori fotografici e quelli di restauro) si resta in attesa di un «piano di razionalizzazione »: che è difficile da partorire perché se è arduo smembrare (o accorpare: come nel caso delle nuove soprintendenze miste, che infatti non decollano) organismi complessi, è davvero impossibile farlo a costo zero. Caratteristica, questa ultima, che è l’irredimibile peccato originale della riforma.
Si sta rivelando critico anche il rapporto tra i nuovi segretariati regionali e i soprintendenti: perché i primi tendono a intendere il proprio ruolo come quello dei vecchi direttori regionali, e dunque a intervenire nelle autonome scelte dei secondi. E questi ultimi, già privati della valorizzazione, rischiano di essere di fatto svuotati da ogni funzione. Certo, potrebbero dedicarsi finalmente alla tutela del territorio: difendendolo, per esempio, dalla cementificazione selvaggia. Ma lo Sblocca Italia, e ora la riforma Madia della Pubblica Amministrazione, che in questi giorni approda in commissione, impongono il silenzio-assenso, togliendo di fatto l’ultimo compito alle morenti soprintendenze. Sarà un caso, ma è stato Matteo Renzi a scrivere che «sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia».
Certo che, se la cosa vale secondo un certo percorso, deve automaticamente valere anche per la direzione opposta: si incrina lievemente qualcosa nella soggettività, nella sensibilità personale, e cominciano ad apparire grosse crepe anche in alcuni solidi «grandi principi condivisi» che sin qui hanno dominato senza discussioni. Con l’automobile, lo sappiamo, si è plasmato non solo il territorio, ma si sono costruiti sedimentati interessi, e aspettative di enormi dimensioni. Quando si incrina il legame fra personale e politico, per così dire, quegli interessi barcollano, sbattono la coda, si agitano convulsi senza ben capire cosa accade. Succede spudoratamente, davanti agli occhi di tutto il mondo, a Expo 2015, dove la filosofia automobilistica trasformata in fede integralista, aveva indotto un certo calcolo di standard: tot visitatori previsti, tot piazzole a parcheggio negli spazi di corrispondenza del sito. Tutto perfetto, salvo che quella perfezione dipendeva da un immaginario appunto incrinato, pur pietrificato in leggi, norme, convenzioni. Il cosiddetto anello debole della catena, il singolo utente, ha deciso che no, lui quel prodotto non lo compra, non lo gradisce: a vedere Expo lui ci va con la metropolitana, comodissima, e pure assai più ecologica.
Panico tra i leghisti e interessi correlati, perché quello standard era stato calcolato diversamente, e se ne aspettavano gli automatici frutti economici come quando si vende un appartamento in centro: tot metri quadri, tot soldi. Ma se l’appartamento in centro è stato studiato, poniamo, per una famiglia di quindici persone alte in media un metro e mezzo, si intuisce la divaricazione col mercato. Allo stesso modo gli ettari di piazzali asfaltati dei parcheggi erano stati concepiti e realizzati sui comportamenti medi, poniamo, di un villettaro padano elettore leghista, quello che non esce di casa se non in auto, anche per portare il cane a pisciare lontano dal giardino domestico.
Il visitatore medio, globale o locale che sia, di un evento comunque di un certo valore ambientale, magari ragiona in modo diverso, magari non è proprio di quel tipo, e infatti da mesi i piazzali a parcheggio sono deserti, mentre traboccano i mezzi pubblici. E cosa fa, il nostro operatore pubblico-privato che aveva investito in un comparto momentaneamente morto e sepolto? Facile, da un certo punto di vista: vuole convincere ad ogni costo quei signori a smetterla, di prendere la metropolitana, e comportarsi ammodo salendo educatamente in auto, e parcheggiando nell’apposita comoda piazzola, magari a Arese, ex tempio della produzione automobilistica che si vuole riciclare in museo dell’automobile, tanto per cambiare. E questo passaggio «virtuoso» dal mezzo pubblico al mezzo privato viene lubrificato con soldi pubblici, regalando un biglietto gratis di Expo a chi ci va in automobile.
Huffington Post, 24 giugno 2015
Mentre leggete questo articolo, sfrecciano sulla vostra testa aerei carichi di Caravaggio e Botticelli: mai la definizione di patrimonio artistico mobile è stata presa alla lettera come oggi, quando si stima che ogni anno (e solo in Italia) vengano movimentati circa 15.000 pezzi archeologici e circa 10.000 opere d'arte dal Medioevo all'Ottocento. Ma dove va tutto questo ben di Dio? Alle mostre, naturalmente: nell'ultimo anno per il quale esistono dati attendibili (2009) in Italia se ne sono inaugurate 225 di arte antica, alle quali bisogna aggiungerne 365 di arte dell'Otto e del primo Novecento, 73 di archeologia e 96 di architettura. E senza contare l'imbarazzante bazar dell'arte italiana che è stato messo in piedi nel serraglio dell'Expo di Milano. Sono molti i motivi per i quali dovremmo avere seri dubbi su questa sarabanda: uno è che gli effetti di questo moto perpetuo sulla conservazione delle opere saranno misurabili quando forse sarà troppo tardi.
Un altro è che si tratta di un'industria che genera profitto privato a spese di un patrimonio pubblico. Ma forse il più serio è che siamo di fronte alla più grande operazione di rimozione del contesto mai messa in atto. Tanto che nel senso comune è ormai ovvio che esistano due turismi di massa: quello delle persone e quello delle opere d'arte. E oltre ai problemi che ciò pone sul fronte della conoscenza, ce n'è uno anche più serio sul fronte della democrazia: anche nel patrimonio culturale siamo sempre più clienti, sempre meno cittadini. Come si può provare ad invertire la rotta? Sarebbe urgente che il Ministero per i Beni Culturali italiano si desse regole più serie, e che il vaglio della qualità delle mostre fosse più rigoroso. Ma la pressione degli interessi economici e la debolezza culturale del Mibact inducono a credere che questo non avverrà. E, d'altra parte, la vera battaglia contro un simile modello commerciale si deve combattere sul piano culturale, non su quello dei divieti. E non in nome di tabu cattedratici, ma mostrando l'attualità e la forza di un modello alternativo.
Un modello come quello della filosofia Sloow Food, per esempio. Carlo Petrini ha raccontato più volte l'aspirazione contestuale di Sloow Food: non "la gastronomia nelle asettiche cucine di lusso delle città", ma la frequentazione dei contadini, degli osti e dei vignaioli "a casa loro". Bisognava attuare l'idea di Luigi Veronelli, che parlava di "camminare le osterie", "camminare le cantine": e da lì "camminare la terra", "camminare le campagne". Insomma: "bisognava rompere la gabbia", e riconquistare il nesso essenziale con la salubrità di aria, terra, acqua, con la memoria e la storia, con la salvaguardia del paesaggio. Non sono parole e valori ignoti alla tradizione della storia dell'arte: anzi, le appartengono da sempre. Ma oggi dobbiamo avere l'umiltà di reimpararli da chi ha saputo, più degli storici dell'arte, parlare al nostro tempo. Perché c'è urgente bisogno di "rompere la gabbia" degli eventi, e di ricominciare a "camminare il patrimonio". Come farlo, in concreto? Per esempio, adottando il paradigma del "chilometro zero".
Nessuno di noi è stato educato a guardarsi intorno, a considerare il rapporto con l'arte del passato un fatto quotidiano. Per farlo bisogna costruire e condividere un modello sostenibile di rapporto con il contesto che abitiamo: con lo spazio pubblico monumentale, che è il vero capolavoro della storia dell'arte italiana. Invece di andare a vedere una mostra che si intitola "Tuthankamon Caravaggio Van Gogh" (è il successo annunciato per il 2015), potremmo camminare per quindici minuti nella nostra città (per esempio andando al lavoro), accorgendoci finalmente di ciò che ci circonda: un palazzo, una cappella, anche solo un portale o un'epigrafe memoriale, un albero secolare, semplici frammenti del passato inglobati dal tessuto moderno. E sculture e quadri, naturalmente: perché in Italia i quadri (anche quelli di Caravaggio) stanno ancora nelle chiese (quando non sono in mostra, beninteso).
Potremmo iniziare a "camminare" il fitto tessuto artistico delle nostre città: ricominciare a leggere una bellezza le cui chiavi ci sono scivolate di mano. Questo consumo culturale consapevole, spontaneo e non organizzato potrebbe indurci a scegliere di non entrare, diciamo per un anno, in nessun evento per cui occorra pagare un biglietto. Una simile astensione dall'industria culturale - ormai insostenibile - ci farebbe immediatamente vedere l'enorme patrimonio cui possiamo accedere gratuitamente: il "patrimonio storico e artistico della nazione italiana" (art. 9 della Costituzione), che manteniamo con le nostre tasse. E non sarebbe certo un risultato irraggiungibile, se solo le amministrazioni locali, le soprintendenze, le società di servizi e gli editori si convincessero che un monumento può avere il successo di una mostra. Allora si potrebbe mettere al servizio del patrimonio artistico monumentale e permanente una parte anche minima dell'onnipotente marketing che oggi vende con tanto successo l'effimero e l'inesistente. Naturalmente questa presa di coscienza dovrebbe cominciare a scuola: dove si studia, invece, sempre meno storia dell'arte. Se i ragazzi fossero messi in grado di prendere coscienza del luogo che dà forma alla loro vita, se avessero il desiderio e gli strumenti per farlo, per così dire, in automatico, e quotidianamente, sarebbe un successo strepitoso: anche se non sapessero nulla di Tuthankamon, Caravaggio o Van Gogh. Ribaltiamo il modello mainstream: prendiamo tutto il tempo che avremmo speso in manifestazioni 'culturali' a pagamento e dedichiamolo a visitare luoghi culturali gratuiti, e possibilmente a chilometro zero, cioè presenti sui nostri itinerari quotidiani. Una simile scelta equivale ad aprire gli occhi: ad accendere la luce nella casa in cui abitiamo al buio perché mai abbiamo avuto il desiderio di vederla. Ed equivale anche ad essere cittadini, e non clienti; visitatori e non consumatori; educatori di noi stessi e non contenitori da riempire.
Ma accanto al "km zero" della piccola patria ci vuole l'ambizione di conoscere, direttamente e profondamente, la grande patria europea. E perché questo accada davvero c'è bisogno di un segnale molto forte, di un accordo europeo per invertire la rotta. La proposta, dunque, è la seguente: i governi dell'Unione europea dovrebbero firmare un accordo per sospendere per (diciamo) cinque anni i prestiti delle opere d'arte tra i rispettivi musei. Ma questa è solo la prima parte della proposta, quella negativa. La seconda, costruttiva, è che quell'accordo preveda di destinare tutti i fondi pubblici (centrali, locali, museali) che sarebbero stati spesi nelle mostre ad un fondo europeo per incentivare viaggi di cittadini europei tra i 18 e i 25 anni, vincolando i giovani viaggiatori a itinerari che includano visite ai musei e al patrimonio culturale monumentale, dove li aspetterebbe una campagna di comunicazione a loro rivolta. Una specie di Grand Tour popolare, e finanziato dall'Unione, che ribalti il paradigma dominante: e cioè che sostituisca ai viaggi delle opere i viaggi dei cittadini. Un modo per rispettare il patrimonio, ma soprattutto per ridare al patrimonio culturale europeo la sua funzione fondamentale: formare europei del futuro che abbiano un senso vivo dell'identità collettiva europea fondata sulla cultura. Ritornare a camminare l'Europa per costruire più Europa.
Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2015
Dissero che era colpa del destino cinico e baro, che i piloni del viadotto Himera sull’autostrada tra Palermo e Catania avevano ceduto a causa degli smottamenti causati dalle piogge torrenziali e quindi non era assolutamente possibile prevedere il repentino evento in modo da evitare il disastro. E che in ogni caso la faccenda non riguardava l’Anas. Non era vero niente. Il vertice della società stradale, a cominciare dal presidente di allora, Pietro Ciucci, e compresa la prima linea tecnica che gli faceva corona e che è rimasta al suo posto con il nuovo presidente ed amministratore Gianni Armani, sapevano benissimo che quel ponte era a rischio, ma non fecero assolutamente nulla per metterlo in sicurezza. Il risultato è che dal 10 aprile il viadotto è chiuso, impraticabile, l’autostrada in quel tratto non percorribile e la Sicilia spaccata in due dal punto di vista automobilistico. La situazione è così grave e destinata a durare a lungo che per unire le due importanti città le Ferrovie hanno deciso di impiegare sette treni in più al giorno.
Le gravi responsabilità dell’Anas emergono chiaramente dal rapporto di un gruppo di tecnici incaricati di fare chiarezza sull’accaduto dal ministro dei Trasporti, Graziano Delrio. I tecnici sono gli ingegneri Salvatore Acampora, Giovanni Coppola, Carlo Ricciardi e Andrea Tumbiolo. Dopo un’indagine accurata i quattro hanno consegnato al ministro un documento molto dettagliato di un centinaio di pagine che è un severo atto d’accusa nei confronti dell’ex presidente Ciucci e del vertice Anas. Le conclusioni non lasciano spazio a dubbi: «L’Anas era in possesso degli elementi atti ad avere la consapevolezza della esistenza, entità e gravità del fenomeno di dissesto e delle criticità geologiche sin dalla definizione della scelta di progetto ed era a conoscenza dell’aggravio della situazione dal 2005». Detto in parole più semplici: l’Anas sapeva fin dal momento della costruzione del viadotto all’inizio degli anni Settanta che c’erano movimenti franosi gravi in atto, ma fecero finta di niente. Peggio: nel 2005, quando le condizioni complessive si aggravarono tanto da far temere il crollo, i responsabili dell’azienda pubblica delle strade fecero di nuovo orecchie da mercante.
Ciucci diventò presidente Anas l’anno successivo ed è rimasto in carica per circa un decennio fino alle dimissioni forzate a metà maggio 2015: in tutto questo tempo non ha mosso foglia per il viadotto Himera. E invece era suo dovere intervenire. A disastro avvenuto l’allora presidente si giustificò dicendo che avrebbero dovuto provvedere altri, a cominciare dalla Protezione civile. Il rapporto ministeriale sostiene esattamente l’opposto: «L’Anas aveva l’onere di intervenire in quanto soggetto cui spetta la gestione e la manutenzione delle infrastrutture autostradali in gestione diretta e, di conseguenza, aveva l’obbligo di vigilare sull’efficienza e salvaguardia di tali opere».
Il disastro dell’Himera purtroppo non è isolato. In Sicilia soprattutto, ma anche in molte altre parti d’Italia, al sud in particolare, le strade, i ponti e i viadotti, segnatamente quelli costruiti dalla Cassa del Mezzogiorno, stanno letteralmente cadendo a pezzi. E’ un fatto gravissimo, ma assolutamente non imprevedibile. I tecnici Anas delle gestioni precedenti a quella di Ciucci sapevano che quelle opere stavano arrivando a fine corsa e per questo cercavano di curarle con una manutenzione costante. Con Ciucci cambiò tutto. Ossessionato dai tagli dei nastri e dalle grandi opere, l’ormai ex presidente mise la manutenzione in terza fila. I tecnici che più gli sono stati vicini hanno condiviso con lui questa scelta. Uscito di scena il capo, sono rimasti tutti ai loro posti.
A cominciare da Michele Adiletta ingegnere specializzato in aeronautica che conserva il compito di responsabile della manutenzione delle strade Anas. Sopra Adiletta c’è Alfredo Bajocon direttore generale tecnico, ex Stretto di Messina, ex Toto costruzioni dove si occupava di nuove opere, ma a corto pure lui di competenze inerenti la manutenzione. Sul suo curriculum pesano i crolli e i monumentali fallimenti sulla Salerno-Reggio Calabria. Il vicedirettore esercizio e coordinamento del territorio, Roberto Mastrangelo, è laureato in ingegneria meccanica, quindi anche lui non ha competenze specifiche in geologia, geotecnica, frane, fondazioni, asfalti e cemento armato. Ancora: Stefano Caroselli fu assunto da Ciucci il primo gennaio 2014 per seguire le manutenzioni straordinarie, anche se nel suo curriculum ufficiale non sono segnalate precedenti e specifiche attività in materia.
Al suo posto resta pure Ugo Dibennardo, direttore centrale progettazione e per anni direttore regionale proprio in Sicilia, la regione del viadotto Himera e del record di crolli e strade interrotte. E non ha mosso un passo neanche Salvatore Tonti, il direttore regionale attuale della Sicilia, il tecnico che aveva negato di essere a conoscenza dei pericoli incombenti sull’Himera. Ai tempi di Ciucci era stato pure premiato per gli eccellenti risultati ottenuti sulla Salerno-Reggio.
Il business immaginato dagli uomini d’affari passa per la proposta di mostre all’estero, e a rotazione, di lotti della collezione allestita nel corso dell’Ottocento dai banchieri che diedero la propria villa sulla Nomentana a Mussolini. I Torlonia non confermano i contatti con il sedicente trust americano. Ma dell’affaire è venuta a conoscenza Italia Nostra, che ha allertato il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. L’associazione rivela che il ministero ha confermato la «concretezza delle voci sull’offerta di alienazione» della collezione. Ma che ha anche annunciato che «prenderà tutte le contromisure» affinché il piano naufraghi. Quelli che autorevoli fonti del Collegio romano definiscono “faccendieri senza scrupoli”, avrebbero «millantato rapporti con la fondazione Getty di Malibu, di cui si spacciano come referenti, pur di convincere i Torlonia ». Il ministero è convinto che gli stessi proprietari non sarebbero disposti a cedere alle lusinghe della milionaria offerta di vendita, impossibile da contrastare in sede di diritto di prelazione. Ma per non correre rischi gli uffici legali del ministero già sventolano il vincolo al territorio italiano.
Una trasformazione inaccettabile: ridurre un grande e bel giardino dedicato alla memoria e alla natura, del quale persone grandi e piccole possano godere, in un qualsiasi parco pubblico, peraltro assai bruttino . Un appello da sottoscrivere in tanti
È motivo d’orgoglio per Milano e per l’Italia che esista al Monte Stella, parco pubblico apprezzato dagli abitanti del quartiere QT8 e meta verde di tutti i cittadini, il Giardino dei Giusti. Qui il richiamo alla memoria ben si sposa con la serenità del luogo e con la storia e lo spirito da cui ha avuto origine il Monte Stella: un sacrario civile costituito dalle macerie della città devastata dai bombardamenti. Il progettista, Piero Bottoni, lo ha pensato come oasi di pace, monito contro l’orrore della guerra. Ed è per la preziosità e il senso profondo di questo luogo che esprimiamo al Comune di Milano allarme per un progetto che, sotto la definizione fallace di riqualificazione, rischia di compromettere questi valori che ben si integrano con la bellissima iniziativa del Giardino dei Giusti.
Come risulta dal rendering allegato, l'impatto sarebbe violento: verrebbero costruiti muri, totem, pareti metalliche e un anfiteatro, tradendo la natura stessa del giardino, fatto di alberi e di cippi, togliendo armonia al suo inserimento nel contesto e aprendo la strada a usi impropri e a un possibile degrado.
Sullo stravolgimento del luogo ha già espresso parere negativo, tramite una lettera inviata a due assessori della Giunta, la Sovrintendenza alle Belle Arti e Paesaggio. Una presa di posizione che oltretutto è in linea con la richiesta di un Vincolo ambientale per il QT8 e il Monte Stella, avanzata alla Soprintendenza dallo stesso Comune di Milano.
Ci appelliamo al Sindaco e alla Giunta di Milano perché il Giardino dei Giusti non diventi un ingiusto giardino, ma conservi il suo spirito e senso più veri.
Giancarlo Consonni, condirettore dell'Archivio Bottoni del Politecnico di Milano
Graziella Tonon, condirettore dell'Archivio Bottoni del Politecnico di Milano
Lodovico Meneghetti, già ordinario di urbanistica, Politecnico di Milano
Jacopo Gardella, architetto, Italia Nostra
Giuliana Parabiago, direttrice di Vogue Bambini e Vogue Sposa
Vivian Lamarque, poetessa
Anna Steiner, architetto
Franco Origoni, architetto
Erminia dell’Oro, scrittrice
Paolo Maddalena, vice presidente emerito della Corte Costituzionale
Alberto Mioni, già ordinario di Urbanistica, Politecnico di Milano
Paolo Berdini, urbanista, membro del Consiglio nazionale del Wwf
Cesare De Seta, già ordinario di Storia dell’architettura, Università Federico II di Napoli
Salvatore Settis, accademico dei Lincei
Emanuele Banfi, presidente della Società Linguistica Italiana
Fulvio Papi, emerito di Filosofia, Università di Pavia
Edoardo Salzano, direttore di Eddyburg
Carlo Bertelli, già soprintendente per i beni artistici e storici
Francesco Borella, architetto, progettista e ex direttore del Parco Nord Milano
Piero Bevilacqua, ordinario di Storia contemporanea, Università La Sapienza di Roma
Per aderire inviare un messaggio a Enrico Fedrighini
enrico.fedrighini@polimi.it
Il Tirreno, 12 giugno 2015
Piano del paesaggio. Tutta fatica sprecata? «Ancora è presto per dirlo. Sicuro è però che il governo si sta muovendo purtroppo a prescindere dai piani paesaggistici con la conseguenza di svuotarne almeno in parte l'interesse e l'efficacia», racconta preoccupata l'assessore all'urbanistica uscente Anna Marson. Sembra lontano anni luce l'accordo di co-pianificazione firmato l'aprile scorso dal presidente Rossi assieme al ministro della cultura Franceschini. E le manovre in corso nella capitale e il rallentamento del turnover in Regione potrebbero far evaporare nel nulla le lunghe notti del precedente consiglio regionale, del governatore e dell'assessore Maison per trovare un accordo sull'atto centrale della legislatura.
Più semplice costruire
L'assessore però ci tiene a precisare che «razionalizzare e in parte anche semplificare le procedure di autorizzazione paesaggistica è importante e auspicabile, purché sia condizionato alla presenza di piani paesaggistici elaborati insieme al Ministero peri beni culturali. In assenza dei piani, ben vengano le semplificazioni per i soli interventi privi di rilevanza paesaggistica. Ma potrebbero essere semplificate le procedure perla costruzione di impianti geotermici. La realizzazione della centrale di Casole d'Elsa potrebbe ripartire. E si parla anche di maggiori facilitazioni per realizzare porte-finestre negli edifici dei centri storici.
La modifica dei Titolo V
C'è poi l'altra grana della modifica al Titolo V della Costituzione, arrivata alla terza lettura in Parlamento, dunque a buon punto. «Rendere tutte le leggi regionali- dice Maison - soccombenti rispetto alle norme statali in materia, perché lo Stato torna ad essere l'unico decisore nel governo del territorio scalzando le Regioni.«Si tratta di una prospettiva che, oltretutto, rischia di svilire gli importanti percorsi di concertazione che in Regione Toscana hanno portato ad esempio all'approvazione della legge 65/2014 in materia di governo del territorio, che sul consumo di suolo è l'unica a prevedere finora misure di serio contrasto».
II blocco dei turn-over
Il contrabbando è solo il più marginale e pittoresco dei lati oscuri del ciclo della pietra. L’economia estrattiva è notoriamente fondata sullo sfruttamento semigratuito di risorse comuni – non a caso “estrazione” è una metafora ricorrente nelle descrizioni del capitalismo contemporaneo, estesa alla sfera della conoscenza e dei beni immateriali –, ma pone anche problemi di inquinamento delle falde e dell’aria, implica una trasformazione radicale del paesaggio, crea vuoti che possono essere riempiti nei modi più rischiosi e inopportuni. Più in architettura si fa ricorso alla pietra per le sue qualità estetiche e naturali, più si inasprisce la battaglia sugli effetti della sua produzione.
Certo, oramai è impossibile non cogliere la bellezza lunare delle cave dismesse di tufo o di travertino, o non citare progetti spettacolari come lo stadio di Souto de Moura incastonato in un’ex cava a Braga e le prospettive autostradali di Bernard Lassus sulle cave di Crazannes, oppure i tanti parchi e teatri all’aperto, come quello di Fantiano a Grottaglie progettato dallo studio Donati-D’Elia Associati. E anche i più reazionari dovranno riconoscere che per paesaggio non si intende oggi solo quello forgiato dalla Natura matrigna, ma anche quello antropizzato, manipolato dall’uomo e dall’industria. Ma i bei progetti e i siti incantati sono una minoranza rispetto al numero totale delle cave dismesse. E in un paese come l’Italia, dove esistono 5600 cave attive e 16000 fuori uso, sarebbe impensabile ricorrere in modo massiccio a delle soluzioni così sofisticate e individualizzate: sarà meno sexy agli occhi di architetti e paesaggisti, ma per il momento garantire uno standard di puro recupero ambientale (bonifica, riempimento, rinaturalizzazione o ripristino dell’attività agricola) è di gran lunga più urgente.
La qualità estetica del paesaggio di cava dipende dalla posizione geografica, dalla tecnica di estrazione e molto dal tipo di materiale estratto: è più probabile che le coltivazioni di pietre ornamentali offrano una vista migliore. In Italia solo il 6,6% delle cave appartiene a questa categoria. Il resto (80 milioni di metri cubi l’anno) è quasi tutto calcare, sabbia e ghiaia, e segue il ciclo brutale del cemento, che aggredisce colline e pianure, paga canoni di concessione irrisori e rivende a prezzi altissimi: il rapporto tra le due cifre su scala nazionale è 35 milioni contro un miliardo di euro, il 3,5%. In un campo come questo l’estetica e l’ecologia sono tenuti in nessun conto, e nelle regioni dove i controlli sono meno stretti o le leggi meno definite non viene quasi mai fatto il minimo intervento di ripristino ambientale o bonifica. E il fenomeno più grave è la quasi totale assenza di riciclo dei materiali: gli altri paesi Europei riciclano dal 30 al 90% dei materiali inerti, l’Italia butta il 90% in discarica, appesantendo il già emergenziale sistema dei rifiuti.
Tuttavia la differenza tra la Cementir che sventra i monti Tufatini nel Casertano e i cavatori di Carrara o del Veneto è meno rilevante di quello che potrebbe sembrare, e ha a che fare più con lo storytelling che con la sostanza. Le favolette su Michelangelo, sul rapporto equilibrato uomo-pietra, sull’azione paziente e metodica che il lavoro produce sul paesaggio, quasi lo modellasse in scultura, sull’indotto della lavorazione artigianale, coprono una realtà che erode le montagne, taglia le vette, concentra i profitti nelle mani di pochissimi privati, rende pochissimo alle istituzioni pubbliche, e di lavoro ne offre ormai poco e niente, un decimo rispetto agli anni Sessanta. Gli stessi lobbisti del settore ammettono che la pressione del mercato cinese e mediorientale ha sballato i prezzi e convoglia i blocchi grezzi verso porti lontani, dove la lavorazione costa molto meno. Il recente passaggio del 50% della proprietà di una parte consistente delle cave carraresi nelle mani della famiglia Bin Laden mette in chiaro che i soldi finiscono più all’estero che sul territorio, secondo un modello comune a molte piantagioni intensive sudamericane o miniere africane, per intendersi.
Nella selva legislativa che governa le cave italiane, dove ogni regione si regola in un modo diverso e l’ultima legge unitaria risale a un decreto regio del 1927, la battaglia appena conclusa per l’approvazione del Piano paesaggistico della Toscana rappresenta un passaggio fondamentale. Il piano prevede dei vincoli precisi, come il divieto ad aprire nuove cave oltre i 1200 metri per non alterare lo skyline delle Apuane, il raddoppio dei canoni di concessione e l’obbligo di lavorare in loco una certa percentuale di marmo, per incentivare la filiera produttiva. Ha preso politicamente in carico le istanze degli abitanti e dei comitati presenti sul territorio, e per questo motivo è stato violentemente attaccato dalle lobby dell’industria estrattiva.
Corriere della Sera, ed. Roma, 9 giugno 2015
Il Colosseo fa sempre notizia. Ma è certamente una “notiziona”, come si dice in gergo, che il ministro Dario Franceschini sia riuscito a raspare, in un bilancio massacrato da anni di tagli, 20 milioni per il ripristino nell’Anfiteatro Flavio dell’arena che tante fantasie suscita (persino di cristiani dati ai leoni lì dentro, palese falso storico). Venti milioni - mentre chiude l’Opificio delle Pietre Dure, archivi e biblioteche non hanno i soldi per le bollette, non ci sono fondi per le missioni - per un’opera molto discussa e discutibile per diversi motivi. A partire da quelli strutturali. Sotto il Colosseo infatti c’è un flusso poderoso di acque che invano dall’800 si cerca di imbrigliare e che, ad ogni alluvione, diventa inarrestabile: nel 2010, non secoli fa, l’acqua è salita sino al primo piano del monumento. Se ci fosse già stata la costosa copertura dell’arena, sarebbe saltata senza rimedio. E’ una priorità - questa dell’idraulica sotterranea - invocata dalla direttrice del Colosseo Rossella Rea, dall’architetto Piero Meogrossi che vi ha lavorato da architetto per decenni e da Adriano La Regina indimenticato soprintendente che curò nel ’92 il vero restauro strutturale dell’Anfiteatro. Quanto costa da sola quest’opera idraulica mai realizzata e, essa sì, decisamente utile?